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La dottrina del consenso informato - CISI

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La dottrina del consenso informato - CISI
La dottrina del consenso informato
di Georgia Zara PhD
Dipartimento di Psicologia, Università di Torino{ TC \l1 "}
1.
Introduzione
Il consenso informato ha rivoluzionato fondamentalmente il modo di lavorare del
professionista,
riattribuendo
alla
persona
destinataria
dell’intervento
professionale
autonomia e determinazione nelle scelte che riguardano il suo stato di salute (malattia) e
la gestione, mantenimento, (trattamento) della stessa.
Questo lavoro analizza il concetto di consenso informato, la sua evoluzione
epistemologica e storico-culturale, fino ad assumere un ruolo prioritario nella pratica
medica, nella psicologia e nella ricerca.
La dottrina del consenso informato ha principalmente e fondamentalmente coinvolto il
campo medico-sanitario, in quanto i rischi e le responsabilità associate, per esempio, ad
un intervento chirurgico sono estremamente delicati e alti. Tuttavia si parla di consenso
informato in tutte quelle attività professionali in cui sono coinvolti degli esseri umani.
In psicologia, il consenso informato ha assunto un ruolo chiave sia per quanto riguarda
la sperimentazione e lo studio empirico del comportamento umano, sia per quanto
riguarda l’intervento, la diagnosi, la terapia, il counselling e la formazione.
Sebbene alcuni degli esempi che verranno analizzati in questo lavoro, saranno di
carattere medico, essi permetteranno allo studente in psicologia di capire la filosofia e i
principi ispiratori del consenso informato applicabili anche al contesto psicologico. Si
tratta infatti di un’analisi multidisciplinare, nella quale prospettive del campo medico,
psicologico, giuridico, deontologico, etico e sociale sono integrate per offrire
all’argomento una visione d’insieme ad ampio respiro.
2.
L’epistemologia del consenso informato
Con il termine di consenso informato (informed consent) si intende una particolare
modalità di rapporto professionale tra un professionista e il destinatario dell’intervento
professionale, per cui una serie di procedure di intervento relative alla diagnosi, terapia,
prognosi o alla ricerca, possono essere poste in essere solo previa autorizzazione
(consenso) da parte della persona interessata.
1
Due forze contrastanti convergono sulla dottrina del consenso informato. La prima si
riferisce all’impeto clinico di mettere in atto un trattamento o un intervento
professionale ottimale. La seconda è legata all’interesse della società di assicurare una
sostanziale e attiva partecipazione della persona nelle scelte cliniche che la riguardano.
Molti professionisti potrebbero considerare il processo della messa in atto della
“informazione-comunicazione” e dell’ottenimento o meno del “consenso informato”
come un ostacolo allo svolgimento della loro attività. Il consenso informato proprio
perché basato sul principio di autonomia, richiede una consapevole assunzione di
responsabilità da parte delle persone coinvolte. Da questo ne deriva che il fare
indisturbato del professionista che agisce secondo i suoi canoni di salute e benessere
non può più avere ragione d’essere in virtù di una riconosciuta capacità di
autodeterminazione del paziente (cliente, utente) a decidere liberamente circa il proprio
stato di salute/malattia.
Il consenso contiene in sé due aspetti fondamentali: quello psicologico e quello
giuridico. Il primo si riferisce alla conoscenza e piena consapevolezza del tipo di
intervento proposto alla persona rispetto ad un suo bisogno; il secondo si riferisce alla
valutazione
delle
responsabilità,
delle
possibili
conseguenze
relative
all’intervento
prescritto, dei benefici e possibili rischi coinvolti. In entrambi questi aspetti il consenso
deve essere dato in completa libertà di scelta e dopo aver ricevuto da parte dello
specialista informazioni adeguate circa il trattamento, la cura o l’intervento proposto.
L’importanza del consenso informato è in ambito prettamente giuridico regolamentata
dall’art. 13 della Costituzione in cui è postulato il principio dell’inviolabilità della
libertà umana e quindi della “libertà” generale per ogni persona di autodeterminarsi
rispetto al proprio corpo, sempre nel rispetto della propria integrità fisica (cfr. art. 5
c.c.), e dall’art. 32/2 in cui è dettato che la salute è un diritto dell’individuo, quindi in
quanto tale la persona può tutelarla secondo i propri personali canoni di vita, e che
quindi “nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per
disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana”. La libertà personale non solo è un diritto inviolabile ma è
un diritto completo, personale e assoluto:
“ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona” (art. 3,
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, 1948).
2
Il rapporto tra il medico e il paziente, o lo psicologo e il cliente/paziente/utente è
particolare proprio per le implicazioni psicologiche, sociali e culturali coinvolte, nonché
per gli aspetti giuridici e deontologici che ne regolano la correttezza e la professionalità
dell’intervento
3.
Le stagioni dell’etica medica: aspetti storico-culturali nel cambiamento del
rapporto medico-paziente
“Per il proprio paziente non si deve fare tutto ciò che è
umanamente possibile ma tutto ciò che è scientificamente
corretto”. Sir William Osler
Il rapporto medico-paziente è andato incontro a intense trasformazioni nel corso delle
diverse epoche storiche; si è assistito infatti al passaggio dal puro affidamento del
paziente al medico, ad una posizione critica e spesso conflittuale nei confronti del
professionista.
L’epoca pre-moderna in campo medico e sanitario era fondamentalmente caratterizzata
dal modello ippocratico, basato sul paternalismo medico. Si trattava di un atteggiamento
decisionalista medico in cui la persona perdeva autorità sulla propria salute ed era il
medico a decidere come ripristinare lo stato di benessere. Il modello improntato sulla
clausola della delega terapeutica ha guidato in modo pressoché indiscusso l’operato
medico fino all’incirca a tutta la metà del XIX secolo. Questo senza tener conto dei
dettami costituzionali in cui la salute è un diritto fondamentale e non un dovere della
persona, e della deontologia medica che afferma che il medico è tenuto alla desistenza
da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico quando manca il consenso del paziente (cfr.
art. 40 Codice di deontologia medica, 1990, ora art. 32 del codice del 1998).
A contribuire alla creazione di un clima di obbedienza si collocava la morale cattolica
che stabiliva a carico del paziente “un obbligo di curarsi e farsi curare”, diventando il
medico il braccio secolare della chiesa cattolica (Santosuosso, 2000). I codici
deontologici italiani fino al 1995, almeno per quanto riguarda il consenso informato,
avevano una connotazione essenzialmente unilaterale e funzionale all’atto medico; il
medico era perfino legittimato a nascondere le reali condizioni di salute del paziente in
caso di prognosi infausta e grave (art. 30 Codice deontologico medico 1978).
Questo modello essenzialmente unilaterale, focalizzato sulla malattia e non sul malato,
ha iniziato a cadere in crisi con il progressivo sviluppo scientifico e con i cambiamenti
inerenti al nuovo modo di organizzazione dei servizi sanitari (Claudi, 1999).
3
Il paziente non è visto più come “soggetto” (e qui la passività del termine è voluta) da
curare e in cui ripristinare uno stato di salute ma è visto nella sua complessità di persona
e nella sua particolarità di individuo. Si è assistito ad una sorta di transizione
progressiva dal puro affidamento divinatorio del paziente alle capacità indiscusse del
medico ad una posizione critica e autonoma del paziente.
L’entrata nella pratica medico-sanitaria e nella ricerca del concetto di consenso
informato risale già al Processo di Norinberga (ottobre 1946-aprile 1949), nel quale
emersero le atrocità inflitte dai medici nazisti ai deportati nei campi di concentramento.
Da allora il consenso informato ha assunto priorità in tutte le attività medico-sanitarie e
terapeutiche, divenendo il criterio dominante in ogni intervento eticamente valido nei
confronti della vita delle persone.
Quello che sta a cerniera tra l’epoca pre-moderna e moderna è un tipo di rivoluzione
antropologica; la trasformazione della persona da “obbediente” ad “autonoma e capace
di prendere decisioni indipendenti circa il suo stato di salute”. Il cambiamento relativo
all’era post-moderna in campo medico e clinico è più di natura sociale, legata
all’organizzazione e responsabilità della gestione della salute pubblica. Si noti come in
epoca moderna lo sviluppo della bioetica si sia emancipato rispetto ai principi di
medicina paternalistica, pur rispettando alcuni suoi criteri base (es. beneficialità e non
maleficenza), e si sia spinto verso una visione allargata e responsabilizzata del concetto
di salute come bene da garantire secondo una giustizia distributiva.
Se prima l’interesse era rivolto alla bontà dell’intervento medico (epoca pre-moderna), e
poi alla giustezza o correttezza dello stesso (epoca moderna) ora l’attenzione si è
spostata verso l’appropriatezza dell’azione rispetto ai fini da conseguire.
L’epoca post-moderna è ispirata all’etica dell’organizzazione, basata sulla:
a) ottimizzazione delle risorse;
b) una giusta distribuzione delle risorse;
c) una valutazione del livello di soddisfazione dell’utenza;
d) un’analisi della funzionalità ed efficacia del servizio.
Questo necessita una maggiore sensibilità non solo verso il bene comune e verso una
giustizia sociale distributiva, ma richiede anche la crescita di una coincidenza di
interessi (soddisfazione) tra il cliente/cittadino e l’azienda. In questi termini si pone il
principio dello sviluppo di una sanità funzionale, organizzata, ed efficiente (cfr. tab. 1).
Nella tabella 1 vengono sintetizzate le caratteristiche dell’etica nella sua evoluzione da
pre-moderna a post-moderna.
4
Tab. 1 Stagioni dell’etica in medicina
Epoca premoderna
Etica medica
Epoca moderna
Bioetica
Epoca postmoderna
Etica
dell’organizzazione
Criterio di
ispirazione
Ippocrate: “Prescriverò
agli infermi la dieta
opportuna che loro
convenga per quanto mi
sarà permesso dalle mie
cognizioni e li difenderò
da ogni cosa ingiusta e
dannosa”
Si devono tenere in
considerazione tre
parametrici etici
fondamentali:
- l’indicazione clinica
(orientamento al bene del
paziente);
- il principio di autonomia
(le preferenze e i valori
personali);
- l’appropriatezza sociale
(sulla base anche della
convenienza
metodologica, gestionale,
distributiva ed
economica) (Spinsanti,
2000).
Buona medicina
Quale trattamento porta
maggiore beneficio al
paziente?
Il criterio dei quattro
principi:
- autonomia (enfasi sulla
responsabilità personale
di decidere il proprio
percorso di realizzazione
e controllo esistenziale);
- beneficialità (obbligo
positivo di assistere ed
avere cura del
paziente/cliente nel
rispetto della sua libera
scelta di vivere una vita
nella pienezza del
benessere);
- non maleficenza
(impone l’obbligo di non
causare sofferenza
intenzionalmente e
direttamente);
- giustizia (riguarda la
distribuzione delle
risorse, e responsabilità
secondo lo standard di
un giusto equilibrio)
Quale trattamento
rispetta la persona nei
suoi valori di autonomia
di scelta e presa di
decisione?
Ideale medico
Paternalismo benevolo
Buon paziente
Obbediente
(compliance)
Alleanza terapeutca
(engagement)
Il medico e il suo
paziente
In “scienza e coscienza” Il medico e il paziente
il medico decide
decidono insieme
consensualmente
Buon rapporto
Presa di decisione
Principio guida
Beneficialità:
- fare il bene del
paziente;
- non fare il male del
paziente
Autorità e competenze
democraticamente
riconosciute e condivise
Partecipante (consenso
informato)
Contratto terapeutico
(professionista – cliente)
Autonomia:
Rispetto della:
- capacità decisionale
della persona;
- libertà di scelta;
- del principio di autodeterminazione
Adattata da Spinsanti (2000) modificata.
5
Quale trattamento
ottimizza l’uso delle
risorse disponibili e
produce soddisfazione
nella persona di
paziente/cliente?
Leadership morale,
scientifica e organizzativa
Cliente giustamente
soddisfatto e consolidato
Patto per la salute
(azienda – popolazione)
La direzione aziendale,
insieme ai dirigenti delle
unità operative
(negoziazione)
Giustizia distributiva:
corrispondere ai criteri di
equità sociale e di equa
distribuzione delle risorse
La buona medicina non è solo quella che agisce nei confronti del singolo, ma quella che
agisce in ottemperanza ai criteri di informazione, formazione e responsabilizzazione
della comunità rispetto agli aspetti di prevenzione, protezione e gestione della salute
collettiva. Si crea quindi una trilogia importante, come Spinsanti (2000) ha sottolineato,
tra etica medica, bioetica ed etica dell’organizzazione. Questa trilogia è dinamica
(aperta alla crescita), contestualizzata (sensibile ai cambiamenti sociali e culturali),
fondata scientificamente (rispondente ai requisiti empirici e della ricerca scientifica).
In questo scenario di trasformazione della coscienza sanitaria emerge la necessità di una
(ri)formazione del personale sanitario (es. medici, psicologi, infermieri, ecc.).
Si tratta di un progetto tutto da costruire che vede direttamente coinvolti:
1) i bisogni di salute dei singoli;
2) la tutela del benessere collettivo;
3) lo sviluppo di una sensibilità nei confronti dei problemi umani, delle diversità
individuali nel fronteggiarli e delle diverse forme di richiesta di aiuto;
4) l’assunzione di responsabilità non solo da parte del professionista nell’azione di
intervento e cura ma anche da parte del paziente che rivendica un ruolo attivo e
decisionale nella gestione della propria salute;
5) l’utilizzo di metodologie scientifiche adeguate;
6) il corretto esercizio professionale;
7) la creazione di esperienze didattiche per lo sviluppo di competenze scientifiche e
tecniche e manageriali.
4.
Autonomia dell’individuo e consenso informato
L’applicazione pratica del concetto di autonomia nella pratica clinica e sanitaria trova
ragione d’essere nella dottrina del consenso informato (Jonsen, et al., 1998). Il concetto
di autonomia è riconosciuto da Santusuosso (1998) una straordinaria ovvietà; già i
greci lo utilizzavano per descrivere regole applicate al Sé (self-rule). Anche in
psicologia il consenso informato ha assunto un valore indispensabile e imprescindile in
ogni attività di counselling, di formazione, di terapia e di ricerca scientifica.
Con il tempo il termine ha incluso concetti quali “diritto di libertà, privacy, scelta
individuale, libertà della volontà” che determinano il comportamento proprio di un
individuo e il suo essere persona. Kant (1724-1804) aveva infatti introdotto il concetto
di autonomia intendendo con esso la capacità della ragione umana di darsi da sé la legge
morale.
6
Ogni individuo adulto capace di intendere e di volere ha il diritto di decidere
liberamente se e a quali trattamenti medico-sanitari e terapeutici sottoporsi. L’interesse
è quello di conferire all’individuo rispetto e dignità all’interno della dimensione della
salute psico-fisica, prima completamente monopolizzata dalla figura paternalistica del
medico. La possibilità che qualcun altro decida al suo posto è assolutamemte
straordinaria (per esempio nei casi di incapacità di intendere e volere, o nei casi di
perdita di coscienza in cui la necessità di intervento immediato ne determina la salvezza
della
vita
della
persona),
in
quanto
costituisce
una
violazione
della
libertà
dell’individuo.
Sulla stessa linea si propone il Belmont Report (1979) che individua nel concetto di
autonomia l’elemento etico fondamentale per il rispetto delle persone. Gli individui
devono essere infatti trattati come agenti autonomi, e le persone con una diminuita
capacità di autonomia devono essere protette. Un individuo è autonomo quando è
capace di deliberare obiettivi personali, di autodeterminarsi e di agire per la
realizzazione degli stessi.
5.
Il diritto alla salute e la non adesione terapeutica
La Costituzione italiana riconosce il primato della persona umana come avente diritti in
un certo senso anteriori a quelli da parte dello stato (cfr. art. 2 Cost.).
Se prima esisteva una sorta di braccio di ferro tra il paternalismo medico (potestà
medica) e l’individualismo della salute, la giurisprudenza è ora intervenuta cercando di
regolamentare il conflitto tra le opposte istanze bioetiche, quelle della beneficialità e
quelle dell’autonomia. Era come se ci si fosse accorti solo alla fine degli anni ’60 che la
salute è un diritto dell’individuo e solo un interesse della società. Era come se fosse
stata la società ad avere il monopolio della salute del singolo, e l’individuo acquisiva un
riconoscimento rispetto alla sua salute solo di riflesso (Turri, 2000).
Interpretando l’articolo 32 della Costituzione alla luce di questi nuovi cambiamenti
culturali e sociali, si giunge alla conclusione che il diritto alla salute diventa un diritto
di libertà di scelta e gestione del proprio benessere, o nella fattispecie, del proprio
malessere fisico e psicologico:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i
limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
7
L’individuo è visto come capace di autodeterminarsi: ha il diritto di essere protagonista
delle scelte riguardanti la sua salute, anche nel senso di rifiutare l’intervento medico.
Nessuno può imporre all’individuo il proprio senso di salute, o comunque non esiste un
concetto di salute assoluto. Neanche il medico ha più il diritto di agire come “buon
padre di famiglia” nei confronti del paziente, decidendo anche contro la sua volontà o
insaputa; deve invece chiedergli sempre il suo consenso ogniqualvolta si appresta a
proporgli il proprio intervento.
Nonostante molte cose siano cambiate rispetto a fino alla metà del secolo scorso, e già
la Costituzione (1948) cita la salute come un diritto della persona e non un suo obbligo,
si continua ad assistere a situazioni in cui si cerca di giustificare la violenza sanitaria per
un imposto ideale di salvezza a tutti i costi (o accanimento terapeutico). Bisogna infatti
considerare quei casi clamorosi in cui la dignità e l’autodeterminazione del paziente
vengono ignorate a nome della tutela del bene della persona e quindi chiedersi: ma del
bene di chi si sta parlando?
6.
La pedagogia della salute
Il concetto di “bene delle persone” è complesso quanto personali e specifici sono gli
standards e le aspirazioni dei diversi individui. Credere che il medico possa conoscere
questo bene significa riconoscere un bene assoluto che tutti condividono e riconoscono,
e rifiutare così differenze e libertà individuali.
L’obbligo giuridico del medico non è quello di impedire la morte o il pregiudizio alla
salute, ma di assistere e offrire le cure e terapie disponibili ad una persona in condizioni
di bisogno, sempre nel rispetto della sua volontà.
Infatti come citato dal Codice Penale:
“non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” (art. 40,
c.p.).
Ogni persona capace di intendere e volere ha il diritto di rifiutare una terapia anche se
così facendo andrà incontro al decesso, e più in particolare l’appartenenza ad una
religione non è un motivo valido per considerare una persona incapace e quindi
obbligarla ad un trattamento contro la sua volontà.
Si pensi al caso dei Testimoni di Geova che rifiutano di ricevere trasfusioni di sangue
anche se così facendo rischiano di andare incontro alla morte. Nello specifico, anche in
riferimento all’art. 32 della Costituzione in cui è dettato che “si può essere obbligati ad
8
un trattamento sanitario solo per disposizioni di legge”, l’obbligatorietà di trasfusioni di
sangue per i Testimoni di Geova non rientra nelle esigenze generali di sanità (es.
isolamemto per contagio) per cui sarebbe anticostituzionale imporre ad un paziente il
ricovero in condizioni di degenza ospedaliera per sottoporlo ad una emo-trasfuzione.
Infatti
esiste
un
limite
al
potere
legislativo
che
è
il
rispetto
delle
libertà
costituzionalmente garantite per la persona, in primis quella religiosa (art. 19 Cost.).
“Alle 18.10 veniva disposto un trattamento Sanitario Obbligatorio per poter effettuare la terapia
trasfusionale, che veniva attuata alle 18.40 su decisione dei sanitari e col ribadito rifiuto del
paziente, giudicato “ancora cosciente” e in grado di fornire “risposte orientate e corrette”.
Il paziente, apparentemente lucido e presente a sé stesso, cercando di alzarsi dal letto rifiutava
fermamente la terapia invocando “Geova” […]. Personale medico e infermieri trattenevano a letto
il paziente che continuava a rifiutare con “violenza” la terapia.
Intorno alle 19.40 si dava inizio all’emotrasfusione […] contenendo il paziente […]. Pochi minuti
dopo (19.45) il paziente era “agitatissimo e incontattabile, in preda a uno stato di agitazione
psicomotoria grave”, i sanitari decidevano di proseguire il trattamento emotrasfusionale. Il decesso
interveniva alle 20,30” (riportato in Santosuosso, 2000, p. 454).
Questo è il racconto di un’“assistenza forzata” (un binomio di contraddizione in
termini) prestata pochi anni fa in un ospedale milanese a un paziente malato di tumore
al quale era stata forzatamente imposta un’emotrasfusione nonostante il rifiuto palese
del paziente, testimone di Geova, allo stesso. Per rendere breve una storia lunga e
complessa, si potrebbe sintetizzare l’esito drammatico di questo scenario nei seguenti
punti: il medico legale fa la ricostruzione dei fatti su incarico del Sostituto Procuratore
che svolge le indagini; il Pubblico Ministero (PM) fa la richiesta di archiviazione del
caso; il Giudice per le indagini preliminari accoglie la richiesta; quindi l’archiviazione.
La Costituzione parla di libertà personale e di autodeterminazione (art. 13) e del rispetto
della fede religiosa dell’individuo (art. 19), il codice deontologico medico del 1998
parla (art. 32) di desistenza da qualsiasi intervento diagnostico e terapeutico quando
manca la volontà del paziente allo stesso, una sentenza della Corte Costituzionale del
1990 (22 Ottobre, sentenza n. 471, Il Foro Italiano, 1991, I, 14) postula la generale
libertà della persona di disporre del proprio corpo, il Comitato Nazionale per la Bioetica
ha approvato nel 1992 un documento su informazione e consenso all’atto medico nel
quale si definiscono inaccettabili gli interventi forzati e contro la volontà del paziente,
un’altra sentenza della Corte Costituzionale del 1996 (Corte Cost., 9 luglio 1996,
sentenza n. 238) ha escluso in modo perentorio che una persona possa essere costretta a
un intervento sanitario indesiderato:
“un diritto inviolabile rientrante tra i valori supremi, quale indefettibile nucleo essenziale
dell’individuo, non diversamente dal contiguo e connesso diritto alla vita e all’integrità fisica, con
9
il quale concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto,
della persona” (Corte costituzionale, 9 luglio 1996, n.238).
Si tratta della sentenza legata alla “vicenda della statuetta di Civitavecchia, che avrebbe
preso a lacrimare sangue; l’emozione e il clamore pubblici sono fortissimi; vi è il
sospetto che il sangue delle lacrime appartenga a una persona, che avrebbe organizzato
la messinscena; viene avviato un processo penale nel corso del quale si pone il
problema se, in mancanza del suo consenso, la persona sottoposta alle indagini possa
essere sottoposta coattivamente a prelievo ematico, per accertare la coincidenza tra il
sangue dell’indagato e quello delle lacrime della statuetta” (Santosuosso, 2000, p. 460).
Se il medico crede che la vita debba essere sempre e comunque vissuta, farà certamente
del suo meglio per salvarla; il paziente tuttavia può decidere per sé stesso i limiti entro i
quali la sua vita è veramente degna di essere tale e quindi essere vissuta autonomamente
e dignitosamente.
“Non rispettare la volontà del paziente come sovrana e necessaria è commettere un reato doloso,
come l’omicidio preterintenzionale. La libertà del paziente diviene la regola fondamentale nel
rapporto con il medico, il quale non può e non deve sostituire i suoi valori e il suo concetto di bene
a quelli del paziente”. Questo è quello che è risultato dalla sentenza della Corte d’Assise di Firenze
n. 13 del 18 Ottobre 1990 (Il Foro Italiano, 1991, II, 236).
7.
Dissenso del paziente e decisionalismo medico
Nel corso di un intervento di asportazione di un polipo rettale benigno (adenoma
millosso) riprodottosi dopo due esportazioni transanali precedenti, un chirurgo, resosi
conto dell’impossibilità di portare avanti con successo l’originario intervento ed evitare
la degenerazione cancerogena dell’affezione, cambiò radicalmente il tipo di operazione,
senza però che ci fosse alcuna situazione di emergenza o di immediato pericolo. Il
nuovo
intervento
comportava
l’amputazione
perineo-addominale
del
retto
e
l’applicazione di un retto artificiale. L’intervento venne effettuato “in assenza di
consenso della paziente”. La paziente (un’anziana donna) aveva dato il consenso solo
all’asportazione di polipi rettali per via transanale molto più lieve e non demolitivo. Il
decorso postoperatorio non fu favorevole, dopo sei giorni fu necessario un altro
intervento per occlusione intestinale e, dopo circa due mesi dalla prima operazione, la
paziente muore a seguito di alcune complicazioni e al grave stato di prostrazione
psicologica nel quale era caduta. I giudici della Corte d’Assise di Firenze hanno
considerato l’operazione senza consenso come reato di lesioni personali volontarie
(sussistendo chiaramente gli estremi dell’offesa all’integrità fisica della persona e
dell’elemento intenzionale richiesto, cioé dolo generico) (artt. 582, 583 c.p.) ed essendo
seguita la morte della paziente hanno dichiarano il chirurgo responsabile di omicidio
10
preterintenzionale (che nel linguaggio giuridico significa oltre le intenzioni) (art. 584
c.p.). Questa sentenza di condanna è stata poi confermata anche in secondo grado dalla
Corte d’Assise d’Appello di Firenze (sentenza n. 5/91 del 26 giugno –10 agosto 1991) e
dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 699 del 21 Aprile 1992). Le Corti pur
riconoscendo la necessità di quel tipo di nuovo intervento, hanno unicamente ritenuto
che in assenza di condizioni di emergenza e necessità (art. 54 c.p.), il chirurgo avrebbe
dovuto interrompere l’intervento e rimandare alla volontà della paziente (consenso
informato) la decisione di sottoporsi o meno al diverso intervento. Il medico è stato poi
radiato dall’Albo con provvedimento pubblicato in Toscana Medica (1993, 4, p. 10).
Infatti la sentenza della Corte D’Assise di Firenze (n. 13 del 18 Ottobre 1990),
confermata prima in sede di Appello e poi in Cassazione, evidenzia aspetti molto
significativi riguardanti il trattamento e l’intervento senza consenso:
“nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute ed integrità personale, pur nei
limiti previsti dall’ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure
mediche lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze: il che
non può essere considerato come il riconoscimento positivo di un diritto al suicidio, ma è invece la
riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto
interessato dal volere, o peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà
dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che [...] riguarda la qualità della vita che pertanto lui e
lui solo può legittimamente fare”.
“[...] si deve ritenere che se il trattamento non consentito ha uno scopo terapeutico e l’esito sia
favorevole, il reato di lesioni sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il
proprio stato di salute (art. 32, 2 Cost.) e che, a fortiori, il reato sussiste ove l’esito sia sfavorevole
(sentenza n. 699 del 1992)”.
Questa pronuncia diviene certamente esplicita, come dice Santossuosso (1996), di un
generale atteggiamento giurisprudenziale che ha adottato uno standard rigoroso nella
valutazione della responsabilità medica. Non lasciando alla persona la possibilità di
autodeterminarsi e decidere sul corso della propria salute e del proprio benessere, ci si
può trovare di fronte a numerosi casi di responsabilità in cui il medico incorre nel reato
di lesioni colpose volontarie. L’assenza di consenso diviene quindi una fonte di
responsabilità.
Ovviamente le difficoltà maggiori della giurisprudenza sono in questi casi imputabili al
come interpretare il concetto di “stato di necessità”.
In base all’art. 54 del Codice penale:
“non è punibile chi commette un fatto lesivo dell’integrità fisica altrui costretto dalla necessità di
salvarlo dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente
causato né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
11
Si pone in essere “lo stato di necessità” quando esistono condizioni di urgenza per la
vita o la salute del paziente che richiedono un intervento medico immediato e senza
alternative ai fini della sopravvivenza della persona (“extrema ratio” da porre in essere
solo nell’mpossibilità di procedere diversamente).
Santosuosso (2000) ricorda in un suo recente lavoro che già Grispigni (1914) aveva
parlato di responsabilità per il trattamento sanitario arbitrario, ma che in presenza dello
“stato di necessità” (concetto questo spesso riportato tra virgolette ad indicare la
difficoltà anche solo concettuale della sua definizione) era accettabile una forzatura sul
paziente. Si legga il seguente brano di Grispigni (1914):
“rispetto a questi casi [grave e imminente pericolo di vita, ndr] vale un principio generale di
evidente applicazione e cioè che – nonostante la “arbitrarietà” del trattamento, e qualunque sia
l’esito incolpevole del medesimo, ed anche se accompagnato da atti restrittivi della libertà
individuale – esula ogni e qualunque responsabilità penale. E la ragione di tale impunità dipende
dal fatto che in essi trovano applicazione le norme sullo stato di necessità […] nel caso in cui la
malattia costituisca “un pericolo grave e imminente” alla persona, si può compiere il trattamento
medico chirurgico, nonostante che manchi il consenso, ovvero nonostante che questo sia invalido,
e perfino nonostante che il paziente opponga un divieto e questo, magari, cerchi di far valere
ricorrendo alla resistenza” (pp. 878-879).
L’imposizione
di
un
trattamento
su
un
paziente
dissenziente
è
eticamente,
deontologicamente, professionalmente e giurisprudenzialmente condannabile. Lo stato
di necessità viene meno quando esiste l’esplicito dissenso del paziente; questo dissenso
dovrà essere manifesto, personale, volontario e giustificato (es. appartenenza ad un
credo religioso).
Un esempio classico per spiegare come lo stato di necessità possa essere giustificato è
quello di un intervento per l’asportazione della cistifellea (Iadecola, 1998). Se durante
l’intervento il chirurgo, accorgendosi della presenza di un’appendice infiammata con il
rischio di peritonite, procede anche all’asportazione immediata della stessa, non ricorre
a nessun richiamo penale, non solo perché “l’intervento allargato” rientrerebbe nel
consenso dato dal paziente per l’originaria operazione, ma anche perché la condotta
medica sarebbe dettata dall’impellenza della situazione che il nostro codice colloca tra
le cause di non punibilità (stato di necessità, artt. 50, 54 c.p.) (Iadecola, 1998).
Nel caso della paziente di 83 anni l’intervento chirurgico demolitivo (“extrema ratio”)
portato avanti dal chirurgo era stato posto in essere in assenza di necessità ed urgenza
terapeutica, non era assolutamente necessario ai fini della soprevvivenza della paziente,
e risultava estremamente rischioso viste le condizioni generali della donna.
La Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata sul concetto di “stato di
necessità” (sentenza n. 364, 15 Gennaio 1997) sostenendo che se non ricorre lo stato di
12
necessità, i trattamenti sanitari devono intendersi come volontari e quindi non attuabili
senza il consenso informato del paziente. Nei casi di interventi chirurgici gravi il
consenso deve essere completo e scritto, in quanto i consensi generici e incompleti
possono risultare problematici, e spesso diventare uno strumento giudiziario per
accusare direttamente un sanitario.
Il Comitato Nazionale di Bioetica, istituito presso la Presidenza dei Ministri e composto
da medici, ricercatori, filosofi, psicologi, giuristi e medici legali si pronuncia (1992) in
merito al consenso informato:
“al centro dell’attività medico chirurgica si colloca il principio del consenso, il quale esprime una
scelta di valore nel concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto appare
fondato prima sui diritti del paziente che sui doveri del medico. Sicché, sono da ritenere illegittimi
i trattamenti sanitari extraconsensuali, non sussistendo un dovere di curarsi”.
Esiste quindi un riconoscimento formale e giuridico del consenso informato. E’
inevitabile prendere atto che il consenso informato, come sostiene Santosuosso (1996),
è diventato un vincolo sociale ineludibile per chi opera nel campo medico e sanitario,
perché impone una rielaborazione del rapporto medico-paziente, psicologo-cliente, e
quindi la presa in carico di scelte e atteggiamenti professionali rivolti al rispetto
dell’autonomia e dell’autodeterminazione del destinatario dell’intervento professionale.
Questo fa si che il processo decisionale cessi di essere centrato esclusivamente sulla
figura del medico, su quello che deve e non deve fare (conflitto esterno), su quello che
vuole ma non può fare (conflitto interno), ma che invece debba essere ripensato in
termini di due attori decidenti (medico-paziente; psicologo-cliente) le cui valutazioni
pur intersecandosi restano comunque autonome (autonomia morale e deontologica).
La valorizzazione del paziente come persona capace di decidere apre un piano di analisi
complesso circa gli aspetti psicologici della presa di responsabilità della persona nei
confronti della sua vita, della sua salute e del suo benessere. Da qui emerge infatti la
dinamica che si viene a creare non semplicemente tra medico e paziente, oppure
psicologo e cliente, ma tra informazione e comunicazione da un lato e comprensione,
competenza e capacità di decidere dall’altro.
13
8.
Dalla compliance alla collaborazione terapeutica
Do you feel that you are now able to be your own doctor – to judge what is
good for you?
If no – do you know what should be done?
Should you be in a clinic do you think?
Who a trained nurse help?
An experienced one?
(...) Are these bursts of temper part of the “deragement” you mentioned?
(...) If they are in your sickness how can you accept another’s opinion when
the nature of your attack has taken away your power of reasoning? (...).
(Scott Fitzgerald to Zelda, 1933, The love letters).
Anche da un punto di vista terminologico il passaggio dalla compliance (obbedienza,
acquiescenza), alla participation (partecipazione) e poi all’adherence (adesione) del
cliente-paziente
implica
nel
protocollo
diagnostico,
terapeutico,
trattamentale
il
coinvolgimento della volontà e autodeterminazione della persona non solo rispetto
all’intervento, ma rispetto al coinvolgimento attivo e impegnato nello svolgersi del
rapporto medico-paziente, psicologo-cliente (Becker, 1985; Meichenbaum, Turk, 1987;
Zani, Cicognani, 2000).
Questo ha comportato anche un nuovo modo di definire la relazione tra il medico o lo
psicologo e il destinatario dell’intervento professionale. La condotta del paziente o
cliente non può essere ridotta alla dualità “good compliance” (per es. obbedienza
ossequiosa al regime terapeutico proposto) oppure “bad compliance” (disobbedienza
terapeutica), ma va invece rielaborata sul piano della legittimità ad aderire o meno al
trattamento.
Alcuni studi in psicologia sociale (Dunbar, 1990; Gochman, 1988; Chesney, et al.,
1992) hanno indicato come sia difficile identificare dei “tratti di personalità” di fattori
predittivi
dei
responsabili
comportamenti
dell’aderenza
dell’informazione
offerta
e
alla
osservanti. Gli aspetti che risulterebbero invece
dell’osservanza
persona;
la
terapeutica
buona
riguardano:
comprensione
del
la
qualità
protocollo
terapeutico o trattamentale da parte del paziente; la qualità soggetiva dell’interazione
con i medici; le caratteristiche del regime di trattamento come la durata, la complessità,
l’impatto sullo stile di vita della persona (Gorkin, Goldstein, Follick, 1990; Zani, et al.,
2000). Come si può facilmente capire si tratta di criteri che rientrano nella dottrina del
consenso informato e nel concetto di complicità e collaborazione terapeutica propri del
nuovo modo di operare in ambito sanitario e clinico.
9.
Dal trasferimento di informazione alla comunicazione informativa
Tutto ciò che si può dire si può dire chiaramente
14
Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus
Il riconoscimento dell’autonomia del cliente e della sua capacità di scelta e
autodeterminazione necessita di una rivoluzione terminologica. Se il consenso deve
essere informato, l’informazione deve essere condivisa; la condivisione della quale
richiede non un processo meccanico di trasferimento di dati, ma richiede una
comunicazione aperta dei stessi contenuti terapeutici e trattamentali da parte del
professionista (es. psicologo, ricercatore) alla persona (cliente, paziente, partecipante
sperimentale). La comunicazione implica duplicità e interscambio di ruoli tra parlante e
ascoltatore, il quale diventerà a sua volta parlante.
Per capacità comunicativa si intende la competenza non solo di creare significati ma
anche di condividerli con altri (De Cataldo, Gulotta, 1991). Questo necessita anche della
capacità di ascolto. Lo psicologo o comunque il professionista in campo sanitario deve
sapere ascoltare la persona che si è rivolta loro per richiedere assistenza; deve essere
capace di comunicare informazioni riguardanti il tipo di intervento, con modalità
adeguate alla capacità di comprensione e al livello culturale della persona; deve essere
capace di creare un clima di collaborazione, di reciprocità, anche se con ruoli diversi, e
quindi porre in essere un’alleanza terapeutica.
Infatti come ricorda chiaramente Pizarro (2002):
“The wisdom is the recompense to pass the life listening when one had preferred to speak” (p. 1)
Il cliente direttamente o attraverso un committente si rivolge allo specialista. La sua
visita deve essere giustificata dalla richiesta di un intervento rispetto ad un bisogno o
problema specifico.
Si potrebbe ipotizzare che la posizione di passività e debolezza del paziente/cliente
emerge in modo più evidente nelle persone anziane o nei bambini; le prime perché
legate ad una tradizionale visione paternalistica del medico; i secondi perché
condizionati dal rispetto assoluto nei confronti dell’adulto e dal ruolo del medico.
Inoltre
anche
il
livello
socio-culturale
influenzerebbe
la
gestione
dei
rapporti
interpersonali. La rappresentazione sociale della figura del medico o dello specialista
come persona competente e qualificata crea condizioni di estrema reverenza e
assoggettamento, soprattutto in quei clienti “culturalmente deboli” (Fisher, 1988; ten
Have, 1991).
15
Dall’analisi della letteratura sullo stile asimmetrico della relazione medico-paziente
emerge come la passivizzazione del ruolo di quest’ultimo sia visibile anche nel come la
relazione comunicativa si struttura (Frederikson, 1992; Pendlton, 1983; Zani, 2000). Il
porre domande è infatti un modo per definire la relazione. Il chi pone le domande ha
sostanzialmente una posizione di controllo e direzione (one-up). Il paziente/cliente dopo
la sua prima presentazione spontanea si trova nella posizione del rispondente (onedown).
Già Ley e colleghi (1967; 1989) avevano identificato nella comunicazione efficace un
aspetto
facilitante
la
qualità
del
rapporto
psicologo-cliente,
medico-paziente,
ricercatore-partecipante sperimentale. Una comunicazione è efficace non quando il
paziente fa quello che gli viene detto, ma quando collabora, decide liberamente e dà il
proprio consenso affinché l’intervento professionale possa essere messo in atto.
Il messaggio comunicato non deve essere solo chiaro rispetto a quello che lo psicologo
o il medico si propongono di dire al paziente, ma il messaggio deve essere:
-
chiaro per il paziente (linguaggio semplice e non specialistico);
-
capito (presentato in modo comprensibile per le capacità cognitive e il livello
culturale della persona);
-
ricordato (facilmente memorizzabile perché diretto e indicante i punti chiave del
problema);
-
personalizzato (mirato alla persona a cui è rivolto; evitando l’uso di cliché e di
un linguaggio impersonale);
-
logico (per facilitarne la comprensione delle conclusioni diagnostiche e del
nesso tra queste, le indicazioni terapeutiche e le modalità dell’intervento).
10.
Ma quanta informazione è considerata adeguata?
E’ significativo pensare che a seconda del destinatario e del tipo di intervento il
comportamento relazionale del professionista sarà differente. Se prima infatti la
controversia era sul “se” informare il paziente, ora le riflessioni ricadono su “quale e
quanta informazione” dare (Santosuosso, 1996).
La condotta protettiva medica era fondamentalmente regolamentata da uno standard
informativo professionale (reasonable physician standard), secondo cui era necessario
dare un’informazione rispettante la corretta prassi medica in virtù delle conoscenze
scientifiche raggiunte. Questo standard sembrava tuttavia limitare la pratica del
16
consenso informato e conferire nuovamente al solo professionista la presa di decisione
su quanta informazione dare, che generalmente era sempre generale e aspecifica.
Agli inizi degli anni settanta al centro del dibattito si colloca lo standard di
informazione da offrire sulla base del paziente e delle sue aspettative di informazione.
Questo standard è basato sul concetto di “paziente ragionevole” (reasonable patient
standard), e cioè cosa una persona ragionevole avrebbe bisogno e vorrebbe sapere
rispetto al tipo di trattamento e di intervento propostole, al fine di prendere una
decisione.
Negli Stati Uniti si è introdotto, intorno alla metà degli anni ottanta, il principio del
therapeutic privilege; si tratta di una giustificazione per un’informazione minore
rispetto a quella effettiva di cui il medico si fa carico nei casi in cui avendo analizzato i
fatti e le circostanze del caso, considera che un’informazione completa avrebbe effetti
negativi sul paziente (Giesen, 1988). Questo principio, per quanto focalizzato sulla
presa di decisione medica, nasce dalla rivalutazione di individualizzare l’intervento,
orientandolo alla specifica persona-paziente, al suo stato emotivo, alla specifica
valuazione delle sue capacità di coping.
Infatti si parla di standard soggettivo (subjective standard) secondo il quale è necessario
offrire l’informazione adattandola specificamente a ciascun paziente. Come informare
questo preciso paziente e quanto esattamente dirgli per favorire la sua comprensione
circa il suo stato di salute e dare (o meno) il suo consenso?
La Convenzione Europea di Oviedo sui “Diritti dell’uomo e la biomedicina” (4 Aprile
1997) cita chiaramente che:
“An intervention in the health field may only be carried out after the person concerned has given
free and informed consent to it. The person shall beforehand be given appropriate information as
to the purpose and nature of the intervention as well as on its consequences and risks. The person
concerned may freely withdraw consent at any time” (art. 5).
La legislazione italiana è in coerenza con questo principio, si pensi ad alcune leggi
speciali relative ad atti medici (per es. la legge 194/1978 sull’aborto; la 164/1982 sui
transessuali, la 162/1990 sulle tossicodipendenze, la legge sull’AIDS (135/1990) la
quale subordina la consenso dell’interessato l’effettuazione dei tests diagnostici), anche
se in
relazione
a questo aspetto però la Corte Costituzionale ha ritenuto opportuno
limitare il consenso nel caso di svolgimento di attività che comportino rischi per la
salute di terzi (Corte Costituzionale 2 Giugno 1994, n. 218 in Foro Italiano, I, 1995, p.
46).
17
11.
Il consenso informato in psicologia
La relazione psicologo-paziente (proprio come quella medico-paziente, di cui si è già
parlato) è caratterizzata da una marcata asimmetria di potere. Lo psicologo, non è solo
la persona che dispone delle conoscenze e competenze di cui il paziente/cliente/utente
ha bisogno, ma si trova anche in genere in una posizione psicologica più sicura rispetto
a quella di cui richiede le sue cure e/o il suo intervento.
La relazione psicologo-paziente non è tuttavia assoluta e immutabile, per cui è
necessario che vengano tenute in considerazione alcune variabili:
§
la persona che richiede l’intervento; quindi la corrispondenza tra committente e
destinatario
dell’intervento,
oppure
l’eventuale
triadicità
del
rapporto
(committente, destinatario dell’intervento, professionista) (cfr, artt. CDPI);
§
la capacità di intendere e volere della persona (c.d. naturale, art. 1 c.c.);
§
la capacità di agire (che si acquista al diciottesimo anno, art. 2 c.c.), che
presuppone una maturità sufficiente ad intendere il significato e le conseguenze
del suo atto.
Da questo ne derivano tre aspetti fondamentali del consenso che ne definiscono la
natura contrattuale e informativa:
12.
§
la volontà di agire;
§
la consapevolezza;
§
l’autodeterminazione.
Il contratto sociale informativo
Da un punto di vista procedurale per consenso informato si intende un “contratto sociale
informativo” (anche se non si tratta di un vero e proprio atto contrattuale in termini
giuresprudenziali, in quanto atto giuridico unilatelare recettizio art. 1334 c.c.) tra il
professionista e il cliente; si tratta di un atto collaborativo in itinere, perché partendo
dalla richiesta dell’intervento professionale, il professionista deve attuare le dovute
analisi per elaborare una “diagnosi” accurata e completa del problema. I passaggi
iniziali sono quelli di: a) informare il cliente/paziente circa il tipo, gli effetti positivi e
quelli collaterali, i rischi, la durata, i costi dell’intervento; b) definire le tappe e i
passaggi dell’intervento.
18
- Fase pre-contrattuale
Il cliente/paziente ha piena autonomia non solo di decidere favorevolmente per lo
stesso, ed eventualmente di chiedere ulteriori esemplificazioni, ma anche di rifiutarlo. Il
consenso è revocabile e può essere sospeso in qualunque momento salvo quei casi in cui
la sospensione di un trattamento specifico, già iniziato, potrebbe causare dei danni alla
persona. Il consenso può essere rinnovato sulla base dell’acquisizione di ulteriori
informazioni circa lo stato di fatto del trattamento e dei possibili anticipabili risultati
dell’intervento. Questi aspetti indicano versatilità e collaborazione nelle dinamiche
medico/paziente, psicologo/cliente, e quindi definiscono gli ambiti di crescita e
collaborazione che si stabiliscono nel corso della relazione professionale.
Il consenso è un atto di volontà contrattuale tra il professionista e il cliente, che implica
una responsabilità del primo ad informare il secondo circa i possibili rischi ed effetti del
suo intervento. Una sentenza della Cassazione cita al riguardo:
“Nel contratto di prestazione professionale d’opera intellettuale, il dovere d’informazione gravante
sul professionista – la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale e conseguente obbligo di
risarcimento del danno, commisurato all’interesse cosiddetto positivo – investe non solo le
potenziali cause di invalidità o di inefficacia della prestazione professionale; ma ben anche le
ragioni, che rendono inutile o addirittura dannosa la prestazione, che la controparte si attende”
(Cass. 8 Agosto 1985, Resp. Civ. e Prev. 1986, 45).
Il rapporto professionale tra psicologo e cliente/paziente/utente si pone in essere
maniera contrattuale, nel senso che entrambe le parti devono essere a conoscenza di
quale sia il fine della prestrazione che si porrà in essere (professionista) e che si riceverà
(destinatario).
Il creditore dell’intervento deve comunicare in maniera informativa e chiara il
cliente/paziente circa la situazione clinica, diagnostica, le prospettive terapeutiche, le
probabilità di successo, i possibili rischi di fallimento, e le alternative trattamentali al
fine di mettere la persona nella condizione di poter decidere consapevolmente se
sottoporsi o meno all’intervento. Siamo quindi in una fase pre-contrattuale, cioè in
quella condizione di formazione e preparazione che rende operante ed efficace il
contratto che ne deriverà. L’espressione della libera volontà delle parti contraenti il
consenso è infatti uno dei requisiti fondamentali del contratto stesso (cfr. art. 1325 c.c.)
(Berti, 2000).
Il consenso rende lecito un intervento altrimenti illecito perché violante la libertà
personale e il principio di autodeterminazione. Quindi se manca la causa lecita
(consenso) il contratto è nullo (art. 1343 c.c.).
19
Nello svolgimento delle trattative per la formazione di un contratto (nella fattispecie si
tratta di un contratto di opera professionale) le parti devono comportarsi secondo buona
fede (art. 1337 c.c.). L’informazione a carico del professionista circa il tipo, le modalità,
gli effetti e i rischi della sua prestazione è un obbligo primario che rientra nella condotta
secondo buona fede. Infatti secondo il Codice civile un contratto è annullabile (art. 1418
c.c.) per difetto della capacità delle parti (artt. 1425, 1426 c.c.) o per la presenza di vizi
di volontà (art. 1427 c.c.). I vizi della volontà sono:
-
errore (art. 1428 c.p.): si tratta di una falsa presentazione della realtà che ha
indotto una delle parti (contraente) a concludere un contratto (per es. uno
psicologo che non esplicita chiaramente al suo cliente/paziente i possibili rischi
e conseguenze a cui potrebbe andare incontro nel trattamento analitico);
-
violenza (art. 1434 c.p.): è la minaccia che viene posta in essere su uno dei
contraenti per indurlo a concludere il contratto. Si tratta di “un male ingiusto e
notevole”;
-
dolo (art. 1439 c.p.): è l’inganno (deceit) di una delle parti, che con l’utilizzo di
raggiri e manipolazioni ha indotto l’altro contraente a concludere il contratto.
I difetti di capacità delle persone fisiche sono connessi alla:
-
minore età: nel qual caso il consenso viene esercitato da chi ha la potestà
tutoria. La capacità giuridica si acquista al momento della nascita (art. 1 c.c.),
mantre la capacità di agire si acquista al compimento della maggiore età (art. 2
c.c). Tuttavia è importante specificare le diverse modalità operative a seconda
dell’età del minore. Quando il bambino ha meno di 10-12 anni la decisione di
aderire per esempio ad un trattamento medico spetta sempre a chi esercita la
patria potestà (in genere i genitori); superata quesa età si potrebbe prendere in
considerazione un prudente coinvolgimento del bambino nella scelta; mentre
dopo i 14 anni il medico deve tenere conto del parere dell’adolescente. Nel caso
infatti di un disaccordo con i genitori potrebbe essere richiesto l’intervento di un
giudice tutelare. Si parla infatti di riconoscimento del diritto alla salute del
minore anche indipendentemente dalla volontà dei genitori. L’art. 94 della
Legge 685/75 (sostiuito dall’art. 120 DPR 309/90) prevede la libera scelta del
minorenne di accedere da solo alle strutture per la cura e il trattamento della
tossicodipendenza e tutela la riservatezza del minore anche nei confronti dei suoi
stessi genitori. La legge 194/78 riconosce ai minorenni la facoltà di accedere ai
20
mezzi contraccettivi nelle strutture sanitarie pubbliche e nei coinsultori (art. 2) e
alle minorenni di interrompere volontariamente la gravidanza (secondo le
modalità
previste)
anche
senza
il
coinvolgimento
genitoriale
(art.
12/2)
(Ceccarello, Gamba, 1996);
-
interdizione: la persona interdetta è rappresentata da un tutore nominato dal
tribunale. L’interdizione viene dichiarata dal giudice (con sentenza) quando è
appurata attraverso perizie mediche, psichiatriche e psicologiche, la totale
incapacità di intendere e volere della persona;
-
inabilitazione: la persona inabilitata (difetto di capacità di agire temporanea e
parziale) è rappresentata legalmente da un curatore.
13.
La partecipazione attiva del minorenne al consenso
La convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei minori indica che il bambino ha il
diritto all’autodeterminazione, al rispetto della sua dignità e alla presa di decisioni
informate. Alderson (1993) evidenzia che:
“The European charter for children in hospital” states that “children and parents have a right to
informed participation in all decisions involving their health care. Every child should be protected
from unnecessary medical treatment and investigation”.
The Children Act 1989 mette in evidenza come i desideri e sentimenti dei bambini
debbano essere tenuti in considerazione nella presa delle decisioni che li riguardano.
La capacità di comprensione del minorenne e la sua competenza ad esperimere un
consenso, dovrà essere valutata caso per caso in relazione all’età e al suo stato di
maturità. Comunque anche in quei casi in cui il minore sia legalmente riconosciuto
come troppo giovane per dare il proprio consenso ad un protocollo trattamentale, deve
essere sempre e comunque considerato come una persona portatrice di diritti.
La Costituzione tutela la salute, il benessere degli individui e la loro libertà di agire
liberamente nelle scelte che riguardano il loro stile di vita. Rispetto a questo e in
funzione del riconscimento dei diritti dell’infanzia, si pensa al minore come ad un
individuo avente il diritto di essere coinvolto nelle scelte che lo riguardano.
Infatti secondo la Convenzione internazionale di New York sui diritti dell’infanzia
(1989), gli interessi dei bambini devono essere tenuti nella massima considerazione in
ogni circostanza (art. 3); deve essere tutelato il diritto a vivere e a sviluppare al massimo
il proprio potenziale (art. 6); deve essere protetto il diritto del bambino al miglior stato
di salute possibile e garantita la possibilità di beneficiare di servizi medici e
21
riabilitazione (art. 24). In tema di espressione delle proprie opinioni e di consenso
informato la Convenzione si esprime così:
“1. Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere
liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo
debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità.
2. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura
giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un
organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale
(art. 12)”.
“1. Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare,
di ricevere e di divulgare informazioni e idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere,
sotto forma orale, scritta, stampata o artistica, o con ogni altro mezzo a scelta del fanciullo.
2. L'esercizio di questo diritto può essere regolamentato unicamente dalle limitazioni stabilite dalla
legge e che sono necessarie:
a) al rispetto dei diritti o della reputazione altrui;
oppure
b) alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell'ordine pubblico, della
salute o della moralità pubbliche (art. 13)”.
Il problema del consenso, da un punto di vista giuridico, non si pone prima dei 6-7 anni
(fase in cui inizia il pensiero operatorio reversibile e la capacità di organizzare
mentalmente più immagini e informazioni), anche se questo non elimina i problema di
cosa dire al bambino piccolo e come. Il minore che abbia meno di 14 anni è
generalmente considerato incapace di prestare valido consenso; si fa valere cioé la
presunzione iuris et de iure che il minore non sia in grado di intendere il significato
etico e sociale degli atti propri e altrui. Tuttavia è da tener presente che secondo
l’articolo 371 del codice civile il minore che abbia compiuto i 10 anni deve essere
“sentito” per le deliberazioni che riguardino il suo avviamento agli studi, all’esercizio di
un’arte, di un mestiere o professione.
Il tacere non elimina certo il problema, anzi ingenera nel minore paure ingestibili e
ansie da silenzio informativo. Certamente tenendo conto del livello di sviluppo del
minore, sarà comunque opportuno presentare al bambino lo stato dei fatti e gli scenari
possibili e alternativi, con un linguaggio chiaro e semplice da facilitare in lui la
comprensione del problema.
La Convenzione di Oviedo (1997) si esprime in proposito favorevolmente:
The opinion of the minor shall be taken into consideration as an increasingly determining factor in
proportion to his or her age and degree of maturity (Ch. II Consent, art. 6)
Prima ancora del consenso, inteso come alleanza tra bambino e adulti, sarà importante
creare gli spazi dell’ascolto e della collaborazione per la costruzione di significati
comuni e condivisi, e di accettazione, anche se spesso dolorosa, di una malattia fisica, o
di un problema psicologico (Ceccarelli, Gamba, 1996).
22
Altra situazione si pone in essere nel caso di pre-adolescenti o adolescenti in grado di
capire i processi di causalità, capaci di prospettarsi nel futuro e di prefigurarsi lo
scenario più probabile date certe condizioni di partenza (sé possibili, cfr. Zara, 1997,
2000). L’adolescente deve essere aiutato a tollerare l’incertezza della sua condizione di
salute e il disagio ad essa legato, al fine di un’assunzione di responsabilità di fronte alle
proprie scelte di gestione della sua salute.
L’autodeterminazione è quindi conciliabile con l’interesse del bambino?
Il bambino deve essere certamente aiutato a capire le sue condizioni di salute o di
malattia soprattutto nel momento in cui si devono prendere delle decisioni che
riguradano non solo la sua persona, ma anche lo stile di vita con cui il bambino stesso
dovrà imparare a convivere:
Listen to children – they will have to live with the decision (Shield, Baum, 1994, p. 1182)
Dietro una inziativa promossa dal quotidiano “La Stampa”, dal “Il Giornale dei
Bambini” e dal “Telefono Azzurro”, bambini delle scuole elementari e medie di tutta
Italia hanno stilato una Convenzione Onu sui loro diritti, di cui all’articolo 12 cita:
“Il bambino deve poter esprimere la propria opinione su tutte le cose che lo riguardano. Quando si
prendono decisioni che lo riguardano, prima di decidere deve essere ascoltato”.
14.
Il consenso informato nella ricerca
Con il concetto di consenso informato nell’ambito sperimentale in cui esseri viventi
(umani e animali) sono coinvolti si ristabilisce il ruolo partecipante degli individui nei
progetti sperimentali, il rispetto della dignità umana (e animale), la chiarezza e
trasparenza del disegno sperimentale per garantire una comprensione puntuale e
completa dell’individuo nei confronti della ricerca per la quale è richiesta la sua
collaborazione.
La storia ci racconta come ricerche in campo medico e psicologico venissero portate
avanti senza il consenso dei partecipanti; la giustificazione era che “the suffering of the
few is worth the benefit to humanity”. Dopo la formulazione del Codice di Norimberga
(1947-1949), in cui si è affermato che nessun tipo di ricerca può essere attuata senza il
consenso informato delle persone coinvolte, i temi della sperimentazione clinica sono
stati affrontati nella Dichiarazione di Helsinki (1964).
Jonas (1969) ha osservato che:
23
“experimentation was originally sanctioned by natural science. There it is performed on inanimate
objects, and this raises no moral questions. But as soon as animate, feeling beings become the
subject of experiment … this innocence of the search for knowledge is lost and questions of
conscience arise” (p. 219).
Come deve’essere quindi fatta una ricerca? Come si deve studiare il comportamento
umano?
Nell’introduzione alla relazione del National Bioethics Advisory Commission (NBAC)
(2001) si afferma come principio fondamentale che:
“protecting the rights and welfare of those who volunteer to participate in research is a
fundamental tenet of ethical research”.
Fermo restando che il Codice di Norinberga (1947-1949) proclamava, in modo solenne
l’imperativo di ottenere anticipatamente e prima di intervenire, il consenso volontario e
personale
della
persona
coinvolta
in
qualunque
attività
sperimentale, un altro
presupposto implicito del Codice, spesso non evidenziato, è quello di riaffermare le
differenze
di
identità
nella
pratica
medico-clinica-assistenziale
e
nella
pratica
sperimentale.
L’attività medica si basa su presupposti scientifici e pratiche collaudate, ed è
fondamentalmente orientata verso la persona-paziente e alla tutela della salute
individuale e sociale.
L’attività sperimentale è rischiosa in quanto rivolta verso l’ignoto, o perlomeno quello
che è ancora sconosciuto e il cui scopo è fondamentalmente quello conoscitivo. Questo
ovviamente non discrimina il ricercatore che utilizza il consenso informato in modo
vicariante per una sperimentazione scientificamente infondata ed eticamente scorretta;
d’altra parte una ricerca per il solo fatto che è fondata scientificamente non può
prescindere dal consenso informato.
In campo clinico si potrebbe considerare la sperimentazione come un’attività
“pericolosa” e rischiosa; è responsabilità professionale del ricercatore dimostrare “di
avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”, se questo danno è stato causato
ad altri (es. partecipanti sperimentali) nello svolgimento di un’attività pericolosa (es.
sperimentazione), “per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati” (art. 2050 c.c.).
Ovviamente questo non esclude il fatto che anche nella pratica medica o psicologica di
per sé si mette in atto una forma di sperimentazione. Nel Belmont Report (1979) in cui
si delineano i principi etici e i criteri guida per la protezione degli individui sperimentali
nella ricerca, si fa una distinzione tra la pratica medica e la ricerca. Distinzione questa
ripresa da Casali e Santosuosso (1996) che parlano di due tipi di sperimentazione. La
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prima è quella pragmatica terapeutica che si configura come un “intervento medico
sperimentale”, il cui quesito è immediatamente terapeutico:
“the purpose of medical or behavioral practice is to provide diagnosis, preventive treatment or
therapy to particular individual” (Belmont Report, 1979, part A: Boundaries between research and
practice).
La seconda è quella pragmatica esplicativa il cui principio fondamentale è quello di
arricchimento delle conoscenze e allargamento dei confini della ricerca:
“an activity designed to test an hypothesis, permit conclusions to be drawn, and thereby to develop
or contribute to generalizable knowledge (expressed, for example, in theories, principles, and
statements of relationships)” (Belmont Report, 1979, part A: Boundaries between research and
practice).
Una distinzione tra le due forme di ricerca è alquanto complessa e spesso impossbile.
Diventa tuttavia responsabilità professionale e deontologica del singolo ricercatore,
validamente preparato, adeguare il suo operare scientifico e di studio al rispetto della
dignità umana e dell’autonomia del singolo a decidere liberamente circa la propria
partecipazione ad uno studio che lo riguarda:
“The duty and responsibility for ascertaining the quality of the consent rests upon each individual
who initiates, directs or engages in the experiment. It is a personal duty and responsibility which
may be not delegated to another with impunity” (Nuremberg Code, 1949, art. 1)
Quindi, anche se da presupposti diversi, la dottrina del consenso informato sembra
regolare l’operato clinico, terapeutico e della sperimentazione.
La ricerca ha valore di crescita culturale e sociale; permette la scoperta di interrelazioni
altrimenti ignorate tra determinati eventi; aiuta a conoscere meglio il mondo in cui
viviamo; favorisce la comprensione del passato (ricerca retrospettiva) e aiuta ad
anticipare e prevedere fenomeni futuri (ricerca predittiva e studi longitudinali). E’ infatti
sancito il principio secondo cui la scienza è libera così come il suo insegnamento (art.
33 Cost.) e conseguentemente la sua pratica sperimentale (art. 15 Convention for the
Protection of Human Rights and Biomedicine, Oviedo 1997), ovviamente entro i limiti
imposti dal rispetto della dignità umana e dalla tutela della salute individuale e
collettiva.
I progetti di ricerca devono tuttavia avere carattere di chiarezza esemplificativa circa i
presupposti teorici implicati, gli obiettivi sperimentali, le ipotesi di ricerca, la
metodologia e il campione, e una volta che la ricerca è completata, è significativo la
condivisione delle scoperte raggiunte e la divulgazione dei risultati ottenuti.
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Ovviamente il principio di protezione e salvaguardia della privacy dell’individuo non
deve degenerare in un estremismo anti-ricerca, in quanto è condizione essenziale e
imprescindibile del progresso scientifico e dell’arricchimento della conoscenza circa il
comportamento umano, lo studio, l’analisi e l’esplorazione diretta delle situazioni nelle
quali gli individui operano, agiscono e reagiscono. E’ impegno deontologico del
ricercatore quello di tutelare la privacy dei partecipanti al disegno sperimentale,
assicurando che né nomi né indicazioni specifiche riguardanti le persone appaiano nelle
comunicazioni scientifiche. E’ tuttavia un “impegno etico” quello della società di
promuovere la ricerca scientifica e tecnica, così come riconosciuto dalla stessa
Costituzione (cfr. art. 9).
Infatti il consenso al trattamento dei dati e la comunicazione e diffusione degli stessi
non è richiesto quando è finalizzato “unicamente a scopi di ricerca scientifica o di
statistica ed è effettuato nel rispetto dei codici di deontologia e di buona condotta
sottoscritti ai sensi dell’art. 31” (art. 12, lettera d; art. 21/4 Legge n. 675, 31 Dicembre
1996). Il ricercatore scientifico che utilizza i dati allo scopo di attività scientifica e di
studio, nella pubblicazione di scritti di tale contenuto non occorre né il consenso al
trattamento dei dati, né la comunicazione al garante (Gulotta, Cordovana, 2000).
Si continua cioé a garantire che il trattamento dei dati personali avvenga sempre e
comunque nel rispetto “dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle
persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all’identità personale [...]”
(art. 1, Legge n. 675, 31 Dicembre 1996), ma si dovrebbe permettere una elasticità
collaborativa (anche se spesso questo è ancora solo una utipia) a favore dello sviluppo
scientifico e per le finalità conoscitive.
Conclusioni
Questo lavoro ha cercato di esplicitare la dottrina del consenso informato e dei principi
base che ne determinano la sua validità e funzionalità. Per riassumere, si può ricordare
al lettore che il consenso è:
-
personale, in quanto deve essere dato solo dalla persona interessata. La
rappresentanza è infatti ammessa solo in caso di incapacità, cioé dal genitore
(artt. 316, 317, 317-bis c.c.) o dal tutore (se entrambi i genitori sono morti o per
altre cause, art. 343 c.c.) per il minore; dal tutore per l’interdetto (art. 414 c.c.).
Per l’inabilitato (art. 415 c.c.) o per il minore emancipato (il minore è di diritto
emancipato con il matrimonio, art. 390 c.c.) il consenso è personale salvo in quei
casi in cui si riscontra un’incapacità della persona di rendersi conto del
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significato dell’intervento, nel qual caso il consenso sono resi manifesti dai
legali rappresentati (Gulotta, Cordovana, 2000; cfr. par. 12);
consapevole, in quanto la persona deve avere piena conoscenza dell’intervento o
del protocollo trattamentale prospettatole; essere quindi al corrente delle diverse
fasi, dei possibili rischi e vantaggi dello stesso;
informato nel senso che la persona ha il diritto di sapere non solo le reali
condizioni del suo stato di salute, ma deve essere messa a conoscenza, nel
rispetto del suo livello culturale e dello sviluppo cognitivo, della diagnosi,
prognosi, prospettive terapeutiche, possibili alternative trattamentali, verosimili
conseguenze dell’intervento e probabili conseguenze del non-intervento. La
persona ha il diritto di avanzare richieste per ulteriori spiegazioni, informazioni e
chiarimenti;
capito, nel senso che il professionista deve non solo adeguare il suo linguaggio
al livello di comprensione del destinatario del suo intervento, ma deve anche
verificare che la persona abbia realmente compreso gli aspetti riguardanti
l’intervento;
attuale, nel senso che il consenso deve essere dato preventivamente all’inizio
dell’intervento professionale e deve riguardare tutte le fasi dello stesso. E’
irrilevante il consenso post factum;
veritiero, nel senso che le informazioni relative al programma diagnostico
devono vertere le reali condizioni del paziente allo stato attuale, e la probabile
evoluzione del suo stato rispetto sia all’intervento che al non intervento medico.
Se rivestono carattere tale da poter procurare preoccupazioni dovranno essere
fornite con circospezione, usando una terminologia non traumatizzante;
revocabile, la persona (cliente/paziente/utente) può infatti annullare o
interrompere il consenso dato in qualsiasi momento salvo in quelle circostanze
casi in cui l’interruzione potrebbe costituire un pericolo per la salute della
persona, nel cui caso il proseguimento dell’intervento discrimina il medico, in
quanto ha agito in una condizione di necessità (art. 54 c.p.) (cfr. par. 7);
manifesto, in quanto il consenso deve essere una diretta e chiara manifestazione
dell’interessato; non è necessario che sia per iscritto, ma sicuramente è richiesto
in tale forma nei casi di interventi particolarmente rischiosi (es. per il trapianto
di rene e gli emoderivati, art. 2, Legge n. 458 del 26 giugno 1967 e art. 26 d.m.
15 gennaio 1991) (Gulotta, Cordovana, 2000);
libero, nel senso che il consenso deve essere dettato dalla libera volontà e scelta
del paziente, senza segni di vizi quali la costrizione, l’inganno o l’errore (cfr.
par. 11). Gulotta e Cordovana (2000) sostengono infatti che il consenso non è
valido se esso è stato ottenuto attraverso una falsa rappresentazione del fatto che
costituisce oggetto di rischiesta del consenso. Si pensi ai casi in cui viene
“falsata l’identità del trattamento” e il paziente dà il consenso per un protocollo
trattamentale diverso da quello che invece è stato messo in atto. Oppure ai casi
in cui vengono “celati i rischi del trattamento”, oppure a quei casi in cui esiste
“un errore sull’identità del professionista e sulle sue competenze” come nel caso
di consenso dato ad un primario per un intervento chirirgico ed invece è
l’assistente a portare avanti l’operazione;
completo, perchè l’oggetto dell’informativa deve contenere il carattere di
completezza riguardo l’identità del trattamento, le sue caratteristiche, i suoi
rischi, la sua durata (quando prevedibile). La completezza dell’informativa è
data dalla sua comprensibilità, personalizzazione (l’informativa deve riguardare
il caso specifico, dello specifico paziente/cliente), chiarezza circa i metodi
possibili (nel senso che il paziente deve essere a conoscenza dei mezzi utilizzati
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e delle loro caratteristiche), delucidazione circa possibili alternative (alla persona
devono essere illustrati gli altri metodi trattamentali, le loro caratteristiche, le
differenze e i vantaggi rispetto al trattamento attualmente adottato). Gulotta e
Cordovana (2000) individuano infatti una propedeutica informativa al consenso
che dovrà necessariamente riferirsi alla:
a) diagnosi;
b) prognosi;
c) modalità di esecuzione dell’intervento (e nel caso di intervento
medico, di anestesia);
d) gli organi e le funzioni interessate;
e) i rischi e le complicanze;
f) il decorso post-intervento.
-
gratuito, in quanto il consenso non deve essere ottenuto dietro compenso;
recettizio, dal momento che il consenso è un atto unilaterale e ha effetto solo dal
momento in cui il professionista deputato all’intervento ne viene a conoscenza.
Negli interventi di équipe l’obbligo di informazione ai fini del consenso
informato incombe su tutti gli operatori in base alla loro specifica attività.
28
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