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SL11 Dossier Consenso informato e responsabilità del
SED LEX Dossier anno 2 n. 6-2011 Il consenso informato e la responsabilità del medico Il consenso informato: riferimenti normativi................................................................................................................... 2 Elaborazione giurisprudenziale del consenso informato ..............................................................................................3 Il consenso informato e il dovere di informazione a carico del medico ...................................................................5 (Segue) L’autonoma rilevanza della violazione dell’obbligo del consenso informato.....................................................................................................6 (Segue) Il contenuto dell’informazione........................................................................................................................................................................... 7 (Segue) Omessa informazione (mancanza del consenso informato) e risarcimento del danno......................................................................................9 Il rifiuto del trattamento terapeutico ............................................................................................................................... 12 (Segue) Il rifiuto preventivo del trattamento terapeutico. Il consenso informato nei soggetti incapaci di intendere e volere......................................12 Sentenze d’interesse............................................................................................................................................................ 14 Dossier SED Lex – anno 2, n.6, giugno 2011 ©Editore Zadig via Calzecchi 10, 20133 Milano www.zadig.it - e-mail: [email protected] tel.: 02 7526131 fax: 02 76113040 Direttore: Roberto Satolli Redazione:: Raffaella Daghini, Nicoletta Scarpa Autore dossier:: Fabiola Mentasti Il consenso informato e la responsabilità del medico Il consenso informato: riferimenti normativi Il consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: infatti, in mancanza dello stesso, l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente. La pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Esso, dunque, è espressione di una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto va inteso come fondato prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico. Il principio del consenso informato, in quanto manifestazione del diritto di autodeterminazione, trova sicuro fondamento nelle norme della Costituzione: nell’art. 2 che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità; nell’art. 13 che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica; nell’art. 32 che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta a una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata con l’esigenza che si prevedano, a opera del rispetto del legislatore, tutte le cautele preventive possibili atte a evitare il rischio di complicanze. Nella legislazione ordinaria, pur mancando di un referente normativo “generale”, il principio del consenso informato è enunciato in numerose leggi speciali, quali quella istitutiva del Servizio sanitario nazionale (L. n. 833/1978 il cui art. 33 sancisce il carattere di norma volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari, nel rispetto della dignità e della libertà umana), in tema di sperimentazione clinica (D.lgs. n. 211/2003), di procreazione medicalmente assistita (L. n. 40/2004) e di attività trasfusionali e di produzione di emoderivati (L. n. 219/2005). Nel codice di deontologia medica del 2006, l’art. 35 statuisce che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente.” A livello di fonti sopranazionali, il medesimo principio trova riconoscimento nella Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, che, sebbene non ancora ratificata dallo Stato italiano, costituisce una valida fonte d’indirizzo interpretativo. Dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000, si evince come il consenso libero e informato del paziente all’atto medico vada considerato non soltanto sotto il profilo della liceità del trattamento, ma prima di tutto come un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo, afferente al più generale diritto all’integrità della persona. -2- Il consenso informato e la responsabilità del medico Elaborazione giurisprudenziale del consenso informato La disciplina dell’istituto del consenso informato, a fronte dell’attuale carenza di una regolamentazione specifica, è stata tracciata negli anni, dalla giurisprudenza della Suprema Corte. Le prime pronunce sono state rese principalmente nell’ambito della chirurgia estetica. In tali ipotesi, il paziente si aspetta dall’intervento medico un risultato migliorativo delle proprie condizioni di salute e, dunque, l’obbligo di informazione da parte del sanitario circa i rischi di un possibile insuccesso della terapia o, peggio, di eventuali complicanze o effetti collaterali diviene di fondamentale importanza per il soggetto il quale, solo a seguito di compiuta informazione, potrà decidere se sottoporsi o meno al trattamento sanitario. A questo proposito, nella sentenza del 25 novembre 1994, n. 10014, la Corte di Cassazione ha stabilito che nel contratto di prestazione d'opera intellettuale tra il chirurgo e il paziente, il professionista, anche quando l'oggetto della sua prestazione sia solo di mezzi e non di risultato, ha il dovere di informare il paziente sulla natura dell'intervento, sulla portata ed estensione dei suoi risultati e sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili. Questo sia perché violerebbe, in mancanza, il dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.), sia perché tale informazione è condizione indispensabile per la validità del consenso, che deve essere consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, senza il quale l'intervento sarebbe impedito al sanitario tanto dall'art. 32, comma 2, quanto dall'art. 13 Cost., che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall'art. 33 l. n. 833, cit., che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.). Inoltre, nella sentenza della Cass. Civ. sez. II, 8 agosto 1985, n. 4394 è stabilito che: “nel contratto di prestazione d'opera intellettuale, il dovere d'informazione gravante sul professionista - la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale e del conseguente obbligo di risarcimento del danno, commisurato all'interesse cosiddetto positivo - investe non solo le potenziali cause d'invalidità o d'inefficacia della prestazione professionale ma anche le ragioni che questa rendano inutile, in rapporto al risultato (ancorché non espressamente dedotto in contratto) sperato dal cliente, o addirittura dannosa. In particolare, nel rapporto fra paziente e chirurgo praticante la chirurgia estetica, detto dovere non è limitato - come nel rapporto fra cliente e terapeuta in genere (chirurgo o medico che sia) - alla prospettazione dei possibili rischi del trattamento suggerito (in quanto tale da porre in pericolo la vita o l'incolumità fisica del paziente), ma concerne anche la conseguibilità o meno, attraverso un determinato intervento, del miglioramento estetico perseguito dal cliente in relazione alle esigenze della sua vita professionale e di relazione. (Nella specie, l'impugnata sentenza - confermata dalla S.C. - aveva ritenuto che l'anzidetto dovere d'informazione, nei confronti di una danzatrice professionale e spogliarellista sottopostasi a un intervento di chirurgia plastica del seno, non fosse stato assolto, quanto al residuato di cicatrici, con l'esibizione, da parte del professionista, di alcune fotografie relative a interventi di analoga natura)”. Al di là di questo ambito specifico, per decidere se sottoporsi o meno a interventi medici, è evidente la particolare importanza di un’informazione dettagliata, che riguardi l’effettivo risultato ottenibile attraverso l’atto medico. Come giurisprudenza costante ormai evidenzia, il consenso del paziente deve essere specifico, informato e consapevole (Cass. 18 aprile 2005 n. 7997; Cass. 30 luglio 2004 n. 14638). Nella sentenza della Cass. Pen., IV sez., 11 luglio 2001 n. 1572, si ribadisce che: “La legittimità di per sè dell'attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce un presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico. Il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto e alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall'art. 13 Cost.. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invece, aderente ai principi dell'ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive, queste, derivanti dall'abilitazione all'esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano, di regola, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi". -3- Il consenso informato e la responsabilità del medico Il consenso informato e il dovere di informazione a carico del medico Il dovere d’informazione, nell’ambito della professione medica, assume un rilievo fondamentale per un duplice motivo: da una parte, infatti, la corretta informazione costituisce il presupposto per la valida prestazione del consenso del paziente al trattamento medico; dall’altra assume i contorni di un dovere autonomo rispetto alla stessa colpa professionale, potendone addirittura prescindere. Dal momento che il dovere d'informazione ora rientra nella complessa prestazione professionale cui è tenuto il sanitario, ne consegue la natura contrattuale della responsabilità in caso di violazione di siffatto dovere. In questo senso, Cass. sez. III, 23 maggio 2001, n. 7027: “Osservando che il contratto d’opera professionale si conclude tra il medico e il cliente quando il primo, su richiesta del secondo, accetta di esercitare la propria attività professionale in relazione al caso prospettatogli; che tale attività si scinde in due fasi, quella, preliminare, diagnostica, basata sul rilevamento dei dati sintomatologici, e l’altra, conseguente, terapeutica o di intervento chirurgico, determinata dalla prima; che l’una e l’altra fase esistono sempre, e compongono entrambe l’iter dell’attività professionale, costituendo perciò entrambe la complessa prestazione che il medico si obbliga a eseguire per effetto del concluso contratto di opera professionale; che, poiché solo dopo l’esaurimento della fase diagnostica sorge il dovere del chirurgo di informare il cliente sulla natura e sugli eventuali pericoli dell’intervento operatorio risultato necessario, questo dovere di informazione, diretto a ottenere un consapevole consenso alla prosecuzione dell’attività professionale, non può non rientrare nella complessa prestazione. Di qui, in definitiva, la natura contrattuale della responsabilità derivante dall’omessa informazione. (…) Si consideri che esso (il dovere di informazione) lungi dall’essere accessorio o strumentale (…), derivando da una norma di rilevanza costituzionale, volta a tutelare un diritto primario della persona, non può non avere, per ciò stesso, nella complessiva struttura negoziale, natura e dignità autonome (con autonoma rilevanza, sul piano delle conseguenza giuridiche, nel caso d’inadempimento)”. La Suprema Corte ha precisato come l’informazione sul trattamento medico debba essere considerata un elemento essenziale del contratto che si instaura tra paziente e sanitario: “la condotta di corretta informazione sul trattamento sanitario, specie quando è ad alto rischio, non appartiene a un momento prodromico esterno al contratto, ma è condotta interna al cd ‘contatto medico sanitario’ ed è elemento strutturale interno al rapporto giuridico che determina il consenso al trattamento sanitario.” (Cass. Civ. sez. III, 19 ottobre 2006, n. 22390). Pertanto, deve considerarsi superata dalla giurisprudenza maggioritaria la tesi secondo cui il vizio inerente al consenso informato è motivo di responsabilità precontrattuale, ai sensi dell’art. 1337 cod. civ., sul presupposto della violazione del comportamento in buona fede del professionista (in questo senso, vedi per esempio Cass. Civ. 25 novembre 1994, n. 10014). Partendo dalla considerazione che l’attività medica si compone di due fasi - quella preliminare di diagnosi e studio della sintomologia, e l’altra, conseguente alla prima, terapeutica o d’intervento chirurgico - la giurisprudenza di legittimità ritiene che solo al completamento della fase diagnostica subentra il dovere del medico di informare il paziente in ordine alla natura e agli effetti del trattamento terapeutico eventualmente manifestatosi come necessario. Da queste premesse consegue, nell’argomentazione della giurisprudenza, l’inevitabile inclusione dell’obbligo d’informazione nella complessa prestazione medica e la responsabilità contrattuale per il suo inadempimento o inesatto adempimento 1. Dal punto di vista civilistico, il consenso informato costituisce un elemento essenziale del contratto medico-paziente: il consenso, non preceduto dalla corretta e chiara informazione medica, fa venir meno l’elemento fondamentale dell’accordo di cui all’art. 1325 comma 1 cod. civ. La manifestazione del consenso permette al paziente-creditore della prestazione di compiere scientemente quella valutazione tra costi e benefici indispensabile ai fini della validità dell’accordo tra le parti che, altrimenti, perde ogni significato per vizio del consenso, conseguendone l’annullabilità ex artt. 1427 e segg. cod. civ. Il consenso del paziente al trattamento sanitario, tuttavia, non s’identifica necessariamente con il consenso al contratto, ragion per cui pare più opportuno fare una distinzione tra le due cose. Basti pensare che la conclusione del contratto con il medico non obbliga il paziente a sottoporsi ad alcuna cura, né il rifiuto di un determinato trattamento terapeutico determina necessariamente il venir meno del contratto eventualmente stipulato tra medico e paziente. Infatti, secondo una diversa prospettiva che muove dal riconoscimento del rilievo giuridico dell’attività medica nel suo svolgersi, legato alla 1 P. Frati, G. Montanari Vergallo, N.M. Di Luca. Gli effetti del consenso informato nella prospettiva civilistica. In Rivista italiana di medicina legale, Milano, 2002, n. 4-5, p. 1049. -4- Il consenso informato e la responsabilità del medico valutazione di dinamiche che vivono nella loro effettività e prescindono dall’immediato riferimento a un titolo, inteso come astratto e formale indice, legittimante l’equiparazione tra il consenso al trattamento terapeutico e il consenso al contratto stipulato con il medico appare riduttivo; d’altra parte, il consenso al trattamento non può esaurire la sua rilevanza al momento dell’accordo con il medico, perché a partire da quell’accordo il rapporto medico- paziente si snoda in una serie di attività che presuppongono il rinnovarsi del consenso. Di ciò vi è conferma nel Decreto del Ministro della sanità 15 luglio 1997 (recante disposizioni in recepimento delle linee guida dell’U.E. sulla buona pratica clinica per l’esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali), dove non si ritiene sia possibile considerare cristallizzata, una volta per tutte, la prestazione al consenso: esso è richiesto ogni qual volta lo svolgimento dell’attività medica renda disponibili informazioni nuove e tali da poter influenzare la volontà del paziente. Inoltre il problema della validità del consenso al contratto si pone su un piano diverso rispetto a quello della validità del consenso al trattamento: la disciplina codicistica dei vizi della volontà e la sanzione dell’annullamento non si prestano a regolare adeguatamente il consenso al trattamento, rispetto al quale la valutazione d’invalidità non produce conseguenze significative se non è associata a una regola di responsabilità che sanzioni la violazione degli obblighi d’informazione. Secondo questa prospettiva, dunque, la distinzione tra consenso al trattamento e consenso al contratto è, evidentemente, funzionale all’esigenza di tutelare l’interesse del paziente in via autonoma rispetto alle vicende del contratto. Peraltro il consenso del paziente al trattamento va espresso anche laddove il rapporto professionale con il medico non derivi da contratto, in quanto al medico si vieta ogni intervento sul malato in mancanza del valido consenso del paziente, ex art. 32 comma 2 Cost., come ricordato prima. L’informazione del paziente, la richiesta e la ricezione del suo consenso si presentano, quindi, come requisiti ai quali deve attenersi l’attività medica in base alle disposizioni normative che la regolano, indipendentemente dalla presenza di un contratto. (Segue) L’autonoma rilevanza della violazione dell’obbligo del consenso informato L’obbligo d’informazione, proprio in quanto regola della professione medica, acquista così rilievo autonomo rispetto all’obbligazione di prestazione, oltre più che si tratta di un obbligo attraverso il quale si dà attuazione a norme di rilevanza costituzionale volte a tutelare un diritto primario della persona. In particolare la Corte di Cassazione, sottolineando l’autonomia dell’obbligazione avente come oggetto il consenso informato nell’ambito della prestazione medica, ha ritenuto sussistente la responsabilità del sanitario e dell’ente per la violazione di tale obbligo in sé, indipendentemente dalla correttezza o meno dell’esecuzione del trattamento: “La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell’obbligo del consenso informato discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell’obbligo di informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e dalla successiva verificazione, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa, di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, mentre, ai fini della configurazione di siffatta responsabilità è del tutto indifferente se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno, svolgendo rilievo la correttezza dell’esecuzione agli effetti della configurazione di una responsabilità sotto un profilo diverso, cioè riconducibile, ancorché nel quadro dell’unitario «rapporto» in forza del quale il trattamento è avvenuto, direttamente alla parte della prestazione del sanitario (e di riflesso della struttura ospedaliera per cui egli agisce) concretatasi nello svolgimento dell’attività di esecuzione del trattamento. La correttezza o meno del trattamento, infatti, non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell’ingiustizia del fatto, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, con la conseguenza che, quindi, tale trattamento non può dirsi avvenuto previa prestazione di un valido consenso (…), donde la lesione della situazione giuridica del paziente inerente alla salute ed all’integrità fisica per il caso che esse, a causa dell’esecuzione del trattamento, si presentino peggiorate. Per converso, sul piano del danno-conseguenza, venendo in considerazione il mero peggioramento della salute e dell’integrità fisica del paziente, rimane del tutto indifferente che la sua verificazione sia dovuta a un’esecuzione del trattamento corretta o scorretta” (Cass. Civ., sez. III, 14 marzo 2006, n. 5444). -5- Il consenso informato e la responsabilità del medico In ogni caso, il rilievo autonomo della violazione dell’obbligo del consenso informato non esclude di conseguenza, l’esistenza di una relazione tra obbligo d’informazione e prestazione. L’obbligo d’informazione gravante sul medico può, infatti, influire sul contenuto della prestazione da questi posta in essere, in esecuzione del contratto: il trasferimento di informazioni è funzionale alla definizione di quanto dovuto dal medico e, conseguentemente, a una distribuzione dei rischi diversa rispetto a quella che si sarebbe avuta ove l’informazione non fosse stata trasferita. La correlazione tra obbligo d’informazione e contenuto della prestazione è ancor più evidente quando le informazioni sono volte all’adozione di misure di precauzione da parte del potenziale danneggiato. L’area del giuridicamente dovuto dal debitore della prestazione, infatti, è tanto minore quanto sono maggiori le informazioni date al creditore, perché non possono accollarsi degli oneri di precauzione in capo a un soggetto, senza almeno informarlo dei rischi di danno cui va incontro. (Segue) Il contenuto dell’informazione Per ottenere il consenso del paziente, il medico deve richiedere al paziente stesso di sottoscrivere un modulo nel quale si evidenzia sia l’avvenuta acquisizione delle informazioni in ordine ai rischi dell’intervento, sia la volontà di assoggettarvisi. In questo modo, il paziente dovrebbe essere messo in condizioni di poter valutare in modo quanto più consapevole e completo, nei limiti delle proprie conoscenze, il ventaglio di possibilità degli interventi offerti dalla scienza medica e gli eventuali rischi, per dare così il proprio consenso all’effettuazione delle operazioni che detta scelta comporta. D’altro canto, l’intervento del medico in assenza del consenso del soggetto interessato al trattamento terapeutico sarebbe in ogni caso impedito dagli artt. 13 e 32 comma 2 della Costituzione italiana. Tuttavia, i moduli di consenso informato hanno finito con l’assolvere a un’unica funzione “preventiva/medico legale” che ha spinto il medico a predisporre moduli enciclopedici, capaci (perlomeno nelle intenzioni di chi li redige) di difendere dall'accusa di non avere adeguatamente informato il paziente. Non è un caso che, a una lettura critica (ormai risalente nel tempo) dei moduli di consenso informato, questi sembrassero, fin dal loro nascere, pensati e realizzati al fine di tutelare legalmente il medico e non di assolvere allo scopo di implementare e facilitare la comunicazione medico-paziente 2. A ogni modo, la giurisprudenza di legittimità ha, dapprima, ribadito il valore probatorio del modulo di consenso informato, valorizzando quella firma apposta dal paziente sui moduli informativi da cui si evincerebbe l'adesione consapevole, libera e partecipata dello stesso paziente ai programmi diagnosticoterapeutici, ai trattamenti e/o agli interventi proposti dal medico; più recentemente, invece, ha stabilito che la firma sul modulo di consenso, se non consapevole ed effettivamente informato, non vale a rendere legittimo alcun tipo di trattamento sanitario. Così la Corte di Cassazione, in una vicenda di richiesta di risarcimento dei danni sofferti in conseguenza di peritonite insorta all'esito di intervento chirurgico di polipectomia endoscopica, nella sentenza dell’8 ottobre 2008, n. 24791, ha statuito che: “Il medico viene meno all'obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura cui dovrà sottoporsi, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ritenga di sottoporre (come verificatosi nella specie) al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo del tutto generico, dal quale non sia possibile desumere con certezza che il paziente abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni (…) la prova della relativa informazione incombendo comunque al sanitario”. L’informazione che deve essere resa dal medico varia a seconda del tipo di prestazione sanitaria e della situazione psicofisica del paziente. A questo proposito, la giurisprudenza di legittimità ha fissato dei criteri di portata generale: “la validità del consenso è condizionata dall'informazione, da parte del professionista al quale è richiesto, sui benefici, sulle modalità in genere, sulla scelta tra diverse modalità operative e sui rischi specifici prevedibili (anche ridotti che possano incidere gravemente sulle condizioni fisiche o sul bene della vita) dell’intervento terapeutico - informazione che deve essere effettiva e corretta - e, nel caso che sia lo stesso paziente a richiedere un intervento chirurgico, per sua natura complesso e svolto in équipe, la presunzione di un implicito consenso a tutte le operazioni preparatorie e successive connesse all’intervento vero e proprio, non esime il personale medico responsabile dal dovere di informarlo anche su queste fasi operative (nel caso di specie in relazione ai diversi metodi anestesiologici utilizzabili, alle loro modalità di esecuzione e al loro grado di rischio), in modo che la scelta tecnica dell’operatore 2 E. Turillazzi. In tema di consenso informato: giacché tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per un buon fine? In Responsabilità civile e previdenza, Milano, 2011, n.1. -6- Il consenso informato e la responsabilità del medico avvenga dopo una adeguata informazione e con il consenso specifico dell’interessato”.(Cass. Civ., sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364). Nella motivazione della sentenza, la Suprema Corte si sofferma sul contenuto dell’obbligo di informazione, il cui scopo è quello di consentire al malato una scelta consapevole attraverso un bilanciamento tra rischi e benefici del trattamento e non certo di fornire una spiegazione scientifica dettagliata della prestazione: “nell’ambito degli interventi chirurgici, in particolare, il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi. L’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche a un banale intervento. Assume rilevanza, in proposito, l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi consentire tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente non venga edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita. L’obbligo di informazione si estende, inoltre, ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio tecnico-scientifico del sanitario, possa determinarsi verso l’una o l’altra delle scelte possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi. Sotto un altro profilo è noto che interventi particolarmente complessi, specie nel lavoro in équipe, ormai normale negli interventi chirurgici, presentino, nelle varie fasi, rischi specifici e distinti. Allorché tali fasi assumano una propria autonomia gestionale e diano luogo, esse stesse, a scelte operative diversificate, ognuna delle quali presenti rischi diversi, l’obbligo di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi” (Cass. Civ., sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364). Un particolare aspetto del contenuto dell’informazione riguarda l’organizzazione e i mezzi di cui è dotata la struttura sanitaria. Ci si chiede se il paziente abbia diritto a essere informato anche su attrezzature, strumenti e reparti della struttura, al fine di poter scegliere consapevolmente non solo se sottoporsi a un determinato trattamento, ma anche l’ospedale o la clinica più idonei in relazione alla propria patologia. La questione è stata affrontata dal Collegio di legittimità che ha condannato il primario della divisione di ostetricia in un caso di irreversibili menomazioni riportate da un neonato a carico del sistema nervoso centrale, a seguito di grave asfissia verificatasi al momento della nascita in un ospedale privo di un cardiotocografo, in quel momento guasto: "i giudici del merito hanno in sostanza ritenuto, in riferimento a quanto apprezzato anche in sede di consulenze tecniche e con valutazione niente affatto irragionevole, che il preannunciato parto prematuro a seguito del ricovero della paziente per rottura delle membrane con abbondante perdita di liquido amniotico, in un contesto connotato dalla indisponibilità del cardiotocografo, strumento essenziale per il costante controllo dello stato del feto, richiedessero un interessamento attivo da parte del primario (…). La circostanza che manca nella legislazione italiana uno standard di riferimento degli strumenti di cui una struttura sanitaria pubblica deve necessariamente disporre non esime il medico responsabile della cura dei pazienti dal dovere di informarli della possibile inadeguatezza della struttura per l’indisponibilità, anche solo momentanea, di strumenti essenziali per una corretta terapia o per un’adeguata prevenzione di possibili complicazioni, tanto più se queste siano prevedibili in relazione alla particolare vulnerabilità del prodotto del concepimento, specialmente se esso venga alla luce in condizioni di prematurità o immaturità" (Cass. Civ. ,sez. III, 16 maggio 2000, n. 6318). La Corte di Cassazione ha ribadito e puntualizzato il medesimo principio in una recente sentenza che ha messo in relazione i doveri di informazione gravanti sul medico e sulla struttura con la diligenza richiesta nella prestazione medica: "la difficoltà dell’intervento e la diligenza del professionista vanno valutate in concreto, rapportandole al livello di specializzazione del professionista e alle strutture tecniche a sua disposizione, sicché il medesimo deve, da un canto, valutare con prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza professionale, ricorrendo anche all’ausilio di un consulto se la situazione non è cosi urgente da sconsigliarlo e, d'altro canto, deve adottare tutte le misure volte a ovviare alle carenze strutturali e organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell’intervento, e laddove ciò non sia possibile, deve informare il paziente, financo consigliandogli, se manca l’urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea." (Cass. Civ., sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826). -7- Il consenso informato e la responsabilità del medico (Segue) Omessa informazione (mancanza del consenso informato) e risarcimento del danno Lungamente dibattuta è la questione se la lesione del diritto di autodeterminazione costituisca danno di per sé risarcibile, indipendentemente dal verificarsi di ulteriori pregiudizi, ovvero se, in nome della tradizionale distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza, reputi necessaria la dimostrazione di diversi e concreti pregiudizi discendenti dalla predetta violazione. La giurisprudenza maggioritaria della Suprema Corte propende per la seconda ipotesi, per cui per risarcire il danno da violazione del consenso informato è necessario che si sia prodotto un danno all’integrità psicofisica, il quale deve porsi in rapporto di causalità con il trattamento medico eseguito. Ciò significa che, sebbene il danno subito dal paziente per non essere stato informato è autonomo rispetto al danno alla salute, perché questa autonomia si traduca sul piano risarcitorio è necessario distinguere se l'intervento non consentito fosse indispensabile per la salute del paziente oppure avesse avuto un esito favorevole. Ritenuto indispensabile l'intervento, bisogna distinguere seconda che fosse stato eseguito correttamente oppure no. Si esclude un obbligo risarcitorio ove l'intervento necessario per il paziente e difettante del suo consenso informato sia stato eseguito correttamente e a ritenere il danno assorbito dall'imperizia, nell'altro caso. Le altre ipotesi riguardano la natura positiva o negativa delle conseguenze per il paziente. In caso di miglioramento delle pregresse condizioni di salute, non c'è alcun danno da risarcire; nel caso di esito sfavorevole si apre il problema risarcitorio e si sovrappongono danno alla salute e danno all'autodeterminazione, perché, dopo aver insistito sull'autonoma rilevanza del diritto del paziente di scegliere se sottoporsi o meno a un determinato trattamento sanitario, sul medico responsabile della condotta omissiva si fa ricadere il pregiudizio alla salute avente la propria fonte nell'intervento pur correttamente eseguito3. Pertanto, i giudici di legittimità o hanno negato il risarcimento del danno "se non sussiste un rapporto causale tra l'aggravamento delle condizioni del paziente e l'insorgenza di nuove patologie e l'intervento sanitario" eseguito senza il consenso esplicito del paziente (Sez. Un. Civ., 11 gennaio 2008, n. 577,) oppure hanno ritenuto responsabile il sanitario per l'inadempimento "dell'obbligo di informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e dalla successiva verificazione, in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa, di un aggravamento delle condizioni di salute" (Cass. Civ., 30 luglio 2004, n. 14638). Allo stesso modo, le Sezioni Unite penali, nella sentenza n. 2437 del 18 dicembre 2008 distinguono, con riguardo alle ipotesi in cui manchi il consenso ovvero questo risulti difettoso, secondo che all'atto medico consegua oppure no un esito fausto: “Ove il medico sottoponga il paziente a un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato consenso informato e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle “leges artis”, sia concluso con esito fausto, nel senso che dall’intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento, anche alle eventuali alternative apprezzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo delle lesioni personali quanto sotto quello della violenza privata.” Va però rilevato che la Corte di Cassazione, nella sentenza del 9 febbraio 2010 n. 2847, ha stabilito che: “anche in caso di sola violazione del diritto all'autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l'intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito, può dunque sussistere uno spazio risarcitorio; mentre la risarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell'atto terapeutico necessario e correttamente eseguito secondo le regole dell’arte, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, necessariamente presuppone l'accertamento che il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato adeguatamente informato. Il relativo onere probatorio, suscettibile di essere soddisfatto anche mediante presunzioni, grava sul paziente: (a) perché la prova di nesso causale tra inadempimento e danno comunque compete alla parte che alleghi l'inadempimento altrui e pretenda per questo il risarcimento; 3 M. Gorgoni. Ancora dubbi sul danno risarcibile a seguito di violazione dell’obbligo d’informazione gravante sul sanitario . In Responsabilità civile e previdenza, Milano, 2010, n. 5. -8- Il consenso informato e la responsabilità del medico (b) perché il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; (c) perché si tratta pur sempre di stabilire in quale senso si sarebbe orientata la scelta soggettiva del paziente, sicché anche il criterio di distribuzione dell'onere probatorio in funzione della “vicinanza” al fatto da provare induce alla medesima conclusione; (d) perché il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di opportunità del medico costituisce un'eventualità che non corrisponde all'id quod plerumque accidit.” L'inadempimento dell'obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all'informazione, tutte le volte in cui siano configurabili, a carico del paziente, conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all'autodeterminazione in se stesso considerato, sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi. È stato altresì osservato, in questa sede, che, rispetto alle conseguenze pregiudizievoli occorra domandarsi, come in ogni valutazione controfattuale ipotetica, se la condotta omessa avrebbe evitato l’evento ove fosse stata tenuta: se cioè l’adempimento da parte del medico dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico. Poiché l’intervento chirurgico non sarebbe stato eseguito solo se il paziente lo avesse rifiutato, per ravvisare la sussistenza di nesso causale fra lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente (realizzatosi mediante l’omessa informazione da parte del medico) e lesione alla salute per le, pure incolpevoli, conseguenze negative sull’intervento, deve potersi affermare che il paziente avrebbe rifiutato l’intervento ove fosse stato compiutamente informato. La Suprema Corte ha ribadito che condizione di risarcibilità del danno da omesso consenso è che esso varchi la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenza della Sezioni Unite n. da 26972 a 26974 del 2008, con le quali si è stabilito che il diritto deve essere inciso oltre un certo minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro della coscienza sociale in un determinato momento storico. Quindi, anche in caso di sola violazione del diritto dell’autodeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute, per essere stato l’intervento eseguito correttamente, può sussistere dunque uno spazio risarcitorio. Però, si sottolinea, tale tipo di danno necessariamente presuppone l’accertamento che il paziente avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato. -9- Il consenso informato e la responsabilità del medico Il rifiuto del trattamento terapeutico In tema di rifiuto delle cure, la Cass. Civ., sez. I, nella sentenza del 16 ottobre 2007, n. 21748 (Sentenza Englaro) ha statuito che: “Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma - atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del "rispetto della persona umana" in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) - altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.” Infatti, occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l'obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno. Tale obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui, insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure. L’impostazione seguita dalla Suprema Corte è perfettamente coerente con quella della CEDU, nel caso Pretty C. nel Regno Unito (2002). In quella sede, la Corte ha avuto modo di sottolineare che, in campo sanitario, il rifiuto di accettare un particolare trattamento potrebbe, inevitabilmente, condurre a un esito fatale. Tuttavia l'imposizione di un trattamento medico senza il consenso di un paziente adulto e mentalmente consapevole interferirebbe con l'integrità fisica di una persona in maniera tale da poter coinvolgere i diritti protetti dall'art. 8.1 della Convenzione (diritto alla vita privata), e che una persona potrebbe pretendere di esercitare la scelta di morire rifiutandosi di acconsentire a un trattamento potenzialmente idoneo a prolungare la vita. (Segue) Il rifiuto preventivo del trattamento terapeutico. Il consenso informato nei soggetti incapaci di intendere e volere Ben diversa, e più delicata, è la questione del rifiuto delle cure medico chirurgiche da parte di un soggetto incapace di manifestare la propria volontà, a causa del proprio stato psico-fisico. Sul punto, in mancanza di una disposizione normativa in materia, la Corte di Cassazione, nella sopra citata sentenza Englaro (n. 21748/07), ha stabilito il seguente principio: “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice - fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente - può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, in sé non costituente, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, unicamente in presenza dei seguenti presupposti: a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base a un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno a una percezione del mondo esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base a elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa.” Non contraddice questa impostazione una successiva pronuncia, Cass. Civ., III sez., del 15 settembre 2008, n. 23676, con la quale si è affrontata la diversa questione del dissenso al trattamento sanitario (consistente in trasfusioni di sangue) espresso in via preventiva da un soggetto (testimone di Geova) divenuto poi incapace al momento del trattamento stesso. - 10 - Il consenso informato e la responsabilità del medico La Corte, premesso che deve essere riaffermato il principio “di indubbia rilevanza costituzionale”, secondo cui il paziente ha un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo espone al rischio stesso della vita, rileva che la questione di diritto al suo esame ha per oggetto la reale efficacia del “non consenso” sì come manifestato dal paziente sul piano tanto cronologico quanto contenutisticoformale. Tale questione deve essere risolta nel senso che: “nell'ipotesi di pericolo grave e immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo debba essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata. Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un'intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto «ideologica», ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria; un giudizio e non una «precomprensione»: in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l'informazione avente per oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravita attuale delle proprie condizioni di salute”. Esiste, cioè, una simmetria tra il consenso preventivo a un trattamento sanitario, che non appare in alcun modo legittimamente predicabile in assenza della doverosa, completa, analitica informazione sul trattamento stesso, e il dissenso prestato ex ante in mancanza di qualsiasi informazione medicoterapeutica, il quale “deve ritenersi altrettanto impredicabile, sia in astratto che in concreto, qualora il paziente, in stato di incoscienza, non sia in condizioni di manifestarlo scientemente, e ciò perché altra è l'espressione di un generico dissenso a un trattamento in condizioni di piena salute, altro è riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita”. Ne consegue che, nel caso in cui un paziente portatore di forti convinzioni etico-religiose si trovi in stato di incoscienza, egli può evitare di subire un trattamento terapeutico contrario alla sua fede alle seguenti condizioni: a) "che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita" o b) che "un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l'esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all'esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari". Conclude la Corte che, nel caso di specie, mancando un valido dissenso del paziente al trattamento sanitario trasfusionale, quest'ultimo è stato legittimamente effettuato dai medici. La sentenza non nega affatto, in linea di principio, la necessità del consenso alle cure. Essa, invece, valorizza pienamente quanto già espresso dalla sentenza Englaro circa la validità giuridica di un dissenso preventivo articolato, puntuale, espresso, informato, anche manifestato da un rappresentante, limitandosi ad affermare che nel caso di specie tali caratteristiche non sussistono 4. 4 A. Andronio. Il consenso alla prestazione delle cure medico-chirurgiche nella CEDU e nella giurisprudenza italiana . In Giurisprudenza di merito, Milano, 2011, n. 2. - 11 - Il consenso informato e la responsabilità del medico Sentenze d’interesse Cassazione Civile, sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748 Cassazione Civile, sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676 Cassazione Civile, sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24791 Cassazione Civile, sez. III, 9 febbraio 2010, n. 2847 CEDU, Pretty C. Regno Unito, 29 luglio 2002. - 12 -