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La dirigenza alla prova della riforma Brunetta tra novità e questioni

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La dirigenza alla prova della riforma Brunetta tra novità e questioni
La dirigenza alla prova
della riforma Brunetta
tra novità e questioni irrisolte
di FRANCO CARINCI (*) e ALESSANDRO BOSCATI (**)
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Il contributo è finalizzato ad illustrare il quadro storico evolutivo di riferimento della legislazione relativa al lavoro pubblico tra privatizzazione e ripubblicizzazione (a partire dagli anni
'90 e fino al D.Lgs. n. 150/09, non escluso però l’intervento del D.L. n. 78/2010, convertito nella
L. n. 122/2010), con particolare attenzione ai seguenti aspetti: ottimizzazione della produttività
del lavoro pubblico; efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni; modifiche alla
disciplina della dirigenza pubblica; sistema delle relazioni sindacali.
1. Lo scenario di fondo.
rascorsi più di quindici anni dall’emanazione della legge delega n.
421/1992 e del successivo decreto attuativo n. 29/1993 – che segnò lo
storico passaggio della disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti
pubblici dal diritto pubblico al diritto del lavoro privato, peraltro perfezionatosi per i dirigenti in via definitiva solo con la novella del 1998 (c.d. seconda
fase della privatizzazione) – il legislatore con la l. n. 15/2009 e con il d.lgs. n.
150/2009 è nuovamente intervenuto in materia di lavoro pubblico incidendo
in maniera significativa sulla normativa pregressa.
Tali modifiche seguono una serie di interventi che negli anni avevano cercato di correggere le imperfezioni più macroscopiche della disciplina e si pongono in linea di continuità con i primi interventi settoriali emanati all’indomani dell’insediamento dell’attuale compagine governativa (d.l. n. 112/2008,
convertito con l. n. 133/2008).
Come noto, il d.lgs. n. 165/2001 (pensato per divenire il testo unico sul
lavoro pubblico, ma tale di nome e non di sostanza, essendosi limitato a recepire i contenuti dell’allora vigente d.lgs. n. 29/1993) era già stato ritoccato
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(*) Professore
Ordinario di Diritto
del Lavoro
Università di
Bologna
(**) Professore
Associato di Diritto
del Lavoro
Università di
Milano
AUTONOMIA&DIRIGENZA
negli anni precedenti, ma solo una volta in modo organico ed incisivo, con la
l. n. 145/2002 proprio sulla dirigenza; per il resto c’era stato solo un continuum di interventi, dettati dalle emergenze – ormai cronicizzate – legate alla
perdita di controllo sulla contrattazione integrativa ed alla utilizzazione di personale precario a compensazione del ricorrente blocco del turnover[1].
ispetto a tale susseguirsi di interventi, la novella del 2009 si pone in
discontinuità sul piano sia della qualità che della incisività: con la l. n.
15/2009 ed il d.lgs. n. 150/2009, il d.lgs. n. 165/2001 diviene infatti
oggetto di una radicale rivisitazione, al fine ultimo di ottenere un miglioramento degli standard qualitativi ed economici dell’azione della pubblica
amministrazione nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali e nell’erogazione dei servizi.
Alla base dell’intervento del legislatore vi è, infatti, la convinzione che il
riordino della disciplina del personale ed, in particolare, della dirigenza rappresenti un passaggio imprescindibile per il miglioramento dell’azione della
pubblica amministrazione.
Tutte le disposizioni in materia di personale, sia quelle relative alla ridefinizione dell’assetto delle fonti di regolazione del rapporto, sia quelle concernenti nel dettaglio la disciplina di singoli istituti, sia quelle appositamente dettate per ridisciplinare la categoria dirigenziale assumono, dunque, una chiara
quanto inequivoca valenza strumentale rispetto all’obiettivo di incrementare
l’efficienza e l’efficacia dell’azione della pubblica amministrazione.
Così tutti gli interventi indicati dall’art. 1 del d.lgs. n. 150/2009 – quali la
ridefinizione degli ambiti riservati alla legge ed alla contrattazione collettiva,
la promozione della selettività e della concorsualità nelle progressioni di carriera, il riconoscimento di meriti e demeriti, il contrasto alla scarsa produttività e all’assenteismo, la selettività e la valorizzazione delle capacità e dei
risultati ai fini degli incarichi dirigenziali, il rafforzamento dell’autonomia,
dei poteri e della responsabilità della dirigenza, l’estensione del principio di
trasparenza a tutto l’operato delle amministrazioni pubbliche, anche a garanzia della legalità – devono essere letti alla luce dell’obiettivo primario dell’intero intervento riformatore.
Obiettivo che, come già accennato, il legislatore sa di poter conseguire solo
attraverso una coerente riforma della dirigenza pubblica, tanto che già l’art. 6,
legge n. 15/2009, indicava la necessità di: rafforzare la distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo spettanti agli organi di governo e le funzioni di
gestione amministrativa spettanti alla dirigenza; arginare la contrattazione
collettiva negandole espressamente la possibilità di incidere sulle scelte organizzative e, quindi, consentire alla dirigenza stessa l’utilizzo di criteri di
gestione e di valutazione propri del settore privato, riconoscendo (e vedendosi riconoscere) meriti e demeriti.
ali indicazioni sono rifluite nel d.lgs. n. 150/2009, il cui art. 37 espressamente afferma che le modifiche alla disciplina della dirigenza pubblica sono finalizzate a “conseguire la migliore organizzazione del
lavoro e assicurare il progressivo miglioramento della qualità delle prestazioni erogate al pubblico, utilizzando anche i criteri di gestione e di valutazione del settore privato, al fine di realizzare adeguati livelli di produttività
del lavoro pubblico, di favorire il riconoscimento di meriti e demeriti, e di
rafforzare il principio di distinzione tra le funzioni di indirizzo e controllo
spettanti agli organi di governo e le funzioni di gestione amministrativa spettanti alla dirigenza, nel rispetto della giurisprudenza costituzionale in materia, regolando il rapporto tra organi di vertice e dirigenti titolari di incarichi
apicali in modo da garantire la piena e coerente attuazione dell’indirizzo
politico in ambito amministrativo”[2].
Una dirigenza che si vuole autonoma non solo dalla politica, ma anche dal
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AUTONOMIA&DIRIGENZA
sindacato, come emerge dalla legge delega n. 15/2009 che impone di “rivedere la disciplina delle incompatibilità per i dirigenti pubblici e rafforzarne l’autonomia rispetto alle organizzazioni rappresentative dei lavoratori e all’autorità politica” (art. 6, comma 2, lett. m), ripresa dal decreto delegato ove si è
previsto che “non possono essere conferiti incarichi di direzione di strutture
deputate alla gestione del personale a soggetti che rivestano o abbiano rivestito negli ultimi due anni cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano avuto negli ultimi due anni rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza con le predette organizzazioni (nuovo comma 1 bis
art. 53 d.lgs. n. 165/2001, introdotto dall’art. 52 del d.lgs. n. 150/2009).
Quest’ultima disposizione è stata oggetto di una recente lettura interpretativa
da parte della Funzione Pubblica con la circolare n. 11 del 10 agosto 2010 che,
con un’interpretazione che suscita alcune perplessità, limita l’incompatibilità
ai soli dirigenti incaricati di strutture che hanno competenza specifica in materia di gestione del personale, ai quali, peraltro, l’incompatibilità è estesa anche
alla partecipazione alle rappresentanze sindacali aziendali ed unitarie.
uttavia, se si guarda a tutto tondo l’assetto definito dal legislatore, emerge una contraddittorietà di fondo, condivisibilmente evidenziata in
maniera pressoché unanime in dottrina, tra l’obiettivo dichiarato, ottenere una dirigenza più autonoma ed il risultato concretamente ottenuto.
Appare, infatti, contraddittorio voler riconoscere l’autonomia dirigenziale
attraverso norme di leggi cogenti e specifiche che di fatto ne delimitano in
modo intrusivo l’autonomia gestionale, imponendole adempimenti specifici.
Una contraddittorietà che comporta un’inevitabile ed ulteriore conseguenza.
Il binomio autonomia-responsabilità che ha da sempre caratterizzato nelle
intenzioni del legislatore la figura del dirigente pubblico pare, a seguito delle
recente riforma, sbilanciato verso una responsabilità certa, a cui fa da pendant
un ridimensionamento dell’effettiva autonomia gestoria, soprattutto per quanto concerne l’esercizio delle prerogative datoriali.
Ciò è conseguenza innanzitutto della ridefinizione dell’assetto delle fonti,
con un’espansione del ruolo regolativo attribuito alla legge che, oltre ad intervenire in numerosi ambiti che in passato erano di dominio pressoché esclusivo della contrattazione collettiva, beneficia di una generale presunzione di
inderogabilità. In virtù delle modifiche all’art. 2 del d.lgs. 165/2001 oggi è la
derogabilità a dover essere dichiarata. Il che, come già evidenziato, è contro
la logica comune, perché toccherebbe allo stesso autore della legge ammettere che sia tanto provvisoria da poter essere messa in non cale dalla contrattazione collettiva del giorno dopo[3].
Ma soprattutto è conseguenza di norme che, pensate per obbligare il dirigente ad esercitare le autonome prerogative manageriali, in concreto ne comprimono gli spazi di libera autodeterminazione, ponendolo in una posizione di
esecutore vincolato a specifici adempimenti, responsabile non solo dell’inerzia, ma anche dell’assunzione di decisioni divergenti.
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2. La dirigenza pubblica nel sistema delineato
dalla l. n. 15/2009 e dal d.lgs. n. 150/2009
rima di passare in rassegna le novità in materia di dirigenza pubblica
introdotte dal d.lgs. n. 150/2009, partendo da quelle tese a ridisegnare
il rapporto tra politica e vertici burocratici, è imprescindibile premettere due brevi considerazioni di carattere generale, chiave di lettura di tutte le
disposizioni di dettaglio in seguito richiamate.
La prima è che anche il legislatore del 2009 ha assunto a modello il sistema ministeriale, ritenendolo un po’ miopemente applicabile a tutta la pubblica amministrazione, sebbene la stessa negli anni abbia ripetutamente dimo-
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AUTONOMIA&DIRIGENZA
strato una natura variegata, difficilmente riducibile ad unità.
er le amministrazioni non statali l’obbligo di adeguamento delle disposizioni in materia di dirigenza previsto dall’immodificato art. 27 del
d.lgs. n. 165/2001 con tutta probabilità ripresenterà, incrementandola, la
querelle interpretativa concernente l’individuazione degli spazi di effettiva
autonomia adeguatrice riconosciuta ai singoli enti.
La seconda attiene alla volontà di imporre un modello imprenditoriale in
un contesto che tale non è, e non può essere, per le connotazioni molto diverse, incancellabili con un solo tratto di penna e con la proposizione di un nuovo
sistema di regolazione. Lo sforzo compiuto dal legislatore, tutto teso a cercare nel pubblico un surrogato di quello che nel privato è rappresentato dal mercato, si scontra inevitabilmente con la diversa finalità che muove l’azione nei
due ambiti, l’interesse egoistico dell’imprenditore nel privato, l’esigenza di
soddisfacimento dell’interesse della collettività nel pubblico. Un soddisfacimento che trova il proprio “tradizionale” riconoscimento nel circuito democratico-elettorale in cui la valutazione data dal cittadino alle scelte effettuate
non necessariamente coincide con una genuina valutazione in termini di economicità dell’attività svolta.
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3. Distinzione funzionale tra politica ed amministrazione
ome anticipato, una prima serie di modifiche è volta a rafforzare la
distinzione – peraltro da sempre percepita come una necessaria precondizione per l’efficienza del pubblico impiego – tra amministrazione e
politica. In questa logica assumono un rilievo fondamentale le disposizioni
tese a disegnare il c.d. ciclo della performance e quelle a ridefinire la disciplina degli incarichi dirigenziali.
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3.1. – Il ciclo della performance
In primo luogo il legislatore ha inteso rafforzare la separazione tra dirigenza e politica tramite l’introduzione del c.d. ciclo della performance, rivisitazione aggiornata e specificata del processo circolare indirizzo-gestione-verifica dettato dall’art. 4 del d.lgs. n. 165/2001. L’art. 4, comma 2, d.lgs. n.
150/2009 dà, infatti, vita ad un processo plurifasico in cui dirigenza e potere
politico dialogano senza interferenze secondo il modello circolare di cui al
succitato art. 4, d.lgs. n. 165/2001. In particolare, il riparto di competenze così
delineato vede attribuire al solo soggetto politico i compiti di definire e di
assegnare gli obiettivi che si intendono raggiungere, i valori attesi di risultato
e i rispettivi indicatori; decidere, seppur con la cooperazione della dirigenza,
il collegamento tra gli obiettivi e l’allocazione delle risorse; monitorare in
corso di esercizio l’attività svolta, anche attivando eventuali interventi correttivi. Sono, invece, rimessi alla sola dirigenza i compiti di svolgere la misurazione e la valutazione della performance organizzativa ed individuale; procedere all’erogazione dei premi, secondo criteri di valorizzazione del merito; e,
infine rendicontare i risultati raggiunti agli organi di indirizzo politico-amministrativo, ai vertici delle amministrazioni, nonché ai competenti organi esterni, ai cittadini, ai soggetti interessati, agli utenti e ai destinatari dei servizi.
elemento di raccordo è rappresentato dalla valutazione della dirigenza, presupposto imprescindibile per il riconoscimento al singolo
dipendente del trattamento economico accessorio e per l’attivazione
del procedimento finalizzato all’accertamento di una eventuale responsabilità
dirigenziale.
Il ben congegnato sistema delineato dalla novella del 2009 presenta ancora una volta un interrogativo di fondo, che può essere solo accennato in questa sede, circa l’effettiva attuazione del modello e circa la sua reale efficacia
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AUTONOMIA&DIRIGENZA
una volta attuato. È, infatti, evidente che direttive troppo specifiche esautorano il dirigente chiamato ad esercitare il ruolo di mero esecutore; ed è
altrettanto evidente che il ritardo nel comunicare gli obiettivi da perseguire
infici non solo il possibile conseguimento degli obiettivi stessi, ma sopratutto il controllo ex post dell’attività, tanto dei dirigenti, quanto dei semplici dipendenti pubblici[4]. La novella del 2009 non solo non circoscrive il
possibile contenuto delle direttive, sì da doversi ancora invocare quanto previsto dall’art. 14 del d.lgs. n. 165/2001 secondo cui esse devono indicare
obiettivi, priorità, piani e programmi, ma soprattutto – ed è qui il profilo di
maggiore perplessità – non rende perentori i tempi, prevedendo idonee sanzioni per il loro mancato rispetto. Se la prima delle questioni indicate esprime un’esigenza reale, difficile, però, da risolvere autoritativamente in via
legislativa, la seconda avrebbe richiesto più attenzione e conseguente maggiore rigore da parte del legislatore.
3.2 La disciplina del conferimento degli incarichi
In secondo luogo il d.lgs. 150/2009 cerca di rafforzare la separazione tra
politica e amministrazione, attraverso alcune modifiche alla disciplina degli
incarichi dirigenziali (cfr. art. 40, d.lgs. n. 150/2009 che ha modificato l’art.
19, d.lgs. n. 165/2001). Infatti, fermo il connotato di specialità del rapporto
di lavoro del dirigente pubblico di ruolo caratterizzato dalla coesistenza di
un contratto di lavoro a tempo indeterminato attributivo della qualifica e di
una serie di successivi incarichi a termine che indicano i compiti del dirigente, il legislatore introduce criteri obiettivi per il conferimento, il principio di trasparenza nella scelta e di necessaria motivazione nella revoca, oltre
a dei nuovi limiti allo spoil system, così da rafforzare l’autonomia della dirigenza rispetto agli organi politici, anche nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale.
n continuità con quanto già dettato dalla previgente disciplina, si dispone
che gli organi di governo prima di conferire gli incarichi debbano valutare
sia le competenze del dirigente che le esperienze dallo stesso maturate,
nonché i risultati e le valutazioni conseguiti, così da poter realmente determinare se questi abbia la capacità di espletare al meglio l’incarico.
La novella del 2009 introduce, però, un elemento di grande novità, facendo proprio quanto già dettato da una direttiva della precedente maggioranza
di governo e quanto timidamente affermato in giurisprudenza. Il nuovo
comma 1 bis dell’art. 19 richiede, infatti, oltre al rispetto dei criteri obiettivi
sopra indicati, di seguire una procedura improntata ai principi di pubblicità e
di trasparenza. L’amministrazione viene infatti obbligata sia a rendere conoscibili, anche mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale,
il numero e la tipologia dei posti di funzione che si rendono disponibili nella
dotazione organica ed i criteri di scelta; sia ad acquisire le disponibilità dei
dirigenti interessati e valutarle.
Anche la disciplina della revoca degli incarichi è stata modificata. In particolare, al fine di rafforzare l’autonomia della dirigenza, il nuovo comma 1
ter dell’art. 19, d.lgs. n. 165/2001 sancisce che gli incarichi dirigenziali possono essere revocati solo a seguito di previa contestazione e nel rispetto del
principio del contraddittorio[5] e, comunque, solo nei casi e con le modalità
dettate per il caso di responsabilità dirigenziale dovuta a mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero ad inosservanza delle direttive. In entrambi i
casi, inoltre, è richiesto che la carenza sia imputabile al dirigente, così da arginare definitivamente la possibilità di procedere ad estromissioni arbitrarie.
Limitato così il ricorso alla revoca, il legislatore nella originaria versione
del d.lgs. n. 150/2009 aveva introdotto il nuovo e diverso istituto del mancato rinnovo dell’incarico, precipuamente per far fronte a possibili processi di
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riorganizzazione. Tale disposizione, di forte portata innovativa in quanto
implicava in concreto il principio di continuità nello svolgimento dell’incarico dirigenziale, è stata successivamente abrogata dall’art. 9, comma 32, d.l. n.
78/2010. Quest’ultima norma ha poi previsto che, qualora alla scadenza dell’incarico, anche in presenza di un processo di riorganizzazione, le amministrazioni non intendano, anche in assenza di una valutazione negativa, “confermare l’incarico conferito al dirigente, conferiscono al medesimo dirigente
un altro incarico, anche di valore economico inferiore”. Si ribadisce, dunque,
quello che era già chiaro nella vigenza della disciplina ante novella del 2009,
ovvero il diritto del dirigente ad un incarico e non ad un certo incarico, con
conseguente possibilità per l’amministrazione di attribuire anche un incarico
di un livello inferiore, stante l’espressa affermazione dell’inapplicabilità dell’art. 2103 cod.civ. al conferimento degli incarichi (cfr. art. 19, comma 1,
d.lgs. n. 165/2001, non modificato sul punto dal d.lgs. n. 150/2009).
uanto alla durata dell’incarico il legislatore, nel confermare le disposizioni previgenti, ovvero una durata dell’incarico compresa tra i tre
ed i cinque anni, introduce due importanti novità. In primo luogo sancisce la derogabilità della durata minima triennale nel caso in cui il dirigente maturerà il limite di età per il collocamento a riposo prima dei tre anni, e,
viceversa, la inderogabile durata triennale laddove si tratti del primo conferimento ad un dirigente di seconda fascia di incarichi di uffici dirigenziali
generali o di funzioni equiparate.
Da menzionare è anche la novella delle disposizioni che regolano il c.d.
spoil system, di portata certamente inferiore rispetto a quanto si poteva desumere dalle intenzioni dichiarate. Il legislatore, posta la necessità di adeguare
la normativa alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale[6] secondo cui il principio di fiduciarietà degli incarichi contrasterebbe con
l’art. 97 Cost.[7], ha sancito l’applicabilità del meccanismo di decadenza
automatica, decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo e salvo
conferma espressa, ai soli dirigenti cui siano stati conferiti incarichi di
Segretario generale di ministeri, incarichi di direzione di strutture articolate al
loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente.
Gli incarichi conferiti a dirigenti non appartenenti ai ruoli dell’amministrazione conferente o a soggetti, esterni o interni, non in possesso della qualifica
dirigenziale risultano invece oggi espressamente esclusi dallo spoil system.
Nessuna modifica ha riguardato, al contrario, gli uffici di diretta collaborazione di cui all’art. 14, d.lgs. n. 165/2001 il cui personale (rectius tutte le assegnazioni di personale) - ivi compresi gli incarichi di livello dirigenziale e le
consulenze e i contratti, anche a termine - decadono automaticamente ove non
confermati entro trenta giorni dal giuramento del nuovo Ministro.
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4. Il dirigente come datore di lavoro
isciplinato il rapporto tra politica e dirigenza all’insegna dell’autonomia della seconda rispetto alla prima, il d.lgs. n. 150/2009 conferma il
ruolo di datore di lavoro del dirigente, di vero e proprio manager[8],
ridisegnandone il ruolo tanto di detentore dei poteri datoriali sul piano individuale, quanto di attore delle relazioni sindacali.
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4.1. - Le relazioni sindacali
In relazione al dirigente che operi quale attore delle relazioni sindacali, in
quanto datore di lavoro, assume un rilievo fondamentale il novellato art. 5,
comma 2, d.lgs. n. 165/2001 secondo cui le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, comprese quelle in materia di organizzazione del lavoro, sono assunte in via escluAUTONOMIA&DIRIGENZA
siva dai dirigenti competenti, fatta salva la sola informazione ai sindacati se
prevista dalla contrattazione collettiva nazionale.
ali disposizioni sono poi ulteriormente ribadite dal novellato art. 40,
d.lgs. n. 165/2001, il quale al comma 1, primo periodo, dispone che “la
contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente
pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali” ed al successivo precisa che sono “escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell’art. 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli artt. 5, comma 2, 16 e 17, la materia del conferimento
e della revoca degli incarichi dirigenziali”.
Le richiamate disposizioni, pur ponendosi in linea di diretta consequenzialità con quanto già desumibile dalla previgente normativa, introducono una
duplice importante novità.
In primo luogo la materia “organizzazione del lavoro” viene espressamente espunta dalle materie negoziabili e ricondotta alle autonome prerogative del
dirigente. In secondo luogo vi è l’arretramento delle forme di partecipazione
sindacale, limitate alla sola informazione.
La ragione che sta dietro all’appena indicata duplice limitazione è con tutta
evidenza quella di evitare qualsiasi contatto tra dirigenti ed organizzazioni
sindacali sulla base del non celato pensiero di ritenere i primi inidonei a reggere il confronto sindacale.
indubbio elemento che tuttavia emerge dall’analisi delle novellate
disposizioni non è tanto l’accrescimento dell’autonomia della dirigenza, sul piano normativo autonoma anche nella vigenza della pregressa disciplina, quanto la riduzione dell’ambito di potenziale esplicazione
della contrattazione collettiva, a livello nazionale prima e, a cascata, a livello
di singola amministrazione. Una contrattazione che non potrà più ingerirsi,
neppure indirettamente, in scelte organizzative che ineriscono lo svolgimento
del rapporto di lavoro e che in materia di trattamento economico non potrà
perpetrare quelle prassi che hanno portato all’elargizione di trattamenti economici incentivanti c.d. a pioggia. Con specifico riguardo a quest’ultimo profilo, l’espresso divieto del legislatore di attribuire riconoscimenti economici
in maniera indifferenziata si unisce al rafforzato legame tra valutazione della
performance e corresponsione del trattamento economico incentivante. Un
legame rispetto al quale la dirigenza riveste un ruolo centrale quale soggetto
attivo della valutazione, a sua volta valutata per l’esercizio di tale prerogativa. Una valutazione del personale che, nel disegno del legislatore, oltre ad
assumere rilievo ai fini del trattamento accessorio, da riconoscere necessariamente in maniera selettiva, rileva anche ai fini delle progressioni economiche
e di carriera e dell’accesso ai percorsi di alta formazione.
Dunque, l’obiettivo del legislatore è evidente: arginare la contrattazione
collettiva, specie integrativa, che negli anni passati si era ingerita in ambiti
che non le potevano appartenere, quali in primis l’organizzazione degli uffici,
dando altresì vita a prassi contra legem in materia di trattamento economico
accessorio[9]. Ma per raggiungere tale obiettivo fa un enorme balzo in avanti, escludendo la contrattazione da ambiti che le sono per natura aperti e non
rendendola necessaria in ambiti in cui in precedenza era, invece, considerata
tale.
osì si circoscrive la materia contrattabile, limitata alla determinazione
dei diritti e delle obbligazioni direttamente pertinenti al rapporto di
lavoro (pena l’applicazione degli artt. 1339 e 1419 c.c. nel caso di violazione dei vincoli, con conseguente nullità delle clausole illegittime e
riespansione delle unilaterali prerogative dirigenziali) e si riconosce alla singola amministrazione di provvedere in via provvisoria sulle materie oggetto
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AUTONOMIA&DIRIGENZA
del mancato accordo fino alla successiva sottoscrizione (nuovo art. 40,
comma 3 bis), tra le quali deve essere ricompresa anche la definizione del trattamento economico.
ra le molteplici riflessioni che il nuovo assetto delle fonti introduce, due
meritano di essere indicate. La prima è data dalla contiguità che spesso
si verifica, salve alcune apprezzabili eccezioni, tra rappresentanze sindacali e dirigenti, conseguenza della mancata emersione, a differenza di quanto avviene nel privato, di solide forme di rappresentanza autonome di categoria. Il che comporta il rischio dello svilupparsi di un contatto informale tra i
due interlocutori, ben più pericoloso di un incontro formale nell’ambito di ben
definite forme di confronto.
Inoltre – e si passa così alla seconda – il legislatore del 2009 non sembra
tributare la giusta considerazione alle peculiarità della contrattazione collettiva del pubblico impiego in cui la parte sindacale non solo ha piena conoscenza dell’ammontare delle risorse disponibili, ma molte volte si trova anche
nella condizione di far valere impegni già concordati con l’organo politico per
quanto attiene al loro impiego, con la conseguenza di porre il dirigente nella
condizione sostanziale di dover ratificare decisioni assunte da altri delle quali,
però, risponde in prima persona[10]. Un effetto che si “trascina” inevitabilmente dal livello nazionale a quello integrativo, ove vi è il rischio di trovare
un dirigente chiamato a fare i conti con decisioni già direttamente concordate
dall’organo politico con le organizzazioni sindacali.
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4.2 - La gestione del rapporto
Presidiati così i poteri del dirigente dalla descritta “ingordigia pancontrattualista”[11] della contrattazione collettiva, specie integrativa, la legge delega, prima, e il decreto legislativo, poi, hanno specificato le attribuzioni del
dirigente datore di lavoro; attribuzioni, peraltro, in ampia parte desumibili
direttamente dall’attribuzione del “generale” ruolo datoriale.
Da tale restyling è conseguita l’espressa affermazione del dovere del dirigente di porre autonomamente in essere tutte le
azioni connesse all’organizzazione del lavoro,
fermo un solo obbligo di
informazione alle controparti
sindacali.
Dunque, è compito del
dirigente fornire direttive
sulle modalità di rendere
la prestazione; determinare i calendari di lavoro
(e simmetricamente di
ferie) e l’orario di lavoro; specificare le attività
lavorative mediante ordini di servizio; determinare gli strumenti per
garantire continuità ed
efficacia
all’azione
amministrativa; misurare
la qualità dell’azione
lavorativa.
Ai dirigenti è inoltre
AUTONOMIA&DIRIGENZA
assegnato il compito di concorrere alla redazione del documento di programmazione triennale del fabbisogno del personale, con la precisazione che
mentre i dirigenti generali possano avanzare proposte in merito alle risorse
ed ai profili professionali necessari allo svolgimento dei compiti dell’ufficio
cui sono preposti, anche al fine dell’elaborazione del citato documento, gli
altri dirigenti possono concorrere all’individuazione delle risorse e dei profili professionali necessari. Prerogative rispetto alle quali deve leggersi l’espressa affermazione di una responsabilità amministrativa per danno erariale
a carico del dirigente che non individui le eccedenze delle unità di personale (art. 50, d.lgs. n. 150/2009).
ltre ad aver ribadito ed implementato il potere direttivo, slegandolo da
possibili “interferenze” sindacali, il legislatore del 2009 ha ridisegnato
anche il potere di controllo e quello disciplinare.
Il potere di controllo del personale – il cui mancato od incongruo esercizio
può comportare l’assoggettamento del dirigente alla “nuova” forma di responsabilità dirigenziale prevista dal comma 1 bis dell’art. 21 – deve essere visto
in maniera congiunta con il potere di valutazione assegnato ai dirigenti e di
cui si è già dato brevemente conto.
Peraltro ai sensi dei “nuovi” artt. 16 e 17, d.lgs. n. 165/2001, il potere di valutazione è espressamente riconosciuto solo ai dirigenti preposti ad uffici dirigenziali non generali, mentre ai dirigenti preposti ad uffici dirigenziali generali è,
invece, demandata la valutazione degli altri dirigenti. Ai sensi dell’art. 17,
comma 1, lett. e bis), d.lgs. n. 165/2001 i dirigenti preposti ad uffici dirigenziali non generali “effettuano la valutazione del personale assegnato ai propri uffici, nel rispetto del principio del merito, ai fini della progressione economica e
tra le aree, nonché della corresponsione di indennità e premi incentivanti”.
Viceversa, nessuna previsione analoga è stata introdotta dal d.lgs. n. 150/2009
in relazione ai dirigenti preposti ad uffici dirigenziali generali[12].
Le innovazioni più consistenti al potere di valutazione del dirigente datore
sono però racchiuse nei titoli II e III del d.lgs. n. 150/2009 che, senza modificare il d.lgs. n. 165/2001, hanno istituito il nuovo e già citato ciclo della performance ed hanno ridefinito il sistema di valutazione del personale, precedentemente considerato materia negoziale in quanto inerente il rapporto di
lavoro e che ora rientra all’interno del quadro normativo regolato dalla legge.
Tali norme, infatti, hanno attribuito ai dirigenti (unitamente agli organismi
indipendenti di valutazione della performance) il compito di misurare e di
valutare se e in quale misura sono stati raggiunti gli obiettivi di gruppo o individuali in origine posti.
Quanto al potere disciplinare, nell’ambito della complessiva rivisitazione
dell’istituto operata dal d.lgs. n. 150/2009 significative sono le novità relative
alla dirigenza, considerata sia dal lato attivo quale titolare del potere disciplinare, sia dal lato passivo quale destinataria di sanzioni disciplinari.
ll’ampliamento della titolarità del potere disciplinare, esteso per i dirigenti fino all’applicazione della sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni, si unisce l’obbligatorietà dell’esercizio di tale potere, attribuendo all’uopo al dirigente altri
poteri di natura più inquisitoria che non istruttoria.
Quanto a questi ultimi, si prevede, in particolare, il potere del dirigente di
acquisire da altre amministrazioni pubbliche informazioni o documenti rilevanti per la definizione del procedimento, senza sospensione dello stesso o
differimento dei relativi termini. Si stabilisce altresì l’obbligo per il dipendente, dirigente o non, appartenente alla stessa amministrazione pubblica dell’incolpato o ad una diversa, di fornire la piena collaborazione al dirigente
procedente, pena l’applicazione di sanzioni conservative che possono arrivare alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un
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massimo di quindici giorni.
L’obbligatorietà dell’azione disciplinare deriva dall’assoggettamento del
dirigente a sanzioni disciplinari conservative, segnatamente la sospensione dal
servizio (con conseguente riflesso sulla retribuzione), nell’ipotesi di mancato
esercizio o di decadenza dell’azione disciplinare (su cui amplius nel prossimo
paragrafo). L’obbligatorietà dell’azione disciplinare risulta altresì confermata
dalla limitazione ai soli casi di dolo o colpa grave della responsabilità civile
eventualmente configurabile a carico del dirigente in relazione a profili di illiceità nelle determinazioni concernenti lo svolgimento del procedimento.
are di tutta evidenza come l’introduzione di una regola che impone al
dirigente di attivare il procedimento disciplinare sia, per un verso, conseguenza di un limitato esercizio nel passato del potere mentre, per altro
verso, esprima un concetto antitetico rispetto all’affermata volontà di accrescere l’autonomia del dirigente. Un potere che, peraltro, sul piano sistematico
perde la propria connotazione tipica di strumentalità rispetto al potere direttivo, sì da porsi rispetto ad esso su di un binario parallelo.
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5. Le responsabilità del dirigente.
a riforma del 2009, come anticipato, ha comportato una rivisitazione
anche delle responsabilità disciplinare e dirigenziale del dirigente, seppur senza risolvere (e, anzi, forse aggravando) i problemi connessi alla
sovrapposizione tra le due forme di responsabilità[13].
Come visto, nel caso di mancato esercizio dell’azione disciplinare (o di
decadenza dell’azione) il dirigente è assoggettato alla sanzione disciplinare
della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un
massimo di tre mesi in relazione alle infrazioni sanzionabili cui si aggiunge la
mancata attribuzione della retribuzione di risultato per un importo pari a quello spettante per il doppio del periodo della durata della sospensione (art. 55
sexies, d.lgs. n. 165/2001).
Parimenti, il dirigente preposto all’amministrazione generale del personale che ometta di controllare l’osservanza delle disposizioni finalizzate a prevenire o contrastare, nell’interesse della funzionalità dell’ufficio, le condotte
assenteistiche, sarà soggetto alle sanzioni disciplinari della sospensione dal
servizio e della mancata attribuzione di parte della retribuzione di risultato,
oltre che alle sanzioni dettate dall’art. 21, d.lgs. n. 165/2001 per il caso di
responsabilità dirigenziale (art. 55 septies, comma 6, d.lgs. n. 165/2001).
Si tratta, dunque, di specifiche sanzioni disciplinari conservative che si
aggiungono alla “tradizionale” sanzione estintiva del licenziamento, anch’essa, peraltro, espressamente considerata dal legislatore della riforma. La
novella del 2009 introduce il nuovo art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001 che
individua una serie di condotte, quali la falsa attestazione della presenza in
servizio, l’assenza priva di giustificazione per più di tre giorni nel biennio o
sette giorni nel decennio, le falsità documentali o certificative, la reiterazione di condotte lesive dell’altrui onore e dignità personale, nonché l’ingiustificato rifiuto del trasferimento, che comportano l’obbligo per l’amministrazione di recedere dal rapporto nei confronti del personale, dirigenziale e non
che le ponga in essere.
a novella del 2009 ha poi introdotto nuove ipotesi di responsabilità
dirigenziale. Il legislatore in aggiunta alla “vecchia” responsabilità per
mancato raggiungimento degli obiettivi ovvero per inosservanza delle
direttive comportante, a seconda della gravità e previo esperimento del diritto di difesa da parte del dirigente, l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale, ovvero la revoca dell’incarico con collocazione del dirigente a disposizione nei ruoli od il recesso dal rapporto di lavoro secondo le
disposizioni del contratto collettivo[14], ha introdotto una nuova ipotesi di
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responsabilità dirigenziale disciplinata dal comma 1 bis, dell’art. 21 del d.lgs.
n. 165/2001. Si prevede che, nei confronti del dirigente di cui sia stata accertata la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del
personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi
fissati dall’amministrazione, la retribuzione di risultato sia decurtata, sentito
il parere del Comitato dei garanti, in relazione alla gravità della violazione di
una quota fino all’ottanta per cento. Un ruolo del Comitato che, anche in questa ipotesi di responsabilità, al pari di quella disciplinata dal comma 1, è stato
depotenziato, dovendo essere solo sentito, non dovendo più rendere un previo
parere vincolante.
È indubbio che le richiamate nuove disposizioni in materia di responsabilità, lungi dal semplificare il quadro normativo, abbiano introdotto ulteriori e
complesse questioni interpretative sul piano sistematico. Tra di esse suscita
particolari perplessità l’assoggettamento del dirigente a sanzioni conservative
che incidono sull’incarico, prevedendone la sospensione. Ciò per i riflessi che
questa sanzione può avere in sede di valutazione dell’attività svolta e, dunque,
ai fini premiali o di accertamento di una eventuale ed ulteriore responsabilità
dirigenziale, atteso che il mancato conseguimento degli obiettivi può essere
giustificato proprio dall’intervenuta sospensione del rapporto per un lasso di
tempo tale da renderli non compiutamente realizzabili. Altrettanti interrogativi
suscita la nuova forma di responsabilità dirigenziale delineata dal comma 1 bis
dell’art. 21, istituto dagli incerti confini e più riferibile per come è stata costruita dal legislatore ad una responsabilità disciplinare che non dirigenziale.
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6. Il trattamento economico.
ebbene la novella del 2009 non abbia modificato la struttura della retribuzione del dirigente pubblico, articolata tra trattamento economico di
base ed accessorio, tuttavia la stessa è incisivamente intervenuta su quest’ultimo ribadendo come lo stesso debba essere correlato alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità e ai risultati conseguiti, in conformità allo
stretto legame con la positiva valutazione della performance che oggi dovrebbe caratterizzare tutti i dipendenti pubblici.
Coerentemente con tale finalità, con la novella del 2009 si è stabilito che
la retribuzione di risultato non potrà essere corrisposta al dirigente responsabile qualora l’amministrazione di appartenenza non predisponga il sistema di
valutazione inerente la produttività del lavoro pubblico, l’efficienza e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni, ovvero qualora il dirigente risulti
aver concorso alla mancata attuazione del piano della performance o, ancora,
qualora sia risultato responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile (art. 36, comma 3, d.lgs. n. 165/2001).
I nuovi commi 1 bis e 1 ter dell’art. 24 del d.lgs. n. 165/2001 sanciscono,
poi, che entro la tornata contrattuale successiva a quella decorrente dal 1° gennaio 2010, la retribuzione di risultato dovrà necessariamente costituire almeno il 30% della retribuzione complessiva del dirigente, considerata al netto
della retribuzione individuale di anzianità e degli incarichi aggiuntivi soggetti al regime dell’onnicomprensività e senza che ciò comporti nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica.
na disposizione da coordinare con quanto disposto dall’art. 19 del
d.lgs. n. 150/2009, ai sensi del quale la retribuzione di risultato verrà
corrisposta in percentuale variabile a seconda della fascia di merito in
cui il singolo dirigente si colloca, secondo un meccanismo del tutto analogo a
quello già previsto per gli altri dipendenti pubblici.
Il dirigente, al pari di ogni dipendente pubblico, potrà ricevere i premi connessi al ciclo della performance secondo quanto sancito degli artt. 20 e ss. del
d.lgs. n. 150/2009.
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È evidente come il blocco della contrattazione introdotto dal d.l. n.
78/2010, convertito con l. n. 122/2010, unito alla previsione dettata dalla stessa disposizione normativa del blocco del trattamento economico, avrà quale
inevitabile conseguenza un ritardo nella messa a pieno regime del sistema.
osto l’obbligo per le amministrazioni di adeguare il sistema di valutazione alle regole dettate dal Titolo II del d.lgs. n. 150/2009 entro il 31
dicembre 2010, l’attuazione (quantomeno parziale) delle disposizioni
del Titolo III presuppone di dover interpretare il blocco di cui all’art. 9,
comma 1, del d.l. n. 78/2010 riferito al solo trattamento fondamentale. Più
precisamente che l’art. 9 congeli la retribuzione individuale fissa e continuativa (sia il tabellare che l’accessorio fisso) all’ammontare storicizzato al 31
dicembre 2010 (comma 1), facendo tuttavia salva, nei limiti dell’ammontare
del fondo di amministrazione 2010 (ridotto proporzionalmente a seguito delle
cessazioni di personale: comma 2-bis), la ripartizione delle risorse che retribuiscono gli eventi “straordinari” derivanti dalla prestazione individuale (produttività, straordinario, indennità di rischio, disagio, maneggio valori....).
In definitiva, se l’ambizione riformatrice del legislatore è evidente,
altrettanto evidenti sono alcune palesi incongruità del testo normativo che,
unite al blocco della contrattazione nazionale per i prossimi tre anni, rischia
di perpetuare le incertezze del recente passato ed, in particolare, non permette alla dirigenza di acquisire quella consapevolezza di ruolo che costituisce un presupposto indefettibile per una effettiva realizzazione degli
obiettivi della novella.
’impressione è, ancora una volta, di essere all’inizio di un sentiero di
montagna con in mano una carta in cui è puntualmente definito il percorso per giungere alla vetta del monte, sì da indurre ad intraprendere
con ottimismo il cammino, salvo fermarsi dopo poche centinaia di metri
impediti da un ostacolo che sconsiglia di proseguire ed induce a cambiare via,
con il rischio di trovare anche nella nuova strada un impedimento imprevisto,
di dover nuovamente ripiegare, ritrovandosi così sempre al punto di partenza
ammirando sempre più affaticati l’irraggiungibile cima della montagna.
P
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AUTONOMIA&DIRIGENZA
Note
[1] Per una ricostruzione, sia consentito rinviare a F. Carinci, La privatizzazione del pubblico
impiego alla prova del terzo Governo Berlusconi: dalla l. n. 133/2008 alla l. d. n. 15/2009,
in WP C.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 88/2009; nonchè a C. Romeo, Privatizzazione del
pubblico impiego tra discontinuità e modernizzazione, in Lav. giur., 2010, n. 7, 653 e ss.
[2] Da ultimo, sulla riforma della dirigenza pubblica si v. B. Caruso, Le dirigenze pubbliche
tra nuovi poteri e responsabilità (Il ridisegno della governante nella p.a. italiane), in WP
C.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 104/2010.
[3] V. F. Carinci, La privatizzazione…, cit.
[4] Sia consentito, v. criticamente A. Boscati, Dirigenza pubblica: poteri e responsabilità tra
organizzazione del lavoro e svolgimento dell’attività amministrativa, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2009, 21.
[5] Tali previsioni costituiscono una chiara trasposizione della giurisprudenza costituzionale
formatasi in proposito, secondo cui appunto è “indispensabile … che siano previste adeguate garanzie procedimentali nella valutazione dei risultati e dell’osservanza delle direttive
ministeriali finalizzate alla adozione di un eventuale provvedimento di revoca dell’incarico
per accertata responsabilità dirigenziale”. Così Corte cost. 23 marzo 2007, n. 103 e 104,
entrambe in Giur. cost., 2007, 2; analogamente Corte cost. 16 maggio 2002, n. 193 e Corte
cost. 30 gennaio 2002, n. 11.
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[6] Si v. le sentenze Corte Cost. 23 marzo 2007, n. 103 e 104, cit.; Corte cost. 20 maggio
2008, n. 161.
[7] Così Corte cost. 23 marzo 2007, n. 103, cit.
[8] In proposito si v. C. Spinelli, Buona amministrazione, efficienza organizzativa e produttività del lavoro: poteri e responsabilità del dirigente pubblico, in Lav. pubb. amm., 2009, 985
e ss.
[9] In proposito sia consentito rinviare a La dirigenza nelle amministrazioni dello Stato ex
capo II, titolo II, d.lgs. n. 29 del 1993 (il modello universale), in Arg. dir. lav., 2001, 51 ss.; e
Una riforma a passo di gambero, in Lav. pubb. amm., 2001, 55 ss.
[10] Cfr. A. Bellavista, La figura del datore di lavoro pubblico, in ww.aidlass.org; A. Boscati,
Il lavoro negli enti locali dopo le riforme. Problemi risolti e questioni aperte, in G. Zilio
Grandi (a dura di), Il lavoro negli enti locali: verso la riforma Brunetta, Torino, 2009, 26 ss.
[11] Così nel già citato La dirigenza …, cit., 51 ss.
[12] Criticamente sul sistema di valutazione v. S. Mainardi, Fonti, poteri e responsabilità
nella valutazione del merito dei dipendenti pubblici, in Lav. pubb. amm., 2009, sp. 746 ss.
[13] Sia consentito. A. Boscati, Dirigenza pubblica …, cit., sp. 53 e ss.
[14] Sul rapporto tra dirigenza e performance si v. G. Nicosia, La gestione della performance dei dirigenti pubblici: an, quando, quis e quomodo della “misurazione” e “valutazione”
individuale, in WP C.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 103/2010.
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