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77 Non fate troppi pettegolezzi: un esame di coscienza di Vito

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77 Non fate troppi pettegolezzi: un esame di coscienza di Vito
Non fate troppi pettegolezzi: un esame di coscienza
di Vito Santoro
«Questo libro non è un saggio di critica letteraria» e neppure «un libro di
fiction e di memorie», si tratta piuttosto di «un esame di coscienza». Avverte
subito Demetrio Paolin in Non fate troppi pettegolezzi. Secondo il
critico e romanziere, già autore dei notevoli Il mio nome è Legione e La
seconda persona, scrivere è un atto morale, è una di quelle risposte di
prassi a disposizione dell uomo per rispondere al male dell esistenza.
Tra le tante proposte della giovane e dinamica casa editrice barese
Liberaria di Giorgia Antonelli, spiccano per originalità e qualità I
metronomi, agili volumi che mirano a misurare il ritmo della vita
quotidiana dal costume alla politica, dal lavoro alla cultura
attraverso una particolarissima e inusuale unità di misura: la
dipendenza. Niente di psicopatologico e nevrotizzante però. Su
invito dell ideatrice e curatrice della collana, l editor Alessandra
Minervini, ogni autore racconta con un tono all insegna dell ironia
e dell understatement, una propria dipendenza positiva , e a volte
inaspettata, verso oggetti, abitudini o stili di vita, persino i rifiuti,
che in quanto tali rientrano nella comune routine quotidiana.
Si colloca in questa collana Non fate troppi pettegolezzi, dove il
critico e romanziere Demetrio Paolin riflette sulla propria dipendenza dalla scrittura attraverso le figure di quattro grandi autori
accomunati dall esser nati o dall aver vissuto gran parte della propria vita a Torino e in questa città essersi dati anche la morte. Si
tratta di Emilio Salgari, Cesare Pavese il titolo del libro riprende il biglietto di suicidio lasciato proprio dall autore de La
casa in collina il 27 agosto 1950 nella sua camera all Hotel Roma
Primo Levi e Franco Lucentini. Tuttavia avverte subito l autore
«questo libro non è un saggio di critica letteraria» e neppure «un
libro di fiction e di memorie»: si tratta piuttosto di «un esame di
coscienza». Non è casuale l evidente e quanto mai impegnativo
riferimento al Renato Serra di Esame di coscienza di un letterato
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(1915), per il quale, lo ricordiamo, non ci può essere coscienza
letteraria senza stabilire con la letteratura una relazione che
implichi tutto l essere. Infatti Paolin individua l ossessione più
intima e segreta di ogni scrittore quindi anche la propria nel
«fare una sorta di scala 1:1 tra ciò che vive e ciò che scrive», cioè
nel dar conto, per ogni oggetto del discorso, dell irriducibilità del
suo punto di vista. Non solo. Lo scrittore deve problematizzare e
sensibilizzare il lettore, responsabilizzandolo; deve sperimentare,
sul farsi, i possibili percorsi della ragione di un evento, di
un opera, di un uomo. Quando questo anello tutto morale tra
scrittura e vita si spezza, il suicidio diventa un opzione possibile,
se non l unica.
Per questa ragione Emilio Salgari decide di suicidarsi al numero 27 della strada Val San Martino Superiore, in modo cruento e
quasi rituale, sgozzandosi dopo aver scritto un biglietto invettiva
ai propri editori, i quali lo costringono a ritmi infernali con contratti capestro: a lui, precario della conoscenza ante litteram, e alla
sua scrittura viene chiesto di inventare un mondo completamente
diverso da quello a lui contemporaneo. In questo senso osserva Paolin la morte di Salgari segna anche la fine dei romanzi
d avventura. E poi in quegli anni si sta affermando un nuovo
medium: il cinema, capace di costruire mondi di fantasia come se
fossero veri, cosa che la letteratura non è in grado di fare. Proprio
quel cinema che tanti soggetti ricaverà dal corpus salgariano. Dunque «il gesto del suicidio, il testo del biglietto di addio, hanno una
connotazione più strettamente legata alla sua esperienza di scrittore che non a quella di uomo». Il suicidio di Salgari allora non
può essere soggetto a interpretazione , ma va letto «come se fosse parte di un testo».
Invece, a proposito di Pavese, Paolin si chiede perché quello
che, a ragione, viene annoverato tra i massimi romanzieri italiani
del Novecento, ha voluto che sulla propria lapide campeggiasse
l epigrafe «Ho dato poesia agli uomini»? Probabilmente perché ha
voluto assumere su di sé le fattezze di Orfeo, ha voluto fare coin78
cidere la propria esperienza con quella del mitico cantore. Percorrendo originalmente una parte dell opera di Pavese, Paolin osserva come egli sia disceso negli inferi per mostrare che «l uomo non
è altro che nulla nel momento in cui muore, nel momento in cui
varca le soglie dell Ade»: la vita è sempre uguale a se stessa e neppure l amore può svolgere una funzione salvifica. Così nel Mestiere
di vivere può scrivere queste righe: «Non ci si uccide per amore di
una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci
rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla».
Il suicidio di Primo Levi è il risultato della vergogna di essere
un sopravvissuto, un salvato, che porta sulle spalle il fardello insostenibile di essere venuto in qualche modo a patti con il male.
Una vergogna progenitrice di demoni che la pagina scritta, nonostante la sua olimpica e razionalissima geometricità, non riesce a
umana, ma anche i luoghi in cui vive»: «Levi osserva Paolin
vive a Torino, ma non è Torino. È come se fosse in esilio, come
se le strade per lui familiari di colpo diventassero luoghi in cui gli
viene mostrata la condizione di esule e sopravvissuto».
Anche Franco Lucentini decide di concludere la propria vita
gettandosi dalle scale della sua abitazione in piazza Vittorio Veneto, angolo via Po, il 5 agosto 2002. Curiosa la storia di questo
scrittore e traduttore. Anzi le storie, perché Lucentini è uno scrittore che vive due volte: la sua prima vita inizia e si conclude nel
1951, con l esordio straordinario nella collana I gettoni diretta da
Vittorini con il romanzo breve I compagni sconosciuti (1951); poi la
scelta di dedicarsi alla narrativa di intrattenimento alto intrattenimento ovviamente in coppia con Carlo Fruttero. Probabilmente Lucentini applica alla narrativa la massima adorniana
dell impossibilità della poesia dopo Auschwitz. La scrittura può a
volte toccare la verità, ma a volte sfuma, non ci riesce. Allora
diventa inevitabile il salto nel vuoto. E per rafforzare questa ipotesi, Paolin chiama in causa il Walter Benjamin del saggio su
Leskov, dove la condizione dello scrittore viene paragonata a
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quella di un morente: «si scrive perché si è sul limitare della vita,
perché si sente quel tremulo sottile del sangue che gira ancora nel
corpo».
Ma la vera protagonista di NFTP è Torino, la città dove Paolin
vive e lavora. La Torino il cui fascino è fatto di «una misura, una
sobrietà, un algida lontananza, disinteresse per i fatti del mondo».
Una «città pudica, il cui male è velato, nascosto lontano», pronto
però a riaffiorare di tanto in tanto. Del resto, conclude l autore,
«si cammina in maniera più o meno consapevole come morituri;
poi, infine, un giorno, quando tutto è chiaro, come le montagne a
corona di Torino nei giorni di sereno, si salta».
«L unica possibile risposta al male è una risposta di prassi»
di Demetrio Paolin
incontro con Vito Santoro
Mi sembra che tanto nella tua produzione saggistica quanto
in quella narrativa sia presente una riflessione sulla capacità
della scrittura di affrontare, e magari redimere, la sofferenza
del vivere. Non a caso, la figura di Primo Levi, oggetto della
tua tesi di laurea, con la sua costante interrogazione sul senso della vita e della memoria, è il tuo riferimento culturale
Io ho sempre pensato che scrivere fosse un modo per salvare
dalla gola del leone (il riferimento è al celebre brano del profeta
Amos nelle scritture) almeno un resto delle persone che amiamo,
che incontriamo e che attraversano le nostre vite: tutte destinate a
scomparire, e a morire. Il tempo, la malattia fanno il loro lavoro e
spesso, sin da piccolo, mi colpiva come di quelle persone, poi,
non rimanesse nessuna tangibile traccia, a parte le storie raccontate su di loro. La scrittura è una tenue resistenza a questo svanire. La salvazione (la redenzione, a cui tu fai riferimento) è in
realtà opera di resto , si cerca di togliere dalla bocca un pezzo,
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una parte, una particella dell esistenza dell amato che durerà fino
quando le parole rimarranno vive in chi le legge. Io spesso mi vedo circondato dai fantasmi dei miei cari (quelli vivi e quelli morti)
e dai fantasmi dei personaggi che la mia mente genera. La mia
unica intenzione nell inventare le storie è di dare loro un posto,
un luogo che li tenga ancora vivi.
In questo senso il magistero di Levi è fondamentale, perché mi
insegna che non può esistere nessuna risposta teologica o ontologica al male. Il male, nonostante tutto, è presente nel mondo e
contro questa sua presenza si può solo opporre un argine, una
siepe che lo freni. L unica risposta al male, l unica possibile, è una
risposta di prassi . E la mia prassi è la scrittura. C è da aggiungere che la salvazione non è comunque destinata a chi pratica la
scrittura. Chi scrive non si salva, anzi è condannato a vivere su di
sé, nei modi più disparati e diversi, il fallimento della propria
opera, che tenta di salvare ciò che per sua natura è destinato alla
consumazione (nessun libro o racconto riporterà in vita un amato
che è morto).
Non fate troppi pettegolezzi è inserito in una collana della
giovane casa editrice barese Liberaria dedicata alle dipendenze . Ebbene, come è nata la tua dipendenza dalla
scrittura?
Io vengo da una famiglia semplice e ho vissuto una parte della
mia vita in un piccolo paese del Monferrato, dove non c erano né
biblioteche, né cinema o librerie. Non so bene quando è nato in
me quel desiderio importante e impellente di leggere libri, di ricopiare le pagine che più mi colpivano su un quaderno e di imparare
a memoria i passaggi più salienti. Deve essere accaduto qualcosa
nella mia vita di adolescente tra i 13 e 16 anni che ancora non ho
ben chiaro, ma che mi ha portato a essere l uomo che sono. È un
sentimento, che un religioso potrebbe chiamare vocazione, ma
che in realtà non so delimitare. Sta di fatto che la mia dipendenza
dalla scrittura è nata dalla dipendenza delle scritture altrui, dai libri
letti e riletti, dagli studi universitari. A un certo punto poi ho
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sentito il bisogno di dire cose, e di farlo secondo un mio immaginario e secondo un disegno preciso. Questa seconda dipendenza
è qualcosa che sento a tempo . So che ho delle immaginazioni
da declinare in storie, ma so che queste storie prima o poi finiranno, e la mia testa non ne produrrà più. Io guardo quel giorno
come il tossico guarda la possibile fine della sua dipendenza con
un misto di gioia e disperazione. Scrivere mi piace, mi piace sedermi e dire una cosa nel modo preciso, in cui balugina nella mia
testa. Nello stesso tempo scrivere mi stanca perché il prodotto
finito non è mai come io l ho pensato, c è sempre una tensione
irrimediabile tra il fatto e il dire (per citare due categorie molto care al mio amato prof. Marziano Guglielminetti), e questa tensione fa sì che io spesso e volentieri viva separato da me stesso
con la mente e i pensieri sempre rivolti a quel mondo di parole.
Fortunatamente, come ti dicevo, mi rendo conto che le storie che
ho da dire sembrano diminuire. E, quindi, verrà il giorno in cui
non avrò più nulla da scrivere e mi rimarrà solo la curiosità di
vedere in che modo affronterò la fine dell esercizio della scrittura.
In Non fate troppi pettegolezzi ti confronti con quattro
autori molto diversi tra loro, come Salgari, Pavese, Levi e
Lucentini, accomunati dall ambiente torinese in cui hanno
vissuto e lavorato, oltre che dalla scelta di porre fine volontariamente alla propria esistenza. Vi è tuttavia un quinto
autore che pervade le pagine del libro, vale a dire Renato
Serra, che nella sua breve vita aveva stabilito un nesso ineludibile tra morale e letteratura. Del resto tu stesso definisci
questo libro un esame di coscienza.
Mentre andavo componendo NFTP, scrivendolo la mattina
prima di andare al lavoro, più volte mi è tornata in mente la figura
di questo intellettuale che dalla periferica Cesena aveva uno sguardo critico acutissimo su tutto quello che la letteratura italiana del
periodo produceva. Mi piaceva in primo luogo proprio questo
suo essere fuori fuoco, cosa che gli ha permesso di elaborare una
originale idea della critica letteraria. NFTP vuole essere qualcosa
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di simile, un idea di critica letteraria che non sia accademica, che
non sia neppure semplice narrazione, ma un ibrido complesso in
cui l io del critico si mescoli con la materia che studia. Io ho sempre avuto in uggia la purezza e quindi anche nella scrittura cerco
di produrre testi il più possibili ibridi. Non è un caso che tra i
miei scritti preferiti di Levi e di Pavese ci siano opere come I sommersi e i salvati o I dialoghi con Leucò, che sostanzialmente sono testi
difficilmente qualificabili in un genere. In più, come dici tu, di
Serra mi interessava questo stretto rapporto tra la letteratura e la
morale che è il punto focale de L esame di coscienza di un letterato.
L esempio di Serra è di stretta attualità: ribadire il primato della
letteratura, ma ribadirlo in modo ironico e trascurato, credo che
sia il modo per fare i conti con una società in cui la parola intellettuale è stata bandita o privata del suo significato, in cui scrittura, lettura e critica letteraria sono sempre meno importanti; e
dove i giudizi sono espressi in un tweet, o in uno status sui social
network. Chiamarsi fuori da tutto questo, essere completamente
inattuali e cercare di ribadire il primato della parola scrittura, mi
sembra un ottimo lascito.
Emilio Salgari è uno scrittore completamente diverso dagli altri tre, certamente più colti e più, per così dire, intellettuali. Da cosa deriva il tuo interesse nei suoi confronti? Tu
non appartieni a quella generazione che impazzì per il
Sandokan televisivo di Sergio Sollima.
Io ho conosciuto e letto Salgari tardi, a 26 anni compiuti, complice un convegno di salgariani a Torino in cui Luis Sepúlveda
disse una frase del genere: «Non sei un uomo se non hai letto Salgari». E questo accese in me lo stimolo per confrontarmi con
questo scrittore. E sì, effettivamente il Sandokan televisivo non
mi aveva più di tanto colpito, quindi mi sono messo alla lettura di
Salgari con sguardo smaliziato e nonostante tutto sono stato
colpito dalla incredibile capacità di questo scrittore di inventare
storie.
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Per chiunque scriva l impulso primario è quello di prendere
voce e far sì che l ascoltatore lo segua fino alla fine. In questo
senso certi cicli di Salgari (penso a Sandokan) o certi romanzi
(penso a Lara, la figlia del Corsaro Nero) sono macchine narrative
che al di là di oggettivi limiti ti tengono incollato alla pagina e
riportano la scrittura e il raccontar storie a un momento primordiale, che io immagino così: alcune persone intorno a un fuoco e
qualcuno prende la parola e racconta quello che è successo quel
giorno durante la caccia. E l episodio del racconto diventa qualcosa di enorme che riguarda la vita di tutti, e tutti coloro che
ascoltano sentono questo, e quindi lasciano perdere ciò che stanno facendo e rimangono incantati dal racconto. Certe volte con
Salgari ti capita qualcosa del genere.
Curiosa la tua lettura del suicidio di Emilio Salgari come
sconfitta della letteratura o meglio, di un certo tipo di
narrativa di intrattenimento costretta a cedere il passo al
Questa interpretazione mi è venuta alla mente, mentre pedalavo lungo la Dora e mi sono ricordato che negli anni in cui Salgari componeva le sue storie qui a Torino, queste vie vedevano
nascere la prima industria d intrattenimento italiana. Ho immaginato che Salgari avesse in qualche modo potuto vedere le potenzialità della settima arte e si fosse reso conto, essendo lui uno
scrittore d immaginario, che il cinema potesse derubricare la potenza delle sue narrazioni; è che questo fosse un segno dei tempi
ovvero che i suoi eroi e lui stesso fossero diventati passati e vecchi. So che questa è una ipotesi estravagante , ma ha per me di
positivo che vede il suicidio di Salgari slegato da qualsiasi tentativo di interpretazione psicologica del gesto. Credo che questo sia
uno dei punti chiave del saggio; il suicidio degli autori non
viene interpretato secondo derive psicologiche o scavando nel
privato, ma provando a dare spiegazioni d immaginazione, inventando una storia che renda comprensibile a chi legge il gesto del
levare la mano contro di sé.
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Per quanto riguarda Pavese, ritengo che sia stato particolarmente importante per la tua formazione il magistero universitario di Marziano Guglielminetti, cui il libro è dedicato,
uno dei massimi interpreti dell opera dello scrittore toriIl magistero di Marziano Guglielminetti è stato per me fondante. Senza di lui non credo che avrei comunque mai provato a
scrivere qualcosa di mio e di critico. Guglielmenetti è riuscito a
farmi vedere Pavese come autore e scrittore, mentre nella mie letture giovanili Pavese esercitava su di me più un fascino di prossimità in quanto condividevamo un luogo e tematiche simili. Guglielminetti mi ha guidato criticamente per mettere in ordine la
figura di uno scrittore di prima grandezza, nell approfondire le diverse e molteplici caratteristiche della sua scrittura.
Come mai ti sei concentrato di più sulla produzione
poetica di Pavese rispetto a quella narrativa, più celebrata e
canonizzata?
Ci sono diverse tensioni che mi hanno portato a questa scelta.
La prima è stata la riproposizione nei tascabili Einaudi delle Poesie,
con la curatela di Maria Rosa Masoero e l introduzione di Guglielminetti. Penso che dopo quel lavoro nessuno possa dimenticare,
tra i protagonisti del panorama poetico italiano della prima metà
del Novecento, Cesare Pavese. La seconda è legata a ciò che lo
stesso scrittore di Santo Stefano dice, quando sostiene di aver dato poesia agli uomini. Quindi ho pensato che il vero nocciolo della sua scrittura fosse nelle opere poetiche e nei Dialoghi con Leucò.
Mi interessava approfondire questa mia personale fantasia: Pavese
come Orfeo e, nel leggere le poesie, mi è parso che la tensione a
riconoscersi nel mitico cantore degli Argonauti, fosse qualcosa di
più che un semplice vezzo, ma riguardasse il suo destino di uomo
e di scrittore. Infatti, se vogliamo, anche il destino di Orfeo è una
faccenda di donne , ma nella realtà come bene lo descrive Pavese nel dialogo L inconsolabile, in quel gesto amoroso e romantico,
dell uomo che scende negli inferi per riavere la propria donna si
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nasconde qualcosa di più. Si nasconde la ricerca del proprio destino, che è qualcosa di remoto e antico, che niente e nessuno
neppure dio può toccare.
Il quarto autore è Franco Lucentini, autore di due libri
straordinari, I compagni sconosciuti e Notizie dagli scavi,
pregevolmente curati da Domenico Scarpa. Questi due romanzi brevi, o racconti lunghi, non sono mai stati considerati alla stregua di classici, forse per la scelta dello scrittore di dedicarsi alla narrativa di genere con Carlo Frutoppure per l understatement dello stesso Lucentini. Lucentini è
uno scrittore che ha una idea così grande della letteratura che le
sue opere gli paiono non essere degne. Di tutti e quattro gli
autori, Lucentini mi sembra il più consapevole dello scacco che
subisce la letteratura, tra l idea di grandezza che ispira e i reali
risultati. Lo dicevo in NFTP: il sogno di ogni scrittore sarebbe di
riuscire a fare in modo che il pensiero e la pagina scritta potessero
coincidere perfettamente con l oggetto della scrittura. Questo
però non avviene e la scrittura è un arte votata al fallimento e alla
caduta. In Lucentini questo sentimento si avverte potentissimo
nel suo primo romanzo I compagni sconosciuti, dove si respira un aria
di bancarotta, di fine e sconfitta che avvolge ogni cosa, compresi
la lingua, il discorso e la cultura. È come se Lucentini ci dicesse
che la letteratura che lui ha amato, che noi abbiamo amato e studiato, non fosse più di questo tempo, perché la letteratura aveva a
che fare con un idea di uomo, di essere umano, con un tipo di
umanesimo che è rimasto sepolto dalle macerie della seconda
guerra Mondiale. E da questa consapevolezza nasce la scelta di
scrivere opere di genere in modo di mettersi al servizio del lettore. È questo di certo una scelta in minore, ma che indica ancora
una residuale fiducia nell opera dello scrittore, e a quel resto
ognuno s aggrappa sperando di fare il meglio che può, con le
parole che ha.
[email protected]; [email protected]; @santoro_vito
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