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L`appetito vien coltivando

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L`appetito vien coltivando
L’appetito vien
coltivando
Forme di verde condiviso
Tesi di
Sonia Zanzi
754691
Relatore: Davide Fassi
a.a. 2011-2012
Politecnico di Milano
Scuola del design
Corso di laurea Magistrale in Design degli Interni
Indice
Abstract
2
Il cibo
5
Il rapporto uomo-cibo
Il cibo come attivatore sociale
7
Gli orti comunitari
Progetti collaborativi e
innovazione sociale
87
23
Orti comunitari
Il cibo come fatto culturale
83
105
43
I luoghi del cibo
65
Conclusioni
81
Orto urbano ≠ Orto comunitario
108
Orto comunitario come attivatore sociale
117
Orto comunitario come veicolo culturale
125
Orto comunitario come strumento di
riqualificazione urbana
137
Conclusioni
149
1
Coltivando
153
Contesto
155
Processo e sviluppo
177
Modello di servizio
189
Progetto
201
Riferimenti
213
2
Abstract
Il fenomeno diffuso della migrazione nelle
metropoli, così attuale al giorno d’oggi, porta
con sé diverse conseguenze, una tra queste è il
forte individualismo che caratterizza il contesto
socio-culturale attuale. Gli spazi sono così vicini
mentre le distanze tra gli individui sono così
ampie da sembrare insormontabili. Ed è così che
si trovano a far convivere nell’ambito di pochi
kilometri realtà completamente diverse.
Benché Milano abbia dimensioni ridotte, nel
suo piccolo questo genere di tensioni è presente
anche qui ed è nel tentativo di superare questi
conflitti tra mondi diversi che occupano spazi
attigui che si è pensato di realizzare un orto
conviviale all’interno dei confini del campus
Durando del Politecnico di Milano. Questo
progetto nasce dalla convinzione che gli spazi
universitari siano luoghi pubblici, che tutti
possono vivere ed utilizzare. Il carattere pubblico
del campus, però è sconosciuto al quartiere,
che vede il Politecnico come una realtà a parte:
un’entità che si è insediata, occupando aree
dismesse e creando una sua comunità, formata
da studenti, professori e lavoratori che nella
maggior parte dei casi vivono la Bovisa solo in
funzione dell’università.
Essendo presente all’interno delle mura
universitarie uno spazio verde da riqualificare,
si è pensato di utilizzarlo come ponte tra le due
realtà: l’università ed il quartiere.
Si vuole proporre la realizzazione di uno spazio
conviviale, che sia gli studenti che gli abitanti
della Bovisa possano condividere, che sentano
proprio, e di cui prendersi cura.
Il luogo che per eccellenza l’uomo sente come
proprio, in cui si sente a suo agio e di cui si
prende cura è la casa. La casa è il luogo della
famiglia, degli affetti, che si trasforma a seconda
delle esigenze del nucleo familiare. Da sempre,
il momento in cui tutti i membri si riuniscono è
il pasto; nonostante la società contemporanea
occidentale sia caratterizzata da ritmi frenetici, e
si stia sempre meno dentro le mura domestiche,
le feste e le celebrazioni sono ancora i momenti in
cui la famiglia si incontra.
In molti casi ci si ritrova in luoghi pubblici, ma
sempre attorno ad un tavolo e si consumano dei
prodotti alimentari. La stessa ritualità avviene
anche tra amici, ed in altri ambiti: pranzi e cene
di lavoro sono sempre più all’ordine del giorno.
ambientale, delle trasformazioni che ha subito,
ecc.
All’interno del campus si è quindi deciso
di realizzare un orto collettivo, sfruttando
l’elemento cibo come catalizzatore sociale, ma
anche come veicolo culturale, per trasmettere
un nuovo stile di vita, un nuovo modo di sfruttare
gli spazi pubblici, di riappropriarsi di angoli
che sarebbero della collettività ma che nessuno
sente come propri per il fatto che spesso sono
abbandonati o sono ubicati in luoghi che non si è
soliti frequentare.
Dato il contesto in cui si lavora, caratterizzato
da un forte dinamismo dovuto al fermento
progettuale peculiare delle facoltà presenti, lo
spazio che si è deciso di progettare si configurerà
come un luogo in divenire, un laboratorio verde,
in cui tutti i partecipanti potranno sperimentare,
e partecipare ad eventi e attività che vanno oltre
la mera coltivazione. Uno spazio in divenire, che
gli agricoltori urbani trasformeranno giorno
dopo giorno, dal momento in cui pianteranno il
primo seme.
Si vuole quindi fornire uno spazio e un servizio,
un sistema in cui tutti possano partecipare,
collaborare e mettere a disposizione alcune ore del
proprio tempo libero al servizio della comunità. Il
compenso sarà non solo la soddisfazione di poter
consumare prodotti coltivati da sé, ma anche
il vedere la trasformazione, il miglioramento
qualitativo di uno spazio grazie alla propria
partecipazione.
L’orto urbano è un’esperienza che sta sempre
più prendendo piede, che nasce dalla voglia dei
cittadini di reinserirsi all’interno della filiera dei
prodotti, dalla terra alla tavola.
Si tratta di realtà in cui vengono coltivati prodotti
alimentari, e dove contemporaneamente si
coltivano relazioni, conoscenze, e amicizie. Sono
luoghi in cui è fondamentale la partecipazione
attiva di tutti coloro che sono interessati al
progetto, e in tutte le fasi di sviluppo dell’orto, dato
che, lavorando con elementi vivi, che evolvono,
non vi è un risultato finale prestabilito.
Perché mettere il cibo al centro di questo
progetto? L’attenzione al bello, e la ricerca della
perfetta forma fisica che caratterizzano la società
attuale fanno emergere nuove tematiche, quali
la genuinità degli alimenti e la loro freschezza.
Soprattutto in Europa si sta sempre più
diffondendo una nuova consapevolezza intorno
all’alimentazione: si sta affermando un nuovo
stile di vita, in cui il consumatore si preoccupa,
non solo di dove e cosa consuma, ma anche
dell’origine di ogni prodotto, del suo impatto
Si vogliono proporre diversi scenari di possibili
evoluzioni ed espansioni dell’orto conviviale a
partire dal momento della costruzione iniziale,
fino a come apparirà il luogo dopo un anno di
lavoro collettivo.
3
4
CAPITOLO 1
Il cibo
7
Il rapporto
uomo-cibo
8
1
San Alberto Magno 1206-1280, detto
Doctor Universalis, fu un religioso
domenicano tedesco. Papa Pio XI
nel 1931 lo proclamò Dottore della
Chiesa, e un decennio dopo Papa Pio
XII lo dichiarò patrono dei cultori
delle scienze naturali.
2
Regimen sanitatis salernitanum,
è un trattato a carattere didatticodidascalico in versi latini redatto
nell’ambito della Scuola Medica
Salernitana nel XII-XIII secolo.
Espone le indicazioni della Scuola
per tutto ciò che riguarda le norme
igieniche, il cibo, le erbe e le loro
indicazioni terapeutiche. Dopo la
prima stampa – 1480 – raggiunse
un’enorme popolarità ed era tenuto
in grande considerazione come testo
didattico per l’insegnamento e la
divulgazione della medicina, tanto da
essere utilizzato fino al XIX secolo,
e tradotto in quasi tutte le lingue
europee.
L’uomo ha bisogno di nutrimento: di lipidi, di
proteine, di sali minerali, di vitamine, presenti
nei prodotti naturali, e non può ingerirli,
incorporarli se non sotto forma di alimenti, cioè
di prodotti naturali culturalmente costituiti e
valorizzati, trasformati e consumati nel rispetto
di un protocollo d’uso fortemente socializzato.
Gli alimenti o cibi sono, per definizione, ogni
sostanza che sia in grado di fornire energia,
materiale per i tessuti o catalizzatore chimico a
qualsiasi organismo vivente. Specificatamente
per l’uomo gli alimenti sono, a tutti gli effetti,
organismi animali, vegetali e loro derivati che
la specie umana ha selezionato nel corso dei
millenni in relazione alla loro reperibilità e
alla loro capacità di rispondere ai bisogni di
sostentamento biologico.
L’idea che l’alimentazione sia importante per il
benessere fisico e psichico ha origini lontane. Il
cibo è considerato una fonte di energia, un dono
che viene dal cielo di cui, perciò, non abusare,
ma che va consumato nel giusto modo. Il male
del cibo è legato soprattutto all’eccesso; solo
riti legittimati consentono, in rare occasioni di
trasgredire.
Per molti secoli il saper guarire e il saper vivere
sono una sola cosa. La medicina e le regole
del vivere sano diventano un unico elemento
all’interno di una filosofia di vita organica.
Un corpo sano deve essere quotidianamente
accudito e nutrito, in modo che si conservi integro
e venga preservato dal rischio di contaminazioni.
Gli aspetti essenziali dell’arte del vivere razionale
comprendono il giusto impiego di cibi e bevande,
il giusto equilibrio tra corpo e quiete, la difesa
del corpo dall’eccesso o dalla carenza di sonno, il
controllo delle passioni e delle emozioni.
I consigli sull’alimentazione sono veicolati dai
medici, ma prima ancora dai religiosi: San Alberto
Magno1 dedica all’alimentazione un intero
trattato dal titolo De nutrimento et nutribili. In
esso si consiglia di badare più alla qualità che alla
quantità, di smettere di mangiare quando ancora
ci si prova gusto, di conoscere alla perfezione il
processo alimentare in tutti i suoi effetti.
Nel XIII secolo il Regimen Sanitatis Salernitanum2
diviene il libro di igiene più popolare ed è tradotto
in diverse lingue volgari. Il regolamento dietetico
occupa un ruolo centrale: di che genere, che cosa
e quanto, quando e dove si servano i cibi, il medico
9
deve insegnarlo e mostralo. Il capitolo alimentare
si chiude con un appello alla moderazione nel
mangiare e nel bere.3
È comprensibile che il cibo nell’antichità fosse
oggetto di paure e di preoccupazione: esso
poteva essere causa di gravi malattie. Il cibo
non era gioia, ma casomai condizione di una
vita equilibrata, all’insegna della parsimonia. Il
cibo, però, era tutt’altro che disprezzato: aveva,
anzi, una centralità come via di congiunzione tra
materia e spirito, termine che propone una sorta
di mediazione tra corpo e anima.
Il cibo come piacere esplode con il Rinascimento.
Con le conquiste di benessere, quando il fantasma
della carestia si allontana, l’uomo si riappacifica
con la natura; finiscono le grandi epidemie e anche
i prodotti della terra diventano più abbondanti:
rifiorisce la gioia di vivere. Rabelais, alla metà del
Cinquecento, descriverà il cibo come esplosione
della sensualità, come l’esasperazione della gioia
di vivere.4 Trionfa l’abbondanza, il gusto della
sorpresa, dell’ostentazione: nel Seicento e nel
Settecento la cucina acquista valore estetico.
3
Schipperges H., Il giardino della
salute. La medicina nel medioevo,
Garzanti, Milano, 1988
4
Bachtin M., L’opera di Rabelais e la
cultura popolare, Einaudi, Torino,
1979
10
Cibo-corpo
Il corpo è pensato, è un prodotto della nostra
mente, è il risultato delle nostre azioni, non
più solo un dato fisico. In questo contesto si
colloca l’uso del cibo come espressione di una
disciplina di interiorizzazione e di un controllo
individualizzato del corpo e degli stili di vita.
L’idea che l’adozione di un regime alimentare
giusto abbia effetti benefici e garantisca la
longevità è diffusa in molti contesti culturali ed è
enfatizzata dalle medicine orientali, ad esempio
quella ayurvedica, che fa dell’alimentazione una
strategia di guarigione, in cui il cibo condiziona la
natura di chi lo assorbe.
La relazione cibo-corpo si colloca all’interno
della trasformazione del corpo da elemento
naturale a oggetto culturale. Le pratiche
dell’io rappresentano le risposte individuali
agli imperativi esterni e si inscrivono nel
corpo segnandolo e modellandolo in modi
culturalmente specifici, correlati al sistema delle
interazioni e al contesto sociale. Soprattutto
l’equilibrio non deriva più dall’adesione all’ordine
naturale, ma corrisponde a un compito e quindi
deve essere perseguito e meritato.
Il nutrimento del corpo con cibi considerati
appropriati fa parte delle pratiche fondamentali
con cui ognuno si prende cura di sé. Ciò è decisivo
in un tempo in cui l’aspetto fisico è centrale nello
spazio sociale come nella percezione individuale.
Il richiamo diffuso alle preoccupazioni per la
salute si sviluppa in parallelo all’affermarsi della
presenza del corpo sulla scena sociale.
11
Cibo-corpo-benessere
In virtù della straordinaria centralità del corpo,
il cibo è di nuovo oggi la strada privilegiata verso
la salute. Il concetto di salute si arricchisce di
significati, acquista una portata semantica ben
più ampia, ingloba l’idea di benessere psicofisico
generale: stare bene è nel contempo vivere meglio,
essere in forma, migliorare l’immagine. Mentre
l’ideale di bellezza coincide sempre di più con
lo stare bene nella propria pelle, si realizza
un collegamento fondamentale tra benessere
interiore e bellezza esteriore. Corpo e spirito
non son più contrapposti, ma vengono riproposti
in un binomio indissolubile; l’obiettivo è la ricerca
dell’equilibrio e della stima di sé. Ciò avviene
mentre cresce la proiezione verso il piacere: si
allontana l’ottica della rinuncia, si rifiutano le
diete restrittive, si afferma la continua ricerca
della ‘formula magica’ in grado di coniugare
piacere, bellezza e benessere. La riduzione della
quantità imposta dalle diete contribuisce a porre
l’enfasi sulla qualità: se il cibo deve essere leggero
e, soprattutto, poco, che sia almeno squisito, per
consentire di sopportare le privazioni dei pasti
abbondanti e senza limiti.
Contemporaneamente all’emergere di una sorta
di mito delle origini, che cerca nella tradizione la
genuinità perduta, si afferma un uso sofisticato
della scienza e delle tecnologie per proporre
alimenti che siano veri e propri strumenti di
risanamento. I cibi biologici in questo orizzonte
culturale in cui forme di razionalità si mescolano
con rappresentazioni magiche e i saperi scientifici
convivono con la produzione di nuovi miti. La
diffusione di nuovi prodotti - biologici, vegani,
ecc.- indica come sia forte il bisogno di nuovi
riferimenti e regole alimentari, in un mondo che
sembra aver perso orientamenti certi.
Il cibo diviene una via per la salute e ciò produce
una sorta di medicalizzazione dello stesso. Il
neologismo alicamenti5 dimostra la continuità
tra alimento e medicamento. L’espressione healty
style, che il marketing fa propria per definire la
modo di valorizzare comportamenti improntati
alla salute, esprime la tendenza diffusa a
scandire la quotidianità con pratiche e consumi
orientati al mantenersi in forma. L’ideale di
una perenne giovinezza ha enfatizzato il ruolo
del cibo come strumento di difesa dai danni
dell’invecchiamento.
L’insieme strutturato di regole che corrispondono
ad una corretta alimentazione crea un ordine
5
Richard Béliveau, D. Gingras,
L’alimentazione anti-cancro, 2009;
Alicamenti: alimenti costituiti da
composti che possiedono proprietà
antitumorali;
modificando
le
abitudini alimentari, eliminando
cibi cancerogeni ed integrando
l’alimentazione quotidiana
12
6
Nutrigenomica: scienza della
nutrizione, idealmente collocata tra
la medicina e la biochimica. Cerca con
metodi scientifici di capire i processi
della nutrizione, da quelli digestivi
a quelli metabolici dell’essere
umano; esamina la risposta degli
individui ai diversi componenti
alimentari, utilizzando tecnologie
post-genomiche – ad esempio la
proteomica, la trascrittomica, la
genomica ecc.- L’obiettivo a lungo
termine è quello di capire come
il corpo reagisce agli alimenti
utilizzando un approccio integrato
denominato ‘biologia dei sistemi’; il
vantaggio di questo approccio è che
esamina le persone – sia popolazioni
che singoli individui – lo stadio
della loro vita, lo stile di vita, il cibo
e le sue abitudini senza preconcetti.
Definizione data dall’Organizzazione
Europea sulla Nutrigenomica
7
Raffaello Cortina, Una felicità
paradossale, Milano, 2007
rassicurante e, nel contempo, liberamente
assunto.
Molte ragioni spiegano questo interesse per
l’impatto del cibo sulla salute: da un lato, un
ampliamento della concezione di salute che non
si limita all’assenza di malattia, ma si allarga
a comprendere stati di benessere complesso;
dall’altro, l’idea che l’alimentazione rappresenti
una componente essenziale del benessere.
Si afferma una scienza, la nutrigenomica6, che
studia le componenti bioattive del cibo. Si
propongono persino alimenti che si dichiara
agiscano sui geni, permettendo di prevenire
l’insorgere di determinate malattie e si sviluppa
la ricerca di cibi rivolti ad esigenze specifiche.
Agire riflessivo, condotte responsabili e nuovi
miti di benessere danno luogo ad una crescente
medicalizzazione del corpo. I consumi, lontani
dall’esprimere unicamente una dimensione
ludica, si caricano di compiti crescenti che
richiedono competenze ed apprendimenti.
Soprattutto per il cibo vale quanto afferma
Lipovestky: l’epoca felice e spensierata delle merci
generiche è finita, arriva il tempo degli iper-prodotti
medicalizzati, riflessivi e preventivi, investiti di
preoccupazioni e di dubbi, che sempre più esigono
un agire responsabile da parte dei protagonisti.7
13
Valore
emozionale del cibo
…oltre il sostentamento: riempire il tempo, riempirsi di cibo
Con il cibo e l’alimentarsi hanno a che fare anche
i cinque sensi attraverso i quali percepiamo il
mondo stesso, ne gustiamo le sfumature, ne
sentiamo gli aromi ed i sapori, e ne ammiriamo
i colori. Si dà un significato alla relazione con
il cibo, gli si attribuisce un valore simbolico,
espressivo di noi stessi. Non considerare il cibo
solo come mezzo di sostentamento porta ad
indagare gli aspetti che riguardano la fisiologia
dei sensi e considerare i fattori psicologici, sociali
e culturali che li condizionano. L’impressione che
si ha di un cibo, nel momento in cui lo si assaggia,
è determinata da un insieme di stimoli che
coinvolgono i diversi sensi: le papille sulla lingua
rilevano la sensazione di sapore e la trasmettono
al cervello; in contemporanea, le particelle
volatili che si liberano dal cibo vanno a stimolare
le cellule olfattive e la sensazione globale, legata
al sapore e all’odore. Anche l’occhio vuole la sua
parte: il colore, la forma e l’aspetto di un alimento
possono influenzare la nostra percezione
gustativa, come pure il rumore ed il tatto.
L’emergere dell’individuo si accompagna ad una
forte tendenza all’edonismo: l’etica del sacrificio
e del rinvio è scomparsa. L’epoca delle piccole
felicità non punta a obiettivi generali complessivi,
ma considera la felicità come somma di
esperienze gratificanti; la fatica quotidiana cerca
strade di compensazione, spinge a cercare piccole
felicità, piccole vie di fuga. Il cibo può essere
considerato la strategia di autogratificazione
e a tale proposito entra in questa strategia di
micro felicità quotidiana. Il consumo di cose
dolci e buone ci viene proposto dalla pubblicità
con l’invito a volerci bene, a prenderci cura di
noi, per trovare soddisfazioni che compensino
la frustrazione, per riappropriarci di nicchie
di piacere nell’esistenza privata. Si tratta di un
consumo che ha spesso un valore consolatorio
rispetto alle insoddisfazioni. Già la Nutella, negli
anni ’80, era diventata la metafora della fuga
rasserenante, da quando il film di Nanni Moretti
Bianca contribuì a far entrare nella leggenda il
famoso maxi-barattolo in cui il protagonista si
tuffa a compensare le proprie frustrazioni. Il
benessere si lega a immagini pubblicitarie dolci,
si affermano le consistenze cremose, che nutrono
anche la nostra attesa di morbidezza.
Il successo della cioccolata, sottolineato da
ricerche scientifiche, si deve al fatto che questo
alimento influenza il nostro stato emozionale,
soprattutto in particolari situazioni di stress,
dato che facilita la produzione di endorfine, un
gruppo di oppioidi prodotti naturalmente dal
cervello che stimolano le sensazioni di euforia
e attenuano il dolore. Inoltre, ci viene proposta
anche una motivazione di tipo emozionale, che
associa il cioccolato ad un’immagine di festa,
di incontro, di ricorrenza ed ha di per sé una
valenza ludica. Evoca le emozioni dell’infanzia,
le cure materne e la gioia; allo stesso tempo, però,
appartiene alla categoria dei peccati di gola, il cui
consumo è desiderabile e ansiogeno allo stesso
tempo. A differenza di ciò che si può pensare, il
cioccolato non è prevalentemente un cibo per
bambini, come dimostrano il fatto che il 45%
del consumo riguarda il segmento dai 20 ai 29
anni e il 41% quello dai 30 ai 44; da ciò emerge
con chiarezza il ruolo di cibo compensatorio del
cioccolato.
Noia, nervosismo, stress, delusione, infelicità,
sono tutti stati d’animo che portano ad un
consumo non regolare di cibi, soprattutto di
quelli che esulano da un regime alimentare sano,
dimostrando l’elevato valore emozionale che i cibi
hanno all’interno della nostra vita quotidiana.
15
Foto 1.
Immagine tratta dal film Bianca di
Nanni Moretti
16
Cibo - piacere - salute
Il rapporto piacere-salute, che l’immaginario
contemporaneo tende spesso a percepire in
termini conflittuali, nella cultura premoderna
è stato pensato come un nesso inscindibile,
all’interno del quale i due elementi – piacere
e salute – si rafforzano a vicenda. L’idea che
il piacere sia salutare, che ‘ciò che fa piacere
fa bene’ è un’idea alla base della dietetica
antica. E le ‘regole della salute’ sono anzitutto
regole alimentari, intese non nel senso della
restrizione, bensì dalla costruzione di una cultura
gastronomica.
L’importanza data alla gratificazione orale ha
spinto alla ricerca di prodotti creati per portare
benefici all’organismo e piacere. L’ossessione
della salute si esprime in modo emblematico
nella crescita dei prodotti biologici: le immagini
di salubrità si fondano soprattutto sulla bassa
manipolazione dei cibi: la qualità superiore
giustifica agli occhi di chi consuma un prezzo più
alto. I motivi d’interesse sottolineati da coloro
che li consumano sono per lo più i seguenti: il
biologico esclude l’uso di sostanze chimiche
di sintesi; prevede solo l’utilizzo di concimi
organici o minerali, e tecniche di lavorazione
meno invasive; richiede controlli di organismi
specializzati; non determina impatti negativi
sull’ambiente a livello di inquinamento di acque,
terreni e aria. La conoscenza della certificazione
della qualità si rivela per lo più scarsa e prevale
un atteggiamento di fiducia aprioristico. Tra
le motivazioni di consumo di queste categorie
di prodotti spiccano sia uno stile di vita sano
sia un approccio eticamente corretto al mondo
e all’ambiente. La bontà delle coltivazione o
dei procedimenti viene equiparata all’effetto
benefico degli alimenti sulla salute. L’ossessione
per la salute, associata all’obiettivo di combattere
l’invecchiamento, assume forti connotati di tipo
etico.
17
Sicurezza
alimentare
Oggi che l’alimentazione da arte sta scadendo
a schiava della tecnica, e che la chimica sta
soppiantando la semplice igiene, il consumatore
ha perso il senso delle quattro stagioni e dei frutti
che la terra, in sapiente alternanza, gli offriva.
Il surgelato ha infatti spezzato il ritmo delle
stagioni e offre, in qualsiasi momento dell’anno,
una porzione di natura all’istante, sottratta
alle vecchie, millenarie leggi del sole e dei cicli
stagionali.
In seguito all’ampia diffusione delle industrie
alimentari si è, e si sta tuttora sviluppando
una controtendenza dei consumi. In risposta
all’impersonale
omogeneizzazione
delle
produzioni alimentari, il consumatore è oggi
sempre maggiormente orientato verso la
ricerca di cibi genuini e verso la produzione
artigianale, anche a prezzo di una maggiore spesa
economica e di una reperibilità più difficoltosa.
Un insieme di fattori converge nel produrre un
diffuso sentimento di responsabilità rispetto
all’alimentazione. Si parla di aumento delle
allergie, di piccoli e grandi avvelenamenti di
sostanze cancerogene scoperte dopo anni che
venivano assunte tranquillamente e senza limiti.
Le domande sul cibo ‘buono’ si allargano a
quelle sul cibo ‘giusto’: gli interrogativi su cosa e
quanto produrre non investono più solo il piccolo
segmento degli ambientalisti. Ne sono esempi la
crescente attenzione alle implicazioni ecologiche
della produzione della carne, la consapevolezza
dell’impatto ecologico del trasporto di cibi, la
crescita di attenzione dei governi attorno alla
piaga dell’obesità.
La preoccupazione del cittadino medio di oggi è
dovuta agli scandali alimentari, e non alla carenza
di cibo come 50 anni fa.
Come testimonia il successo del libro di
Pollan8, l’ansia sulla giusta alimentazione
catalizza l’opinione pubblica e si correla con la
preoccupazione che gli equilibri naturali siano
definitivamente compromessi dall’affermarsi
del cibo industriale. L’ansia è un derivato
dell’abbondanza: quando si ha la possibilità
di ottenere tutto ciò che la natura può offrire,
lasciando all’individuo la scelta, inevitabilmente
si genera uno stato di incertezza. Il benessere
economico, l’abbondanza e la mancanza di
una cultura del cibo coerente con il calendario
stagionale hanno reso gli americani mangiatori
disfunzionali, ossessionati dalla magrezza,
mentre diventano sempre più obesi, oscillanti
8 Pollan, The Omnivore’s Dilemma: A
Natural Hystory of Four Meals, The
Penguin Press, New York, 2006
18
da un regime alimentare a un altro, da una
informazione all’altra. Pollan, ritiene che il
disordine alimentare derivi dalla perdita della
vicinanza tra produzione e consumo.
Il cibo assume un ruolo sempre maggiore,
entrando a far parte anche del dibattito politico.
Il tema della sicurezza alimentare è entrato
nell’agenda dell’Unione Europea attraverso
numerosi programmi e progetti, tra cui il Libro
bianco sulla sicurezza alimentare. Con sicurezza
alimentare si intendono tutte le leggi, i controlli
ed i dispositivi di monitoraggio e sorveglianza per
garantire al consumatore tutte le condizioni che
gli consentano di nutrirsi senza preoccupazioni o
ansie, intervenendo sulla filiera agro-alimentare,
ad esempio attraverso la cosiddetta tracciabilità
del prodotto.9
9
http://europa.eu.int/com/food/index_it.html
Per la lettura dei capisaldi si veda
http://europa.eu.int /comm /dgs/
health_consumer/ library/pub /
pub06_it.pdf
Consumo etico
Il consumatore, nell’affrontare le ansie legate al
cibo, soprattutto in seguito a scandali alimentari
di rilevanza mondiale chiede al produttore una
maggior trasparenza dei processi di produzione
e lavorazione, sulla provenienza delle materie
prime, ecc.
Dal punto di vita sociale tutto ciò esprime un
diffuso e forte desiderio di rinascita, la speranza
di un presente continuamente rinnovato, di
uno stato di giovinezza protratta e resuscitata
all’infinito di cui il cibo diviene il principale
artefice. La ricerca di prodotti per l’eterna
giovinezza si sposa con il mito del ritorno alle
origini. Questo mito di un mondo originario
incontaminato si traduce in un orientamento
verso il locale, in grado di salvaguardare il
sapere e le tradizioni, e di contrastare i rischi di
omologazione connessi al cibo industriale.
Il carattere ‘etico’ dei rapporti diretti tra
produttori e consumatori non è un dato comune
a tutte le esperienze. Questa dimensione etica
è più diffusa nei contesti europei, dove è più
forte la vicinanza culturale tra il dibattito e le
sperimentazioni di filiere agro-alimentari locali
e il mondo delle economie solidali, e nelle quali il
tema della relazione e della responsabilità sociale
e ambientale sono esplicitamente poste al centro
dell’azione economica. I contesti dove è più
evidente la dimensione etica sono quelli dei Paesi
latini, soprattutto Italia e Francia.
Oggi il dialogo diretto tra produttori e
consumatori si instaura perché questi ultimi
sono alla ricerca soprattutto di prodotti sani, con
qualità organolettiche particolari o coltivati con
metodi organici, siano essi certificati o meno. I
consumatori si accordano con i produttori per
acquistare merci con queste qualità, che vengono
spiegate dall’agricoltore durante incontri di
discussione e garantite con patti impliciti.
Oltre al prezzo, alla quantità ed alle qualità
intrinseche dei prodotti in molti casi anche
gli aspetti sociali e ambientali connessi con il
prodotto agricolo stesso sono oggetto specifico di
dialogo: le condizioni di lavoro, eventuali impatti
sull’ambiente nei diversi passaggi della filiera,
ecc.
Il rapporto tra consumatore e produttore spesso
è legato a specifiche politiche degli enti locali;
dal 2005, ad esempio, la Regione Toscana,
l’istituzione regionale più attiva in Italia su questi
temi, nelle proprie politiche agricole, con fondi
europei e propri, supporta in modo sistematico
iniziative comunali, mercati dei produttori, spazi
dedicati ai prodotti regionali, e iniziative legate al
cibo locale, oltre a quello biologico.
Da anni nel Regno Unito si è avviata una
discussione sui food miles, cioè sui chilometri
percorsi dal cibo prima di arrivare sui banchi di
vendita. Il cibo che viaggia è produttore di costi
occulti e inquinamento, derivanti dai processi
di distribuzione. Comincia ad affermarsi l’idea
19
che il cibo non possa essere giudicato solo per
attributi come qualità, aspetto e prezzo, ma anche
in base ai chilometri percorsi per arrivare in un
determinato punto vendita. Anche il biologico,
che dovrebbe per natura privilegiare la filiera
corta, è spesso trasportato in aereo, mezzo dal
considerevole impatto ambientale. L’inglese
Soil Association10, l’associazione britannica del
biologico, ha proposto di negare il marchio a
prodotti imputati di provocare un impatto per le
loro modalità di trasporto, anche se provenienti
da agricoltura biologica, con la motivazione
che solo la filiera corta rappresenta la base di
una produzione ecologicamente sostenibile. La
sensibilità all’impatto ambientale del trasporto
del cibo ha dato impulso a progetti di ricerca volti
a quantificare i costi dei metodi di produzione e
delle miglia del cibo a seconda del tipo di trasporto,
delle sue emissioni e delle quantità trasportate.
L’approccio al cibo sostenibile si traduce nella
promozione delle produzioni locali, con il duplice
obiettivo d’incrementare la trasparenza della
filiera e la percezione della sicurezza alimentare
del consumatore.
10
11
Il movimento Slow Food interpreta queste
tensioni verso ciò che è noto e riconoscibile come
fonte di bontà e rassicurazione. L’irreversibilità
dei processi innovativi fa sì che anche la
tradizione debba essere reinventata, magari per
vie tecnologiche. Ciò che conta è che sia evocata
l’immagine dell’autenticità originaria, della
ripresa degli antichi saperi e sapori, dei prodotti
naturali.
La Soil Association è stata fondata
nel 1947 da un gruppo di agricoltori,
scienziati e nutrizionisti convinti della stretta relazione tra l’agricoltura,
l’allevamento e la salute degli uomini
e dell’ambiente
http://www.soilassociation.org
11
Slow Food è un’associazione noprofit fondata da Carlo Petrini nel
1986, conta 100.000 iscritti, volontari
e sostenitori in 150 paesi. Opera per
promuovere l’interesse legato al cibo
come portatore di piacere, cultura,
tradizioni, identità, e uno stile di vita,
oltre che alimentare, rispettoso dei
territori e delle tradizioni locali.
Il motto è buono, pulito e giusto.
CASO STUDIO
EATaly
Italia, Usa e Giappone
dal 2007
[... la cucina non è
solo materia prima di
chef: non si arriva da
nessuna parte senza
contadino, senza
studio e ricerca... ]
2. Foto in alto.
Evento educativo dedicato alle scuole
svoltosi nel 2010 presso la sede di
Torino, il cui tema erano le risorse
ittiche dell’Italia
Eataly nasce a Torino, con l’intento di smentire
l’assunto secondo il quale i prodotti di qualità
possono essere a disposizione solo di una
ristretta cerchia di privilegiati, poiché spesso
cari o difficilmente reperibili.
Il marchio riunisce un gruppo di piccole aziende
che operano nei diversi comparti del settore
enogastronomico. Propone il meglio delle
produzioni artigianali a prezzi assolutamente
avvicinabili, riducendo all’osso la catena
distributiva e creando un rapporto di contatto
diretto tra il produttore e il distributore finale,
saltando i vari anelli intermedi della catena.
L’obiettivo è quello di incrementare la percentuale
di coloro i quali si alimentano con consapevolezza,
scegliendo prodotti di prima qualità e dedicando
particolare attenzione alla provenienza e alla
lavorazione delle materie prime.
La filosofia adottata è duplice: da un lato si
trova l’offerta dei prodotti, sia sotto forma di
distribuzione che sotto forma di opportunità
di ristorazione, mentre dall’altro esiste un
discorso impostato sulla didattica e articolato
in corsi di cucina, degustazioni, corsi sulla
conservazione corretta dei cibi, didattica per
i bambini. Quest’ultimo aspetto riassume la
vera originalità di Eataly nel panorama del
retail alimentare italiano e costituisce il punto
di partenza per instillare nel consumatore una
corretta percezione della qualità, in grado di
muovere le sane leve del gusto e del godimento
che rendono l’essere umano più appagato e felice,
nella convinzione che mangiare bene aiuti a
vivere meglio.
Slow Food svolge il ruolo di consulente
strategico, con il compito di controllare e
verificare che la qualità dei prodotti proposti
sia sempre all’altezza delle promesse e che i
produttori non compromettano la qualità della
loro produzione per soddisfare una domanda
crescente. La concezione di qualità per Slow
Food possiede tre precetti sostanziali, dai quali
è impossibile prescindere: un alimento deve
essere organoletticamente buono, sostenibile dal
punto di vista ecologico e giusto dal punto di vista
sociale, all’insegna della ricerca di un piacere
alimentare responsabile. La massima aspirazione
nella promozione di un simile concetto di qualità
è che, tanto al consumo quanto alla produzione,
queste caratteristiche vengano rispettate e
condivise.
21
3. Foto in alto.
Banco di vendita del pane.
4. Foto in basso.
Eataly a New York
23
Il cibo come
attivatore
sociale
Compagno
dal latino medievale cum-panis, colui con
cui si spezza insieme il pane - calco dal greco
σύντροϕος ‘cresciuto con’, ‘convivente con’, ‘che
collabora’. Rimanda, per analogia, anche alla
ritualità cristiana e all’eucarestia.
Convivio
dal latino cum vivere, vivere insieme.
Nel modo più semplice e immediato la parola
propone un’identita tra l’atto del mangiare e
quello del vivere; poiché il cibo è la sostanza
della vita, ciò che la rende materialmente
possibile, esso si presta più di ogni altra cosa ad
essere assunto come metafora dell’esistenza.
I due livelli, quello materiale del cibo e quello
metaforico della vita, si confondono l’uno con
l’altro.
24
[... noi non ci
invitiamo l’un l’altro
per mangiare e bere
semplicemente, ma
per mangiare e bere
insieme... ] 12
12
13
Plutarco, Dispute Conviviali
Gianfranco Marrone, La narrazione
del gusto in Brillat-Savarin, in “Nouveaux Actes Sémiotiques”, 1998
L’uomo non mangia solo per soddisfare il senso di
fame, ma anche per appagare altre esigenze come
le proprie emozioni. Fin dall’antichità, il cibo si è
accompagnato a situazioni e stati d’animo diversi:
si mangia per festeggiare, per consolarsi, per
stare in compagnia. Il cibo è infatti considerato
un catalizzatore sociale, e la consumazione del
pasto è un momento privilegiato per comunicare.
La scelta è uno degli aspetti fondamentali dei
comportamenti alimentari, anzi forse il più
importante. I meccanismi attraverso i quali
avviene la scelta sono diversi: agli antipodi
troviamo la fame e l’abbondanza, che difficilmente
portano alle stesse scelte. Le scelte alimentari
non sempre corrispondono al reale gusto degli
individui; infatti una cosa è mangiare del cibo,
un’altra è apprezzarlo.
Il gusto rinvia dalla regione della sensibilità a
quella della socialità, dal corpo che si nutre al
corpo che parla; la narrazione del gusto comporta
quella procedura di riconoscimento del valore
dell’oggetto di gusto, riconoscimento che ha
una doppia natura: estetica e cognitiva. Ogni
valorizzazione estetica è una valorizzazione
cognitiva legata alla socializzazione dei piaceri
del gusto. 13
La ricerca del benessere è il lungo fil rouge
che collega il mondo antico ai giorni nostri,
in cui il convivio cerca di riaffermarsi come
rito che contribuisce a farci godere della vita,
condividendo il cibo e comunicando con chi ci
è caro.
25
Mangiare in casa
Il rito della famiglia
Un aspetto tipico della specie umana è quello di
mangiare insieme. A ciò si legano una serie di
comportamenti e di rituali che tendono ad uscire
dalla sfera propriamente funzionale per assumere
invece un valore fortemente comunicativo. La
tendenza alla convivialità dell’uomo si traduce
nell’attribuzione di un senso ai gesti che si fanno
insieme, mangiando. La tavola si configura
come espressione della vita insieme ad altri; la
parola stessa convivio suggerisce l’idea di vivere
insieme, e anche quindi del mangiare insieme.
Questa pratica non è riservata a pochi eletti,
anche la famiglia contadina si riunisce attorno
al tavolo ed esprime la propria identità familiare:
vivere a uno pane e a uno vino, cioè condividere il
cibo è un modo per significare che si fa parte della
stessa famiglia. Ancora oggi, in varie espressioni
dialettali, la casa si identifica con il cibo che
consente alla comunità domestica di vivervi
insieme. A tutti i livelli sociali, la partecipazione
alla mensa comune è il primo segno di
appartenenza al gruppo, famiglia o comunità più
ampia.
Quindi non si può proprio trascurare il significato
del cibo come simbolo di fratellanza e unione;
la convivialità è sempre stata condivisione,
partecipazione, amicizia, rituale pacificatore,
armonia, e espressione dell’essere sociale
dell’uomo. Il mangiare e bere in comune non
è condivisione di solo cibo ma soprattutto dei
momenti significativi della vita, a tavola si discute
e si parla di amore. Le preferenze alimentari si
assimilano in famiglia, dove si impara a mangiare,
si festeggiano i compleanni con torte, ci si sposa
offrendo agli ospiti un banchetto.
Per ciascuno di noi vi sono cibi della memoria,
che attraverso il sapore hanno il potere di fare
emergere emozioni, esperienze, affetti familiari.
Nella ricerca del sapore antico si nasconde,
quindi, la ricerca di uno stato di grazia da ricreare,
la ricerca del tempo perduto. Commozione e
nostalgia accompagnano queste incursioni nei
cibi dell’infanzia: il ricordo del sapore è sempre
il ricordo di situazioni, si associa ad un’atmosfera
di dolcezza e di perdita. L’attrazione per la
tradizione alimentare è in gran parte sostenuta da
sentimenti di nostalgia per una fase della propria
vita irrimediabilmente perduta. I ricordi di cibi
sono ricordi personali di feste, di riti familiari, di
relazioni affettive. Fuori di casa, nessun cuoco né
cucina né ha mai cucinato come le nostre nonne.15
[... ogni famiglia
possiede un tavolo
attorno al quale essa
può riunirsi nelle ore
dei pasti... ]14
14
15
La cucina era uno spazio abitativo che si
Adolf Loos
Barbery M, Estasi culinarie,
Edizioni e/o, Roma, 2008
26
16
Giovanni Ballarini, La creazione
della cucina. Orme biologiche
nell’esperienza
gastronomica,
Accademia della Cucina Italiana,
Roma, 2005
17
Roland Barthes, L’alimentazione
contemporanea, in “Scritti. Società,
testo e comunicazioni”, Einaudi, Torino, 1998
identificava con la casa, emanava calore. Si
trattava di un calore ben più che simbolico:
attorno al fuoco si svolgeva la vita quotidiana per
molti mesi dell’anno. La cucina è stata più tardi
sostituita dal soggiorno, luogo senza odori di cibo.
I procedimenti del cucinare si sono accorciati,
soprattutto per una questione di minore
tempo libero, e gli alimenti si sono depurati da
sapori ed odori forti. Anche il fuoco diventa
progressivamente invisibile: dalla fiamma viva
del camino, il fuoco si nasconde nella cucina a
legna, si riduce in fiammella nella cucina a gas, e
sparisce nella piastra delle cucine elettriche.16
La perdita dei sapori della tradizione ha a che
fare con molti aspetti: la qualità degli ingredienti,
i saperi, la disponibilità di tempo, ma anche
l’ampliarsi dei mercati di produzione e consumo.
La tradizione, così tanto evocata, in gran parte
corrisponde a un lavoro di invenzione in cui il
richiamo a motivi antichi si innesta su procedure
e componenti inevitabilmente mutanti; surgelati
e precotti entrano ormai nella preparazione di
ricette tradizionali.
Motivazioni sociali spiegano l’attuale forte
interesse per la tradizione. La velocità del
mutamento enfatizza la nostalgia per tutto
ciò che riguarda il passato. Nel tempo veloce il
cibo mantiene una funzione commemorativa,
permette all’uomo di inserirsi ogni giorno in un
passato comune. Non a caso la pubblicità esalta la
riscoperta di segreti perduti: il cibo è incaricato
di rappresentare la gustosa sopravvivenza di
un’antica società rurale: mantiene il ricordo
delle origini fin nella vita moderna.17
Per i giovani consumare il cibo da soli è il segno
di un processo di affrancamento da un controllo
familiare, quand’anche qualche mamma
resistesse nell’impegno della preparazione del
pasto, i figli cercherebbero spazi di libertà dalle
regole del cibo sano, dal rito della conversazione,
dall’amorevole e incombente attenzione della
cura materna. L’individualizzazione dei pasti
corrisponde, quindi, all’individualizzazione delle
scelte di vita e alla pluralità degli spazi fisici e
sociali in cui ognuno si muove.
27
Il ruolo della comunicazione: Dove c‘è Barilla c’è casa
Mangiare è anche un atto che unisce l’uomo alla
natura, al reale. Il cibo industrializzato solleva
domande che possono ben presto trasformarsi in
fonti di ansia. Da dove viene? Che trasformazione
moderna società. Il mito della Natura buona, ha
origini lontane ed è rappresentato ancora oggi in
molte campagne pubblicitarie attraverso precise
caratterizzazioni. Viene enfatizzata la lentezza
dei tempi di lavorazione e la
ha subito? Da chi è stato
manipolato? Sociologi e
qualità delle materie prime,
[... Chi sceglie di vivere in modo sano, come la
nel caso specialmente dei
pubblicitari sono allora
famiglia del Mulino, certamente si nutre in modo prodotti coltivati, raccolti
chiamati in causa per
cercare di arginare il
sano. L’immagine ideologica del Mulino Bianco si dalla terra e lavorati in modo
artigianale.
fenomeno. Le risposte, le
è trasferita sui prodotti, ritenuti quindi semplici, ancora
Negli spot pubblicitari, il
rassicurazioni passano il
prodotto-cibo
concentra
più delle volte attraverso
genuini, salutari, leggere ma buoni. Merende
su di sé l’attenzione dei
un radicamento affettivo,
senza conservanti, rigorosa selezione delle
personaggi
all’interno
rurale o culturale del
materie prime, un grande impegno e sforzo alla
della scena: si intravede
prodotto, le cucine locali
tradizionali sono ancora
ricerca dell’eccellenza produttiva. Così ogni giorno spesso parte di un interno
domestico
familiare,
i
vissute in maniera positiva
di più, l’area di collocazione del Mulino Bianco è
prodotti
sono
allestiti
dai consumatori. La Natura
elegantemente in gustose
è il primo riferimento
contenuta nel rapporto natura-salute... ] 18
ricette, pronti per essere
forte al quale si richiama
portati a tavola e condivisi. Il modificarsi dei
la pubblicità. È il potente referente simbolico
18
Barilla: cento anni di pubblicità
ritmi di vita e di lavoro hanno tolto sempre più
utilizzato per comunicare genuinità, qualità,
e comunicazione, a cura di Albino
bontà dei prodotti pubblicizzati. Una sorta di Ivardi Ganapini e Giancarlo Gonizzi, spazio al rito dell’alimentazione: difficilmente ci
neotradizionalismo, un rassicurante rifugiarsi A. Pizzi S.p.A., Cinisello Balsamo – si riunisce intorno alla tavola imbandita, in molti
casi i pasti si consumano frettolosamente, magari
nel passato causato dal disorientamento della Milano-,1994
pagina
5. Foto in alto.
Immagine rappresentativa del progetto Mulino Bianco
Colazione
all’italiana, 2012
www.mulinobianco.it
6. Foto in basso.
Pubblicità su carta stampata: il mito
del ritorno alle origini, come fonte di
prodotti sani riproposto nello slogan
e nelle immagini
davanti alla televisione accesa, mangiare in
famiglia tutti insieme e con calma avviene quasi
solo per le ricorrenze importanti .
L’acquisto ed il consumo di quel particolare
prodotto pubblicizzato viene identificato come
possibile fonte di gratificazione di un’intensa
gamma di bisogni psicologici ed emotivi. Ad
esempio lo spot di Casa Buitoni punta con i suoi
prodotti alla soddisfazione del lavoro in cucina,
con lo slogan ‘noi impastiamo, tu crei’; oppure
Casa Barilla che rinnova sempre il piacere di
stare insieme a tavola mangiando sano.
La famiglia serena che abita nel Mulino mette in
scena l’idealizzazione del weekend, prolungato
a tutti i giorni dell’anno. Il mito collettivo su
cui si innesta la promessa di naturalità diviene
ora il sogno italiano del benessere: benessere
come aspirazione collettiva alla seconda casa
-luogo delle vacanze e del tempo libero-come
tempo ritrovato dell’aggregazione familiare
-reinterpretazione postmoderna della famiglia
allargata. Il sistema di comunicazione di Mulino
Bianco viene costruito partendo dai bisogni
latenti degli italiani negli anni Settanta che
manifestavano un crescente interesse per il
ritorno al verde, alla campagna; gli ingredienti
naturali e genuini; la forma familiare di un
biscotto come quello della nonna; la ricerca di
un mondo vero, rassicurante, sano e ricco di
buoni sentimenti. Formato da tre componenti, il
marchio svolge una funzione molto importante
nell’identificazione dei valori della tradizione e
delle cose buone di una volta: le spighe e i fiori,
elementi espressivi della naturalità; la figura
del piccolo mulino, evocatore della tradizione; il
nome Mulino Bianco, sintesi dei valori di natura
e tradizione nei due concetti di genuinità e salute.
Scaturisce così uno stile rustico, ma di un Paese
influenzato da una cultura cittadina capace di
richiamare alla memoria profumi e fragranze di
momenti felici mitizzati. Il mulino rappresenta un
luogo della memoria, quasi una vecchia marca di
fabbrica, ripresa per dare prestigio, per certificare
l’anzianità della Casa. Il nostalgico e rassicurante
ritorno al passato è decisamente riscontrabile
nella narrazione pubblicitaria di molti altri
prodotti, in cui da un lato il prodotto con il relativo
marchio è associato ad immagini di famiglia
unita e felice, e dall’altro emerge il tentativo di
spiegare il valore originario del prodotto, le sue
caratteristiche, le sue qualità intrinseche, la sua
originalità, al fine di nasconderne sempre di più
la sua origine industriale e far prevalere il mondo
coerente di sentimenti legati al marchio.
pagina
Mamma Isab
0RPHQWLGLSDQH,OSUDQ]RLQIDPLJOLD
,QVLHPHDWDYROD
Nonni, genitori e figli: tre generazioni all’appuntamento di mezzogiorno
“
Nei fine settimana, la tavola
del pranzo è apparecchiata con
tanti colori, intorno al cesto di
pane
”
“
mo
ci se
da
30
La tradizione italiana del cibo
[... cosa c’è di più bello
di una riunione di
amici veri intorno a
una buona tavola? È il
miele della vita... ] 19
19
Tahar Ben Jalloun, L’amicizia,
Einaudi, Torino, 1996
20
Bill Buford, Calore. Le avventure di
un dilettante come sguattero, cuoco
di partita, pastaio, apprendista di un
macellaio toscano che recita Dante,
Fandango Libri, Roma, 2007
21
Questo è quanto emerso da
un’indagine
Coldiretti-Swg
presentata nel corso del Forum
Internazionale dell’Agricoltura e
dell’Alimentazione a Cernobbio,
all’interno
dell’iniziativa
per
celebrare i 150 anni dell’Unità di
Italia dal titolo La tavola dei piatti che
hanno unito l’Italia, in collaborazione
con Casa Artusi.
22
Massimo Montanari, L’identità
italiana in cucina, Laterza, 2010
La gente deve pensare che nel retro ci siano delle
nonne ai fornelli, così raccomanda il cuoco/
imprenditore Mario Batali al giornalista/cuoco
Bill Buford.20
La cucina italiana all’estero è soprattutto uno
status symbol. Tutte le trasmissioni mattutine
e pomeridiane hanno spazi di cucina, ma
proliferano anche programmi totalmente
dedicati alle ricette. L’Italian Style nel cibo
manifesta una straordinaria forza attrattiva.
Si diffonde la moda di aperitivi a base di vino
italiano accompagnato da prodotti made in Italy.
Una tendenza che diffonde la cultura del buon
bere e del cibo di alta qualità anche nel mondo
della notte e dell’aperitivo, da sempre territorio
assoluto di superalcolici e cibo spazzatura.
L’elemento più rappresentativo dell’identità
nazionale? Per quasi un italiano su due (46%)
sono la cucina e i piatti della tradizione del nostro
paese.21
L’Italia non va quindi confusa con gli italiani.
La prima è una costruzione recente, i secondi
esistono da molto tempo, almeno dai secoli centrali
del Medioevo, quando all’interno dell’Europa,
cominciarono a definirsi diverse culture, lingue,
‘nazioni’. Fra di esse l’Italia, la cui identità si
affermò non tanto in base ad un’appartenenza
territoriale, quanto per l’esistenza di un comune
sentire, di una cultura e di modi di vita condivisi.
La cucina fu, sin dall’inizio, uno degli elementi
costitutivi di quell’identità.
Nel libro di Massimo Montanari L’identità
italiana in cucina22, si affronta il tema della
cucina nazionale. La tesi è che la cucina italiana
non ha mai avuto una carta costituzionale che
ne certificasse esistenza e regole; per assurdo,
quindi, si potrebbe dire che non è mai esistita.
Però la realtà dimostra come, senza l’investitura
ufficiale dell’Unità del Paese, la ‘cucina italiana’
è sempre esistita, come insieme di conoscenze,
esperienze, invenzioni e variazioni. In altre parole
si è risalito dalla parte al tutto: i maccheroni,
ad esempio, da specialità napoletana sono
diventati un tratto distintivo del nostro paese,
a tal punto che all’estero gli italiani sono stati
soprannominati
mangiamaccheroni,
senza
specificazioni regionali.
L’emigrazione ha poi fatto creare l’unità
gastronomica, grazie ai ristoranti italiani
all’estero in cui vengono serviti piatti locali e
regionali.
Ma il Made in Italy a tavola è anche l’emblema
nel mondo della dieta mediterranea, modello
nutrizionale ormai universalmente riconosciuto
cruciale ai fini del mantenimento di una buona
salute e che si fonda su una alimentazione basata
su prodotti locali, stagionali, freschi, di cui l’Italia
è particolarmente ricca. L’Italia delle cento città
e dei mille campanili è anche l’Italia delle cento
cucine e delle mille ricette.
Il rapporto città e campagna, e ancor più, tra ceti
sociali diversi è raffigurato nei piatti dell’arte
culinaria. Spesso sono proprio le ‘cento’ città che
vengono identificate con alcuni cibi, ma, in realtà,
è dalla campagna che arrivano le specialità.
Probabilmente perché i cuochi provenivano dai
ceti più umili e servivano nelle case dei ricchi,
portando con sé una tradizione alimentare
essenziale su cui avevano la possibilità di
innestare l’abbondanza degli alimenti che erano
finalmente largamente disponibili.
8. Foto.
Nota immagine che ritrae Totò intento a mangiare un piatto
di spaghetti. Da qui l’appellativo agli italiani in generale di
mangiamaccheroni
pagina
32
23
Jean-Louis Flandrin, Massimo
Montanari, Storia dell’alimentazione,
Editori Laterza, Roma-Bari, 1995
24
Claude Fischler, L’onnivoro: il
piacere di mangiare nella storia e nella
scienza, Mondadori, Milano, 1990
Mangiare fuori
casa
Le origini del ristorante sono antichissime:
questo tipo di commercio nasce con i mercanti
e le fiere che obbligavano contadini e artigiani
a lasciare la loro casa per uno o più giorni e a
nutrirsi mentre stringevano o mantenevano
relazioni sociali, d’amicizia o d’affari.
In tutto il mondo le cucine di strada23 si affermano
come il principale commercio di ristorazione:
per una somma molto modesta, vi si servono
quasi sul momento un piatto unico o un piccolo
assortimento di cibi precucinati.
Contrariamente a quanto emerge dai luoghi
comuni, il modello alimentare veloce non ha
avuto origine negli Stati Uniti, per poi diffondersi
nel mondo: il fast food americano non è altro
che un’articolazione di un modo di mangiare
che nasce nelle strade ed è riscontrabile nei più
disparati contesti storici e geografici. Lo street
food è un fenomeno con peculiarità molto diverse
rispetto alla ristorazione rapida moderna: il
primo, infatti, si caratterizza per l’essere un
prodotto artigianale, mentre l’offerta delle
grandi catene di fast food è costituita da prodotti
industriali.
Già sul finire del XIX secolo, diversi imprenditori
fiutarono le prospettive di crescita della
ristorazione veloce nelle metropoli europee
e nordamericane, facendo da precursori
all’impressionante espansione che sarebbe
iniziata a partire da metà Novecento. Quest’ultima
riguardò in particolar modo la nascita e la
diffusione dei moderni gruppi di fast food gestiti
tramite franchising. Il dilagare di ristoranti
veloci di stampo statunitense in tutto il mondo
si inscrive perfettamente nel processo definito
da Fischler come ‘planetarizzazione del settore
alimentare’: in altre parole la globalizzazione del
cibo24.
Negli ultimi trent’anni in Italia si è attuata una
profonda trasformazione: il grande sviluppo degli
anni ’60, l’industrializzazione e l’urbanizzazione
hanno cambiato radicalmente la società. I ritmi
collettivi di massa hanno subito variazioni,
con il risultato di una maggiore flessibilità e
personalizzazione degli orari. Anche la struttura
familiare è cambiata, e dalle numerose famiglie
patriarcali che caratterizzavano la prima metà
del secolo si è passati alle famiglie mononucleari.
Questi cambiamenti hanno conseguentemente
modificato il settore alimentare. La centralità
del pasto in casa, il ruolo della tavola, da sempre
al centro dei rapporti sociali e familiari, è entrato
in crisi. L’uomo attuale appartiene alla società
delle 24 ore25, e di conseguenza anche l’atto del
mangiare ha perso l’importanza che aveva in
passato.
Ma perché i ristoranti hanno raggiunto una tale
densità nel panorama urbano e una così alta
visibilità nello spazio mediatico?
Come già detto, oltre alle esigenze funzionali
ed alla maggiore mobilità della popolazione, la
spiegazione è da ricondurre al fatto che mangiare
insieme costituisce da sempre un potente
strumento di socialità, un rito per celebrare eventi
e rafforzare i legami. Inoltre, al giorno d’oggi vi
è la diffusa aspirazione alla festa e la ricerca di
uno spazio per l’emozione. Il cibo ha assunto una
funzione che va oltre lo stesso piacere gustativo e
che interseca l’esplosione di forme di socialità e
di divertimento.
La pratica del ‘mangiare fuori’ è cresciuta per una
serie di fattori: la crescita dei livelli di benessere,
l’incremento delle spese per il tempo libero e per
le vacanze e la diminuita capacità, e disponibilità
ad organizzare eventi in casa.
I luoghi in cui si consuma cibo sono prima di
tutto spazi della socialità, in cui intratteniamo
le relazioni nelle diverse cerchie concentriche
delle nostre frequentazioni. Lì prendono forma
i comportamenti di consumo, si creano i tratti
distintivi di determinati gruppi, si condividono,
appunto, gusti e pratiche. Il cibo acquista un
carattere sociale, coincide in gran misura con
il ritrovarsi in luoghi pubblici – in quanto scelti
per l’incontro – per segnalare una presenza sulla
scena. Si tratta di luoghi investiti di emozioni,
spazi in cui s’incide la propria presenza,
consolidati da appartenenze a mode e a mondi.
33
Le aggregazioni danno vita ad abitudini, come
quelle dell’aperitivo, dell’happy hour; i locali
diventano punti di riferimento e di incontro di
movimenti ludici, di consumo del tempo sotto il
segno dell’edonismo. Il luogo diventa lo spazio di
costruzione dei legami. La frequentazione degli
stessi luoghi crea comuni appartenenze e forme
di reciproco riconoscimento. In questi luoghi
si produce una sorta di misteriosa alchimia
della socialità e si consolida un qualche tipo
di cemento culturale e spirituale, attraverso
la condivisione delle emozioni. Pratiche
ludiche, gesti dell’erranza che caratterizzano
la società contemporanea, laboratori dell’arte
del quotidiano, occasioni di un radicamento
dinamico che ci consente di appartenere ad
un dato luogo, ma mai in modo definitivo. Il
sentimento di appartenenza è rafforzato dalla
condivisione di qualcosa di comune.
Diversi fattori spiegano la popolarità del mangiare
fuori. Una prima spiegazione si riferisce al
cambiamento di modelli di famiglia: ora che i
suoi membri sono assenti da casa gran parte del
giorno, consumare i pasti fuori casa corrisponde
ad esigenze funzionali. Inoltre, incide il
cambiamento nella struttura professionale: molte
professioni odierne appartengono al settore
terziario e propongono una diffusa flessibilità
di orari; ciò favorisce il proliferare di momenti
differenti di consumo, connotati da situazioni
di condivisione breve, ma soprattutto, mobile ed
occasionale.
Il pasto diurno si consuma nelle mense dei luoghi
di lavoro e delle scuole: luoghi pubblici in cui si
ritrova gran parte della popolazione i cui orari
sono scanditi e organizzati in funzione di un
regime dietetico veloce.
Quando le attività terziarie iniziano a dominare
25
Everardo Minardi, La società delle
24 ore: cambia l’uso del tempo, cambiano l’entertainment e il loisir, http://
www.racine.ra.it/bibzucchini/riflessioni1/r26_la_societa_delle_24_ore.
htm
34
26
Finkelstein, Andare a pranzo fuori.
Sociologia delle buone maniere, Il
Mulino, Bologna, 1992
27
Barthes, Roland, 1961
la scena, i momenti collettivi perdono peso:
la crescente flessibilità dei tempi di lavoro fa
compiere un ulteriore passo in avanti nello
smantellamento del rito collettivo del pasto. Ma il
cibo non per questo torna ad essere un’esperienza
privata: sia per i ritmi del traffico urbano, sia per i
tempi stretti della pausa pranzo, sia per la minore
disponibilità al lavoro domestico, ma ancor di più,
per un processo di liberalizzazione del tempo.
Ben al di là delle ragioni funzionali, il pranzare
fuori è diventata una caratteristica della società
moderna entrata a far parte del repertorio
individuale dei modi di occupare il tempo libero.
Le persone traggono piacere dal consumare
cibi in luoghi pubblici. Mangiando fuori casa,
l’atto del nutrirsi si trasforma in un’attività più
complessa e significativa sul piano sociale: un
fatto di routine in un evento sociale arricchito da
una scenografia.26
I caffè e i ristoranti sono luoghi sociali in cui
l’interazione tra sconosciuti accomunati dal
consumo del cibo sposta in una sfera pubblica
un’attività che per gran parte della storia
dell’uomo è appartenuta alla sfera privata,
ancorché conviviale.
La condivisione del pasto è scelta, non è dettata
da vincoli familiari e lavorativi e la decisione
avviene sulla base della reciprocità. La libertà
è uno dei tratti distintivi del mangiar fuori.
Inoltre, ognuno trae piacere da una situazione in
cui è trasformato in oggetto di interesse per gli
altri commensali e per il personale che si prodiga
ad esaudire le sue richieste. La gratificazione
che si ricava dal mangiar fuori si fonda su un
particolare tipo di condivisione che si riferisce
al gusto, all’essere alla moda e deriva anche dal
racconto dell’esperienza.
Spesso il consumo di determinati cibi non
risponde più a esigenze ben precise, i prodotti
perdono il loro significato alimentare, tant’è che
eccitanti quali caffè, te, o cioccolato, vengono
offerti in momenti socializzanti di distensione e
di riposo.27
35
… mangiare fuori, restando dentro casa
Il rapporto tra spazio e socialità produce il
fenomeno del sentire e provare in comune.
Ma talvolta si va “fuori” restando dentro casa,
a cena da amici. È quest’ultima pratica che
denota l’importanza della socialità legata al cibo
e sembra riprendere piede dopo una fase in cui
l’approdo al ristorante aveva sancito l’accesso ad
una condizione privilegiata. La convivialità cerca
strade di conciliazione con le condizioni della vita
attuale. In primo luogo vale per coloro che entrano
sul mercato con modelli di successo e debbono
conciliare il desiderio di una vita socialmente
densa con la preoccupazione di essere in forma
per le gli impegni del giorno seguente. Così si
impone il rentring, la nuova moda delle uscite
non uscite: tutti a casa da qualcuno a mangiare,
bere, giocare, guardare un film dalle 19 alle 23,
per non interferire con il lavoro facendo tardi.
Si delinea così un’area a metà tra il consumo
domestico tradizionale e quello extradomestico
della ristorazione. Si tratta di un’area che
configura nuove tipologie di cibi e che incentiva
i consumi alimentari di lusso. I menu a domicilio
si articolano su esigenze sempre più variegate, la
cucina a domicilio ha intercettato bisogni diversi,
dall’intrattenimento alla dieta, alle intolleranze
alimentari. Il risparmio di tempo, la buona qualità
e la possibilità di restare in un ambiente rilassato
convergono tra le ragioni che danno impulso a
questa modalità di ristorazione. Mentre lo stare
in casa si associa per molti a un contenimento
delle spese di fronte alla crescita dei costi della
ristorazione, il lusso investe anche la dimensione
del consumo conviviale domestico.
pagina
CASO STUDIO
Peopleskitchen
Elmo Vermijs
Amsterdam, 2006
NoteUdam dellaborum nos dolorep
udaepti aecearit, cus ium id quaectas
aboremquiate nis coriaecatius quidi
odi occae. Nem. Et fugiae dolorro
quae. Solendit lamenis quasperum
int dusani ium liquas eos esequam
resciam, qui cuptatestion nossin eum
laborepro et est quas maiore sed mil
eat.
Tem ex et utecerferrum quibus aut
plite sitate cus.
Facest explige ndandio tet eum autem sa et qui seque laborestis ex ex
eostrum ute pro mossequae liciatis
milluptus invendandem derepeliqui
voluptatur sequodis comnim voloreiciur, ipsus.
Usa que nonsediam quia sandaes di
que prorepra dis natem hic totaquisquis erio consequo coriorature pro
quatiae quossimagnis eiumquas dic
tem facerem quid ut voluptae inverum voluptat eum fuga. Mintet lat.
Sim audanditia andande volupta temporiatem iume rem fugitese ma sum
volore doluptati odi ut ut volorrum
eati ideliquo officie nissitempor acit
earum niscipsum sandebitin commoditate voluptias doluptur?
Olorisimi, volorem nobit quae corpos
perspediam, vent lacerchil earum
[... l’atto di cucinare
come esperienza
di condivisione,
il pasto come
momento di scambio
e di partecipazione
collettiva... ]
9. Foto.
Sperimentando nuove ricette
L’atto di cucinare come esperienza di
condivisione, il pranzo come momento di
scambio e di partecipazione collettiva. Questa
l’essenza del progetto di cucina portatile, pensato
per cucinare e mangiare in contesti urbani non
convenzionalmente adibiti a queste funzioni.
L’installazione viene realizzata assemblando
vecchie cassette di frutta di legno, che assolvono
ad una triplice funzione: stoccaggio degli alimenti,
basi di appoggio per le fasi di preparazione e
cottura del cibo, sistema di tavoli e sedute per
il pranzo vero e proprio. I partecipanti, oltre a
consumare il pasto, sono invitati a prepararlo.
Peopleskitchen si propone come elemento
di riqualificazione urbana e sociale: cantieri
in costruzione, edifici abbandonati e aree
dismesse che si trasformano in luoghi di
incontro temporanei, punti di aggregazione
spontanea, eventi gastronomici informali. Zone
temporaneamente autonome e spazialmente
circoscritte, che elevano luoghi comunemente
inaccessibili a spazi di pubblica attività,
evidenziando il contrasto tra il carattere grezzo
delle location scelte e la valenza sociale del
mangiare insieme, nel pieno rispetto dei principi
della sostenibilità ambientale.
37
10. Foto in alto a sinistra.
Iniziano i lavori di montaggio della
cucina
temporanea
collettiva,
con l’utilizzo di cassette di frutta
dismesse.
11. Foto in alto a destra.
Lezione di cucina, sperimentado
assieme ad uno chef.
12. Foto in basso.
Convivialità:
condivisione
tra
sconosciuti - non più ormai, dopo
aver trascorso assieme i momenti
della preparazione - di un pasto in un
inusuale luogo di consumo del cibo:
un ex-magazzino abbandonato della
capitale olandese.
Mia Market
Arabeschi di Latte
Roma, 2008
Il fruttivendolo in salotto è il motto che ben
sintetizza questo foodstore, collettivo crativogastronomico impegnato da anni nelle ideazioni
e realizzazioni di eventi gastronomici, dove il
cibo assume il ruolo di attivatore di situazioni e
relazioni.
Seguendo queste logiche progettuali, si propone
una riflessione sul tema del cibo lontana dagli
schemi tradizionali; è infatti un luogo dove fare
la spesa si trasforma in un’esperienza lontana
dalle logiche contemporanee del commercio
delle realtà urbane. Vi si possono comprare solo
prodotti rigorosamente stagionali e provenienti
da produttori locali, attenti alla coltivazione
biologica e sostenibile, e si possono consumare
in loco, grazie alla presenza di spazi intimi,
dal sapore domestico. Fare la spesa acquista
un sapore – in tutti i sensi – e una dimensione
diversa, dove il ritmo delle stagioni si impone
e prende il sopravvento, dove il tempo si dilata
e acquistare o consumare il cibo può diventare
anche un pretesto per stare insieme e condividere
esperienze.
Viene data la possibilità, non solo di acquistare
gli alimenti, ma anche di scoprirli, conoscerli,
assaggiarli. Quindi si può interagire con i prodotti
39
in vendita: acquistare un’arancia e trasformarla
subito in spremuta.
Valori come la convivialità e la condivisione,
caratteristici del mangiare insieme, vengono
ulteriormente amplificati grazie ad un programma
di cooking studio, workshop gastronomici in cui
lo spazio si trasforma in una cucina collettiva.
[... il fruttivendolo in
salotto: un luogo dove
non solo è possibile
acquistare prodotti,
ma anche consumarli
direttamente grazie
ad uno spazio intimo,
dal sapore domestico,
in cui si ha la
sensazione di trovarsi
a casa.... ]
13. Foto nell’altra pagina.
Poster di uno dei cooking studio: Polpettine di verdure, marzo 2010. 13.
14. Foto.
Momento di condivisione: I pesti al
Mia Market
CASO STUDIO
Mealing
Martì Guixè
2009
[... da sempre
sinonimo di incontro
e scambio, relazione,
il momento del
pasto si trasforma
in puro evento
relazionale, dove
la partecipazione
attiva è d’obbligo.
Nelle mani una tazza
contenente un drink,
il cibo appiccicato
all’esterno insieme
alle istruzioni per
l’uso: muoversi,
camminare,
incontrare gente,
bere, mangiare...... ]
41
15. Foto pagina accanto, sinistra.
Allestimento della Performa n 9
16. Foto pagina accanto, destra.
Dettaglio dello strumento chiave
dell’evento: una tazza con il cibo
appiccicato
17. Foto in alto.
Sketch progettuali del designer
18. Foto.
Evento Performa Hub, New York
43
Il cibo come
fatto culturale
‘Ciò che chiamiamo cultura si colloca al punto
di intersezione tra tradizione e innovazione.
È tradizione in quanto costituita da saperi, da
tecniche, da valori che ci vengono tramandati. È
innovazione in quanto quei saperi, quelle tecniche
e quei valori modificano la posizione dell’uomo nel
contesto ambientale, rendendolo capace di sperimentare realtà nuove. Innovazione ben riuscita:
così potremmo definire la tradizione. La cultura è
l’interfaccia tra le due diverse prospettive.’ 28
28
Massimo Montanari, Cibo come
cultura, Laterza, 2004
44
29
Carlo Petrini, Buono, pulito e giusto.
Principi di una nuova gastronomia,
Einaudi, Torino, 2006
Il cibo è cultura. Una cultura che, oltre a parlarci
della storia dell’essere umano, ci racconta dei
suoi desideri, della sua creatività, dei suoi rituali,
dei suoi gusti e dei suoi dis-gusti, della sua
ricchezza e della sua miseria, della sua capacità di
esprimersi attraverso peculiari codici organizzati
non attorno alla parola, bensì ad altri tipi di segni
comunicativi. Il cibo è il principale fattore di
definizione dell’identità umana, poiché ciò che
mangiamo è sempre un prodotto culturale. Se
accettiamo una contrapposizione concettuale tra
Natura e Cultura - come tra ciò che è naturale e ciò
che è artificiale- il cibo è la risultante di una serie
di processi culturali, nel senso che introducono
elementi artificiali nella naturalità delle cose- che
trasformano da base completamente naturale -la
materia prima- a prodotto di una cultura -ciò che
si mangia.29
Nell’esperienza umana i valori portanti del
sistema alimentare si definiscono come esito
e rappresentazione di processi culturali
che
prevedono
l’addomesticamento,
la
trasformazione, la reinterpretazione della
natura. Il cibo è culturale quando si produce,
perché l’uomo non utilizza solo ciò che trova in
natura - come fanno tutte le specie animali - ma
ambisce anche a creare il proprio cibo. Il cibo
è cultura quando si prepara, perché una volta
acquistati i prodotti base della sua alimentazione,
l’uomo li trasforma mediante l’uso del fuoco e
di un’elaborata tecnologia che si esprime nelle
pratiche di cucina.
L’uomo trasforma i prodotti perché diventino
commestibili, conservabili, trasportabili, il più
piacevoli possibile.
Il cibo è cultura quando si consuma, perché
l’uomo, pur potendo mangiare di tutto, in realtà
non mangia di tutto bensì sceglie il proprio
cibo, con criteri legati sia alla dimensione
economica e nutrizionale del gesto, sia a
valori simbolici di cui il cibo stesso è investito.
Attraverso tali percorsi il cibo si configura come
elemento decisivo dell’identità umana e come
uno dei più efficaci strumenti per comunicarla.
45
Il gusto, realtà soggettiva e collettiva
Il cibo non è ‘buono’ o ‘cattivo’ in assoluto:
qualcuno ci ha insegnato a riconoscerlo come
tale. L’organo del gusto non è la lingua, ma il
cervello, un organo culturalmente determinato,
attraverso il quale si imparano e si trasmettono i
criteri di valutazione. Ma il gusto è anche sapere, è
valutazione sensoriale di ciò che è buono o cattivo,
piace o dispiace: questa valutazione viene dal
cervello prima che dalla lingua. Da questo punto
di vista il gusto non è affatto una realtà soggettiva
e incomunicabile, bensì collettiva e comunicata.
È un’esperienza di cultura che ci viene trasmessa
fin dalla nascita, assieme alle altre variabili che
concorrono a definire i valori di una società. Per
sottolineare il carattere collettivo e condiviso di
tale esperienza, Jean-Louis Flandrin ha coniato
l’espressione strutture del gusto.30
Il gusto è il termine più comune a cui ognuno di
noi fa riferimento per connotare le preferenze in
fatto di cibo. In questo termine è già contenuta
tutta la complessità del rapporto tra dimensione
soggettiva e dimensione culturale, tra corpo
individuale e corpo sociale, tra percezione e
conoscenza. La parola evoca, infatti, una pluralità
di significati: designa nel contempo il giudizio su
un cibo, la capacità di giudicare, e le proprietà
dell’oggetto che permettono l’espressione di
tale giudizio.31 Il gusto è, quindi, un prodotto
culturale la cui definizione varia nello spazio e
nel tempo. Inteso come sapore, è un’esperienza
per definizione soggettiva, inteso come sapere è
un’esperienza culturale e, perciò, comunicabile.
Il gusto è frutto di un insieme di preferenze, di
tradizioni e di abitudini di consumo trasmesse
all’interno di una società; esso è quindi, prima di
tutto, un’esperienza sociale condivisa.
Come è noto, le identità alimentari si
modificano incessantemente e sono solo
parzialmente
riconducibili
a
situazioni
ambientali e geografiche: ne è un esempio la
dieta mediterranea che si compone di prodotti
che derivano da scambi con molte altre regioni
del mondo. Ogni tradizione è frutto dinamico
della storia, generato da complessi fenomeni
di scambio, di incrocio, di contaminazione e si
forma attraverso processi materiali e sociali.
Come la lingua parlata, il sistema alimentare
contiene e trasporta la cultura di chi lo pratica,
è depositario delle tradizioni e dell’identità di
gruppo.32 Per questo la contrapposizione tra
tradizione e innovazione è in larga parte priva
30
Jean-Louis FLandrin, Massimo
Montanari, Storia dell’alimentazione,
Laterza, Roma-Bari, 1997
31
32
Gianfranco Marrone, 1998
Massimo Montanari, Il cibo come
cultura, Laterza, Roma-Bari,2006
46
Religione vs cultura alimentare?
di senso, in quanto la tradizione sedimenta una
serie continua di innovazioni. In questo processo
la tradizione viene risemantizzata, vale a dire
trasferita in un differente contesto di significati.
L’antropologo Marvin Harris, sostenitore di un
materialismo rigidamente utilitario, ritiene che
le scelte alimentari dei popoli e degli individui
siano sempre determinate da un calcolo, più o
meno consapevole, dei vantaggi e degli svantaggi
conseguenti. Secondo la sua tesi i sistemi
alimentari adottati da certi gruppi a determinate
latitudini, tenendo conto del bilancio tra costi
e benefici, sarebbero i più pratici, economici e
storicamente possibili in specifiche condizioni.
Ecco allora svelato il mistero della mucca sacra
per gli Indù, il tabù alimentare della carne di
maiale per ebrei e musulmani, e l’avversione per
la carne di cavallo per gli americani. Il buono
da mangiare, ossia ciò che conviene mangiare,
storicamente diventa secondo Harris, il buono
da pensare, il valore culturale positivo, ovvero se
è utile e conveniente. Il cibo insomma come una
questione di testa e di corpo, che non soddisfa
soltanto la fame o l’appetito, ma presuppone e
mette in moto anche comportamenti e risposte.
Come si intreccia la norma religiosa con la
costruzione della tradizione alimentare? E
quest’ultima viene ibridata nel passaggio a
contesti culturali diversi?
Per le religioni monoteiste del Mediterraneo,
i precetti alimentari rappresentano una serie
di obblighi e divieti di diversa natura: possono
riguardare la quotidianità, come il divieto
permanente per i musulmani di consumare
carne di maiale, essere ciclici, come la Pasqua
ortodossa, o commemorativi, come le feste della
tradizione ebraica. Per alcune religioni orientali,
come l’induismo e il buddhismo, si tratta di
comportamenti che hanno lo scopo di liberare
l’animo umano e separarlo dalla prigione del
corpo.
47
sotto il controllo rabbinico e non solo sotto quello
sanitario.
Questo caso dimostra come una pratica tipica
di una data tradizione alimentare, legata a delle
credenze religiose, abbia assunto nella società
contemporanea valenze più ampie, e sia stata
decontestualizzata ed applicata ad altri contesti
estranei a quello originario.
La cucina ebraica costituisce un esempio
interessante del rapporto dinamico che si
determina tra norme - prescrizioni religiose riti - i cibi si associano alle ricorrenze religiose
- e adattamento - le cucine si diversificano in
relazione ai paesi di approdo. La cucina ebraica,
infatti, indica come l’esistenza di una norma
religiosa incida nella creazione di una tradizione
alimentare, ma non impedisca alla stessa di
subire forti contaminazioni e inglobare creatività
nelle soluzioni alimentari. Si mangia solo quello
che è permesso mangiare, ma un ricco repertorio
scandisce i riti che intersecano la vita della
comunità. Il termine Kosher33 si riferisce al cibo
conforme alle norme secondo la religione ebraica;
il termine è divenuto sinonimo di cibo sicuro e
campeggia su una gran parte di prodotti venduti
negli Stati Uniti. Anche in Italia si afferma il
fenomeno Kosher: i prodotti improntati a norme
religiose ispirano fiducia e le aziendaeche
hanno deciso di farsi certificare Kosher sono in
crescita. A Roma è sorto il Mk Kosher, il fast food
‘conforme alle norme’ più grande d’Europa: il
70% dei frequentatori non è di religione ebraica
ma si sente rassicurato dal fatto che i cibi passino
33
http://www.italykosher.com
48
Cibo e valore simbolico
34
Marino Niola, Si fa presto a dire
cotto, Il Mulino, 2009
‘Il rapporto degli uomini con l’alimentazione è
analogo, per molti versi, al rapporto che essi hanno
con il linguaggio’. E’ una delle prime frasi del libro
Si fa presto a dire cotto34 di Niola, antropologo,
divulgatore e docente. Niola dimostra che la
cucina è costituita da una stratificazione di
simboli e pratiche fondamentali nella storia di
un popolo. Come il linguaggio, la cucina, infatti,
possiede vocaboli - i prodotti, gli ingredienti che si organizzano secondo regole grammaticali
- le ricette, che danno senso agli ingredienti,
trasformandoli in vivande - sintattiche - i menù,
ossia l’ordine delle vivande - e retoriche - i
comportamenti conviviali.
E’ significativo a questo punto notare come
effettivamente gli errori di grammatica possono
danneggiare o annullare il significato, tanto
quanto gli errori di ‘grammatica culinaria’
possono
determinare
delle
improprietà
inquietanti per chi mangia.
e la particolarità delle pietanze, normalmente
non cucinate durante il resto dell’anno, sono
gli elementi che più caratterizzano una certa
festività.
Inoltre, il consumo alimentare è circondato
da una serie di rituali: la spesa si fa in luoghi
particolari, comporta acquisti parzialmente
determinati dalla stagione, parzialmente
dall’abitudine. Il pasto è una cerimonia, i piatti
sono preparati in maniera tale che spesso
la presentazione diventi più importante del
contenuto, il posto dei commensali, il servizio,
l’ordine delle pietanze, il modo di mangiare sono
predeterminati e cambiano difficilmente. Ogni
evento importante, che sia privato o pubblico,
è segnato da un banchetto: i capi di stato non
hanno trovato luogo migliore per ostentare le loro
alleanze, e anche gli uomini d’affari si occupano
di trattative importanti durante pranzi o cene,
diventate ‘di lavoro’.
In tutti i gruppi sociali, da quelli tribali a quelli
moderni, le diverse fasi della vita, dalla nascita
alla morte, sono accompagnate da riti e cerimonie
e quasi sempre coincidono con il consumo di
cibi dal preciso valore simbolico. L’abbondanza
Nelle diverse società il cibo assume diversi
significati in relazione ad alcuni aspetti:
Aspetto ideologico: il codice culturale sotteso
alle norme alimentari, è basato su tabù che
nascono nel momento in cui si attribuisce un
significato particolare ad alcuni cibi, quando
esistono cioè regole mentali, morali e sociali per
cui un alimento non deve essere consumato in un
particolare periodo o da alcune persone. I tabù
alimentari non rispecchiano una civiltà arretrata
ma i limiti che ogni civiltà stabilisce.
Aspetto tecnico - economico: la dicitura civiltà
agricole o civiltà pastorali attestano la centralità
dei processi produttivi degli alimenti base. La
tipologia dei cibi assunti, le modalità di consumo
del pasto e l’ideale di bellezza correlato all’aspetto
fisico determinato dal peso corporeo variano in
relazione all’assetto storico-culturale. Il cibo e la
convivialità dell’atto alimentare hanno assunto
nelle diverse culture valore economico, sociale,
oggetto di prestito, condivisione e commercio.
Alcuni cibi sono diventati manifestazione di un
dato status simbol.
Aspetto sociologico: in ogni società il cibo assume
una forma di ‘dono’ al fine di stabilire e rinforzare
i legami fra i diversi membri. Possesso, controllo,
capacità e conoscenze necessarie per procurare
il cibo sono sempre stati simbolo di prestigio
o sottomissione. Esiste anche una simbolica
suddivisione fra cibi maschili e cibi femminili35;
ad esempio il cibo piccante ha valore maschile
mentre i cibi ‘più delicati’ sono prettamente
femminili, al banco di un bar il caffè corretto è più
maschile di quello semplice che però risulta più
maschile del cappuccino e così via. I cibi hanno
infine valore simbolico in relazione al luogo e al
tempo in cui vengono consumati.
I riti compongono e rafforzano l’identità. Questa
però nasce sempre dallo scambio e dal confronto
49
con culture diverse. La cucina etnica diventa una
realtà cosciente di se stessa quando i confini etnici
vengono sorpassati. Le cucine nazionali sono
state storicamente un importante strumento di
identità. Come sostiene Camporesi36 il ricettario
dell’Artusi ha svolto una funzione non secondaria
nella sintesi della cultura alimentare del nostro
paese, tanto che la Scienza in cucina e l’arte di
mangiare bene ha fatto di più per l’unificazione
nazionale di quanto abbia fatto il Manzoni con I
promessi sposi.
35
Vedesi articolo tratto pubblicato
sul sito dell’Istituto di Scienze
dell’Alimentazione
del
Centro
Nazionale Ricerche,
h t t p : // w w w . s t a m p a . c n r . i t /
documenti/agenzie/2005/Lug/7_
lug_05_4.htm
36
Piero Camporesi, La terra e la
luna. Alimentazione, folclore, società,
Garzanti, Milano, 1989
50
37
Domenico Secondulfo, Dimmi come
mangi e ti dirò con chi sei, in Foodscapes. Stili, mode e culture del cibo
oggi, a cura di Alessandra Guigoni,
Polimetrica, 2004
I rituali del cibo
La combinazione tra tipi di cibi e rituali di
condivisione, crea un sistema di relazioni e
comunicazione capace di regolare tutte le
situazioni di fusione sociale. Nella nostra
cultura, ad esempio, colazioni, pranzi, aperitivi,
cene, inviti, scandiscono la giornata e pesano
socialmente in ogni incontro e situazione.
I rituali del cibo, come si è detto, combinano tempi,
spazi ed azioni; come metafore di fusione sociale
diventano uno degli snodi essenziali del vivere
associato. Non c’è evento in cui legami sociali
vadano costruiti o riconfermati, che non avvenga
attorno o attraverso un rituale di condivisione del
cibo, dal pranzo familiare quotidiano, alla cena
d’affari, ai pranzi matrimoniali o funebri.
Alla luce di ciò, i rituali del cibo vanno considerati
come preziosi cristalli di cultura che, sacri o
profani, elementari o complessi, formano una
trama costante che regola gli aspetti costitutivi e
ricostitutivi della vita di relazione di una società,
esprimendone il suo senso nel mondo. Ciascun
rituale è unico, caratteristico della cultura e del
gruppo che lo ha prodotto, legato ad una precisa
gestione del tempo e dello spazio.
I rituali sono forse tra i mattoni più importanti
con cui sono costruite le società, ed i rituali che
ruotano attorno al cibo ne regolano uno degli
aspetti centrali: i modi ed i livelli di costruzione
e mantenimento dei gruppi e delle relazioni tra
di essi. Nei rituali legati al cibo, quindi, si trova la
sintesi simbolica ma concreta, di quei significati
che fanno unica ciascuna cultura, e questa unicità
delle culture che stratifica nel tempo una sorta
di sistema di dialetti alimentari, radicati nelle
caratteristiche uniche e peculiari del gruppo
sociale che li usa.37
La complessità dei rituali, nelle loro rigide
regole grammaticali di combinazioni di alimenti,
sapori, preparazioni e sequenze – dal salato al
dolce, dal caldo al freddo, dal solido al liquido,
ecc. - rappresentano un complesso linguaggio
attraverso il quale ogni gruppo esprime la
sua individualità ed unicità. Non è quindi
strano che la ricchezza di significati celata nei
rituali alimentari, che si sono storicamente
sedimentati in ogni gruppo e area del mondo,
sia così molteplice, diversa e perfino talvolta
contraddittoria, così come molteplici, diversi
e contraddittori sono i gruppi umani ed i loro
costumi.
Naturalmente il rito cambia a seconda della
città in cui ci si trova. Prendiamo ad esempio
l’aperitivo, il momento di ritrovo dopo il lavoro
nei locali che vanno di moda, in cui ci si racconta
la giornata, si scherza e si tira tardi, saltando
anche la cena. Se nel sud Italia questa tradizione
è meno diffusa, le maggiori città del nord hanno
reso l’aperitivo un vero e proprio rito serale.
L’appuntamento è nei locali più in voga della città
per quello che viene chiamato happy hour, una
tradizione anglosassone debitamente modificata
secondo le abitudini italiane. Se in origine
indicava l’ora felice, in cui gli alcolici costavano
la metà, oggi può durare ben più di un’ora ed è
accompagnata da pietanze di ogni tipo. La moda
dell’aperitivo assume declinazioni locali: nel
nord-est è lo spritz la bevanda alcolica di rito, che
rimanda al periodo della dominazione asburgica.
La merenda sinoira piemontese,38 di antiche
origini contadine, è una sorta di spuntino serale
a base di formaggi, salumi e vino che un tempo
sostituiva la cena. Oggi dalla tavola dei poveri è
passata nei locali del centro di Torino, dove la si
può gustare comodamente seduti.
51
Cibo e calendario
Un aspetto tradizionalmente forte della cultura
alimentare, che oggi sembra essersi in gran parte
perduto, è il valore del cibo rispetto alla scorrere
del tempo.
Il calendario ha sempre misurato il tempo
separando i giorni lavorativi da quelli festivi.
Domeniche, solennità religiose e civili,
celebrazioni a carattere individuale e familiare,
nella società rurale erano spesso coincidenti con
i momenti chiave degli avvenimenti stagionali. Si
solennizzava l’arrivo della primavera, la semina e
la battitura, la raccolta dell’uva, la svinatura, e
l’uccisione del maiale.
Fra queste ritualità, due in particolare davano
il tono della festività: le liturgie religiose e le
abbondanti e gustose mangiate. La festa si
santificava attraverso un vitto dal significato
sacrale, con il quale interagivano motivazioni
psicologiche quali il bisogno di partecipare,
d’esternare abbondanza, di comunicare con i
propri simili. Nella comunità si creava un vincolo
particolare, perché si riteneva che coloro che
assumevano lo stesso alimento passavano le
proprie qualità al gruppo.
La tavola, e quella festiva in particolare, era
38
http://www.merendasinoira.it/
52
momento di aggregazione, e condividere il cibo
era tributo d’amicizia e riguardo.
La scelta dei cibi era correlata all’importanza
della festa, per la quale era fondamentale la
creazione di ricette speciali, ed è per questo
che gli alimenti legati alle feste sono entrati nel
patrimonio popolare e folkloristico delle regioni
italiane.
Oggi, la sovrabbondante disponibilità alimentare,
l’onnipresenza dell’offerta, il livellamento delle
classi socioeconomiche, hanno pressoché
annullato le antiche attese e le dipendenze tra
festa e cibo.
53
Cibo, arte e
sperimentazione
La Gastronomia Molecolare
Il binomio arte-cibo trova una sua corrispondenza:
cucinare è un’arte e alcuni cibi o bevande possono
avere il potere di suscitare emozioni, che nascono
dalla creatività artistica.
Emozione ed intrattenimento sono importanti
quanto il cibo offerto. Ultima creazione i lab,
aperitivi a strati multicolori serviti assieme a
una polverina in provetta che, una volta aggiunta
al bicchiere, scatena una reazione chimica che
trasforma il cocktail in un caleidoscopio di aromi
e colori. Gli aperitivi stimolano la creatività tanto
in luoghi pubblici quanto in casa.39
Anche la natura si adatta al bisogno di
sorprendere.
Gli chef assumono il ruolo di artefici-artisti di
una nuova arte: l’arte culinaria. I loro visi e le
loro divise bianche sono entrati nella National
Portrait Gallery40 di Londra, accanto a quelli
dei reali e degli scrittori di fama. Mai, prima
di Ferran Adrià, un cuoco aveva ricevuto un
riconoscimento come il Lucky Strike Designer
Award41 e l’invito a partecipare a Documenta,42
una delle più importante esposizioni di arte
contemporanea.
Ormai da qualche anno molti grandi chef giocano
con le consistenze degli alimenti più che con il
gusto, stupendo i loro clienti con piatti che hanno
texture molto diverse da quelle originarie del
prodotto. Uova crude con la consistenza della
ricotta, gelati al gusto di sigaro, cocktail solidi,
sono solo alcune delle proposte.
Quest’innovazione è stata possibile grazie
all’applicazione di teorie e tecnologie fino a
quel momento utilizzate solo nei laboratori di
fisica e chimica. La cucina molecolare è quella
disciplina scientifica che insegna a comprendere
i meccanismi che stanno alla base delle
trasformazioni che avvengono negli alimenti
durante la loro preparazione.
L’inventore della gastronomia molecolare è
Pierre Gilles De Gennes: a partire dal 1992,
egli ha riunito chimici, biologi e cuochi con lo
scopo di realizzare esperimenti scientifici in
cucina per arrivare ad elaborare una ‘teoria della
pietanza’. La cucina molecolare, intesa come
semplice moda, ha tuttavia esaurito quasi subito
il suo potenziale di attrazione nella gente. Sono
pochi, infatti, i ristoranti che propongono menù
interamente ‘molecolari’, poiché è possibile
stupire il consumatore anche senza utilizzare in
39
www.worldwidefred.com
40
http://www.npg.org.uk
41
Lucky Strike Designer Award del
2006
http://www.raymondloewyfoundation.com/
42
www.documenta12.de
pagina
55
19. Foto.
John Reardon, Chefs’ Last Dinner,
National Portrait Gallery, Londra,
2006
56
43
http://www.foodpairing.be/
http://blog.foodpairing.com/
tutti i piatti consistenze strane e accostamenti
arditi, che invece trovano una giusta collocazione
in qualche piatto di un menù di degustazione.
Quasi tutti gli chef di alta cucina, da qualche
anno hanno però iniziato ad utilizzare tecniche
e strumenti che nascono proprio con la cucina
molecolare, come sifoni, cotture sotto vuoto,
gelatine, mousse, e hanno inserito nei loro
menù piatti preparati utilizzando queste
tecniche. Ecco allora che è possibile trovare
la vera dimensione della cucina molecolare
intesa come scienza applicata in cucina, non per
inventare un nuovo modo di cucinare, ma per
comprendere meglio i fenomeni fisico-chimici
che avvengono durante la preparazione dei
piatti, di spiegarli scientificamente e di sfruttare
queste conoscenze per migliorare la qualità delle
preparazioni. In parole povere, la gastronomia
molecolare ha fatto diventare la cucina da una
disciplina prettamente empirica a una vera e
propria scienza. I vantaggi di quest’approccio
sono ovviamente notevoli. La cucina molecolare
stupisce soprattutto per le consistenze inusuali,
ottenute sfruttando la comprensione profonda
dei fenomeni di interazione tra le particelle di
carboidrati, proteine e grassi contenute nei cibi.
Il vero scopo di questo tipo di cucina è quello di
fornire le nozioni di fisica e di chimica necessarie
per comprendere i fenomeni che stanno alla base
delle preparazioni culinarie. Il rischio di ogni
disciplina che non dimostra scientificamente ciò
che afferma, è quello di prendere delle cantonate
colossali e perdere di oggettività. Se ci pensiamo
bene, la cucina è piena di dicerie, segreti,
trucchi indimostrati, quasi fosse una disciplina
alchemica. La gastronomia molecolare ha dato
serietà e scientificità alla cucina, ha modernizzato
una disciplina fondata su luoghi comuni e su
‘consigli della nonna’ spesso infondati.
Food Pairing
Evoluzione della cucina molecolare, il Food
Pairing43 è lo studio scientifico dell’abbinamento
dei sapori in base alla loro composizione
molecolare. Si basa sul principio che gli alimenti
si combinano bene tra di loro quando hanno in
comune componenti aromatiche importanti.
Il processo inizia con un’analisi aromatica di
un prodotto che deve essere abbinato. L’analisi
in pratica separa e identifica i vari componenti
del sapore, i quali, una volta analizzati, vengono
confrontati con un database di diverse centinaia
di prodotti, sia cibi che bevande. Quelli che
risultano avere componenti di sapore in comune
con il prodotto in analisi verranno poi presentati
in un grafico ad albero dal quale emergeranno
tutte le combinazioni possibili.
57
Food Design - il cibo è materia, il cibo è linguaggio
Negli ultimi anni oltre a studi legati al cibo ed alle
sue trasformazioni, si è sviluppata una disciplina
che analizza il cibo in senso più ampio. Il Food
Design44, teorizzato nel 2002 da Paolo Barichella,
è la progettazione degli atti alimentari – food
facts – elaborando i processi più efficaci per
rendere più agevole e contestualizzata l’azione
di assumere una sostanza commestibile in un
preciso ambiente e circostanze di consumo, in
rapporto con un ambito di analisi sociologica,
antropologica, economica, culturale e sensoriale.
Prende in analisi i motivi per i quali viene
compiuto un atto alimentare, in particolare
per comprendere come progettarlo. Significa
proporre soluzioni alimentari efficaci in un
contesto dove il prodotto sia funzionale al tipo di
ambiente di consumo, e soprattutto all’esigenza
dell’utente in diversi momenti e situazioni di
consumo. Riassumendo si può dire che è la
progettazione consapevole di contesti, interfacce
e strumenti funzionali, complementari all’atto
di alimentarsi, che può arrivare a consistere
nell’alimento stesso.45
Il manifesto redatto nel 2006 recita: ‘Ergonomia,
porzionabilità, contestualizzazione, funzionalità,
problem solving, praticità, tecnologia, innovazione,
progresso, ricerca, economie di scala, corretto
rapporto qualità/prezzo, customer satisfaction…
Queste sono alcune tra le più importanti parole
chiave e parametri che vengono analizzati durante
un processo di Food Design e ne formano la base di
ricerca. […]’ 46
Esistono tre tipi di approccio al food design:
1. Progettare luoghi o strumenti per la produzione
e/o il consumo del cibo - ammesso solo se il
prodotto è il punto di partenza nella progettazione
di un concept store;
2. La progettazione alimentare – progettare
alimenti fatti con materia edibile;
3. La progettazione di portata – progettare in
modo contestualizzato alimenti e/o strumenti
complementari e inscindibili tra loro.
In tutti e tre i casi si può parlare di food design
solo se si conosce l’esatta distinzione che
intercorre nei momenti legati al consumo:
nutrimento, socializzazione, piacere. Fare del
Food Design significa risolvere problematiche
di servizio legate a momenti di consumo del
cibo in questi tre contesti principali. Inoltre, si
prevede la conoscenza del processo che porta
all’identificazione della forma come ultima fase
del progetto.
44
http://www.fooddesign.it/
45
http://www.fooddesign.it/
46
http://www.scribd.com/
fullscreen /77654064?access_
key=key-27egv4pg4np60fex3gbo
CASO STUDIO
Finger Food
Un nuovo approccio al cibo
Il termine era nato inizialmente per indicare
un’idea gastronomica collocabile a inizio pasto e
costituita da pasticceria salata mignon o aperitivi
da gustare in punta di dita.
L’espressione si è poi estesa per comprendere
in modo generale tutto il cibo mangiato con le
mani, cioè pre-porzionato da uno chef, che per
20. Foto.
Small entities, progettate da Marco
Maggioni
essere ingerito non prevede l’utilizzo di utensili.
L’evoluzione delle abitudini sociali riguardo a
eventi, lunch, party in piedi, e happy hour ha
favorito lo slancio progettuale verso questo tipo
di formato di food design, sviluppando nuovi
strumenti, formati e intervacce per assolvere a
questo particolare approccio al cibo.
CASO STUDIO
Fooda
Happening Food in The City
Milano
Il progetto nasce da una riflessione sulla natura
delle implicazioni sociali del convivio e dalla
volontà di sperimentare nuove forme conviviali
estese portandole nelle città come risposta
materiale alla diffusione dei social network. Un
esperimento e un primo passo che FOODA47
muove nella ricerca progettuale del linguaggio
degli Atti Alimentari - o food design.
Il linguaggio degli Atti Alimentari è un complesso
sistema di segni e simboli dove gli atti conviviali,
il cum vivere, contribuiscono a costruirne
la manifestazione estetica. Più che in ogni
altro luogo della casa è infatti a tavola che le
relazioni e le strutture gerarchiche, i rapporti
e le problematiche vengono manifestate e
regolarizzate sul piano del rapporti sociali.
È nei riti che circondano la tavola che l’uomo
manifesta la propria natura sociale. Celebrando
in un rituale collettivo la propria rigenerazione
quotidiana, egli impiega il gesto della comunione
alimentare come veicolo di comunicazione. La
mensa e la tavola hanno infatti, un forte valore
simbolico, che ci permette di manifestare la
nostra identità, quella del sistema sociale cui
aderiamo e il nostro modo di intendere la vita.
Sin dall’antichità, dall’agorà greca, dal foro
romano e, ancor prima fino agli spazi delle
piattaforme virtuali di socializzazione la piazza
ha mantenuto, pur mutando modelli e sistemi
differenti, la sua caratteristica principale di luogo
di forti concentrazioni culturali e sociali. La
piazza è dunque, prima di ogni altra cosa, scena
della vita collettiva, mezzo per la celebrazione
di riti e per questo scelta da FOODA come
scenario ‘naturale’ in cui realizzare un evento di
socia(bi)lità, con cui rendere evidente il rapporto
indivisibile che esiste tra il linguaggio – nelle
sue forme e soprattutto in quella culinaria – e la
creazione dei rapporti sociali.
47
www.fooda.org
21. Foto.
Una delle iniziative Fooda
CASO STUDIO
Jeux Cusine
Charlotte Brocard
dal 2007
[... pasto come
attivatore di
relazioni, momento
di condivisione,
scambio, interazione,
ambito privilegiato
per l’indagine
sociale... ]
48
www.onnejouepasatable.com
22. Foto a destra.
Sequenza del gioco On ne se moque pas
des autres à table: tutti i commensali
hanno un insieme di oggetti diversi;
devono mangiare con questi utensili
nel modo più appropriato possibile,
cercando di sporcare il tovagliolo il
minimo indispensabile.
Il pasto come attivatore di relazioni, momento
di condivisione, scambio, interazione, ambito
privilegiato per l’indagine sociale. Queste le
premesse della designer francese che, attraverso il
suo lavoro, invita a riflettere sulle caratteristiche
e sul significato del pranzo contemporaneo. I
nuovi ritmi e stili di vita hanno progressivamente
allontanato il momento del pasto dall’essere
momento di scambio e interazione sociale. Per
questo, con ironia e leggerezza, mette in scena
e filma pranzi unici, durante i quali gli ospiti
devono giocare per mangiare, e viceversa.
Una serie di giochi da tavola sono alla base
di questi insoliti pranzi, in cui il cibo diventa
strumento per creare connessioni, obbligando
i commensali a interagire e relazionarsi tra
loro. I giochi progettati alterano volutamente
le abituali e più consolidate regole dello stare a
tavola, rendendo il pasto un momento diverso, di
svago, di puro divertimento. I giochi, gli oggetti
e le regole imposte, incoraggiano i partecipanti
a comunicare tra loro e a riscoprire il piacere
di stare a tavola e condividere l’esperienza del
pasto. Buone e cattive maniere sono abolite:
sono le nuove regole del gioco le uniche guide di
comportamento da seguire. 48
61
23. Foto in alto a sinistra.
Gioco: On n’utilise pas les même
couvert que son voisin; i commensali due o quattro - hanno tre minuti per
mangiare con una posata comune
tutto il contenuto dei loro piatti.
24. Foto in altro a destra.
Logo del progetto Jeux Cuisine.
25. Foto in basso.
Gioco: On ne gene pas son voisin de
table; i commensali hanno i polsi
uniti da un elemento rigido in legno.
Devono collaborare per riuscire
a finire il loro piatto e risultare la
coppia più organizzata ed efficace.
Funera & Sharing
Dinner
Marije Vogelzang
Ama definirsi eating designer perché l’atto del
mangiare rappresenta il punto di partenza del
suo lavoro. È durante gli anni di formazione
che la designer focalizza la sua attenzione sul
cibo e sulle sue ancora poco esplorate valenza
progettuali.
Nel 1999, ancora studentessa, progetta Funeral
Dinner: il colore bianco, in molte culture è
associato alla morte, viene indagato, analizzato
e progettato. Il risultato è una performance
totale, in cui cibo, partecipanti e contesto
interagiscono in perfetta sincronia cromatica.
Il cibo, rigorosamente bianco, è l’elemento
centrale attorno al quali si sviluppa l’esperienza
nella sua complessità. I semplici abiti bianchi
dei commensali e l’ambiente assolutamente
neutro contribuiscono a restituire un’immagine
di armonia assoluta, in cui i rituali connessi al
cibo sembrano trasformarsi in veri e propri atti
consolatori.
L’idea del cibo come esperienza totale viene
ulteriormente indagata nel 2005, quando Droog
Design le commissiona l’organizzazione della
tradizione natalizia. Tralasciando gli aspetti
puramente religiosi, la designer decide di
esplorare il significato dello stare insieme che
sta alla base dell’evento, ideando una Sharing
Dinner, esperienza estrema di condivisione del
cibo e dello stare insieme a tavola. Una tovaglia
particolare, ancorata al soffitto, crea lo spazio
virtuale della cena a cui i partecipanti accedono
infilando testa e mani in apposite aperture. Ogni
elemento è pensato per stimolare l’incontro
e lo scambio: i commensali sono costretti a
scambiarsi accessori, condividere stoviglie e
pietanze, in un continuo interagire gli uni con gli
altri, fino all’atto finale in cui si liberano tagliando
la tovaglia grazie alle forbici fornite insieme alle
posate. 49
[... nuove valenze
progettuali del cibo...
come esperienza
totalizzante... ]
49
www.marijevogelzang.nl
26. 27. Foto.
Immagini di una delle sue performance in cui il colore
bianco del cibo è il tema di analisi
pagina
65
I luoghi
del cibo
“Non c’è posto al mondo che io ami più della
cucina. Non importa dove si trova, com’è
fatta: purchè sia cucina, un posto dove si fa da
mangiare, io sto bene. Se possibile le preferisco
funzionali e vissute. (…) Anche le cucine
incredibilmente sporche mi piacciono da morire.
Mi piacciono col pavimento disseminato di
pezzettini di verdura, così sporche che la suola
delle pantofole diventa subito nera (…). E se per
caso alzo gli occhi dal fornello schizzato di grasso
o dai coltelli un po’ arrugginiti, fuori le stelle
che splendono tristi. Siamo rimaste solo io e la
cucina. Mi sembra un po’ meglio che pensare
che sono rimasta proprio sola… Nei momenti
in cui sono molto stanca, mi succede spesso di
fantasticare. Penso che quando verrà il momento
di morire, vorrei che fosse in cucina. (…) Magari
fosse in cucina!”50
50
Banana Yoshimoto, Kitchen, Feltrinelli, Milano, 1991
66
Come detto nei capitoli precedenti il cibo ha
un valore sociale e culturale. Da ciò deriva
l’importanza dei luoghi in cui questo viene
consumato ed il loro significato.
Quando si parla della relazione tra esperienza e
cibo ognuno di noi apre e dischiude le porte della
sua esperienza personale, intima, e lascia andare
la mente alla sua storia personale; a quella delle
persone, dei luoghi, dei sapori, delle situazioni
che quel particolare alimento trascina con sé. È
uno degli elementi attorno a cui si costruiscono
riferimenti delle nostre storie.
Dalle righe di Banana si evince il legame che ci
lega al cibo, al modo con cui viene preparato, ai
luoghi in cui viene consumato. Quello che non
dice è che il nostro immaginario sul cibo non
è solo legato alla cucina ma a tutti i luoghi ed
esperienze in cui il cibo fa parte della nostra vita,
del nostro paesaggio quotidiano.
Mangiare in casa ha una valenza familiare, è
legato ad immagini di intimità e a legami affettivi.
Ma all’interno del medesimo contesto vi sono
luoghi che hanno valenze diverse rispetto alle
pratiche alimentari: ritrovarsi in cucina è un
atto legato alla quotidianità, alla routine, a pasti
veloci ed informali. Se invece si pensa ai pasti
consumati in sala da pranzo,sono generalmente
legati a momenti di celebrazione, in cui i tempi
sono dilatati.
I trend attuali in molti casi stravolgono questi
comportamenti, secondo due modelli opposti: nel
primo caso gli spazi si riducono e viene meno la
possibilità di mangiare in cucina, dato che questa
ha dimensioni molto ridotte o addirittura perde
la sua autonomia come ambiente a sé, diventando
un angolo cottura all’interno della zona giorno
delle abitazioni.
Il secondo caso, invece, vede il dilatarsi degli spazi:
la cucina, assume così maggiore importanza, non
è più uno spazio di servizio, da nascondere, da
vivere solo in famiglia; si apre ad amici ed ospiti,
diviene luogo conviviale per eccellenza della casa,
riassume il significato che nell’antichità aveva il
focolare domestico, come perno di tutta la casa.
Questa nobilitazione della cucina si può
riscontrare non solo nell’ambiente domestico,
ma anche nell’ambito della ristorazione. Sono
sempre più i ristoranti che aprono le porte
delle loro cucine: questi spazi non vengono più
nascosti, anzi, sono sempre più esposti allo
sguardo e all’attenzione dei consumatori. Questo
fenomeno può essere spiegato anche dal fatto che
mostrare ciò che viene cucinato è uno strumento
per assicurare la qualità delle pietanze servite.
Ne sono un chiaro esempio i numerosi sushibar
che affollano la scena ristorativa delle maggiori
città. Punto focale del luogo diviene il sushiman
che sotto gli occhi di tutta la clientela mostra le
sue abilità.
67
L’ibridazione del cibo
Per quanto riguarda i luoghi del cibo fuori casa, il
ristorante si configura come lo spazio di consumo
dei pasti per eccellenza. Per quanto detto in
precedenza, non si presenta solamente come
luogo in cui viene svolta un’attività primaria
per l’esistenza umana – il soddisfare il senso di
fame – bensì è un luogo di socializzazione e di
affermazione della propria identità.
In molte realtà contemporanee gli spazi del
consumo del cibo si mescolano con i luoghi della
vendita, in cui vengono anche erogati altri servizi.
La nuova tendenza della ristorazione, infatti, ha
sposato l’ibridazione e nei locali la possibilità di
consumare un piatto caldo si incrocia con quella
di fare un acquisto o di usufruire di un servizio;
gli esempi sono molti, il momento del pasto viene
inserito in contesti sempre più imprevedibili: a
Milano il Fioraio Bianchi51 ha fatto posto a sedie e
tavolini per dare luogo ad una caffetteria raffinata,
da Gattò52 è possibile mangiare, acquistare vestiti
e magari assistere alla presentazione di libri.
Negli ultimi tempi si sono moltiplicati in tutto
il mondo anche i luoghi di ristorazione che
propongono altre forme di intrattenimento o di
servizio; ristoranti che svolgono attività culturali,
che propongono attività legate ai viaggi, altri con
punti vendita di moda, o che organizzano mostre
o proiezioni cinematografiche. In America
sono ormai popolari i cosiddetti Knit Cafè o
Knitting Group, incontri per lavorare in gruppo,
organizzati dai bar a cui partecipano uomini
e donne stressati dalla routine quotidiana; ad
esempio le clienti possono stare per il breve
tempo di un cappuccino oppure si siedono per
farsi un pullover di lana, vi trovano giornali pieni
di articoli per avere gli spunti giusti e, accanto
alle sessioni giornaliere di maglia, anche una
vasta scelta di lezioni ed eventi. Esempio di Knit
Cafè a Milano è il Coffee Design53 oppure il Bistrot
Bovisa54.
La cucina non vive più da sola, ma si inserisce
di volta in volta in discoteche, luoghi di incontro
eclettici. Il ristorante diventa showfood,
propone spettacoli non convenzionali e tenta
un coinvolgimento totale del cliente, in quella
tendenza definita eatainment: coniugare nello
stesso luogo ristorazione e intrattenimento.
Ristoranti, osterie, pizzerie, pub, bar sviluppano
in vario modo la tendenza allo spettacolo.
Si diffondono le cucine a vista, i piatti che
privilegiano l’aspetto scenografico, le gare ai
fornelli, gli spazi sono sottoposti al restyling
51
http://www.fioraiobianchicaffe.it/
storia/
52
http://www.gattomilano.com
53
www.triennale.it
54
www.triennale bovisa.it
pagina
di architetti; il tutto è finalizzato alla ricerca di
esperienze uniche e memorabili.
L’ibridazione tra cibo e arte dà luogo a locali che
si propongono come luoghi di ristorazione e come
esposizioni artistiche. Questa commistione
raggiunge l’apoteosi con il ristorante del museo
d’arte Mac/Val di Vitry-sur-Seine a Parigi, in cui
ogni mostra si traduce in quadri commestibili
proposti da famosi chef.55 Comune a queste
esperienze è l’attenzione all’aspetto visivo,
pittorico e scultoreo della composizione a tavola:
ogni vivanda ha un’architettura originale che dà
la sensazione di mangiare un’opera d’arte.
55
www.restaurant-trasversal.com
28. Foto.
Vetrina di Gatò - Robe & Cucina
29. Foto pagina accanto.
Interno del fioraio Bianchi
69
70
Cucina del territorio o cucina tradizionale?
Sorgono i musei del gusto, che sono parte di
azioni di marketing territoriale o di strategie
di valorizzazione di prodotti con una forte
connotazione locale, ma che rispondono anche
all’esigenza di salvaguardare la memoria del
cibo e dei procedimenti di produzione. Il Food
Museum56 iniziativa newyorkese con obiettivi
educativi, ha lanciato nel 2005 The Global Food
Heritage Project, a salvaguardia della memoria
del cibo; missione del progetto è l’identificazione
e la conservazione di musei dedicati al cibo, aree
di origine e provenienza di particolari alimenti,
fattorie, fabbriche, ristoranti e hotel storici,
luoghi associati a ricette e prodotti alimentari.
Anche per questa via i consumi alimentari
intrecciano rilevanza economica e, al tempo
stesso, sociale. Così la riscoperta delle tipicità e
del gusto che connota le comunità locali non ha
un valore solo in ambito commerciale e turistico,
ma è parte delle azioni dotate di senso rivolte
a cercare e preservare elementi di identità
individuale e collettiva.
56
www.foodmuseum.com
Mangiare prodotti tipici di un determinato luogo
e quindi conoscere attraverso prodotti, ricette
e cucina una data cultura in modo consapevole
è un fenomeno abbastanza giovane, che occupa
il dibattito sulla cultura alimentare in seguito
alla dicotomia tra cucina del territorio e cucina
internazionale, ovvero tra un modello ‘locale’ e
uno ‘globale’.
Prima di tutto bisogna distinguere tra prodotti e
piatti, e quindi tra cucina del territorio e cucina
tradizionale; la prima infatti fa riferimento alle
materie prime utilizzate, mentre la seconda
è più legata alle ricette, alle tecniche, al ‘know
how’ ed alle regole tramandati di generazione in
generazione.
L’elogio della diversità, che accompagna la
promozione della cultura gastronomica, non è
nostalgia del passato, bensì riguarda presente e
soprattutto futuro. Oggi il territorio costituisce
un valore di riferimento assoluto nelle scelte
alimentari, non c’è ristorante che non ostenti
la proposta di una cucina legata al territorio;
la cucina di territorio, quindi, è un’invenzione
moderna, di tendenza.
71
Il cibo come attrazione turistica
Come già detto, tra gli elementi di cultura
materiale, un ruolo centrale è ricoperto dal cibo:
nella sua produzione e raccolta, nonché nel
suo tempo di consumo in relazione ai luoghi, si
associano aspetti di conoscenza materiale e non
materiale tali da permettere di iniziare l’esame
dei contenuti di una specifica cultura. Inoltre, il
cibo, la cucina e l’alimentazione appaiono come i
terreni sui quali si gioca il conflitto più generale
tra la dimensione globale e quella locale.
Se è vero da un lato che la società basata sul
consumo e sulla globalizzazione avrà nel turismo
di massa una delle sue industrie più floride, la
dialettica tra globale e locale innesta un altro
tipo di turismo, maggiormente individualizzato,
orientato a valorizzare le particolarità e le
differenze dei vari luoghi, e tra questa peculiarità
un forte peso è rappresentato dai cibi e dai rituali
ad esso collegati.
Dopo una prima fase in cui puntualmente i cibi
locali vengono sacrificati o profondamente
modificati per far posto al supposto gusto
internazionale dei turisti, più recentemente
molti operatori del settore si sono impegnati in
operazioni di restiling simbolico, difendendo la
particolarità dei propri prodotti, rivolgendosi
ad un pubblico medio alto, ma non per questo di
nicchia.
Dal superamento del concetto del cibo, o meglio
del sistema cibo, inteso come soddisfacimento
della gola e del gusto, il cibo assume la funzione di
medium in grado non solo di comunicare cultura
materiale, tradizione, emozioni, sapori, profumi,
ma anche di generare valore nel territorio.
Insomma, il cibo viene visto come un grande faro
in grado di attirare l’interesse dei viaggiatori e dei
media distribuendo nuova e inaspettata ricchezza
nel territorio. Nel secolo dell’insicurezza
alimentare, nell’era degli alimenti transgenici,
nell’epoca della globalizzazione, il cibo non
omologato diventa protagonista economico e
mediatico.
La risposta più efficace alla globalizzazione è
una controriforma che dia voce e forma a quei
prodotti che sono da sempre in minoranza per
la dimensione economica dei loro produttoriartigiani e per la difficoltà di arrivare ai mercati
e quindi di essere conosciuti. Il giacimentomedium può illuminare un territorio,
rendendolo visibile e visitabile al gastronauta57
o al foodtrotter,58 sviluppando ricchezza nel
luogo d’origine. Nel nuovo scenario emergente
57
gastronauta: esperto capace di vedere la bellezza di un luogo grazie a
molteplici competenze, che vanno
dal marketing alla cultura dei sapori
e dei prodotti locali. Termine coniato
da Davide Paolini. Vedi dibattito ‘Il
Gastronauta può essere un mestriere?
Analisi di una nuova professione per
lo sviluppo della cultura materiale dei
territori’, Milano, dicembre 2006
58
foodtrotter: il turista per il quale assume una rilevanza centrale l’aspetto
enogastronomico; è attirato dal prodotto tipico lavorato a mano, unico
e di un certo territorio; è sensibile al
territorio e alle sue caratteristiche,
attribuisce la stessa rilevanza alle
risorse enogastronomiche e ai servizi
turistici del luogo
72
il cibo ormai trascende la gola ed il palato. La
riscoperta delle radici, l’interesse per la zona
di provenienza, la sensibilità per gli aspetti
antropologici, il desiderio di conoscere la storia,
la dimensione estetico-sensoriale si sommano
e vanno ad interferire con la gratificazione
orale nell’apprezzamento di molti prodotti o
di diversi piatti. Il cibo diventa protagonista
di una rivoluzione copernicana; è lui il centro
dell’attenzione, perché autentico, originale.
Migliaia di turisti percorrono chilometri per
assaggiare vini, visitare cantine, degustare
prosciutti e salami: questo è il nuovo fenomeno
del cibus turismo. Dal dopoguerra in poi, in
Italia abbiamo assistito a un graduale processo
di ristrutturazione sociale che, a seguito
dell’abbandono delle campagne e dell’attività
agricola, ha avuto nell’urbanizzazione il suo
fenomeno più importante.
Per trasformarsi in polo d’attrazione per un
turismo gastronomico, le specialità devono
innanzitutto avere la prerogativa di non essere
prodotte in larga quantità. Per questa tipologia
di consumatore il prodotto alimentare viene
considerato una specialities, e pertanto per il
suo processo d’acquisto è considerato del tutto
normale lo spostamento fisico verso il luogo di
produzione. Nonostante il prodotto sia reperibile
vicino a casa, questo tipo di consumatore
preferisce il consumo e l’acquisto in loco: chi ama i
grandi vini trova piacere nel parlare direttamente
con i produttori, vedere le vigne e le cantine,
degustarli prima di fare l’acquisto. Questo bisogno
intrinseco che accompagna i consumatori di tali
prodotti rappresenta da solo una potenziale fonte
di turismo, che però, non deve essere annullato da
una produzione facilmente acquistabile ovunque,
anche nel negozio sotto casa.
73
30. Foto.
Immagini degli artisti che fanno
parte della Vegetable Orchestra: gruppo musiale che utilizza solo elementi
vegetali per relizzare i propri strumenti
CASO STUDIO
Unser Land
Germania
dal 1994
31. Foto.
Logo dell’associazione
Non è la birra l’unico prodotto tipico della
Baviera; ma anche per gli abitanti di alcune città e
paesi dell’area di Monaco capire cosa significasse
‘prodotto tipico’ ha richiesto un po’ di tempo
e tante discussioni. Tutto cominciò nel 1994,
quando i membri di una parrocchia di un piccolo
villaggio nel distretto di Fürstenfeldbruck
decisero di produrre e commercializzare
direttamente il pane della tradizione del loro
territorio, prodotto con farine locali. Alla fine
di quell’anno tutte le 29 panetterie nel distretto
vendevano pane tradizionale; nel 2004, dieci
anni dopo l’avvio del progetto, 180 agricoltori – di
cui il 10% convertiti al biologico – producevano
40 prodotti locali sostenibili venduti in 200
panetterie, 8 macellerie, 530 supermercati e
negozi, e 21 ristoranti. Il tutto prodotto e venduto
in un raggio di circa 100 km; non un progetto
circoscritto ai piccoli villaggi, i prodotti venivano
infatti venduti anche nelle maggiori catene di
supermercati della grande Monaco. L’evento di
avvio del progetto è stata la presentazione del pane
tipico locale alla popolazione; contestualmente è
stata fondata l’associazione “Comunità solidale
Bruker Land”, con forte richiamo alle tradizioni
del luogo. L’iniziativa legata alla filiera del pane si
basava fin dall’inizio su una serie di motivazioni
e di obiettivi molto articolati. I promotori, che
volevano ‘fare qualcosa per la conservazione del
creato’, erano consapevoli che la sopravvivenza
di piccoli agricoltori e artigiani in un contesto
come quello bavarese fosse legata, da un lato,
all’introduzione di standard qualitativi alti in
grado di distinguere i loro prodotti e, dall’altro, alla
necessità di rendere i consumatori consapevoli
dei costi e compartecipi dei problemi legati
alla produzione. Il tutto unito all’intenzione di
contribuire in qualche modo alla conservazione
ed al miglioramento delle qualità del territorio
circostante. In questa direzione il progetto ha
reso possibile la conservazione di una particolare
tipologia di terreno coltivato a prato, chiamata
hill meadows, abbandonata perché la normativa
sugli aiuti di Stato non ne rendeva più redditizia
la gestione. L’associazione, su questi campi, ora
coltiva fieno per gli animali e lo vende indicando
sull’imballaggio che l’acquisto di questo prodotto
aiuta la Baviera a mantenere questi prati, che
costituiscono una preziosa risorsa paesaggistica
che fa parte delle caratteristiche tipiche di queste
zone.
Nel ’98 venne adottato il marchio registrato
‘Brucker Land’ per facilitare l’identificazione dei
prodotti, ma anche per fornire informazioni utili
ai consumatori: su ogni confezione di prodotti
con il marchio viene spiegata la differenza tra
i metodi di produzione comunemente diffusi e
quelli dei prodotti marchiati. 59
59
www.unserland.info
[email protected]
CASO STUDIO
60
Fraich’attitude
www.fraichattitude.com
32. Foto.
Gli spazi di Fraich’attitude, molto colorati e vivaci, quasi pop
33. Foto pagina accanto.
Calendario dei frutti e dei legumi
Parigi,
2004
Il progetto è promosso da Interfel, associazione
francese che riunisce le organizzazioni produttive
e distributive del settore ortofrutticolo. Da
sempre impegnata nella sensibilizzazione del
consumatore sull’importanza di una corretta
alimentazione attraverso il consumo di frutta e
verdura, è nota per le sue campagne informative
che promuovono la conoscenza e la riscoperta dei
valori e delle proprietà dei prodotti freschi.
Una cucina collettiva al centro di Parigi: un luogo
dove cucinare insieme, ma soprattutto uno spazio
dove sperimentare, imparare, riscoprire il valore
di frutta e verdura e il piacere di cucinarli.
È possibile partecipare a workshop di cucina –
a base di frutta e verdura di stagione – curati da
chef, dietologi, autori di cucina e foodblogger.
Lo spazio, ideato da Matali Crasset, è piacevole,
fluido, funzionale, facilmente accessibile: colori,
materiali, forme danno l’idea di domesticità
diffusa. Al bancone centrale a Y per le lezioni
pratiche, si affianca una zona più intima e
raccolta, dove consultare libri, scambiare ricette
ed assistere a lezioni teoriche. Sono inoltre
presenti una biblioteca tematica ed uno spazio
espositivo che propone un ampio calendario di
eventi e mostre sul tema.60
pagina
NoteUdam dellaborum nos dolorep
udaepti aecearit, cus ium id quaectas
aboremquiate nis coriaecatius quidi
odi occae. Nem. Et fugiae dolorro
quae. Solendit lamenis quasperum
int dusani ium liquas eos esequam
resciam, qui cuptatestion nossin eum
laborepro et est quas maiore sed mil
eat.
Tem ex et utecerferrum quibus aut
plite sitate cus.
Facest explige ndandio tet eum autem sa et qui seque laborestis ex ex
eostrum ute pro mossequae liciatis
milluptus invendandem derepeliqui
voluptatur sequodis comnim voloreiciur, ipsus.
Usa que nonsediam quia sandaes di
que prorepra dis natem hic totaquisquis erio consequo coriorature pro
quatiae quossimagnis eiumquas dic
tem facerem quid ut voluptae inverum voluptat eum fuga. Mintet lat.
Sim audanditia andande volupta temporiatem iume rem fugitese ma sum
volore doluptati odi ut ut volorrum
eati ideliquo officie nissitempor acit
earum niscipsum sandebitin commoditate voluptias doluptur?
Olorisimi, volorem nobit quae corpos
perspediam, vent lacerchil earum
CASO STUDIO
Guerrilla Cuisine
Oakland, San Francisco
2007
[…an experiment
in collaborative
dining... ] 61
61
www.guerrillacuisine.com
34. Foto in alto.
Manifesto
35. Foto in basso.
Immagine di uno
promossi
degli
eventi
Ricetta? Mettere insieme cuochi di tendenza,
produttori e agricoltori locali, artisti cool e
istituti di beneficenza (a cui donare l’incasso)
per proporre ai partecipanti un’esperienza di
degustazione culinaria unica.
Nato come movimento per la liberazione del
gusto, partendo dall’idea della cena underground,
il gruppo ha saputo evolvere indagando limiti e
potenzialità dando vita a inediti eventi culinari, a
cavallo tra iniziativa sociale, serata gastronomica
e performance artistica.
Jeremy Townsend, uno degli ideatori, la definisce
una sorta di anti-ristorazione, capace di rendere
il momento della cena fuori casa un’esperienza
unica e stimolante. Non è sedersi ad un tavolo e
scegliere il proprio piatto preferito, bensì vivere
un’esperienza in totale condivisione con gli altri
partecipanti.
Spesso l’evento è organizzato in location insolite
– gallerie d’arte, circoli letterali, magazzini
commerciali, cortili privati… - e si intreccia con
performance musicali, happening letterari o
spettacoli danzanti. Ma non ci si limita all’evento:
Guerrilla Cuisine vuole promuovere un consumo
critico e consapevole nei confronti del cibo. Il
simbolo ne sottolinea la filosofia di fondo: attento
ai luoghi di provenienza degli alimenti utilizzati,
sostiene il consumo di alimenti di origine locale
provenienti dal live power (dall’impiego esclusivo
di forza umana e da animali da tiro):
Alle cene organizzate si accede tramite il passa
parola, e solo se si viene introdotti da qualcuno
già interno al movimento.
pagina
81
Conclusioni
Come si è avuto modo di analizzare all’interno di
questo capitolo il ruolo fondamentale che il cibo
ha mantenuto dall’antichità ad oggi è quello di
avere il potere di riunire persone diverse attorno
ad una stessa tavola e di farle dialogare, sia che si
tratti di un veloce lunch di lavoro sia che si tratti
di banchetti luculliani organizzati per celebrare
delle ricorrenze.
propria forma fisica, attenzione che si manifesta
non soltanto attraverso l’allenamento fisico ma
anche attraverso la ricerca di uno stile di vita
più sano a 360° che comprende quindi anche
un’attenta analisi del cibo che si assume. La
conta delle calorie presenti nei cibi non è più
soltanto una cosa da fanatici della forma ma sta
accomunando un po’ tutti.
Il cibo accomuna persone che si conoscono da una
vita così come perfetti estranei. Tutti abbiamo
bisogno di nutrirci perché è il nostro stesso
organismo a richiedercelo. Spesso non si mangia
solo per nutrirsi ma per trarne piacere. Questa
nuova ottica del mangiare per piacere si è andata
diffondendo dal secondo dopoguerra ad oggi.
L’abbondanza e il boom economico degli anni
‘70 hanno portato con loro anche diverse piaghe
sociali che hanno avuto serie ripercussioni sulla
società. Una tra queste è l’obesità. Mentre prima
l’avere qualche chilo in più veniva considerato
emblema del benessere ora l’obesità è diventata
solo il simbolo di consumi smodati di sostanze
sbagliate, che invece di nutrire il nostro organismo
lo intossicano. Per prevenire e combattere questo
fantasma i giovani sono sempre più attenti alla
Tutti gli scandali che hanno riguardato cibi
geneticamente modificati, OGM la sigla che
li identifica, sono stati un forte campanello
d’allarme che ha spinto ad una sempre maggior
attenzione circa l’origine e la freschezza di cosa
si consuma.
Consumare cibo buono e sano, ecco quello che si
ricerca oggi, e se è possibile farlo in compagnia
ancora meglio!
CAPITOLO 2
Gli orti
comunitari
85
Forse in risposta al senso di estraniamento che
deriva dal vivere nelle moderne metropoli, il
cittadino cerca di avere un ruolo il più possibile
attivo nella società. Alla base di ciò, oltre alla
voglia di conoscere gente nuova e di migliorare
l’aspetto delle proprie città, sta la consapevolezza
che solo dandosi da fare si possono raggiungere i
risultati sperati.
La ricerca del bello non si limita alla forma
fisica, l’individuo moderno vuole essere bello e
circondarsi di cose belle, ed è in questa ottica che
s’inscrive la ricerca del bello anche all’interno
delle città, con la creazione di spazi curati fin
nei minimi dettagli; spazi funzionali dal punto
di vista pratico ma anche spazi belli dal punto di
vista estetico.
Il concetto di orto urbano si sviluppa quindi in
questo contesto di spasmodica attenzione alla
forma. Si vanno ad utilizzare spazi dismessi
per poterli trasformare in giardini piacevoli da
osservare ma anche generatori di primizie da
gustare. Cibo per gli occhi e per il corpo.
Data la preziosità del tempo libero in un’epoca
in cui sembra che nessuno abbia più neanche il
tempo per mangiare si cerca di ottimizzarlo. Gli
uomini vogliono impiegarlo per fare qualcosa di
piacevole ma anche di utile. L’orto comunitario
gli da la possibilità di trascorrere del tempo
all’aria aperta riappropriandosi di spazi che
non è abituato a vivere ma anche venendo
esposto a tecniche e pratiche a lui sconosciute.
Il giardinaggio e la coltivazione sono pratiche
di svago ma che al contempo permettono
l’espressione della creatività umana.
Ecco dunque che il coltivare si trasforma da
espressione della creatività e momento di
svago in possibilità di entrare in contatto con
nuove persone e con nuove culture, andando ad
ampliare così il proprio network di relazioni e le
proprie competenze.
Progetti
collaborati e
innovazione
sociale
87
88
61
Young Foundation, 2006
L’espressione social innovation si riferisce
a cambiamenti apportati da individui o da
comunità per risolvere un problema o generare
nuove opportunità. Queste innovazioni sono
guidate più da cambiamenti nel comportamento
che da cambiamenti nelle tecnologie o nei
mercati, ed in genere emergono dal basso
piuttosto che essere imposte dall’alto.61 Possiamo
dire che l’innovazione sociale è un modo
adeguato per realizzare la transazione verso
l’implementazione di sistemi sostenibili.
Ogni volta che una comunità si muove per
risolvere un problema e sfruttare opportunità
in modo nuovo e creativo, si ha un atto di
innovazione sociale. Questa forma di creatività
diffusa ha trovato il modo di far convergere attività
collaborative, procedure quotidiane eseguite da
singoli individui all’interno di un sistema che
permette una maggiore collaborazione tra di
loro. Quest’immagine dà anche un’idea su come
la diffusione di forme organizzative basate sullo
scambio, la condivisione e la partecipazione su
scala rionale può rigenerare il tessuto sociale,
ripristinando relazioni di prossimità e creando
legami significativi tra gli individui. Chiari
esempi di ciò sono tra gli altri, le realtà di co-
housing, il movimento internazionale Slow Food,
asili autogestiti e banche del tempo.
Analizzando questi casi studio, si può osservare
come si tratti di cambiamenti radicali su scala
locale; sono nuovi approcci per raggiungere
uno stile di vita più sostenibile. Gli individui
all’interno di sistemi come questi sono spinti
ad avere un ruolo attivo nel soddisfacimento dei
loro bisogni, in contrasto con la passività diffusa
nella società occidentale odierna. Un esempio
interessante, che conferma questa tesi, lo si può
ritrovare nella nuova generazione di mercati
dei produttori, casi di recupero della qualità dei
prodotti sani e biologici in aree in cui è normale
consumare prodotti imposti dalle regole di
mercato, senza distinzione e coscienza su ciò che
si assume.
Un positivo effetto collaterale di questo nuovo
tipo di organizzazione è che, mentre si mettono in
pratica nuove e più sostenibili idee di benessere,
si rafforza simultaneamente il tessuto sociale.
Il raggiungimento di un benessere in questa
direzione è coerente con le principali linee guida
anche in vista di una sostenibilità ambientale:
atteggiamenti positivi nel condividere spazi e
89
prodotti, la preferenza di prodotti biologici, locali
e stagionali; una tendenza verso la rigenerazione
di connessioni, e reti locali.62
Comunità creative
Tre sono le caratteristiche principali di questo
tipo di servizi. Primo e più importante: dietro
ad ogni caso di creatività diffusa espressa sotto
forma di servizio collaborativo, c’è un gruppo
di persone che hanno tratti fondamentali in
comune. Insieme si inventa, si migliora e si
gestiscono soluzioni innovative in vista di nuovi
modi di vivere, ricombinando ciò che già esiste
senza aspettarsi un cambiamento radicale del
sistema. Non si aspetta il cambiamento, ma, si
contribuisce mettendolo in atto. La capacità di
reinventare e riorganizzare elementi esistenti
in nuove e significative combinazioni è alla base
della motivazione per cui questi gruppi di persone
possono essere definiti comunità creative. Si
tratta di persone che cooperano per inventare,
migliorare ed organizzare soluzioni innovative
per nuovi modi di vivere.63
Il secondo tratto distintivo è la capacità di
superare i problemi posti dalla vita quotidiana
contemporanea. Le comunità creative mettono al
servizio la loro creatività per riuscire a rompere
con i modelli tradizionali di pensare e di fare.
Così facendo, consciamente o inconsciamente,
si generano delle discontinuità locali, modi di
vivere nuovi, diversi e sostenibili.
62
Jegou, Manzini, 2008
63
Meroni, 2007
90
La terza peculiarità è che le comunità creative
derivano da un’originale combinazione di
esigenze ed opportunità. Le esigenze nascono dai
problemi della vita quotidiana contemporanea,
mentre le opportunità si sviluppano da differenti
combinazioni di tre elementi fondamentali:
le tradizioni, l’uso di un insieme esistente di
prodotti e l’esistenza di condizioni sociali e
politiche favorevoli.
La presenza della tradizione tra gli elementi
chiave spinge alcuni osservatori a dire che,
dopo tutto, non si tratta di nulla di nuovo, ma si
tratta semplicemente di sentimenti nostalgici
nei confronti di un qualcosa a cui non si può più
tornare. È un patrimonio di conoscenze, modelli
di comportamento e forme organizzative che,
viste alla luce delle condizioni e dei problemi
attuali, possono costituire preziosi materiali per
il futuro.64
Inoltre, l’attuale serie di prodotti tecnologici
disponibili combinati in un nuovo modo
ecologicamente efficiente creano la possibilità
per l’innovazione sostenibile. Infine, tali
comunità, hanno più probabilità di prosperare
quando si sviluppano nel giusto ambiente: le
comunità creative tendono ad emergere nei
contesti in cui l’economia delle conoscenze è più
sviluppata.
64
Strandbakken, 2008; Vadovics,
2008
65
66
Landry, 2006; Leadbeater, 2006
Jegou, Manzini, 2008
Contesti favorevoli per la
nascita di comunità creative
I contesti in cui le comunità creative ed i
servizi collaborativi si sviluppano sono sistemi
socio-tecnici molto complessi. Queste realtà
non riproducono una data situazione sociale,
culturale ed economica, bensì condividono la
capacità di attivare un gran numero di cittadini
potenzialmente innovativi e di farli muovere
nella stessa direzione.65 Un’altra caratteristica è
che si sviluppano in ambienti dalle larghe vedute,
con un alto livello di tolleranza. Promuovere
le comunità creative significa anche accettare
qualcosa che probabilmente non seguirà le norme
ed i regolamenti già esistenti. Inoltre, questi
ambienti sono governati in maniera orizzontale,
flessibile, aperta e partecipativa; questo facilita
la rigenerazione delle tradizioni specifiche,
favorendo un’adeguata infrastruttura tecnologica
per generare un contesto sociale, politico ed
amministrativo favorevole. In conclusione
si può dire che si tratta di una questione di
velocità di cambiamento: in tutti i luoghi in cui i
cambiamenti sono veloci e profondi, le comunità
creative si sviluppano, e una volta generate, si
muovono e si stabiliscono in altri contesti. È un
movimento di idee e di esperienze che può andare
in tutte le direzioni.66
91
Applicazione a diverse scale
di un servizi collaborativo
Sono già stati citati i vantaggi sociali ed economici
dei servizi collaborativi, ma il beneficio più
interessante è la possibilità di applicabilità
di questi a scale diverse, supportando stili di
vita sostenibili per numeri sempre maggiori
di persone. Hanno il potenziale di diventare
la corrente principale in modo da riorientare
i cambiamenti sociali ed economici in corso
verso una direzione sostenibile. Ciò è possibile
perché sono soluzioni concrete, implementate
per rispondere a problemi urgenti ed effettivi
– nel campo delle abitazioni, della mobilità,
dell’assistenza all’infanzia o agli anziani,
della rigenerazione urbana ed, ultimo ma
non meno importante, dell’alimentazione.67
L’implementazione su scale maggiori di
questi servizi richiede lo sviluppo di sistemi
caratterizzati da un’alta qualità delle relazioni. La
qualità è migliore quanto più è diretto il rapporto
tra gli attori coinvolti, e quando le organizzazioni
che li amministrano sono comprensibili ai più
e gestibili da pochi, quindi non devono essere
troppo complesse e troppo grandi.68
Si può dire, che per la replicabilità su scala
maggiore delle comunità creative, è necessario
mantenere le loro qualità sociali originarie, che
sono in gran parte legate alla specificità della
piccola scala di ogni singola iniziativa.
Ma è semplice replicare i casi di successo?
Quando si parla di ingrandire, si può pianificare
come generare le condizioni per rendere
l’implementazione delle idee di servizio
promettenti un successo.
Come è stato detto, è necessario aumentare
l’impatto sociale ed economico dei servizi
collaborativi senza aumentarne le dimensioni.
Ciò è realizzabile se si pensa all’aumento sotto
forma di una rete di n servizi collegati tra di loro.
Sono note tre strategia per questo compito:
Toolkit: è un insieme di strumenti materiali
ed immateriali ideati in modo che ogni compito
specifico sia facile da realizzare. I diversi
strumenti possono essere interpretati ed
applicati in modi diversi per fini differenti. Grazie
a questa versatilità è uno strumento compatibile
con la natura delle comunità creative ed i
corrispondenti servizi collaborativi.
Format: è l’idea di un programma applicabile
in contesti diversi. Il risultato è una molteplicità
che è al tempo stesso globale – perché proposta
in tutto il mondo – e locale – ogni contesto è
67
Jegou, Manzini, 2008
68
Jegou, 2008
92
specializzato.69
Franchising: un programma che permette
di avere molteplici organizzazioni di piccole
dimensioni, sotto una società madre, ognuna delle
quali deve seguire le regole stabilite dall’organo
principale.
Il nuovo secolo ha portato con sé uno strumento
che visualizza un panorama del tutto nuovo di
diverse strategie. Oggi internet ha convertito il
mondo in un villaggio globale, in cui l’impatto di
un evento non è necessariamente solo legato alla
sua dimensione fisica e locale, ma è determinato
dalla quantità e della qualità dei collegamenti che
gli organizzatori hanno stabilito. Le reti sociali
sono un fenomeno in grado di catalizzare un
gran numero di persone interessate, organizzate
in modo orizzontale con una visione comune.70
Quest’opportunità può e deve essere sfruttata
nel processo di ingrandimento su scala globale di
un’idea di servizio collaborativo.
È altamente probabile che questi sistemi
ugualitari si rafforzino a vicenda: la comunità
creativa apporta la ricchezza delle varie
persone attivamente coinvolte in problemi reali
e quotidiani, i social network portano nuove
opportunità sfruttabili grazie all’apertura verso
nuove forme di organizzazione. Infine, lo sviluppo
dei sistemi distributivi fornisce l’infrastruttura
tecnica per una nuova società di distribuzione
sostenibile.71
69
Jegou, Manzini, 2008
70
Weber, 2004; Tapscott, Williams,
2007
71
Manzini, 2007; Warnke, Cagnin,
2008
Design per
l’innovazione sociale
Operando in questo contesto i progettisti devono
pensare con e per gli attori coinvolti attivamente
nella creazione di questo tipo di innovazione. In
questa relazione il progettista si presenta come
uno specialista del design, mentre gli attori come
dei principianti. L’interazione si verifica come la
combinazione di due modalità: la progettazione
di e per una comunità creativa.
Progettare in questo tipo di comunità significa
che i progettisti devono lavorare gomito a gomito
con i destinatari del progetto, attraverso processi
di co-design. In questo modo i designer si devono
porre come facilitatori e mediatori tra le parti in
modo da giungere a idee condivise e soluzioni
applicabili.
È necessaria a monte una ricerca qualitativa,
un’osservazione da vicino dell’organizzazione:
le sue necessità per arrivare ad una soluzione
avanzata dall’effettiva accessibilità ed efficacia,
oltre che per una sua eventuale replicabilità.
Nell’ambito della progettazione degli spazi
l’innovazione sociale e l’azione delle comunità
creative si possono vedere in tutte quelle
manifestazioni di riappropriazione dello spazio
pubblico dal basso. Nelle città contemporanee,
dove ancora oggi il metodo di urbanizzazione
è essenzialmente basato su logiche verticali
e gerarchiche, i cittadini e gli utenti vengono
coinvolti solo in tempi e spazi molto limitati.
Come progettisti, cambiando approccio, ci si
può inserire nella struttura verticale attraverso
la creazione di una rete flessibile di interazioni
sociali, aperta e basata su incontri e dibattiti.
In questo modo emergono spontaneamente le
problematiche che bisognerebbe affrontare, e
si amalgamano le diverse parti coinvolte nel
processo creativo. Non si parla di meri atti
dimostrativi riferiti a realità molto specifiche,
bensì azioni di questo tipo vanno a toccare
questioni sociali, politiche ed urbanistiche. Il
progettista, come già detto, con le sue competenze
è in grado di affrontarle dal punto di vista tecnico,
ma con l’aiuto e l’interazione con le persone
locali, può giungere a soluzioni applicabili che
gli utenti non recepiscono come un’imposizione
dall’alto; così facendo si generano nuovi processi
e soprattutto nuovi comportamenti.
Nel panorama internazionale, sono nati
spontaneamente diversi gruppi che si sono
occupati di innovazione sociale nell’ambito dello
spazio pubblico. Spesso, sono stati affrontati
problemi molto sentiti in modo temporaneo.
Questo modo di agire non si pone, però come
palliativo ai bisogni espressi dalle comunità, ma
è un modo per iniziare un ragionamento, una
discussione sul tema, ponendo la prima pietra
di un processo in evoluzione, il cui obiettivo è
quello di sviluppare un metodo progettuale per
affrontare determinate situazioni.
Le problematiche che spesso emergono in fase
di ricerca collaborativa sono molto complesse e
necessitano di processi ampi ed articolati, in cui
vengono coinvolti moltissimi attori.
93
sempre fatto da ponte tra la società destinataria e
le tecnologie a disposizione. Finora, però, hanno
rivolto il loro sguardo solamente verso le nuove
tecnologie e le opportunità che queste offrivano ed
hanno sviluppato artefatti di una qualche utilità
per la società. Ora, però, questo ponte deve essere
portato anche verso altre direzioni: è importante
che si rivolga l’attenzione verso l’innovazione
sociale, che si identifichino i casi promettenti,
che si utilizzi una maggiore sensibilità di
progettazione, capacità e competenze per
progettare nuovi artefatti e tracciare nuove linee
guida per l’innovazione tecnologica. Per questo, i
designers, devono ripensare il loro ruolo ed il loro
modo di operare.72
72
In conclusione, si può dire che i designers hanno
Margolin, 2001; Thackara, 2005;
Manzini, 2007
94
Nuove soluzioni all’orizzonte
73 74 75
Hilary Cottam, Charles Leadbeater, 2004
C’è domanda di nuovi servizi e nuovi approcci,
soluzioni e prodotti al passo con le strutture
economiche e sociali, bisogni e pratiche che
prevalgono sempre di più. Lo sviluppo di
soluzioni collaborative richiede creatività
sociale, l’attivazione di una rete di conoscenze,
risorse e fantasia nella società destinataria e non
solo tra le figure professionali e le istituzioni.73
D’ora in avanti vi è l’esigenza di una nuova
strada da percorrere; non solo un’innovazione
incrementale, bensì una radicale trasformazione
dell’approccio:
servizi
co-creati.
Questa
tipologia di servizi è completamente nuova, e
non solo una diversa combinazione di offerte
già esistenti; mobilitazione delle risorse, knowhow, competenze distribuite tra la comunità
piuttosto che il mero utilizzo delle competenze
professionali del personale specializzato.
Le risorse diffuse sono più efficaci se possono
essere usate in modo collaborativo, attraverso
la condivisione di idee, l’assistenza reciproca e
dando voce alle esigenze dei reali utenti nelle
diverse circostanze particolari. Tutte queste
risorse, se raccolte e sfruttare, possono avere
un forte impatto. Per far si che ciò avvenga c’è
bisogno di interazione, partecipazione e sviluppo
di soluzioni congiunte tra utenti, operai e
professionisti.
Ma, perchè sono necessarie soluzioni diffuse e
condivise?
Innanzitutto,
i
servizi
collaborativi
contribuiscono a ristabilire e a rafforzare il
tessuto sociale. Il sostegno della comunità ed un
diffuso senso di appartenenza ad una rete sociale,
sono parte vitale per il successo di qualsiasi
innovazione si voglia introdurre. Coloro che
fanno parte di una rete e non si sentono isolati
sono più ricettivi e disposti al cambiamento,
dato che hanno una maggiore autostima e
fiducia, risultanti dal senso di appartenenza
ad un gruppo.74 Inoltre, la collaborazione è lo
strumento principale per la condivisione e la
diffusione di idee e know-how. In una comunità,
le idee si diffondono e crescono. Le persone che
cercano soluzioni personalizzate ed esclusive
sono tagliate fuori da questo flusso ed è difficile
che riescano a attecchire.
Le soluzioni individualizzate sono accessibili
solo da pochi, lasciando fuori le masse, che
però hanno anche loro la necessità di risolvere
determinati problemi - assistenza agli anziani,
la disponibilità di prodotti sani, ecc. È necessario
trovare soluzioni che possano aiutare anche gli
svantaggiati, coloro che in genere non possono
accedere a determinati servizi.
I benestanti, che hanno un alto livello di istruzione,
sono in grado di cambiare autonomamente e più
facilmente il loro stile di vita. Nelle fasce basse,
con un minore potere economico, servizi di
tipo collaborativo possono consentire un facile
accesso a stili di vita sani e sostenibili, cosa che
in altro modo sarebbe molto difficile.
I servizi collaborativi devono essere co-creati:
l’accesso a servizi collaborativi è più semplice
se basati su processi di co-creazione. Al centro
di questo approccio vi è il nuovo ruolo degli
utenti, che non sono più solamente i destinatari
del servizio; infatti
sono di fondamentale
importanza sia nella
fase di progettazione
che in quella di fornitura
del servizio, grazie
alla
collaborazione
con professionisti in
grado
di
elaborare
soluzioni efficaci. Gli
utenti
sono
coloro
che possono dare un
contributo importante
nell’individuazione
delle
esigenze,
nel
proporre le soluzioni,
nel testarle ed infine
nell’attuarle.
La co-creazione non è né
un evento una tantum,
come può essere un
referendum nel quale la
comunità decide cosa
dev’essere fatto - lo
sviluppo di servizi funzionali richiede più temponé si tratta di una consultazione formale durante
la quale i professionisti danno agli utenti la
possibilità di dire la loro su un numero limitato di
alternative. Si tratta di un processo più creativo
e interattivo che mette in gioco le visioni di tutte
le parti coinvolte e tenta di combinare esperienze
professionali e locali in maniere del tutto nuove.75
In questo scenario il designer, indipendentemente
dal suo settore di appartenenza, ha un ruolo
chiave: fare da ponte tra le diverse parti, mettere
al servizio le proprie conoscenze e le innovazioni
tecnologiche e creare una rete orizzontale ed
aperta di idee condivise e soluzioni applicabili.
95
36. Foto.
Sketch di come vivere uno spazio in
modo partecipato
CASO STUDIO
Collectif Etc
Strasburgo
2009
Nato a Strasburgo nel settembre 2009, Collectif
Etc ha lo scopo di raccogliere le proprie energie
intorno ad un interrogativo comune: le dinamiche
dello spazio urbano. Attraverso diversi mezzi e
competenze, si pone come strumento a supporto
della sperimentazione. Lo scopo ed il valore di
queste sperimentazioni urbane non sta solo nel
risultato finale, ma soprattutto nel processo, nel
contesto e nei nuovi comportamenti che genera.
Il Collectif Etc è un’associazione d’interesse
pubblico, fondata nel 2011. I membri fondatori
sono studenti o neo-laureati in architettura,
provenienti dall’Institut National del Sciences
Appliquées di Strasburgo.
37. Foto.
Immagini del progetto Détournez,
Strasburgo
Dall’ottobre successivo il collettivo si è impegnato
ad organizzare una serie di congressi in giro per
la Francia, il cui tema è “fabrique citoyenne de
la ville” – rendere cittadini della città-. Hanno
trascorso un anno in giro per la Francia in
bicicletta, andando incontro ai diversi attori
che hanno partecipato a “fabrique citoyenne de
la ville” e lavorando con loro. Gli obiettivi sono
due: censire ed analizzare tutte le pratiche di
creazione partecipata esistenti e metterle in
relazione grazie ad una piattaforma internet e
ad una pubblicazione; collaborare con gli attori
locali, realizzando degli spazi pubblici adatti,
organizzando eventi che favorissero l’incontro,
e impostare insediamenti spontanei nei diversi
luoghi.
Ha inoltre collaborato ad una ricerca per
MEDDTL, all’interno della facoltà di paesaggismo
e sviluppo sostenibile, nel dipartimento di
sviluppo sostenibile del territorio mediterraneo,
presso l’Universitè d’Aix Marseille. La ricerca si
intitolava “Paesaggio e sviluppo sostenibile: alla
ricerca di partecipazione creativa”, seguendo
due linee guida di lavoro: una valutazione delle
esperienze di partecipazione nell’ambito del
paesaggio ed una riflessione sull’emergere della
partecipazione creativa – durante la quale si è
cercato di sollecitare l’immaginario dei cittadini
al fine di trovare delle soluzioni – come nuova
forma di partecipazione con lo scopo di attuare
su scala territoriale la Convenzione Europea del
Paesaggio. Lo scopo è quello di arrivare a soluzioni
più efficaci, mettendo al servizio le conoscenze
tecniche del gruppo, tenendo conto dei desideri
e delle opinioni delle persone che vi abitano,
lasciando spazio a tutte le idee innovatrici che un
contesto di questo genere può far emergere.76
76
www.collectifetc.com
38. Foto.
Immagini del progetto Détournez, Strasburgo
39. Foto.
Muro conviviale, Détournez, Strasburgo
pagina
CASO STUDIO
Prostorož
Ljubljana, Slovenia
2004
77
prostoroz.org
40. Foto.
city garden’, parte del progetto ‘atriums’, 2004
41. Foto pagina accando, sinistra.
‘passage flower’, parte del progetto
‘atriums’, 2004
42. Foto pagina accanto, destra.
‘green landscape’, parte del progetto
‘atriums’, 2004
È un’associazione nata spontaneamente nel
2004, per rispondere al desiderio di esplorare e
capire gli spazi aperti urbani.
È un progetto in continua evoluzione, che coltiva
lo spazio pubblico, il cui obiettivo è sviluppare
un metodo per riappropriarsi e riqualificare aree
urbane degradate. Nel fare questo, unisce esperti
con diversi background culturali, provenienti
da aree professionali differenti – architetti,
paesaggisti, urbanisti, ambientalisti, lavoratori
nel campo del turismo e della conservazione dei
beni culturali, ecc. Tutte i loro interventi, però,
non sono frutto del lavoro di soli esperti del
settore, bensì vertono soprattutto su momenti di
dialogo e discussione aperti a tutti.
ProstoRož esplora, analizza e apre nuove
possibilità di utilizzo di spazi pubblici in funzione
delle esigenze dei suoi abitanti; vuole dimostrare
come con mezzi minimi e con interventi di piccole
dimensioni sia possibile presentare la città come
nuova, con spazi piacevoli per stare all’aperto. I
loro interventi non sono semplici installazioni
artistiche in spazi pubblici, ma un’approfondita
ricerca per la progettazione di una nuova città,
con innovative soluzioni nell’utilizzo dello spazio.
La convinzione retrostante è che l’applicazione
di un nuovo metodo di pianificazione dello
spazio più appropriato ai contenuti può ridurre
sostanzialmente diverse forme di vandalismo
urbano.
Come giovani architetti e designer, uno degli
obiettivi è richiamare l’attenzione su determinate
aree delle città moderne, spesso non prese in
considerazione nei processi creativi. Per questo
motivo,con i loro interventi vogliono contribuire
alla creazione di spazi pubblici funzionali,
inspirando anche coloro che dovrebbero
prendersene cura e gestirli.
99
CASO STUDIO
Raumlabor
[... C’era una volta una
società che credeva che
il futuro avrebbe portato
migliori condizioni di
vita per tutti. C’erano
persone, pensatori
utopici, che ragionavano
sulle grandi questioni
delle città. Oggi sono
rimaste solo delle tracce
di questi pensieri, a
metà tra melanconia e
reminescenze, di quegli
architetti che volevano
vivere in una società
migliore e che avevano il
sogno di luoghi migliori.
Quell’erà è finita. Da qui
parte il nostro lavoro... ] 78
Raumlabor è un network che raggruppa otto
architetti che hanno in comune un metodo di
lavoro dall’approccio collaborativo. Si pongono
nell’interstizio tra architettura, urbanismo,
arte e paesaggismo, il loro lavoro è orientato al
rinnovamento urbano, visto come un processo
continuo. Sono attratti dalle location urbane
difficili: luoghi abbandonati, che spesso hanno
in sé tracce di un precedente processo di
trasformazione urbana; cercano il loro potenziale
per attivarlo in modo da aprire nuove prospettive
verso modalità d’uso alternative, basate su idee
collettive, pur mantenendo le specificità urbane.
Per i loro progetti formano dei gruppi di lavoro
interdisciplinari, sia esperti in materia che
abitanti locali, poiché credono che i cittadini
siano quelli che conoscono al meglio la realtà,
convivendoci giorno dopo giorno; spesso è
attraverso gli abitanti che vengono scoperte
nuove possibili aree di azione e sperimentazione.
Raumlabor, inoltre, cerca di mettere in
comunicazione due mondi distinti, creando una
specie di alleanza tra le due parti, in modo da
poter testare ed esaminare soluzioni, invece che
applicarle dall’alto.
Definiscono il loro lavoro “design basato sulla
78
www.raumlabor.net
ricerca”. Si relazionano con posti in scala 1:1,
scoprono ed utilizzano ciò che trovano in loco.
Sono sostenitori del processo del “fare”, in cui si
impara di più attraverso la progettazione attiva
sul sito di indagine, trovando così nuovi metodi
di appropriazione e di riattualizzare l’esistente.
Non si pongono come risolutori dei problemi,
piuttosto attivano un processo che dà agli attori
l’opportunità di conoscere, capire e usare la città,
le sue dinamiche, e le sue opportunità.
Un’architettura in cui è possibile unire lo
spazio all’esperienza individuale, per scoprire
nuove qualità e possibilità, delineando una
nuova immagine della città creata dagli utenti
stessi. Nuove opzioni e possibilità appaiono
nell’orizzonte dei luoghi e degli edifici, dove
prima nulla sembrava possibile dato che
apparivano predefiniti, in stato di abbandono o
semplicemente dimenticati.
Esempio di questo approccio è il progetto
“Eichbaumoper”,
una
trasformazione
temporanea di una stazione del treno, trasformata
in un teatro dell’opera. La fermata scelta era un
crocevia tra varie città, in un paesaggio urbano
sezionato da autostrade e da metropolitane,
perennemente oggetto di atti vandalici, cosa
che ha da sempre dato agli utenti un senso di
insicurezza e paura. La provocazione aveva due
scopi: dare una speranza e far capire come un
luogo in determinate condizioni poteva essere
il punto di partenza per il dibattito sulla nuova
opera. La nuova costruzione, nella piazza che
prima accoglieva un piccolo mercato, si distingue
come simbolo di riattivazione e trasformazione,
offrendo spazi per conferenze, workshop, luoghi
d’incontro, di lettura, per la musica, ecc.
Il teatro dell’opera è il luogo dei suoni, e ingloba
anche quelli locali, il rumore della strada, il ritmo
della metropolitana.. spazi teatrali e spazi urbani
non sono più separati.
Il gruppo lavora nell’ambito degli interventi
urbani, trasformando gli spazi urbani in qualcosa
di completamente differente, molto lontano dalle
aspettative. Agiscono creando nuove atmosfere,
dando un nuovo senso alle cose. Grazie alla
partecipazione attiva degli abitanti vengono
percorse strade innovative, proiettate verso il
futuro.
L’architettura è vista come un laboratorio
sperimentale, collegato alle pratiche di lavoro
partecipato nelle aree urbane. L’architettura non
è concepita come un oggetto, ma come una storia,
come una pagina della storia di un posto. Come
architetti, progettisti, artisti, bisogna essere
anche attivisti, operare non solo per la città, ma
con la città; l’architettura è uno strumento per
cercare le nuove possibilità per il domani.
43. Foto.
Spazio recuperato dal gruppo e trasformato nel Emma
Community Garden.
pagina
CASO STUDIO
Esterni
Milano
1995
[... Cammin facendo, ci
siamo confrontati con
obiettivi sempre diversi,
abbiamo incrociato la
strada con tante persone
in tutto il mondo,
affrontato e superato
sfide ogni volta più
complesse. E abbiamo
imparato così molto.
Ora questo saper fare è a
disposizione di chi ne ha
bisogno... ] 79
79
www.esterni.com
44. 45. Foto.
Immagine della riqualifica del Parco
della Resistenza, realizzata in collaborazione con il progettista Patrick
Hubmann
Un gruppo di studenti decide di creare un’impresa
culturale, per provare a cambiare le abitudini
dei milanesi, sempre più chiusi nelle loro case
e nelle loro macchine. Individuano negli spazi
pubblici il cuore di una società ideale e decidono
di diventare esperti in ‘cardiologia urbana’.
Secondo questa filosofia si dedica all’analisi del
contemporaneo, alla formulazione di soluzioni
creative che favoriscano la partecipazione
allargata, la mescolanza sociale e un pensiero
libero. Progetta spazi pubblici, disegna servizi
per piccole e grandi comunità, promuove
e realizza eventi di aggregazione, sviluppa
campagne di comunicazione necessaria e
partecipata; il tutto per uno sviluppo sostenibile
che garantisca e preservi il patrimonio
ambientale, sociale e culturale che è di tutti.
Lavora con enti pubblici e privati in Italia e
all’estero, condividendo competenze, progetti
e risorse. Ogni progetto nasce da una ricerca
costante ed approfondita a livello internazionale,
da numerose collaborazioni sempre attive, dalla
capacità di mettersi in discussione. Il metodo di
lavoro si basa su team progettuali, sul confronto
e lo scambio costanti dei singoli che apportano le
specifiche competenze necessarie.
Le aree di interesse sono cinque: spazi,
comunicazione, servizi, eventi e formazione. Lo
slogan del settore ‘spazi’ è riassumibile nella frase
in public space we trust – crediamo nello spazio
pubblico . Il gruppo si pone l’obiettivo di ripensare
e riprogettare spazi di ogni tipo, interpretando le
loro potenzialità e dando loro nuovi significati,
coinvolgendo soprattutto le persone che li
vivono. Luoghi di qualsiasi tipologia, da piazze a
interi quartieri, che vengono visti sempre come
generatori di socialità e occasione di crescita
comune.
Numerosi sono gli interventi che sono stati
realizzati, tra cui la riqualificazione del Parco
della Resistenza, dove il problema era di
rifunzionalizzare un’area lasciata al degrado
per creare nuove occasioni d’uso. La soluzione
adottata è stata quella di realizzare degli
arredi non convenzionali che si modellano in
forme diverse invitando a molteplici utilizzi e
comportamenti: chaise-long, pedana, tavolo,
palco, seduta; un arredo scultura che dà allo spazio
una forte identità visiva. Una comunicazione
ironica applicata direttamente sulle strutture
suggerisce i possibili utilizzi dello spazio.
pagina
105
Orti
comunitari
“Fin dall’inizio della mia detenzione a Robben
Island avevo chiesto alla direzione il permesso di
coltivare un piccolo orto, ma per anni me l’aveva
rifiutato. Alla fine, però, la direzione cedette e ci
permise di coltivare un pezzetto di terra. L’orto
era una delle poche cose che in carcere era possibile controllare. Piantare un seme, vederlo
crescere e raccoglierne i frutti era una cosa che
dava una soddisfazione semplice ma durevole. La
sensazione di essere il custode di quel piccolo pezzo di terra mi dava un lieve sentore di libertà.”80
80
Nelson Mandela, Lungo cammino
verso la libertà. Autobiografia, Feltrinelli, 1997
106
A Parigi, New York, Londra o Berlino, ma anche
in molte città italiane, avere un orto o un balcone
con pomodori, insalate, cipolle è sempre stato
principalmente un passatempo, ma ad oggi il
numero di coloro che si convertono per svariati
motivi all’agricoltura urbana è un fenomeno in
deciso aumento.
E il motore è principalmente la crisi. Economica,
come quella che ha investito pesantemente le città
industriali americane; di un modello alimentare
che coinvolge tutti coloro che vogliono mangiare
meglio o consumare più consapevolmente.
Ambientale, che spinge sempre più persone ad
agire concretamente per la salute e il futuro della
terra. Sociale, che induce le persone a ricostruire
relazioni cancellate dai ritmi del supermercato e
delle metropoli.
I progetti sono molti e diversi, ma quasi ovunque
si tratta di esperimenti avviati dal basso: famiglie
votate all’autosufficienza, gruppi attivi nel campo
della giustizia alimentare, scuole, associazioni
che lottano contro il degrado sociale, giovani
preoccupati per l’ambiente, in cerca di un futuro
migliore. Persone che vogliono cambiare il loro
rapporto con il cibo e incidere sulle scelte della
comunità. Le amministrazioni cittadine stanno
cercando di capire quanto importante e duraturo
sia questo fenomeno, come regolamentarlo
e sostenerlo. Alcune hanno fatto enormi
passi aventi e approvato norme che facilitano
l’agricoltura urbana, e la riconversione di spazi
in disuso e aree dismesse in orti e fattorie.
Altre hanno ingaggiato un braccio di ferro con
i contadini urbani sull’elasticità delle regole,
oppure hanno semplicemente scelto di ignorare
la questione.
In generale, possiamo dire che alla base di un
community garden vi è un gruppo di cittadini
che si riunisce e si organizza, talvolta sotto la
spinta di qualche personaggio illuminato, di
qualche associazione o organizzazione culturale,
andando a creare una comunità creativa, un
insieme di persone che partecipa attivamente
alla realizzazione di un qualcosa di cui sentono il
bisogno.
Da quando il mondo contadino è scomparso
quasi del tutto nei paesi sviluppati, sostituito da
un’industria agricola pervasiva che ha lasciato
solo qualche residuo dei vecchi ambienti agricoli
e delle vecchie usanze, sembra spetti alla città,
paradossalmente, attrarre a sé qualcosa di
quel mondo. L’orizzonte paesaggistico in cui si
muove questa nota stimola delle considerazioni
particolari sul ruolo dell’agricoltura urbana nel
dare risposta a un bisogno che sarebbe stato
trascurato dai programmi di landscaping portati
avanti dai paesaggisti negli ultimi decenni.
Il cosiddetto orto urbano si configura come
un’esperienza agricola proveniente dal basso,
consistente, soprattutto nella sua fase inziale, in
un appezzamento di qualche centinaia di metri
quadri; ad ordinamento policulturale è coltivato
da un insieme di persone interessate, ed i prodotti
sono destinati soprattutto all’autoconsumo.
Gli orti metropolitani sono comunemente
costituiti non solo dalle superfici coltivabili,
ma anche da elementi di servizio, sia quelli
necessari per l’agricoltura sia quelli destinati alla
socializzazione.
Tramite l’orto si viene a creare un nuovo rapporto
con la natura, in quanto ciò che viene prodotto
è controllato dagli individui che vi partecipano
attivamente.
Queste realtà vanno incontro alle storture
del sistema consumistico contemporaneo,
rappresentando delle esperienze che vogliono
porsi in opposizione a ciò che viene proposto dal
mercato, portando avanti pratiche ambientali
sostenibili e rispondendo all’esigenza di “fare
comunità”.
Oltre ad essere un’alternativa su piccola scala
all’agricoltura intensiva, basata su ritmi di
coltivazioni innaturali, l’utilizzo di pesticidi e
fertilizzanti, e di tutti quegli strumenti volti ad
ottenere la maggior produzione possibile, dal
punto di vista ambientale, spesso sono occasioni
di recupero di aree degradate o abbandonate delle
città contemporanee.
107
108
Orto urbano ≠ orto comunitario
ORTO URBANO
(definizione generale) si intende un appezzamento di terreno destinato alla
produzione di ortaggi, frutta e fiori per i bisogni dell’assegnatario o della sua
famiglia
ORTO URBANO
(definizione urbanistica) si intendono dei piccoli appezzamenti di terra
per la coltivazione ad uso domestico, eventualmente aggregati in colonie
organizzate unitariamente. In Italia, nelle aree destinate a questo uso, l’indice di
utilizzazione fondiaria previsto per la realizzazione di tutte le opere edilizie è di
0.5, comprensivo degli edifici esistenti 81
81
da Regolamento Urbanistico Edilizio Comune di Bologna, Art. 40 http://sit.comune.bologna.it/sit/normeRUE/Parte2-Titolo1.htm
Bologna, ad oggi, è una delle città più
impegnate su questo fronte, vi si contano 2.700 orti comunali, aggregati in
una ventina di aree
82
da American Community Garden
Association
ORTO COMUNITARIO
si intende un appezzamento di terra coltivato collettivamente da un gruppo di
persone; è un’attività capace di migliorare la qualità della vita di chi vi partecipa
e di produrre benefici per l’intera comunità.82
Dalle definizioni di orto urbano e orto comunitario
emergono i caratteri principali della pratica
dell’agricoltura urbana: sono degli appezzamenti
di terra di dimensioni limitate, situati in aree
urbane, in cui gli abitanti sono coinvolti nella
coltivazione di ortaggi, frutti e fiori destinati
all’autoconsumo.
Però bisogna distinguere i cosiddetti orti urbani
da quelli definiti orti comunitari; nel primo caso
gli appezzamenti di terra sono suddivisi in lotti,
assegnati a coloro che ne fanno richiesta, ed
ognuno si prende cura dei metri quadri di cui è
responsabile e consuma ciò che coltiva.
I secondi, invece, sono coltivati collettivamente
da un gruppo di persone che insieme si
prendono cura degli spazi, non solo quelli
prettamente agricoli; infatti comprendono
anche aree conviviali, dove poter trascorrere
il proprio tempo libero in compagnia. Le
attività si svolgono collettivamente, i gruppi
si autogestiscono e si organizzano in modo da
riuscire nella manutenzione degli spazi. I tratti
distintivi che si rilevano facendo un viaggio alla
scoperta dei giardini comunitari europei sono
l’organizzazione delle persone, l’apertura e la
disponibilità all’accoglienza, la considerazione
che tutti sono uguali e pari e nello stesso tempo
per fortuna diversi, la capacità di ritenere
ogni diversità, a partire dalla biodiversità, un
patrimonio importante.82 Gli orti comunitari
possono essere paragonati ad un ecosistema,
un’unità che include gli organismi, rappresentati
dalle persone che lo animano, ma anche da
animali e piante che vi si trovano dentro. La
gente interagisce con l’ambiente fisico – giardino
come a Toronto e Barcellona, oppure quelli nati
all’interno di spazi sociali, come Torchiera a
Milano.
Il quarto fattore è la modalità di occupazione delle
aree. In alcuni casi vengono stipulati dei contratti
d’uso con le municipalità - come a Parigi, Londra
e Berlino - oppure sono inseriti all’interno di
scuole – come i Giardini del Sole del Parco Trotter
di Milano - oppure contano sull’indifferenza delle
istituzioni - come l’Hort Be di Barcellona.
Un carattere che non diversifica ma accomuna è
il divieto di utilizzo di sostanze chimiche per la
coltivazione. Ciò che cambiano poi sono le regole
precise e le tecniche di coltivazione, che vanno
tutte in direzione del rispetto dell’uomo e della
natura.
Essendo orti urbani, in molti casi ci si trova in
presenza di terreni non propriamente adatti alla
coltivazione, alle volte perfino inquinati, dato
che sono ex-aree industriali. Di volta in volta
sono state applicate delle soluzioni differenti
per risolvere il problema: le colture in cassoni
– Potager 8 mq a Parigi – la realizzazione di
bancali rialzati – Craetbos a Bruxelles - o altri
stratagemmi sempre diversi.
L’ultimo fattore è l’economia: alcuni orti
vivono proprio senza soldi, grazie agli sforzi
ed ai contributi dei volontari, altri cercano
sponsorizzazioni di ogni tipo, alcuni si appoggiano
a enti caritatevoli, altri per autofinanziarsi
organizzano seguitissimi corsi a pagamento.
Gli orti comunitari sono di recente
manifestazione, hanno avuto origine da quando
gruppi di cittadini – comunità creative – si sono
organizzati per impegnarsi collettivamente per
il benessere della comunità; la loro spiccata
sensibilità ambientale e la volontà di uno stile di
vita sostenibile li porta ad esprimere la necessità
di spazi comunitari ad uso agricolo e si attivano
in prima persona in tutto il processo che genera
l’orto conviviale e nel suo mantenimento ed
evoluzione. L’orto non è più, quindi, una sfida
individuale, ma una conquista collettiva, l’orto è
109
82
Mariella Bussolati, L’orto diffuso.
Dai balconi ai giardini comunitari,
come cambiare la città coltivandola,
Orme Editore, Roma, 2012
percepito come spazio di condivisione. Non è uno
spazio sporco e trasandato, il cui unico fine era la
qualità del prodotto, ma è diventato un giardino a
tutti gli effetti, tanto che in alcuni casi sono stati
introdotti dipinti, sculture, oppure perfino opere
di land art.
Gli orti urbani, invece, hanno origini più lontane
e bisogna tornare all’epoca pre-industriale,
periodo in cui ad ogni fase di espansione urbana
si accompagnava una proporzionata crescita del
patrimonio verde. Gli orti erano piuttosto comuni
in tutte le grandi città, in Italia il minimo storico
della coltivazione amatoriale è stato raggiunto
negli anni ’60-’70, periodo in cui l’orto in città
divenne simbolo di una condizione sociale ed
economica inferiore, un elemento di degrado
paesaggistico. I picchi minimi di orti urbani sono
collocabili nel ventennio del boom economico,
nel secondo dopoguerra, mentre la rinascita
dell’interesse per la coltivazione coincide con la
crisi economica che ha colpito l’Europa a partire
degli anni Ottanta. Con l’andare avanti degli anni
sono sempre più gli orti nati dal desiderio di
‘sapere cosa si mangia’; l’articolazione delle città
contemporanee porta alla rinascita di ‘orti senza
casa’, cioè allocati all’interno del tessuto urbano,
che non appartiene a chi li coltiva, ma sono spazi
pubblici, in alcuni casi occupati in modo abusivo.
L’Italia, a differenze di altri paesi, a parte durante
il periodo fascista – durante il quale veniva
promossa l’iniziativa dell’orticello nel quadro
della politica autarchica promossa dal regime
- non ha una storia associativa riguardo agli
orti urbani. Negli anni ’80 il fenomeno degli orti
– seppur a condizione ‘abusiva e clandestina ‘interessa città come Milano, Torino, Bologna,
Firenze, Roma, impegnando coltivatori,
soprattutto operai, pensionati, impiegati e
studenti, dieci ore a settimana circa, e coprono
superfici variabili tra i 10 e i 100 mq ognuno,
raggiungendo dimensioni complessive molto
rilevanti in relazione al tessuto urbano, come
gli oltre 800 ettari della città di Milano.83 La
portata del fenomeno fa emergere la necessità
di un regolamento. Le amministrazioni però,
hanno in mente modelli urbani avvenieristici,
utili esclusivamente a interessi economici, e si
trovano impreparate e non riescono a contenere
l’abusivismo spontaneo. Il primo regolamento
italiano di orti sociali comunali viene stipulato
a Modena, nel 1980. Questo, però, non sta a
significare che le varie amministrazioni locali
intendano riconoscere l’orto come bisogno di
cittadini, ma sono spinti a dettare normative solo
per limitare le richieste di usufrutto di spazi in
disuso. La forma mentis con cui agiscono è quella
di diffondere l’idea che l’orto sia un interesse
solo di pensionati o di persone a basso reddito;
tale approccio si denota dal tipo di bando di
assegnazione degli appezzamenti comunali,
a cui possono accedere persone che hanno
superati i sessant’anni e con redditi inferiori
a una soglia minima; i contratti sono di breve
durata, impediscono ai familiari di aiutare, se
non saltuariamente e vengono effettuati controlli
molto rigidi.
Con il passare degli anni, però, i criteri cambiano,
gli enti pubblici iniziano a vedere le potenzialità
di questa pratica. Grazie al supporto di iniziative
promosse da associazioni culturali ed enti
sociali, iniziano a distinguersi sempre più
realtà di orticoltura urbana. Gli orti vengono
immediatamente popolati, si creano lunghe
liste d’attesa. È però solo negli ultimi anni che
si assiste ad una vera e propria esplosione: l’orto
diviene espressione di modernità, al punto che
oltre a quelli nei giardini e sui terrazzi, nascono
orti appesi a pali della luce, a inferiate, orti di
111
maglia, orti di artisti, orti in bottiglie di plastica.
C’è una forte domanda di spazi da dedicare
all’orticoltura, soprattutto nei comuni del centro
nord. Secondo uno studio di Coldiretti, su dati
ISTAT, quasi quattro italiani, uomini e donne
allo stesso modo su dieci dedicano parte del
loro tempo libero al giardinaggio ed alla cura
dell’orto dove raccogliere frutta, ortaggi e piante
aromatiche da portare in tavola, sia come misura
antistress, che per passione o per gratificazione
personale. Piace anche ai giovani, considerato che
tra chi lo pratica più di uno su quattro ha un’età
compresa tra i venticinque e i trentaquattro anni,
anche se l’interesse aumenta con l’età e la metà
sono ultrasessantenni. Pare infatti, che zappare
faccia bene: secondo uno studio dell’Università di
Uppsala in Svezia, pubblicato sul British Medical
Journal, chi fa giardinaggio guadagna circa un
anno di vita rispetto a chi rimane inattivo. Oltre al
benessere fisico, la coltivazione – anche in piccoli
spazi – da parte di persone che hanno tutt’altre
occupazioni, porta un primo vantaggio di natura
psicologica, e oltre che come via di fuga, permette
di spostare la sfida quotidiana verso qualcosa
che si realizza davvero e ha un risultato molto
positivo: il raccolto. Inoltre, anche se richiede un
minimo di organizzazione, permette una buona
dose di creatività ed invenzione. Piantare verdure
ha un valore estetico e ambientale: si migliorano
così i propri dintorni, si ha quindi un altro effetto
concreto e misurabile, che produce piacere.
83
Italia Nostra, 1982
46. Foto.
Manifesto dell’evento organizzato
per festeggiare il primo anniversario
dell’Hort Bè, Bacellona.
112
L’orto comunitario come progetto collaborativo, come
espressione di una comunità creativa
84
Graziano Valera, animatore
dell’orto Papaveri Rossi, nato a Milano
nell’ottobre 2011. Testo tratto dalla
prima pubblicazione sul blog dell’orto
h t t p : //p a p a v e r i r o s s i p r e c o t t o .
blogspot.it/
47. Foto.
Tutti insieme per realizzare l’orto.
Giardino degli Aromi
[...‘L’orto-giardino comunitario rappresenta il tentativo
inedito e originale di prendere il testimone dalle mani
di quei cittadini che in questi anni hanno visto la
città trasformarsi e che hanno fortemente voluto,
con la propria partecipazione e il proprio presidio
democratico associativo, che il quartiere mantenesse
una forte e chiara riconoscibilità e identità. (…)
L’identità di un posto è data dalla capacità di interagire
in modo fecondo con le altre identità, poggiando su una
base sicura che non è data dalla mortifera assenza di
relazioni di scambio ma dalla sicurezza di sé, della
propria storia e del coraggio di intraprendere strade
nuove. Ma soprattutto la volontà di rivisitare i luoghi
vivi del territorio per ri-conoscersi. Un altro punto
importante del nostro percorso è l’intenzione di essere
cittadini che tornano ad avere un rapporto attivo
con le istituzioni: veniamo da una fase molto lunga di
distacco tra il Comune e i cittadini, il primo distante
da ogni forma di confronto, i secondi in una posizione
di passività e pretesa. Oggi siamo qui a proporre un
modello di progettazione e gestione partecipata di un
bene comune, una via nuova che vogliamo osare. Stiamo
parlando di un processo, non già di un prodotto.
Pensare all’orto o al giardino rimanda subito ai prodotti
dell’orto: le domande spesso riguardano chi raccoglierà
l’insala, quale effetto avrà un’aiuola piuttosto che una
siepe… il nostro sguardo si sposta invece sul processo.
Un processo di cura: lavorare insieme la terra, ma
soprattutto partecipare alle assemblee di gestione,
confrontarsi, decidere cose e come coltivare, in cui
l’importante è generare e far circolare benessere sociale
curando i legami comunitari.’...]84
Queste righe, tratte dal blog dell’orto Papaveri
Rossi di Milano, sono dimostrazione
dell’affermazione delle cosiddette comunità
creative di cui si parlava nel capitolo precedente.
L’orto urbano, infatti, è la manifestazione di
nuovi comportamenti che si stanno diffondendo
tra i cittadini contemporanei, che vogliono
abbandonare le modalità finora consolidatesi, e
vogliono creare un nuovo sistema di riferimento,
sfidando i vicinati sospetti. Non vogliono porsi
come grandi rivoluzionari, ma dimostrare che
con piccoli atti quotidiani è possibile riprendere
in mano le città in cui viviamo, ormai troppo
passivamente, renderle più vivibili e a misura
d’uomo. È un gruppo di persone che ha capito
che per fare cose giuste per il bene comune non
è necessario chiedere il permesso o fare molto
clamore.
113
CASO STUDIO
Orti di via Chiodi
Milano
2011
Un privato, l’architetto Claudio Cristofani,
proprietario di un terreno in pieno territorio
urbano destina a parco, in attesa che l’area verde
venga sistemata e per sfruttare le potenzialità
commerciali crea un’area di orti attrezzati, che
mette a disposizione degli interessati dietro un
piccolo compenso economico.
Nell’aprile 2001, inizia l’esercizio sul campo,
sia l’attività architettonica che quella agricola,
85
docenti: Alessandro Altini, Maria
Feller, Luisa Giovenzana, Lorenzo
Consalez, Mauro Giuliani, Stefano
Laffi, Alessandro Rocca, Camilla Vecchi
48. Foto.
Vista degli orti
49. Foto pagina accanto.
Gli studenti all’opera
guidata da un agronomo, e si trasforma l’iniziativa
in un qualcosa di didattico: uno dei laboratori
didattici del corso di laurea di Architettura
Ambientale del Politecnico di Milano85 lascia
le aule e si trasferisce in via Chiodi, gli studenti
prendono parte attivamente alla costruzione
dell’orto prendendo in mano zappe e vanghe.
117
L’orto comunitario:
un catalizzatore
sociale
118
1. C’è una forte domanda, ed è in costante aumento:
ormai i modi di fare orticoltura si sono evoluti
e con essi il desiderio da parte dei cittadini di
condividere il proprio tempo con altre persone per
ritrovare le proprie radici, avere un’alimentazione
più sana, instaurare nuove relazioni sociali.
di ricchezza diretta per il beneficiario di un
appezzamento di terreno non è una favola,
specialmente se si tratta di nuclei familiari
modesti. Alcuni ricercatori hanno calcolato
che il reddito complementare derivato
dall’autoproduzione equivale, per alcuni, ad una
tredicesima. Tale economia non ha certamente
impatto sul PIL, sebbene essa è fra quelle che
donano valore e grandezza ai gesti di numerose
persone, che gli indicatori di crescita economica
non tengono in considerazione.
2. Un luogo dove riscoprire le relazioni sociali
e civili: in numerosi gruppi di orticultura, la
terra diviene occasione per scambiarsi dei doni,
imparare reciprocamente, aiutare gli altri nei
lavori, che consolidano in prima battuta la sfera
familiare. Gli orticoltori sono così stimolati
a riconoscersi quali membri di una stessa
comunità. In seguito tale relazione si evolve
verso una sociabilità allargata tra etnie e tra
generazioni differenti. I giovani sperimentano
in prima persona il valore del lavoro, il senso di
responsabilità riguadagna terreno, dai recinti
degli orti fino al cuore dei quartieri.
3. Una ‘tredicesima’ dell’orto: la creazione
4. Una partecipazione economica al
miglioramento dell’ambiente urbano: Bruxelles,
Strasburgo o Lille, gli spazi orticoli sono parte
integrante del verde pubblico, contribuendo
ad abbassare i costi di manutenzione:
abbattimento dei costi di potatura e taglio
dell’erba, razionalizzazione del consumo d’acqua
(contrariamente all’irrigazione estensiva). Nelle
città medio-piccole, gli orti contribuiscono a
riqualificare dei luoghi abbandonati evitando
alcune problematiche ad essi connessi (discariche
abusive, mancanza di sicurezza etc...). Si teme
forse il fenomeno delle ‘bidonvilles verdi’, ma
l’esperienza insegna che utilizzando un processo
Il manifesto de Les jardin dans tous ses etats,
la rete degli orti comunitari francesi (1997),
si apre con le 7 buone ragioni per promuovere
l’orticoltura urbana:
partecipativo e definendo delle regole condivise,
potranno essere suscitati il buonsenso e la
responsabilità degli orticoltori.
5. tra i 7 e i 22 €/mq, un buon rapporto qualitàprezzo!: i tecnici hanno stimato che i costi di
organizzazione di uno spazio verde convenzionale
variano dai 15 ai 70 €/mq; la creazione di lotti
individuali raggruppati in giardini familiari
costa tra i 10 ed i 28 €/mq; la nuova generazione
di orti comunitari di prossimità o inseriti in
uno spazio verde urbanocostano tra i 7 e i 22€/
mq. La maggior parte degli attrezzi e delle piante
da coltivare vengono portate dagli orticoltori;
le spese di progettazione sono minime. Meno
costosi quindi, ma più ricchi di funzioni sociali
ed ecologiche, i giardini condivisi si iscrivono
nella moderna idea di una ‘migliore efficienza
economica globale’ degli investimenti pubblici.
6. il vostro regalo per le generazioni future: ecco
un’idea semplice, ‘terra terra’, lasciare nelle nuove
generazioni un ricordo degli anni migliori! Chi
non si ricorda degli odori, delle carezze o delle
piante nei giardini di papà, mamma o dei nonni?
Un risveglio di sensi e di curiosità che permetterà
ai bambini di conoscere direttamente il mondo
vivente. Le giovani generazioni hanno il diritto di
sperimentarlo.
7. L’orto, un buon modo di contribuire allo sviluppo
sostenibile: pedagogici, terapeutici, agrobiologici,
artistici, comunitari o d’inserimento, i giardini
che oggi cercano posto nelle nostre città possono
essere apprezzati per la trasversalità delle loro
funzioni sociali. Essi donano il gusto di una vita
migliore che vogliamo garantirci per il futuro.
I primi due enunciati esprimono il forte carattere
sociale degli orti comunitari.
Infatti, alla base dello sviluppo degli orti
comunitari, si colloca il riconoscimento da parte
di studiosi ma anche delle istituzioni, del valore
della pratica ortiva per le sue potenzialità sociali
e ricreative.
I benefici dal punto di vista sociale sono dovuti al
fatto che un orto implica un uso attivo del territorio
urbano da parte della popolazione. La presenza
di orti urbani in un quartiere crea situazioni
d’interazione tra le persone, portando alla nascita
di reti informali di scambio e di aiuto. L’orto è un
motore importante, impegna le persone, richiede
lavoro e collaborazione. Per questo facilita la
creazione di una comunità, aggregando persone
che fino a quel momento non sapevano neppure
di essere vicine di casa, persone che pensavano di
non avere nulla in comune. La vita ormai scorre
all’interno del proprio nucleo familiare, o della
stretta cerchia di amici, e si basa su un incessante
ritmo casa-lavoro che raramente è alterato.
Gli orti comunitari raramente hanno un leader,
come raramente hanno personale pagato:
sono gruppi spontanei, che mettono in atto
concretamente una democrazia degli spazi, del
bello, delle relazioni sociali, dando vita ad un
interessante laboratorio, che potrebbe essere
il modello trainante per una città diversa: un
processo più ampio, che va oltre le persone che
coltivano, coinvolgendo migliaia di persone che
passano dal guardare al fare.
L’attività del coltivare diventa occasione e stimolo
per uno scambio di consigli e informazioni, oltre
che prodotti. Curare una porzione di terra crea un
maggiore senso di appartenenza al territorio, che
si riflette in una maggiore attenzione all’ambiente
urbano allargato. La presenza di orti comunitari
si traduce spesso in un orgoglio per il proprio
quartiere.86 In un orto comunitario ciascun
119
86
A. Viljoen, K. Bohn e J. Howe, Continuous Productive Urban Landscapes: Designing urban agricolture
for sustainable cities, Architectural
Press, Burlington, 2005
120
87
Mariella Bussolati, L’orto diffuso.
Dai balconi ai giardini comunitari,
come cambiare la città coltivandola,
Orme Editore, Roma, 2012
88
M. Bailkey, J. Wilbers e R. Van
Veenhuizen, Building Communities
through Urban Agricolture, UA Magazine, n 18, 2007
89
F. Kuo, W. Sullivan, Environment
and Crime in the Inner City: Does
Vegetation Reduce Crime?, Environment and Behavior, 33, 2001
individuo può contribuire con la propria azione
ad un progetto che non ha confini; si incontra così
una tipologia molto vasta di persone: anziani che
vogliono coltivare un pezzetto di orto, amanti del
giardinaggio che creano aiuole fiorite, ma anche
artisti che realizzano opere murali, mamme e
bambini che cercano uno spazio all’aperto, gruppi
di acquisto solidale che organizzano rinfreschi
con i prodotti dell’orto, docenti di tecniche
agricole che insegnano a coltivare il balcone di
casa, musicisti che trovano uno spazio libero
dove fare le loro performance, ecc. Diventa uno
spazio per fare poesia con i fiori e la letteratura,
ma anche per realizzare opere concrete.87 La forza
che permette a tutte queste realtà di incontrarsi e
di lavorare insieme in modo sinergico è proprio
l’assenza di una struttura definita, lo scambio alla
pari tra le persone, la responsabilità assunta dal
singolo e non da un ente generico. Il risultato è
una ricchezza di progettualità che riguarda ogni
aspetto, dalla scelta delle piante, alle decorazioni,
alle attività culturali, creando un’integrazione
altrimenti non possibile.
La coltivazione di orti-giardino, dunque, coinvolge
tutti gli strati sociali di una comunità, soprattutto
le categorie svantaggiate, anziani, bambini e
minoranze etniche.88 Tramite la coltivazione
urbana persone disagiate e minoranze possono
trovare un ruolo che aiuti la loro integrazione
all’interno della società. Attraverso il lavoro e
l’impegno queste persone riescono a dimostrare
il contributo che possono dare alla comunità.
Un esempio è il Prinzessinnengarten, uno dei
community garden nato a Berlino, ad opera di due
imprenditori illuminati che dopo una vacanza a
Cuba in cui sono entrati in contatto con queste
realtà, decidono di riproporla nella loro città per
riqualificare un appezzamento di terra in disuso.
Nel 2009 i due fondatori, Marco Clausen e Robert
Shaw si avvalgono dell’aiuto di una comunità di
donne del quartiere provenienti dalla Russia e
dalla Turchia, esperte orticoltrici e fornitrici delle
nozioni base per la coltivazione e la realizzazione
dell’orto.
Molti giardini comunitari sono stati aperti
proprio perché potevano unire gruppi di persone
precedentemente in conflitto tra loro. Per
esempio dove c’è una forte immigrazione, o dove
si assiste a spaccio e illegalità diffusa, i giardini
comunitari sono esperimenti sociali che hanno
dimostrato di saper trasformare aree pericolose
e invivibili in luoghi piacevoli sotto molti punti
di vista. Non a caso, in quartieri come quello del
Bronx di New York, dopo la realizzazione degli
orti, i prezzi delle case sono aumentati.
Uno studio di Kuo e Sullivan sulla città di Chicago,
ha rilevato una riduzione del tasso di criminalità
nelle aree prossime ai community garden. Gli
autori spiegano il fenomeno con il fatto che il
verde urbano aumenta la vigilanza sul territorio,
incentivando gli abitanti a vivere più tempo negli
spazi pubblici.89
121
Una rete che sostiene
Il piacere dello stare insieme con l’avvento di
internet e soprattutto dei social network, si è
un po’ arrestato, o forse viene rilegato ad altri
contesti, che non sono propriamente quello dello
stare insieme all’aria aperta.
Lo stereotipo comune vede gli appassionati
di orto come persone che passano tutto il loro
tempo tra fiori e verdure e appena possibile
prendono la zappa in mano, leggono libri di
botanica, consultano cataloghi di vivaisti e
guardano con orrore chiunque usi lo smartphone
o twitti. Non può essere più lontano da verità:
gli appassionati di orto amano mettersi in rete,
proprio perché ne riconoscono l’importanza per
la creazione di una comunità. Per questo sono
nate contemporaneamente migliaia di comunità
virtuali, siti, blog, mappe interattive, gruppi,
pagine e profili sui social network, che permettono
di mettere in relazione realtà simili sparse in tutto
il mondo. Si scambiano così iniziative, si copiano
eventi di successo, si affrontano problemi e si
trovano soluzioni comuni.
In molte città si sono create reti, talvolta anche
a livello nazionale, per aiutarsi e scambiare
informazioni, ma soprattutto per promuovere
altri esempi simili, facendo in modo che in
ogni quartiere potesse crescere un giardino
comunitario.
A Bologna, ad esempio, opera Trame Urbane
(trameurbane.noblogs.org),
un
collettivo
composto da un gruppo misto di persone con
varie competenze. Dopo aver sperimentato negli
anni passati una serie di esperienze di guerrilla
gardening, stanno ora mettendo a punto progetti
di riappropriazione degli spazi e creazione di
orti urbani, con una serie di pratiche di verde
partecipato che coinvolgono tutta la cittadinanza.
Nell’ottobre
2011
hanno
organizzato
CortivareRappOrti, uno dei primi appuntamenti
in cui si sono incontrati molti giardini comunitari
italiani, durante il quale è stato anche dato il
via al processo di risistemazione dell’area della
Bolognina, retrostante il centro sociale Xm24,
dove sarebbe previsto un parco urbano. Da
questi incontri è nata la rete nazionale Orti e
giardini condivisi, per fare in modo che questo
fermento potesse riconoscere se stesso e per farsi
conoscere meglio all’esterno.
CASO STUDIO
Libere Rape
Metropolitane
Milano
2010
90
http://rape.noblogs.org
50. Foto.
Logo del network degli orti comunitari milanesi
51. Foto pagina accanto.
Articolo di giornale, tratto da Repubblica, 4 febbraio 2011
Nasce dall’incontro fortunato tra una serie di
soggetti e di gruppi coinvolti in vario modo, nella
promozione del verde urbano condiviso. Dai
community garden agli orti scolastici, passando
per gli spazi liberati dal cemento e le azioni di
guerrilla gardening: esperienze che guardano
al verde urbano non tanto come ad un elemento
d’arredo da valorizzare, quanto come ad una
preziosa risorsa comune, e ad uno strumento per
tessere e per coltivare relazioni. Gli obiettivi sono
quelli di fare rete, promuovere la conoscenza,
l’incontro e il coordinamento tra progetti
esistenti, creare occasioni di discussione, di
incontro e conoscenza per la valorizzazione
reciproca; infine, ma non ultima per importanza,
facilitare la nascita di nuove esperienze e
difendere quelle in difficoltà, tramite azioni di
cooperazione, mutuo-aiuto, e ‘manovalanza on
demand’. I partecipanti non sono tutti esperti
del settore, anzi, ma hanno tutti una spiccata
sensibilità sul tema.
Uno dei grandi successi della rete è l’aver fatto sì
che il Comune di Milano, così com’è successo a
New York, Parigi e altre città, abbia riconosciuto
l’alto valore sociale ed ambientale degli orti
comunitari, approvando un accordo con i giardini
123
125
L’orto comunitario:
un veicolo
culturale
126
La presenza di nuovi orti urbani, nelle più
svariate forme, è oggi da interpretare come vera
opportunità e come strumento per l’incremento
e la diffusione di valori sociali, culturali ed
ambientali.
Da sempre, nella storia, si è cercato di veicolare
i processi educativi attraverso attività pratiche,
in modo da avere un’esperienza diretta delle cose.
È proprio per questo che nasce l’orto botanico,
come forma didattica della pratica agricola,
per poter attuare processi di sperimentazione,
osservazione ed analisi diretta dei fenomeni
naturali. Con il passare del tempo, poi,
questa realtà passa dall’essere luogo di sola
sperimentazione per specialisti a luogo aperto
al pubblico, per la diffusione d’informazioni
botaniche.
La società contemporanea, figlia del boom
industriale, sta andando incontro ad un processo
di analfabetismo rispetto alle questioni legate al
mondo della natura in ogni suo aspetto. Più della
metà della popolazione vive ormai nelle città.
Il numero delle persone che nel mondo vivono
nelle aree urbane ha una crescita inarrestabile;
secondo le previsioni, entro il 2030 le persone che
vivranno in città saranno il 60% della popolazione
mondiale. Questa crescita si deve da un lato al
naturale incremento della popolazione, dall’altro
alla continua migrazione dalle aree rurali a quelle
urbane, diventate sempre più vitali, soprattutto
per i popolosi paesi del sud del mondo.
La città, però, non può più essere considerata
come un nucleo isolato dal resto, com’è accaduto
finora. Città, campagna e natura selvatica non
possono essere considerati tre elementi separati,
hanno strette connessioni, scambiano tra loro
flussi di materia e informazioni, e dipendono
l’una dall’altra.
Il cittadino urbano, appare sempre più estraneo
alla consapevolezza del paesaggio e del territorio
in cui vive, come anche alle logiche produttive
del mondo naturale. Se il rapporto tra il cittadino
urbano e il mondo della produzione, connesso
all’agricoltura, nel passato è sempre stato chiaro
e necessario, oggi questo legame appare sempre
più debole. Come detto nel capitolo precedente,
il rapporto produttore-consumatore è andato via
via disgregandosi, si è persa la consapevolezza di
ciò che la natura produce, come e secondo quali
ritmi.
L’orto urbano è l’espressione di un nuovo
concepire la metropoli, di una nuova sensibilità,
un nuovo modo di sentire il verde in città: i
cittadini non considerano più aiuole e parchi
come qualcosa di cui fruire passivamente,
ma di cui bisogna farsi carico, con la voglia di
sporcarsi le mani. I cittadini stanno attuando
un cambiamento importante: il riconoscimento
dell’esistenza di un ecosistema urbano, costituito
dai parchi, dai giardini, ma anche dagli orti e dalla
natura selvatica, che si insedia negli spazi vuoti e
comunica con gli ecosistemi esterni.
La storia ci racconta che l’orto ha accompagnato
l’uomo per migliaia di anni, e ha contribuito al
sostegno di intere comunità. Il valore dell’orto è
condiviso in tutte le aree del pianeta e in tutte le
culture. Lo spuntare di orti su balconi, terrazzi
o fazzoletti di terra abbandonati conferma il
bisogno di sentirsi biologicamente umani, di
continuare a mantenere un legame con la terra,
cercando di non disperdere i saperi.
Non si parla, però, di mero giardinaggio, i valori
educativi veicolati attraverso gli orti urbani sono
molto più complessi, sono culturali, ambientali,
vanno verso la diffusione di un nuovo stile di
vita. L’efficacia di questo strumento è legato al
fatto che l’orto comunitario si presenta come
una realtà dinamica, interattiva: è proprio il
fatto di essere attivi che svolge un ruolo chiave
nella sensibilizzazione del cittadino verso una
nuova consapevolezza ambientale, alimentare,
produttiva, e sociale. Una persona che partecipa
attivamente alla coltivazione e al mantenimento
di un orto urbano sarà probabilmente più attenta
e attiva nel riciclo dei rifiuti, cercherà prodotti
di stagione e dalla provenienza certa, cucinerà
con più attenzione e consapevolezza, tutti gesti
fondamentali per uno stile di vita sostenibile.
Uno degli obiettivi principali per creare
una società stabile e sana è migliorarne
l’alimentazione.
L’alimentazione in molte realtà è diventato un
problema di grande portata, tanto che molte
istituzioni hanno dovuto affrontare l’argomento.
Negli Stati Uniti, dove la piaga dell’obesità è
dilagante, la first lady Michelle Obama ha voluto
lanciare un messaggio positivo impegnandosi in
prima persona: ha realizzato un orto nel giardino
della casa bianca, per garantire frutta e verdura
locali alla dieta della famiglia. Questo gesto
simbolico vuole essere un incoraggiamento alle
persone affinché queste abbraccino un nuovo
approccio al cibo e alla coltivazione. Molte
municipalità americane hanno imitato l’esempio
di Michelle, impiantando orti nei giardini dei
propri municipi, dimostrando che un movimento
partito dal basso può trovare appoggio nelle
istituzioni.
La Usda, il dipartimento dell’agricoltura
americana, ha calcolato che il 15% circa del
cibo mondiale viene coltivato nelle aree urbane.
Le città stanno insomma producendo una
quantità rilevante di cibo necessario a sfamare
la popolazione. Secondo la Fao,91 il cibo a buon
mercato è di cattiva qualità, e responsabile
dell’accresciuto livello di obesità e di malattie
croniche. Coltivare nelle aree urbane incrementa
la disponibilità di prodotti freschi e nutrienti e
migliora l’accesso al cibo degli strati più poveri
della popolazione. L’orto urbano è stato introdotto
nei più recenti progetti di aiuto alle popolazioni
in difficoltà: un programma di orticoltura urbana
è stato realizzato dalla Fao nelle cinque città
principali della Repubblica Democratica del
Congo, e ha avuto un grosso impatto sui livelli di
malnutrizione cronica delle città. Il risultato è
notevole: sono stati prodotti 28,6 chili di ortaggi
per abitante, destinati soprattutto a bambini
127
91
Fao, Growing Greener cities, Roma,
2010
128
e donne. Oltre al cibo, il programma è riuscito
a fornire occupazione diretta a circa 50mila
persone, se si considera l’intera filiera.
Un altro esempio di notevole portata, è il
progetto rivolto alla creazione di orti casalinghi,
esportabile anche nelle città europee, promosso
dalla Ong Live in Slums, in collaborazione con
il Politecnico di Milano, nella Città dei Morti
del Cairo. Si tratta del più vecchio cimitero
funzionante del mondo, ma è anche un’area molto
viva: è abitata da 800mila persone, e rappresenta
una delle più grandi bidonville del mondo. I
locali hanno risistemato le tombe inutilizzate,
imparando a convivere e a rispettare le aree
sacre. Il terreno non poteva però essere utilizzato:
sono stati così realizzati dei contenitori sospesi
fatti con materiali di recupero provenienti dalle
discariche locali.
Il successo degli orti è strettamente legato ad
attività promozionali che hanno messo il cibo al
centro di riflessioni più ampie. Una di queste è
il ‘KM 0, ovvero la riduzione dei trasporti legati
alla produzione, concetto nato all’interno delle
reti dei Gas – gruppi di acquisto solidale – in
cui gruppi di cittadini hanno creato delle reti
alternative di distribuzione.
Il tema del rapporto ‘cibo-ambiente-relazioni
personali’ è stato accolto anche dagli Occupy,
i movimenti diffusi prima negli Usa e poi in
Europa, per contestare pacificamente gli abusi
del capitalismo. Da New York a Toronto, da
Barcellona a Roma, i siti di Occupy – oltre
ad ospitare incontri su modelli di economia
alternativa – hanno organizzato scambi di semi e
workshop di orticoltura e di cucina naturale. Sono
stati creati degli orti, come simbolo di economia
diretta decisa dal cittadino. A Barcellona, in
una delle piazze centrali della città, nel corso di
una manifestazione sono stati piantati ortaggi
nelle aiuole: atto simbolico, ma che ha attirato
l’attenzione e la curiosità di molti.
129
Orti scolastici, orti universitari
È negli Stati Uniti dove nella prima metà degli
anni ’90 iniziano a nascere gli orti all’interno
delle strutture scolastiche, improntati su precisi
programmi educativi, lezioni, e sulla pratica
quotidiana della coltivazione come mezzo per
l’eduzione e l’apprendimento.
Harvard, Yale, Stanford sono solo alcuni
esempi. Partendo da piccoli appezzamenti di
terra all’interno dei campus man mano si sono
sviluppate realtà sempre più significative. In
alcuni casi hanno raggiunto le dimensioni di
un’azienda agricola, comprendendo non solo
coltivazioni di ortaggi, ma anche piante, frutteti,
erbe aromatiche ed officinali. Grazie al supporto
delle istituzioni e alla creazione di dipartimenti
appositi gli studenti, coordinati da docenti e
personale universitario, hanno realizzato gli orti.
In genere sono mantenuti da studenti volontari,
sia da coloro che sono iscritti a corsi di laurea in
materia, che da altri spinti dalla curiosità e dalla
passione. Sono occasioni di apprendimento sul
campo, grazie anche all’organizzazione di brevi
lezioni tenute da esperti, per altri rappresentano
invece la possibilità di fare uno stage o di lavorare
per l’università e guadagnare crediti extra.
I prodotti, nella maggior parte dei casi, sono
destinati all’autoconsumo, ovvero servono per
rifornire di prodotti freschi le mense, e i bar. In
questo modo vengono abbattuti i costi dei generi
alimentari, si viene a creare un ciclo sostenibile:
gli scarti organici dei punti di ristoro vengono
portati negli orti, i quali li utilizzano per produrre
compost che servirà come fertilizzante naturale.
Questi comportamenti denotano il carattere delle
coltivazioni, tutte biologiche, senza l’utilizzo
di sostanze chimiche, con lo scopo di ridurre
l’inquinamento in tutti i sensi: quello prodotto dai
rifiuti, quello derivante dall’utilizzo di prodotti
industriali per l’agricoltura, e quello dovuto al
trasporto dei prodotti.
In molti casi vengono organizzate giornate
aperte alla comunità, sia per promuovere uno
stile di vita sostenibile, sia per raccogliere fondi
derivanti dalla vendita dei prodotti. Gli eventi
organizzati vengono comunicati con il supporto
delle tecnologie: quasi tutti gli orti universitari
hanno un blog, che permette sia agli studenti di
comunicare, sia di mantenere un contatto diretto
con le comunità locali.
Nelle nostre città, negli ultimi anni, sono
molte le associazioni che hanno lanciato vere
130
92
http://edibleschoolyard.org/
52. Foto.
Logo del progetto Orto in Condotta
e proprie campagne per diffondere la cultura
dell’orto. Italia Nostra, Anci – Associazione
comuni italiani - Coldiretti e Campagna Amica
hanno dato vita ad un progetto, Orti Urbani,
per valorizzare la pratica del coltivare in città.
Vengono seguite delle regole etiche inserite in
un protocollo di intesa, elaborato dalla facoltà
di Agraria dell’Università di Perugia: l’orto viene
inteso come parco culturale.
Anche Legambiente ha sposato la causa degli
orti. 1000 orti per la Campania è un progetto che
prevede l’assegnazione gratuita degli orti di città
ai cittadini pensionati della regione, che li devono
coltivare insieme agli studenti delle scuole.
All’appello non manca Slow Food, l’associazione
che promuove la cultura e la produzione di cibo
su piccola scala, sostenibile e di qualità; ritiene
che sia fondamentale educare adulti e bambini ad
una corretta alimentazione e al gusto, per cercare
di avvicinare in maniera consapevole il maggior
numero di persone a questi principi. I bambini
sono i primi destinatari di quest’approccio,
in quanto sono loro a rischiare di perdere il
contatto con la realtà del mondo agroalimentare.
Il progetto Orto in Condotta è stato ideato per
educare proprio i più piccoli a mangiare sano
in maniera gustosa nel rispetto dell’ambiente.
Riproposto in Italia nel 2003, su un modello già
attuato negli Stati Uniti, The Edible Schoolyard,92
ha avuto un gran successo. Il numero degli
orti scolastici è cresciuto esponenzialmente,
arrivando a contarne 421. Sono diffusi a livello
nazionale, ma spesso dipendono dall’impegno
delle singole scuole e dei docenti.
A Sesto San Giovanni, Milano, è partito tre anni
fa un interessante progetto didattico rivolto ai
bambini delle scuole materne, elementari e medie.
Giardini Preziosi, di Zucche Vuote (http://www.
zucchevuote.it/), è un programma di educazione
ambientale sostenuto dall’amministrazione
locale, che parte dalla riscoperta dell’agricoltura
e del suo ruolo primario nella società. I laboratori
di orticoltura e giardinaggio diventano uno
strumento per affrontare, fin dai primi anni
di scuola, il tema di un corretto rapporto con
l’ambiente e con il cibo, in modo che una volta
diventati adulti, i bambini possano compiere
scelte responsabili e informate per il futuro di
tutti.
131
Battery Park
Farm
New York
2010
Un orto di circa 0.4 ettari a Battery Park, nel cuore
della down town newyorkese, a ridosso della
trafficata State Street, sopra il tunnel della nuova
South Ferry Subway Station. È stato affidato agli
studenti – 52 classi, 870 ragazzi e 50 insegnanti
- della vicina Millennium High School, i quali
hanno convertito i terreni alla coltivazione
di circa 80 specie di vegetali, distribuiti in
novantacinque lotti con una media di tre raccolti
l’anno.
L’orto non è strettamente didattica, alle attività
possono partecipare gli abitanti della zona ed i
proprietari dei ristoranti locali.
Singolare è la storia della recinzione: come
in molti casi sono stati utilizzati materiali di
recupero, ma in questo caso sono canne di bamboo
provenienti da una maestosa installazione
realizzata sul tetto del Metropolitan Museum
nell’estate del 2010. I più di 5000 pali sono
stati assemblati componendo una recinzione
essenziale, che permette il dialogo tra l’orto ed il
parco circostante. 93
133
93
http://www.thebattery.org/projects/battery-urban-farm/
53. Foto pagina accanto.
Bambino partecpa ad attivitá educative
54. Foto.
Vista dello spazio
CASO STUDIO
Farm Atelier
Palazzo delle Stelline, Milano
2012
94
http://www.naba.it/site/home/
news-ed-eventi /salone-del-mobile-2012/farm-atelier.html
55. Foto.
Progetto di un orto in una delle Slum
africane.
Nel 2015 Milano ospiterà l’Esposizione
Universale dal titolo ‘Nutrire il pianeta, energia
per la vita’. Partendo da questo spunto, durante
la settimana del design, è stata realizzata
un’installazione da parte di coloro che si
occupano del progetto di riqualificazione urbana
Liveinslums, con la collaborazione della Naba,
Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, che
si è occupata dello sviluppo degli allestimenti.
È stata avviata una settimana di workshop,
dibattiti e conferenze legate all’ambiente e
all’alimentazione, con l’obiettivo di regalare alla
città un luogo rinnovato, da vivere, coltivare e
rispettare, e per produrre un esempio concreto
d’impegno della comunità in vista del prossimo
Expo.
L’installazione prevedeva la realizzazione di uno
spazio agricolo, su modello di quelli realizzati
dall’associazione nei paesi africani, ovvero
l’agricoltura in sacchi.94
135
Brookwood
Triangle
Londra
2007
Fondato nel 2007, è un orto comunitario che ha
la fortuna di essere stabile; proprio per questo vi
è stata installata perfino una cucina, per portare
avanti uno degli obiettivi della Bankside Open
Space Trust, che oltre a sottrarre all’abbandono
aree urbane e destinarle a spazi verdi per i
cittadini, è impegnata in prima linea nella
promozione di un’alimentazione sana e naturale,
proveniente soprattutto da produttori locali.
Grazie ai proventi di uno speciale fondo della
lotteria inglese, attraverso l’orto viene promosso il
cibo a chilometri zero, attraverso manifestazioni,
giornate comunitarie ed eventi.95
95
http://www.bost.org.uk/open-places/sign-up/about-edible-bankside/
56. Foto.
Bambine all’opera,
pomeriggio all’orto
passando
il
L’orto comunitario:
strumento di
riqualificazione
urbana
137
138
95 Abraham Maslow, Motivazioni e
personalità, Armando Editore, Roma,
1992
57. Foto pagina accanto.
Articolo tratto da Repubblica, 3
dicembre 2011
Le teorie dei bisogni fondamentali dell’uomo,
come quella dello psicologo statunitense
Abraham Maslow,95 individuano la necessità
di poter contare su protezione, affetto o stima,
partecipazione, autorealizzazione o creazione,
identità o appartenenza, e sul soddisfacimento dei
bisogni fisiologici. Sono valori interdipendenti,
dalla stessa importanza; sono universali e non
sono mai cambiati nel corso della storia, sono
solo cambiati gli strumenti per soddisfarli.
Se lo spazio pubblico dovesse accogliere i
bisogni fondamentali all’interno dei suoi confini,
andrebbe riprogettato il concetto stesso di spazio
pubblico. Il territorio, il quartiere, le strade e gli
spazi intimi andrebbero riordinati secondo altre
relazioni che comprendono soprattutto i rapporti
tra le persone, cosa che attualmente non viene
presa in considerazione, se non in base a regole di
produzione e commercio.
Ciò che emerge dalla recente diffusione degli orti
negli spazi pubblici è il desiderio di modellare
il tessuto urbano a misura dei propri bisogni
e delle proprie prospettive di vita, in modo da
renderlo il più possibile vicino al proprio modo di
essere. Il tentativo è quello di inventare un nuovo
paesaggio urbano, che comprende e non esclude
gli individui e le reti che creano tra di loro.
In una città ci sono spazi pubblici e privati,
interni ed esterni. Nello spazio urbano ci sono e
ci devono essere pieni e vuoti. Una crepa urbana
si manifesta come una pianta spontanea che
rompe l’asfalto, ma anche lo spazio abbandonato
dalla pianificazione, che viene fatto rivivere
invece da un gruppo di cittadini. Riappropriarsi
in forma diversa degli spazi verdi vuol dire
spronare le amministrazioni ad intervenire in
favore di politiche sociali e ambientali in maniera
concreta.
Le istituzioni, che in tempo di guerra o di forte
criticità hanno visto negli orti una soluzione
a problemi sociali ed economici, dovrebbero
incentivarli anche in epoche di pace. È importante
considerare gli orti urbani come possibile
strumento strategico per lo sviluppo della città,
uno sviluppo sostenibile a misura di cittadino.
Generalmente, il concetto di città sostenibile
fa riferimento più spesso a restrizioni e divieti
su grande scala, piuttosto che a pratiche di vita
quotidiana promosse ed inserite dalle autorità
pubbliche nei loro programmi. Per questo, mentre
da un lato vengono applicate leggi severe da parte
delle istituzioni, dall’altro vengono percorse
strade che cambiano i comportamenti quotidiani
di ciascuno.
Le istituzioni non sono arrivate ad incentivare
i cittadini come autori del rinnovamento del
paesaggio urbano, in genere sono gruppi di
cittadini dalla spiccata sensibilità ambientale
che mettono in atto la rigenerazione del tessuto
urbano attraverso piccole azioni i cui risvolti,
però, sono incisivi.
Nel passato, insediamenti agricoli urbani si
affiancavano ad aree di verde istituzionale oppure
erano considerate realtà di seconda categoria,
ritagli urbani, in molti casi estranei al contesto
circostante, contrari ai regolamenti urbani.
Negli anni ’70, con i movimenti hippy ed
ambientalisti, soprattutto negli Stati Uniti
si diffondono fenomeni di riappropriazione
e riqualifica volontaria da parte di gruppi
cittadini, dei terreni abbandonati e degradati.
È l’espressione di una protesta tacita ma attiva,
contro l’incuria e il disinteresse delle pubbliche
amministrazioni rispetto al problema. Si
sviluppa una nuova sensibilità ambientale di
gestione dello spazio pubblico, che coinvolge
direttamente il singolo cittadino, in termini di
cura e manutenzione.
La riqualificazione avviene attraverso azioni
puntuali e specifiche, che arricchisce con nuove
forme di verde le città contemporanee. Il fatto che
l’appropriazione sia collettiva denota il valore che
ha lo spazio pubblico, dal punto di vista sociale.
Uno dei benefici che viene dall’implementazione
di un orto urbano come strumento di
riqualifica è certamente quello economico. Le
amministrazioni che permettono ad un gruppo
di persone attive di intraprendere un processo
di questo genere, non dovranno affrontare
spese di manutenzione dello spazio pubblico; è
risaputo che attraverso queste pratiche i cittadini
sono spinti ad un agire più consapevole e più
responsabile nei confronti degli spazi pubblici.
140
Benefici ecologici
96
Michael Hough, In Cities and natural process, 1995
Michael Hough96 ci invita a guardare il paesaggio
urbano, soprattutto quello verde in una prospettiva
un po’ diversa dal solito. La comune sensibilità e
i valori diffusi a cui solitamente si fa riferimento
inducono ad apprezzare maggiormente uno
spazio verde ben curato, un giardino strutturato;
questi spazi, però, presentano una scarsa diversità
floro-faunistica e richiedono una costante spesa
per la manutenzione.
L’agricoltura urbana si colloca a metà tra i
giardini progettati e le zone verdi spontanee, e
costituisce un’ulteriore ecosistema all’interno
della città. Pur essendo uno spazio curato e
modificato dall’intervento dell’uomo, allo stesso
tempo rende produttivi i suoli, apporta nuove
piante nel contesto urbano e crea un riparo per
insetti ed uccelli. L’agricoltura, infatti, dal punto
di vista ecologico porta una serie di benefici:
può contribuire a migliorare il microclima
urbano, a ridurre la produzione di rifiuti urbani
e a migliorare il riciclo delle sostanze nutrienti,
a migliorare la gestione delle biodiversità, il
bilancio ossigeno-anidride carbonica ed infine,
ma non ultimo come importanza, a sviluppare
una coscienza ambientale negli abitanti.
I vantaggi ecologici possono essere compresi se
si considera il processo produttivo che, a partire
dalle risorse, crea prodotti e rifiuti: da modello
lineare, tipico della vita cittadina, torna ad
essere ciclico, grazie al fatto che i rifiuti possono
essere utilizzati come risorse. Un riciclo degli
elementi nutritivi che, attraverso pratiche
come il compostaggio, servono per mantenere
la fertilità del suolo. Il riciclo, però, non è
riferito solo alle materie organiche, dato che
spesso gli spazi e le strutture vengono realizzati
con materiali di scarto o dismessi, ed infine si
riduce notevolmente la necessità di materiali di
confezionamento e packaging dei prodotti, dato
che si tagliano i passaggi che portano i prodotti
dal luogo di produzione a quelli del consumo.
Gli orti urbani hanno anche effetti positivi dal
punto di vista del ciclo idrico in città: l’aumento
degli spazi verdi contribuisce a diminuire il
carico dei sistemi di smaltimento delle acque
piovane, sia per la permeabilità dei terreni, sia
perché in molti casi queste vengono riutilizzate
come fonte per l’irrigazione.
Infine, bisogna sottolineare come l’esistenza di
luoghi di produzione orto-frutticola nelle città,
riduce la distanza tra produttore e consumatore,
riducendo drasticamente l’utilizzo di energia
per il trasporto, diminuendo la componente di
inquinamento derivante da ciò.
141
58. Foto.
Spartitraffico utilizzato per coltivare
zucchine. Atto provocatorio affettuato da un abitante di zona Paolo Sarpi,
Milano
59. 60. 61. Foto pagine successive.
Immagine del cambiamento urbano
che ha portato la realizzazione del
Prinzessinnengarten a Berlino.
pagina
pagina
144
Place au
changement
Saint-Ètienne, Francia
2011
97
http://www.collectifetc.com/placeau-changement-chantier/
62. Foto.
Ricreazione di uno spazio domestico in
una piazza pubblica
63. Foto pagina accanto.
Vista dello spazio riqualificato.
Esempio di luogo urbano autogestito,
trasformato in orto giardino per volontà delle
comunità locali. Il progetto nasce da un’iniziale
sollecitazione pubblica e da gruppi che si
occupano di promuovere l’uso e la gestione da
parte dei cittadini di spazi urbani in disuso. È
stato originato da un concorso pubblico indetto
da l’Ètablissement Public d’Aménagement della
città, ed ha coinvolto i cittadini locali accrescendo
la loro consapevolezza dei cambiamenti urbani
e abituandoli progressivamente alla cura di un
nuovo spazio pubblico.
Lo spazio abbandonato è situato all’intersezione
tra due strade, sulle pareti degli edifici limitrofi
e lungo il perimetro sono stati disegnati gli
elementi di un possibile edificio a corte. Nello
spazio in cui ci sarebbe ipoteticamente stato uno
spazio aperto è stato realizzato un orto giardino,
con arredi costruiti ad hoc, riutilizzando degli
elementi urbani. Il progetto si è concretizzato
in un laboratorio diurno aperto al pubblico ogni
giorno durante il mese, dividendo le attività in tre
fasi: uno di falegnameria per la costruzione delle
strutture, uno di grafica ed uno di giardinaggio,
che si è occupato di costruire l’orto vero e proprio.
Durante i lavori lo spazio è stato teatro di
eventi, attività organizzate dalle associazioni
locali, diventando così un’importante spazio di
aggregazione per il vicinato. Gli arredi non sono
mai stati danneggiati ed il luogo è ben mantenuto,
in quanto gli abitanti se ne prendono cura con
regolarità.97
pagina
pagina
pagina
149
Conclusioni
151
Come si è avuto modo di vedere dai casi studio
all’interno del capitolo, numerosi sono gli esempi
di successo di realizzazione di community garden
all’interno di realtà di diverso genere.
I community garden si configurano solitamente
come un insieme di piccoli appezzamenti collocati
in un lotto recintato ma aperto all’accesso
pubblico. Sono gestiti in maniera comunitaria
dagli utenti, che si danno delle regole su come
organizzare lo spazio, sui metodi di coltivazione,
e sui prodotti da coltivare.
Si tratta di un’innovazione sociale nella città
che scardina la natura degli elementi tipici
delle aree urbane – cemento, metallo, plastica –
proponendo un’invasione di elementi naturali.
Trasforma spazi inospitali in luoghi accoglienti
e piacevoli, e favorisce azioni collettive con un
fine comune. Nel giardino le diverse generazioni,
ma anche comunità, etnie, culture, collaborano,
facendo diventare un patrimonio sia l’esperienza
che le tradizioni.
Gli orti comunitari, essendo luoghi di aggregazione
sociale spontanea, sono un ottimo strumento per
la diffusione di un nuovo stile di vita, basato sul
rispetto della natura, dell’ambiente, degli altri, e
sull’alimentazione sana e sostenibile.
Rappresentano un mezzo perfetto per mettere in
contatto persone che frequentano realtà diverse,
per trovare un momento di dialogo in situazioni
critiche fino a giungere nei casi di maggior
successo addirittura alla convergenza degli
interessi di parti precedentemente in conflitto.
CAPITOLO 3
Coltivando
Orto conviviale al
Politecnico di Milano
“Ho letto molto, e
trovato soltanto
incertezza, menzogna
e fanatismo. Delle cose
essenziali so poco più
di quanto non sapessi
quando ero lattante.
Io preferisco piantare,
seminare ed essere
libero.”
~Voltaire ~
155
Contesto
156
Lo spazio
pubblico
“spazio pubblico: campo
plurale di utilizzi in cui avviene il contatto tra il corpo
dell’individuo che potrebbe
agire – come singolo e/o in
gruppo – e il corpo città.
Campo di pratiche, di attori, cittadini che con le loro
azioni danno vita allo spazio
stesso. La pratica sociale
dunque è tutt’altro che aspaziale.” 98
Passando in rassegna testi e saggi di autori che
si sono interrogati sullo spazio pubblico ci si
accorge come questa nozione sia cambiata molto
nel tempo, non solo nel suo significato intrinseco,
ma anche e per causa-effetto del contesto,
dell’intorno: la città non è fatta solo di spazi ma
anche di persone, vite, stili di vita, necessità,
sempre in movimento. Attualmente non si sente
parlare in termini assoluti di spazio pubblico,
ma si incontrano termini e argomenti più ampli;
ad esempio ‘riappropriazione dello spazio
pubblico’, ‘usi dello spazio pubblico’, ‘politiche
nella differenziazione degli spazi pubblici’,
‘inclusione, esclusione, isolamento’, ‘conflitti
sociali’, ‘pratiche d’uso dello spazio pubblico’, ecc.
Non si tratta più di un solo problema urbanistico
ed architettonico, ma di un tema trasversale,
fisico, sociale, antropologico, politico… Non è più
un perimetro circoscritto al cui interno vengono
imposti a priori degli usi, detti ‘pubblici’, dato che
ogni giorno emergono nuove situazioni che lo
caratterizzano.
98
Gabriele Pasqui, Progetto, governo,
società. Ripensare le politiche territoriali, Franco Angeli Editore, 2005
99
Richard Sennett, Il declino
dell’uomo pubblico, Bompiani, 1982
Già negli anni ’80, Sennett99, sociologo
statunitense si è occupato della teoria della
socialità e del lavoro, dei legami sociali nei
contesti urbani, degli effetti sull’individuo
della convivenza con altri nel mondo moderno
urbanizzato; definisce lo spazio pubblico con
il termine ‘comunità’, intesa come insieme
di pratiche d’uso di individui diversi che per
sopravvivere devono stare insieme. La comunità
è fatta di relazioni sociali che nascono attraverso
incontri diretti o indiretti, dove gli individui si
confrontano con le differenze che hanno intorno.
Ne segue che lo spazio pubblico è ‘lo spazio del
cittadino’, mutevole e diversificato, e l’uso di
questo spazio è dettato dalle azioni della comunità
stessa. Sennett inoltre, parla di disordine e di
‘uso del disordine’: lo spazio pubblico, e più in
generale la città, come comunità libera di creare
le sue strutture del vivere; un luogo vitale dove
gli individui, diversi per caratteristiche, interessi
e azioni si scontrano su un piano sociale,
cercando di fare qualcosa in comune affinchè
il conflitto diventi sopportabile. Nel disordine
l’individuo deve sentirsi obbligato a trovare una
soluzione per convivere con le differenze delle
altre persone. Ciò che ne deriva è quindi una
città, una comunità, uno spazio pubblico nel
quale le ostilità sono mediate ed il sentimento
di curiosità e rispetto verso l’altro risvegliato. In
tale disordine, Sennett precisa l’assenza di una
forma di controllo centralizzata; così gli individui
assumono una maggior centralità di controllo
autonomo, diventando più consapevoli della
propria presenza e degli altri nello spazio.
La definizione che il sociologo americano dà di
spazio pubblico è un ‘bene comune della società, un
luogo dove diverse funzioni si sovrappongono e dove
l’esperienza quotidiana si complica’. Controllare
la molteplicità di funzioni significherebbe non
riconoscere il carattere mutabile dello spazio e
prescindere dagli utenti.
Leonie Sandercok, in ‘Verso Cosmopolis’100
propone un modello di città, senza però riuscire a
dare una definizione univoca di spazio pubblico,
senza trattare in modo trasversale di cultura,
cultura civica, progetto sociale, l’Io e l’Altro,
capacità individuali e collettive, movimenti
sociali, politiche e istituzioni. Lo spazio pubblico
viene definito tramite due caratteri: come luogo
di produzione della conoscenza, come luogo
politico – in cui si incontrano domande di attori
sociali diversi e differenze esigenze di sistema,
luogo aperto al confronto ed alla negoziazione di
interessi.
Stefano Boeri101, riflette sul termine ‘spazio
pubblico’, oggi usato per indicare una varietà
di luoghi che hanno ben poco in comune con
l’immagine tradizionale dei luoghi ad uso
‘pubblico’, segnati dalla continuità e dalla
coesione degli spazi aperti collettivi. I luoghi
assumono il loro carattere in base ai differenti
modi con i quali la mobilità delle pratiche si
addensa intorno ad essi, e non solo per la loro
estensione o conformazione fisica. Nelle società
aperte, è difficile stabilire delle corrispondenze
tra forme e significati in modo immutabile. Da
qui si ha il fenomeno del continuo ridefinirsi degli
spazi collettivi e del loro significato pubblico,
condiviso. Boeri riflette anche sugli spazi pubblici
che abbandonati dalla maggioranza diventano
il luogo delle minoranze, in cui emergono
esperienze di socializzazione da parte di nuove
comunità urbane che hanno introdotto costumi
abitativi inusuali e nuovi modi di ‘segnare’ il
suolo pubblico, tipico di culture diverse da
quella occidentale. In tutti i casi, ciò che viene
sottolineato è come ai giorni d’oggi lo spazio
urbano viene usato spesso per usi impropri,
un mix di pratiche che hanno come obiettivo il
rendere pubblico uno spazio semplicemente in
relazione ai desideri ed alle possibilità.
157
100
Leonie Sandercork, Verso
cosmopolis. Città multiculturali e
pianificazione urbana, Dedalo, 2004
101
Stefano Boeri, John Palmesino,
Giovanni La Varra, Gli spazi pubblici
sono delle fiamme. Note per una
interpretazione propensionale dei
territori della città contemporanea, in
Paesaggio Urbano, n° 3, 199
pagina
159
Orti comunitari
a Milano
Diverse esperienze
a confronto
Milano è una città dove gli orti sono sempre
esistiti. Abusivi o comunali, hanno sempre avuto
un aspetto disordinato. Spesso riservati agli
anziani non benestanti, creati in spazi marginali
e spesso a rischio inquinamento, sono sempre
stati considerati dall’opinione dominante una
bruttura della città.
Qualcosa però, ad un certo punto, è cambiato:
prima all’interno dell’ex ospedale Paolo Pini, poi
al Parco Trotter, negli spazi sociali frequentati dai
giovani, in angoli di quartiere nelle scuole o nei
giardini condominiali, gruppi di persone hanno
dato vita a realtà molto interessanti: Giardino
degli Aromi, Giardini del Sole, Papaveri Rossi di
Precotto, Giardino Primo Moroni, Piano Terra,
Un giardino per Via Montello sono solo alcuni
esempi di verde partecipato.
Milano forse può vantare il primato di avere
l’unico orto italiano posizionato proprio in centro
città. L’Orto della Fede si trova nel cortile della
chiesa evangelica luterana, in via De Marchi, a
due passi da via Montenapoleone, dal quadriatero
della moda. Chi se ne prende cura è la comunità
di fedeli e i ragazzi della Scuola Germanica e
Svizzera. Il gruppo di ortisti si ritrova nell’orto
tutti i mercoledì pomeriggio, occasione per la
quale la chiesa è aperta, chiaro invito a coniugare
vita del fedele e lavoro all’aperto.
Il Giardino degli Aromi nasce per caso, quando
un gruppo di adolescenti inizia per gioco a
costruire un orticello in uno spazio abbandonato
della proviancia. Poi un gruppo di volontari
dell’ospedale e degli abitanti del quartiere
hanno aiutato a ripulire l’area e a disegnare le
prime aiuole. Sono state create delle parcelle
individuali assegnate a chi ne fa richiesta tramite
bando, all’interno di un progetto comunitario di
lavoro collettivo, scambio e di relazione. Nel 2005
nasce Libero Orto, un ‘orto comunitario urbano e
di integrazione’: aiuta le persone che provengono
dal disagio sociale, grazie ad un rapporto alla
pari con gli altri, stare in mezzo agli altri aiuta a
dimenticare i propri problemi.
Orti nei parchi, oltre a quelli comunali, e 300 si
trovano nell’area compresa tra il Bosco in Città ed
il Parco delle Cave. Quasi 400 sono invece quelli
che si trovano al Parco Nord; sono aperti solo ai
pensionati, anche se con possibili abbinamenti
tra più persone.
67. Foto.
Ai piedi della Torre Galfa, dove nel
maggio 2012 si era insediato il collettivo Macao, la comunità che rivendiva l’arte come esperimento sociale,
era stato iniziato un progetto di orto
coomunitario. Il giorno prima dello
sgombero erano stati piantati pomodori, zucchine, melanzane, piante
ornamentali e aromatiche, grazie alla
collaborazione di abitanti del quartiere o di giardinieri che hanno donato piante e tuttoi gli attrezzi necessari
per le attività di giardinaggio.
160
102
Libere Rape Metropolitane
http://rape.noblogs.org
68. Foto.
Piccoli giardinieri crescono all’orto
comunitario del Parco Trotter.
69. Foto.
Manifesto del gruppo gardening,
MACAO
Alla fine del 2009 nasce il giardino comunitario
del Parco Trotter, area verde che ospita quella
che un tempo era una delle scuole modello della
città, la Casa del Sole: una scuola-fattoria dove i
bambini più gracili potevano vivere all’aperto,
giocare con gli animali e coltivare l’orto. La scuola
esiste ancora ma con un approccio tradizionale
all’educazione. Il parco, però è diventato punto
di riferimento per un quartiere ad alto tasso di
immigrazione, e un’attivissima associazione
protegge il parco organizzando eventi, momenti
educativi, laboratori ed un orto comunitario.
Il giardino si trovano cose non comuni: una vasca
d’acqua circondata da bambu per momenti di
relax, arbusti ornamentali, fiori che fanno da
sfondo alle coltivazioni vere e proprie.
Le realtà di orti e spazi verdi partecipato sono
ben più di una ventina e per aiutarsi, scambiare
informazioni e tecniche si sono messe in
rete. è stato creato così il network Libere Rape
Metropolitane102, presentato nel dicembre 2010.
Un’altra rete è Orto diffuso: l’obiettivo è quello
di mappare online giardini e spazi comunali
degradati o abbandonati e che potrebbero essere
usati per realizzare degli orti. Le mappe sono
interattive, continuamente modificabili, cosa che
permette di avere una panoramica costante della
situazione
161
CASO STUDIO
Papaveri Rossi
di Precotto
2011
103
Testo tratto dal manifesto
pubblicato
sul
blog
dell’orto
comunitario Precotto
h t t p : //p a p a v e r i r o s s i p r e c o t t o .
blogspot.it
70. Foto in alto.
Vista dello spazio in inverno, dopo la
costruzione dei primi cassoni per le
coltivazioni
71. Foto in basso.
I lavori riprendono: giornata di
impegno condiviso, ma anche svago
L’idea nasce dal desiderio di alcuni cittadini
del quartiere di usare parte del proprio tempo
ed energie per migliorare la vita quotidiana
della zona, attraverso un intervento attivo sul
paesaggio, sulla sua stessa struttura. Precotto,
come molti quartieri della città, ha subìto
processi di trasformazione profondi negli ultimi
decenni: la progressiva scomparsa dei distretti
industriali, sostituiti da complessi residenziali
non sempre forniti di servizi adeguati, ha portato
un grande numero di nuovi abitanti ma ha visto
lentamente allentarsi quei legami sociali -la
cosiddetta ‘comunità’- che hanno sempre fatto la
vera ‘ricchezza’ della zona.
Motore della sfida è promuovere una serie di
attività che permettano alle persone che vivono
a Precotto di incontrarsi, lavorare una terra
comune, scambiarsi esperienze e punti di vista.
E di godere anche dei frutti di un impegno
condiviso.
Per questo è importante che lo spazio ed il tempo
dell’orto giardino siano pubblici. I promotori
credono che sia importante che il primo
passo avvenga su quella porzione di terreno
abbandonata da anni che sta fra via Bigiogera e
via Tremelloni, quella che in primavera fiorisce di
papaveri spontanei; l’amminstrazione comunale
ha dei progetti su quel terreno, ma forse è proprio
questo il motivo che ci fa scegliere: ‘occupare’
simbolicamente quella porzione di terreno senza
chiedere il permesso perché così è più evidente
la loro azione, dopo anni di incuria e abbandono.
Un’azione che non ha un tono rivendicativo -non
pretendono, propongono! - né un carattere di
‘presa di possesso’ -la provvisorietà è data dal
fatto che non si pianterà direttamente nulla nel
terreno, verranno usati dei cassoni in legno con
la terra che il giorno dopo potrebbero essere
rimossi...
Ma non per questo non si afferma con decisione
il loro desiderio. La prima e più importante garanzia di questo processo è la partecipazione libera dei cittadini. La domenica di ottobre, quando
sono iniziati i lavori di sistemazione dello spazio,
sono accorsi in numerosi con tanta voglia di fare,
di interessarsi, di lasciare tracce significative.
Insieme, ecco la parola chiave che permette di accedere all’orto-giardinocomunitario... 103
163
CASO STUDIO
Cascina
Cuccagna
Recupero di un luogo storico,
recupero di una nuova
relazione con la natura
“Spesso di antica origine
e di architettura degna di
nota, malridotte e sottoutilizzate, di scarso interesse
economico, le nostre cascine
vanno verso l’abbandono,
come tante altre cose vecchie. Ma un patrimonio di
50 complessi, distribuiti
dentro e intorno ad una città
metropolitana, sono un bene
culturale unico, che occorre
non solo preservare, ma
anche rendere disponibile
alla collettività” 104
104
Delibera di indirizzo della Giunta
Comunale 14 gennaio 2003 da
http://www.cuccagna.org
105
www.cuccagna.org
72. Foto.
Vista dall’alto della cascina e degli
spazi verdi attigui
Si presenta oggi come un’anomalia urbanistica
interpretabile come fastidiosa diversità o come
ricchezza di ruoli e di messaggi possibili e insieme
un raro esempio di spazio cittadino disponibile a
sperimentare nuove relazioni con la natura e con
il mondo agricolo. Il Progetto Cuccagna, infatti, si
propone di costruire un ponte culturale tra città e
campagna, e di creare nuovi collegamenti - negli
stili di vita e nelle pratiche quotidiane - tra cibo
e agricoltura, qualità e sostenibilità, modernità
globale e tradizione locale, consumo sostenibile e
risorse territoriali.
Cascina Cuccagna si presta dunque ad essere
avamposto, ponte di superamento dei confini
mentali e fisici che separano la città dalla
campagna. Il suo recupero costituisce un primo ed
importante gesto concreto di valorizzazione del
patrimonio storico, ambientale e paesaggistico di
questo territorio, che presuppone lo sviluppo di
uno specifico sistema culturale.
Le attività sono distinte in diverse aree
progettuali, in particolare quello ‘ambiente e
alimentazione’ prevede: un’agenzia per il turismo
agricolo e ambientale, un mercato periodico di
prodotti del Parco Agricolo Sud di Milano e delle
campagne lombarde, una bottega permanente
della filiera corta, punti ristoro, laboratori
artigianali di riciclo e restauro, e orti, frutteto e
serra didattici.
Spazi attrezzati creativi nello spazio verde della
cascina e altri spazi del territorio in grado di
veicolare, all’interno di un progetto di orticultura
biologica ed educazione ambientale, una
conoscenza diretta e manuale del mondo naturale
attraverso l’attività esemplare di orticultura e
giardinaggio rivolta in particolare agli alunni
delle scuole e ai cittadini anziani della zona. 105
165
Isola Pepe Verde
Verde partecipato negli
interstizi urbani
‘Per un verde da usare e non solo da guardare’ questo
è lo slogan del gruppo di abitanti del quartiere
Isola che si sono uniti in associazione.
Da alcuni mesi stanno riflettendo sulla ipotesi
di trasformare l’area adiacente a Via Pepe, Via
Borsieri, cavalcavia Bussa in un’area a Parco.
Quest’area di proprietà comunale, è in buona
parte recintata, comprende una piccola area già
coperta da manto erboso, e un parcheggio.
Il quartiere soffre in maniera grave della
mancanza di spazi verdi, la situazione è diventata
drammatica con la chiusura nel 2007 dei Giardini
di Via Confalonieri.
L’area prescelta, per la centralità rispetto
al quartiere, e per la vicinanza con le scuole
materna, elementare e media, è ideale per
rispondere all’emergenza dovuta alla mancanza
di verde di prossimità di cui tutto il quartiere e
un’intera generazione di bambini stà soffrendo.
L’area può essere trasformata in Parco e resa disponibile in pochi mesi, grazie alla partecipazione
attiva di tutti.
Il gruppo si propone per seguire la realizzazione e
la gestione del nuovo spazio verde, di promuoverlo nel quartiere e farlo diventare un momento di
partecipazione e socialità.
167
“Per un verde da usare e non
solo da guardare! Il gruppo
di abitanti del quartiere Isola
organizza una giornata di
festa tra banchetti informativi, progettazione collettiva
del nuovo giardino, area giochi bimbi piccoli, partite di
basket, calcetto e badminton,
workshop, il secondo raduno
dei cani dell’Isola, musica dal
vivo, cibo e bevande bio e molto altro...” 106
106
dhttps://isolapepeverde.wordpress.
com
73. Foto pagina accanto.
Poster per promuovere l’iniziativa
74. Foto in alto.
Vista dall’alto dell’area prescelta
75. Foto in basso.
Abitanti all’opera
pagina
Contesto
urbano
“Il ruolo del Politecnico è un ruolo decisivo; lo è
stato in passato e lo è tuttora. È una presenza
importante per una serie di motivi: perchè
fisicamente si è sostituito a quello che c’era
prima, per i flussi che si porta dietro e per
la capacità progettuale che lo caratterizza.
Tuttavia il ruolo che andrà ad assumere, o
a consolidare, dipende molto da quanto il
Politecnico vuole appropriarsi di Bovisa in
maniera illuminata. Il rischio è che diventi
una presenza egemone estranea al quartiere. Io
spero che invece agisca ripensando le numerose
aree libere esistenti per riqualificare il quartiere,
recuperando sentimenti antichi in un’ottica
moderna. Il Politecnico dovrebbe sfruttare
queste aree, che sono risorse importante,
per fare cose belle, curando gli spazi pubblici
aperti, ed in particolare il verde. Una cosa che
mi spaventa, infatti, è che mai nessuno qui in
Bovisa parli di creare spazi verdi.”
~ A. Manzoni, libreria “Il Libraccio”,
ex- abitante. ~
169
76. Foto.
Vista dall’alto dell’ovale, lo spazio
verde all’aperto per eccellenza del
Campus Durando del Politecnico di
Milano, dove ci si ritrova per pranzare, svagarsi e trascorrere un po’ di
tempo libero.
170
Quartiere
Bovisa
Storia di un’area in sospeso tra
passato e futuro
La Bovisa è situata nella zona nord di Milano,
circondata per buona parte dai binari della
ferrovia.
Il toponimo deriva dalla termine boves, dato che
l’area era adibita al pascolo dei buoi, per la fecondità
dei terreni. All’inizio del ‘900 iniziarono ad
insediarsi grandi fabbriche -Montecatini, Ceretti
e Tanfani, l’Officina del Gas - facendo nascere un
quartiere operaio, inglobato dalla città nel 1932.
Il polo industriale si confronta con il quartiere
storico, un tessuto denso e prevalentemente
residenziale. Le tappe successive sono:
ricostruzione post-bellica, miracolo economico
negli anni ‘50-’60 e dismissione delle fabbriche
nel decennio successivo, evento che fa perdere al
quartiere la propria identità operaia e il contatto
con la vita sociale e culturale della città, facendo
sì che i giovani lascino il quartiere ormai privo del
“pull factor” di avere il lavoro sotto casa. A partire
dal 1989, inizia una fase di neourbanizzazione, in
atto ancora ai giorni d’oggi; si tratta di una fase
sorretta dalla volontà di conferire a Milano una
struttura policentrica, con funzioni decentrate,
innervata da una rete diffusa di servizi idonea a
promuovere la riqualificazione delle periferie. Il
processo di mutamento urbano prende la strada
171
BOVISA
77. Foto pagina accanto.
Immagine storica del quartiere:
l’officina del gas, inizio ‘900
1. Schema grafico.
Localizzazione della Bovisa nell’area
di Milano
78. Foto in basso.
La nuova edilizia nel quartiere
del recupero: le ex-sedi industriali sono viste
non come avanzi da rimuovere ma come edifici
da riportare a nuova vita. Tale progetto inizia
quando la facoltà di Ingegneria del Politecnico
di Milano comincia ad utilizzare un capannone
dell’ex Fbm Costruzioni Meccaniche, e continua
nel ‘94, quando la Facoltà di Architettura si
insedia nello stabilimento ristrutturato dell’ex
Cerretti & Tanfani.
Oggi la Bovisa si colloca in una posizione
periferica, ma al centro di alcune spinte che
stanno rivedendo la geografia della città: la
vicinanza dei progetti strategici di Malpensa, la
nuova sede della Fiera di Rho-Pero e di grandi
progetti residenziali come il Portello, la riportano
al centro della città. Oltre che con il centro di
Milano, quest’area ha sviluppato una fitta rete di
connessioni anche con la regione metropolitana
circostante, grazie alla realizzazione di
infrastrutture, ferrovie e sistemi di tangenziali.
La Bovisa rimane un quartiere ancora molto
attivo, con tante opportunità da sfruttare.
Comprede infatti sia vaste aree dismesse che
piccoli punti all’interno del tessuto storico, apparentemente invisibili, ma che contribuiscono
all’ammodernamento e al ringiovanimento della
zona.
172
Gli abitanti
della Bovisa
Generazioni, mondi e culture
diverse a contatto
La Bovisa appare oggi come un territorio
dinamico, in cui diverse popolazioni vivono,
abitano, attraversano il quartiere, un’area urbana
che, da tradizionale periferia industriale, si
allarga a relazioni più ampie verso Milano e l’area
metropolitana.
Per indagare i diversi gruppi sociali e le
loro abitudini, è interessante analizzarne le
caratteristiche, i modi di vita, gli orari di presenza
nel quartiere e soprattutto le loro geografie d’uso,
ovvero i loro modi di fruire il quartiere.
Dividendo la popolazione in componenti sociale
è possibile distinguere due macro categorie:
la prima definita come “gli stanziali”, che
raggruppa coloro che sono radicati al territorio
dall’abitare e dalle relazioni sociali di prossimità,
mentre l’altra è quella definita da Martinotti
dei “city users”, ovvero quelle persone che si
spostano quotidianamente all’interno della città
oppure provengono dall’esterno, per utilizzare
servizi, caratterizzandosi così come consumatori
temporanei.
Del primo gruppo fanno parte gli abitanti,
gli immigrati ed i commercianti. All’interno
del secondo individuiamo invece, gli studenti
universitari, i professionisti per lo più in ambiti
creativi, ed i lavoratori.
Gli abitanti occupano ovviamente le aree
residenziali ed usufruiscono dei negozi di
vicinato e degli spazi pubblici quali giardini,
scuole… Le loro centralità sono quelle storiche
delle piazza. Questa popolazione è quella che
conserva la memoria storica e porta avanti la
tradizione, allargandosi però a nuove componenti
provenienti dall’esterno e che esprimono nuove
e differenti esigenze. Molti di essi sono anche i
commercianti o artigiani che lavorano all’interno
del quartiere. Le zone dove più si concentrano
diventano dei poli catalizzatori della dimensione
locale, ancora organizzata con servizi di vicinato,
dov’è possibile instaurare rapporti di conoscenza
personale tra negoziante e clienti.
Gli immigrati si collocano principalmente
nella parte marginale, puntando sul commercio,
soprattutto sulla ristorazione; le loro attività
diventano i veri e propri centri di aggregazione
per le comunità immigrate. La loro presenza è
molto visibile, ad esempio attraverso i cartelli
multilingue appesi alle entrate delle scuole di
quartiere. Essi sembrano utilizzare in modo
intensivo e preponderante gli spazi pubblici
del quartiere, andando a sostituire i fruitori
tradizionali o affiancandosi ad essi.
Gli studenti sono per la maggior parte pendolari, che frequentano il quartiere solo di giorno, e
senza utilizzarlo interamente; arrivano per lo più
con il treno e si recano lungo percorsi quasi obbligati verso il Campus. La minoranza che invece
decide di stabilirsi in zona, è spinta verso questa
scelta per la vicinanza con il Campus e per i prezzi
più contenuti delle abitazioni. Per gli studenti
in generale, si sono sviluppate lungo le vie che
conducono al Campus, tutta una serie di servizi
complementari allo studio, dalle copisterie alla
ristorazione take away.
I professionisti sono stati richiamati dalla
Bovisa dal basso prezzo degli immobili
industriali, convertiti in atelier e loft, e dalla
presenza di importanti istituzioni culturali,
come il Politecnico e la Triennale Bovisa. Gli
studi sono sparsi all’interno del tessuto storico
residenziale, ma non sono visibili; gli stessi
abitanti non conoscono molte delle realtà
esistenti, forse perché queste non sono integrate
con il quartiere. L’unica occasione di incontro e
di dialogo reciproco è rappresentata dall’evento
del Fuorisalone Bovisa che apre gli spazi creativi
e crea percorsi interni al quartiere, attirando
anche molti visitatori esterni.
I lavoratori, infine, sono una categoria in rapida
espansione, poco legati al quartiere, se non durante la pausa pranzo. Le aree che frequentano
sono spesso marginali, se non addirittura isolate,
come il triangolo a nord della stazione Bovisa.
173
79. Foto.
Uscita del Politecnico, gli studenti
vanno e vengono dalla stazione. La
loro creatività si è espressa nel modificare l’attraversamento pedonale,
secondo le loro esigenze.
174
Campus Durando
Polo catalizzatore di un nuovo
quartiere
Nel 1989 il Politecnico di Milano, che allora aveva
sede soltanto in piazza L. da Vinci, decise di
insediare un reparto della facoltà di Ingegneria nel
capannone dell’ex Fbm Costruzioni Meccaniche
in Via Lambruschini.
Negli anni successivi decise di occuparsi della
totale ristrutturazione dello stabilimento dell’ex
Ceretti&Tanfani (azienda specializzata nella
costruzione di meccanismi di sollevamento e
trasporto di merci e persone) in Via Durando, per
farne la sede della facoltà di Architettura.
Sin dai primi anni, circa 3000 ragazzi - i giovani
tornano in quartiere! - occupano ogni giorno
il deserto delle rovine industriali, nel quale
l’antico grigiore è stato in parte sostituito sia dal
rosso-giallo-blu degli edifici universitari, sia da
spazi verdi. Vecchie opere metalliche arredano il
Campus, come fossero sculture di oggi, tracce di
una modernità che si evolve. Una nuova realtà, in
cui nella modernità si ingloba e fissa la memoria.
Il Campus di Via Durando ospita, oltre alla
facoltà di Architettura, anche quella del Design
e di Ingegneria: laboratori, dipartimenti, aule,
biblioteche per un totale di 12.000 persone
ed un indotto di piccole attività di servizio
all’università, sviluppatosi a ridosso del tessuto
abitativo limitrofo.
Durante tutto il processo di insediamento si sono
ottimizzate le forme di integrazione territoriale,
in modo che il quartiere prendesse coscienza del
suo nuovo ruolo di area destinata ai giovani, alla
creatività ed alla ricerca.
175
L’area di progetto
Un campus per tutti
L’area di progetto si trova all’interno del campus
del Politecnico; un grande terreno, per anni
inaccessibile, che da pochi mesi è stato restituito
agli studenti e agli abitanti della Bovisa.
Il progetto prevede la realizzazione di un orto
urbano e di un area sportiva, con l’intento di
coinvolgere non solo gli studenti, ma anche la
comunità del quartiere che fino ad ora non ha
avuto la possibilità di usufruire del grande spazio
via Du rando 10
i
vi a An dre ol
v ia C a n d ia n i
pubblico del Campus Bovisa.
Il terreno ha un estensione di circa 10.000 mq, ed
è caratterizzato dalla presenza di riufiuti inerti
derivati dai lavori di riqualifica degli edifiici del
campus.
Si è riscontrato inoltre un inquinamento da
metalli pesanti, eredità della precedente fabbrica
Ceretti&Tanfani.
Per questi motivi nell’area dedicata all’orto
urbano si prevedono interventi di bonifica e
l’utilizzo di terreno di riporto.
2. Schema grafico pagina accanto.
Focus sulla Bovisa e sull’ubicazione
del Campus Durando rispetto al
quartiere
3. Schema grafico in alto.
Localizzazione dell’area di progetto
rispetto all’intero Campus. Sono
segnate anche le altre aree verdi
presenti.
80. Immagine.
Visualizzazione
dell’intervento.
dello
spazio
Gli elementi progettuali del prossimo capitolo
sono stati realizzati con la collaborazione del
team di progetto di Coltivando-orto conviviale:
Alessandro Sachero
Gustavo Primavera
177
Processo e
sviluppo
“Many things grow in
the garden that were
never sown there.”
~Thomas Fuller, 1732 ~
178
Obiettivi
Spazio aperto a tutti
per coltivare e condividere
SPAZIO PUBBLICO
APRIRE
IL CAMPUS
QUARTIERE BOVISA
ponte tra due realtà
4. Schema grafico.
Obiettivi del progetto ColtivandoOrto conviviale al Politecnico
5. Schema grafico pagina accanto.
Metodologia di siluppo del progetto
Coltivando-Orto
conviviale al
Politecnico
COLTIVARE
IMPARARE
INSEGNARE
CONDIVIDERE
orto collettivo
workshop
workshop
aree comuni
179
Metodologia
Passi necessari per la
realizzazione del progetto
FORMAZIONE
COMUNITÀ
progettazione partecipata
realizzazione orto
manutenzione orto
TEAM
PROJECT
RICERCA E
ANALISI
CO-DESIGN
WORKSHOP
coordinamento e
sviluppo del progetto
analisi casi studio
confronto interno
con il Politecnico
coinvolgimento
attori
incontro di
progettazione
aperto
PROGETTAZIONE
“SISTEMA ORTO”
applicabile
ripetibile
autogestibile
modificabile
ampliabile
180
Creazione della
comunità
Comunità interna e comunità
esterna a comfronto
La comunità dell’orto comunitario sarà costituita
sia dai membri interni alla realtà accademica
che dagli abitanti della Bovisa o altre persone
interessate al progetto.
Dato il tipo di progetto, si è deciso di coinvolgere
fin dalle prime tappe di sviluppo tutti i potenziali
giardinieri. Sono state organizzati dei momenti
di condivisione e dibattito del progetto, aperti a
tutti gli interessati.
La prima giornata è stata dedicata alla comunità
interna, soprattutto ai docenti e a tutti i
ricercatori del Politecnico coinvolti in progetti
legati a tematiche di sostenibilità. Si voleva
condividere il percorso fatto fino a quel momento,
cercare in loro un supporto, analizzare insieme
problematiche e criticità grazie all’eterogeneità
di conoscenze possedute dai partecipanti.
81. Foto.
Workshop con i possibili giardinieri
al Politecnico di Milano, giugno 2012
Nei mesi successivi sono state organizzate delle
giornate di co-progettazione aperte proprio a
tutti: abitanti della Bovisa, studenti, docenti,
responsabili di altri orti urbani milanesi,
rappresentanti delle amministrazioni locali.
Durante le ore trascorse insieme, oltre alla
presentazione dello stato del progetto, sono state
proposte delle attività di co-progettazione, in cui
si invitavano tutti ad esprimere le proprie idee,
perplessità, dubbi sull’iniziativa, sia a livello
di sistema sia in relazione alla vera e propria
costruzione dell’orto.
Il riscontro avuto è stato positivo, hanno
partecipato potenziali giardinieri di tutti i tipi,
sia esperti, sia principianti, bambini, adulti e
anziani. L’interesse e l’entusiasmo non mancano,
la gente è pronta a darsi da fare.
Si pensa nel futuro di realizzare un’altra giornata,
in modo da tirare le fila del progetto con i
partecipanti in modo da poter arrivare a creare
una vera e propria comunità.
pagina
182
Brand
Concept
Il nome scelto per il progetto ´è
COLTIVANDO - ORTO CONVIVIALE
al Politecnico di Milano.
Per il nome del progetto si voleva un solo termine,
che fosse immediato e coniugasse i valori insiti
al progetto; dopo una fase di brainstorming si è
giunti a scegliere ‘Coltivando’, perchè:
COLTIVARE 107:
1. Riferito a un terreno o piante, render fruttifero on particolari cure (lavoro, concimazione, ecc.): c. l’orto, c. su vasta
scala.
2. Fig. Praticare, seguire con particolare impegno (ma non
esclusivamente): c. la caccia, la musica; anche: c. l’amicizia,
il senso del dovere; c. una persona, circuirla di premure e
d’attenzioni per cattiversene la simpatia.
107
Definizione tratta dal dizionario
della lingua italiana Oli Devoto
dalla definizione di ‘coltivare’ emerge il
valore contenutistico del termine: a partire
dall’accezione botanica fino ad arrivare quelle
figurate, vengono espresse le caratteristiche del
Polimi Community Garden, e rimane aperto a
nuovi input.
un verbo esprime un’azione;
coniugato al gerundio semplice ne sottolinea
il valore attivo e lascia aperto il soggetto: la
possibilità di un soggetto generico esprime un
senso di inclusione e partecipazione (può essere
un singolo, tanti, un gruppo...), mentre la forma
attiva rappresenta il coinvolgimento in prima
persona del soggetto; il gerundio, inoltre, ha in
sé un’idea di contemporaneità e di azione in
divenire.
Coltivando viene poi definito dal sottotitolo Orto
Conviviale al Politecnico di Milano , relazionandosi
a diversi livelli con ogni parola:
coltivare un orto: la parola orto definisce
l’oggetto concreto del progetto, inglobando
dentro di sè tutti quei concetti collaterali che
distinguono lo spazio; non è solo uno spazio verde,
all’aperto, ma un luogo di produzione in divenire,
che ripropone uno stile di vita sano e sostenibile.
coltivare relazioni: con il termine conviviale
si manifesta l’idea di collettività, di un luogo in cui
si ritrovano tutti coloro che vogliono condividere
una passione, un’esperienza, un’idea...
coltivare idee: l’università, in particolare la
scuola di architettura e la scuola del design, si
pongono come fucine di idee, di conoscenza.
183
Verde
C
0
M
0
Verde
Y K
0 100
Bianco
C
0
M
0
C M
78 5
Y K
58 0.1
Bianco
Y
0
K
0
C
0
M
0
Y
0
K
0
ORTO CONVIVIALE
ORTO CONVIVIALE
Politecnico di Milano
Politecnico di Milano
Schema in alto.
Combinazione dei colori scelti per il
logotipo.
ORTO CONVIVIALE
ORTO CONVIVIALE
Politecnico di Milano
Politecnico di Milano
Schema in basso.
Visualizzazione del logotipo, in versione bianco e nero e con l’utilizzo del
colore scelto per il brand.
Due sono le versioni: logotipo su
sfondo bianco o su sfondo del colore
prescelto.
184
Brand
Logotipo
coltivando
Si è scelto di realizzare un logotipo - il trattamento tipografico applicato al nome dell’orto comunitario del Politecnico di Milano - e non da un
marchio.
Il logotipo è costituito dal nome vero e proprio
‘Coltivando’ ed un sottotitolo che esplicita il progetto ed i suoi valori.
coltivando
Unico elemento grafico è il puntino della ‘i’: è
stato modificato fino a fargli assumere la forma di
una foglia molto stilizzata.
Il logotipo è stato disegnata a partire da uno dei
font utilizzato per tutta la comunicazione: Aux
Pro, a cui sono state determinate modifiche,
come l’arrotondamento del bastone della n e
l’eliminazione delle grazie di l, t, a, d.
185
Brand
Specifiche del logo
50
5
10
5
30
Aux Pro modificato,
ORTO CONVIVIALE
Aux ProBold maiuscolo, 11.85 pt
Aux ProMedium minuscolo, 9.25 pt
5
Politecnico di Milano
Circonferenza
Ø 4.2 mm
Linea
spessore 1.3 pt
Aux ProMedium minuscolo, 11.85 pt
186
Brand
Tipografia
Schema grafico.
Rappresentazione delle quattro
declinazioni del font Aux Pro utilizzate per caratterizzare il brand.
Questo font è usato, oltre che nel
logotipo, anche il tutti i format di comunicazione per titoli o scritte che
debbano essere immediate e di particolare rilevanza.
Aux Pro
Aux Pro Medium
abcdefghijklmnopqrstuvwxyz
ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ
0123456789
!? ; : , . * / \ ( ) [ ] -+#&%@$£
abcdefghijklmnopqrstuvwxyz
ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ
0123456789
!? ; : , .* / \ ( ) [ ] -+#&%@$£
Aux Pro Bold
Aux Pro Italic
abcdefghijklmnopqrstuvwxyz
ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ
0123456789
!? ; : , . * / \ ( ) [ ] -+#&%@$£
abcdefghijklmnopqrstuvwxyz
ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ
0123456789
!? ; : , . * / \ ( ) [ ] -+#&%@$£
187
Brand
Tipografia
Sentinel Book
Sentinel Medium
abcdefghijklmnopqrstuvwxyz
ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ
0123456789
!? ; : , . * / \ ( ) [ ] -+#&%@$£
abcdefghijklmnopqrstuvwxyz
ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ
0123456789
!? ; : , . * / \ ( ) [ ] -+#&%@$£
Sentinel Bold
Sentinel light italic
abcdefghijklmnopqrstuvwxyz
ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ
0123456789
!? ; : , . * / \ ( ) [ ] -+#&%@$£
abcdefghijklmnopqrstuvwxyz
ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ
0123456789
!? ; : , . * / \ ( ) [ ] -+#&%@$£
Schema grafico.
Rappresentazione delle quattro
declinazioni del font Sentinel utilizzate per caratterizzare il brand.
Questo font è usato per il corpo dei
testi, didascalie, note.
188
Gli elementi progettuali del prossimo capitolo
sono stati realizzati con la collaborazione di
Gustavo Primavera
189
Modello di
servizio
“Cibo sano e biologico,
a costo zero, per soci
che cooperano.”
190
Sistema e
attori
Relazione tra tutti i
partecipanti al progetto
Realizzare un orto comunitario è un processo
complesso, che coinvolge molti attori.
A partire dal team di progetto, ci si estende verso
tutti coloro che all’interno del sistema universitario sono chiamati a parteciparvi: dipartimenti semsibili alla tematica, uffici di logistica
e di amministrazione che sono soliti occuparsi
dell’organizzazione del Politecnico e degli eventi
o iniziative che si vogliono realizzare.
Essendo un orto aperto alla comunità è fondamentale coinvolgere gli abitanti del quartiere e
tutti coloro che sono interessati. Essi sono, infatti, coloro che usufruiranno del servizio, e lo
manterranno in funzione partecipandovi attivamente.
6. Schema grafico.
Rappresentazione di tutti coloro
che sono coinvolti nel progetto,
ralazionati a secondo del loro grado di
coinvolgimento.
Dato che il progetto verrà realizzato in uno
spazio anche di proprietà del Comune di Milano,
l’amministrazione locale avrà un ruolo nel sistema. In genere, chi si occupa di iniziative a livello
di quartiere sono le circoscrizioni, in questo caso
la numero 9, responsabile di Bovisa, Dergano e
Affori.
Sponsor, finanziatori, sono ben accetti, soprattutto nel caso in cui l’orto volesse espandersi.
Anche in occasioni o eventi, di portata più ampia,
sarebbe necessario l’appoggio di esterni: esperti,
organizzatori di eventi, promotori...
Nel momento in cui Coltivando - orto conviviale
verrà realizzato sarebbe necessario che si relazionasse in modo costante con gli altri orti comunitari della città. Milano possiede una rete di orti
molto attiva, che permette alle diverse realtà non
uno scambio di sole informazioni, ma anche aiuti
concreti in caso di necessità.
COMUNITÀ
LOCALE
CIRCOSCRIZIONE
DI ZONA 9
COMUNE
MILANO
MEMBRI
COMUNITÀ
ESTERNA
COORDINATORE
GENERALE
FINANZIAMENTI
NETWORK
ORTI
COMUNITARI
MILANO
SPONSORS
COLTIVANDO
MEMBRI
COMUNITÀ
INTERNA
..........
..........
STUDENTI
..........
..........
INDACO
..........
NUTRIRE
MILANO
DIS
DHOC
..........
DESIS
HUMAN
CITIES
GRUPPI
RICERCA
INTERNAZIONALI
192
System map
Relazioni necessarie per
l’implementazione e lo sviluppo dell’orto
Come emerge nello schema della pagina
precedente, sono molti gli attori coinvolti nel
sistema. Tra ognuno di loro si instaurano delle
relazioni di diverso tipo, in cui vi è uno scambio
di elementi diversi:
Informazioni: di qualsiasi genere; è
fondamentale per lo sviluppo del progetto che la
comunicazione sia costante ed efficiente.
Mano d’opera: ore di lavoro effettivo; non
esclusivamente nella costruzione dell’orto e
nella coltivazione, ma ognuno può mettere a
disposizione le sue capacità - amministrative,
logistiche, di comunicazione, ecc. - al servizio
della comunità.
Economico-monetario: per il progetto, oltre ad
un finanziamento iniziale saranno necessari dei
fondi per lo sviluppo e la manutenzione.
Materiale: tutto ciò che è necessario per la
costruzione e per il mantenimento dell’orto.
7. Schema grafico.
Rappresentazioni
di
tutte
le
connessioni che vi sono tra gli attori
Educativo: essendo un orto universitario, vuole
essere uno spazio educativo, a diversi livelli; si
potrà imparare a coltivare, ma anche a costruire,
trasformare, riciclare, e intraprendere così un
percorso verso un nuovo stile di vita sostenibile.
INFORMAZIONE
MANO D’OPERA
ECONOMICO
EDUCATIVO
MATERIALE
SOCI
COMUNITÀ
SPONSORSHIP
CONSIGLIO
MANAGERIALE
COORDINATORE
MEMBRI INTERNI
MEMBRI ESTERNI
WEBSITE
WORKSHOPS
GRUPPI INTERNAZIONALI
DI RECERCA DEL DESIGN
FINANZIAMENTI
CIRCOSCRIZIONE
ZONA 9
194
System map
Lavoro comune per il
successo del sistema
Il servizio proposto è un orto comunitario.
Il sistema si configura come un insieme di soci chiunque può diventarlo - che interagiscono per
creare un bene comune.
Il promotore è il Politecnico di Milano, che
patrocina il progetto, mettendo a disposizione
uno spazio all’interno del Campus e nominando
un coordinatore; tale figura è fondamentale, dato
che si occuperà di gestire il sistema, coordinare
tutte le attività e di mettere in comunicazione
tutti gli attori coinvolti.
L’orto, essendo comunitario, non prevede la
presenza di lotti di terra ad uso individuale;
il sistema prevede che tutti lavorino nell’orto
dedicando alcune ore di lavoro settimanale per lo
svolgimento delle attività previste nel momento
in cui si è disponibili. Il coordinatore, in base
alle attività specifiche da fare di volta in volta,
organizzerà le persone disponibili in turni.
8. Schema grafico.
Rappresentazione del sistema
Ci sarà sempre un compenso per il lavoro svolto,
anche se varierà a seconda del momento dell’anno;
nei periodi di produzione, i prodotti disponibili
verranno distribuiti tra i soci, i quali riceveranno
una cassetta alla settimana.
Nei periodi in cui non vi sarà produzione, i soci
potranno partecipare ad attività, workshop
educativi, oppure avere a disposizione gli
spazi comuni per organizzare eventi personali,
trascorrere il proprio tempo libero...
Il sistema organizzativo è democratico; pertanto
non sarà il coordinatore a prendere le decisioni
indipendentemente dai soci, ma regolarmente
questi si incontreranno in un consiglio: insieme
si faranno le delibere, si affronteranno le
problematiche che si presentano, si troverranno
soluzioni, si organizzeranno le attività extra, ecc.
195
COLLABORATORE
INTERNO
PROMOTORE
MEMBRO
COORDINATORE
COORDINATORE &
REPRESENTANTI
GESTIONE
GENERALE
CONSIGLIO
MANAGERIALE
1h LAVORO
SETTIMANALE
COMUNITÀ
COLTIVANDO
BENEFICIO
ATTIVITÀ FONDAMENTALI
BASICHE E SPECIFICHE
CASSETTA ORTAGGI
SETTIMANALE
A PERSONA
196
Ore di lavoro - compenso
20
SOCI
40
SOCI
9. Schema grafico.
Schema di massima sul rapporto tra
il numero di partecipanti, le ore di lavoro che ognuno dovrebbe mettere a
disposizione e compenso individuale
ricevuto.
Dati forniti da Paolo Bolzacchini,
Slow Food
80
SOCI
2,5h
2 kg
di lavoro
settimanale
per persona
cassetta
piccola
per persona
2h
3 kg
di lavoro
settimanale
per persona
cassetta
media
per persona
1h
4 kg
di lavoro
settimanale
per persona
cassetta
grande
per persona
197
Attività
Cosa fare? Quando?
Per il funzionamento dell’orto è stato tracciato un
elenco delle attività di base che bisogna svolgere.
Sono raggruppate per tipologia:
Settimanali e mensili: attività da svolgere con
una regolarità, che vanno programmate mese per
mese.
Gestionali: sono tutte quelle attività logistiche,
di amministrazione, necessarie per corretto
funzionamento del sistema.
Stagionali: sono attività soprattutto di giardinaggio e manutenzione, necessarie affinchè gli
spazi siano sempre in ordine.
Giardinaggio: si intendono tutte le attività legale
alla coltivazione.
Manutenzione: sono le attività che servono per
mantenere lo spazio in ordine e garantire un buon
funzionamento del sistema.
Netiworking: si intendono le attività per la
comunicazione, sia tra i partecipanti, tra soci e
Politecnico ma soprattutto con il mondo esterno.
Le attività descritte sono quelle di partenza, con
il procedere è possibile che ci si renda conto che
ne sono necessarie delle altre, che qualcuna vada
modificata - dal punto di vista della scadenza.
La figura che si occuperà di tracciare un calendario e del controllo dello svolgimento delle attività sarà il coordinatore.
Conosco gli orti comunali, mi
piace ascoltare la gente e credo
di
essere un buon mediatore.
Desidero un lavoro con possibilità
di crescita professionale in un
contesto accademico.
Le attivitità sono poi suddivise secondo delle
scadenze temporali:
Quotidiane: sono le mansioni che vanno svolte
giorno dopo giorno, che con i diversi turni i soci
sovranno coprire.
COORDINATORE
198
Regolamento
La carta dell’ortista
È stato stilato un regolamento, diviso in diverse
sezioni:
Sez I: Come diventare socio del programma?
Chiunque può diventare socio, in accordo con il
numero di persone che lo spazio può accogliere.
Solo i soci attivi, ovvero coloro che si sono
registrati e partecipano svolgendo le mansioni
previste, possono usufruire dei benefici.
Sez II: Cosa si intende per cooperazione?
Il sistema per funzionare ha bisogno del
contributo di tutti: ognuno deve rispettare il
proprio turno, se vuole farne di extra è ben
accetto.
Una cooperativa è una associazione di persone
che si uniscono volontariamente per raggiungere
degli obiettivi economici, sociali, culturali
secondo un sistema gestionale democratico 107
107
Joe Holtz, General Manager and
Founding Memer of Park Slope Food
Coop
Sez IV: Come è si organizza il lavoro?
Tutti faranno tutto, organizzati in squadre
ognuna delle quali si prenderà cura di alcuni
spazi, aiuole; essendo i gruppi eterogenei coloro
che hanno più conoscenze dovranno aiutare i
principianti, in modo che ci sia uno scambio di
informazioni e capacità. Lavorando in gruppo
si abbattono le barriere tra le persone, creando
così una comunità di persone che si supportano
a vicenda.
In caso non si possa adempiere ai propri compiti
bisogna avvisare il coordinatore e trovare qualcun
altro che lo sostituisca oppure fare un turno di
recupero in modo da poter usufruire dei benefici.
Se non si avvisa, non si trova un sostituto o
non viene recuperato il turno per due volte
consecutive si verrà sospesi. Per venire riabilitati
bisognerà fare dei cicli di turni senza alcun
compenso.
Sez V: Assenze prolungate
In caso non si possa partecipare attivamente per
più di quattro settimane è necessario avvisare il
coordinatore, ed ovviamente in quel periodo non
si potrà usufruire dei benefici.
Nel momento del reintegro si tornerà a lavorare
con la squadra di appartenenza ed il sistema continuerà come in precedenza.
Per assenza prolungate, senza preavviso non si è
più soci di Coltivando-orto conviviale.
Sez. VI: Bambini a Coltivando
I bambini sono i benvenuti, ma sempre accompagnati da un adulto che si occupi di loro per motivi
di sicurezza. I ragazzi tra i 14 ed 18 anni possono
lavorare con il permesso dei genitori.
Sez. VII: Worshop ed eventi
Nel momento in cui si diventa soci bisognerà frequentare un corso di formazione. Nel caso non
siano in programma dei corsi nel mese successivo si affiancherà un socio esperto il quale provvederà ad illustrare le attività da eseguire e come.
Stagionalmente saranno organizzati dei workshop per l’apprendimento delle mansioni
specifiche. Dopo aver seguito i due corsi di
formazione e lavorando attivamente nell’orto per
una stagione si diventerà un socio esperto.
A Coltivando si organizzeranno degli eventi a
tema, coerenti con lo spirito ed i valori del progetto. Tutti i soci potranno partecipare ed anche
potenziali nuovi membri.
Sec VIII: Organi decisionali
Coltivando è un sistema democratico. Perciò ogni
mese, o in caso di necessità, sarà riunito il consiglio generale, l’organo decisionale, presieduto
dal Coordinatore. È l’insieme dei rappresentanti
–eletti dai soci - e dei responsabili delle squadre
di lavoro. Il consiglio avrà potere decisionale in
materia di coltivazione, organizzazione dei workshop e degli eventi straordinari, l’acquisto di materiali necessari, ecc.
Sez IX: Distribuzione della produzione
Il principale beneficio di ogni socio attivo è la cassetta di prodotti freschi, equamente distribuiti.
con scadenze regolari queste verranno distribuite
tra tutti. Per questo non è permesso coltivare o
raccogliere prodotti individualmente.
In caso di necessità particolari, allergie, intolleranze, problemi alimentari, si possono fare delle
richieste al coordinatore in modo che la cassetta
contenga prodotti ad hoc rispetto a specifiche
esigenze.
Sez X: La gazzetta dell’ortista
È una pubblicazione che verrà distribuita a tutti i
soci all’iscrizione e poi ogni due mesi per aggiornarli su avvenimenti, successi, novità, ecc. Chiunque voglia scrivere, mettere un’inserzione può
farlo dato che è uno strumento di comunicazione
tra tutti i soci.
199
200
LA CARTA DELL’ORTISTA
1
Chiunque può diventare socio di Coltivando, e solo i soci attivi possono percepire il compenso, una cassetta
di prodotti coltivati nell’orto.
2
Ogni socio per essere attivo deve fare un turno a settimana – o ogni due settimane a seconda della quantità
di iscritti attivi - al fine di beneficiare dei compensi.
3
Ogni membro attivo deve frequentare i corsi di formazione di base prima di poter svolgere in ogni tipo di
attività.
4
Lo svolgimento di attività specifiche come la potatura, innesto e piantumazione richiede una formazione
specifica. Si consiglia di frequentare i laboratori didattici stagionali per essere sempre aggiornati ed acquisire tutte le competenze necessarie per il giardinaggio!
5
Se sai che sarai assente è tua responsabilità trovare un altro membro che ti possa sostituire. Qualora non
dovessi trovare un sostituto, informa il coordinatore e non riceverai la casella di quella settimana a meno
che non si faccia un turo di recupero la settimana precedente o quella successiva. Con più di due assenze
non segnalate si viene automaticamente sospesi. Per venire riabilitati, bisogna effettuare dei turni di lavoro
senza compenso
6
Si prega di non raccogliere i prodotti per se stessi, dato che la cassetta verrà riempita con prodotti freschi
equamente.
7
L’orto conviviale si basa sui principi dell’agricoltura biologica e di sostenibilità ambientale. Si invita ad utilizzare l’acqua in modo consapevole, ad evitare i pesticidi ed i diserbanti chimici.
8
È necessario rispettare il lavoro degli altri e assicurarsi che il giardino è sia ben accurato. Se si notano irregolarità bisogna segnalarle al coordinatore.
9
I bambini possono accedere all’orto conviviale, ma sempre sotto il controllo di un adulto.
10
Amiamo gli animali, ma per questioni di igiene non è possibile lasciarli liberi. La loro presenza non è
proibita, ma bisogna tenerli sotto controllo. Il giardino è di tutti!
201
Progettazione
di Coltivando
202
Layout
Orto giardino e
spazi collettivi
rto
Giardino
convivia
o
i
z
le
pa
O
Il progetto ha lo scopo di dare al quartiere ed
agli studenti uno spazio sia per la coltivazione
che per la socialità. Le due funzioni non saranno
distribuite in modo separato, ma si susseguiranno
andando a creare spazi di coltivazione collettiva
e aree in cui trascorrere dei momenti all’aria
aperta.
L’area orto-giardino sarà più estesa, e
comprenderà aree di coltivazione - sia di ortaggi
e frutta, ma anche di piante aromatiche, fiori,
erbacee per la fitodepurazine del terreno - ma
anche aree laboratoriali e di servizio.
L’area conviviale, invece, si configurerà sia
per trascorrere il proprio tempo libero in uno
spazio verde, ma potrà accogliere anche eventi di
diverso tipo, sia organizzati da Coltivando che da
singoli, come beneficio per il lavoro svolto per la
comunità.
S
203
Orto Giardino
Coltivazioni
Ortaggi
to Giardino
r
O
Frutti
Aromatiche/officinali
Fiori
Fitodepurazione
Spazi comuni
Laboratori
Capanno attrezzi
Guardaroba/spogliatoio
Compostaggio
204
Spazio conviviale
Sdraio/amache
Cucina
Spazio
Re
la
Spazio eventi
toro
Ris
zio
Sedute
Sp
a
x
a
Labor torio
Tavolo
205
Masterplan
co-progettato
Espressione delle idee
progettuali della comunità
Durante le giornate di coprogettazione con
i potenzianli membri di Coltivando, è stata
proposta un’attività per raccogliere informazioni
su come i partecipanti vorrebbero l’orto; è stato
chiesto ad ogni gruppo di disegnare il proprio
spazio ideale, dislocando una serie di funzioni
base che sono state segnalate dal gruppo di lavoro
a cui si potevano aggiungerne altre in caso di
necessità.
È stato fornito uno schema che rappresentava
un’area rettangolare di 600 mq, con raffigurate le
caratteristiche principali dello spazio reale.
In generale sono stati collocati due accessi
all’area, uno su lato strada e un altro direttament
e dall’università.
Tutti i partecipanti hanno avuto l’idea di
recintare lo spazio con l’utilizzo di elementi
naturali, siepi, piante aromatiche, in modo da
non dover introdurre barriere artificiali. Inoltre,
dove la recinzione è già presente è stato espresso
il desiderio di realizzare delle aiuole con siepi in
modo da mascherarle dal lato del giardino e farsì
che dall’esterno si veda uno spazio attrattivo.
Gran parte delle coltivazioni sono state dislocate
nella fascia a sud e lungo il perimetro orientale.
Lungo la recinzione ad ovest, a ridosso a dei
container esistenti sono state dislocati i servizi
accessori al giardinaggio - capanno degli attrezzi,
area compostaggio, spogliatoi, ecc.
Tutti hanno espresso il desiderio di avere l’area
conviviale al centro dello spazio, a nord rispetto
al cumulo naturale con alberi, in modo che si crei
uno spazio ombreggiato naturalmente.
206
Orto - giardino
Orto
Aromatiche
Compostaggio
Capanno attrezzi
Spazio conviviale
Spazio comune
Tavoli collettivi
Cucina
Accesso
40 m
208
bib
edi
ingegneria
Area di progetto
L’area prescelta per la realizzazione dell’orto è
collocata lungo il perimetro del Campus, in modo
da facilitare l’accesso dal quartiere.
Il progetto pilota prevede l’utilizzo di 600 mq
coltivabili, con possibilità di espansione negli
anni successivi all’implementazione, fino ad
andare a coprire tutta la fascia sud-est.
accesso carrabile dal quartiere
accesso pedonale dal Campus
209
210
Schema grafico.
Rappresentazione della dislocazione
delle diverse funzioni nell’area di
progetto
Masterplan
211
Assonometria
Area coperta-pergola
Depostito - guardaroba
Accesso dal Campus
Capanno attrezzi
Confine - sedute
Raccolta
acqua piovana
Bancale 1m x 3m
Ortaggi
Cassone triangolare 2m x 2m
Piante aromatiche
Parete verticale
Fiori
Cassone 1m x 1m
Alberi da frutto
213
Riferimenti
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Il cibo
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_ Gruppi di acquisto solidale (Gas)
http://www.retegas.org
_ Horticity, promozione di orti urbani nel nord e nel sud del mondo
http://www.horticity.it/wordpress
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http://www.ambienteterritorio.coldiretti.it/tematiche/Urbanistica-Territorio-Paesaggio/Pagine/
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_ Orto diffuso, mappatura di orti e giardini comunitari di Milano
http://ortodiffuso.noblogs.org
_ Rete nazionale orti e giardini condivisi Cog
http://www.facebook.com/groups/rete.ortiegiardinicondivisi
_ Trame Urbane, Bologna
http://trameurbane.noblogs.org/post/2011/08/11/coltivare-rapporti
218
Indice delle immagini
Il Cibo
1. Immagine tratta da Bianca, film di Nanni Moretti, 1984 - pag. 14
2. Eataly, evento educativo per bambini, Torino, 2010 - pag. 20
3. Eataly, banco del pane, Torino, 2007 - pag. 21
4. Eataly, banco di frutta e verdura, New York - pag. 21
5. Mulino Bianco, campagna pubblicitaria ‘Colazione all’italiana’, 2012 - pag. 28
6. Mulino Bianco, campagna pubblicitaria ‘ Colazione all’italiana’ su carta stampata, 2012 - pag. 28
7. Mulino Bianco, valori aziendali, report annuale, 2012 - pag. 29
8. Immagine tipica dell’italianitá: Totó che mangia un piatto di spaghetti - pag. 31
9. Peopleskitchen, esperimento culinario, Amsterdam, 2006 - pag. 36
10. Peopleskitchen, allestimento dello spazio, Amsterdam, 2006 - pag. 37
11. Peopleskitchen, laboratorio di cucina, Amsterdam, 2006 - pag. 37
12. Peopleskitchen, momento conviviale, Amsterdam, 2006 - pag. 37
13. Mia Market, poster di un evento, Roma, 2010 - pag. 38
14. Mia Market, laboratorio di cucina, Roma, 2011 - pag. 39
15. Mealing, disposizione degli utensili dell’evento Performa n.9, New York, 2009 - pag. 40
16. Mealing, dettaglio dell’utensile dell’evento Performa n.9, New York, 2009 - pag. 40
17. Mealing, sketch dell’allestimento dello spazio per Performa n.9, New York, 2009 - pag. 41
18. Mealing, evento Performa n.9, New York, 2009 - pag. 41
19. Fotografia di John Reardon, Last Dinner, National portrait Gallery, Londra, 2006 - pag. 54-55
20. Small Entitiens, Marco Maggioni - pag. 58
21. Food for the Future- how food change our furute, manifestazione di Fooda - pag. 59
22. On ne se moque pas des autres á table, gioco sugli atti del mangiare, C. Brocard, 2007 - pag. 60
23. On n’utilise pas son voisin de tabledes autres á table, C. Brocard, 2007 - pag. 61
24. Jeux Cuisine, logo del progetto - pag. 61
25. On ne gene pas son voisin de table, gioco sugli atti alimentari, C. Brocard, 2007 - pag. 61
26.Funera Dinner, Marije Vogelzang - pag. 62
27. Funera Dinner, Marije Vogelzang - pag. 63
28. Gattò - robe & cucina, vetrina, Milano - pag. 68
29. Fioraio Bianchi, vista dell’interno, Milano - pag. 69
30. Vegetable Orchestra, il gruppo musicale intento a realizzare i propri strumenti musicali - pag. 72
31. Unser Land, logo, Germania, 1994 - pag. 75
32. Fraich’Attitude, sequenza di uno degli eventi, Parigi, 2004 - pag. 76
33. Fraich’Attitude, calendario dei frutti e degli ortaggi - pag. 77
34. Guerrilla Cuisine, manifesto - pag. 79
35. Guerrilla Cuisine, evento, Oakland, 2007 - pag. 79
219
220
Gli orti comunitari
36. Sketch sull’utilizzo dello spazio pubblico da parte di una comunità creativa - pag. 95
37. Collectif Etc, Détournez, Strasburgo - pag. 96
38. Collectif Etc, Détournez, momento educativo per bambini, Strasburgo - pag. 97
39. Collectif Etc, Détournez, muro conviviale - pag. 97
40. Prostoroz, City Garden, Ljubljana, 2004 - pag. 98
41. Prostoroz, Passage Flower, Ljubljana, 2004 - pag. 99
42. Prostoroz, Green Landscape, Ljubljana, 2004 - pag. 99
43. Raumlabor, Emma Community Garden - pag. 101
44. Esterni, Riqualifica Parco della Resistenza, Milano - pag. 103
45. Esterni, Riqualifica Parco della Resistenza, spazio conviviale, Milano - pag. 103
46. Hort Bé, manifesto dell’evento per il primo anniversario, Barcellona - pag. 110
47. Giardino degli Aromi, momento di costruzione collettiva, Milano - pag. 113
48. Orti di Via Chiodi, vista degli spazi, Milano, 2011 - pag. 114
49. Orti di Via Chiodi, studenti all’opera, Milano, 2011 - pag. 115
50. Libere Rape Metropolitane, logo, Milano, 2010 - pag. 122
51. Articolo ‘Sit-in negli orti per fermare le ruspe’, Repubblica, 4 febbraio 2011 - pag. 123
52. Orto in Condotta, logo, Milano - pag. 131
53. Battery Park Farm, attività per bambini, New York, 2010 - pag. 132
54. Battery Park Farm, vista dello spazio, New York, 2010 - pag. 133
55. Metodo di coltivazione utilizzato nelle slums africane, Liveinslums - pag. 134
56. Brookwood Triangle, bambini che coltivano l’orto, Londra, 2007 - pag. 135
57. Articolo ‘Adottiamo il verde abbandonato, Repubblica, 3 dicembre 2011 - pag. 139
58. Orto in uno spartitraffico, Milano - pag. 141
59. Prinzessinnengarten, vista dello spazio prima della riqualificazione, Berlino - pag. 142
60. Prinzessinnengarten, vista dello spazio dopo la riqualificazione, Berlino - pag. 143
61. Prinzessinnengarten, vista dell’orto, Berlino - pag. 143
62. Place au Changement, vista di uno degli spazi conviviali, Saint- Étienne, Francia, 2011 - pag. 144
63. Place au Changement, vista dall’alto dello spazio, Saint-Étienne, Francia, 2011 - pag. 145
64. Place au Changement, evento serale, Saint-Étienne, Francia, 2011 - pag. 146
65. Place au Changement, momento di progettazione condivisa, Saint-Étienne, Francia, 2011 - pag. 147
66. Place au Changement, Faittes vous une place, Saint-Étienne, Francia, 2011 - pag. 148
221
Coltivando - orto conviviale al Politecnico di Milano
67. MACAO, Milano, maggio 2012 - pag. 158
68. Parco Trotter, bambini all’orto, Milano - pag. 159
69. MACAO, manifesto gruppo gardening, 2012 - pag. 160
70. Papaveri Rossi Precotto, vista dello spazio in inverno, Milano, 2011 - pag. 163
71. Papaveri Rossi Precotto, ripresa dei lavori di coltivazione, Milano, 2012 - pag. 163
72. Cascina Cuccagna, vista panoramica della cascina e degli spazi verdi attigui, Milano - pag. 165
73. Isola Pepe Verde, Manifesto di una giornata di lavoro collettivo, Milano, 2012 - pag. 166
74. Isola Pepe Verde, vista panoramica dell’area d’azione, Milano, 2012 - pag. 167
75. Isola Pepe Verde, opere di riqualifica di spazi urbani di risulta, Milano, 2012 - pag. 167
76. Politecnico di Milano, Campus Durando, vista dell’ovale, area verde, Milano - pag. 168-169
77. Bovisa, immagine storica del quartiere, Milano - pag. 170
78. Bovisa, nuova edilizia, Milano, 2011 - pag. 171
79. Bovisa, nuove strisce pedonali come espressione creativa degli studenti del Politecnico, Milano,
2011 - pag. 173
80. Politecnico di Milano, Campus Durando, vista dello spazio - pag. 174-175
81. Campus Durando, workshop con la comunità di Coltivando, Milano, giugno 2012 - pag. 181
222
Indice dei grafici
Coltivando - orto conviviale al Politecnico di Milano
1. Localizzazione della Bovisa rispetto alla città di Milano - pag. 170
2. Localizzazione del Campus Durando nel quartiere Bovisa - pag. 174
3. Localizzazione dell’area di progetto all’interno del Campus Durando - pag. 175
4. Obiettivi del progetto Coltivando-Orto conviviale al Politecnico - pag. 178
5. Metodologia di siluppo del progetto Coltivando-Orto conviviale al Politecnico - pag. 179
6. Mappa degli attori, realizzata da Gustavo Primavera - pag. 191
7. System map, realizzata da Gustavo Primavera - pag. 193
8. System map 2, realizzata da Gustavo Primavera - pag. 195
9. Schema di funzionamento, realizzato da Gustavo Primavera - pag. 196
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