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PAOLO RICCA

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PAOLO RICCA
PAOLO RICCA
LA SPIRITUALITÀ DEL QUOTIDIANO
Come vivere la vita di tutti i giorni in una prospettiva di fede.
La spiritualità del quotidiano sembra più difficile da descrivere rispetto alla spiritualità dei
giorni festivi, della domenica e delle feste in generale, perché quest'ultima è abbastanza ben
codificata ed è abbastanza nota rispetto alla prima. In un giorno di festa, se uno è credente,
va a messa oppure va al culto, poi si dedica alla visita di una persona malata, di una persona
sola oppure scrive una lettera e così via, riempie cioè la giornata secondo un codice
abbastanza ben collaudato. Invece, la spiritualità del giorno feriale, il quotidiano appunto, è
un po' più difficile, perché ci si chiede che rapporto ci sia tra Dio e l'esistenza profana,
quella del lavoro quotidiano, delle incombenze domestiche e famigliari, delle relazioni di
varia natura, private e pubbliche.
Che rapporto c'è tra Dio e quella che possiamo chiamare la profanità, l'esistenza profana di
tutti i giorni? Addirittura ci si può chiedere se esiste una spiritualità del quotidiano, se esiste
una spiritualità della profanità, se cioè Dio entri in gioco nelle trame ordinarie della nostra
esistenza. E proprio questa domanda va a toccare il tema della natura stessa di Dio.
Dico questo perché noi siamo abituati, anche perché in una maniera o nell'altra siamo
uomini di Chiesa, siamo tendenzialmente portati a rendere Dio più religioso di quello che
forse è, cioè siamo abituati a proiettare su Dio la nostra religiosità. Ma forse Dio non è così
religioso come noi, forse non è così legato al mondo religioso come noi istintivamente
tentiamo di legarlo. Dio è forse più laico di quello che immaginiamo. Siamo noi che forse
senza volerlo, spontaneamente, travestiamo Dio, nel senso che gli mettiamo addosso i vestiti
della religione che sono appunto i nostri vestiti. Lo rivestiamo più o meno come siamo
vestiti noi.
Ora cito qui il primo martire cristiano, Stefano, che nel grande discorso riportato nel libro
degli Atti afferma che Dio non abita in templi fatti da mano d'uomo. E poi c'è il profeta che
dice che "Il cielo è il mio trono e la terra è lo sgabello dei miei piedi...".
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Io non abito nella religione, ma abito nella profanità del mondo, cielo e terra, cioè Dio non
lo possiamo rinchiudere negli spazi della religione che gli stanno molto stretti. Dio è il Dio
degli uomini, degli umani prima di essere il Dio dei cristiani o il Dio degli uomini religiosi.
Il mondo profano è prima di ogni altro lo spazio di cui Dio s’interessa, lo spazio entro il
quale si manifesta l'interlocutore al quale si rivolge.
Non è certamente un caso che i primi cristiani non avessero templi, non perché non fosse
lecito costruirli. L'impero romano era molto tollerante dal punto di vista religioso: tutto era
permesso e i cristiani avrebbero potuto benissimo costruire i loro templi, ma non lo hanno
fatto. Si riunivano nelle case private, nel luogo più povero che si potesse immaginare, dove
non c'è nulla di particolarmente sacro, dove non c'è una cappella come noi la creiamo. Si
riunivano nella casa, nella cucina dove si vive la vita di tutti i giorni. Inoltre, e questa era
una novità assoluta nel mondo antico, i cristiani non avevano sacerdoti, cioè in tutti i vari
ministeri che esistevano nelle comunità cristiane del primo secolo (profeti, evangelisti,
dottori, pastori, taumaturghi, vescovi), non c'era mai il sacerdote. I primi cristiani non
avevano sacerdoti perché non c'era più da offrire un sacrificio e il sacrificio di Cristo aveva
chiuso l'epoca dei sacrifici. Quindi non essendoci più sacrificio non c'era più il sacerdote
che era addetto al sacrificio, tanto che i primi cristiani, tra le altre cose, erano accusati di
ateismo.
Un grande teologo del secolo scorso, Karl Barth, diceva: " Peccato che i cristiani non hanno
più meritato di essere qualificati come atei. Anche loro sono diventati come tutte le altre
religioni: hanno costruito i loro templi, hanno restituito il sacerdozio...".
Così Dio diventa religioso, inquadrato nell'ambito della religione e quindi tutta la profanità,
tutta la quotidianità resta una terra di nessuno dove non si sa bene in quale rapporto stia con
questa realtà.
Se riuscissimo a liberarci un po' dall'abitudine quasi istintiva di abbinare il nome di Dio alla
religione, all'ambito religioso, se cioè riuscissimo a declericalizzare almeno un po' il Dio nel
quale crediamo, riconoscendogli una sostanziale laicità, allora la domanda sulla spiritualità
del quotidiano, cioè sulla spiritualità della profanità e di tutto ciò che non è religione,
sarebbe perfettamente giustificata.
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Quando mi sono trovato davanti a questo tema mi sono chiesto: "Come rispondo?"
E il soccorso immediato è arrivato da una serie di passi del Nuovo Testamento che sono
perfettamente idonei a rispondere a tale domanda.
Ad esempio il Sermone sul monte, a cominciare dalle otto beatitudini iniziali, è un perfetto
programma di spiritualità del quotidiano, perché si parla di povertà, di fame, di sete, di
violenze, si parla cioè della vita, della vita concreta, reale con tutte le sue luci e le sue ombre
di giustizia e di persecuzione, ma si parla anche di misericordia e di lacrime. Allora capite
che spiritualità del quotidiano è esattamente quello e si potrebbe benissimo rispondere al
tema facendo un commento alle otto beatitudini con cui Gesù, secondo l'evangelista Matteo,
inaugura il suo ministero terreno.
Oppure potremmo prendere la lettera ai Romani (cap. 12, 9-21), oppure la lettera ai
Colossesi (cap.3, 12-17), oppure Pietro (cap.3, 8-17).
Noi potremmo leggere questi testi senza bisogno di grandi commenti, potremmo
semplicemente sintetizzarli e costruire una specie di decalogo laico del cristiano e questa
sarebbe la risposta alla domanda sulla spiritualità del quotidiano.
A questo proposito ecco un paio di versetti tratti dalla lettera ai Colossesi in cui troviamo
l'essenziale di una spiritualità del quotidiano: "Ora che siete diventati cristiani e non siete
più pagani, deponete anche voi, come gli altri cristiani, tutte queste cose: ira, collera,
malignità, maldicenza e non vi escano di bocca parole sconvenienti, parole disoneste, ma
come eletti di Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti e atteggiamenti di misericordia, di
benevolenza, di umiltà, di dolcezza, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi
a vicenda se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato così fate
anche voi."
Avrei potuto impostare così quest’argomento, ma ho pensato di fare diversamente, cioè ho
pensato d’inquadrare la risposta alla domanda "Cos'è la spiritualità del quotidiano?"
articolando il discorso in quattro tempi:
- Spiritualità del quotidiano nel rapporto con il mondo
- Spiritualità del quotidiano nel rapporto con gli altri
- Spiritualità del quotidiano nel rapporto con noi stessi
- Spiritualità del quotidiano nel rapporto con Dio
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SPIRITUALITÀ DEL QUOTIDIANO NEL RAPPORTO CON IL MONDO
Qui la spiritualità del quotidiano consiste essenzialmente nell'aprire gli occhi, aprire gli
occhi per vedere e per leggere.
Anzitutto aprire gli occhi per vedere, perché non basta avere gli occhi per vedere. Ci sono,
infatti, occhi che vedono e ci sono occhi che guardano, ma non vedono.
L'aveva già detto il profeta Isaia: "Udrete con i vostri orecchi e non comprenderete.
Guarderete con i vostri occhi e non vedrete, perché il cuore di questo popolo si è fatto
insensibile". Gesù cita questa parola, la riferisce alla sua generazione e dice che i suoi
contemporanei, vedendo non vedono, udendo non odono e non comprendono. La situazione
di Isaia si ripete, cioè, al tempo di Gesù.
Allora cosa vuol dire questo? Vuol dire che si guarda con gli occhi, ma si vede con il cuore.
Significa, ad esempio, guardare la natura e vedere la mano di Dio, aprire cioè gli occhi sulla
natura e provare sempre nuovo stupore, stupore che poi si trasforma in lode, come risuona
in tante pagine della Bibbia, come nel Salmo 104: "Dio annaffia i monti dall'alto delle sue
stanze. La terra è saziata col frutto delle sue opere. Egli fa germogliare l'erba per il
bestiame, le piante per il servizio dell'uomo, facendo uscire dalla terra il nutrimento, il vino
che rallegra, l'olivo che gli fa risplendere il volto e il pane che sostenta il cuore dei
mortali".
Ecco, spiritualità del quotidiano significa aprire gli occhi sulla natura e vedere quello che
non si vede, cioè la mano di Dio.
Qui qualcuno potrebbe dirmi: "Caro amico, sei un ingenuo a fare questi discorsi. Dio non
c'entra con la natura che funziona senza Dio". Rispondo: "Può darsi che io sia un ingenuo,
perché esiste un’ingenuità della Fede. La Fede è astuta come un serpente, ma è ingenua
come un colombo. Quindi può darsi che io sia ingenuo, ma non credo che la natura si sia
creata da sola. Dio certo non è la natura e la natura non è divina, ma, come dice il Salmo
104, la natura non funziona senza Dio".
Oltre a ciò, spiritualità del quotidiano significa aprire gli occhi anche sulla Storia umana,
Storia così difficile da decifrare.
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Nell'Ottocento c'era una fiducia quasi incrollabile sulle magnifiche sorti progressive
dell'umanità. Si pensava che l'umanità avrebbe avuto un futuro radioso, il famoso pro-gresso
che significa andare avanti, sempre più avanti. Nel Novecento questi entusiasmi sono però
spariti, seppelliti dalle macerie di due guerre mondiali e da un’esplosione di odio e di
violenze raramente registrate nella Storia umana: le Shoah. E noi viviamo tutt'oggi in una
situazione nella quale il rischio di un’apocalisse atomica o di un’apocalisse ambientale non
è per niente scongiurato, tanto che ci chiediamo con l'antico profeta: "Sentinella, a che
punto è la notte?".
Allora, in un quadro come questo che cosa può significare spiritualità del quotidiano come
lettura della Storia? Cosa si può leggere? Non è facile rispondere. Io rispondo così:
spiritualità del quotidiano come lettura della Storia umana significa leggere la Storia come
un vasto campo di battaglia, in cui si affrontano le forze del bene e le forze del male, sia
nella storia personale e famigliare di ciascuno di noi, sia nella grande Storia collettiva dei
popoli e dell'umanità. Significa vedersi dentro questa battaglia, vederti dentro tu persona, tu
comunità, tu gruppo sociale, tu Chiesa. La spiritualità del quotidiano è cioè la spiritualità di
un combattente, di un militante, di un soldato di Cristo, come dicevano gli antichi Cristiani.
È la spiritualità del combattente, il cui combattimento, come dice l'apostolo Paolo, non è
contro carne e sangue, cioè contro persone, contro uomini e donne, contro individui, ma è
contro le forze spirituali della malvagità, forze che devono essere individuate, snidate,
smascherate, messe alla berlina, per essere messe in luce. E per combattere questa battaglia
del bene e del male, nelle sue infinite variabili, c'è bisogno della spiritualità, perché la
battaglia è spirituale, perché, in fondo in fondo, anche se la battaglia prende tante forme che
possono essere politiche, economiche, religiose, la battaglia è una battaglia squisitamente
spirituale. Quindi si ha bisogno effettivamente di spiritualità. Ma cosa sia questa spiritualità
lo si può capire leggendo un brano famoso della lettera agli Efesini cap.6 intitolato
"L'armatura di Dio" in cui Paolo prende un legionario romano e lo spoglia di tutta la sua
armatura e lo riveste con l'armatura di Dio, per essere quel combattente che ha la capacità di
vincere le forze spirituali della malvagità, comunque esse si manifestino nel concreto del
quotidiano.
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SPIRITUALITÀ DEL QUOTIDIANO NEL RAPPORTO CON GLI ALTRI
Cosa vuol dire spiritualità del quotidiano nel rapporto con gli altri? Riassumo questo in
un’unica espressione. Vuol dire essere o cercare di essere una benedizione per gli altri,
nella trama dei rapporti umani. Cioè la spiritualità del quotidiano nel rapporto con gli altri è
quel tipo di spiritualità che ti spinge o ti fa essere una presenza benefica, una presenza tale
che gli altri possano dire: "Che fortuna ho avuto a incontrare questa persona! Che
benedizione è stato per me incontrare questa persona!" Quando tu realizzi questo, allora sei
una benedizione.
In che modo può accadere questo? Naturalmente in tantissimi modi. È impossibile elencarli
tutti. Io desidero menzionarne tre:
- Non giudicare l'altro
- Fare del bene
- Benedire
NON GIUDICARE L'ALTRO
C'è a questo proposito la famosa parabola della pagliuzza e della trave.
Ma cosa vuol dire non giudicare? Non giudicare non vuol dire abdicare alla funzione critica
che noi abbiamo anche nei confronti degli altri, oltre che naturalmente, in primis, nei
confronti di noi stessi, perché noi siamo anche responsabili dell'altro, oltre che di noi stessi.
Non è che possiamo lavarci le mani come Ponzio Pilato e, qualunque cosa faccia o dica
l'altro, dire che l'unico responsabile è l'altro, perché responsabili siamo anche noi.
Ricordiamo Caino e Abele. Dio chiede: "Dov'è tuo fratello?" E Caino risponde: "Sono forse
guardiano di mio fratello?". Dio non pensa come Caino, ma pensa diversamente e cioè ci
dice che siamo responsabili non solo di noi stessi, ma anche degli altri,
Quindi non giudicare non vuol dire che tutto quello che faccio e dico va bene, perché sono
responsabile solo di me stesso. E non vuol dire neanche che io non devo darti nessun
consiglio, nessun ammonimento e nessun avvertimento, anzi, lo devo dare, però non devo
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giudicare, cioè non devo essere giudice, cioè non devo pronunciare una sentenza. Questa è
un'altra cosa rispetto a dire "Guarda che stai facendo una cosa sbagliata, falla meglio. Non
dire quella parola, perché quella parola può far male, ecc., ecc.".
Quindi emettere una sentenza è altra cosa, perché soltanto Dio conosce il Cuore e perché c'è
un mistero in ognuno di noi che non possiamo violare. Non sappiamo chi siamo, tanto meno
sappiamo chi è l'altro e questa è la soglia dove io mi devo fermare come giudice e non posso
giudicare. Il mistero è troppo grande.
Quindi, la spiritualità del quotidiano, nel rapporto con gli altri, è assumerci tutte le
responsabilità che possiamo, naturalmente nella discrezione che deve sempre regolare ogni
rapporto umano, ma liberi dallo spirito di giudizio. Allora l'altro deve poter dire: "Costui mi
consiglia, mi orienta, ma non mi giudica". Deve cioè sentire la presenza benefica, ma non la
presenza giudicante.
FARE DEL BENE
Il bene va fatto. È qualcosa da fare, non solo da pensare, da desiderare, da auspicare.
Quando l'apostolo Pietro ha voluto riassumere in una frase tutto il ministero terreno di Gesù,
quando si rivolge a Cornelio nel libro degli Atti, dice che Gesù ha fatto del bene. Punto.
Certe volte basta la presenza per fare del bene, cioè non c'è bisogno di fare nulla, basta
esserci. Il massimo di bene che certe volte si può fare è semplicemente esserci. Tutti quelli
che hanno assistito qualcuno che sta morendo hanno fatto esperienza di questo. In questo
caso non si può fare più niente, tranne che il massimo che si può fare e cioè esserci. Quello
è il massimo, è il massimo per chi sta morendo, perché non c'è niente di peggio che morire
da soli. Finché la persona ti vede c'è relazione e non c'è morte, perché la morte è la fine
della relazione.
Cosa vuol dire fare del bene? Vuol dire fare ciò che pensi che possa curare, che possa dare
una gioia, dare un sollievo, qualcosa che aiuti a vivere, a sperare, ad avere fiducia, qualcosa
che riveli affetto, perché tutti abbiamo un grande bisogno di affetto. Avvertire che qualcuno
ci vuole bene è il pane delle relazioni umane. Naturalmente fare del bene significa anche
fare bene ciò che facciamo e così via. Il discorso potrebbe essere lungo, però vorrei insistere
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su quest’aspetto del fare ciò che rivela affetto, in modo che l'altro si senta amato e si senta
apprezzato. "Sono qui con te. Sono qui per te".
La spiritualità del quotidiano è quella che ci spinge a fare del bene.
BENEDIRE
In terzo luogo essere una presenza benefica significa, anche letteralmente, benedire, cioè
dire cose buone, perché, come abbiamo bisogno di affetto, così abbiamo bisogno di parole.
"Me lo devi dire. Me lo devi dire che mi ami!". "Ma guarda quante cose faccio per te!".
"Non mi basta. Me lo devi dire!"
È un mistero enorme, perché tu in realtà fai già tutto e non devi aggiungere nulla, tranne la
parola che non è nulla, ma è tutto: ti amo.
Abbiamo bisogno di parole, anche di silenzio, ma anche di parole.
Nel Nuovo Testamento, nella Lettera agli Efesini, possiamo leggere: "Nessuna cattiva
parola esca dalla vostra bocca, ma se ne avete qualcuna buona, che edifichi secondo il
bisogno, ditela affinché conferisca grazia a chi l'ascolta."
La spiritualità del quotidiano è quella che ci spinge a benedire, a dire parole buone.
SPIRITUALITÀ DEL QUOTIDIANO NEL RAPPORTO CON NOI STESSI
Questo è un aspetto della nostra vita spesso trascurato, sia perché conduciamo una vita
molto estroversa, tutta dedita al lavoro, alle occupazioni famigliari e pubbliche, sia perché,
forse, in fondo, evitiamo di restare soli con noi stessi, temendo di avere brutte sorprese. Ma
proprio per questo la spiritualità del quotidiano non può non riguardare anche il rapporto
con noi stessi e anche qui, ovviamente, si potrebbero dire tante cose, ma mi limito a una
sola, rifacendomi a una parola di Gesù che si trova nel Sermone sul monte e che è la
seguente: "La lampada del corpo è l'occhio. Se dunque il tuo occhio è sano, tutto il tuo
corpo sarà illuminato, ma se il tuo occhio è viziato, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre."
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È una parola strana, perché l'occhio sano serve a vedere fuori, ma nella parola di Gesù
sembra che serva anche a vedere dentro. È una strana espressione, comunque a me sembra
che il significato sia chiaro e cioè che sia un invito alla trasparenza, non solo verso
l'esterno, verso gli altri, ma anche verso l'interno, verso di noi.
Cosa può significare la trasparenza rispetto al dentro? Io credo che, siccome siamo tutti
uomini mascherati, il corpo illuminato di cui parla Gesù significhi semplicemente noi senza
maschere. Cioè l'invito alla trasparenza verso noi stessi è l'invito a spogliarsi dei ruoli, delle
funzioni, delle cariche, dei titoli, delle qualifiche per chiederci: "Chi sono io veramente?".
Cioè il coraggio di affacciarsi sul mistero della nostra persona.
La Bibbia risponde meglio dicendo che siamo in divenire. Come dice l'evangelista
Giovanni, nella sua prima lettera: "Non è ancora stato manifestato ciò che saremo."
Allora diamo la risposta teologica alla domanda "Chi sono io?": "In me stesso sono un
povero peccatore, in Cristo sono giusto e santo. In me stesso sono pieno di dubbi e di
domande, in Cristo ho ogni certezza e risposta. In me stesso sono una creatura caduca e
mortale, in Cristo ho la vita nuova e persino la vita eterna. In me stesso sono figlio di
Adamo e della terra, in Cristo sono figlio di Dio e erede della sua Gloria."
Chi sono io? Sono in divenire, in cammino tra me stesso e Cristo, nel quale già ora,
malgrado tutte le mie fragilità e incoerenze, sono più che vincitore e nel quale, comunque,
tutti i tesori della Sapienza e della Conoscenza sono nascosti.
Allora, in questo contesto, la spiritualità del quotidiano è la spiritualità del divenire, la
spiritualità del pellegrino, del cammino iniziato e non ancora concluso.
SPIRITUALITÀ DEL QUOTIDIANO NEL RAPPORTO CON DIO
Anche qui mi limito a tre brevi flash tra i tanti
- La gratitudine
- La richiesta di perdono
- Il regno di Dio
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LA GRATITUDINE
Spiritualità del quotidiano significa imparare la gratitudine.
Il cristiano è colui che impara a dire grazie. Nella lingua italiana c'é una bella
corrispondenza tra grazia, che è la parola che riassume tutto il Vangelo cristiano, e grazie
che è la parola che riassume tutta la vita cristiana.
Quando tu dici grazie, sapendo quello che dici, hai detto tutto. In fondo non c'è altro.
LA RICHIESTA DI PERDONO
È difficile vivere senza far soffrire qualcuno, è molto difficile, che tu lo voglia o no. Sovente
non lo vuoi, ma fai soffrire, al di là di tutte le migliori intenzioni, cioè c'è una frizione nei
rapporti umani, qualcosa che non va liscio e quindi soffri e fai soffrire. Per me questo è il
peccato, il vero peccato: far soffrire la gente. Allora il perdono è la medicina riguardo a
questa condizione. Io non so neanche spiegare perché è così, ma è così.
Proprio perché viviamo nella trama delle relazioni, e non possiamo farne a meno, anzi le
relazioni sono costitutive della sostanza del nostro esistere, il perdono è fondamentale ed è
la medicina delle relazioni che stridono, che non sono pacifiche, che non sono serene.
Non è un caso che Gesù, nel Padre Nostro, chiede tre cose: pane, perdono e libertà.
Queste sono le strutture portanti di un'esistenza pacificata.
IL REGNO DI DIO
La spiritualità del quotidiano non può prescindere dall'annuncio del Regno di Dio che è
vicino.
Gesù ha parlato del Regno fondamentalmente attraverso parabole, cioè attraverso
similitudini, paragoni e non attraverso definizioni. Attraverso dei paragoni si può capire
qualcosa di quello che è il Regno di Dio.
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Io penso che oggi la comunità cristiana, nella ricerca della sua spiritualità, debba non
soltanto raccontare, ma costruire parabole, costruire cioè delle cose, delle situazioni che
richiamano, che rimandano alle parabole. Allora vedendo quello, si può capire qualcosa di
quello che è il Regno. La parabola non è il Regno, ma è il segno, l'indicazione, il tramite,
qualcosa che rinvia al Regno di Dio.
Allora io penso che spiritualità del quotidiano in rapporto a Dio, cioè in rapporto al suo
Regno, al suo regnare in mezzo agli uomini, sia appunto quella spiritualità che ti spinge a
costruire una parabola e non solo a raccontarla.
12 maggio 2013
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