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Capitoli di chirurgia Plastica dal Dionigi

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Capitoli di chirurgia Plastica dal Dionigi
Sezione VII
VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
1 Aspetti generali
2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
3 Ustioni
Chirurgia plastica e
ricostruttiva
a cura di G. Boggio Robutti, A. Faga
4 Innesti e impianti
5 Trapianti
6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
7 Malformazioni congenite
8 Chirurgia estetica
9 Chirurgia craniofacciale
10 Traumatologia maxillofacciale
VII
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VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
1 Aspetti generali
Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
1.1 Cenni storici
1.2 Letture suggerite
2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
3 Ustioni
4 Innesti e impianti
Capitolo 1
Aspetti generali
5 Trapianti
6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
7 Malformazioni congenite
8 Chirurgia estetica
G. Boggio Robutti, A. Faga, L. Valdatta
Il termine “plastica” deriva dal greco 'modellare' e indica che questa chirurgia si rivolge alla
correzione dei difetti dell’aspetto e quindi della struttura esteriore dell’individuo. Carattere
peculiare della chirurgia plastica è l’importanza prevalente della scelta riparativa sulla diagnosi:
questa infatti non offre normalmente difficoltà perché è rivolta a problemi esteriori, facilmente
individuabili dal chirurgo,mentre la scelta del tipo di intervento chirurgico, soprattutto quando ne
occorrano più di uno, crea il problema della sua pianificazione nell’arco di mesi o addirittura di
anni.
Questo particolare aspetto della chirurgia plastica è stato in modo suggestivo definito “chirurgia a
quattro dimensioni” intendendo come quarta dimensione il tempo nell’arco del quale deve sempre
essere considerato il risultato. Col trascorrere del tempo si verificano infatti due fenomeni
fondamentali ed ineluttabili: il paziente evolve per il naturale invecchiamento, modificando
l’aspetto corporeo e la struttura tessutale ed i tessuti traumatizzati dall’atto chirurgico subiscono
mutamenti metabolici, soprattutto di tipo vascolare, con conseguenti alterazioni di aspetto e di
comportamento biologico.
La cicatrice che fatalmente residua all’intervento evolve anch’essa, modificando inevitabilmente il
risultato finale. Un’altra caratteristica della chirurgia plastica è quella di non essere chirurgia di
organo o di distretto ma di tutto il corpo. Il singolo chirurgo plastico identifica certamente l’ambito
entro il quale predilige operare, ma nella sua accezione più generale la chirurgia plastica non
conosce confini anatomici o tecnici per realizzare il suo obiettivo: ricondurre quanto appare deviato
entro i confini della normalità, con ripristino della funzione che tale anomalia può determinare,
avendo come parametro-guida la quintessenza della normalità, la “supernormalità”, in una parola
“la bellezza”.
9 Chirurgia craniofacciale
10 Traumatologia maxillofacciale
Le lesioni che interessano il chirurgo plastico sono di due ordini:
x lesioni congenite, dovute a deviazioni del normale sviluppo embrionale e quindi già presenti alla
nascita;
x lesioni acquisite durante il corso della vita, dalla nascita in avanti.
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Il termine “plastica” deriva dal greco 'modellare' e indica che questa chirurgia si rivolge alla
correzione dei difetti dell’aspetto e quindi della struttura esteriore dell’individuo. Carattere
peculiare della chirurgia plastica è l’importanza prevalente della scelta riparativa sulla diagnosi:
questa infatti non offre normalmente difficoltà perché è rivolta a problemi esteriori, facilmente
individuabili dal chirurgo,mentre la scelta del tipo di intervento chirurgico, soprattutto quando ne
occorrano più di uno, crea il problema della sua pianificazione nell’arco di mesi o addirittura di
anni.
Questo particolare aspetto della chirurgia plastica è stato in modo suggestivo definito “chirurgia a
quattro dimensioni” intendendo come quarta dimensione il tempo nell’arco del quale deve sempre
essere considerato il risultato. Col trascorrere del tempo si verificano infatti due fenomeni
fondamentali ed ineluttabili: il paziente evolve per il naturale invecchiamento, modificando
l’aspetto corporeo e la struttura tessutale ed i tessuti traumatizzati dall’atto chirurgico subiscono
mutamenti metabolici, soprattutto di tipo vascolare, con conseguenti alterazioni di aspetto e di
comportamento biologico.
La cicatrice che fatalmente residua all’intervento evolve anch’essa, modificando inevitabilmente il
risultato finale. Un’altra caratteristica della chirurgia plastica è quella di non essere chirurgia di
organo o di distretto ma di tutto il corpo. Il singolo chirurgo plastico identifica certamente l’ambito
entro il quale predilige operare, ma nella sua accezione più generale la chirurgia plastica non
conosce confini anatomici o tecnici per realizzare il suo obiettivo: ricondurre quanto appare deviato
entro i confini della normalità, con ripristino della funzione che tale anomalia può determinare,
avendo come parametro-guida la quintessenza della normalità, la “supernormalità”, in una parola
“la bellezza”.
Le lesioni che interessano il chirurgo plastico sono di due ordini:
x lesioni congenite, dovute a deviazioni del normale sviluppo embrionale e quindi già presenti alla
nascita;
x lesioni acquisite durante il corso della vita, dalla nascita in avanti.
seguito, per un lungo periodo, essa ritornò nel silenzio.
È d’altronde comprensibile che una materia chirurgica, dedicata a problemi generalmente non
strettamente vitali e indispensabili, abbia trovato insormontabili difficoltà a svilupparsi in assenza di
nozioni di anestesia, di antisepsi e di mezzi tecnici adeguati.
Solo nella seconda metà dell’800 si ritrovano descrizioni di nuove tecniche e soluzioni. La chirurgia
plastica moderna conosce un definitivo sviluppo e acquista una sua precisa definizione a causa delle
migliaia di mutilati sopravvissuti alla prima guerra mondiale da reinserire nella vita sociale.Tra la
prima e la seconda guerra mondiale si aprono in tutte le nazioni centri di cura e riabilitazione. Negli
anni Quaranta i progressi della chirurgia, segnatamente l’introduzione nella pratica clinica degli
antibiotici e dell’anestesia mediante intubazione endotracheale, aprono anche alla chirurgia plastica
nuove possibilità di sviluppo e nuovi campi di azione. Dalla chirurgia plastica sono originate
discipline affini, in cui si mediano competenze di altre specialità chirurgiche, il cui corpo dottrinale
si è ormai sviluppato al punto da costi-tuire autentiche nuove specializzazioni; si ricordano in
particolare la chirurgia della mano, cui concorrono competenze plastiche ed ortopediche e la
chirurgia maxillofacciale, in cui si fondono competenze plastiche ed odontoiatriche. Un profondo
mutamento è derivato, negli ultimi 15 anni, dall’applicazione delle tecniche di microchirurgia.
Tali metodiche hanno assunto un ruolo di primaria importanza nel trattamento, in sede di emergenza
o urgenza, di traumi vascolari o nervosi, specie a carico degli arti nonché nella realizzazione di
progetti ricostruttivi non altrimenti praticabili. Una recente innovazione nell’armamentario tecnico
del chirurgo plastico è l’impiego dell’endoscopia, grazie alla quale è possibile eseguire alcuni
interventi limitando notevolmente le dimensioni delle cicatrici. Si intravvedono, per un futuro ormai
prossimo, sviluppi entusiasmanti legati alla biosintesi autologa di strutture anatomiche destinate al
trapianto con tecniche microchirurgiche, riducendo sempre più il ricorso a zone donatrici sane
nell’ambito dello stesso organismo.
Da molti anni ormai la chirurgia plastica ha abbandonato gli aspetti segreti e misteriosi di una
alchimia chirurgica ed è divenuta materia specialistica a pieno titolo con attività ospedaliera ed
universitaria, scuole di specializzazione, tecniche proprie originali in continua evoluzione.
Cenni storici
La spinta psicologica alla correzione delle anormalità dell’aspetto corporeo, sia per ragioni
patologiche sia semplicemente estetiche, spiega le origini antichissime della chirurgia plastica.
La prima segnalazione di interventi chirurgici di questo tipo è infatti quella contenuta nel papiro di
Smith che risale al 3000 a.C.
Più concrete sono le descrizioni di ricostruzioni della punta del naso contenute nei codici Veda,
precedenti all’800 a.C.: poiché in India la legge dell’epoca prevedeva l’amputazione del naso ai
ladri ed alle adultere, veniva descritto l’uso di un lembo di cute ruotato dalla fronte a fini riparativi.
Tale soluzione, ancora oggi valida, è conosciuta come “metodo indiano”.
Descrizioni successive, dopo un lungo periodo di silenzio che copre l’epoca greca, romana, araba e
medioevale, risalgono al 1400 d.C. quando Antonio Branca di Catania diviene famoso per il suo
metodo di ricostruzione del naso usando un lembo di cute trasferito dal braccio con una serie di
operazioni. All’incirca nella stessa epoca la fama dei fratelli Vianeo di Tropea si estese nell’intera
Europa per un analogo metodo di ricostruzione del naso; essi lavoravano, come del resto il Branca,
con grande riserbo per timore che venisse loro sottratto il segreto del procedimento. Non riuscirono
però ad impedire che con un sotterfugio ne venisse in possesso un cavaliere bolognese che, tornato
alla sua città, descrisse minuziosamente il metodo a Gaspare Tagliacozzi, professore di anatomia a
Bologna. Questi nel 1597 lo espose in un trattato che costituisce la prima descrizione tecnicamente
valida e completa di un intervento di chirurgia plastica ed è considerato l’opera basilare di questa
disciplina. Si può quindi collocare in quell’epoca la vera nascita della chirurgia plastica, anche se in
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VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
1 Aspetti generali
Letture suggerite
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2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
2.1 Eziologia ed epidemiologia
Bostwick J. III, Eaves F.F., Nahai F. (Eds): Endoscopic Plastic Surgery. Quality Medical
Publishers, St. Louis, 1995.
Faga A.: Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica. Masson, Milano, 2000.
Katz J.: Atlas of Regional Anaesthesia. Appleton-Century-Crofts, Norwalk, Connecticut,
1985.
Nelson G.D., Krause J.L.: Clinical Photography in Plastic Surgery. Little, Brown and Co.,
Boston, 1988.
O’Brien B.M.: Microvascular Reconstructive Surgery. Churchill Livingstone, New York,
1977.
Zeis E.: Handbuch der Plastischen Chirurgie (Nebsteiner Vorrede von J.F.
Dieffenbach).Reimer, Berlin, 1838.
2.2 Diagnosi
2.3 Letture suggerite
3 Ustioni
4 Innesti e impianti
5 Trapianti
6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
7 Malformazioni congenite
8 Chirurgia estetica
9 Chirurgia craniofacciale
10 Traumatologia maxillofacciale
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Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
moderato, aumenta se il soggetto presenta un elevato numero di nevi melanocitici (più di trenta),
nevi displastici, familiarità per melanoma, anche di un solo caso.
z La presenza di più di un nevo displastico o di nevi di grandi dimensioni è associata ad un
aumento del rischio, quando cioè si può configurare il quadro della cosiddetta sindrome del nevo
displastico familiare.
Capitolo 2
Il melanoma e altre lesioni
cutanee di interesse chirurgico
S. Zurrida
Eziologia ed epidemiologia
Il tasso di incidenza e mortalità per tumori cutanei sta lievitando in tutto il mondo, crescendo
vertiginosamente negli Stati Uniti ed in molti altri paesi, Europa compresa (Boyle, 1995). I
carcinomi epiteliali cutanei rappresentano un terzo di tutti i casi di cancro diagnosticati e,
analogamente a quanto succede per il melanoma, si sta verificando un abbassamento dell’età al
momento della diagnosi. Nel nostro paese è difficile ottenere dati precisi sull’incidenza e mortalità
dei tumori cutanei (melanoma e non melanoma) poiché la mancanza di un Registro Nazionale ne
impedisce un preciso monitoraggio. Tuttavia per quanto riguarda il melanoma, negli ultimi 40 anni
la sua incidenza risulta cresciuta, poiché costituisce il 3-4% di tutte le neoplasie superando
l’aumento di incidenza constatato per altri tipi di tumori maligni (Elwood, 1975; Silveberg, 1988).
Le campagne di educazione sanitaria hanno contribuito ad aumentare l’attenzione della popolazione
sulle lesioni pigmentarie (Cristofolini, 1984; Doherty, 1988) ed a ricorrere subito all’intervento
dello specialista favorendo così la formulazione di una diagnosi precoce ed un intervento
tempestivo su tumori in fase iniziale rendendo favorevole la guarigione di una neoplasia
potenzialmente tra le più aggressive. Secondo quanto riportato da studi epidemiologici analitici
eseguiti in popolazioni a prevalente fenotipo celtico e recentemente anche nella nostra popolazione,
sono da considerare fattori di rischio per il melanoma le seguenti condizioni.
z Secondo studi recenti, le ustioni solari in età infantile non solo in soggetti di carnagione chiara,
sono correlate oltre che alla presenza di un elevato numero di nevi melanocitici e di nevi displastici
anche ad un aumento significativo del rischio di sviluppare un melanoma (Lew, 1983).
z Un elevato rischio di melanoma, anche precoce, è presente nei nevi congeniti giganti, cioè quelli
che interessano più del 5% della superficie corporea (Fig. 2.1), mentre non ci sono prove certe
dell’incremento del rischio associato ai piccoli nevi congeniti.
z Una rara condizione predisponente allo sviluppo del melanoma in giovane età è rappresentata
dallo xeroderma pigmentoso, disordine autosomico recessivo in cui si realizza precocemente un
danno della cute indotto dal sole che provoca nelle cellule della pelle alterazioni irreversibili del
DNA. Le lesioni hanno perciò sede nelle aree cutanee fotoesposte. Lo xeroderma pigmentoso
predispone anche ad altri tipi di neoplasie maligne quali i carcinomi spino e basocellulari e i
fibrosarcomi.
La correlazione tra raggi ultravioletti e incidenza di melanoma cutaneo non è così forte come
talvolta si vuol far credere, come è dimostrato dal fatto che il melanoma non predilige come sedi di
insorgenza quelle parti del corpo esposte al sole, cosa che invece avviene per altri tumori maligni
della pelle. È verosimile invece che molti fattori si intreccino nella carcinogenesi del melanoma
(NIH Consensus conference, 1992).
z Familiarità per melanoma con un rischio associato massimo se si hanno almeno due casi di
melanoma fra consanguinei. Il rischio di melanoma decresce notevolmente qualora il soggetto
riferisca soltanto un caso di melanoma fra consanguinei.
z Gli occhi azzurri, i capelli biondi, la pelle chiara, la tendenza alle ustioni solari con la
formazione di efelidi dopo fotoesposizione. Il rischio associato a tali condizioni, di per sé
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attribuiscono anche un significato prognostico.
Diagnosi
Nell’impossibilità di poter effettuare una prevenzione primaria, essendo solo in grado al momento
di ipotizzare le cause reali del melanoma, l’unica arma per affrontare questo tipo di neoplasia è la
prevenzione secondaria, la diagnosi precoce. Infatti il riconoscimento nelle sue fasi iniziali di
quello che è sempre stato considerato come il più temibile dei tumori maligni, ha portato la sua
curabilità a quasi il 70% di tutti i casi riscontrati (Maize, 1987;Veronesi, 1988 c). Mentre per altri
tipi di tumore la diagnosi precoce si è potuta avvantaggiare, negli anni più recenti, di una maggiore
sofisticatezza degli esami strumentali, che hanno consentito di scoprire tumori anche in fase
preclinica, nel caso dei tumori cutanei solo la capacità diagnostica, le campagne di sensibilizzazione
della popolazione ed il coinvolgimento dei medici di famiglia, hanno condotto alla possibilità di
riconoscere il melanoma quando ha uno spessore di 0,75 mm o quando è ancora in situ: situazioni in
cui è guaribile nel 100% dei casi (Balch, 1998).
Diagnosi precoci vengono inoltre formulate in quelle persone che già hanno avuto un melanoma, in
quanto sottoposte a controlli clinici periodici di tutta la superficie cutanea.Non si deve infatti
trascurare il fatto che in una percentuale che varia dall’1 al 5,3% fino al 15-20% di chi ha
un’anamnesi positiva per melanoma, si può avere un melanoma multiplo (Moseley, 1979).
La diagnosi clinica del melanoma è solo ispettiva e non è del tutto semplice; basti pensare che un
medico di famiglia ha la probabilità di vedere un paziente con melanoma della cute due o tre volte
durante tutta la sua vita professionale e che quindi non può avere quell’accuratezza tipica presente
in centri specialistici altamente qualificati. D’altro canto più la diagnosi viene formulata in una fase
di crescita iniziale, maggiori sono le difficoltà, in quanto la lesione non ha ancora manifestato tutti
quei caratteri che la fanno identificare in una fase di crescita manifesta.Anche gli specialisti
incontrano delle difficoltà: una campagna di screening per il melanoma eseguita dai dermatologi del
Massachusetts ha riportato una loro accuratezza diagnostica del 35% (Koh, 1990). Per venire
appunto incontro a medici, esperti e no, sono stati codificati degli schemi che potessero in qualche
modo essere di aiuto a chi deve esprimere un parere su lesioni pigmentate della cute. Lo schema più
adottato è quello definito sistema ABCD (Friedman, 1985). La A definisce l’asimmetria della
lesione, cioè la diversità delle due metà idealmente ottenute da una linea che attraversa il suo
diametro maggiore (Fig. 2.2).
La regressione si presenta clinicamente come un’area più chiara, biancastra o bruno-grigiastra che
può formare un alone alla periferia oppure zone chiare irregolari nel contesto della lesione
pigmentata (Fig. 2.4). In una piccola percentuale di casi che va dal 5 al 12% dei melanomi
metastatici, la sede del melanoma primitivo non è evidenziabile pro-babilmente per una regressione
totale del melanoma. Il melanoma ha generalmente dimensioni, indicate dalla lettera D, che sono
superiori ai 6 mm, anche se il riconoscimento in fasi sempre più precoci del melanoma ha ormai
portato al riscontro di lesioni non solo sottili ma anche con diametro inferiore ai canonici 6 mm.
A questi quattro criteri diagnostici se ne è ultimamente aggiunto un altro, forse il più importante:
l’evoluzione, definita con la lettera E.
Il melanoma cutaneo è un tumore a crescita bifasica. Appena insorto, per un periodo di tempo
variabile, ma spesso molto a lungo, il melanoma rimane invariato per dimensioni e colore, quasi in
un equilibrio costante con le difese dell’organismo che lo tengono sotto una sorta di controllo
immunologico. Ad un certo punto questo equilibrio si rompe e la lesione cambia i suoi caratteri. È
questo il momento in cui una corretta diagnosi tempestiva può consentire l’asportazione e la
guarigione definitiva della malattia.
La B definisce i bordi che nel caso del melanoma sono irregolari, frastagliati, indentati (Fig. 2.3).
Una delle caratteristiche più importanti del melanoma è il colore, definito dalla lettera C: esso è
francamente nero, uniforme o variegato, con sfumature che vanno dal grigio scuro al marrone o al
bluastro e zone di cute normalmente pigmentata. Le aree di depigmentazione corrispondono al
fenomeno della regressione, che è una caratteristica istopatologica alla quale alcuni autori
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Metodi diagnostici ancillari
Nonostante l’applicazione corretta di tutti i criteri semeiologici, la diagnosi clinica del melanoma
rimane effettivamente difficile. Il grande ostacolo ad una diagnosi corretta di una lesione
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pigmentata cutanea è rappresentato dal fatto che non esistono mezzi obiettivi che aiutino nella
procedura diagnostica, che è ancora esclusivamente legata all’esperienza personale del medico
osservatore. Attualmente esiste un grande interesse nell’ambito degli strumenti diagnostici
cosiddetti “ancillari” che sono rappresentati dall’epiluminescenza, dalla telespettrofotometria e
dall’analisi computerizzata dell’immagine. L’epiluminescenza è una metodica nuova che consente
di osservare, attraverso una lente di ingrandimento e un microscopio operatore, le lesioni
pigmentate cutanee fino alla giunzione dermoipodermica. L’immagine viene ingrandita di 40 volte
ed osservata attraverso l’apposizione di un sottile strato di olio che elimina la riflessione legata
all’irregolarità della superficie cutanea e gli errori degli indici di rifrazione tra cute e aria,
permettendo così la visione diretta del reticolo del pigmento dell’epidermide, della giunzione
dermo-ipodermica e delle papille dermiche superficiali. Da questa metodica ci si aspetta di
migliorare le capacità diagnostiche del clinico già esperto, ma non un miglioramento globale dello
standard di diagnosi del clinico non esperto. L’analisi spettrofotometrica è basata sull’ipotesi che
l’irrorazione sanguigna e la pigmentazione della cute siano in qualche modo correlate alla natura
della lesione; a causa della presenza di melanina e di emoglobina, infatti, si può, in linea di
principio, supporre che le modalità di diffusione e di assorbimento di un fascio di luce visibile di cui
sia noto lo spettro, dipendano dalla natura della lesione. Per questo motivo un confronto tra gli
spettri della luce incidente e della luce riflessa consente di aumentare l’accuratezza della diagnosi
clinica, sia in termini di sensibilità che di specificità, che possono raggiungere valori prossimi,
rispettivamente, al 90 e all’80%.
L’analisi computerizzata dell’immagine utilizza una telecamera ed un sistema esperto che riesce a
distinguere la lesione dallo sfondo, eseguire valutazioni geometriche, misurare i colori e valutare le
irregolarità della superficie della lesione e che, confrontando la diagnosi istologica definitiva, riesce
a perfezionarsi con l’aumentare delle lesioni memorizzate. In questo caso, purtroppo, i risultati non
sono stati univoci.
Varianti clinico-istologiche
La presentazione clinica del melanoma dipende dalla sua istogenesi ma anche dallo stadio in cui
viene osservato. Sul piano puramente clinico-morfologico si possono distinguere tre varianti di
melanoma cutaneo: il melanoma piano, che corrisponde alla variante istologica del melanoma a
diffusione superficiale; il melanoma cupoliforme o nodulare ed il melanoma pianonodulare
(Cascinelli, 1994 a). La variante di melanoma piano è la più frequente (80% dei casi), può essere
localizzato su tutta la superficie corporea e può avere morfologicamente un aspetto maculare
(melanoma non palpabile) ed uno a placca (melanoma palpabile), corrispondenti alle due fasi del
suo sviluppo. Il primo è dotato di un’aggressività biologica estremamente modesta, è
completamente asintomatico e diagnosticabile solo attraverso un accurato esame della cute. Le
caratteristiche semeiologiche dell’ABCDE possono essere tutte presenti o presenti solo in parte; in
particolare può mancare il criterio dimensionale. Anche se poco evidenti, sono invece quasi sempre
presenti l’asimmetria, i bordi indentati ed il colore scuro o nerastro, a volte irregolarmente
distribuito. Quando il melanoma piano non palpabile, oltre ad essere di piccole dimensioni, ha
colore uniforme, margini abbastanza regolari o è privo di asimmetria, la distinzione da un nevo
melanocitico acquisito può essere difficile e rappresentare un dilemma diagnostico. Nella sua fase a
placca o palpabile, il melanoma appare leggermente rilevato sul piano cutaneo e risulta pertanto
“palpabile” (Fig. 2.5).
Morfologicamente assomiglia al melanoma maculare ma le sue caratteristiche semeiologiche sono
più accentuate; questo tipo di lesioni sono tipicamente presenti sulla cute del paziente da svariato
tempo ed è comune che cambino caratteristiche dell’asimmetria piuttosto che aumentino in
dimensione, e queste variazioni sono già un’indicazione all’accertamento istologico. La regressione
spontanea è tipica di questa fase di sviluppo del melanoma. In questa fase il melanoma è solo
modestamente aggressivo ed un adeguato trattamento chirurgico risulta curativo nella stragrande
maggioranza dei casi.
Il melanoma cupoliforme o nodulare insorge più spesso al tronco o al dorso. A causa della sua
rapida crescita verticale, questo melanoma assume rapidamente aspetto palpabile rilevato, a
superficie convessa,talvolta ulcerata e con consistenza molliccia: la sua pigmentazione può essere
irregolarmente distribuita o addirittura mancante (melanoma amelanotico) con un colore rossastro
che rende alquanto difficile la diagnosi dif-ferenziale con un granuloma piogenico,un angioma,un
carcinoma spinocellulare vegetante o una cheratosi seborroica infiammata. L’altra variante
morfologica è quella del melanoma piano-nodulare, in cui una lesione rilevata, vegetante insorge
relativamente dopo molto tempo, nel contesto di una piatta (Fig. 2.6).
Il melanoma del viso si sviluppa tipicamente in tale modo. Questo tipo di lesione frequentemente si
ulcera e sanguina spontaneamente o dopo un modesto traumatismo. Un caso a sé stante è
rappresentato dalla lentigo maligna,che compare in genere in età avanzata, è pianeggiante, ha forma
irregolare, di grandi dimensioni ed una pigmentazione marrone disomogenea. La lentigo maligna è
il melanoma più chiaramente correlato all’esposizione cronica ai raggi solari (Kopf, 1984).
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Il melanoma acrale viene per definizione riscontrato al palmo delle mani ed alla pianta dei piedi ed
è il tipico melanoma che insorge con una certa frequenza nella razza negra. La diagnosi nelle sue
fasi iniziali può comportare maggiori difficoltà di quanto non si riscontri per un melanoma di altri
distretti del corpo; questo è dovuto principalmente al fatto che in queste sedi lo strato corneo è
maggiormente sviluppato e la lesione può avere un colore meno brillante che in altre sedi ed i
margini apparire più sfumati. Il melanoma subungueale è quello che in sede acrale dà le maggiori
difficoltà. A parte quello avanzato, che deve comunque essere sospettato e non confuso con un
granuloma piogenico (molto simile), nelle sue fasi iniziali non deve essere confuso con l’esito di un
trauma con emorragia subungueale o con una infezione micotica. Il melanoma acrale lentigginoso,
considerato più aggressivo degli altri, è stato recentemente dimostrato essere prognosticamente
uguale al melanoma a diffusione superficiale e non rappresenta quindi un istotipo a peggiore
prognosi (Cascinelli, 1994 b).
Quello desmoplastico è un raro tipo di melanoma che insorge spesso sul viso o in zone fotoesposte.
Ha una spiccata tendenza neurotropica, cioè una spiccata tendenza ad infiltrare l’avventizia dei vasi
sanguigni e a diffondere attraverso un’invasione perineurale. Per questo, ha una spiccatissima
tendenza alla recidività locale (intorno al 50%) e perciò bisogna stare molto attenti all’analisi dei
margini di escissione. Non viene trattato in questa sede un altro tipo di melanoma, quello ad
insorgenza dalle mucose.
z
rarissimi casi di nevi blu maligni.
Il nevo a cellule fusate o a cellule epiteliodi pigmentate o nevo di Spitz, compare
improvvisamente, come un noduletto di piccole dimensioni di colorito rossastro, in genere
sulla cute del tronco di un bambino o di un giovane adulto. In caso di più accentuata
pigmentazione, può simulare un melanoma e la sua storia repentina può creare allarme circa
la natura melanomatosa.Anche il suo aspetto microscopico pleomorfo gli conferisce una
stretta analogia istopatologica con il melanoma. Per questi motivi, per un nevo di Spitz
fortemente pigmentato può sussistere talvolta l’indicazione ad un accertamento di exeresi
bioptica.
Diagnosi differenziale
La diagnosi differenziale deve essere posta con tutte quelle lesioni pigmentate che per qualcuna
delle loro caratteristiche possono essere confuse con il melanoma. È utile descriverle qui di seguito
tenendo conto che la peculiarità delle lesioni benigne è quella di non modificarsi nel tempo e quindi
di non rispondere al requisito E del codice ABCDE, tranne in rare eccezioni costituite per esempio
dalla fisiologica crescita corporea, dalla gravidanza, da un’infiammazione acuta o cronica e quella
di non essere quasi mai, se non nei casi che stiamo per descrivere, di un colore francamente nero.
z Il nevo giunzionale appare come una piccola lesione maculare o appena rilevata,ben
circoscritta,di uniforme colore bronzeo, marrone anche scuro. Un’irregolarità della sua
pigmentazione,se presente,può consistere in un reticolo o in una punteggiatura nera. La forma
è rotonda o ovale,simmetrica, e la sua distribuzione sulla superficie corporea è casuale.
z Il nevo dermico è più rilevato e si presenta spesso come una papula cupoliforme o anche
come una formazione papillomatosa, di colorito uniformemente carneo, bronzeo o marrone
(Fig. 2.7).Talvolta un nevo di aspetto leggermente traslucido e a superficie teleangectasica
può simulare un carcinoma basocellulare.
z Il nevo composto è leggermente rilevato e presenta una uniforme colorazione che può andare
dall’arancio carne al marrone scuro. Negli individui con carnagione più scura, i nevi composti
tendono ad essere relativamente più pigmentati e per escluderne la malignità bisogna
considerare la regolarità della loro forma, rotonda o ovale, e le loro dimensioni, in genere non
superiori ai 6 mm. La segnalazione della variazione dell’aspetto di un nevo impone un
accertamento bioptico, ma è importante ricordare che il normale ciclo vitale dei nevi acquisiti
può comprendere periodi di sviluppo o di regressione, che non sono espressione di una
trasformazione maligna. Anche i traumi, le infezioni, le trasformazioni cistiche e le influenze
ormonali della pubertà e della gravidanza tendono a produrre mutamenti dell’aspetto dei
nevi. I nevi acquisiti si trasformano raramente in melanomi; si stima che la trasformazione
maligna di queste lesioni si verifichi soltanto in 1 ogni 6.800 nevi acquisiti.
z Il nevo blu si presenta come un nodulo cutaneo regolare di colore uniforme blu o blunerastro-grigiastro, di dimensioni raramente superiori al centimetro. La sua superficie è
generalmente piana e liscia ed i suoi margini sono regolari (Fig. 2.8). Il nevo blu è
generalmente solitario e, comparendo di solito nella seconda decade, si mantiene stabile per
tutta la vita. È costituito da un accumulo di melanociti spinosi benigni nello strato profondo
del derma (melanocitomi dermici) e non ha potenzialità maligna. In letteratura sono descritti
Caso a parte nella diagnostica differenziale è rappresentato dal carcinoma basocellulare, che nella
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Il trauma occasionale o ripetuto di un nevo melanocitico clinicamente benigno non è elemento
determinante la trasformazione maligna e quindi non comporta l’escissione obbligatoria. Eppure è
ancora frequentissima la convinzione che il traumatismo ripetuto di una lesione pigmentata benigna
ne possa favorire la trasformazione maligna. Di qui l’indicazione all’asportazione di quei nevi o di
quelle lesioni che non sono nemmeno melanocitarie, come cheratosi o fibropapillomi, solo per il
motivo che sono localizzate a livello del reggiseno, della cinta dei pantaloni, alla pianta dei piedi o
al cuoio capelluto. Nessuna differenza esiste tra un nevo del dorso o della pianta del piede, riguardo
al rischio di trasformazione maligna.Tutt’al più, a causa del maggiore spessore dello strato corneo
nella cute del piede, la diagnosi differenziale tra melanoma e nevo può comportare maggiori
difficoltà, ma le caratteristiche ABCDE sono comuni (Zurrida, 1992).
sua variante melanocitica può creare anche al clinico esperto qualche problema di diagnosi
differenziale con il melanoma (Fig. 2.9). Ciononostante, anch’esso costituisce un tipo di lesione
cutanea di interesse chirurgico ed andrà pertanto asportato per definizione istologica.
Il carcinoma basocellulare, in passato chiamato basalioma, è il più frequente tumore maligno della
pelle e la sua incidenza è più alta in quelle regioni dove la luce solare è più intensa; aumenta con
l’età, colpendo le persone con fototipo basso che trascorrono molto tempo all’aperto (tumore dei
contadini e dei pescatori). Alcuni individui, poi, hanno una predisposizione genetica (HLA) per
questa neoplasia (sindrome del carcinoma basocellulare nevoide).
I due tipi clinici più comuni di carcinoma basocellulare sono rappresentati dal nodulo-ulcerativo e
dal superficiale. Il primo si presenta spesso come una formazione rilevata e ombelicata, di colore
roseo-grigiastro, a margini netti e rilevati “a gradino”, ricoperto da cute sottile e traslucida, solcata
spesso da fini teleangectasie serpiginose (Fig. 2.10).
L’altro tumore epiteliale è il carcinoma spinocellulare, molto meno frequente del basocellulare;
anch’esso colpisce spesso le aree cutanee esposte alle radiazioni attiniche ed i soggetti in età
avanzata: le localizzazioni più frequenti sono al viso (75%), al dorso delle mani (15%) (cancro dei
radiologi) e in altre sedi (10%). Si presenta come un’ulcerazione poco rilevata con netta
componente infiltrante, margini irre-golari, bordi duri, fondo granuleggiante e sanguinante. La parte
centrale della neoplasia può essere necrotica e per questo motivo, in caso di biopsia, è
raccomandabile eseguirla ai margini della lesione. Meno frequente è la forma vegetante, che si
presenta come un nodulo cutaneo sporgente, irregolare, disepitelizzato e granuloso, di colore roseorossastro, di consistenza dura. Questo tipo di tumore è decisamente più aggressivo del carcinoma
basocellulare, per la sua evoluzione più rapida e soprattutto per la possibilità di metastatizzare per
via linfatica, in particolare modo nelle localizzazioni agli arti. Per questo i linfonodi regionali
devono essere attentamente studiati al momento della diagnosi ed ai successivi controlli. Rarissime
le metastasi polmonari. Esistono inoltre altre neoplasie cutanee più rare, di interesse chirurgico,
quali il tumore neuroendocrino di Merkel, il sarcoma di Kaposi tipo mediterraneo o classico ed il
linfoma cutis. Per questo tipo di neoplasie, quando si presentano nella loro forma localizzata, il
trattamento chirurgico di ampia exeresi cutanea rappresenta la terapia di elezione. Nelle forme più
avanzate, diffuse a più settori della cute, la chirurgia ricopre solo un ruolo di accertamento bioptico
mentre la terapia prevede schemi di trattamento chemioradioterapici combinati.
Terapia
La terapia del melanoma è quasi esclusivamente chirurgica, almeno negli stadi I, II ma anche nel III
(Classificazione M.D. Anderson) (Tab. 2.2). L’atteggiamento per l’accertamento di una lesione pigmentata
sospetta ormai adottato ovunque è quello di biopsiarla asportandola completamente con un margine di
tessuto sano circostante di 2-3 mm.
La sporgenza sul piano cutaneo varia da pochi millimetri fino a volte ad un centimetro. La lesione
può assumere aspetto ulcerativo superficiale, modestamente sanguinante, crostoso. L’altro tipo
clinico è il carcinoma basocellulare superficiale, che appare come una macchia piatta, biancastrarosea, anch’essa traslucida e solitamente con margini indefiniti (Fig. 2.11) con un aspetto
“pergamenaceo”.È spesso multiplo e compare frequentemente sul tronco.
2434
2435
Una volta che il patologo ha diagnosticato un melanoma, di qualsiasi istotipo esso sia, viene programmato
l’intervento chirurgico definitivo. Se lo spessore del melanoma è d 2 mm secondo Breslow, l’intervento
può essere eseguito sempre in anestesia locale ed in regime ambulatoriale, restando ad 1 cm dalla
precedente cicatrice, asportando cute, sottocute fino alla fascia muscolare sottostante generalmente non
includendola ed avendo cura di eseguire l’incisione con decorso verso l’esterno e con orientamento
parallelo al decorso delle vie linfatiche. La validità di questo tipo di chirurgia, limitata in caso di melanoma
sottile, è stata dimostrata da diversi studi, tra i quali quello importante del Gruppo dell’OMS (Veronesi,
1991 d). Se lo spessore è invece > 2 mm o se la sede risulta tale da richiedere un concomitante
intervento di chirurgia plastica è preferibile eseguirlo in anestesia generale. I margini di tessuto sano
circostante saranno, in questo caso di melanoma più spesso, di almeno 2-3 cm.
La tecnica chirurgica è semplice ma deve essere condotta con particolare attenzione. L’approccio
ambulatoriale ed in anestesia locale comporta un evidente risparmio in costi diretti ed indiretti ed un
evidente impatto psicologico favorevole sul paziente che correla la semplicità del trattamento alla buona
prognosi della malattia (Bartoli, 1992). Particolare attenzione deve essere riposta nell’eseguire l’anestesia
locale (carbocaina con epinefrina al 2% o senza nei pazienti con malattie cardiovascolari): essa deve
essere fatta con infusione sottocutanea mediante diverse punture tutt’intorno alla lesione in senso
centrifugo ma non sotto la lesione, mantenendosi ad una distanza di 15 mm dai margini della stessa.
Alcuni autori hanno messo in dubbio l’uso dell’anestesia locale, avanzando il sospetto che la sua iniezione
nei tessuti circostanti il melanoma potesse favorire la disseminazione di cellule tumorali, ma nessuno
studio in letteratura ha suffragato questa ipotesi.
L’incisione cutanea ha generalmente forma di losanga con l’asse maggiore lungo l’asse maggiore della
lesione, e si approfonda verso l’esterno nel tessuto sottocutaneo e nel grasso profondo fino alla fascia
muscolare.Il pezzo definitivo generalmente non include la fascia muscolare sottostante in quanto
l’inclusione di questa non porterebbe ad una maggiore radicalità dell’intervento. Olsen, nel 1966, ha anzi
dimostrato che la sua asportazione sarebbe controproducente, perché aumenterebbe verosimilmente la
possibilità di disseminazione metastatica linfonodale. Durante l’operazione è importante che il pezzo non
venga compresso o toccato con ferri chirurgici e qualora si trattasse di una lesione ulcerata, è
raccomandabile coprirla con una velina aderente. La breccia cutanea così provocata si chiude
direttamente o scollando i due lembi laterali lungo la fascia muscolare, con accostamento del sottocute e
con una sutura intradermica.
Sull’asportazione dei linfonodi regionali al momento della diagnosi del tumore primitivo, in assenza
di un coinvolgimento clinico della stazione linfatica di drenaggio (dissezio-ne cosiddetta elettiva o
precauzionale o profilattica), qualunque sia lo spessore del melanoma, non si è ancora raggiunto un
orientamento univoco, anche se sembra ormai dimostrata la sua inutilità. Lo studio randomizzato
condotto dal Programma Melanoma dell’Organizzazione Mondiale della Sanità su pazienti con
melanoma degli arti allo stadio I, non ha dimostrato un miglioramento della sopravvivenza nei
pazienti su cui era stata eseguita la dissezione elettiva rispetto a quelli su cui era stata eseguita al
momento della comparsa clinica di metastasi linfonodali. La valutazione è stata condotta su 553
pazienti con melanoma al I stadio localizzato agli arti. Questi pazienti sono stati randomizzati in due
gruppi: 267 hanno ricevuto un’ampia escissione del primario e dissezione linfonodale immediata,
286 un’ampia escissione del primario e dissezione linfonodale al momento della comparsa di
metastasi ai linfonodi regionali dimostrata clinicamente (Fig. 2.12) (Veronesi, 1977 a). Questi dati
sono stati confermati anche da uno studio randomizzato prospettico eseguito alla Mayo Clinic.
Deve essere categoricamente evitato l’accertamento istologico bioptico di tipo incisionale perché, in caso
di melanoma, questo tipo di procedura potrebbe inficiare nell’esame istologico definitivo la definizione dello
spessore, che è il parametro più importante dal punto di vista della definizione prognostica. Eccezione può
essere fatta per quelle lesioni di grosse dimensioni, localizzate per esempio al viso (è il caso delle grosse
lentigo malignae) in cui l’asportazione in toto della lesione per un falso positivo causerebbe danni estetici
non giustificati.Nei casi in cui si fosse eseguita una biopsia incisionale o con l’oncotomo, la
raccomandazione è quella di praticare l’intervento chirurgico di exeresi nel più breve tempo possibile.
L’ampiezza dovrà essere condotta inizialmente ad 1 cm dai margini,in quanto appunto la biopsia non avrà
potuto dare l’esatto spessore della lesione: una volta avuto l’esito istologico finale si pianificherà
l’intervento definitivo.
Nella tabella 2.3 vengono riportate la terminologia e la codifica delle lesioni melanocitiche maligne
secondo l’ICD-0 del 1990.
Se la dissezione linfatica elettiva o profilattica venisse effettuata su tutti i pazienti, circa il 50%
subirebbe un intervento non necessario; d’altra parte, una politica di attesa in presenza di metastasi
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linfonodali clinicamente non evidenti può contribuire alla diffusione sistemica della malattia stessa.
Dalla considerazione che tutti i pazienti che sviluppano malattia metastatica linfonodale hanno,
seppur microscopico, già un coinvolgimento dei linfonodi regionali o delle vie linfatiche di
drenaggio tra il primitivo ed i linfonodi al momento della exeresi cutanea del melanoma, è ormai
quasi ovunque entrata nella routine chirurgica la pratica della biopsia del linfonodo sentinella, cioè
del primo linfonodo stazione di drenaggio di quella regione. Con il razionale che ogni regione
cutanea ha una ben definita area di drenaggio linfatico e che tale drenaggio si dirige sempre in un
linfonodo specifico, Morton et al. hanno sviluppato così la tecnica dello staging della stazione
linfonodale (Morton, 1992). Una biopsia di tale linfonodo è una procedura minimamente invasiva e
teoricamente altamente accurata dal punto di vista diagnostico. Iniettando del colorante vitale, o
materiale marcato con un materiale radioattivo nell’area cutanea dove il melanoma primitivo è stato
asportato o è localizzato nell’arco di pochi minuti si ottiene la colorazione dei vasi linfatici e del
linfonodo sentinella o la captazione del materiale radioattivo e l’evidenziazione con una sonda, che
viene asportato ed inviato al patologo per essere esaminato.
Lo studio del linfonodo sentinella proposto ormai in diversi centri mondiali e con diversi protocolli
(a Houston con il protocollo del WHO Melanoma Programme vengono, per esempio, inclusi i
melanomi con spessore superiore ai 2 mm, mentre dal gruppo di Morton viene l’indicazione di
eseguire tale procedura anche in quelli con Breslow tra 1 e 2 mm) deve essere considerato – nel
melanoma come nel tumore della mammella – un’assodata metodica di stadiazione del tumore per
la quale è difficile che ad un intervento radicale locale e sentinella negativo si debba assistere ad
una evoluzione della malattia a distanza.Tuttavia avendo il melanoma la possibilità di
metastatizzare oltre che per via linfatica anche per via ematica, particolare attenzione deve
comunque essere prestata nel follow up, agli altri distretti dell’organismo. A dimostrazione che il
melanoma viene diagnosticato in una fase precoce, localizzata alla sede primitiva, è il dato che
soltanto nel 15% dei casi, la biopsia del linfonodo sentinella dà un risultato positivo (casistica di
Gershenwald su 612 pazienti). Da un’analisi multivariata, la presenza di malattia metastatica nel
linfonodo sentinella è risultata essere il più importante valore predittivo per la ripresa di malattia e
per la sopravvivenza globale.
Una problematica che si sono recentemente posti i ricercatori è anche come comportarsi in caso di
biopsia del linfonodo sentinella positiva: infatti soltanto nel 20% di questi casi sono state riscontrate
altre metastasi ai linfonodi regionali. Sono in atto numerosi studi sui reali meccanismi del
melanoma di dare metastasi: per esempio, qual è il motivo per cui nel 20% dei restanti linfonodi
negativi si sono manifestate nel follow up delle metastasi? Lo studio di Chuang ha valutato il ruolo
di alcuni enzimi proteolitici (metalloproteinasi) nella degradazione della membrana basale della
matrice extracellulare, favorendo in questo modo la disseminazione delle cellule tumorali negli
spazi interstiziali, ma molti altri ricercatori sono impegnati a studiare il melanoma come modello di
biologia tumorale.
Lo studio dell’interessamento linfonodale nel melanoma cutaneo in stadio II rappresenta la base
conoscitiva sulla quale si fondano tutti i lavori clinici più recenti. La conclusione che si può trarre è
che la chirurgia è ancora l’unica arma documentatamente efficace per combattere il melanoma
anche quando la malattia è diffusa ai linfonodi regionali, purché questo trattamento sia adeguato: lo
svuotamento della stazione linfonodale interessata deve essere completo anche se l’impressione
clinica è che ci sia un solo linfonodo interessato. La rinuncia a questo tipo di trattamento vuol dire
perdere l’occasione di poter guarire il paziente. Nel 1974 uno studio randomizzato del Programma
Melanoma dell’OMS aveva dimostrato che né la chemioterapia o l’immunoterapia, né la loro
associazione dopo l’intervento comportavano differenze statisticamente significative della
sopravvivenza (Veronesi, 1982 b). Questo studio randomizzato ha confrontato quattro gruppi di
pazienti:
z sola chirurgia;
z terapia chirurgica + BCG, liofilizzato Pasteur alla dose di 75 mg di patina batterica
somministrato mediante “heaf gun” una volta al mese per due anni;
z terapia chirurgica + DTIC, somministrato per via endovenosa alla dose di 250 mg/m2 una
volta al giorno per 5 giorni consecutivi ogni mese per due anni;
terapia chirurgica + DTIC + BCG somministrati alle stesse dosi e con le stesse modalità per
due anni.
I risultati a distanza sono stati assolutamente sovrapponibili. Tuttavia, numerosi studi che hanno
sperimentato l’applicazione clinica dei cosiddetti modificatori della risposta biologica ci portano a
pensare che, in alcuni sottogruppi di pazienti sensibili, l’uso di queste sostanze consenta un
allungamento dell’intervallo libero da malattia ma anche della sopravvivenza, rispetto a quanto
offerto dal solo trattamento chirurgico (Bajetta, 1990).
Sembra ormai dimostrata l’inutilità di eseguire la dissezione linfonodale “en bloc”con
l’asportazione del primitivo: questo tipo di intervento, proposto da Pack, aveva principalmente lo
scopo di ridurre l’incidenza di metastasi in transit, incidenza che però non sembra essere influenzata
dall’asportazione delle vie linfatiche frapposte tra il primitivo e la stazione regionale di drenaggio.
Attualmente, invece, in caso di melanoma cutaneo degli arti recidivato localmente o in caso di
metastasi in transit tra la sede del primitivo e la stazione linfatica di drenaggio, in alternativa
all’inseguimento chirurgico delle lesioni, il trattamento di elezione consiste nella perfusione
ipertermico-antiblastica, che offre insperate percentuali di risposte complete e di sopravvivenza a
lungo termine libera da malattia (Vaglini, 1986). La perfusione è un intervento chirurgico in
circolazione extracorporea, che prevede un accesso per via extraperitoneale ai vasi iliaci esterni (per
le perfusioni dell’arto inferiore) o ai vasi ascellari, divaricando il muscolo grande pettorale (per le
perfusioni dell’arto superiore). La percentuale di remissione completa e parziale si aggira intorno al
90% con una sopravvivenza a 5 anni che varia dal 51 al 75% a seconda dell’estensione della
neoplasia. Del tutto recentemente i risultati sono ulteriormente migliorati, in termini di risposta,
con l’aggiunta nel corso della perfusione di modificatori della risposta biologica, segnatamente il
tumor necrosis factor.
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Letture suggerite
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Scegli Sezione:
VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
1 Aspetti generali
2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
3 Ustioni
3.1 Eziopatogenesi
3.2 Classificazione
Capitolo 3
3.3 Malattia da ustione
3.4 Letture suggerite
Ustioni
4 Innesti e impianti
5 Trapianti
6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
L. Donati, V. Donati, A. Fumagalli, V. Rapisarda
7 Malformazioni congenite
8 Chirurgia estetica
L’ustione è una condizione patologica conseguente alla esposizione dei tessuti ad una eccessiva
temperatura.Tale condizione patologica rappresenta un capitolo importante nell’ambito della
chirurgia plastica ricostruttiva, sia per la frequenza con cui questa si verifica sia per le conseguenze
spesso invalidanti che ne possono derivare. Di rilevanza spesso locale, le ustioni, se estese,
realizzano la cosiddetta malattia da ustione in cui si manifesta un insieme di eventi fisiopatologici
che coinvolgono tutto l’organismo, tale da potersi definire uno dei più complessi esempi di
politrauma.
9 Chirurgia craniofacciale
10 Traumatologia maxillofacciale
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Classificazione
L’ustione è una condizione patologica conseguente alla esposizione dei tessuti ad una eccessiva
temperatura.Tale condizione patologica rappresenta un capitolo importante nell’ambito della
chirurgia plastica ricostruttiva, sia per la frequenza con cui questa si verifica sia per le conseguenze
spesso invalidanti che ne possono derivare. Di rilevanza spesso locale, le ustioni, se estese,
realizzano la cosiddetta malattia da ustione in cui si manifesta un insieme di eventi fisiopatologici
che coinvolgono tutto l’organismo, tale da potersi definire uno dei più complessi esempi di
politrauma.
Eziopatogenesi
La principale causa di ustione sono gli infortuni domestici che si verificano generalmente attraverso
il contatto con liquidi portati ad elevate temperature. Seguono gli infortuni sul lavoro e gli incidenti
stradali in cui il paziente, frequentemente politraumatizzato, richiede un inquadramento
diagnostico-clinico più complesso e multidisciplinare.
I fattori determinanti la gravità della lesione sono rappresentati dalla temperatura raggiunta dai
tessuti, dal tempo dell’esposizione ed in minore istanza dalla natura dell’agente ustionante.
Le ustioni possono essere classificate secondo diversi criteri. La classificazione sicuramente più
utilizzata è quella che sulla base del quadro clinico ed anatomo-patologico suddivide le ustioni in
tre gradi.
z Le ustioni di I grado consistono in intensi e dolenti arrossamenti cutanei legati ai fenomeni
vasoattivi scatenati dal trauma. Istologicamente si osservano alterazioni epiteliali a carico degli
elementi più superficiali dell’epidermide quali eosinofilia citoplasmatica, picnosi nucleare e
congestione vascolare.
z Le ustioni di II grado assumono differenti aspetti in ragione della loro profondità e possono
essere distinte in superficiali e profonde. Le prime sono caratterizzate da un colore roseo e dalla
presenza di flittene.Tali lesioni patognomoniche si presentano come bolle, di dimensioni variabili e
contenenti un essudato ricco in proteine; la loro formazione è dovuta al distacco dell’epidermide e
del derma papillare necrotici dai piani più profondi. Microscopicamente le fibre collagene appaiono
frammentate e rigonfie, il derma papillare è necrotico mentre attorno ai vasi del derma reticolare
compaiono caratteristici infiltrati cellulari di natura flogistica. Le ustioni di II grado profondo (Fig.
3.1) presentano una superficie di colore biancastro-purpureo, solitamente priva di flittene.
L’epidermide appare omogeneizzata, il derma papillare è distrutto così come gran parte di quello
reticolare, minime sono invece le reazioni flogistiche perivascolari.
I tegumenti sono in grado, grazie ad alcuni mezzi omeostatici (circolazione del sangue, strato
corneo, secrezione sebacea, contenuto tessutale di acqua), di resistere a temperature inferiori ai 44 °
C anche per periodi abbastanza lunghi.A temperature comprese tra 44 e 51 °C queste capacità di
distribuzione e dispersione dell’energia calorica vengono superate ed inizia la distruzione cellulare
con un gradiente di lesione doppio per ogni grado in più di temperatura.Al di sopra dei 51 °C la
velocità di distruzione è ancora più rapida ed a temperature superiori ai 70 °C la necrosi cellulare si
realizza anche per brevi periodi di esposizione.A parità di temperatura e durata di esposizione,
lesioni di gravità diversa saranno ottenute per le differenti sostanze ustionanti, in funzione delle loro
peculiari caratteristiche chimico-fisiche.
z Le ustioni di III grado presentano un colore differente a seconda del tipo di agente ustionante e
della sua temperatura. Sono caratterizzate dalla formazione dell’escara che può assumere un
aspetto di gangrena secca o umida (Fig. 3.2).Da un punto di vista istologico si ha la distruzione di
tutta la componente cutanea e nei casi più gravi anche dei tessuti sottostanti. L’omogenizzazione
epidermica e degli annessi cutanei, la necrosi profonda e la trombosi dei vasi sanguigni sono i
principali aspetti istologici.
In base alla natura dell’agente eziologico si distinguono ustioni da liquidi, da vampata,da contatto,
da vapore, da agenti chimici, da radiazioni elettromagnetiche.
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Malattia da ustione
Fisiopatologia
Le alterazioni emodinamiche e biochimiche provocate dalla noxa patogena si manifestano durante
le prime 48-72 ore con una complessa sindrome morbosa a cui si dà il nome di shock da ustione.
Prima di discutere dei meccanismi fisiopatologici che sottendono a tale forma di shock è bene
ricordare il significato fondamentale dello stato di shock,ossia la grave insufficienza acuta del flusso
ematico nella circolazione periferica, con severa alterazione dei meccanismi della respirazione
cellulare. Nella fattispecie dello shock da ustione si distinguono tre momenti fisiopatologici
essenziali, e cioè la perdita dell’integrità microvascolare, il danno della membrana cellulare,
l’effetto diretto dell’ustione. Nella fase iniziale della malattia da ustione in seguito alla noxa
patogena si verifica la messa in circolo nell’organismo di catecolamine, con vasocostrizione
arteriolare periferica, ischemia del letto capillare, ipossia tessutale ed acidosi metabolica. A ciò
consegue l’apertura di shunt arterovenosi e la paralisi degli sfinteri precapillari mentre le venule
postcapillari rimangono contratte con conseguente aumento della pressione idrostatica e passaggio
di liquidi, micro e macromolecole nell’interstizio.Tale espansione dello spazio vascolare si verifica
in seguito all’immissione in circolo di sostanze vasoattive (per es. peptidi vasoattivi) prodotti
dall’attivazione o liberazione di enzimi proteolitici sia per azione diretta del calore sui tessuti, sia a
causa dell’ipossia tessutale. Lo stesso edema dello spazio interstiziale aggrava l’occlusione dei
capillari e quindi l’ischemia periferica. Tra i cataboliti tossici un’importanza particolare riveste il
MDF (fattore depressivo miocardico), che avendo un’azione inotropa negativa riduce l’apporto di
sangue ed ossigeno a livello tessutale. Si viene a creare così un meccanismo a cascata che, qualora
irreversibile, può dare luogo ad una insufficienza miocardica acuta con exitus.
Nelle fasi avanzate dello shock si assiste a modificazioni della coagulazione tipicamente bifasiche
con una iniziale ipercoagulabilità secondaria alla liberazione dai tessuti traumatizzati di fosfolipidi
di membrana, ed una successiva ipocoagulabilità da deplezione dei fattori della coagulazione
precedentemente esauriti. Si crea così un’alterazione dell’equilibrio tra i processi coagulativi e
fibrinolitici con, inizialmente, formazione di piccoli trombi e aggregazione intravasale di eritrociti e,
successivamente, iperattività fibrinolitica. Il risultato finale è un consumo sproporzionato dei fattori
della coagulazione e delle piastrine mentre aumentano i prodotti della fibrinolisi (FDP).
Clinica
Ustioni superiori al 20% della superficie corporea di un adulto o al 10% in un bambino sono causa
di alterazioni fisiopatologiche che interessano tutto l’organismo e che nel loro insieme configurano
la cosiddetta malattia da ustione.
L’imponente perdita di liquidi in parte all’esterno ed in parte nello spazio interstiziale è causa di
uno shock di tipo ipovolemico con emoconcentrazione.
La prima conseguenza è rappresentata dalla vasocostrizione di alcuni distretti corporei nel tentativo
di assicurare un’adeguata perfusione dei parenchimi nobili, cuore e cervello in particolare. Superati
i meccanismi di compenso si aggrava nei tessuti ipoperfusi l’ipossia, che determina la liberazione di
enzimi proteolitici e quindi una vasodilatazione periferica che, sottraendo sangue ai distretti nobili,
conclude il circolo vizioso.
Da un punto di vista clinico la fase di preshock, in cui i sistemi di compensazione dell’organismo
risultano ancora efficaci, è caratterizzata da diminuzione della pressione differenziale per aumento
della pressione diastolica e da un aumento dell’ematocrito. Nella fase di shock conclamato la
pressione sistolica si riduce e la minima aumenta ulteriormente. Il rene non viene protetto da questa
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vasocostrizione diffusa per cui si riduce anche il filtrato glomerulare con grave oliguria o addirittura
anuria. Tali alterazioni sono in genere reversibili nelle prime fasi ma diventano permanenti quando,
nelle fasi avanzate al danno causato dallo shock, si sommano gravi alterazioni tubulari legate al
riassorbimento di emoglobina e mioglobina dalla ustione.
La gittata cardiaca risulta diminuita sia per l’emoconcentrazione e per l’ipovolemia che per la
liberazione da parte del pancreas di un fattore in grado di deprimere l’attività miocardica.
A livello dell’apparato gastrointestinale sono ormai note da
tempo le gravi lesioni emorragiche che possono addirittura tradursi in vere e proprie ulcere da stress
(ulcere di Curling).
In tale condizione si realizza una grave insufficienza respiratoria entro le prime 24-72 ore dal
trauma legata ad un edema dapprima interstiziale e successivamente intralveolare con formazione di
membrane ialine.
L’infezione e l’intossicazione legata al riassorbimento di sostanze tossiche costituiscono
l’evoluzione della malattia da ustione.
compressione del fondo della lesione con uno strumento chirurgico appuntito provoca nel primo
caso un impallidimento transitorio a testimonianza della buona vascolarizzazione dermica mentre la
puntura con un ago provoca dolore per la conservazione delle terminazioni nervose più superficiali.
È bene comunque precisare che il quadro clinico, valutato al momento del ricovero o della prima
visita,può modificarsi nei giorni successivi sia in senso positivo che negativo. Sono state proposte
diverse metodiche per diagnosticare in modo più oggettivo la profondità di un’ustione di II grado,
dalla tintura con coloranti allo studio della vascolarizzazione con fluorosceina, alla biopsia, alla
termografia; tuttavia l’esame dell’integrità vascolo-nervosa descritto più sopra appare il più
semplice ed affidabile.
Importante è come sempre la raccolta di un’accurata anamnesi, sia per quanto riguarda l’esistenza di
eventuali patologie preesistenti sia per quanto riguarda le modalità con cui si è realizzato il trauma.
A parte infatti i casi di ustioni chimiche o elettriche, con le relative particolari conseguenze
clinicoterapeutiche, la discussione delle quali esula dagli obiettivi di questo capitolo, è
fondamentale sapere per esempio se il danno termico è stato accompagnato dall’inalazione di vapori
tossici, oppure se nel tentativo di fuga sono state riportate altre lesioni traumatiche.
In caso di pazienti incoscienti possono essere utili le informazioni raccolte da eventuali testimoni o
soccorritori. Se si sospetta l’inalazione di vapori è consigliabile osservare le vibrisse
dell’infortunato che potranno apparire più o meno carbonizzate ed effettuare un esame radiografico
standard del torace ed una emogasanalisi.
L’infezione, costantemente presente, rappresenta attualmente la principale causa di morte nel
paziente ustionato.
Per quanto riguarda la definizione della gravità della lesione e quindi la sua prognosi, i
principali fattori da considerare sono la profondità, l’estensione e la sede anatomica della lesione.
L’insorgenza è favorita non solo dal grave stato di immunosoppressione in cui versa l’ammalato,
ma anche dalla perdita della barriera cutanea che normalmente separa l’organismo dall’ambiente
esterno e dal terreno particolarmente favorevole che i microorganismi incontrano nei tessuti
necrotici. Lo stato immuno-depressivo è legato alla liberazione di cataboliti tossici da parte dei
tessuti ustionati, alla formazione di immuno-complessi che “distraggono” la risposta immunitaria e
infine alla diminuzione della fibronectina opsoninica la cui presenza è necessaria per una normale
attività fagocitaria. La fibronectina si legherebbe al tessuto leso e alle fibre collagene esposte,
diminuendo così la sua concentrazione attiva. Le stesse PGE si sono dimostrate in grado di inibire
l’attività dei linfociti T-helper e di aumentare quella dei T-suppressor.
La profondità di un’ustione, come precisato nella eziopatogenesi, è direttamente proporzionale alla
temperatura e alla durata del contatto con l’agente lesivo. In linea di massima le ustioni superficiali
hanno la tendenza a guarire spontaneamente con restitutio ad integrum. Le ustioni di I grado infatti
guariscono spontaneamente nel giro di 5-7 gg. senza alcun esito cicatriziale, mentre le ustioni di II
grado superficiale guariscono in 9-14 gg.grazie all’attività proliferativa degli elementi epiteliali
superstiti più profondi, quali gli annessi pilosebacei e le ghiandole sudoripare.
Le ustioni di II grado profondo possono guarire spontaneamente in 15-20 gg. se non subiscono una
trasformazione in ustioni di III grado e comunque con la formazione di esiti cicatriziali di gravità
variabile e dipendente, oltre che dalle caratteristiche genetiche personali,anche dall’infezione locale
e dalle tecniche di medicazione. Infine le ustioni di III grado guariscono con la formazione di
tessuto di granulazione e riepitelizzazione dai margini.
L’apparato respiratorio può essere infine coinvolto sia direttamente, in seguito alla inalazione di
vapori tossici o aria calda, sia indirettamente con il cosiddetto quadro del “polmone da shock”.
Alla fase infettiva segue quella dismetabolica, caratterizzata da negativizzazione del bilancio
azotato, da grave calo ponderale ed ipotrofia muscolare.
È dovuta all’aumento del fabbisogno energetico e del metabolismo, che segnano il passaggio verso
la guarigione del paziente. In particolare l’ipercatabolismo da ustione coinvolge sia le proteine che
i lipidi ed i glicidi. Il profilo proteico è caratterizzato da un ipercatabolismo e da una riduzione del
metabolismo proteico che si verificano in seguito all’aumentata produzione di
glicocorticoidi,androgeni anabolizzanti e all’alterazione delle proprietà deaminanti del fegato
(perdita generale) ed alla perdita locale in sede di ustione.Tra le proteine plasmatiche è costante la
diminuzione dell’albumina con eventuale iperglobulinemia ed inversione del rapporto A/G.
L’iperglicemia, associata a glicosuria con curva di tolleranza al glucosio di tipo diabetico, è
correlata alla gravità del trauma ed è strettamente dipendente dall’azione inibitoria delle
catecolamine; tuttavia dopo pochi giorni si instaura una fase di resistenza all’insulina ed il glucosio
è prodotto attraverso la gluconeogenesi.
Solo nel caso di ustioni di III grado molto piccole l’area cruenta guarisce spontaneamente, mentre nella
maggior parte dei casi, per accelerare la guarigione e ridurre gli esiti cicatriziali e l’insorgenza di infezioni,
si procede mediante terapia chirurgica precoce (escarectomia) ed innesto.
Per quanto riguarda l’estensione, essa viene calcolata con un valore numerico in percentuale rispetto
alla superficie corporea totale considerata uguale a 100. Vengono utilizzati schemi particolari (Fig.
3.3) riportando su questi la mappa delle superfici ustionate ad esclusione delle aree di I grado; si
procede quindi alla somma percentuale ottenendo il dato numerico in percentuale.
Diagnosi e prognosi
La diagnosi di ustione è immediata ed evidente. Alcuni problemi, tuttavia, possono presentarsi nel
caso di diagnosi differenziale tra ustioni di II grado superficiale e II grado profondo. La
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2449
In alternativa ci si può avvalere in modo approssimativo della cosiddetta “regola del 9”. Secondo
questa, ai distretti corporei viene dato un valore numerico uguale a 9 o a suoi multipli: gli arti
superiori rappresentano ciascuno il 9% della superficie corporea, l’arto inferiore il 18%, la parte
anteriore e posteriore del tronco il 36% ed il capo ancora il 9%. Nel caso di bambini, questi schemi
devono essere modificati in rapporto all’età, soprattutto se vengono interessate regioni come la
testa, le cosce e le gambe; infatti, nei piccoli pazienti i distretti sopracitati occupano percentuali di
superficie corporea diverse che nell’adulto.
Ruolo importante è determinato anche dalla sede anatomica delle lesioni, perché un interessamento
delle vie respiratorie per le complicazioni bronco-pneumoniche, oppure del perineo per quelle
infettive, o ancora delle mani e del viso per gli invalidanti ed inestetici esiti cicatriziali, risulta
essere un fattore decisamente negativo per la prognosi. Minore importanza ha da un punto di vista
prognostico l’età del paziente.A parità di estensione e profondità, i bambini e gli anziani godono di
una prognosi peggiore rispetto all’individuo adulto. Sono da considerare infine nell’inquadramento
clinico-prognostico dell’ustionato eventuali malattie pregresse come etilismo, diabete o cardiopatie
o concomitanti come fratture, emorragie o traumi cranici. Tali valutazioni, proprio perché fondate
solo su alcuni dei fattori prognostici, hanno chiaramente un valore indicativo e devono essere
opportunamente corrette sulla base dell’esperienza del singolo medico e del reparto in cui egli
opera. Ai fini pratici la prognosi viene formulata facendo riferimento soprattutto all’estensione ed
alla profondità delle ustioni, distinguendo ustioni lievi, intermedie e gravi. Le prime sono quelle con
estensione corporea inferiore al 10% della superficie cutanea con aree di III grado non superiori al
2%. Esse richiedono semplicemente un trattamento ambulatoriale con medicazioni a giorni alterni.
Le ustioni intermedie sono lesioni estese al 10-25% della superficie corporea con aree profonde
inferiori al 10%. Queste lesioni richiedono un ricovero ospedaliero, non necessariamente in un
centro ustioni. Il trattamento perfusionale è necessario nei casi in cui le ustioni superino il 15%.
Sono considerate ustioni gravi, e richiedono il ricovero in un centro ustioni, le lesioni che
coinvolgono più del 25% della superficie corporea se di II grado o del 10% se di III.
Terapia
Primo soccorso al paziente gravemente ustionato
Sono essenziali da parte dei soccorritori decisioni tempestive attraverso una linea di condotta operativa
schematica, che permetta di raggiungere una stabilizzazione delle condizioni cliniche del paziente in modo
che questi possa affrontare, con ragionevole sicurezza, il trasporto presso una struttura ospedaliera.
Sul luogo dell’incidente il soccorritore deve togliere velocemente gli indumenti che coprono la regione
interessata e immediatamente raffreddare le aree ustionate mediante lavaggi in acqua fredda.
In questo modo ci si prefigge di sottrarre calore dai tessuti arrestandone l’effetto dannoso e nel contempo
di attenuare il dolore, chiamare un’autoambulanza e ricoprire il paziente con un indumento o un telo pulito
in attesa di raggiungere il Pronto Soccorso più vicino. In caso di ustioni chimiche bisogna proseguire il
lavaggio con acqua fino all’arrivo dell’autoambulanza.
All’arrivo del paziente in Pronto Soccorso:
Vanno innanzitutto valutate le condizioni generali del paziente ed in particolare le condizioni
dell’apparato respiratorio e cardiocircolatorio. In caso di insulto inalatorio il trattamento consiste nella
somministrazione immediata di ossigeno al 100%, mentre l’intubazione per via endotracheale deve
essere effettuata nei pazienti che hanno perso coscienza o per quelli in arresto respiratorio. Per quanto
riguarda l’apparato cardiocircolatorio, oltre al controllo di eventuali emorragie da grossi vasi,va posta
attenzione ad alcuni semplici parametri clinici, come la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca,il colorito
della cute e delle mucose, il sensorio e la temperatura delle estremità quali indici di eventuale insufficienza
di circolo.
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Occorre rimuovere completamente tutti i vestiti ed iniziare una terapia infusionale (se questa non è
già stata attuata durante il trasporto del paziente), che ha lo scopo di disporre di un accesso venoso prima
che lo shock abbia fatto collabire tutte le vene e l’edema le abbia rese praticamente irreperibili.Tale terapia
si basa sull’utilizzo di soluzione fisiologica o di Ringer lattato.
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Nell’approccio col paziente ustionato va sottolineata la necessità di inserire un catetere vescicale per il
controllo della diuresi oraria e un catetere venoso centrale. Quest’ultimo provvedimento è da valutare
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caso per caso in quanto non sempre esiste una necessità assoluta di rilevare la PVC, tranne nel
cardiopatico in cui si sospetti un’origine dubbia dell’oliguria. Bisogna ricordare anche che il posizionamento
di un catetere venoso centrale per lunghi periodi può infatti essere causa di gravi sepsi.
Il dolore nelle prime ore dal trauma è inversamente proporzionale alla gravità delle ustioni;nel dolore
grave si può impiegare morfina (2-8 mg ogni 2-4 ore) come farmaco di prima scelta oppure meperidina
(10-50 mg × 5) o tramadolo (100 mg × 5).
È necessario eseguire i prelievi ematochimici di urgenza.
Da un punto di vista locale, nel caso di ustioni profonde localizzate a livello degli arti o del torace, è
imperativo effettuare incisioni liberatorie delle lesioni costrittive circonferenziali.
Occorre coprire il paziente con teli sterili ed inviarlo presso il centro ustioni più vicino.
Trattamento della fase di shock
L’accettazione ospedaliera del grande ustionato coinvolge una serie di problemi organizzativi, diagnostici e
terapeutici che vanno affrontati con grande impegno dal personale medico e paramedico.
Se non ancora fatto, bisogna incannulare una vena centrale ed eseguire nuovi esami
ematochimici,compresa la emogasanalisi e la carbossiemoglobinemia nelle ustioni da fiamma.
Nelle prime 48-72 ore il problema principale è lo shock ipovolemico che deve essere corretto con un
adeguato ripristino della massa circolante.
La terapia infusionale varia a seconda della condotta locale; quella da noi adottata nasce dalla
constatazione che nella correzione dello shock l’elemento fondamentale è rappresentato dallo ione Na +.
La quantità di ione Na+ in mEq necessaria per correggere lo shock da ustione è la seguente:
Na + = 0,5 – 0,7 mEq u kg u % di ustione
Per quanto riguarda la scelta dei liquidi è consigliabile utilizzare una soluzione contenente HSL (Hypertonic
Saline Lactate) 50% + Fisiologica 50%. Poiché il contenuto di mEq di Na+ di ciascun litro di questa
soluzione è 225, la quantità di liquidi espressa in litri necessari per le prime 24 ore è data dalla quantità di
mEq di Na+ richiesti diviso 225.
Se consideriamo per esempio un paziente adulto dal peso di 70 kg e con una superficie ustionata pari al
30%, i litri di soluzione da somministrare sono dati dalla seguente formula:
0,5 u 70 u 30 = 1.050 mEq di Na+
1.050 mEq: 225 mEq/1= 4,5 l circa di cui il 50% di HSL e il 50% di fisiologica. Questa quantità deve essere
somministrata per metà nelle prime 8 ore (dal momento del trauma) e per metà nelle successive 16 ore. È
importante ricordare che nei pazienti in età pediatrica il coefficiente di moltiplicazione non è 0,5-0,7 ma 3.
Sempre durante le prime 24 ore è divieto relativo di assumere liquidi per bocca per non diluire la
concentrazione del volume circolante e per mantenere il principio dell’ipertonicità. Ogni 6 ore deve essere
effettuato il controllo della QE, tenendo conto che la sodiemia desiderata si aggira tra i 150 ed i 160 mEq/l.
Per natriemie superiori il malato deve essere diluito con soluzioni ipotoniche, per il rischio di disidratazione
cellulare. Ematocrito e diuresi oraria sono i parametri da tenere maggiormente in considerazione. Spesso
questi due valori sono in contrasto e quindi non è possibile contare su una loro correzione diretta; nasce la
necessità di privilegiare l’uno o l’altro. Si sceglie il rene perché è l’organo più colpito dalla vasocostrizione
compensatoria degli stati di shock e si comporta come un filtro passivo in relazione al flusso renale ed alla
pressione di filtrazione glomerulare. La diuresi oraria (valori normali = 1 cc/kg/ora) è quindi una espressione
funzionale di adeguata perfusione del distretto più sensibile agli squilibri perfusionali degli stati di shock.
Anche una buona peristalsi intestinale rappresenta un indice di situazione emodinamica compensata. Nelle
seconde 24 ore la terapia infusionale viene proseguita con la somministrazione di colloidi (plasma e
albumina) e di cristalloidi in proporzione del 50%.
È possibile introdurre le soluzioni colloidali perché dopo 24 ore le alterazioni della permeabilità endoteliale si
riducono e l’albumina e le altre macromolecole possono essere trattenute nel circolo.
Dalla III giornata si può ricorrere a plasma, glucosata e soluzioni di aminoacidi ramificati per l’instaurazione
di una adeguata terapia nutrizionale.
Contemporaneamente si può posizionare il sondino naso-gastrico con lo scopo di somministrare alimenti
ipercalorici in grado di far fronte alla spiccata fase di catabolismo caratteristica di questo malato.
Di base si instaura la terapia anche con eparina o calciparina per evitare problemi a carattere tromboembolico; inoltre per prevenire le conseguenze delle ulcere gastrointestinali si somministrano H2antagonisti. Talora si usano anche ȕ-bloccanti come modulatori della risposta adrenergica.
Il monitoraggio dei parametri vitali comprende ogni 6 ore la valutazione della:
frequenza cardiaca;
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pressione arteriosa;
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valutazione stato di coscienza;
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glicosuria.
Trattamento della fase subacuta
Superata la fase di shock, qualora insorga un’infezione locale o sistemica con iperpiressia, si instaura una
terapia antibiotica mirata in base all’antibiogramma del microrganismo isolato. Ovviamente questa terapia
deve essere associata ad una serie di trattamenti idonei. L’uso di antisettici topici mirati in base al
topogramma del germe isolato; una terapia con immunostimolanti; eventualmente una plasmaferesi;
un’adeguata terapia nutrizionale; un’escarectomia precoce.
Il protocollo nutrizionale da noi utilizzato prevede una somministrazione proteica di 2,5 g/die (3 g/kg/die nei
pazienti al di sotto dei 2 anni di età); una somministrazione di carboidrati di 7,2 g/kg/die e di lipidi in
quantità tale da colmare la quantità mancante del fabbisogno calorico. Il fabbisogno calorico considerato è
indicativamente dato dalla moltiplicazione della superficie corporea per 2.000.
Terapia topica
Il trattamento locale immediato della lesione da ustione consiste essenzialmente in un’accurata detersione
della superficie colpita e delle zone circostanti. Dopo rasatura dei peli e dei capelli in prossimità della
lesione, si asportano i detriti di materiale estraneo e le sostanze medicamentose eventualmente applicate
in precedenza. Si procede alla detersione delle ferite usando garze sterili imbevute di soluzioni saponose e
si asportano accuratamente con strumenti sterili i brandelli di cute ustionata. Due tipi di trattamento locale
si sono alternati con maggiore o minore successo nei vari decenni: il trattamento occlusivo e quello
esposto.
Il trattamento occlusivo consiste nel separare dall’ambiente esterno le superfici ustionate mediante
una medicazione.La più comune è composta da tulle di garza non aderente e/o da un antisettico topico, il
tutto ricoperto da garze e bende. L’antisettico che viene utilizzato esclusivamente per le lesioni di II grado
profondo e III grado solitamente è costituito da pomata alla sulfadiazina di Argento al 5% o dal nitrato di Ag
al 5‰ o ancora dal Marfanil (o PAMBA ovvero para metil benzen sulfamide al 2%) in impacco, previa
esecuzione di un esame colturale microbiologico.
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Viceversa il trattamento esposto consiste nella esposizione all’aria delle superfici ustionate, allo
scopo di essiccarle favorendo la formazione di una crosta o di un’escara che separi la superficie
dall’ambiente esterno.
Particolare attenzione richiedono le ustioni a tutto spessore che interessano circolarmente gli arti ed il
tronco. In questi casi l’escara dura ed anaelastica che si forma immediatamente sotto l’azione del calore
provoca stasi venosa ed edema a valle che a sua volta aumenta la compressione arteriosa delle parti
distali, con conseguente insufficienza circolatoria. In questi casi è necessario eseguire tempestivamente
delle incisioni col bisturi in senso longitudinale, interessando a tutto spessore la cute ustionata sino a
raggiungere i tessuti sani: si definiscono incisioni liberatorie decompressive.
È un trattamento che va eseguito solo in centri attrezzati ed è particolarmente indicato per le lesioni del
volto e del perineo. La recente introduzione dei letti a levitazione ha diffuso notevolmente questa pratica in
quanto si evita la macerazione delle aree di appoggio.
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Terapia chirurgica
Nel quadro delle terapie del paziente ustionato il timing chirurgico occupa una parte importante in quanto si
tratta non solo di intervenire ricoprendo le aree disepitelizzate o ancora ricoperte da escare, ma anche di
rimuovere il più precocemente possibile tessuti necrotici al fine di evitare sia la diffusione di tossine che
l’insorgenza di infezioni di difficile controllo. La terapia chirurgica si classifica in escarectomia precoce e
ritardata a seconda del momento di esecuzione.
È bene procedere ad una prima escarectomia non appena il quadro emodinamico è compensato.
In presenza di ustioni estese, cioé quando si considera una percentuale maggiore del 50% della superficie
corporea con danno di III grado, le aree da trattare immediatamente sono il torace e l’addome in quanto la
funzionalità respiratoria deve essere preservata. Anche gli arti superiori ed inferiori rappresentano aree di
prima scelta. Gli interventi successivi possono essere programmati ad intervalli di 4-5 gg. fino a totale
rimozione delle escare e copertura delle zone cruente. Le ustioni di profondità parziale (II e III grado
profondo) richiedono una escarectomia tangenziale ritardata. Attualmente infatti, grazie alla presenza di
letti a flussi laminari vi è una buona percentuale di guarigione spontanea di queste lesioni soprattutto nei
bambini con riduzione delle aree da innestare.
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Le escarectomie tangenziali superficiali o profonde si realizzano per la rimozione precocissima delle
escare. Tramite uno strumento tagliente si asportano gli strati più superficiali del derma o dei tessuti
sottostanti non vitali fino ad incontrare un tessuto sanguinante. L’escarectomia tangenziale superficiale
permette di conservare una certa quantità di derma, premessa ad esiti cicatriziali meno cospicui, ma d’altra
parte comporta maggiori perdite ematiche rispetto alle escarectomie più profonde.
L’escarectomia tangenziale profonda può essere estesa a vari livelli di profondità in rapporto alle esigenze
di reperire tessuto vitale; pertanto può portare al sacrificio di tutto il derma e del sottocute fino al piano
fasciale. L’escarectomia fino alla fascia consente una emostasi accurata e progressiva delle perforanti
fasciocutanee e può essere praticata con elettrobisturi o mediante laser chirurgico. Il piano fasciale
rappresenta inoltre un sito ricevente molto vascolarizzato, sicuramente più del sottocute, e può quindi
garantire percentuali e velocità di attecchimento degli innesti dermoepidermici sicuramente superiori.
Effettuata l’escarectomia, la copertura di prima scelta delle aree cruente è rappresentata dall’utilizzo della
cute autologa tramite innesti dermo-epidermici (Fig. 3.4), generalmente a rete (mesh graft) ossia sottoposti
ad un ampliamento della loro superficie in rapporto solitamente di 1:2.
Terapia degli esiti cicatriziali
Se le aree donatrici sono insufficienti a coprire le aree cruente del paziente, si ricorre agli innesti di cute
omologa. Possono essere utilizzati anche diversi sostituti cutanei, biologici o sintetici, quali la cute di
maiale o di bovino o ancora numerosi presidi a base di poliuretano a diverso spessore.Tutti sono
comunque da considerare come medicazioni temporanee biologicamente attive a breve termine, che
contribuiscono al processo di guarigione della ferita, in particolare dove sia già presente tessuto dermico.
Il prelievo di cute è effettuato con strumenti chiamati dermotomi. Le aree donatrici guariscono mediamente
in 10-12 gg., dopo di che è possibile riutilizzarle per altri prelievi. In presenza di pazienti gravemente
ustionati è possibile ricorrere alle colture di cheratinociti in vitro. Con questa metodica si preleva una
piccola isola di cute e la si coltiva su fibroblasti irradiati in topo (3T3) assieme ad appropriati enzimi e fattori
di crescita. A distanza di 3 settimane si è in grado di ottenere circa 1 mq di lamine cutanee in grado di
coprire la superficie corporea ustionata, specie con le colture ingegnerizzate, cioè con cellule cresciute su
appositi sostegni, come per esempio gli esteri di acido ialuronico (HYAFF) (Fig. 3.5).
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Accanto alla chirurgia della fase acuta vi è quella degli esiti cicatriziali (Fig. 3.6). Il risultato estetico e
funzionale connesso agli esiti cicatriziali da ustione è tuttora motivo di insoddisfazione per il chirurgo
plastico e per il paziente, dato che le aree cruente secondarie alle lesioni termiche sono spesso sede di
cicatrizzazione anomala, che esita nella formazione di cicatrici ipertrofiche o cheloidi.
Dalla guarigione clinica fino alla stabilizzazione cicatriziale si attuano questi provvedimenti:compressione
continua con guaine elastiche, lamine di gel di silicone, massaggi, ionoforesi, infiltrazioni con cortisonici e
mucopolisaccaridasi. Talvolta, nonostante questi provvedimenti il paziente deve sottoporsi ad un ulteriore
iter chirurgico per cercare di riacquisire una buona funzionalità ed un risultato estetico accettabile.
La terapia chirurgica spazia dalla Z plastica alla W plastica che permettono, tramite la rotazione di lembi
alternati, di ampliare la superficie di movimento per arrivare ai più complessi lembi cutanei, fascio-cutanei,
muscolocutanei e lembi liberi.
L’espansione tessutale è una tecnica chirurgica di recente acquisizione che si basa sulle proprietà
elastiche della cute e che, per mezzo del progressivo aumento di volume degli Skin Expander, inseriti
temporaneamente sottocute, permette di avanzare lembi a copertura di aree cicatriziali retraenti o
deturpanti. I tempi operatori richiesti sono due: il primo è l’impianto dell’espansore, cui seguono una serie
di sedute ambulatoriali durante le quali si introduce soluzione fisiologica in modo da distendere
gradualmente la cute. Al riempimento massimo si procede al secondo atto chirurgico con rimozione
dell’espansore, escissione delle aree cicatriziali ed infine rotazione di lembi cutanei per la copertura delle
stesse.
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Letture suggerite
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2456
Davies J.W.L.: Physiological responses to burning injury. Academic Press, London, 1982.
Donati L. et al.: Clinical use of cultured keratinocytes: the Milan experience. In: Horsch A.E.:
Cultured keratinocytes and tissue engineered skin, cap. XI. Thieme Verlag, Berlin, 2001.
Donati L. et al.: Trattamento delle ustioni. B. e G.,Verona, 1997.
Donati L. et al.: Manuale di trattamento dell’ustione. Monduzzi, Bologna, 2000.
Donati L. et al.: Le ustioni. In: Staudacher V.: Manuale di chirurgia d’urgenza e terapia
intensiva chirurgica. Masson, Milano, 1983.
Echinard C., Latarjet J.: Les brûlures. Masson, Paris, 1995.
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McCarthy J.: Plastic surgery. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990.
Morris A., Stevenson J.H.,Watson A.C.H.: Complications of plastic surgery. Bailliere
Tindall, London, 1989.
2457
Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
Capitolo 4
Scegli Sezione:
VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
Innesti e impianti
G. Boggio Robutti, A. Faga, L. Donati
1 Aspetti generali
2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
Innesti
3 Ustioni
4 Innesti e impianti
La chirurgia plastica, nel suo aspetto riparativo e ricostruttivo, si trova nella necessità di ricorrere al
trasferimento di porzioni di tessuti per riparare perdite di sostanza.
4.1 Innesti
4.2 Impianti
Gli innesti costituiscono uno dei metodi basilari perché consentono di trasferire da una sede ad
un’altra un tessuto privo di connessioni vascolari.
4.3 Letture suggerite
5 Trapianti
6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
Essi presentano quindi grande versatilità. In teoria qualunque tessuto può essere utilizzato per un
innesto.
Innesti di cute
7 Malformazioni congenite
8 Chirurgia estetica
La cute (Fig. 4.1) è il tessuto più frequentemente usato per gli innesti.
Salvo condizioni di impiego particolari come nelle ustioni, nella pratica clinica vengono
normalmente usati solo gli innesti autoplastici perché sono gli unici in grado di attecchire in modo
permanente.
9 Chirurgia craniofacciale
10 Traumatologia maxillofacciale
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specie diversa.
Dal punto di vista topografico si possono distinguere gli innesti come segue:
x innesti isotopici, quando sede di prelievo e sede ricevente sono anatomicamente analoghe come
nel trasferimento di cute da un arto inferiore all’arto contro-laterale;
x innesti ortotopici, quando le due sedi non sono analoghe ma lo sono i tessuti trasferiti come nel
trasferimento di mucosa da un labbro ad una palpebra per riparare un difetto congiuntivale;
x innesti eterotopici, quando il tessuto viene trasferito in una sede dove non è naturalmente
presente, come nell’impiego di cute per riparare un difetto mucoso.
Gli innesti di cute possono schematicamente essere classificati secondo il loro spessore:
x innesti sottili (tipo Thiersch-Ollier): comprendono l’epidermide e la porzione più superficiale del
derma;
x innesti ad un terzo di spessore (tipo Blair-Brown): comprendono l’epidermide ed il terzo
superiore del derma;
x innesti a due terzi di spessore (tipo Padgett): comprendono l’epidermide ed i due terzi superiori
del derma;
x innesti a tutto spessore (tipo Wolfe-Krause): comprendono la cute a tutto spessore.
Per consentire l’attecchimento di un innesto devono essere rispettate precise condizioni.
L’innesto deve avere uno spessore regolare ed essere totalmente privo di residui di tessuto
sottocutaneo; la sede ricevente deve essere detersa, libera da residui necrotici e corpi estranei e ben
vascolarizzata per consentire all’innesto una immediata sopravvivenza. Il contatto tra innesto e
superficie ricevente deve essere assicurato da una moderata compressione e da una rigorosa
immobilizzazione.
Il prelievo di un innesto di cute viene eseguito con un bisturi quando si vuole ottenere un innesto a
tutto spessore; negli altri casi si utilizzano appositi apparecchi chiamati dermotomi (Fig. 4.2 a, b).
Gli innesti attecchiscono tanto più facilmente quanto più sono sottili mentre, al contrario, il
risultato estetico e funzionale è tanto migliore quanto più essi sono spessi.
Gli innesti sottili infatti assumono aspetto cicatriziale, sono discromici e tendono a retrarre; gli
innesti di maggior spessore, invece, conservano le caratteristiche della cute della regione donatrice
rimanendo morbidi, elastici e di aspetto normale. L’innesto sottile viene impiegato quindi nelle
situazioni riparative più difficili, come soluzione di emergenza o di ripiego; quello spesso invece
viene usato quando sia necessario conservare il mantenimento della funzione o dell’aspetto estetico
della regione da riparare.
L’uso di un innesto è comunque sempre una soluzione sicura, pratica e versatile ma grossolana ed
aspecifica ed è da considerare una procedura con finalità esclusivamente riparative e non
ricostruttive.
Dal punto di vista biologico gli innesti vengono classificati nel modo seguente:
x innesti autoplastici, quando vengono eseguiti sullo stesso individuo;
x innesti alloplastici (o omoplastici), quando il trasferimento avviene tra due individui della stessa
specie;
x innesti isoplastici, quando donatore e ricevente sono geneticamente identici, come nell’uomo tra
gemelli monocoriali o nell’animale tra ceppi inbred;
x innesti xenoplastici (o eteroplastici), quando il trasferimento si verifica tra due individui di
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sottile prelevato da una zona limitrofa. La riparazione per seconda intenzione porta invece a una
guarigione lenta, con costituzione di cicatrici esuberanti ed ipercromiche e quindi esteticamente
sgradevoli.
Modalità di attecchimento
Ve ne sono di diverso tipo:
z il coltello a lama regolabile: è di uso rapido e disinvolto ma richiede buona esperienza
manuale;
z il dermotomo a tamburo: è di uso più complesso ed indaginoso ma consente il prelievo di
innesti molto precisi e regolari; è caduto in disuso pressoché ovunque;
z il dermotomo elettrico e quello ad aria compressa: sono più facili da controllare,consentono
l’uso anche ai chirurghi inesperti ed il prelievo anche in zone a superficie irregolare.
Le zone normalmente utilizzate per il prelievo di un innesto sottile o medio sono le cosce, le
natiche, l’addome: queste zone infatti sono ampie, pianeggianti e permettono un abbondante
prelievo di cute; consentono inoltre di essere nascoste dagli indumenti e quindi gli eventuali
reliquati cicatriziali arrecano un danno estetico modesto.
Per il prelievo di un innesto a pieno spessore sono invece preferibili zone con cute morbida,
spessore e colore uniformi, aspetto piacevole e buona sensibilità: la regione retroauricolare, la
regione sopraclaveare, la piega del gomito, la regione inguinale, la superficie interna del braccio.
La guarigione della zona donatrice dell’innesto varia a seconda dello spessore del prelievo.
Il prelievo di un innesto interrompe tutte le sue connessioni vascolari e nervose con l’area donatrice
ed il suo aspetto immediato è quindi intensamente pallido.
Il contatto tra innesto e zona ricevente viene in un primo momento stabilito attraverso una trama di
fibrina. La sopravvivenza delle cellule dell’innesto nell’intervallo tra prelievo e ripristino delle
connessioni vascolari è assicurata dall’assorbimento di fluidi dalla regione ricevente. Questo
processo, un tempo denominato erroneamente circolazione plasmatica, può essere più propriamente
definito come imbibizione sierica ed è in grado di garantire all’innesto una valida nutrizione per
almeno due giorni.
Si può ritenere che il ruolo della rete vascolare dell’innesto sia del tutto temporaneo e che i suoi vasi
servano soltanto da guida per l’organizzazione di una nuova rete. Già 5 ore dopo l’intervento si
possono osservare nel letto ospitante mitosi endoteliali che partono dal fondo e dai margini della
lesione e continuano fino a stabilire la vascolarizzazione definitiva. Le prime anastomosi tra
l’innesto e l’ospite si possono documentare tra le 24 e le 72 ore dopo l’intervento. Un vero flusso di
sangue nell’innesto è evidente già nella terza giornata. La rivascolarizzazione si completa fra il
sesto ed il settimo giorno e in ottava giornata si verifica la differenziazione tra arteriole e venule. Il
flusso ematico nell’innesto si normalizza entro i 20 giorni.
Questi sintetici dati permettono di comprendere la necessità di immobilizzare l’innesto nei primi
giorni e la difficoltà di attecchimento di quelli più spessi per la maggior complessità della loro
struttura cutanea e la maggiore attività richiesta per la completa formazione della rete vascolare.
Entro tre mesi dall’intervento si completa la reinnervazione, che però è frequentemente
accompagnata da disturbi soggettivi come iperestesia e parestesia con dissociazione spaziale. Per
quanto concerne gli annessi cutanei, il loro mantenimento è limitato per la funzione sudorifera a una
lieve ripresa solo negli innesti a pieno spessore, mentre la funzione sebo-secretrice può essere
presente anche negli innesti a spessore inferiore.
La rivascolarizzazione dell’innesto avviene attraverso tre meccanismi:
x inosculazione, cioè la connessione casuale diretta tra i vasi dell’ospite e quelli dell’innesto;
x crescita dei vasi dell’ospite fino ad abboccarsi con quelli dell’innesto;
x neoformazione di una nuova rete vascolare che parte dai vasi dell’ospite.
Innesti alloplastici
In tal caso, se la zona di prelievo è limitata può essere riparata suturando i margini per
avvicinamento; quando le superfici sono ampie si può provvedere alla riparazione con un innesto
Come si è detto un innesto alloplastico non può giungere all’attecchimento definitivo ed ha quindi
una sopravvivenza di pochi giorni. Le indicazioni in chirurgia plastica sono perciò limitate alla
necessità di una terapia d’urgenza, che trova la sua principale applicazione nelle grandi ustioni. In
questo tipo di patologia infatti l’estensione del danno cutaneo può essere tale da impedire l’impiego
di autoinnesti creando però nel contempo la necessità di fornire una copertura biologica immediata
delle zone esposte.
L’uso degli innesti alloplastici in questi casi permette di raggiungere i seguenti obiettivi: la
protezione delle zone ustionate dall’inquinamento infettivo e dall’azione degli agenti atmosferici,
l’attenuazione del dolore, la limitazione delle perdite plasmatiche, sierose ed ematiche.
L’attecchimento di un innesto omologo segue le tappe biologiche degli innesti autologhi fino al
momento in cui, con la piena ripresa degli scambi vascolari tra ospite ed innesto, si instaurano
fatalmente i fenomeni di rigetto che portano alla trombizzazione ed alla necrosi del tessuto tra la
settima e la decima giornata dopo l’intervento. La reazione di rigetto della cute è molto intensa e
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Nel caso di un innesto sottile o medio la zona donatrice tende alla guarigione spontanea per
riepitelizzazione a partenza dal fondo degli annessi cutanei.
La guarigione si completa nell’arco di 15-21 giorni dopo i quali è possibile ripetere il prelievo nella
stessa zona.
Nel caso dell’innesto a pieno spessore o a tre quarti di spessore la guarigione spontanea può
invece avvenire solo per seconda intenzione.
parzialmente diversa, nei suoi meccanismi, rispetto agli altri tessuti, a causa delle proprietà
immunocompetenti delle cellule di Langerhans presenti nell’epidermide.
nella ricostruzione mammaria. Le zone donatrici vengono in questi casi normalmente riparate per
semplice avvicinamento dei margini.
Gli innesti alloplastici di cute devono quindi essere considerati come un mezzo terapeutico
provvisorio, utilizzabile solo in attesa che il quadro clinico consenta la riparazione con cute
autologa.
Innesti di tessuto adiposo
La cute da utilizzare per un innesto alloplastico può essere prelevata dal vivente o dal cadavere.
Nel primo caso si preferisce rivolgersi ad un consanguineo del paziente, nel quale è prevedibile una
somiglianza immunogenetica che può limitare l’entità del rigetto e rallentarne la velocità.La cute
prelevata può essere utilizzata subito – come di solito avviene in questi casi – o essere conservata –
se è in quantità esuberante – ed utilizzata per innesti successivi. Nel secondo caso la cute può
essere fornita da una banca della pelle. Si tratta di strutture generalmente presenti presso i Centri
Grandi Ustionati, che sono gli utilizzatori per eccellenza di questo materiale.
Il prelievo dal cadavere deve essere eseguito preferibilmente entro 12 ore dal decesso o al massimo
entro 24 ore. Il funzionamento di una banca della pelle, analogamente a tutte le strutture ove si
effettuano trapianti d’organo, è regolamentato da una rigorosa legislazione.
La conservazione della cute dopo il prelievo può essere effettuata in varie maniere:
x a +4 °C in ambiente umido e sterile per non più di due settimane;
x a –196 °C per immersione in azoto liquido previo raffreddamento graduale e citoprotezione con
dimetilsulfossido o con glicerolo. Così protetta la cute può essere conservata per almeno 6 mesi in
condizioni di vitalità latente e, scongelata, è in grado di attecchire come una pelle normale;
x a temperatura ambiente sotto vuoto dopo essere stata liofilizzata, per un tempo praticamente
illimitato. Questo trattamento toglie ogni vitalità alla cellula per cui la pelle dopo la reidratazione
non è più in grado di attecchire perché non è più viva ma rappresenta solamente una possibilità di
medicazione biologica.
Innesti xenoplastici
Gli innesti xenoplastici sono quelli effettuati tra due individui di specie diversa. Gli animali usati
come donatori sono il maiale, il vitello ed il feto bovino. La vascolarizzazione dell’eteroinnesto
cutaneo non è però mai stata dimostrata nell’uomo per nessuna specie animale. Un eteroinnesto
quindi non provoca un vero rigetto né la comparsa di anticorpi circolanti ma solo una risposta
infiammatoria aspecifica. L’innesto xenoplastico per questa ragione può rimanere in sede anche per
due settimane; dopo questo periodo viene eliminato per necrosi ischemica.
Le indicazioni all’impiego degli eteroinnesti sono sovrapponibili a quelle degli innesti
alloplastici.
La cute xenoplastica viene prodotta a livello commerciale in forma liofilizzata ed usata in
sostituzione di quella alloplastica, meno facilmente disponibile.
Innesti di mucosa
Hanno le stesse modalità di attecchimento dell’innesto cutaneo del quale condividono le
indicazioni.Vengono impiegati normalmente a tutto spessore per riparare il fornice gengivale o
quello congiuntivale. Un impiego particolare della mucosa della regione genitale – prepuzio nel
maschio e piccole labbra nella femmina – è quello di sfruttare la loro particolare morbidezza, la loro
pigmentazione e la totale assenza di peli per la ricostruzione dell’areola e del capezzolo, soprattutto
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L’innesto adiposo non è utilizzabile per la povertà della sua rete vascolare che conduce
inevitabilmente ad una necrosi ischemica con colliquazione completa del tessuto stesso. Per
consentire la sua sopravvivenza è necessario trasferirlo in associazione con il derma profondo al
quale esso è collegato: la ricchezza della rete vascolare dermica consente in tal modo la
sopravvivenza del tessuto adiposo. Il comportamento dell’innesto dermoadiposo, come viene
chiamato in questo caso, è analogo a quello descritto nell’innesto cutaneo; le connessioni
circolatorie del derma con la sede ricevente riprendono dopo circa 4 giorni dall’innesto. Una parte
delle cellule adipose va fatalmente incontro a sofferenza ed a lisi e le cellule necrotiche vengono
asportate da una popolazione di istiociti che si raccolgono nella sede dell’innesto. Per il suo
incostante comportamento è necessario utilizzare una quantità di tessuto adiposo maggiore di quella
apparentemente necessaria in previsione di un parziale riassorbimento.
Le indicazioni all’innesto dermoadiposo sono costituite da perdite di sostanza sottocutanea che
causano una alterazione del normale profilo di una regione.
Come regioni donatrici si utilizzano le natiche o l’addome per la loro ricchezza in tessuto adiposo
sottocutaneo e per la possibilità di situarvi cicatrici più facilmente mascherabili. L’innesto
dermoadiposo può andare incontro, dopo il suo attecchimento,alla formazione di cavità cistiche nel
contesto della sua massa adiposa.
Negli ultimi 10 anni si è andata affermando, per la correzione di difetti di modesta entità, la pratica
del “lipofilling”, consistente nell’innesto di piccolissimi lobuli di tessuto adiposo ottenuti mediante
aspirazione con un apposito ago-cannula e analogamente collocati nel sito ricevente mediante
iniezione transcutanea. È dimostrato l’attecchimento di una minoranza di adipociti, verosimilmente
grazie alle piccole dimensioni dei lobuli innestati.
Innesti di osso
Il tessuto osseo viene impiegato quando si debba sostituire o costituire una rigida impalcatura di
sostegno.
Perché l’innesto attecchisca è necessario che venga trasferito completo del suo periostio e posto a
contatto con il periostio dell’osso ricevente in modo da mantenere la funzione osteogenetica. In tal
caso fin dalla prima settimana può avvenire una ripresa delle connessioni vascolari che
consentiranno all’osso di attecchire, anche se dovrà essere parzialmente riassorbito e rimodellato.
Se queste condizioni non vengono rispettate l’innesto viene invece completamente riassorbito dagli
istiociti e si trasforma in una massa fibrosa.
L’osso viene prelevato dalle seguenti sedi:
z le coste, che possono essere impiegate come tali o divise per la loro lunghezza in due parti e
quindi duplicate; è la zona di prelievo ideale nei bambini perché il periostio residuo della
zona di prelievo genera nuovo tessuto osseo e quindi ricostituisce la costa asportata;
z la cresta iliaca, che fornisce una abbondante quantità di tessuto facilmente modellabile;
z la cresta tibiale anteriore, utilizzata in condizioni molto particolari così come il grande
trocantere ed il processo olecranico, che forniscono piccole quantità di tessuto osseo e non
sono quindi di impiego comune.
Va segnalata la possibilità di utilizzare osso omologo, il quale però deve essere trattato
2465
preliminarmente con la bollitura, con la liofilizzazione o con l’irradiazione in modo da essere
totalmente privato dei suoi costituenti cellulari; in questi casi si tratta di una semplice struttura
minerale che serve per guidare provvisoriamente la formazione di tessuto connettivo e non
rappresenta un vero e proprio innesto in grado di attecchire.
Innesti di cartilagine
Le indicazioni di questo innesto sono costituite dalle piccole perdite di sostanza che rendono
necessaria la creazione di una impalcatura sottocutanea sostenuta ma elastica come per le ali del
naso, il padiglione auricolare, il tarso palpebrale.
La cartilagine in alcuni casi può essere frammentata ed utilizzata per colmare perdite di sostanza
ossea, per la forma compatta che assume dopo l’attecchimento. L’attecchimento ha luogo per
imbibizione.
Le regioni donatrici sono le cartilagini costali, il setto nasale ed il padiglione auricolare. L’assenza
di una rete vascolare consente di utilizzare la cartilagine anche come omoinnesto: questo infatti non
provoca risposta immunitaria, ma viene totalmente riassorbito. È stato recentemente introdotto l’uso
della cartilagine bovina irradiata che viene preparata in forma commerciale e conservata senza
necessità di particolari cautele. Essa si comporta analogamente ad un impianto sintetico perché,
essendo liofilizzata, non contiene elementi vitali; provoca quindi da parte dell’ospite una normale
reazione da corpo estraneo.
Innesti di muscolo
laterale dell’avambraccio, dal safeno, dagli intercostali, dalla branca superficiale del radiale.
La tecnica di sutura dei nervi va eseguita con manualità microchirurgica: non deve infatti essere
limitata al perinervio ma va estesa all’epinervio ed alle guaine interfascicolari; nei centri più
specializzati è possibile suturare un nervo rispettandone con buona approssimazione la
mappazione,così da limitare la comparsa di dissociazioni,sia sensitive che motorie.
Innesti di tendini e di fascia
Un tendine è costituito da un insieme di fasci più piccoli separati tra loro da sottilissimi foglietti
connettivali lungo i quali corrono sottili vasi nutritizi che si anastomizzano con la rete vascolare dei
foglietti che avvolgono il tendine stesso. L’attecchimento dell’innesto avviene, dopo i primi 3 o 4
giorni di ischemia,mediante anastomosi vascolare tra il letto ricevente e la rete propria del tendine.
Le due estremità dell’innesto si saldano a quelle riceventi con un processo di normale
cicatrizzazione. Considerate le caratteristiche di un tendine è evidentemente necessaria l’assoluta
immobilizzazione per almeno 4 settimane.
Se l’innesto è destinato a funzioni dinamiche la costituzione di aderenze cicatriziali lungo il suo
decorso può essere causa di insuccesso dell’intervento: è indispensabile infatti che il tendine possa
liberamente scorrere nel tessuto circostante. Ciò non ha importanza invece quando il tendine viene
usato a scopo statico, come sospensione di tessuti ptosici. I tendini che possono venire prelevati
sono quelli dei muscoli palmare lungo, plantare gracile, estensore lungo delle dita dei piedi.
Un tessuto simile a quello tendineo è la fascia muscolare, in particolare la fascia lata, che viene
utilizzata sia con funzioni di sostegno per sospensione di tessuti, sia con funzioni di rinforzo come
nella ricostruzione della parete addominale o toracica, sia con funzioni di riempimento di modeste
perdite di sostanza sottocutanea.
Il tessuto muscolare attecchisce facilmente grazie alla sua ricca vascolarizzazione, ma va incontro
alla perdita della funzione per degenerazione nervosa con conseguente atrofia delle fibre muscolari.
Per conservarne la funzione sono stati sperimentati metodi di autonomizzazione del muscolo con la
sua denervazione eseguita due settimane prima del trasferimento, ma i risultati sono incostanti.
Le indicazioni sono costituite dalla riparazione di paralisi dei muscoli della bocca e delle
palpebre o dalla ricostruzione degli sfinteri anale e vescicale.
Il prelievo dei muscoli da innestare non deve naturalmente compromettere le normali funzioni del
paziente; il muscolo estensore breve delle dita del piede ed il muscolo palmare lungo sono quelli
che meglio rispondono a questo requisito. Attualmente l’innesto di muscolo è da considerarsi una
pratica desueta, sostituita dal trapianto microchirurgico di unità funzionali neuromuscolari.
Innesti di nervo
Un innesto di nervo attecchisce a livello delle cellule di Schwann e delle guaine connettivali, ma il
tessuto nervoso va incontro alla degenerazione walleriana e quindi alla perdita della funzione.
Questa può essere recuperata con la sua neurotizzazione per rigenerazione, da parte degli assoni, del
moncone di nervo prossimale. Il recupero della conduzione nervosa è però ostacolato dal processo
di cicatrizzazione che tende ad invadere l’innesto ed il moncone distale del nervo da riparare.
Le indicazioni all’innesto di tessuto nervoso sono costituite principalmente dalle lesioni
traumatiche che creano una soluzione di continuo di un nervo tale che i due capi separati non
possano essere semplicemente avvicinati.
I nervi donatori sono costituiti dal nervo surale, dal cutaneo ulnare dell’avambraccio, dal cutaneo
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Impianti
Il materiale ideale per un impianto deve essere:
x fisicamente immutabile;
x chimicamente inerte;
x non conduttore di calore e di elettricità;
x resistente ai traumi;
x facilmente fabbricabile e reperibile;
x facilmente modellabile;
x sterilizzabile;
x non flogogeno;
x non carcinogeno;
x non allergizzante.
Gli innesti autoplastici che,come abbiamo detto,sono gli unici in grado di attecchire stabilmente
presentano peraltro diversi inconvenienti: sono disponibili in quantità limitata, il loro prelievo crea
sempre un esito cicatriziale con deficit secondario, possono non attecchire totalmente o
parzialmente, sono spesso strutturalmente alterati dai processi cicatriziali ed evolutivi.È quindi
evidente che a scopi ricostruttivi si è da sempre ricercato un materiale sintetico in grado di
sostiturli. Tralasciando quelli di impiego più remoto,come l’oro e l’avorio, va citata la paraffina
che,all’inizio del nostro secolo,ha suscitato molto interesse per il suo particolare stato fisico (solido
alla temperatura corporea ma fluido a 50 °C) e che può essere iniettata in sede sottocutanea per
colmare depressioni e creare sostegno alla pelle.Vennero segnalate però gravi reazioni da corpo
estraneo con costituzione di masse infiammatorie chiamate paraffinomi.
Tra nuovi entusiasmi e puntuali delusioni si giunse così alle conquiste dell’industria chimica che,
dal secondo dopoguerra, produce sostanze assai prossime alle caratteristiche richieste per un
impianto, anche se in verità non esiste nessun materiale dotato pienamente di tutte queste virtù,
anche perché solo un’esperienza pluriennale può dimostrare se le caratteristiche evidenziatesi in
laboratorio si mantengono tali nella realtà clinica.
All’impianto di un qualsiasi materiale sintetico, conseguono inevitabilmente alcune reazioni
biologiche, dipendenti essenzialmente dalle caratteristiche fisico-chimiche dell’impianto stesso.
Quando queste reazioni assumono un’espressività di grado elevato, possono essere causa di quadri
clinici patologici.
2468
Attualmente i materiali da impianto legalmente in commercio, compreso il silicone in tutte le sue
forme, non sono né cancerogeni né induttori di patologie autoimmuni. Ogni diversa affermazione al
riguardo è da considerare pura fantasia, in quanto non dimostrata da nessuno studio controllato. I
materiali da impianto attualmente in uso possono essere classificati da diversi punti di vista: in base
alle caratteristiche fisiche, alle caratteristiche chimiche, alle reazioni biologiche che possono
indurre, alla destinazione clinica.
La classe chimica più versatile e che ha avuto un ruolo protagonista negli ultimi 25 anni è
rappresentata dai siliconi, polimeri il cui nome chimico è dimetilpossilossano. Si tratta di catene la
cui lunghezza determina lo stato fisico della sostanza, che può essere resa liquida con catene più
corte, semifluida, morbida o compatta con l’aumentare della lunghezza. In forma solida il silicone è
stato utilizzato fondamentalmente come sostituto dell’osso, delle cartilagini, dei tendini e delle
fasce, anche se ormai è da considerare superato a questo riguardo.
Altri materiali utilizzabili allo stato solido, sia in blocchi compatti sia in fogli, sono le varie resine,
acriliche, poliviniliche e polietileniche, il teflon ed il Gore-tex. Caratteristiche di questi ultimi e più
moderni materiali è di possedere una struttura microporosa, tale da potere essere colonizzata da
microfibre connettivali neoformate, che stabilizzano l’impianto stesso. Sono utilizzati come sostituti
dell’osso e, più correttamente, in sostituzione di innesti di fascia, là dove è richiesta una
sospensione o una contenzione.
In sostituzione dell’osso l’orientamento attuale è verso le ceramiche, eventualmente associate a
metalli nobili (Ti, Vi, Ta), specie nella chirurgia delle articolazioni, oppure, più fisiologicamente,
verso materiali osteoinduttori ed osteoconduttori, sia destinati a rimanere a permanenza in sede,
come le fibre di vetro e l’idrossiapatite (fosfato tricalcico), sia destinati al riassorbimento, come il
corallo naturale (carbonato di calcio).
Un posto a parte è occupato dal carbonio pirolitico, variante della molecola di carbonio puro,che
viene utilizzato come rivestimento di altri materiali, a causa della sua proprietà di evocare una
modestissima reazione da corpo estraneo.Viene utilizzato da anni per rivestire protesi valvolari
cardiache e da qualche tempo viene utilizzato sperimentalmente per rivestire protesi mammarie ed
espansori cutanei.
Recentemente molta attenzione è stata dedicata all’impiego di materiali “biodegradabili”. Tra questi
vanno segnalati: i derivati dell’acido polilattico, con i quali sono stati costruiti, oltre che fili di
sutura e fettucce, anche placche e viti per fissazione ossea, e il collagene bovino. Quest’ultimo
viene utilizzato in forma spugnosa, come induttore della neoangiogenesi ma soprattutto in forma
liquida per correggere, mediante semplici iniezioni, piccole depressioni della superficie cutanea
(rughe, cicatrici eccetera).
Nell’ambito dei materiali fluidi ricordiamo il silicone gel, come riempimento delle protesi
mammarie.
Si segnalano infine, per puro dovere di completezza dottrinale, il silicone fluido ed il silicone come
sospensione di microsferule, in quanto l’impiego di tali preparazioni, oltre ad essere ai limiti della
legalità, è assolutamente da proscrivere. Infatti l’organismo reagisce all’iniezione di silicone fluido
scindendo il materiale in minutissime gocce,che vengono sequestrate con vivace reazione
infiammatoria da corpo estraneo.Inoltre, se iniettato in grandi quantità,tende per gravità o per i
movimenti muscolari a spostarsi dalla sede in cui è stato introdotto. Questo comportamento è
imprevedibile e responsabile di gravi conseguenze.
Qualsiasi tipo di impianto si utilizzi, è fondamentale che venga posizionato al di sotto di un piano
cutaneo-sottocutaneo perfettamente trofico, integro e privo di cicatrici (Tab. 4.3).
2469
Letture suggerite
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Brunelli G.: Textbook of Microsurgery. Masson, Milano, 1988.
Donati L., Farneti A., Tallacchini M.C.: Aspetti medico-legali e normativi dei prodotti
dell’ingegneria tessutale. Giuffrè Editore, Milano, 1998.
Giachero E.: Materiali Sintetici in Chirurgia Plastica. Libreria Cortina, Milano, 1992.
McCarthy J.G.: Plastic Surgery, Vol. I.W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990.
Smith J.W., Aston S.J.: Grabb and Smith’s Plastic Surgery. Little, Brown and Co., Boston,
1991.
2471
Scegli Sezione:
VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
1 Aspetti generali
2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
3 Ustioni
4 Innesti e impianti
5 Trapianti
Capitolo 5
5.1 Lembi a vascolarizzazione casuale
5.2 Lembi arterializzati
Trapianti
5.3 Letture suggerite
6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
G. Boggio Robutti, A. Faga, L. Valdatta
7 Malformazioni congenite
8 Chirurgia estetica
9 Chirurgia craniofacciale
Con il termine trapianto si indica il trasferimento di un organo o di un tessuto conservando un
peduncolo vascolare che ne consenta la sopravvivenza.
10 Traumatologia maxillofacciale
I trapianti di cute sono alla base di numerose tecniche ricostruttive laddove, al contrario degli
innesti, che danno risultati modesti sia dal punto di vista estetico sia funzionale, essi consentono il
conseguimento di migliori ricostruzioni, giacché mantengono tutti i caratteri di una vera e propria
cute, in quanto sono forniti di tessuto sottocutaneo e di normale vascolarizzazione.
I trapianti di cute vengono d’abitudine denominati “lembi cutanei” o skin flaps secondo la
terminologia anglosassone.
I trapianti di cute possono essere schematicamente suddivisi in due tipi a seconda delle
caratteristiche del loro peduncolo vascolare:
x lembi a vascolarizzazione casuale con peduncolo nutritizio che include una vascolarizzazione
non precisamente identificata;
x lembi arterializzati, quando il peduncolo è costituito da vasi afferenti al lembo stesso
anatomicamente ben identificati. Quando il peduncolo vascolare di un lembo arterializzato viene
reciso, per essere abboccato mediante microanastomosi vascolare a vasi della sede ricevente, si
parla di “lembo libero” o free flap.
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Con il termine trapianto si indica il trasferimento di un organo o di un tessuto conservando un
peduncolo vascolare che ne consenta la sopravvivenza.
I trapianti di cute sono alla base di numerose tecniche ricostruttive laddove, al contrario degli
innesti, che danno risultati modesti sia dal punto di vista estetico sia funzionale, essi consentono il
conseguimento di migliori ricostruzioni, giacché mantengono tutti i caratteri di una vera e propria
cute, in quanto sono forniti di tessuto sottocutaneo e di normale vascolarizzazione.
I trapianti di cute vengono d’abitudine denominati “lembi cutanei” o skin flaps secondo la
terminologia anglosassone.
I trapianti di cute possono essere schematicamente suddivisi in due tipi a seconda delle
caratteristiche del loro peduncolo vascolare:
x lembi a vascolarizzazione casuale con peduncolo nutritizio che include una vascolarizzazione
non precisamente identificata;
x lembi arterializzati, quando il peduncolo è costituito da vasi afferenti al lembo stesso
anatomicamente ben identificati. Quando il peduncolo vascolare di un lembo arterializzato viene
reciso, per essere abboccato mediante microanastomosi vascolare a vasi della sede ricevente, si
parla di “lembo libero” o free flap.
Lembi a vascolarizzazione casuale
Questi lembi (random flaps) sono quelli di più comune impiego.
Possono avere peduncolo singolo o doppio, possono essere allestiti come lembi piani o tubolizzati
ed essere impiegati in prossimità della loro sede di prelievo o a distanza da essa.
Lembi piani monopeduncolati
I lembi piani monopeduncolati hanno forma approssimativamente rettangolare od ovale (Fig. 5.1);
uno dei lati minori non viene inciso e costituisce il peduncolo del lembo. Come regola generale la
larghezza del peduncolo non dovrebbe essere inferiore alla metà della lunghezza del lembo per
evitare che una insufficiente irrorazione possa condurlo a necrosi parziale o addirittura totale. Nel
trasferimento di un lembo dalla sede donatrice a quella ricevente si deve porre attenzione ad evitare
uno stiramento o una torsione eccessivi del peduncolo che potrebbero causare lo strozzamento dei
vasi.
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Non si deve allestire un lembo di cute non perfettamente integra, quale quella interessata da cicatrici
o da pregressi trattamenti con radiazioni ionizzanti, che potrebbero avere ridotto notevolmente
l’assetto vascolare della regione. Un lembo a vascolarizzazione casuale deve seguire particolari
regole a seconda della regione in cui viene tracciato: sul tronco non deve mai attraversare la linea
mediana, sugli arti deve avere il peduncolo situato prossimalmente. Sul viso esiste invece una rete
vascolare così ricca da consentire di trasgredire alla regola della proporzione tra la lunghezza del
lembo e la larghezza del peduncolo e di allestire lembi apparentemente molto audaci.
Un lembo può andare incontro a sofferenza da ischemia se l’irrorazione arteriosa è insufficiente ed
apparirà in tal caso di colorito pallido; da stasi se è invece insufficiente lo scarico venoso ed in tal
caso il lembo diventerà gradualmente cianotico nel giro di alcune ore.
La riparazione della zona donatrice di un lembo può avvenire in due modi: per semplice
avvicinamento dei margini se questo è consentito dalla grandezza della perdita di sostanza e
dall’elasticità della cute della regione o con applicazione di un innesto cutaneo quando non sia
possibile la prima modalità. In questo caso l’innesto può essere applicato immediatamente all’atto
dell’intervento di rotazione del lembo o in un successivo intervento che, eseguito a distanza di 8 o
più giorni dal primo, consentirà di applicare l’innesto cutaneo su un tappeto di tessuto di
granulazione che ne faciliterà l’attecchimento. In zone con vascolarizzazione a rischio, come negli
arti inferiori, o in lembi con particolari dimensioni è opportuno eseguire un procedimento
preliminare denominato autonomizzazione. Esso consiste nello scolpire il lembo nella forma
desiderata, ma anziché ruotarlo o farlo scorrere immediatamente nella regione da riparare, riporlo
provvisoriamente nella sede del prelievo.
Ciò consente di verificare,prima del definitivo trasferimento, se il lembo è sufficientemente
vascolarizzato; in caso contrario si può provvedere, dopo alcuni giorni, alla eliminazione della
porzione che risulta sofferente utilizzando con sicurezza la parte residua.
Inoltre, così facendo, si abitua il lembo a vivere in condizioni di vascolarizzazione ridotta: è
dimostrato infatti che una riduzione vascolare stimola la crescita dimensionale e numerica dei vasi
del peduncolo e migliora quindi la possibilità di sopravvivenza del lembo successivamente
trasferito. L’intervento di trasferimento definitivo nella sede ricevente può essere eseguito 8 giorni
dopo l’autonomizzazione. In casi particolari è possibile anche frazionare l’autonomizzazione in
tempi diversi in maniera da rendere il procedimento ancora meno rischioso.
Un lembo piano può essere trasferito in prossimità della zona di allestimento per scorrimento o per
rotazione a seconda delle particolari esigenze riparative.
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eseguito può essere separato dalla regione donatrice solo dopo un periodo di almeno 3 settimane,
necessario perché si stabiliscano connessioni vascolari, tra il lembo e la regione ricevente, tali da
consentire la recisione del peduncolo senza danni per la vitalità del trapianto. Questo metodo
presenta, rispetto al lembo piano di prossimità, alcuni aspetti negativi perché le due regioni
anatomiche unite dal trapianto devono essere mantenute in stretta immobilità e la posizione è spesso
di grave disagio per i pazienti che, soprattutto se anziani, possono conseguire anchilosi articolari
difficilmente risolvibili; inoltre occorrendo ripetuti interventi si ripetono i rischi anestesiologici e di
contaminazione infettiva e soprattutto si rendono necessarie lunghe degenze.
A seconda delle regioni anatomiche coinvolte nel trapianto si distinguono diversi tipi di trapianto a
distanza.
Plastica a zeta
Una modalità di frequente impiego dei lembi piani di prossimità è la cosiddetta plastica a zeta (Fig.
5.2). Essa consiste nella trasposizione di due lembi piani triangolari di dimensioni eguali disposti in
modo che i loro margini formino una zeta.Trasponendo i due lembi l’incisione centrale della zeta
cambia direzione di circa 90°; per l’elasticità della cute avviene una variazione dimensionale della
regione con un allungamento in corrispondenza dell’incisione centrale ed un contemporaneo
restringimento in senso perpendicolare ad esso. L’allungamento che si può così ottenere dipende
dall’ampiezza degli angoli formati dall’incisione centrale con le due incisioni laterali: con angoli di
30° si ha un allungamento del 25%, con angoli di 45° del 50%, con angoli di 60° del 70%. Queste
possibilità dipendono naturalmente dalla regione e dalla sua capacità di cedere in una direzione a
vantaggio dell’altra. È inoltre fondamentale che le due incisioni estreme della zeta decorrano
parallelamente alle linee di tensione cutanea.
La plastica a zeta è impiegata fondamentalmente nella correzione delle retrazioni cicatriziali,
soprattutto in corrispondenza di superfici flessorie.
La plastica a zeta può essere eseguita, oltre che con due lembi, anche con lembi multipli in
situazioni particolari come la correzione di una cicatrice particolarmente lunga.
z Con il termine cross leg si indica la riparazione di una perdita di sostanza di un arto inferiore
mediante un lembo a distanza dall’arto contro-laterale; il lembo viene generalmente ricavato dalla
regione surale o dalla coscia.
L’intervento serve per riparare lesioni con esposizione di tendini ed ossa, di fistole
osteomielitiche o di necrosi cutanee per fratture esposte con impianto di placche e viti metalliche.
z Cross arm: il lembo viene prelevato sulla superficie interna del braccio ed utilizzato per riparare
lesioni dell’arto contro-laterale, in particolare della mano.
z Cross finger: riparazione della superficie volare di un dito della mano mediante un lembo
ricavato dalla superficie interdigitale di un dito adiacente.Per riparare perdite di sostanza della punta
delle dita è anche possibile utilizzare un lembo analogo ricavato dalla regione tenar.
Un esempio storico di lembo ricavato dalla faccia interna del braccio e condotto a riparare una
perdita di sostanza del viso, in particolare del naso, è quello conosciuto col nome di metodo
italiano.
Il torace e l’addome possono anch’essi fornire abbondante cute per la riparazione di perdite di
sostanza degli arti superiori, che vengono facilmente avvicinati e mantenuti in contatto con essi.
Espansione cutanea
Questa tecnica, in uso da circa 15 anni, consiste nell’incrementare la cute di una regione mediante la
sua progressiva espansione, ottenuta tramite inserzione di un “espansore cutaneo”. Esso consta di
una sacca in silicone che è possibile gonfiare progressivamente mediante l’iniezione di soluzione
fisiologica attraverso un’apposita valvola (Fig. 5.3). L’espansione della cute è determinata sia dalla
distensione delle fibre elastiche sia da un’autentica proliferazione dei tessuti. La cute così ottenuta
viene utilizzata per scolpire un lembo di vicinanza, opportunamente progettato. Nel corso del
secondo intervento viene anche rimosso l’espansore. Il tempo mediamente intercorso tra il primo ed
il secondo intervento è di circa 2 mesi.
Lembi a distanza
Quando in prossimità della zona da riparare non sia possibile reperire sufficiente tessuto, si deve
ricorrere al trasferimento di lembi a distanza. Ciò può essere realizzato congiungendo
temporaneamente con il lembo piano due regioni anatomicamente non contigue. Il trapianto così
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I grandi vantaggi di questa tecnica sono legati all’eliminazione dei ripetuti interventi chirurgici
richiesti dai trasferimenti a distanza ed alla possibilità di utilizzare cute di prossimità avente le
stesse caratteristiche della regione da riparare. La tecnica riconosce però una discreta percentuale di
complicanze, legate all’elevato rischio di infezione ed alla possibilità di sofferenza circolatoria della
cute soprastante l’espansore. Inoltre non è evidentemente utilizzabile nelle situazioni cliniche in cui
sono necessarie riparazioni immediate.
La sua indicazione principale è data dalla necessità di trasferimento di molta cute a grande
distanza.
Lembi piani bipeduncolati
Una particolare categoria di lembi piani è quella dei lembi bipeduncolati, che potrebbero essere
definiti anche lembi a ponte. Essi infatti dispongono di due peduncoli e possono perciò essere molto
lunghi, con rapporto anche di 4 a 1 tra lunghezza e larghezza. Possono essere usati come lembi di
prossimità, per esempio, per portare cuoio capelluto a ricostruire un labbro superiore fornito di peli,
o a distanza, per esempio per riparare lesioni di una mano con un lembo di cute addominale. Sono
lembi di impiego non frequente.
Lembi tubolati
Un lembo tubolato è costituito da un lembo bipeduncolato piano suturato su se stesso lungo i due
lati maggiori in modo da costituire un tubo che presenta la superficie cutanea esternamente e la
parte sottocutanea al suo interno (Fig. 5.4). Il lembo può avere una lunghezza notevole perché è
sufficientemente nutrito dai due peduncoli.
Il lembo tubolato viene allestito in zone preferenziali costituite dalla base della regione cervicale
anteriore, dall’addome, dalla regione pettorale, dalla faccia interna del braccio. Dopo tre settimane
dal suo allestimento viene iniziato il trasferimento, che può essere diretto dalla regione donatrice a
quella ricevente se esse sono vicine o avvicinabili, o indiretto mediante un primo trasferimento su
una regione vettrice, normalmente rappresentata dal polso, che può consentirgli di raggiungere poi
anche l’estremità di un arto inferiore. Una volta giunto alla sua sede definitiva esso viene riaperto
lungo la cicatrice ventrale per effettuare la riparazione. Nelle prime fasi del trasferimento un lembo
tubolato può essere autonomizzato per aumentare la sicurezza dell’attecchimento. Gli aspetti
negativi di questi lembi sono il numero elevato di interventi necessari per giungere alla riparazione
e quindi i tempi di degenza molto prolungati; inoltre è consistente il rischio di perdite di sostanza
per necrosi ischemica che si ripete ad ogni passaggio.
I lembi tubolati, che per decenni hanno costituito un caposaldo della chirurgia ricostruttiva, sono
divenuti desueti, in quanto il problema del trasferimento a distanza di abbondanti quantità di cute
viene oggi elettivamente affrontato con altre tecniche (espansione cutanea e lembi liberi).
Lembi ad isola
I lembi ad isola (Fig. 5.5) costituiscono un tipo particolare di lembo piano: il loro peduncolo è
infatti costituito dal solo tessuto sottocutaneo e la cute del lembo viene totalmente incisa ed isolata
dalla cute circostante. Il pregio di questi lembi è la loro estrema versatilità perché il peduncolo
sottocutaneo consente torsioni, stiramenti e spostamenti molto più agili di quanto consentito da un
peduncolo cutaneo.
I lembi ad isola a vascolarizzazione sottocutanea casuale trovano indicazione quasi
esclusivamente nel viso, dove l’estrema ricchezza della rete vascolare ne consente un impiego
sicuro.
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Lembi arterializzati
Un lembo arterializzato è un trapianto di cute che comprende, nel suo peduncolo, un’arteria cutanea
con la vena ed i vasi linfatici satelliti.
Può essere scolpito sia come lembo piano a peduncolo cutaneo, sia come lembo ad isola a
peduncolo sottocutaneo. Nel primo caso il fascio vascolare viene mantenuto per tutta la lunghezza
del lembo ed il trapianto quindi non è vincolato a particolari rapporti dimensionali tra la larghezza
del peduncolo e la lunghezza del lembo poiché, contenendo in sé l’arteria, ha garantita la
vascolarizzazione per tutta la sua estensione. Nel secondo caso, invece, viene isolato il fascio
vascolare sottocutaneo e si ottiene un’isola cutanea nutrita solamente in posizione centrale: forma
ed estensione del lembo variano a seconda della regione anatomica coinvolta.
Le arterie sulle quali sono basati i più comuni lembi arterializzati sono:
z l’arteria temporale superficiale, per un lembo che può occupare tutta la fronte e viene
utilizzato nella ricostruzione del naso, del cavo orale e della guancia;
z le prime 4 branche perforanti dell’arteria mammaria interna per un lembo delto-pettorale
utilizzato per la ricostruzione dell’esofago cervicale, dei faringostomi, della regione nucale;
z il ramo superficiale dell’arteria epigastrica inferiore, per un lembo ipogastrico utile per la
riparazione delle zone circostanti o a distanza come sull’arto inferiore;
z il ramo superficiale dell’arteria iliaca circonflessa, per un lembo che corrisponde alla regione
inguinale e che serve per le riparazioni della regione pubica e perineale o come lembo a
distanza;
z l’arteria dorsale del piede, per un lembo dorsale del piede;
z l’arteria labiale, utilizzata per trasferire una porzione del labbro superiore a riparare il labbro
inferiore o viceversa affidando l’intero spessore di un lembo labiale ad un sottile peduncolo di
bordo rosa nel quale decorre questa arteria.
Lembi liberi
Sono lembi basati sull’isolamento e la recisione del peduncolo vascolare che viene poi
anastomizzato con analogo peduncolo preventivamente isolato nell’area ricevente: l’intervento va
eseguito con tecnica microchirurgica.
Le indicazioni di questi lembi sono le situazioni che richiedono un lembo a distanza, evitando
però i tempi operatori intermedi richiesti da altri tipi di lembi come quelli tubolati.
La progressiva diffusione della manualità microchirurgica in ambito plastico e l’elevata qualità
delle tecnologie e dei materiali oggi disponibili rendono attualmente praticabili con ragionevole
sicurezza le procedure ricostruttive basate su tali lembi. Oltre che in interventi elettivi, i lembi liberi
vengono oggi utilizzati anche per il trattamento in urgenza ed emergenza di gravi traumatizzati, in
associazione alla rivascolarizzazione di un segmento di arto.
Lembi compositi
Lo studio dell’anatomia vascolare della cute, inteso non in senso puramente descrittivo ma
finalizzato all’esecuzione di trapianti cutanei, ha condotto, a partire dagli anni Settanta, alla
formulazione del concetto di “angiosoma”, unità anatomica pluritissutale, imperniata su di un
preciso albero vascolare. Ciò ha consentito l’ideazione di nuove unità ricostruttive, in cui sono
presenti anche tessuti diversi dalla cute. La conoscenza dell’anatomia vascolare di tutti i tessuti che
costituiscono un angiosoma fornisce la base dottrinale per il trasferimento di unità composite di
cute, muscoli, nervi, tendini ed ossa, tutti riforniti da un singolo sistema artero-venoso.
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Utilizzati all’inizio solo per veicolare in un solo tempo grandi quantità di cute, ben presto tali lembi
si sono dimostrati preziosi per colmare le perdite di sostanza più profonde e vivacizzare la funzione
circolatoria della regione ricevente. I lembi miocutanei possono essere impiegati come lembi
arterializzati lasciando intatto il peduncolo vascolare del muscolo o come lembi liberi.
La loro indicazione è costituita da lesioni con perdita di sostanza ampia e profonda e da
situazioni che richiedono la riparazione in un tempo operatorio unico.
In un lembo composito, la presenza di diversi tessuti talora ha il solo significato di supportare
adeguatamente la cute, più spesso è invece finalizzata alla realizzazione di un complesso progetto
ricostruttivo pluritissutale; a volte vengono infine confezionati trapianti in cui la cute è totalmente
assente (per es. lembi fasciali e lembi muscolari). In questo tipo di trapianti è completamente
perduto l’empi-rismo che è alla base della scultura dei random flaps cutanei, in quanto la
vascolarizzazione è sempre esattamente individuata, così come le dimensioni dei tessuti che
possono essere trasferiti.
Esistono al riguardo apposite tavole anatomiche e la ricerca è tuttora aperta all’identificazione di
nuove e sicure unità ricostruttive.
Lembi fasciocutanei
Sono costituiti da cute, sottocute e fascia e rappresentano una variante dei classici lembi piani.
L’inclusione della fascia profonda ha il significato di preservare e veicolare i vasi cutanei
dominanti, i quali decorrono intimamente a ridosso e nel contesto della fascia stessa. Va tenuto
presente che in seguito al loro impiego possono residuare ernie muscolari in sede di prelievo. Si
tratta di lembi frequentemente impiegati per la riparazione di perdite di sostanza a carico degli
arti,dove l’assetto vascolare fasciale di tipo longitudinale consente la scultura di versatili lembi
lungo l’asse maggiore degli arti stessi.
Lembi neurocutanei
È dimostrata la possibilità di realizzare il trasferimento di un lembo di cute impostato sopra il
decorso di un nervo sensitivo sottostante, che funge da vettore per i vasi ad esso comitanti, in
quanto tali vasi sono in grado di assicurare la vitalità del lembo.
Nella scultura di tali lembi è importante includere una guaina protettiva di tessuto areolare lasso
circostante il nervo, giacché in tale guaina decorrono sia i vasi comitanti sia i vasa nervorum, che in
parte concorrono alla perfusione del lembo stesso.
Lembi miocutanei
Ogni muscolo è potenzialmente utilizzabile per confezionare un trapianto. L’unico limite è
rappresentato dai non trascurabili deficit funzionali ed estetici che possono residuare nell’area
donatrice.
Lembi osteocutanei
Utilizzate quasi esclusivamente come lembi liberi, queste unità consentono la ricostruzione di intere
strutture anatomiche (per es. lembo osteocutaneo di fibula per la ricostruzione dell’intera regione
mandibolare). Le recenti ricerche anatomiche a carico dei vasi perforanti hanno consentito di
dimostrare come isole cutanee connesse a segmenti ossei siano dotate di una buona e sicura
perfusione ematica, consentendo un ampliamento delle loro applicazioni cliniche in chirurgia
ricostruttiva.
Lembi muscolari
Anche il muscolo isolato può rappresentare un trapianto, utilizzato soprattutto per colmare gravi
perdite di sostanza cutanea e sottocutanea; al di sopra del muscolo la riparazione cutanea può essere
effettuata con un lembo di prossimità o con un semplice innesto.
Un esempio è il riempimento della cavità orbitaria dopo exenteratio orbitae con l’impiego del
muscolo temporale opportunamente ruotato.
Anche la rianimazione della muscolatura mimica per correggre i deficit consegueti alla paralisi del
VII nervo cranico (paralisi del faciale) si consegue per mezzo di un trapianto microchirurgico di
unità muscolari rivascolarizzate e reinnervate.
Lembi fasciali
Come già accennato a proposito dei lembi fasciocutanei, i lembi di fascia hanno il significato di
veicolare la rete vascolare ad essi intimamente adesa, migliorando così le condizioni circolatorie
della regione ricevente. Devono essere ricoperti da un lembo cutaneo di prossimità o da un innesto
cutaneo.
Trovano indicazione in quelle situazioni cliniche in cui la copertura con tessuto vitale e perfuso
si associa alla necessità di scarso spessore e/o di notevole duttilità del tessuto trasferito. Il loro
impiego clinico è in espansione, specie per tecniche ricostruttive a seguito di traumi.
Sono unità ricostruttive, la cui prima ideazione risale al pavese Tansini, nei primi anni del
Novecento, ma che sono state riprese, studiate ed utilizzate in larga scala solo a partire dalla fine
degli anni Settanta.
Questi lembi sono impostati sul principio della conservazione dei vasi perforanti, che connettono la
cute ai muscoli sottostanti. Salvaguardando il peduncolo vascolare di un muscolo è possibile
garantire la vitalità anche di una determinata isola di cute soprastante.
A tale proposito i diversi muscoli sono classificabili in 5 diversi sottotipi, in base alle caratteristiche
dei diversi peduncoli vascolari.
Nell’ambito dei lembi compositi una recente innovazione è rappresentata dai lembi prefabbricati. Si
tratta di lembi in cui la composizione tissutale viene non direttamente mutuata da una situazione
anatomica esistente naturalmente bensì chirurgicamente prodotta tramite uno o più interventi
chirugici.
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Lembi prefabbricati
Tali operazioni, definite “di allestimento”, servono per prefabbricare una unità ricostruttiva, che
verrà nel prosieguo trasferita con tecnica microchirurgica.
Tali lembi consentono la riparazione di complesse lesioni pluritessutali, quale per esempio la
ricostruzione della intera piramide nasale nelle sue componenti osteo-cartilaginee e cutanee
mediante un lembo prefabbricato sulla superficie volare dell’avambraccio in cui le componenti
costitutive la piramide nasale da ricostruire siano state opportunamente assemblate nel corso di uno
o più interventi chirurgici pregressi.
Letture suggerite
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Buncke H., Furnas D. (Eds): Clinical Frontiers in Reconstructive Microsurgery. C.V. Mosby
Co., St. Louis, 1984.
Cormack G.C., Lamberty G.H.: The Arterial Anatomy of Skin Flaps. Churchill Livingstone,
London, 1986.
Hewitt C.W., Black K.S. (Ed): Composite Tissue Transplantation. R.G. Landes,
Austin,Texas, 1999.
Masquelet A.C., Gilbert A.: Atlante dei lembi cutanei nella ricostruzione degli arti. Antonio
Delfino Editore, Roma, 2000.
Mathes S.J., Nahai F.: Clinical Atlas of Muscles and Musculocutaneous Flaps. C.V. Mosby
Co., St. Louis, 1979.
McCarthy J.G.: Plastic Surgery, Vol I. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990.
Smith J.W., Aston S.J.: Grabb and Smith’s Plastic Surgery. Little, Brown and Co., Boston,
1990.
Strauch N.,Vasconez L.O.: Grabb’s Encyclopedia of Flaps, Vol I/III. Little, Brown and Co.,
Boston, 1990.
Strauch B., Liang Yu H.: Atlas of Microvascular Surgery. Thieme, New York, 1993.
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Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
Scegli Sezione:
VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
1 Aspetti generali
2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
Capitolo 6
Chirurgia plastica ricostruttiva
della mammella
3 Ustioni
4 Innesti e impianti
5 Trapianti
6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
6.1 Ripristino della cute toracica
G. Boggio Robutti, A. Faga, L. Valdatta
6.2 Creazione della salienza mammaria
6.3 Ricostruzione del complesso areola-capezzolo
6.4 Simmetria delle mammelle
6.5 Letture suggerite
7 Malformazioni congenite
8 Chirurgia estetica
9 Chirurgia craniofacciale
10 Traumatologia maxillofacciale
Il problema della ricostruzione della mammella dopo mastectomia ha assunto grande rilievo negli
ultimi anni per il numero crescente di pazienti che non accettano la menomazione creata
dall’intervento demolitivo e la vivono come un’autentica mutilazione, con gravi ripercussioni
psicologiche, emozionali e relazionali.
I chirurghi del passato erano contrari ad intraprendere una ricostruzione dopo interventi oncologici.
Le ricostruzioni d’altra parte erano limitate dalle difficoltà tecniche riguardanti il trasferimento di
abbondanti quantità di tessuto cutaneo e sottocutaneo.
Tali limiti sono da considerare oggi in gran parte superati,grazie all’avvento degli espansori cutanei,
dei lembi compositi, sia peduncolati sia microchirurgici,delle protesi mammarie. Inoltre, le lunghe
cicatrici verticali e la scheletrizzazione del torace prodotte dalla tecnica di Halsted hanno lasciato il
posto sempre più spesso ad interventi che consentono la conservazione del muscolo grande
pettorale ed una cicatrice residua trasversale assai più idonea ai fini ricostruttivi, cosicché si può
affermare che i risultati estetici oggi ottenibili dalla chirurgia plastica sono molto elevati.
Qualunque sia la tecnica demolitiva praticata dal chirurgo oncologo, prima di affrontare un
intervento ricostruttivo della mammella è necessario raccogliere una accurata anamnesi della
paziente.
La storia familiare positiva per neoplasie mammarie aumenta il rischio delle pazienti del 50%; così
pure sono indispensabili notizie riguardanti eventuali noduli mammari contro-laterali, l’esistenza di
esami bioptici, il tipo di demolizione praticata, la localizzazione e l’entità della lesione rimossa,
l’eventuale compromissione linfonodale.
È altrettanto importante sapere se la paziente è in trattamento chemioterapico o lo ha ricevuto e se è
stata sottoposta a terapia radiante.
L’indagine clinica deve inoltre accertare la qualità dei tessuti residui nella regione da ricostruire: la
disposizione delle cicatrici, l’abbondanza e lo spessore del tessuto sottocutaneo, la cedevolezza
della cute, la presenza del piano muscolare sottostante sono tutti elementi che indirizzano nel tipo di
tecnica ricostruttiva da adottare.
Fondamentale è il consenso del chirurgo generale e dell’oncologo che hanno seguito la paziente
e che debbono essere responsabilmente coinvolti nella decisione di procedere ad una ricostruzione
o di evitarla.
Si tenga presente che le moderne tecniche di indagine strumentale associate ad una maggiore
consapevolezza delle donne nei confronti del “cancro mammario” hanno reso possibile possibile la
sempre più frequente individuazione di forme tumorali precoci, per le quali il trattamento chirurgico
elettivo si configura in interventi di ablazione di quadranti mammari. Tali interventi demolitivi
(quadrantectomie) rendono possibili, in virù della limitata demolizione praticata, ricostruzioni
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immediate basate sull’impiego di lembi scolpiti nel contesto del parenchima mammario residuo; tali
lembi, opportunamente ruotati nel rispetto della relativa vascolarizzazione ed
innervazione,consentono di confezionare una neo-mammella che, per quanto più piccola di quella
originale, ha tuttavia il pregio di essere ricostruita con l’impiego di soli tessuti locali, senza ricorrere
ad altre sedi donatrici autologhe o a impianti. È intuitivo come interventi ricostruttivi di questo tipo
siano di più facile progettazione ed esecuzione rispetto a ricostruzioni mammarie complete e
possano essere effettuati solo per demolizioni parziali, tali da risparmiare un volume di parenchima
mammario sufficiente a garantire una accettabile salienza e proiezione della mammella così
confezionata.
La ricostruzione totale della mammella è basata sulla soluzione di quattro distinti problemi
fondamentali, che possono peraltro essere affrontati anche contemporaneamente, in senso
cronologico, ma sempre rispettandone la sequenza:
x il ripristino dei tessuti cutanei e sottocutanei toracici;
x la creazione del rilievo mammario;
x la ricostruzione del complesso areola-capezzolo;
x la simmetrizzazione della mammella ricostruita con la contro-laterale.
Il problema della ricostruzione della mammella dopo mastectomia ha assunto grande rilievo negli
ultimi anni per il numero crescente di pazienti che non accettano la menomazione creata
dall’intervento demolitivo e la vivono come un’autentica mutilazione, con gravi ripercussioni
psicologiche, emozionali e relazionali.
I chirurghi del passato erano contrari ad intraprendere una ricostruzione dopo interventi oncologici.
Le ricostruzioni d’altra parte erano limitate dalle difficoltà tecniche riguardanti il trasferimento di
abbondanti quantità di tessuto cutaneo e sottocutaneo.
Tali limiti sono da considerare oggi in gran parte superati,grazie all’avvento degli espansori cutanei,
dei lembi compositi, sia peduncolati sia microchirurgici,delle protesi mammarie. Inoltre, le lunghe
cicatrici verticali e la scheletrizzazione del torace prodotte dalla tecnica di Halsted hanno lasciato il
posto sempre più spesso ad interventi che consentono la conservazione del muscolo grande
pettorale ed una cicatrice residua trasversale assai più idonea ai fini ricostruttivi, cosicché si può
affermare che i risultati estetici oggi ottenibili dalla chirurgia plastica sono molto elevati.
Qualunque sia la tecnica demolitiva praticata dal chirurgo oncologo, prima di affrontare un
intervento ricostruttivo della mammella è necessario raccogliere una accurata anamnesi della
paziente.
La storia familiare positiva per neoplasie mammarie aumenta il rischio delle pazienti del 50%; così
pure sono indispensabili notizie riguardanti eventuali noduli mammari contro-laterali, l’esistenza di
esami bioptici, il tipo di demolizione praticata, la localizzazione e l’entità della lesione rimossa,
l’eventuale compromissione linfonodale.
È altrettanto importante sapere se la paziente è in trattamento chemioterapico o lo ha ricevuto e se è
stata sottoposta a terapia radiante.
L’indagine clinica deve inoltre accertare la qualità dei tessuti residui nella regione da ricostruire: la
disposizione delle cicatrici, l’abbondanza e lo spessore del tessuto sottocutaneo, la cedevolezza
della cute, la presenza del piano muscolare sottostante sono tutti elementi che indirizzano nel tipo di
tecnica ricostruttiva da adottare.
Fondamentale è il consenso del chirurgo generale e dell’oncologo che hanno seguito la paziente
e che debbono essere responsabilmente coinvolti nella decisione di procedere ad una ricostruzione
o di evitarla.
Si tenga presente che le moderne tecniche di indagine strumentale associate ad una maggiore
consapevolezza delle donne nei confronti del “cancro mammario” hanno reso possibile possibile la
sempre più frequente individuazione di forme tumorali precoci, per le quali il trattamento chirurgico
elettivo si configura in interventi di ablazione di quadranti mammari. Tali interventi demolitivi
(quadrantectomie) rendono possibili, in virù della limitata demolizione praticata, ricostruzioni
immediate basate sull’impiego di lembi scolpiti nel contesto del parenchima mammario residuo; tali
lembi, opportunamente ruotati nel rispetto della relativa vascolarizzazione ed
innervazione,consentono di confezionare una neo-mammella che, per quanto più piccola di quella
originale, ha tuttavia il pregio di essere ricostruita con l’impiego di soli tessuti locali, senza ricorrere
ad altre sedi donatrici autologhe o a impianti. È intuitivo come interventi ricostruttivi di questo tipo
siano di più facile progettazione ed esecuzione rispetto a ricostruzioni mammarie complete e
possano essere effettuati solo per demolizioni parziali, tali da risparmiare un volume di parenchima
mammario sufficiente a garantire una accettabile salienza e proiezione della mammella così
confezionata.
La ricostruzione totale della mammella è basata sulla soluzione di quattro distinti problemi
fondamentali, che possono peraltro essere affrontati anche contemporaneamente, in senso
cronologico, ma sempre rispettandone la sequenza:
x il ripristino dei tessuti cutanei e sottocutanei toracici;
x la creazione del rilievo mammario;
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x la ricostruzione del complesso areola-capezzolo;
x la simmetrizzazione della mammella ricostruita con la contro-laterale.
varia misura ed orientamento secondo le necessità ricostruttive.
Ripristino della cute toracica
Allorché i tessuti residuati alla demolizione si rivelino insufficienti e siano stati asportati i muscoli
pettorali, sarà necessario portare in quella sede un’adeguata quantità di tessuto cutaneo e
sottocutaneo. A questo fine si può ricorrere alla rotazione di lembi piani peduncolati di prossimità
(Fig. 6.1). Può trattarsi in tal caso o di un lembo toracico laterale o di un lembo toraco-epigastrico.
Il lembo miocutaneo di retto addominale (Transverse Rectus Abdominis Myocutaneous flap,TRAM)
rappresenta oggi un caposaldo della ricostruzione mammaria, in quanto, grazie all’abbondanza del
tessuto sottocutaneo comprendibile nel lembo, consente di ripristinare non solo la perdita di
sostanza cutanea, ma anche il volume mammario, senza impiego di protesi ed in un solo tempo
operatorio, anche contestuale all’atto demolitivo.
Sia il lembo di gran dorsale sia il TRAM possono essere trasferiti come lembi peduncolati o come
lembi liberi microchirurgici (Fig. 6.3).
In mani molto esperte la ricostruzione contemporanea della cute toracica e della salienza mammaria
viene proposta anche mediante trasferimento microchirurgico di lembo miocutaneo di grande
gluteo.
Quando la demolizione abbia invece conservato cute elastica e sana, mantenendo il muscolo
pettorale e lasciando una cicatrice trasversale, il semplice scollamento cutaneo può consentire
l’avanzamento in alto di abbondante tessuto addominale. Più frequentemente si ricorre in questi
casi all’e-spansione cutanea, grazie alla quale si può aumentare la superficie cutanea in misura tale
da ottenere una mammella ricostruita addirittura ptosica, rendendo così ancora più naturale il
risultato.
Quando invece la mastectomia ha residuato tessuti fortemente retratti per azione della cicatrice
residua o in condizioni qualitativamente scadenti per terapie radianti successive è necessario
ricorrere al trasferimento di tessuti da sedi lontane, ricorrendo ad un lembo miocutaneo. La
rotazione del muscolo grande dorsale (Fig. 6.2) consente una valida sostituzione del piano del
muscolo grande pettorale, quando questo sia stato asportato ed il trasferimento di isole cutanee di
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Creazione della salienza mammaria
Come precedentemente detto, la salienza mammaria può essere validamente ripristinata con tessuti
autologhi mediante trasferimento di unità miocutanee. In alternativa, ottimi risultati sono ottenibili
mediante impianto di una protesi, purché, come ogni impianto alloplastico, collocata al di sotto di
un tessuto spesso ed eutrofico.
Le protesi attualmente disponibili sul mercato sono costituite da una sacca di materiale
impermeabile, ripiene di fluido, che dona alla protesi una consistenza simile a quella del
parenchima mammario.
Ne esistono di svariate forme e dimensioni e sono classificabili in base alle caratteristiche della
sacca contenitrice e del contenuto.
Una protesi mammaria di recente commercializzata, definita come “anatomica”, rappresenta
l’ultimo ritrovato della tecnologia relativa agli impianti mammari: tale impianto, consentendo un
selettivo recupero di proiezione nei quadranti mammari inferiori, conferisce al cono mammario
ricostruito maggiore naturalezza.
La legislazione che regolamenta l’utilizzo delle protesi mammarie, in ordine sia alle indicazioni sia
al tipo di protesi, varia da paese a paese. Attualmente (2001) in Italia è consentito l’impianto di
qualsiasi tipo di protesi, sia con indicazioni ricostruttive sia con indicazioni estetiche.
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Ricostruzione del complesso areolacapezzolo
Il tessuto più idoneo per ricostruire l’areola (Fig. 6.4) è quello dell’areola contro-laterale che può
essere prelevato nella misura del 50% e trasferito come innesto libero; analogamente il capezzolo
residuo può essere parzialmente amputato ed usato per la ricostruzione.
Tale tecnica viene elettivamente impiegata quando si effettui un modellamento in senso riduttivo
della mammella controlaterale. In alternativa, si può ricorrere ad innesti di mucosa delle piccole
labbra, che presentano però spesso una eccessiva pigmentazione. Il capezzolo viene creato
elevando una porzione di cute alla sommità della mammella ricostruita. Ottimi risultati si
ottengono anche con la pigmentazione mediante tatuaggio.
2494
Simmetria delle mammelle
In genere non è possibile ottenere una nuova mammella assolutamente identica alla contro-laterale;
per ovviare a tale inconveniente si dovrà ricorrere ad una mastoplastica riduttiva, se quella è di
volume eccessivo, o ad una mastoplastica additiva se è di volume insufficiente.
Tali interventi volti al recupero della simmetria mammaria si rendono spesso necessari anche a
seguito di quadrantectomie riparate con rotazioni di lembi locali di ghiandola mammaria residua.
Non deve mai essere sottovalutato il concetto che in una paziente operata per carcinoma mammario
anche la mammella sana presenta un elevato rischio di malattia. Sia un intervento riduttivo sia
l’inserimento di una protesi dovrebbero essere affrontati solo su richiesta della paziente e dopo
averla informata del possibile rischio.
A questo proposito va considerato che l’atteggiamento psicologico della paziente è l’unico valido
motivo per interventi estetici in campo oncologico e che una buona percentuale di pazienti si ritiene
soddisfatta dalla semplice creazione della salienza mammaria rifiutando non solo il raggiungimento
della simmetria, ma spesso anche la ricostruzione dell’areola e del capezzolo.
2495
Scegli Sezione:
VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
1 Aspetti generali
2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
Letture suggerite
z
z
z
z
3 Ustioni
Ambroggio G.P., Oberto E.: La Ricostruzione Mammaria. Masson, Milano, 1990.
Bostwick J. III: Chirurgia Ricostruttiva ed Estetica della Mammella. Capozzi, Roma, 1986.
Kroll S.S.: Breast Reconstruction with Autologous Tissue. Springer, New York, 2000.
Veronesi U.: Senologia oncologica. Masson, Milano, 1999.
4 Innesti e impianti
5 Trapianti
6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
7 Malformazioni congenite
7.1 Malformazioni della testa e del collo
7.2 Malformazioni del tronco
7.3 Malformazioni delle mani e dei piedi
7.4 Malformazioni dei genitali esterni
7.5 Letture suggerite
8 Chirurgia estetica
9 Chirurgia craniofacciale
10 Traumatologia maxillofacciale
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2497
Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
Capitolo 7
Malformazioni congenite
G. Boggio Robutti, A. Faga, G. Nicoletti
Le malformazioni congenite sono alterazioni della normale morfologia corporea determinate da un
errore di sviluppo nel corso della vita intrauterina.
Le malformazioni che interessano la chirurgia plastica sono quelle relative alle strutture esterne
della faccia, del collo, della regione mammaria, delle mani, dei piedi e dei genitali esterni.
Patogenesi
I meccanismi patogenetici delle malformazioni congenite possono essere schematicamente suddivisi
in due categorie.
z Meccanismi displasici: in questo caso l’anomalo sviluppo di una regione deriva da una
precoce o tardiva comparsa dei normali fenomeni di inibizione dello sviluppo stesso. Nel
primo caso si avrà la costituzione di una ipoplasia (per es. nella focomelia), nel secondo si
avrà un’iperplasia (per es. nella macrodattilia).
z Meccanismi disrafici: la formazione deriva dalla mancata saldatura di fessure e di soluzioni
di continuo che sono normalmente presenti nei vari stadi della vita embrionale. In linea di
massima quanto più precocemente agisce la noxa patogena tanto più grave sarà la
malformazione che ne deriva; particolarmente gravi sono quindi le malformazioni che
originano nel periodo della organogenesi e cioè nel primo trimestre di vita intrauterina.
La correzione di una malformazione congenita da parte del chirurgo plastico richiede
un’accurata pianificazione dei tempi chirurgici, che sono spesso molteplici; un risultato definitivo
si può infatti avere solo al termine dello sviluppo corporeo.
Frequenza
Non esistono statistiche relative all’incidenza delle malformazioni congenite in senso assoluto,
poiché vi sono malformazioni congenite che determinano alterazioni modeste e che non vengono
quindi denunciate. In altri casi, come in certi angiomi cutanei, si manifestano con lesioni
inizialmente modeste che, nel corso dello sviluppo del corpo, assumono dimensioni ed aspetti
clinici anche di notevole gravità.
Nel nostro territorio, come in tutti i Paesi evoluti, il numero dei nati malformati è in
diminuzione; ciò è da correlare con:
x decremento della natalità;
x migliorato standard economico-sociale-culturale medio;
x diffusione delle pratiche di igiene e di prevenzione prenatale.
Al contrario, nei Paesi del cosiddetto “Terzo mondo” la presenza percentuale di nati malformati è
costante.
Eziologia
L’eziologia della malformazione congenita può essere fondamentalmente suddivisa in due tipi di
fattori: fattori endogeni o fetali e fattori esogeni o materni.
I fattori endogeni comprendono le alterazioni del patrimonio genetico del neonato trasmesse per via
ereditaria; le alterazioni genetiche riferibili ad una mutazione spontanea; le malattie da alterazione
del numero di cromosomi sia autosomici, come nella sindrome di Down, sia sessuali come nelle
sindromi di Turner, Klinefelter ecc.
I fattori esogeni sono fattori di origine ambientale che possono interferire sullo sviluppo di un
embrione, quali: traumi meccanici, processi flogistici a livello del sacco amniotico, deficit
circolatori a livello placentare, malattie sistemiche metaboliche e/o ormonali della madre, deficit
alimentari e vitaminici, assunzione di farmaci potenzialmente teratogeni come ormoni, antiblastici,
cortisonici, analgesici, psicofarmaci, antibiotici, alcolismo, tabagismo e tossicodipendenza,
esposizione a radiazioni ionizzanti, malattie infettive da vari agenti patogeni (toxoplasmosi, sifilide,
rosolia ecc.).
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2499
Le malformazioni congenite sono alterazioni della normale morfologia corporea determinate da un
errore di sviluppo nel corso della vita intrauterina.
Le malformazioni che interessano la chirurgia plastica sono quelle relative alle strutture esterne
della faccia, del collo, della regione mammaria, delle mani, dei piedi e dei genitali esterni.
Frequenza
Non esistono statistiche relative all’incidenza delle malformazioni congenite in senso assoluto,
poiché vi sono malformazioni congenite che determinano alterazioni modeste e che non vengono
quindi denunciate. In altri casi, come in certi angiomi cutanei, si manifestano con lesioni
inizialmente modeste che, nel corso dello sviluppo del corpo, assumono dimensioni ed aspetti
clinici anche di notevole gravità.
originano nel periodo della organogenesi e cioè nel primo trimestre di vita intrauterina.
La correzione di una malformazione congenita da parte del chirurgo plastico richiede
un’accurata pianificazione dei tempi chirurgici, che sono spesso molteplici; un risultato definitivo
si può infatti avere solo al termine dello sviluppo corporeo.
Malformazioni della testa e del collo
Lo studio delle malformazioni congenite non può prescindere dalla conoscenza dello sviluppo
dell’embrione. In particolare, l’osservazione della testa embrionale (Fig. 7.1) è essenziale per la
comprensione della patogenesi del maggior numero di malformazioni ivi reperibili.
Nel nostro territorio, come in tutti i Paesi evoluti, il numero dei nati malformati è in
diminuzione; ciò è da correlare con:
x decremento della natalità;
x migliorato standard economico-sociale-culturale medio;
x diffusione delle pratiche di igiene e di prevenzione prenatale.
Al contrario, nei Paesi del cosiddetto “Terzo mondo” la presenza percentuale di nati malformati è
costante.
Eziologia
L’eziologia della malformazione congenita può essere fondamentalmente suddivisa in due tipi di
fattori: fattori endogeni o fetali e fattori esogeni o materni.
I fattori endogeni comprendono le alterazioni del patrimonio genetico del neonato trasmesse per via
ereditaria; le alterazioni genetiche riferibili ad una mutazione spontanea; le malattie da alterazione
del numero di cromosomi sia autosomici, come nella sindrome di Down, sia sessuali come nelle
sindromi di Turner, Klinefelter ecc.
I fattori esogeni sono fattori di origine ambientale che possono interferire sullo sviluppo di un
embrione, quali: traumi meccanici, processi flogistici a livello del sacco amniotico, deficit
circolatori a livello placentare, malattie sistemiche metaboliche e/o ormonali della madre, deficit
alimentari e vitaminici, assunzione di farmaci potenzialmente teratogeni come ormoni, antiblastici,
cortisonici, analgesici, psicofarmaci, antibiotici, alcolismo, tabagismo e tossicodipendenza,
esposizione a radiazioni ionizzanti, malattie infettive da vari agenti patogeni (toxoplasmosi, sifilide,
rosolia ecc.).
Patogenesi
I meccanismi patogenetici delle malformazioni congenite possono essere schematicamente suddivisi
in due categorie.
z Meccanismi displasici: in questo caso l’anomalo sviluppo di una regione deriva da una
precoce o tardiva comparsa dei normali fenomeni di inibizione dello sviluppo stesso. Nel
primo caso si avrà la costituzione di una ipoplasia (per es. nella focomelia), nel secondo si
avrà un’iperplasia (per es. nella macrodattilia).
z Meccanismi disrafici: la formazione deriva dalla mancata saldatura di fessure e di soluzioni
di continuo che sono normalmente presenti nei vari stadi della vita embrionale. In linea di
massima quanto più precocemente agisce la noxa patogena tanto più grave sarà la
malformazione che ne deriva; particolarmente gravi sono quindi le malformazioni che
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Per quanto riguarda l’estremo cefalico, le malformazioni più frequenti sono da inquadrare
nell’ambito delle disrafie. In questo ambito si possono raggruppare il labbro leporino e la
palatoschisi (assai frequenti) e schisi più rare, definite con il termine generico di colobomi.
È fondamentale sottolineare che il meccanismo patogenetico che porta alla mancata saldatura dei
diversi abbozzi embrionari è da riferire ad un difetto di sviluppo e quindi di progressione del
mesenchima:è per questo che nella sede di una malformazione disrafica si osserva regolarmente non
solo un’anomala fissurazione ma anche un reale deficit, di maggiore o minore entità, dei tessuti di
origine mesenchimale (ossa, cartilagini, muscoli eccetera).
Labbro leporino
Con il termine di labbro leporino (o labioschisi o cheiloschisi) si intende la schisi del labbro
superiore (Fig. 7.2). Essa deriva da un difetto di fusione tra il processo mascellare ed i processi
nasali. Si distinguono diverse varietà.
z Cheiloschisi cicatriziale, nella quale non esiste una vera schisi ma è presente una cicatrice
verticale che suggerisce l’idea di un’azione malformativa arrestatasi e regredita
spontaneamente.
z Cheiloschisi incompleta, quando la schisi interessa il labbro in vario grado dal bordo fino al
pavimento della narice che non ne viene però interessato.
2501
z
Cheiloschisi completa, quando la schisi interessa oltre al labbro in tutto il suo spessore anche
il pavimento della narice ed il palato primario (porzione di palato che si estende dal processo
alveolare al forame incisivo).
fonetiche di varia gravità secondo il grado di compromissione del palato molle; la mancata chiusura
posteriore della cavità nasale durante la pronuncia di consonanti esplosive determina una rinolalia
aperta molto sgradevole e nei casi più gravi rende incomprensibile il linguaggio.
La terapia chirurgica consiste nell’avvicinamento sulla linea mediana e nella sutura dei due lembi palatini
mucoperiostei con ricostruzione della continuità delle fibre muscolari del palato molle,così da consentirne
la motilità.
L’epoca più adatta per l’intervento è generalmente situata tra i 9 ed i 12 mesi di vita: l’intervento
deve essere eseguito bilanciando da un lato la necessità di fornire al paziente uno strumento
anatomico atto alla fonazione, prima che si siano completati i circuiti nervosi a ciò preposti,
dall’altro la necessità di evitare troppo precocemente cicatrici che possono interferire sullo sviluppo
dell’intero massiccio facciale.
Colobomi
Con questo termine generico si indica un gruppo di malformazioni del volto, abbastanza rare,
rappresentate da una o più schisi in corrispondenza dei solchi embrionari.
In tutte le cheiloschisi, ma in maggiore misura in quelle complete, sono sempre presenti una
ipoplasia dell’osso mascellare ed una deformazione dell’ala nasale dello stesso lato. La cheiloschisi
può essere monolaterale o bilaterale ed associata variamente in tutti i possibili gradi di gravità.
Nelle forme bilaterali è sempre presente una protrusione verso l’alto e l’avanti del prolabio,
porzione di labbro compresa fra le due schisi; esso è inoltre spesso ipoplasico.
La riparazione chirurgica ha lo scopo di ripristinare la continuità anatomica del labbro ricostruendo i piani
cutaneo, muscolare e mucoso fino ad ottenere un ripristino non solo estetico ma anche funzionale del
labbro; ristabilire la continuità dell’arcata alveolare, qualora risulti interrotta, così da consentire una
adeguata eruzione dentaria; riposizionare correttamente gli elementi dello scheletro del naso, in varia
misura dismorfici e distopici.
L’epoca dell’intervento varia a seconda delle scuole e della personale esperienza del chirurgo; è
comunque opportuno intervenire nei primi mesi di vita del paziente per ragioni funzionali, poiché la
schisi del labbro impedisce la suzione, soprattutto quando si tratta di una schisi bilaterale. Nei
pazienti affetti da cheiloschisi sono sempre presenti anomalie dentarie ed occlusali di vario grado
che richiedono la collaborazione dell’ortodontista.
Possono essere schematicamente suddivisi nel modo seguente.
x Colobomi obliqui (naso-oculari ed oro-oculari), derivanti da un difetto di fusione tra il processo
mascellare ed il processo nasale laterale (Fig. 7.3).
x Colobomi trasversi (oro-auricolari), derivanti da un difetto di saldatura tra il processo
mascellare ed il processo mandibolare. Ne risulta una forma clinica definita macrostomia; possono
essere associati a microtia ed a dislocazione in avanti ed in basso dell’orecchio con ipoplasia
dell’emimandibola corrispondente.
x Colobomi mandibolari, risultanti dalla mancata saldatura lungo la linea mediana del primo arco
branchiale. Possono limitarsi ad una semplice incisura sul bordo rosa del labbro inferiore o
determinare una schisi totale della sinfisi mentoniera.
Palatoschisi
La schisi del palato origina da un meccanismo patogenetico differente da quello della schisi del
labbro, con la quale tuttavia è frequentemente associata. Il palato secondario si costituisce verso la
settima-ottava settimana di gestazione e le due lamine ossee palatine, in precedenza verticali per la
presenza della lingua, ruotano di 90° disponendosi su un piano orizzontale e congiungendosi sulla
linea mediana; avviene così la separazione della cavità orale dalle fosse nasali; il palato molle si
costituisce successivamente. La schisi del palato secondario può essere completa quando interessa
sia il palato duro che il palato molle o essere limitata al palato molle: in tal caso viene definita
veloschisi. La palatoschisi comporta problemi alimentari perché la presenza di comunicazione tra
cavità orale e nasale impedisce la suzione per l’impossibilità di creare il vuoto nella cavità orale.
L’alimentazione viene quindi ostacolata, ma il piccolo paziente impara rapidamente ad alimentarsi
con un cucchiaio. La possibile permanenza di detriti alimentari nella cavità nasale e l’alterazione
della massa d’aria che l’attraversa possono provocare uno stato flogistico cronico con riniti,
ipertrofia delle tonsille ed otiti. L’alterazione dell’anatomia palatina causa sempre alterazioni
2502
Tra i difetti derivanti da errori di saldatura e di sviluppo degli archi branchiali ricordiamo ancora per
2503
la loro frequenza:
z le fistole congenite del padiglione auricolare;
z la poliotia, rappresentata da piccole formazioni cutanee con contenuto cartilagineo situate
davanti al trago e lungo la linea oro-auricolare;
z la sindrome di Franceschetti, caratterizzata da associazione di varie malformazioni: microtia,
atresia del condotto uditivo, micrognazia mandibolare, appiattimento delle ossa malari, palato
ogivale. Esse danno luogo ad un aspetto caratteristico detto “a profilo di uccello”. La
sindrome è bilaterale ma può essere monolaterale e prende in tal caso il nome di TreacherCollins;
z le fistole laterali del collo;
z la disrafia mento-sternale, rappresentata da una schisi più o meno accentuata, a livello della
linea mediana, del collo che origina alla sinfisi mentoniera giungendo fino al manubrio
sternale ed anche oltre.
Un’altra malformazione che a livello del collo interessa il chirurgo plastico è lo pterigio, che
consiste in una plica cutanea mono o bilaterale situata in corrispondenza del margine superiore del
muscolo trapezio;la malformazione può essere singola o associata con altre come nel caso della
sindrome di Turner.
cartilagine autoplastica prelevata dalla regione costale.
Microtie
Si tratta di ipoplasie di vario grado a carico del padiglione auricolare, frequentemente associate ad
iposviluppo o ad atresia del condotto uditivo esterno (Fig. 7.4). La forma più grave, rara, è la
anotia, assenza totale dell’orecchio esterno. Nelle forme di media gravità, di più frequente
osservazione, è presente il lobulo del padiglione auricolare, variamente deformato ed orientato, al di
sopra del quale permane un informe rudimento di scheletro cartilagineo dell’orecchio. In questi casi
è spesso presente anche un deficit uditivo, da iposviluppo dell’orecchio medio.
La ricostruzione del padiglione auricolare è un intervento di natura esclusivamente plastica, mentre
l’aspetto funzionale della malformazione è di competenza dell’otorinolaringoiatra.
Gli interventi sono sempre molteplici e devono essere pianificati al fine di ottenere la normalizzazione del
padiglione auricolare possibilmente prima dell’età scolare.
La ricostruzione si esegue rimuovendo tutti gli abbozzi cartilaginei deformi, mantenendo l’integrità
della cute soprastante, sotto la quale va collocato un nuovo scheletro costituito da elementi di
2504
2505
Malformazioni del tronco
Malformazioni delle mani e dei piedi
Le più frequenti malformazioni a carico del tronco sono le seguenti.
Le più comuni sono la polidattilia e la sindattilia sia a carico delle mani sia dei piedi.
z Polidattilia: consiste nella presenza di una o più dita soprannumerarie. Può essere isolata o
essere associata con altre malformazioni.
z Sindattilia: consiste nella fusione a vari livelli di due o più dita (Fig. 7.5). La fusione può
riguardare solo la cute o giun-gere alla saldatura delle strutture scheletriche realizzando vere
sinostosi; può interessare una o più falangi fino a realizzare il quadro della mano palmata o,
nei casi più gravi, dell’acrosindattilia.
z Onfalocele, provocato dalla mancata riduzione dell’intestino e, nei casi più gravi, anche del
fegato e della milza nella cavità addominale in corrispondenza della cicatrice ombelicale. Si
differenzia dall’ernia ombelicale per l’assenza del peritoneo al suo interno.
z Sventramenti addominali congeniti con conseguenti ernie viscerali.Tutte queste malformazioni
sono, per la presenza di una patologia viscerale, di competenza del chirurgo infantile piuttosto che
del chirurgo plastico.
z Pectus excavatum, malformazione sternale che porta ad una depressione della parete toracica
anteriore.
z Di notevole interesse per il chirurgo plastico sono le malformazioni mammarie, soprattutto nel
sesso femminile, nel quale è frequente la ipoplasia di una o di entrambe le mammelle. Nel primo
caso si verifica una asimmetria che si manifesta solo al momento dello sviluppo della ghiandola
mammaria quando a quella ipoplasica si contrappone la contro-laterale sana. In entrambi i sessi si
può verificare una polimastia costituita da mammelle soprannumerarie e rudimentali o una politelia
quando il difetto interessi i soli capezzoli.L’amastia e l’atelia definiscono l’assenza della mammella
o del capezzolo con un danno evidentemente maggiore nel sesso femminile. Tra le malformazioni
del capezzolo la più frequente è la sua invaginazione verso l’interno della mammella per la
anormale brevità dei dotti galattofori.La ginecomastia,relativa al solo sesso maschile,è provocata da
un abnorme aumento del volume delle ghiandole mammarie che le rende simili a quelle femminili.
z Spina bifida: è una malformazione della parete posteriore del tronco di varia gravità
caratterizzata da una schisi della colonna vertebrale per un errore di saldatura lungo la linea
mediana degli archi vertebrali. La varietà più lieve viene denominata spina bifida occulta perché è
spesso inapparente, mentre nei casi più gravi si ha la spina bifida cistica che comprende il
meningocele o ernia delle guaine meningee, il mielomeningocele quando nel sacco erniario si
ritrovano oltre alle meningi anche elementi nervosi ed il mielocele quando tutti gli elementi della
colonna vertebrale e del midollo spinale si estrinsecano all’esterno: in quest’ultimo caso la spina
bifida è associata a paralisi degli arti inferiori e ad incontinenza degli sfinteri. L’opera del chirurgo
plastico è comunque di puro supporto a quella del neurochirurgo.
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Malformazioni dei genitali esterni
Genitali maschili
Letture suggerite
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La più frequente malformazione dei genitali maschili è l’ipospadia, nella quale il meato uretrale
anziché sulla punta del glande si apre sulla superficie ventrale del pene a varie altezze. È causata
dalla mancata fusione delle pieghe genitali disposte lateralmente al seno urogenitale. A seconda
dell’epoca di azione della noxa patogena si avrà l’apertura del meato in posizione più o meno
prossimale. Si distinguono quindi una ipospadia perineale, spesso associata con una marcata
femminilizzazione di tutto l’apparato genitale con pene piccolo e criptorchidismo, un’ipospadia
peniena, che è la forma più frequente e nella quale lo sviluppo del pene e dei testicoli è
perfettamente normale, una ipospadia balanica, che è la forma più lieve e non necessita di
correzioni chirurgiche se non per ragioni psicologiche e di normalizzazione estetica.
Nella maggior parte dei casi di ipospadia è presente un cordone fibroso di tipo cicatriziale in
corrispondenza del decorso dell’uretra che provoca un incurvamento ventrale del pene
nell’erezione.
L’epispadia è una malformazione molto più rara e più grave della precedente ed è costituita dallo
sbocco del canale uretrale sulla superficie dorsale del pene. Una forma frequente e molto grave è la
varietà penopubica, che si associa ad estrofia vescicale ed incontinenza urinaria.
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Genitali femminili
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L’interesse del chirurgo plastico nelle malformazioni dei genitali femminili si limita all’atresia
della vagina. L’opera ricostruttiva avviene in questi casi in stretta collaborazione con il
ginecologo.Nella pratica clinica la creazione di una neovagina si collega più frequentemente con
problemi d’intersessualità.
2508
z
Goodrich J.J., Hall C.D.: Craniofacial Anomalies: Growth and Development from a Surgical
Perspective.Thieme Medical Publishers, New York, 1995.
Jurkiewicz M.J., Krizek T.J., Mathes S.J., Ariyan S.: Plastic surgery,Vol. I. C.V. Mosby Co.,
St. Louis, 1990.
Lister G.: The Hand, 3rd ed. Churchill Livingstone, New York, 1993.
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Millard D.R. Jr.: Cleft Craft. Little, Brown and Co., Boston, 1977.
Mustardé J.C., Jackson I.T.: Plastic Surgery in Infancy and Childhood. Churchill Livingstone,
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Perovic S.V.: Atlas of congenital anomalies of the external genitalia. Refot-Arka, Skopie,
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Walsh P.C., Retik A.B., Vaughn E.D., Wein A.J.: Campbell’s Urology, 7th ed. W.B.Saunders
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2509
Scegli Sezione:
VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
1
Aspetti generali
2
Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
3
Ustioni
4
Innesti e impianti
5
Trapianti
6
Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
7
Malformazioni congenite
8
Chirurgia estetica
Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
Capitolo 8
Chirurgia estetica
G. Boggio Robutti, A. Faga, S. Scevola
8.1 Naso
La chirurgia estetica rappresenta una particolare applicazione della chirurgia plastica, in cui le
competenze operative proprie della disciplina vengono rivolte non alla correzione di quadri
patologici, ma di tratti morfologici non graditi dal paziente o non aderenti ai canoni estetici del
momento, pur essendo compatibili con la norma.Ne consegue che la chirurgia estetica riconosce
indicazioni esclusivamente soggettive. Le motivazioni che spingono un paziente a richiedere un
intervento di chirurgia estetica sono puramente psicologiche, anche se spesso pienamente
giustificate e comprensibili, ma il chirurgo in questi casi può e deve valutare solo la possibilità di
soddisfare tecnicamente le richieste. Ne deriva quindi un rapporto tra chirurgo e paziente del tutto
particolare, sia sul piano psicologico che contrattuale, con le conseguenti particolari implicazioni
medico-legali.
8.2 Padiglione auricolare
8.3 Palpebre
8.4 Viso
8.5 Mammelle
8.6 Addome
8.7 Natiche e fianchi
8.8 Braccia e cosce
8.9 Tatuaggi
8.10 Tecniche di resurfacing del volto
Un intervento di chirurgia plastica ha sempre indicazioni di carattere oggettivo, perché
l’operatore può valutare il difetto da correggere come una deviazione dalla norma.Un intervento di
chirurgia estetica, invece, scaturisce da una richiesta di adeguamento di una morfologia normale ad
un soggettivo ideale di bellezza e quindi di correzione di difetti valutabili come tali solo dal
paziente.
8.11 Autotrapianto di capelli
8.12 Letture suggerite
9
Chirurgia craniofacciale
10 Traumatologia maxillofacciale
I pazienti che richiedono questi interventi vivono un dissidio tra il proprio aspetto fisico e
l’immagine interiore di sé; ne derivano talora veri e propri quadri psicotici. In questi casi il soggetto
va riconosciuto come anormale ed inviato allo psichiatra; ogni risultato chirurgico sarebbe infatti
inferiore all’aspettativa anche se l’intervento fosse ben riuscito e non sarebbe in grado quindi di
risolvere il vero problema umano e sociale del paziente. In tutti i casi è comunque sempre
necessario un approccio psicologico di base che deve essere eseguito dal chirurgo, competente sia a
livello dell’indicazione chirurgica sia a livello psicologico.
Un intervento di chirurgia estetica può essere complicato da eventi negativi che possono provocare
danni sia morfologici che funzionali. Il chirurgo deve preventivamente informare il paziente di
queste possibilità, oltre che dei motivi che possono sconsigliare l’esecuzione dell’intervento
richiesto. Gli interventi di chirurgia estetica possono essere schematicamente raggruppati come
segue.
2510
2511
La chirurgia estetica rappresenta una particolare applicazione della chirurgia plastica, in cui le
competenze operative proprie della disciplina vengono rivolte non alla correzione di quadri
patologici, ma di tratti morfologici non graditi dal paziente o non aderenti ai canoni estetici del
momento, pur essendo compatibili con la norma.Ne consegue che la chirurgia estetica riconosce
indicazioni esclusivamente soggettive. Le motivazioni che spingono un paziente a richiedere un
intervento di chirurgia estetica sono puramente psicologiche, anche se spesso pienamente
giustificate e comprensibili, ma il chirurgo in questi casi può e deve valutare solo la possibilità di
soddisfare tecnicamente le richieste. Ne deriva quindi un rapporto tra chirurgo e paziente del tutto
particolare, sia sul piano psicologico che contrattuale, con le conseguenti particolari implicazioni
medico-legali.
Padiglione auricolare
Le orecchie a ventola sono causa di notevole disagio psicologico soprattutto nell’età scolare.
L’intervento può essere eseguito sia nell’età prescolare che nell’età adulta; esso non interferisce
comunque con lo sviluppo normale del padiglione auricolare. I risultati sono molto buoni poiché le
cicatrici rimangono ben dissimulate nei solchi del padiglione.
Un intervento di chirurgia plastica ha sempre indicazioni di carattere oggettivo, perché
l’operatore può valutare il difetto da correggere come una deviazione dalla norma.Un intervento di
chirurgia estetica, invece, scaturisce da una richiesta di adeguamento di una morfologia normale ad
un soggettivo ideale di bellezza e quindi di correzione di difetti valutabili come tali solo dal
paziente.
I pazienti che richiedono questi interventi vivono un dissidio tra il proprio aspetto fisico e
l’immagine interiore di sé; ne derivano talora veri e propri quadri psicotici. In questi casi il soggetto
va riconosciuto come anormale ed inviato allo psichiatra; ogni risultato chirurgico sarebbe infatti
inferiore all’aspettativa anche se l’intervento fosse ben riuscito e non sarebbe in grado quindi di
risolvere il vero problema umano e sociale del paziente. In tutti i casi è comunque sempre
necessario un approccio psicologico di base che deve essere eseguito dal chirurgo, competente sia a
livello dell’indicazione chirurgica sia a livello psicologico.
Un intervento di chirurgia estetica può essere complicato da eventi negativi che possono provocare
danni sia morfologici che funzionali. Il chirurgo deve preventivamente informare il paziente di
queste possibilità, oltre che dei motivi che possono sconsigliare l’esecuzione dell’intervento
richiesto. Gli interventi di chirurgia estetica possono essere schematicamente raggruppati come
segue.
Naso
La correzione di una eccessiva dimensione del naso così come di una sua deviazione laterale o di
una eccessiva depressione del dorso è l’intervento chirurgico fra i più frequentemente richiesti.
Una rinoplastica può essere eseguita solo al termine dello sviluppo corporeo del paziente,
all’incirca dopo i 16 anni nella femmina e dopo i 18 nel maschio. La tecnica è basata sul
modellamento dello scheletro osseo e cartilagineo del naso attraverso incisioni vestibolari che non
lasciano alcuna cicatrice visibile. Nel caso della depressione del dorso nasale l’intervento si avvarrà
di innesti autologhi di osso o di cartilagine per ricostituire il deficit scheletrico.
2512
2513
Palpebre
Viso
La cute della palpebra superiore è soggetta, per il suo naturale invecchiamento, ad una ptosi che la
porta a divenire sempre più sovrabbondante ed a disturbare, nei casi più gravi, anche il
sollevamento della palpebra stessa provocando disagio funzionale al paziente. L’intervento
correttivo di blefaroplastica consiste nell’asportazione della cute in eccesso lasciando una cicatrice
che è situata in corrispondenza del solco tarso-orbitale e diviene quindi praticamente invisibile.
Le palpebre inferiori vengono corrette più frequentemente nell’anziano, ma possono richiedere una
correzione anche nel soggetto giovane costituzionalmente predisposto; esse appaiono rigonfie alla
loro base a causa della pressione del grasso retrobulbare associata ad una eccessiva debolezza dello
strato muscolo-connettivale così da configurare il quadro clinico di una vera e propria “ernia”.
L’intervento consiste nell’eliminare l’eccesso di tessuto adiposo retrobulbare e nel ricostruire il
piano muscolo-aponeurotico indebolito; l’incisione è situata a livello del margine della palpebra,
subito al di sotto dell’impianto delle ciglia, o a livello congiuntivale.
Il naturale processo dell’invecchiamento determina il cedimento dei tessuti anche a livello del viso
provocando la costituzione di pieghe e rughe che dichiarano impietosamente l’età del soggetto.
L’intervento di correzione si chiama ritidectomia o più comunemente face lifting e consiste nello
scollamento della cute del viso e del collo attraverso un’incisione praticata sul cuoio capelluto e sui
margini anteriore e posteriore del padiglione auricolare dei due lati.Viene quindi resecata la cute
eccedente; per migliorare il sostegno e quindi il risultato nel tempo dell’intervento eseguito si
procede al modellamento ed al fissaggio ai piani profondi del sistema muscolo-aponeurotico
superficiale (SMAS). Nei casi in cui sia richiesta, più che una distensione cutanea, una profonda
modificazione dei tratti fisionomici, si utilizza una tecnica relativamente più nuova, il lifting
sottoperiosteo (mask lift), in cui tutti i tessuti molli del volto vengono scollati “en bloc” dallo
scheletro e riposizionati nel modo desiderato mediante fissazione all’osso ed alla fascia temporale. I
risultati del face-lifting si mantengono per diversi anni e le cicatrici sono facilmente occultabili tra i
capelli. Le possibili complicazioni dell’intervento sono principalmente legate all’insorgenza di
ematomi postoperatori o, nello scollamento della cute del viso, alla possibilità di danneggiare rami
del nervo facciale.
2514
2515
Mammelle
Addome
Il seno può presentare difetti per ipertrofia, per ptosi, per ipoplasia.
L’ipertrofia crea problemi non solamente estetici ma anche di tipo funzionale perché, soprattutto se
accentuata, può causare una tensione dolorosa della cute, solchi sulle spalle per la compressione
delle spalline del reggiseno, lordosi e scoliosi, intertrigini ed eczemi nel solco sottomammario.
L’ipertrofia mammaria è naturalmente sempre associata ad una ptosi provocata dal peso della
mammella; la ptosi può però verificarsi anche in una mammella normale o addirittura ipotrofica a
causa dell’invecchiamento o per un cospicuo dimagramento o ancora come esito di un prolungato
allattamento. L’ipertrofia mammaria viene corretta con un intervento che ha due momenti
fondamentali: dapprima una resezione cutanea e ghiandolare per ottenere un volume ottimale,
successivamente la ricostituzione del cono mammario.
Nelle ptosi si eseguono interventi analoghi che ovviamente non prevedono il tempo della resezione
ghiandolare ma solamente l’asportazione dell’eccesso di cute ed il rimodellamento della ghiandola
presente. Talora alla ptosi mammaria si può associare anche l’introduzione, quando la ghiandola
residua non è sufficiente per ricostituire un seno di volume normale, di una protesi mammaria che
assicuri maggiore consistenza. Le cicatrici che conseguono ad un intervento di mastoplastica
riduttiva o di mastopessi sono sempre visibili e situate in sede periareolare, lungo il polo inferiore
della mammella e,nei casi più gravi,lungo il solco sottomammario. Possono tuttavia essere
occultate con un normale reggiseno ed il danno estetico che provocano è quindi accettabile.
L’intervento di mastoplastica riduttiva viene sempre condotto in maniera da non alterare la funzione
dell’allattamento e da mantenere il più possibile integra anche la sensibilità della areola e del
capezzolo.
L’ipoplasia mammaria, di natura costituzionale, e l’ipotrofia, conseguente invece a gravidanze,
allattamento, dimagramento, menopausa, vengono ottimamente corrette con l’inserimento di una
protesi.
Come già esposto nel capitolo dedicato alla ricostruzione della mammella, le protesi mammarie
sono involucri mono o bistratificati di materiale morbido ed impermeabile che contengono un
materiale fluido, di consistenza molle elastica, così da dare una sensazione al tatto di perfetta
normalità. Le protesi hanno diverso volume, diversa sezione, diverso profilo a seconda delle
diverse situazioni cliniche; vengono situate tra la ghiandola mammaria e la fascia del muscolo
grande pettorale o al di sotto di questo muscolo, attraverso una via d’accesso che può essere a
livello del solco sottomammario o dell’areola o del pilastro anteriore dell’ascella. Del tutto
recentemente è stato proposto l’inserimento delle protesi per via transombelicale, con l’ausilio
dell’endoscopio, ma i risultati finora ottenuti sono molto discutibili. I risultati estetici sono ottimi
salvo qualche caso in cui la costituzione della capsula fibrosa periprotesica provochi retrazioni così
fastidiose da richiedere l’asportazione chirurgica della protesi stessa. L’impiego delle protesi non è
in alcun modo collegabile all’insorgenza di carcinoma mammario.
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L’addome sottoposto all’azione di gravidanze, diete dimagranti o per condizioni costituzionali di
debolezza connettivale può, col passare degli anni, giungere ad uno sfiancamento della parete con
diastasi più o meno marcata dei muscoli retti e rilasciamento cutaneo che può giungere fino a
formare pieghe al di sopra del pube. La correzione chirurgica presenta quindi indicazioni, a seconda
della gravità del caso, di tipo estetico e di tipo funzionale. L’intervento consiste nella resezione di
una porzione di cute e tessuto adiposo sottocutaneo simile ad un triangolo isoscele con base a livello
del pube, apice a livello dell’ombelico e due angoli laterali a livello delle spine iliache anterosuperiori. Vengono poi avvicinati e suturati insieme i margini mediali dei muscoli retti, la cute al di
sopra dell’ombelico viene scollata accuratamente fino alla regione costale e stirata verso il basso per
riparare l’asportazione effettuata; infine l’ombelico opportunamente isolato e modellato viene fatto
emergere nella posizione conveniente a livello della ricostituita parete addominale. All’intervento
residua solo una cicatrice trasversale soprapubica ed una cicatrice periombelicale facilmente
mascherata dall’infossamento dell’ombelico stesso. L’intervento risulta controindicato in caso di
pazienti forti fumatori, diabetici, cardiopatici e in caso di presenza di cicatrici chirurgiche
sovraombelicali che compromettono la vascolarizzazione della cute addominale.
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Natiche e fianchi
Braccia e cosce
Possono, per eccesso di tessuto adiposo o per ptosi, per ragioni costituzionali o acquisite, presentare
deformazioni sgradevoli.
La correzione chirurgica è possibile eliminando segmenti di cute e di tessuto sottocutaneo che
creano però cicatrici vistose che quindi invalidano il risultato estetico. Oggi il problema è in parte
risolto dalla liposuzione. Si tratta di una tecnica che consente di aspirare, attraverso piccole
incisioni della lunghezza di pochi millimetri e l’introduzione nel tessuto sottocutaneo di cannule, la
quantità voluta di grasso e di conseguire un modellamento pilotato della linea corporea e degli
eccessi adiposi localizzati. L’aspirazione può essere effettuata mediante un aspiratore o, più
modernamente, mediante una siringa azionata manualmente. Può essere integrata dall’azione
lipoclasica di una sonda ad ultrasuoni. In mani esperte, si possono raggiungere risultati stabili nel
tempo ed estremamente gratificanti per il paziente.
È fondamentale sottolineare che, nonostante l’apparente semplicità, la liposuzione è da considerare
un intervento maggiore, in quanto nelle aree trattate si verificano fenomeni circolatori e metabolici
paragonabili a quelli riscontrabili in una crush-syndrome.
La quantità di grasso asportabile in un solo tempo operatorio può essere anche molto elevata (> 10
litri, megaliposuzione o steataferesi), ma solo a condizione di poter contare su un’assistenza
anestesiologica e rianimatoria di prim’ordine e per almeno 2-3 giorni dopo l’intervento, a causa
dell’insorgenza di profondi scompensi emodinamici.
Al contrario, nel caso di aspirazione di poche decine di cc l’intervento può essere eseguito in
anestesia locale, ambulatorialmente.
Si tratta di correzioni di ptosi cutanee determinate da invecchiamento o da un forte dimagramento
delle braccia e delle cosce, che soprattutto nell’anziano appaiono flaccide e di aspetto sgradevole.
L’asportazione della cute in eccesso lascia in questi casi cicatrici sempre molto evidenti e quindi
sconsigliabili se non in casi con indicazioni particolari.
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2519
Tatuaggi
Tecniche di resurfacing del volto
La richiesta di rimozione di tatuaggi praticati a scopo ornamentale è frequente. Purtroppo, a fronte
di un grande numero di tecniche proposte, il problema non è quasi mai di facile soluzione. Le
opzioni possibili sono: la distruzione profonda (per es. laser CO2), la distruzione superficiale (per
es. peeling chimico, dermabrasione, Argon laser, Q-switched laser), metodi infiammatori (per es.
acido tannico, ossalico), metodi chirurgici (escissione, escissioni seriate, escissioni con innesti,
lembi, espansione cutanea).Tra queste tecniche i Q-switched laser rappresentano la scelta più nuova
e più selettiva, dal momento che attraverso la fotodermolisi selettiva sono diretti solo contro il
pigmento intracellulare con minima distruzione del derma e dell’epidermide adiacenti. Esistono
laser diversi specifici per diversi colori. Le complicazioni più frequenti consistono in discromie
cutanee residue, efficacia parziale del trattamento, cicatrici. Le aspettative del paziente sono di
solito maggiori dei risultati ottenibili.
I tatuaggi in chirurgia plastica vengono praticati per sfumare o ripigmentare innesti cutanei, chiazze
di vitiligine, cicatrici; per accentuare il colore naturale del vermiglione, delle sopracciglia e ciglia;
per simulare strutture perdute come ciglia, sopracciglia, barba, areola mammaria.
Si basano sulla distruzione dell’epidermide e/o del derma con conseguente rigenerazione di nuovo
tessuto e possono avvalersi di metodi fisici (dermoabrasione, laser a CO2) o chimici (acido
tricloroacetico, acido salicilico, alfa idrossiacidi, tretinoina). È necessaria una attenta selezione del
paziente in base al fototipo della cute (classificazione di Fitzpatrick) perché più alto è il fototipo
maggiore è il rischio di discromie post-trattamento.
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Autotrapianto di capelli
In alopecie di natura diversa a distribuzione androgena (stempiatura, retrazione della linea dei
capelli), si prelevano dal cuoio capelluto della regione nucale dello stesso individuo micro- e
mininnesti di bulbi, che mantengono l’insensibilità agli androgeni anche nella sede ricevente. Si
possono eseguire 2-3 sedute a circa 1 anno di distanza, trapiantando ogni volta migliaia di bulbi che
vanno così a reinfoltire le aree da trattare. L’intervento è in anestesia locale. L’attecchimento si
calcola attorno al 90% e i risultati sono generalmente ottimi.
Letture suggerite
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2522
Baker T.J., Gordon H.L., Stuzin J.M.: Surgical Rejuvenation of the Face, 2nd ed. Mosby, St
Louis, 1996.
Bostwick J.: Aesthetic and Reconstructive Breast Surgery. Quality Medical Publishing, St.
Louis, 1990.
Fournier P.F.: Liposculpture: the syringe technique. Arnette Blackwell, Paris, 1991.
Gonzalez-Ulloa M., Mayer R., Smith J.W., Zaoli G.: Aesthetic Plastic Surgery. Piccin,
Padova, 1987.
Hamra S.T.: Composite Rhytidectomy. Quality Medical Publishing, St. Louis, 1993.
Lejour M.: Vertical mammaplasty and liposuction of the breast. Quality Medical Publishing,
St. Louis, 1994.
Mustardé J.C.: The correction of prominent ears using simple mattress suture. Br.J. Plast.
Surg. 16: 170-176, 1963.
Oustermout D.K.: Aesthetic Contouring of the Craniofacial Skeleton. Little, Brown and Co.,
Boston, 1991.
Pitanguy I.: Abdominal lipectomy. Clin. Plast. Surg. 2: 401, 1975.
Putterman A.M.,Warren L.A.: Cosmetic oculoplastic surgery-Eyelid, forehead, and facial
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Sheeen J.H.: Aesthetic Rhinoplasty, C.V. Mosby Co., St. Louis, 1987.
Sullivan D.A.: Cosmetic Surgery: the cutting edge of commercial medicine, Rutgers
University Press, 2001.
2523
Scegli Sezione:
VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
1 Aspetti generali
2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
3 Ustioni
4 Innesti e impianti
Capitolo 9
5 Trapianti
6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
7 Malformazioni congenite
8 Chirurgia estetica
Chirurgia craniofacciale
L. Donati, P. Candiani, M. Klinger, M. Signorini, L. Vaienti
9 Chirurgia craniofacciale
9.1 Craniosinostosi e craniofaciostenosi
La chirurgia craniofacciale costituisce il punto di arrivo di decenni di esperienza in chirurgia
dell’estremo cefalico e rappresenta la risposta terapeutica per la patologia di origine malformativa,
infiammatoria, traumatica e neoplastica del settore craniofacciale.
Si definisce “settore craniofacciale” quell’insieme di regioni anatomiche comprendenti la volta, il
basicranio e lo scheletro della faccia. Esse riconoscono quale centro il complesso sfenoetmoidale,
vera struttura di confine e di comunicazione tra cranio e faccia.
La conoscenza dell’anatomia normale, topografica e chirurgica di queste regioni ed in particolare
delle regioni “di confine”, cioè le regioni profonde della faccia (fosse nasali, seni paranasali, fissura
pterigopalatina, fossa infratemporale e tutto il basicranio), è quindi l’elemento base indispensabile
per l’attuazione di questo genere di chirurgia; inoltre i più moderni studi sull’embriologia e la
morfogenesi dell’estremo cefalico devono essere tenuti presenti dal chirurgo. La patologia
craniofacciale malformativa ha avuto il suo pioniere e studioso nel chirurgo plastico Paul Tessier,
ed è oggi una importantissima branca della chirurgia plastica. Da essa sono state sviluppate tecniche
di accesso ed aggressione chirurgica che hanno trovato successivamente utilizzo anche nella terapia
di patologie flogistiche, traumatiche e neoplastiche dell’estremo cefalico.
9.2 Iperteleorbitismo
9.3 Letture suggerite
10 Traumatologia maxillofacciale
La rara ma estremamente complessa patologia malformativa craniofacciale comprende:
x le craniosinostosi;
x le craniofaciostenosi;
x l’iperteleorbitismo;
x le sindromi facciali laterali;
x altri quadri displastici, ivi comprese le disrafie o schisi.
Nel presente capitolo ci occuperemo dei primi tre argomenti, rimandando ad altri testi specifici del
settore per eventuali approfondimenti e per la trattazione delle sindromi laterofacciali e displastiche.
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La chirurgia craniofacciale costituisce il punto di arrivo di decenni di esperienza in chirurgia
dell’estremo cefalico e rappresenta la risposta terapeutica per la patologia di origine malformativa,
infiammatoria, traumatica e neoplastica del settore craniofacciale.
Si definisce “settore craniofacciale” quell’insieme di regioni anatomiche comprendenti la volta, il
basicranio e lo scheletro della faccia. Esse riconoscono quale centro il complesso sfenoetmoidale,
vera struttura di confine e di comunicazione tra cranio e faccia.
La conoscenza dell’anatomia normale, topografica e chirurgica di queste regioni ed in particolare
delle regioni “di confine”, cioè le regioni profonde della faccia (fosse nasali, seni paranasali, fissura
pterigopalatina, fossa infratemporale e tutto il basicranio), è quindi l’elemento base indispensabile
per l’attuazione di questo genere di chirurgia; inoltre i più moderni studi sull’embriologia e la
morfogenesi dell’estremo cefalico devono essere tenuti presenti dal chirurgo. La patologia
craniofacciale malformativa ha avuto il suo pioniere e studioso nel chirurgo plastico Paul Tessier,
ed è oggi una importantissima branca della chirurgia plastica. Da essa sono state sviluppate tecniche
di accesso ed aggressione chirurgica che hanno trovato successivamente utilizzo anche nella terapia
di patologie flogistiche, traumatiche e neoplastiche dell’estremo cefalico.
La rara ma estremamente complessa patologia malformativa craniofacciale comprende:
x le craniosinostosi;
x le craniofaciostenosi;
x l’iperteleorbitismo;
x le sindromi facciali laterali;
x altri quadri displastici, ivi comprese le disrafie o schisi.
Nel presente capitolo ci occuperemo dei primi tre argomenti, rimandando ad altri testi specifici del
settore per eventuali approfondimenti e per la trattazione delle sindromi laterofacciali e displastiche.
Craniosinostosi e craniofaciostenosi
Si tratta di malformazioni caratterizzate da alterazioni della morfologia e delle funzioni (cerebrale,
oculare, respiratoria eccetera) che riconoscono il loro momento patogenetico nella precoce
ossificazione di una o più suture craniche (ricorderemo che tale processo è normalmente
progressivo e che l’ultima ad obliterarsi è la fontanella bregmatica tra il secondo ed il terzo anno di
vita).
Eziopatogenesi e classificazione
L’eziologia è a tutt’oggi ignorata, anche se fattori ereditari sembrano giocare un ruolo
fondamentale. Sono state infatti identificate da Cohen ben 11 sindromi da alterazioni
cromosomiche, e numerosi sono i quadri malformativi nei quali è riconoscibile la presenza della
stessa malformazione, seppur in forma frusta o non,negli stessi genitori o nell’intero nucleo
familiare del paziente,anche se il cariotipo è normale. Anche sulla patogenesi non esiste chiarezza,
essendo non ancora del tutto chiarito il meccanismo di crescita craniofacciale. Nei casi di
microcefalia malformativa, Cohen propone che l’iposviluppo della massa encefalica non eserciti
sulle suture craniche quello stress necessario alla crescita delle varie componenti ossee. D’altra
parte non possono essere trascurate le alterazioni metaboliche quali l’ipertiroidismo, che produce
una saldatura precoce delle suture, come d’altra parte le cause cromosomiche che possono
interferire sui normali processi di ossificazione e sui blastemi mesenchimali presenti a livello della
sutura. Comunque ad un attento esame della letteratura si può porre in evidenza come negli ultimi
due decenni la ricerca si sia concentrata sullo sviluppo della parte anteriore della base del cranio
(baricentro sfenoidale; complesso naso-etmoideo-premascellare in avanti, complesso pterigoideo2526
mascellare-palatino posteriormente), per spiegare la fenomenologia di queste complesse patologie.
Grande interesse suscitano in particolare le strutture sfenoetmoidali del basicranio anteriore, le cui
alterazioni sarebbero alla base delle alterazioni facciali che si accompagnano a quelle craniche.
Si tratta comunque di un meccanismo complesso, coinvolgente le suture craniche, il basicranio, le
sovramenzionate strutture facciali che vi sono strettamente connesse nello sviluppo e la dura madre.
z La scafocefalia o dolicocefalia è caratterizzata da precoce sinostosi della sutura sagittale, con
cranio che in visione frontale si presenta alto e stretto, spesso esibente una cresta sagittale mediana,
corrispondente alla sinostosi. In proiezione laterale il cranio appare allungato in senso anteroposteriore, con prominenza delle ossa occipitali posteriormente e dell’osso frontale anteriormente.
z La trigonocefalia è caratterizzata da precoce sinostosi della sutura metopica e fronto-etmoidale,
con tipica forma a “chiglia” della fronte ed iposviluppo delle eminenze frontali, ipoteleorbitismo. È
conveniente studiare questo tipo di malformazione con la proiezione di Hirtz che mette in evidenza
la forma triangolare del frontale.
z La plagiocefalia, causata dalla precoce sinostosi di metà della sutura coronale e frontosfenoidale, presenta appiattimento del frontale in corrispondenza della sinostosi con precoce
ipersviluppo compensatorio del frontale contro-laterale, asimmetria delle volte orbitarie,
ovalizzazione dell’orbita omolaterale in senso supero-laterale, spesso ipersviluppo compensatorio in
regione temporale omolaterale, deviazione del vertice, asimmetria dello scheletro nasale e sua
deviazione omolaterale alla lesione. Anche in questo caso è utile la proiezione di Hirtz che ben
mette in evidenza l’asimmetria frontale e la verticalizzazione delle piccole ali dello sfenoide.
z La brachicefalia è caratterizzata dalla precoce chiusura delle suture coronale e fronto-sfenoidale
per tutta la loro lunghezza. La volta è appiattita in senso antero-sfenoidale e la superficie anteriore
del frontale appare come retroposta. Si osserva iposviluppo in senso verticale. Gli esami obiettivo e
radiologico evidenziano un accorciamento sagittale del cranio e della base cranica. La
sintomatologia, specie neurologica, è ben evidente.
z La ossicefalia ne rappresenta una variante, caratterizzata da retroposizione del frontale, che
appare in continuità con il dorso nasale. Così anche la turricefalia, spesso esito di una brachicefalia
non trattata.
z Le craniofaciostenosi più importanti sono rappresentate dalla sindrome di Crouzon e di
Apert. Nella Crouzon, sindrome ereditaria trasmessa con carattere autosomico dominante, si
associano brachicefalia nelle possibili varianti, o scafocefalia, esorbitismo con accorciamento in
senso anteroposteriore dell’orbita, la cui parete laterale è compressa dal lobo temporale. Si
associano a livello orbitario anomalie funzionali della visione binoculare, riassumibili in exotropia
dovuta ad ipoplasia orbitaria ed infine moderato grado di iperteleorbitismo.
L’ipoplasia è dovuta, dal punto di vista fisiopatologico, alla retroposizione del frontale e quindi del
tetto orbitario, all’ipoplasia della parete laterale dell’orbita e del terzo medio della faccia, e quindi
alla retroposizione della parete mediale e del pavimento dell’orbita. Complessivamente dunque si
tratta di una malformazione a sviluppo prevalentemente trasversale, particolarmente evidente
nell’adolescente e nell’adulto nei quali si può presentare con il tipico aspetto “batracoide”. A
livello facciale si assiste a retrusione naso-mascellare, con il tipico naso “a becco di pappagallo”.
z La sindrome di Apert, a trasmissione autosomica recessiva, è caratterizzata da gravi
malformazioni coinvolgenti ad un tempo l’estremo cefalico ed i quattro arti. A livello cefalico il
reperto più comune è la brachicefalia, con marcatissima ipoplasia del terzo medio facciale,
rotazione posteriore della volta osteocartilaginea nasale, che appare come incassata al di sotto
dell’arcata sopracciliare. Il labbro superiore si presenta retratto nella sua porzione mediale. Il
conseguente esorbitismo è meno marcato che nella malattia di Crouzon, in quanto si associano ptosi
2527
della palpebra superiore e distopia cantale: infatti il legamento cantale interno si inserisce
postero-superiormente rispetto alla sua normale sede di in-serzione (cioè la cresta lacrimale),
fissandosi a livello dell’osso nasale e creando un aspetto antimongoloide. Si associa altresì
frequentemente esotropia.
A livello di tutte le estremità è presente sindattilia di tipo simmetrico. Si tratta dunque di una
sindrome malformativa grave, a prevalente sviluppo sul piano frontale, la cui sintomatologia
obiettiva si palesa fin dalla nascita nella sua gravità. La sindrome di Crouzon e la sindrome di
Apert si caratterizzano entrambe come craniofaciostenosi e, visti i molti punti di contatto, è
possibile, secondo le più recenti concezioni sulle anomalie dello sviluppo craniofacciale, estrapolare
un unico quadro, il cosiddetto “Croupert”, di cui la Crouzon rappresenta l’espansione trasversale e
l’Apert quella longitudinale.
Valutazione preoperatoria
z La sindrome del “cranio a trifoglio” è una forma gravissima e rara di policraniosinostosi
associata ad esoftalmo, idrocefalo, ipoplasia del terzo medio della faccia. La prognosi è per lo più
infausta.
Il timing chirurgico di queste malformazioni si basa su di una approfondita valutazione
preoperatoria clinica e strumentale. La presenza di limitazioni funzionali importanti, di frequente
riscontro nelle sindromi di Crouzon,Treacher Collins e Apert, richiede l’effettuazione di interventi
precoci, resi attualmente possibili dai recenti progressi delle tecniche anestesiologiche e dei
trattamenti postoperatori intensivi. La riduzione della morbilità e della mortalità che ne consegue ha
permesso inoltre la messa in atto di procedure ricostruttive e tecniche chirurgiche più complesse e
articolate. Esse prevedono una serie di esami specialistici, che vengono eseguiti e valutati da una
équipe craniofacciale. Tale équipe comprende: il chirurgo plastico, il neurochirurgo, l’oftalmologo,
l’otorinolaringoiatra, il foniatra, il neuroradiologo e l’anestesista-rianimatore. Ciascuno di questi
esegue un’accurata anamnesi, inoltre l’esame obiettivo verrà compendiato da esami strumentali
specialistici. Il neuroradiologo eseguirà:
z un esame radiografico standard rappresentato dalle proiezioni cefalometriche e compendiato
da particolari proiezioni, la cui indicazione sarà dettata dalle singole situazioni cliniche;
z esami altamente specialistici quali la TC e la RMN.
Nell’ultimo quinquennio di grande aiuto è stato l’uso della ricostruzione tridimensionale delle
immagini ed addirittura la simulazione al computer dell’intervento con l’ausilio di tecniche
informatiche software avanzate (design, rappresentazione di superfici curve; L. Donati, 1998), le
quali costituiscono l’approccio eidomatico alle craniosinostosi; è oggi altresì possibile, collegando il
software con un apparecchio ricevente, robotizzare la ricostruzione dei pezzi anatomici. La
componente psicologica del paziente rappresenta un altro elemento di importanza non
trascurabile;va infatti tenuto presente che nello sviluppo vi sono fasi che si possono definire
“critiche”, durante le quali il bambino evidenzia una vera e propria predisposizione ai traumi
psicologici. Pertanto la pianificazione delle differenti fasi chirurgiche deve tenere conto
dell’inevitabile confronto con i propri coetanei che si verifica in primo luogo all’ingresso della
scuola primaria all’età di circa 6 anni, e successivamente durante la fase critica dell’adolescenza.
Aspetti clinici e funzionali
Approccio chirurgico
Dal punto di vista funzionale queste sindromi si caratterizzano per la discrepanza contenentecontenuto della scatola cranica, che si ripercuote sotto forma di disparità tra crescita cerebrale e
capacità intracranica. Ne consegue ipertensione endocranica, tanto maggiore quanto maggiore e più
precoce è il grado della sinostosi.
Dal punto di vista sintomatologico, se il quadro di ipertensione è facilmente rilevabile dalla seconda
infanzia in poi,non lo è nella prima infanzia ed in età neonatale, età nelle quali esso non si manifesta
con cefalea,vomito,papilla da stasi. Pertanto in tutti i casi che si presentano a queste età è
opportuno, laddove si sospetti presenza di ipertensione endocranica (sospetto clinico anche se non
sempre suffragato dalla presenza di impressioni digitate in immagini radiologiche), misurare la
pressione intracranica, per esempio con un sensore epidurale riempito con soluzione fisiologica e
connesso attraverso il cuoio capelluto con un catetere collegato ad un barotransduttore.
Si associano spesso riduzione del QI e/o menomazioni neurologiche (ritardo psicomotorio eccetera).
Altro segno funzionale delle craniostenosi, conseguenza anch’esso dell’incremento della pressione
endocranica, è il danno visivo, difficilmente quantificabile per la tenera età dei pazienti, se non
purtroppo in caso di edema papillare, caso nel quale si deve temere una atrofia ottica secondaria a
stasi o a compressione. Si riscontra per lo più nella scafocefalia. Una accurata e precoce diagnosi
seguita da un idoneo trattamento evitano gli esiti di questa serissima sintomatologia, esprimibili in
una vasta gamma che va dalla riduzione del visus alla ambliopia.
Alterazioni respiratorie possono risultare da meccanismo locale (alterazioni delle regioni profonde
della faccia) o centrale (da concomitante malformazione nervosa o da sindrome da impegno
secondario ad ipertensione endocranica).
La topografia detta regole particolari in questo tipo di chirurgia, che deve essere:
z extradurale nella cavità cranica;
z sottoperiostea nell’orbita e nelle regioni facciali;
z extramucosa nelle fosse nasali, nei seni paranasali e nella cavità orale;
z al di fuori delle vie olfattive.
Infatti la vicinanza di strutture intra ed extracraniche pone il problema di una accuratissima asepsi,
allo scopo di evitare le infezioni. Altri cardini fondamentali di tale tipo di chirurgia sono una
accurata emostasi ed una manipolazione la più delicata possibile.
Il progresso della tecnologia,d’altra parte,ha permesso di conseguire una notevole miglioria in
campo chirurgico. I mezzi di sintesi attualmente a nostra disposizione consentono di modificare e
modellare in modo più esteso ed accurato i segmenti ossei per ottenere il risultato desiderato. Infatti
se precedentemente si realizzavano semplici osteotomie utilizzando come osteosintesi unicamente
fili metallici che fissavano i segmenti ossei su un solo piano, attualmente è possibile utilizzare
placche e viti, anche riassorbibili, le quali permettono osteotomie e spostamenti maggiori, con tempi
di guarigione ridotti e migliori risultati globali anche in pazienti di giovane età.
L’obiettivo chirurgico è la restitutio ad integrum morfofunzionale: si dovranno dunque eseguire la
liberazione craniotomica delle suture sinostotiche evitandone la prematura riossificazione, ed una o
più plastiche di avanzamento e modellamento delle ossa craniche e facciali. L’approccio è
rappresentato dalla incisione bicoronale eseguita dopo scollamento periosteo esteso sulla volta
cranica, sul frontale e sulle orbite fino ai legamenti cantali mediali e laterali che vengono in genere
preservati. Se si pianifica di aggredire anche le strutture facciali si estende lo scollamento fino ai
2528
2529
z La sindrome di Pfeiffer, ereditaria e più rara delle precedenti, è caratterizzata dall’associazione
di brachi (o turri) cefalia, con ipoplasia del terzo medio della faccia, iperteleorbitismo, esoftalmo,
malformazioni delle estremità (pollice ed alluce vari).
z La sindrome di Saethre-Chotzen si presenta con brachicefalia, distopia orbitaria, deviazione
del setto nasale, angolo naso-frontale appiattito,modica ipoplasia del terzo medio facciale,
attaccatura bassa dei capelli, ptosi sopracciliare, anomalie degli arti superiori (sindattilia specie tra
indice e medio).
z La sindrome di Carpenter è caratterizzata dall’associazione di brachicefalia o plagiocefalia a
polidattilia delle mani e/o dei piedi. Spesso sono presenti iposviluppo psichico ed altre
malformazioni dell’apparato cardiocircolatorio.
margini orbitari inferiori ed ai mascellari e si ricorre ad incisioni ulteriori (transcongiuntivale,
subciliare e vestibolare). Va peraltro segnalato che benché l’evoluzione tecnologica abbia permesso
negli ultimi anni un progresso dei programmi chirurgici e delle modalità ricostruttive, le cosiddette
“nuove tecniche” derivano tutte da quella creata da Paul Tessier, che tuttora viene considerata come
il gold standard nel campo della chirurgia ricostruttiva di queste gravi malformazioni.
x Scafocefalia: si pratica una serie di craniotomie, riposizionando l’osso frontale all’indietro previo
sollevamento e corretto posizionamento,e l’osso occipitale in avanti tramite una frattura en bois vert. I tre
frammenti biparietali intermedi vengono trasposti risultandone un corretto riallineamento. Si può in tal caso
fare ricorso ad una incisione situata posteriormente rispetto a quella bicoronale. Bisogna però ricordare
che solo nel 40% dei casi questa malformazione sia per il suo aspetto morfologico che per lo stato clinico
richiede il trattamento chirurgico.
x Trigonocefalia: la terapia chirurgica andrebbe praticata entro il VI mese di vita, ed anticipata solo se il
quadro clinico e radiologico di compressione dei lobi frontali è grave. L’intervento consiste nell’allestimento
della barra sopraorbitaria che viene modellata: occorre praticare una frattura possibilmente a legno verde
sulla linea mediana laddove si forma il segno V tipico di questa malformazione. È spesso necessario, dopo
avere modellato la barra, rinforzare la linea mediana anche utilizzando come innesto parte dell’osso
frontale che era stato precedentemente rimosso. Seguono il riposizionamento e la fissazione della barra. Il
rimodellamento della parte superiore dell’osso frontale può svolgersi con modalità differenti, a seconda
delle diverse situazioni cliniche. È comunque preferibile non fissare i frammenti di frontale e lasciarli
“flottare”, praticando solo una fissazione nasale mediana in modo da permettere al cervello di esercitare
una spinta modellante sulla fronte ossea ricostruita. Per correggere l’eventuale ipoteleorbitismo associato
si distanziano i due frammenti della barra e si fissano tra loro con un innesto osseo retroposto.
x Plagiocefalia: per il trattamento di questa malformazione si può adottare l’approccio monolaterale o
quello bilaterale. In effetti il primo può esitare in asimmetrie da ipercorrezione del lato affetto o da
ipocorrezione delle strutture contro-laterali che subiscono sempre un ipersviluppo compensatorio.
Preferiamo pertanto l’approccio bilaterale che ci consente di correggere entrambe le deformità. Il
trattamento consiste nell’elevazione e modellamento della barra sopraorbitaria e della metà craniale
dell’osso frontale. Accade con una certa frequenza di operare pazienti ado-lescenti o adulti: in questo
caso bisognerà associare alla cranioplastica rimodellante alcune osteotomie facciali miranti a correggere
asimmetrie dello scheletro facciale derivanti dalla crescita viziata dalla sinostosi.
x Brachicefalia (isolata o associata a faciostenosi come nella sindrome di Crouzon o di Apert): la tecnica
più in uso è quella della “fronte flottante” di Marchac (1978), che consiste nell’allestimento,
riposizionamento e rotazione antero-inferiore della barra sovraorbitaria che si accompagna ad ampia
craniectomia coronale con riposizionamento di un opercolo frontale. Il nuovo complesso osseo frontale
viene fissato solo inferiormente e può quindi “flottare” in avanti sotto la spinta esercitata dal cervello in
crescita.Tale tipo di chirurgia si pratica nei casi di brachicefalia isolata ma soprattutto nella Crouzon e
nell’Apert, in cui si impone un trattamento il più precoce possibile. In particolare nelle craniofaciosinostosi
si profila anche il problema del trattamento della malformazione facciale (Figg. 9.1-9.4).
2530
2531
Iperteleorbitismo
Inquadramento nosografico ed eziologia
L’iperteleorbitismo non costituisce una sindrome di per sé, ma è uno dei segni associati a
malformazioni facciali, siano esse craniosinostosi o craniofaciostenosi, schisi facciali mediane,
paramediane o paranasali.
Patogenesi-classificazione
Il determinismo patogenetico che porta alla condizione di iperteleorbitismo riconosce alcuni fattori
biomeccanici, quali:
z l’arresto morfocinetico, con assenza del movimento orbitale in senso mediale;
z l’ostacolo meccanico in caso di encefalocele etmoidale, specie se l’encefalocele tende ad
espandersi direttamente nelle cavità orbitarie;
z processi espansivi dinamici quali quelli riscontrabili in caso di sinostosi coronali in cui la
crescita compensatoria si svolge verso il basso e l’esterno.
Questa spinta eserciterebbe una considerevole pressione sul complesso cartilagineo etmoidale ed
espanderebbe lo spazio interorbitario.
Il parametro alterato in questo tipo di patologia è la distanza interorbitaria ossea, cioè la distanza tra
i due dacryon, da visualizzare su di un radiogramma cranico in proiezione postero-anteriore con una
distanza del capo dalla cassetta di 4 metri.
La BIOD (Bony Inter Orbital Distance) varia nel normale tra 22 e 28 mm nel sesso femminile e tra
24 e 32 mm in quello maschile. Altri dati da considerare sono la distanza dei forami ottici e
soprattutto l’angolo di divergenza tra gli assi orbitari, perché potrebbero rendere inattendibile la
misurazione della distanza tra i dacryon quale parametro indicativo di iperteleorbitismo. Una TC è
quindi indispensabile. Un esame clinico e strumentale con un test di Hess deve essere effettuato
dall’oftalmologo per appurare eventuali danni visivi ed oculomotori.
Approccio chirurgico
La terapia chirurgica varia a seconda del grado di iperteleorbitismo. L’approccio sarà subcranico per una
IOD (Inter Orbital Distance) inferiore a 40 mm o intracranico per valori superiori. Questo criterio è dettato
dalle condizioni del complesso etmoidale, che presentandosi ipertrofico e caudalizzato
nell’iperteleorbitismo di III grado,deve essere rimosso.L’approccio intracranico sarà adottato anche in casi
di iperteleorbitismo di II grado con caudalizzazione pronunciata dell’etmoide, in alcune disrafie mediane e
paramediane ed infine negli encefaloceli. Se sono previste osteotomie facciali l’approccio sarà combinato
intra ed extracranico.
L’approccio intracranico sfrutta le osteotomie facciali secondo Tessier mentre quello intracranico prevede
lo scollamento periosteo della base cranica anteriore. Punto in comune delle due tecniche è la resezione
del segmento osseo mediano naso-etmoido-glabellare, possibilmente rispettando i nervi olfattivi. Il setto
osteo-cartilagineo deve essere rimosso e ricostruito nello stesso tempo chirurgico tramite un innesto
costale osteo-condrale. I due segmenti ossei mobilizzati verranno intraruotati e fissati sulla linea mediana.
In alcuni casi di sindrome di Apert riesce conveniente praticare un approccio combinato intra ed
extracranico e mobilizzare entrambi i mascellari tramite una osteotomia mediana palatina (bipartizione
facciale); la successiva rotazione interna dei due segmenti facciali così ottenuti, comprendenti ciascuno en
bloc l’orbita ed il corrispondente osso mascellare, consente una brillante correzione contemporanea
dell’iperteleorbitismo e dell’open bite da precontatto posteriore.
L’eidomatica o chirurgia simulata o virtual surgery permette ora di “programmare” l’intervento con
precisione mai vista. La robotica con i nuovi prodotti della ingegneria tessutale, permette la preparazione
dei “pezzi”con capacità di rigenerazione tessutale prima dell’intervento.
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Scegli Sezione:
VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA
Letture suggerite
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Cohen M.M. Jr: Sutural biology and the correlates of craniosynostesis. Am. J. Med.Genet. 47:
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2534
1
Aspetti generali
2
Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico
3
Ustioni
4
Innesti e impianti
5
Trapianti
6
Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella
7
Malformazioni congenite
8
Chirurgia estetica
9
Chirurgia craniofacciale
10 Traumatologia maxillofacciale
10.1 Cenni di anatomia funzionale del massiccio facciale
10.2 Principi di pronto soccorso
10.3 Fratture del terzo medio
10.4 Letture suggerite
2535
Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva
Capitolo 10
Traumatologia maxillofacciale
L. Donati, P. Candiani, V. Donati, M. Klinger, D. Ottavian, M. Signorini
La traumatologia maxillofacciale si occupa delle lesioni ossee del terzo medio ed inferiore della
testa, la quale viene suddivisa in 3 regioni, superiore, media ed inferiore secondo due piani
orizzontali, di cui uno passante per le suture zigomatico-frontali e l’altro per il piano occlusale delle
arcate dentarie. Tali lesioni sono molto frequenti nella traumatologia stradale e lavorativa così
come nella pratica sportiva.
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La traumatologia maxillofacciale si occupa delle lesioni ossee del terzo medio ed inferiore della
testa, la quale viene suddivisa in 3 regioni, superiore, media ed inferiore secondo due piani
orizzontali, di cui uno passante per le suture zigomatico-frontali e l’altro per il piano occlusale delle
arcate dentarie. Tali lesioni sono molto frequenti nella traumatologia stradale e lavorativa così
come nella pratica sportiva.
Cenni di anatomia funzionale del
massiccio facciale
Il massiccio facciale o splancnocranio è costituito dalle strutture della parte inferiore ed anteriore
della testa. Di esso fanno parte, oltre allo sfenoide, all’etmoide ed al vomere, che sono ossa impari e
mediane, diverse ossa pari e simmetriche e cioè le ossa mascellari, nasali, lacrimali, zigomatiche,
palatine ed i cornetti inferiori.A queste ossa va aggiunta la mandibola che si articola con l’osso
temporale tramite una doppia condilartrosi.
Il massiccio facciale presenta sia sul piano verticale che orrizzontale degli ispessimenti ossei che
hanno la funzione di zone di maggiore resistenza.
Sul piano orrizzontale si distinguono tre ispessimenti, detti travi di Ombredanne, rappresentati
dalla base apicale (osso spugnoso intorno e sopra gli apici delle radici dentali) e della zona anteriore
dell’osso zigomatico.
Sul piano verticale si notano altrettanti ispessimenti, detti pilastri di Sicher: il pilastro anteriore che
si diparte dall’alveolo del canino lungo la branca montante del mascellare fino a raggiungere il seno
frontale; il pilastro laterale che originatosi dal primo molare si sdoppia a livello dell’osso
zigomatico in due branche di cui una verticale che passa lungo l’apofisi montante del mascellare ed
una orizzontale che prosegue all’indietro fino all’apofisi zigomatica del temporale; il pilastro
posteriore che dalla tuberosità del mascellare, dalla apofisi pterigoidea e dalla apofisi laterale del
palatino si prolunga fino alla grande ala dello sfenoide.
Tutti e tre i pilastri poggiano poi sul palato che costituisce una volta portante rinforzata lungo la
linea mediana dal vomere e dalla lamina perpendicolare dell’etmoide. Tra gli ispessimenti ossei
verticali e quelli orizzontali esistono le linee di debolezza lungo cui decorrono le rime delle fratture
descritte da Le Fort (Fig. 10.1 a, b).
Anche la mandibola presenta zone di minore resistenza dove si localizzano preferenzialmente le
fratture. Esse sono rappresentate dalla zona circostante l’eminenza mentoniera, dalla regione canina
per la maggiore sottigliezza ossea, dall’angolo mandibolare per il cambiamento di curvatura e per la
presenza del III molare spesso incluso o comunque malposizionato, dalla zona centrale del ramo per
la presenza del forame mandibolare e del primo tratto del canale mandibolare, dal collo del condilo.
2537
Principi di pronto soccorso
Nella traumatologia maxillofacciale è importante valutare attentamente il paziente in quanto vi
possono essere associate lesioni di altri distretti che, se sottovalutate, comprometterebbero
gravemente la prognosi. Anzitutto è indispensabile mantenere pervie le vie aeree che possono essere
ostruite da frammenti ossei o dall’edema stesso della lingua. In alcuni casi è pertanto consigliabile
porre il paziente in posizione di sicurezza con la testa in iperestensione, o addirittura in alcuni casi
può essere necessario suturare la lingua per evitare che essa cada all’indietro.
Inoltre bisogna sempre controllare eventuali emorragie che possono insorgere in traumi che
interessano questo distretto anatomico.
È bene poi non sottovalutare la presenza di indici di eventuali fratture associate, come per esempio
quelle del cranio. Infatti una rinorrea cerebrospinale è segno di frattura della lamina cribrosa
dell’etmoide con lacerazione della dura; così come una otorragia è segno di una probabile frattura
della base cranica.
I traumi del distretto maxillofacciale sono frequentemente complicati da lesioni dei tessuti molli
(Fig. 10.2). In linea di massima i piccoli deficit possono essere chiusi per avvicinamento mentre i
deficit maggiori debbono essere riparati, dopo opportuna detersione, con lembi o innesti dermoepidermici o mucosi. Le suture in ogni caso devono rispettare i piani anatomici naturali.
Nelle prime fasi che seguono il trauma è necessario essere quanto più possibile conservativi,
risparmiando i margini sofferenti e sacrificando quelli necrotici. Bisogna tener presente la ricca
vascolarizzazione presente in certe regioni del distretto maxillofacciale, in particolare le palpebre e
l’orecchio, dove ogni revisione deve essere rimandata ad un secondo tempo. È importante
rimuovere accuratamente eventuali detriti presenti nelle ferite del volto in modo da evitare il
formarsi di inestetici tatuaggi permanenti. Nel caso invece di ferite del cavo orale, bisogna
provvedere ad abbondanti lavaggi con collutori antisettici a scopo igienico. Quando il danno
interessa il decorso del VII nervo cranico è necessario verificare una eventuale lesione di questo
nervo e procedere alla sua riparazione mediante una sutura entro le prime 72 ore.
2538
2539
Fratture del terzo medio
Le fratture del terzo medio si suddividono in fratture del mascellare, fratture zigomatiche e fratture
delle ossa nasali.
Fratture del mascellare
Eziopatogenesi
Le fratture del mascellare dipendono nella loro manifestazione da alcuni fattori principali e dalla
loro associazione nel singolo caso. Questi fattori sono l’intensità della forza lesiva, la direzione
della forza, la superficie dell’agente traumatico, la resistenza delle strutture ed infine l’azione
favorevole o sfavorevole dei diversi gruppi muscolari. Esistono a livello mascellare zone di
maggior resistenza, dette pilastri, con andamento verticale, alternate a zone di minor resistenza, ad
andamento per lo più orizzontale, identificabili nelle cosiddette linee di Le Fort.
I pilastri verticali sono tre:anteriore o naso-frontale che parte dall’apertura piriforme e segue la
cornice orbitaria mediale, laterale o zigomatico che dalla regione molare segue la parete laterale
dell’orbita e posteriore o pterigo-mascellare che dal tuber maxillae si porta a livello dei processi
pterigo-idei della base cranica. Tali pilastri rendono l’osso mascellare in grado di resistere
soprattutto a sollecitazioni ad andamento verticale, come per esempio forze masticatorie, ma lo
rendono più esposto in caso di impatto ad andamento orizzontale. Le cause più comuni sono gli
incidenti stradali e del lavoro,infortuni sportivi,cadute accidentali e lesioni da arma da fuoco.
Classificazione
Le fratture del mascellare si distinguono in fratture trasversali (Le Fort I, II e III), fratture verticali
(frattura longitudinale mediana di Lannelongue e fratture paramediane verticali), fratture miste (di
Richet, di Bassereu, di Walther e di Gosserez) e fratture parcellari (della branca montante, della
parete del seno mascellare, del pavimento dell’orbita, della volta palatina ed alveolo-dentarie).
Le fratture trasversali (Fig.10.1) sono caratterizzate dalla disgiunzione del complesso mascellare a
tre diversi livelli e a tutte consegue un’alterazione dell’occlusione.La frattura di Le Fort I o
trasversale bassa o di Guerin si realizza al di sopra della base apicale decorrendo dalla spina nasale
anteriore prima lungo il margine inferiore delle fosse nasali e la parete anteriore del seno mascellare
poi lungo la tuberosità mascellare fino alla apofisi pterigoidea.Tale frattura è in genere conseguente
ad un impatto traumatico con direzione antero-posteriore che colpisce un’area compresa tra gli
incisivi e la columella. La frattura di Le Fort II o piramidale inizia alla radice del naso quindi si
porta obliquamente in basso e indietro interessando la branca montante del mascellare, la parete del
seno mascellare, l’apofisi piramidale del mascellare e la lamina pterigoidea. La frattura è
generalmente conseguente a traumi con direzione antero-posteriore e superficie di contatto
compresa tra radice del naso ed il labbro superiore.
La frattura di Le Fort III o disgiunzione craniofacciale si realizza col distacco completo delle ossa
del massiccio facciale dal cranio. La linea di frattura si origina dalla sutura frontonasale per portarsi
verso l’orbita e le masse etmoidali. Raggiunta la fessura sfeno-mascellare si biforca verso l’alto e
anteriormente lungo la cresta malare della grande ala dello sfenoide e posteriormente verso il basso
e all’indietro fratturando le apofisi pterigoidee. Le ossa zigomatiche si distaccano bilateralmente
dall’apofisi zigomatica del temporale e dal processo zigomatico del frontale.Tale frattura è
generalmen-te conseguente a traumi con direzione antero-posteriore e ampia superficie di appoggio
laterale o verticale su tutto il terzo medio del viso.
La frattura verticale di Lannelongue è rappresentata dalla disgiunzione del palato lungo la sutura
mediana dal vomere alla spina nasale anteriore. La frattura di Richet è una frattura mista che nasce
2540
dall’associazione di una Le Fort II monolaterale con una di Lannelongue;la frattura di Besserau
dalla associazione di una Le Fort I con due fratture verticali e simmetriche che dall’apertura
piriforme si portano al dente canino ed alle apofisi palatine del mascellare; la frattura di Walther è
dovuta alla associazione di una Le Fort I e II con una frattura verticale mediana o paramediana;
nella frattura di Gosserez infine ritroviamo i tre tipi di fratture di Le Fort insieme ad una frattura
verticale mediana, ad una frattura zigomatica, ad una della regione fronto-naso-etmoidale ed a
fratture multiple della mandibola.
Bisogna infine ricordare come soprattutto a seguito di traumi ad alta energia le linee di frattura
possono subire un andamento anche diverso da quello usuale e che spesso tra lato destro e sinistro
possono verificarsi le combinazioni più svariate delle linee di frattura.
Quadro clinico e diagnosi
La raccolta dell’anamnesi ed un primo esame obiettivo devono come sempre essere focalizzati sulla
esistenza di lesioni associate, specialmente a carico del cranio. L’esame clinico rivela all’ispezione
edema ed ecchimosi a livello dei tegumenti del terzo medio e spesso anche a livello delle mucose
orali e congiuntivali.
All’ispezione la frattura di Le Fort I è caratterizzata da ematomi vestibolari a ferro di cavallo e da
precontatto posteriore con conseguente morso aperto. I muscoli pterigoidei infatti tendono a
spostare verso il basso il frammento osseo fratturato e quindi favoriscono l’insorgenza di un
precontatto a livello dei molari. Patognomonica è l’anomala mobilità alla palpazione bimanuale
dell’arcata superiore. Il paziente avverte in genere anche dolore alle tuberosità mascellari e ai
processi pterigoidei. L’occlusione è sempre gravemente alterata. La frattura di Le Fort II si
manifesta con una maggiore deformazione del profilo consistente in un allungamento ed
appiattimento della faccia con morso aperto anteriore. Alla ispezione si notano emorragie
sottocongiuntivali, palpebrali, nasali e buccali. Costante è il reperto di ecchimosi ed edemi
periorbitari. Alla palpazione bimanuale l’arcata alveolare risulta mobile rispetto al cranio e spesso è
possibile rilevare scalini a carico del contorno orbitario. Frequentemente infine si possono osservare
lesioni del nervo infraorbitario che sono all’origine di ipoanestesie o fastidiose parestesie. La
frattura di Le Fort III ha aspetti clinici sovrapponibili a quelli della Le Fort II ma per l’azione
combinata dei muscoli pterigoidei e massetere, che provocano la caduta indietro ed in basso dello
scheletro facciale, la malocclusione e la deformazione del viso sono più accentuate.Della massima
importanza sono i sintomi relativi alle eventuali lesioni della base del cranio come la perdita di
coscienza,la rinorrea e l’otorrea. La frattura di Richet è caratterizzata clinicamente da una eccessiva
mobilità di un emimascellare che risulta completamente separato dalle strutture vicine. Nella
frattura di Basserau la regione inferiore del mascellare appare frammentata in tre parti mentre nella
frattura di Walther tutto il terzo medio è scomposto in quattro frammenti isolati. La frattura di
Gosserez può presentare quadri clinici variabili data la impreve-dibile e disordinata dislocazione
delle ossa della faccia. Una menzione a parte merita la cosiddetta “frattura blow-out”che interessa il
pavimento orbitario senza ledere i margini orbitari o gli zigomi. Questa frattura che si realizza per
compressione diretta del bulbo (es. un pugno) si manifesta tipicamente con ecchimosi, emorragia
sottocongiuntivale, edema e soprattutto enoftalmo per erniazione del grasso orbitario nell’antro.
L’esame radiologico si fonda su proiezioni sagittali con appoggio naso-mento (di Waters, Fig. 10.3)
laterali, submento-vertice (per gli archi zigomatici). Utile è il ricorso ad esami stratigrafici, a TC ed
a RMN, che mediante scansioni assiali e coronali sono in grado di fornire una esatta ricostruzione
dell’andamento e dalla gravità delle linee di frattura.
2541
Fratture dell’osso zigomatico
Eziopatogenesi
Terapia
La terapia prevede la riduzione e la contenzione delle fratture sia per via ortopedica che per via chirurgica.
In caso di traumi semplici con modesta dislocazione, il trattamento delle fratture di Le Fort può essere
limitato al semplice blocco intermascellare della durata di 25-30 giorni ai quali segue un periodo di 10
giorni di rieducazione funzionale con elastici. Il ripristino dell’occlusione consente in tali casi anche una
riduzione della frattura a livello scheletrico con ripristino della morfologia del terzomedio, per la verità non
particolarmente compromessa. La riduzione cruenta per via chirurgica si realizza aggredendo
direttamente il focolaio di frattura e praticando, ottenuta la riduzione manuale della frattura, una
osteosintesi con fili o placche e viti. È possibile anche effettuare la sospensione dei frammenti fratturati a
segmenti ossei illesi per garantire una migliore stabilità dei monconi. Un blocco intermascellare da
rimuovere dopo 30 giorni circa conclude l’intervento.
Per la frattura “blow-out” la decisione di intervenire o meno deve essere fondata sulla gravità del
quadro clinico (enoftalmo, diplopia, eccetera).
Se sono presenti discontinuità delle pareti orbitarie si provvede alla loro ricostruzione con innesti
alloplastici o nei casi più gravi con innesti di osso autologo. Nelle fratture di Le Fort II, in caso di
coinvolgimento delle vie lacrimali con lacerazioni del sacco o interruzione dei dotti naso-lacrimali,
è consigliabile una esplorazione delle vie lacrimali ed eventualmente un incannulamento dei
canalicoli e dei dotti nasolacrimali per evitare epifora o dacriocistiti secondarie.
Le fratture di zigomo o dell’osso malare rappresentano le fratture facciali più frequenti ad eccezione
di quelle nasali. La regione malare rappresenta infatti la zona laterale più sporgente del terzo medio
del viso e riveste un ruolo importante sia sotto il profilo estetico, dando sostegno ai tessuti molli
della guancia, sia sotto l’aspetto funzionale, poiché concorre alla formazione della parete laterale e
del pavimento orbitario e, a livello dell’arco, dà inserzione al muscolo massetere. L’osso
zigomatico, formato dal corpo e da quattro processi (frontale, temporale, mascellare ed orbitario),
può essere coinvolto nei grandi traumi della faccia (per es. frattura di Le Fort III) oppure essere sede
unica di una frattura. Per quanto riguarda l’arco zigomatico il meccanismo patogenetico può essere
sia diretto sia indiretto per dislocazione posteriore dell’osso zigomatico.
Classificazione
Le fratture dell’osso zigomatico possono essere classificate in:
z fratture composte;
z fratture con diastasi di una sola sutura;
z fratture con diastasi di due suture;
z fratture con diastasi di tutte e tre le suture;
z fratture con comminuzione in due o più frammenti dello zigomo per coinvolgimento anche
del corpo.
Oltre a queste fratture bisogna ricordare quelle isolate in due o più frammenti dell’arco zigomatico
che rappresenta la porzione scheletrica laterale più sporgente della faccia.
Quadro clinico e diagnosi
Il paziente si presenta al medico con edema ed ecchimosi variabili a carico dei tessuti molli
sovrastanti la lesione. Non è rara pure una emorragia congiuntivale. L’ispezione rivela in genere
enoftalmo per perdita del tessuto adiposo periorbitario nel seno mascellare e talvolta ectropion della
palpebra inferiore.
Caratteristica è la deformazione del profilo facciale con appiattimento della regione malare ed
inclinazione antimongoloide del canto laterale.Alla palpazione esterna è possibile sentire, se
l’edema non è imponente, una deformazione a gradino del contorno osseo mentre con quella
endorale si può talvolta avvertire a livello del solco buccale superiore la linea di frattura od un
2542
2543
crepitio.
La diplopia può presentarsi come fenomeno transitorio oppure permanente se la lesione del
contorno orbitario è stata importante. La sua insorgenza è legata sia all’abbassamento del pavimento
orbitario sia alla lesione diretta dell’apparato muscolare estrinseco dell’occhio sia infine alla
sofferenza dei nervi cranici oculomotori.
Un’anestesia o parestesia dei territori innervati dal nervo infraorbitario viene in genere facilmente
evidenziata. La perdita di sensibilità può interessare i denti dell’arcata alveolare superiore oppure il
labbro superiore e la regione alare dal naso.
Nel caso in cui il trauma provochi l’arretramento dello zigomatico nella fossa temporale si ha
diminuzione del movimento della bocca per urto dell’osso contro il processo coronoide. Per quanto
riguarda gli esami radiografici la proiezione abitualmente usata è quella di Waters (Fig. 10.3)
(occipitomentoniera con inclinazione di 30°) in grado di mostrare bene irregolarità o linee di
frattura del corpo dello zigomatico e dei suoi processi (frontali, mascellare, orbitario) mentre per gli
archi zigomatici si preferisce effettuare una submento-vertice. La presenza di sangue nell’antro può
farlo apparire opaco. Utile è anche una proiezione antero-posteriore di Caldwell.
Nei casi di frattura ad alta energia, al fine di una più accurata programmazione della terapia, si
ricorre normalmente alla TC sia con sezioni assiali per studiare il corpo, la parete laterale dell’orbita
e l’arco, sia con sezioni coronali per lo studio del bordo infraorbitario e del pavimento orbitario.
Terapia
Non tutte le fratture zigomatiche richiedono un trattamento chirurgico. Una frattura, per esempio, in cui
l’unico sintomo sia un’anestesia dei denti dell’arcata superiore non presenta una indicazione obiettiva per
un intervento chirurgico perché l’elevazione dello zigomo non influirà affatto su questo sintomo.
La terapia chirurgica si realizza sollevando l’osso zigomatico per via temporale o endorale aprendo l’antro.
Il primo approccio è indicato nei casi di frattura dei processi zigomatici mentre le fratture comminute, in cui
è insufficiente l’azione di leva, necessitano dell’accesso endorale e di un tamponamento del seno. Una
volta effettuata la riduzione in genere il frammento tende a mantenere la posizione, ma in alcuni casi può
rendersi necessaria una sintesi con filo metallico che viene realizzata a cielo aperto.
Gli accessi chirurgici più utilizzati sono la via endorale per la sutura maxillomalare, la via palpebrale per il
bordo infraorbitario e l’esplorazione del pavimento, la via sovracciliare per la parete laterale dell’orbita e la
via temporale o coronale per la visualizzazione dell’arco zigomatico.
I risultati morfologici del trattamento oggi sono di gran lunga migliorati rispetto a 15-20 anni fa per l’utilizzo
di mezzi di osteosintesi, quali placche e viti, in grado di ristabilire meglio dei fili metallici la corretta
dimensione verticale, soprattutto quando la sutura maxillomalare risulta comminuta.
Fratture delle ossa nasali
Eziopatogenesi
Le fratture della piramide nasale sono le più frequenti tra le fratture facciali sia perché tale area, a
causa della sua prominenza in senso antero-posteriore, è la regione del viso più esposta all’impatto,
sia per l’intrinseca debolezza delle ossa proprie del naso.
Sia le ossa nasali proprie sia la cartilagine del setto possono essere interessate da traumi accidentali.
Nel caso di un urto laterale l’osso nasale dalla parte della lesione è fratturato e spostato verso il setto
mentre quest’ultimo appare deviato o addirittura fratturato. L’osso nasale controlaterale è anch’esso
fratturato ma spostato lontano dal setto.
Nel caso invece di urti dall’alto si produce una deformazione caratteristica della piramide nasale
detta naso “a sella” ed uno slargamento della sua metà superiore.Tale deformazione è dovuta alla
dislocazione delle ossa nasali, del setto e delle cartilagini laterali sotto la spinta dell’agente
traumatizzante.
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Quadro clinico e diagnosi
L’aspetto clinico del naso e del setto è di per sé diagnostico. I segni clinici più frequentemente
associati a fratture nasali isolate sono:
z epistassi legate a lacerazioni delle mucose nasali;
z alterazione di posizione e forma della piramide nasale in rapporto alla forza ed alla direzione
del trauma ed all’entità della dislocazione;
z disturbi funzionali con difficoltà o impossibilità alla respirazione nasale.
Alla ispezione ed alla palpazione si possono rilevare deviazioni o depressioni delle ossa nasali,
deviazioni del setto, e collasso delle cartilagini laterali al di sotto delle ossa nasali. Caratteristici
sono inoltre le ecchimosi, l’edema periorbitario e le emorragie sottocongiuntivali.
Anche in caso di deformazioni modeste della piramide nasale è opportuno esaminare il setto per la
eventuale presenza di un ematoma che appare come una grossa sporgenza uni o bilaterale.
L’esame radiologico nelle proiezioni laterali e di Waters è poco significativo in quanto le linee di
frattura non calcificano ma cicatrizzano e nuove fratture si distinguono con difficoltà dalle vecchie.
Terapia
Se presente un ematoma del setto esso richiede un drenaggio immediato per il pericolo di sovrainfezioni e
condriti destruenti. La riduzione della frattura deve essere effettuata il più presto possibile perché le ossa
nasali dislocate tendono a fissarsi nella nuova posizione in pochi giorni. Se in conseguenza di un urto
laterale il naso appare deviato la deformazione può essere corretta con la semplice pressione del pollice
dall’esterno e con pinze di Walsham dall’interno. Con queste pinze particolari si afferra il frammento osseo
fratturato e dopo averlo disincastrato lo si riposiziona in sede corretta. Se invece un urto dall’alto ha
schiacciato la piramide nasale è sufficiente, con le pinze settali di Asch, raddrizzare il setto o ricomporlo
per riottenere una buona correzione della lesione.
Un tamponamento con tulle grasso per 48 ore è opportuno se si evidenzia anche solo una minima mobilità
delle ossa nasali e del setto. Esso inoltre aiuta a prevenire l’insorgenza di un ematoma tardivo del setto.
L’applicazione per 7-10 giorni di un apparecchio gessato fornisce infine una buona contenzione dei
frammenti di frattura.
In caso di distacco naso-frontale o comunque della impossibilità di ottenere una corretta riduzione della
frattura, si attua una riduzione a cielo aperto della frattura ed una stabilizzazione mediante osteosintesi con
accesso glabellare o sfruttando eventuali ferite cutanee a livello della piramide nasale. In presenza di
comminuzione dei frammenti bisogna valutare caso per caso la possibilità di ricorrere alla ricostruzione o
meno con innesti di osso autologo in rapporto alla integrità dei tessuti molli cutanei e mucosi.
Fratture naso-orbitarie e della regione frontoetmoidale
Eziopatogenesi
Si tratta di fratture provocate da traumi che incidono dal basso o dall’alto sulla regione fronto-nasoetmoidale, causando la frattura dei processi montanti dei mascellari, delle ossa nasali, dell’etmoide,
delle orbite e dei seni mascellari. Questa regione della faccia, per il particolare significato sia
estetico sia funzionale, richiede una precisa correzione dei difetti provocati dal trauma.
Quadro clinico e diagnosi
Il ponte nasale appare affondato ed allargato. Si può osservare iperteleorbitismo (aumento della
distanza che separa le due orbite) e telecanto traumatico (dislocazione del legamento palpebrale
mediale),ecchimosi periorbitarie ed emorragie sottocongiuntivali. A causa delle lesioni etmoidali si
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hanno in genere anosmia (per recisione del nervo olfattorio nel suo decorso a livello della lamina
cribrosa) e liquorrea nasale. Questi ultimi due sintomi, insieme ad una eventuale incoscienza,
impongono un approfondito inquadramento diagnostico del paziente anche in collaborazione con
l’équipe neurochirurgica.
Terapia
Il trattamento di queste fratture si realizza attraverso la esposizione cruenta del focolaio di frattura tramite
una incisione ad “H” nell’area interorbitaria. Nei casi più complessi non si deve avere timore a prolungare
le incisioni per ottenere un buon campo perché la deformazione provocata da una insufficiente correzione
avrebbe sicuramente un significato antiestetico maggiore.
Con un filo sottile passato attraverso i legamenti cantali mediali ed i processi frontali dei mascellari si
procede quindi alla riduzione del telecanto. La precisa e meticolosa osteosintesi dei diversi frammenti
ossei conclude l’intervento.
Fratture della mandibola
Eziopatogenesi
Le fratture della mandibola possono essere dovute a cause di natura traumatica (incidenti stradali o
del lavoro, aggressioni, cadute, infortuni sportivi o colpi da arma da fuoco) oppure patologica
(osteomieliti, tumori benigni o maligni primitivi, metastasi da tumori di altre sedi, distrofie ossee).
Le inserzioni di alcuni muscoli possono causare la scomposizione dei frammenti ossei.Tali muscoli
sono distinti in tre gruppi a seconda della loro funzione principale:
z elevatori (massetere, pterigoideo mediale, temporale);
z depressori e retrattori (genioioideo, digastrico);
z protrusori (pterigoideo laterale).
Classificazione
In base alla presenza di lacerazioni della mucosa orale o della cute le fratture della mandibola sono
distinte in prima istanza in aperte o chiuse. A seconda poi della regione anatomica interessata dalla
frattura si distinguono fratture mediane, paramediane (tra incisivo centrale e laterale oppure tra
incisivo laterale e canino), del corpo (tra canino ed angolo mandibolare), dell’angolo, del ramo, del
condilo, del coronoide e, infine, del processo alveolare (Fig. 10.5).
Quadro clinico e diagnosi
Raccolta un’accurata anamnesi, con particolare riferimento alle modalità con cui si è realizzato il
trauma e ad un’eventuale sofferenza endocranica, si passa alla ispezione della mandibola che può
presentare evidenti deformazioni. Si può notare per esempio nel caso di una frattura completa
laterale una deviazione verso il lato leso oppure nel caso di una frattura bilaterale dei condili un
morso aperto anteriore.Tali deformazioni risultano in genere accentuate dalla presenza di una
concomitante tumefazione locale delle parti molli e di ecchimosi regionali.
Il sintomo principale delle fratture mandibolari è rappresentato dalla alterazione della normale
occlusione dentaria. Il paziente è incapace di serrare completamente la mandibola oppure riferisce
che i denti non si ingranano più come facevano prima dell’incidente.
Se la frattura ha interessato il nervo alveolare inferiore o il nervo mentale il paziente avvertirà una
parestesia o ipoanestesia dei tessuti molli raggiunti da questi nervi. Si passa quindi alla palpazione,
che deve essere condotta con delicatezza e procedendo bilateralmente dalle regioni preauricolari
lungo il corpo della mandibola fino alla sinfisi mentoniera. Se l’edema non è particolarmente
pronunciato è possibile rilevare la presenza di irregolarità del profilo osseo o di un caratteristico
crepitio.
Prima di procedere all’esame del cavo orale devono essere accuratamente rimossi sangue, saliva,
denti rotti o frammenti di protesi eventualmente presenti. La presenza di ematomi, ecchimosi o
lacerazioni a carico della mucosa orale depone in genere per la presenza di una frattura della
mandibola. Il rilievo palpatorio può aiutare ad identificare i denti e le corone perse, rotte o mobili
così come la presenza di deformazioni ossee alveolari.
La palpazione bimanuale si esegue con le due mani applicate ai presunti monconi (la presa è
effettuata col pollice all’esterno e con l’indice all’interno) cui si imprimono movimenti di flessione
e torsione. Le fratture del processo coronoide vengono indagate attraverso la palpazione endorale
della branca ascendente in cui può rivelarsi un significativo punto doloroso ed a volte una
ecchimosi del pilastro anteriore (segno di Cadenat). Nelle fratture sospette del condilo si valuta la
escursione in apertura e lateralità della mandibola appoggiando le dita sulla regione preauricolare
sottozigomatica oppure introducendo bilateralmente la punta del mignolo nel condotto uditivo
esterno (segno di Pichler). L’esame clinico si conclude con la valutazione dei movimenti di
apertura, chiusura e lateralità della mandibola per determinare la presenza di limitazioni funzionali
(per esempio difficoltà in apertura per frattura del coronoide o del condilo; difficoltà in chiusura per
frattura bilaterale dei condili o del corpo della mandibola; deviazioni in apertura per frattura del
condilo) e la localizzazione prevalente del dolore. La natura precisa e la gravità di una frattura
mandibolare possono essere definite con precisione solo con l’ausilio di appropriate radiografie.
L’esame radiografico ideale è l’ortopantomografia, che è in grado di mostrare tutte le regioni
mandibolari, compresi i condili.
In aggiunta possono essere utili proiezioni antero-posteriori e laterali oblique o proiezioni
particolari come la proiezione di Towne modificata (proiezione antero-posteriore dei condili
mandibolari).
La regione sinfisaria viene indagata con proiezioni intraorali inferiori e superiori mentre le fratture
dentali e dei processi alveolari sono studiate con proiezioni intraorali periapicali. Quando le
proiezioni di routine non riescano a fornire informazioni sufficienti su sospette fratture condilari
può essere opportuno ricorrere alla stratigrafia ed alla TC. Talvolta se l’occlusione individuale del
paziente è difficilmente ricostruibile (fratture complesse, occlusioni patologiche, eccetera) può
essere di ausilio lo studio delle impronte in gesso delle arcate dentarie per ricercarla sulla scorta
delle faccette presenti a livello delle cuspidi con contatto occlusale.
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Complicanze
Si possono distinguere complicanze precoci e tardive. Le prime sono rappresentate dalle ostruzioni
respiratorie, dalle emorragie, dalla necrosi ischemica ed osteite dell’osso denudato, dal trisma e
dalle sovrainfezioni nel caso di fratture esposte.
Le seconde comprendono invece l’anchilosi temporo-mandibolare nelle fratture dei condili, le
lesioni del fascio vascolonervoso del canale mandibolare, le aderenze cicatriziali dei tessuti orali e,
soprattutto, la persistenza di incongruenze occlusali.
Terapia
Se il paziente non presenta particolari problemi quoad vitam (ostruzioni respiratorie, emorragie, shock) è
necessario procedere al più presto alla riduzione ed alla immobilizzazione della frattura (Fig. 10.6).
non solo indaginoso ed insidioso (lesione del ramo superiore del VII nervo cranico) ma anche il più delle
volte inefficace, si preferisce oggi adottare il trattamento conservativo.
Nel caso di fratture bilaterali dei condili articolari le possibilità di compensazione sono notevolmente ridotte e
quindi è giustificato un atteggiamento più aggressivo. Per i denti che si trovano interessati direttamente da
una rima di frattura, l’orientamento prevalente è quello della loro conservazione in considerazione del fatto
che essi favoriscono una corretta impostazione della riduzione e se saldamente inseriti nell’alveolo possono
servire per legature complementari interdentali.
Nel futuro non lontano della chirugia maxillofacciale sono da segnalare interessanti innovazioni sia
diagnostiche che terapeutiche. Per quanto riguarda le prime i progressi della eidomatica del distretto
cranio-maxillo-facciale hanno già permesso di ottenere una definizione sempre più precisa delle
lesioni ossee.In campo terapeutico sono da segnalare gli studi sulle osteosintesi riassorbibili in acido
poliglicolico che hanno il vantaggio di non dover essere rimosse una volta che si è ottenuto i
consolidamento della frattura, di ridurre sensibilmente i rischi di decubiti a carico dei tessuti molli ed
infine di rilasciare, nel corso del loro fisiologico riassorbimento, sostanze farmacologicamente attive
come per esempio antibiotici.
La riduzione della frattura consiste nel riposizionamento dei monconi ossei in modo da ripristinare i rapporti
di occlusione individuale del fratturato.
Essa viene eseguita manualmente in narcosi. Se questo non è possibile si può ricorrere a trazioni lente
utilizzando placche con viti, archi di espansione o trazioni elastiche. La contenzione ha lo scopo di
mantenere i frammenti in posizione corretta e di favorire quindi una normale guarigione ed il ritorno ad una
corretta funzione masticatoria. La contenzione si realizza attraverso un blocco intermascellare elastico o
rigido per un periodo di 4-5 settimane. Esso consiste nel fissaggio al mascellare ed alla mandibola di una
ferula metallica provvista a intervalli regolari di appigli di forma variabile. Le ferule vengono ancorate ai
denti per mezzo di fili metallici e quindi a loro volta unite tra loro sempre con legature metalliche nel caso di
blocchi rigidi o con elastici nel caso di blocchi elastici.
Questi ultimi vengono utilizzati quando si voglia esercitare una trazione elastica correttiva sui frammenti
della frattura.
Nel postoperatorio immediato è consigliabile una copertura antibiotica per 3-4 giorni.
Durante il periodo di blocco l’alimentazione viene effettuata sfruttando lo spazio retromolare dove viene
introdotto un piccolo tubicino attraverso cui sono assunti alimenti semiliquidi. Di particolare importanza è
pure, infine, una scrupolosa igiene orale che viene realizzata utilizzando collutori antisettici per risciacqui
frequenti del cavo orale.
Altro mezzo terapeutico nelle fratture della mandibola è la osteosintesi diretta dei monconi di frattura.
Questo trattamento può essere realizzato con fili metallici dopo aver trapanato i frammenti lateralmente
alla rima di frattura oppure con placche metalliche e viti o ancora con chiodi di Kirschner.
Esso è consigliato nei casi in cui non vi sia un numero sufficiente di denti naturali o artificiali su cui fissare il
blocco intermascellare o in casi di frattura in zona edentula (frattura retromolare). Nei soggetti edentuli o
nelle fratture oblique è invece preferibile utilizzare un cerchiaggio circonferenziale che è la legatura
perimandibolare con filo metallico.
In caso di perdita di sostanza ossea è opportuno procedere ad una stabilizzazione con placca metallica dei
monconi residui e ad un innesto osseo autologo. Le fratture del condilo mandibolare possono essere
trattate sia in modo conservativo attraverso la riduzione incruenta ed un blocco intermascellare sia con
l’aggressione diretta del focolaio di frattura e osteosintesi metallica. Poiché’ però quest’ultimo intervento è
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Letture suggerite
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Atala A., Mooney D., Vacanti J.P., Langer R.: Synthetic biodegradable polymer
scaffold.Birkhauser, Boston, 1997.
Brusati R., Chiapasco M.: Elementi di chirurgia oro-maxillo-facciale. Masson, Milano, 1999.
Georgiade N., Georgiade R., Riefkohl R.: Essentials of plastic, maxillofacial and
reconstructive surgery. Williams and Wilkins, Baltimore, 1989.
McCarthy J.: Plastic surgery.W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990.
Patrick C.W., Mikos A.G., Mc Intire L.: Frontiers in tissue engineering. Pergamon Press,
Elsevier, 1998.
Rowe N.: Maxillofacial injuries. Churchill Livingstone, Edinburgh, 1985.
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