Comments
Transcript
Capitoli di chirurgia Plastica dal Dionigi
Sezione VII VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA 1 Aspetti generali 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico 3 Ustioni Chirurgia plastica e ricostruttiva a cura di G. Boggio Robutti, A. Faga 4 Innesti e impianti 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica 9 Chirurgia craniofacciale 10 Traumatologia maxillofacciale VII 2419 Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA 1 Aspetti generali Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva 1.1 Cenni storici 1.2 Letture suggerite 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico 3 Ustioni 4 Innesti e impianti Capitolo 1 Aspetti generali 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica G. Boggio Robutti, A. Faga, L. Valdatta Il termine “plastica” deriva dal greco 'modellare' e indica che questa chirurgia si rivolge alla correzione dei difetti dell’aspetto e quindi della struttura esteriore dell’individuo. Carattere peculiare della chirurgia plastica è l’importanza prevalente della scelta riparativa sulla diagnosi: questa infatti non offre normalmente difficoltà perché è rivolta a problemi esteriori, facilmente individuabili dal chirurgo,mentre la scelta del tipo di intervento chirurgico, soprattutto quando ne occorrano più di uno, crea il problema della sua pianificazione nell’arco di mesi o addirittura di anni. Questo particolare aspetto della chirurgia plastica è stato in modo suggestivo definito “chirurgia a quattro dimensioni” intendendo come quarta dimensione il tempo nell’arco del quale deve sempre essere considerato il risultato. Col trascorrere del tempo si verificano infatti due fenomeni fondamentali ed ineluttabili: il paziente evolve per il naturale invecchiamento, modificando l’aspetto corporeo e la struttura tessutale ed i tessuti traumatizzati dall’atto chirurgico subiscono mutamenti metabolici, soprattutto di tipo vascolare, con conseguenti alterazioni di aspetto e di comportamento biologico. La cicatrice che fatalmente residua all’intervento evolve anch’essa, modificando inevitabilmente il risultato finale. Un’altra caratteristica della chirurgia plastica è quella di non essere chirurgia di organo o di distretto ma di tutto il corpo. Il singolo chirurgo plastico identifica certamente l’ambito entro il quale predilige operare, ma nella sua accezione più generale la chirurgia plastica non conosce confini anatomici o tecnici per realizzare il suo obiettivo: ricondurre quanto appare deviato entro i confini della normalità, con ripristino della funzione che tale anomalia può determinare, avendo come parametro-guida la quintessenza della normalità, la “supernormalità”, in una parola “la bellezza”. 9 Chirurgia craniofacciale 10 Traumatologia maxillofacciale Le lesioni che interessano il chirurgo plastico sono di due ordini: x lesioni congenite, dovute a deviazioni del normale sviluppo embrionale e quindi già presenti alla nascita; x lesioni acquisite durante il corso della vita, dalla nascita in avanti. 2420 2421 Il termine “plastica” deriva dal greco 'modellare' e indica che questa chirurgia si rivolge alla correzione dei difetti dell’aspetto e quindi della struttura esteriore dell’individuo. Carattere peculiare della chirurgia plastica è l’importanza prevalente della scelta riparativa sulla diagnosi: questa infatti non offre normalmente difficoltà perché è rivolta a problemi esteriori, facilmente individuabili dal chirurgo,mentre la scelta del tipo di intervento chirurgico, soprattutto quando ne occorrano più di uno, crea il problema della sua pianificazione nell’arco di mesi o addirittura di anni. Questo particolare aspetto della chirurgia plastica è stato in modo suggestivo definito “chirurgia a quattro dimensioni” intendendo come quarta dimensione il tempo nell’arco del quale deve sempre essere considerato il risultato. Col trascorrere del tempo si verificano infatti due fenomeni fondamentali ed ineluttabili: il paziente evolve per il naturale invecchiamento, modificando l’aspetto corporeo e la struttura tessutale ed i tessuti traumatizzati dall’atto chirurgico subiscono mutamenti metabolici, soprattutto di tipo vascolare, con conseguenti alterazioni di aspetto e di comportamento biologico. La cicatrice che fatalmente residua all’intervento evolve anch’essa, modificando inevitabilmente il risultato finale. Un’altra caratteristica della chirurgia plastica è quella di non essere chirurgia di organo o di distretto ma di tutto il corpo. Il singolo chirurgo plastico identifica certamente l’ambito entro il quale predilige operare, ma nella sua accezione più generale la chirurgia plastica non conosce confini anatomici o tecnici per realizzare il suo obiettivo: ricondurre quanto appare deviato entro i confini della normalità, con ripristino della funzione che tale anomalia può determinare, avendo come parametro-guida la quintessenza della normalità, la “supernormalità”, in una parola “la bellezza”. Le lesioni che interessano il chirurgo plastico sono di due ordini: x lesioni congenite, dovute a deviazioni del normale sviluppo embrionale e quindi già presenti alla nascita; x lesioni acquisite durante il corso della vita, dalla nascita in avanti. seguito, per un lungo periodo, essa ritornò nel silenzio. È d’altronde comprensibile che una materia chirurgica, dedicata a problemi generalmente non strettamente vitali e indispensabili, abbia trovato insormontabili difficoltà a svilupparsi in assenza di nozioni di anestesia, di antisepsi e di mezzi tecnici adeguati. Solo nella seconda metà dell’800 si ritrovano descrizioni di nuove tecniche e soluzioni. La chirurgia plastica moderna conosce un definitivo sviluppo e acquista una sua precisa definizione a causa delle migliaia di mutilati sopravvissuti alla prima guerra mondiale da reinserire nella vita sociale.Tra la prima e la seconda guerra mondiale si aprono in tutte le nazioni centri di cura e riabilitazione. Negli anni Quaranta i progressi della chirurgia, segnatamente l’introduzione nella pratica clinica degli antibiotici e dell’anestesia mediante intubazione endotracheale, aprono anche alla chirurgia plastica nuove possibilità di sviluppo e nuovi campi di azione. Dalla chirurgia plastica sono originate discipline affini, in cui si mediano competenze di altre specialità chirurgiche, il cui corpo dottrinale si è ormai sviluppato al punto da costi-tuire autentiche nuove specializzazioni; si ricordano in particolare la chirurgia della mano, cui concorrono competenze plastiche ed ortopediche e la chirurgia maxillofacciale, in cui si fondono competenze plastiche ed odontoiatriche. Un profondo mutamento è derivato, negli ultimi 15 anni, dall’applicazione delle tecniche di microchirurgia. Tali metodiche hanno assunto un ruolo di primaria importanza nel trattamento, in sede di emergenza o urgenza, di traumi vascolari o nervosi, specie a carico degli arti nonché nella realizzazione di progetti ricostruttivi non altrimenti praticabili. Una recente innovazione nell’armamentario tecnico del chirurgo plastico è l’impiego dell’endoscopia, grazie alla quale è possibile eseguire alcuni interventi limitando notevolmente le dimensioni delle cicatrici. Si intravvedono, per un futuro ormai prossimo, sviluppi entusiasmanti legati alla biosintesi autologa di strutture anatomiche destinate al trapianto con tecniche microchirurgiche, riducendo sempre più il ricorso a zone donatrici sane nell’ambito dello stesso organismo. Da molti anni ormai la chirurgia plastica ha abbandonato gli aspetti segreti e misteriosi di una alchimia chirurgica ed è divenuta materia specialistica a pieno titolo con attività ospedaliera ed universitaria, scuole di specializzazione, tecniche proprie originali in continua evoluzione. Cenni storici La spinta psicologica alla correzione delle anormalità dell’aspetto corporeo, sia per ragioni patologiche sia semplicemente estetiche, spiega le origini antichissime della chirurgia plastica. La prima segnalazione di interventi chirurgici di questo tipo è infatti quella contenuta nel papiro di Smith che risale al 3000 a.C. Più concrete sono le descrizioni di ricostruzioni della punta del naso contenute nei codici Veda, precedenti all’800 a.C.: poiché in India la legge dell’epoca prevedeva l’amputazione del naso ai ladri ed alle adultere, veniva descritto l’uso di un lembo di cute ruotato dalla fronte a fini riparativi. Tale soluzione, ancora oggi valida, è conosciuta come “metodo indiano”. Descrizioni successive, dopo un lungo periodo di silenzio che copre l’epoca greca, romana, araba e medioevale, risalgono al 1400 d.C. quando Antonio Branca di Catania diviene famoso per il suo metodo di ricostruzione del naso usando un lembo di cute trasferito dal braccio con una serie di operazioni. All’incirca nella stessa epoca la fama dei fratelli Vianeo di Tropea si estese nell’intera Europa per un analogo metodo di ricostruzione del naso; essi lavoravano, come del resto il Branca, con grande riserbo per timore che venisse loro sottratto il segreto del procedimento. Non riuscirono però ad impedire che con un sotterfugio ne venisse in possesso un cavaliere bolognese che, tornato alla sua città, descrisse minuziosamente il metodo a Gaspare Tagliacozzi, professore di anatomia a Bologna. Questi nel 1597 lo espose in un trattato che costituisce la prima descrizione tecnicamente valida e completa di un intervento di chirurgia plastica ed è considerato l’opera basilare di questa disciplina. Si può quindi collocare in quell’epoca la vera nascita della chirurgia plastica, anche se in 2422 2423 Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA 1 Aspetti generali Letture suggerite z z z z z z 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico 2.1 Eziologia ed epidemiologia Bostwick J. III, Eaves F.F., Nahai F. (Eds): Endoscopic Plastic Surgery. Quality Medical Publishers, St. Louis, 1995. Faga A.: Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica. Masson, Milano, 2000. Katz J.: Atlas of Regional Anaesthesia. Appleton-Century-Crofts, Norwalk, Connecticut, 1985. Nelson G.D., Krause J.L.: Clinical Photography in Plastic Surgery. Little, Brown and Co., Boston, 1988. O’Brien B.M.: Microvascular Reconstructive Surgery. Churchill Livingstone, New York, 1977. Zeis E.: Handbuch der Plastischen Chirurgie (Nebsteiner Vorrede von J.F. Dieffenbach).Reimer, Berlin, 1838. 2.2 Diagnosi 2.3 Letture suggerite 3 Ustioni 4 Innesti e impianti 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica 9 Chirurgia craniofacciale 10 Traumatologia maxillofacciale 2424 2425 Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva moderato, aumenta se il soggetto presenta un elevato numero di nevi melanocitici (più di trenta), nevi displastici, familiarità per melanoma, anche di un solo caso. z La presenza di più di un nevo displastico o di nevi di grandi dimensioni è associata ad un aumento del rischio, quando cioè si può configurare il quadro della cosiddetta sindrome del nevo displastico familiare. Capitolo 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico S. Zurrida Eziologia ed epidemiologia Il tasso di incidenza e mortalità per tumori cutanei sta lievitando in tutto il mondo, crescendo vertiginosamente negli Stati Uniti ed in molti altri paesi, Europa compresa (Boyle, 1995). I carcinomi epiteliali cutanei rappresentano un terzo di tutti i casi di cancro diagnosticati e, analogamente a quanto succede per il melanoma, si sta verificando un abbassamento dell’età al momento della diagnosi. Nel nostro paese è difficile ottenere dati precisi sull’incidenza e mortalità dei tumori cutanei (melanoma e non melanoma) poiché la mancanza di un Registro Nazionale ne impedisce un preciso monitoraggio. Tuttavia per quanto riguarda il melanoma, negli ultimi 40 anni la sua incidenza risulta cresciuta, poiché costituisce il 3-4% di tutte le neoplasie superando l’aumento di incidenza constatato per altri tipi di tumori maligni (Elwood, 1975; Silveberg, 1988). Le campagne di educazione sanitaria hanno contribuito ad aumentare l’attenzione della popolazione sulle lesioni pigmentarie (Cristofolini, 1984; Doherty, 1988) ed a ricorrere subito all’intervento dello specialista favorendo così la formulazione di una diagnosi precoce ed un intervento tempestivo su tumori in fase iniziale rendendo favorevole la guarigione di una neoplasia potenzialmente tra le più aggressive. Secondo quanto riportato da studi epidemiologici analitici eseguiti in popolazioni a prevalente fenotipo celtico e recentemente anche nella nostra popolazione, sono da considerare fattori di rischio per il melanoma le seguenti condizioni. z Secondo studi recenti, le ustioni solari in età infantile non solo in soggetti di carnagione chiara, sono correlate oltre che alla presenza di un elevato numero di nevi melanocitici e di nevi displastici anche ad un aumento significativo del rischio di sviluppare un melanoma (Lew, 1983). z Un elevato rischio di melanoma, anche precoce, è presente nei nevi congeniti giganti, cioè quelli che interessano più del 5% della superficie corporea (Fig. 2.1), mentre non ci sono prove certe dell’incremento del rischio associato ai piccoli nevi congeniti. z Una rara condizione predisponente allo sviluppo del melanoma in giovane età è rappresentata dallo xeroderma pigmentoso, disordine autosomico recessivo in cui si realizza precocemente un danno della cute indotto dal sole che provoca nelle cellule della pelle alterazioni irreversibili del DNA. Le lesioni hanno perciò sede nelle aree cutanee fotoesposte. Lo xeroderma pigmentoso predispone anche ad altri tipi di neoplasie maligne quali i carcinomi spino e basocellulari e i fibrosarcomi. La correlazione tra raggi ultravioletti e incidenza di melanoma cutaneo non è così forte come talvolta si vuol far credere, come è dimostrato dal fatto che il melanoma non predilige come sedi di insorgenza quelle parti del corpo esposte al sole, cosa che invece avviene per altri tumori maligni della pelle. È verosimile invece che molti fattori si intreccino nella carcinogenesi del melanoma (NIH Consensus conference, 1992). z Familiarità per melanoma con un rischio associato massimo se si hanno almeno due casi di melanoma fra consanguinei. Il rischio di melanoma decresce notevolmente qualora il soggetto riferisca soltanto un caso di melanoma fra consanguinei. z Gli occhi azzurri, i capelli biondi, la pelle chiara, la tendenza alle ustioni solari con la formazione di efelidi dopo fotoesposizione. Il rischio associato a tali condizioni, di per sé 2426 2427 attribuiscono anche un significato prognostico. Diagnosi Nell’impossibilità di poter effettuare una prevenzione primaria, essendo solo in grado al momento di ipotizzare le cause reali del melanoma, l’unica arma per affrontare questo tipo di neoplasia è la prevenzione secondaria, la diagnosi precoce. Infatti il riconoscimento nelle sue fasi iniziali di quello che è sempre stato considerato come il più temibile dei tumori maligni, ha portato la sua curabilità a quasi il 70% di tutti i casi riscontrati (Maize, 1987;Veronesi, 1988 c). Mentre per altri tipi di tumore la diagnosi precoce si è potuta avvantaggiare, negli anni più recenti, di una maggiore sofisticatezza degli esami strumentali, che hanno consentito di scoprire tumori anche in fase preclinica, nel caso dei tumori cutanei solo la capacità diagnostica, le campagne di sensibilizzazione della popolazione ed il coinvolgimento dei medici di famiglia, hanno condotto alla possibilità di riconoscere il melanoma quando ha uno spessore di 0,75 mm o quando è ancora in situ: situazioni in cui è guaribile nel 100% dei casi (Balch, 1998). Diagnosi precoci vengono inoltre formulate in quelle persone che già hanno avuto un melanoma, in quanto sottoposte a controlli clinici periodici di tutta la superficie cutanea.Non si deve infatti trascurare il fatto che in una percentuale che varia dall’1 al 5,3% fino al 15-20% di chi ha un’anamnesi positiva per melanoma, si può avere un melanoma multiplo (Moseley, 1979). La diagnosi clinica del melanoma è solo ispettiva e non è del tutto semplice; basti pensare che un medico di famiglia ha la probabilità di vedere un paziente con melanoma della cute due o tre volte durante tutta la sua vita professionale e che quindi non può avere quell’accuratezza tipica presente in centri specialistici altamente qualificati. D’altro canto più la diagnosi viene formulata in una fase di crescita iniziale, maggiori sono le difficoltà, in quanto la lesione non ha ancora manifestato tutti quei caratteri che la fanno identificare in una fase di crescita manifesta.Anche gli specialisti incontrano delle difficoltà: una campagna di screening per il melanoma eseguita dai dermatologi del Massachusetts ha riportato una loro accuratezza diagnostica del 35% (Koh, 1990). Per venire appunto incontro a medici, esperti e no, sono stati codificati degli schemi che potessero in qualche modo essere di aiuto a chi deve esprimere un parere su lesioni pigmentate della cute. Lo schema più adottato è quello definito sistema ABCD (Friedman, 1985). La A definisce l’asimmetria della lesione, cioè la diversità delle due metà idealmente ottenute da una linea che attraversa il suo diametro maggiore (Fig. 2.2). La regressione si presenta clinicamente come un’area più chiara, biancastra o bruno-grigiastra che può formare un alone alla periferia oppure zone chiare irregolari nel contesto della lesione pigmentata (Fig. 2.4). In una piccola percentuale di casi che va dal 5 al 12% dei melanomi metastatici, la sede del melanoma primitivo non è evidenziabile pro-babilmente per una regressione totale del melanoma. Il melanoma ha generalmente dimensioni, indicate dalla lettera D, che sono superiori ai 6 mm, anche se il riconoscimento in fasi sempre più precoci del melanoma ha ormai portato al riscontro di lesioni non solo sottili ma anche con diametro inferiore ai canonici 6 mm. A questi quattro criteri diagnostici se ne è ultimamente aggiunto un altro, forse il più importante: l’evoluzione, definita con la lettera E. Il melanoma cutaneo è un tumore a crescita bifasica. Appena insorto, per un periodo di tempo variabile, ma spesso molto a lungo, il melanoma rimane invariato per dimensioni e colore, quasi in un equilibrio costante con le difese dell’organismo che lo tengono sotto una sorta di controllo immunologico. Ad un certo punto questo equilibrio si rompe e la lesione cambia i suoi caratteri. È questo il momento in cui una corretta diagnosi tempestiva può consentire l’asportazione e la guarigione definitiva della malattia. La B definisce i bordi che nel caso del melanoma sono irregolari, frastagliati, indentati (Fig. 2.3). Una delle caratteristiche più importanti del melanoma è il colore, definito dalla lettera C: esso è francamente nero, uniforme o variegato, con sfumature che vanno dal grigio scuro al marrone o al bluastro e zone di cute normalmente pigmentata. Le aree di depigmentazione corrispondono al fenomeno della regressione, che è una caratteristica istopatologica alla quale alcuni autori 2428 Metodi diagnostici ancillari Nonostante l’applicazione corretta di tutti i criteri semeiologici, la diagnosi clinica del melanoma rimane effettivamente difficile. Il grande ostacolo ad una diagnosi corretta di una lesione 2429 pigmentata cutanea è rappresentato dal fatto che non esistono mezzi obiettivi che aiutino nella procedura diagnostica, che è ancora esclusivamente legata all’esperienza personale del medico osservatore. Attualmente esiste un grande interesse nell’ambito degli strumenti diagnostici cosiddetti “ancillari” che sono rappresentati dall’epiluminescenza, dalla telespettrofotometria e dall’analisi computerizzata dell’immagine. L’epiluminescenza è una metodica nuova che consente di osservare, attraverso una lente di ingrandimento e un microscopio operatore, le lesioni pigmentate cutanee fino alla giunzione dermoipodermica. L’immagine viene ingrandita di 40 volte ed osservata attraverso l’apposizione di un sottile strato di olio che elimina la riflessione legata all’irregolarità della superficie cutanea e gli errori degli indici di rifrazione tra cute e aria, permettendo così la visione diretta del reticolo del pigmento dell’epidermide, della giunzione dermo-ipodermica e delle papille dermiche superficiali. Da questa metodica ci si aspetta di migliorare le capacità diagnostiche del clinico già esperto, ma non un miglioramento globale dello standard di diagnosi del clinico non esperto. L’analisi spettrofotometrica è basata sull’ipotesi che l’irrorazione sanguigna e la pigmentazione della cute siano in qualche modo correlate alla natura della lesione; a causa della presenza di melanina e di emoglobina, infatti, si può, in linea di principio, supporre che le modalità di diffusione e di assorbimento di un fascio di luce visibile di cui sia noto lo spettro, dipendano dalla natura della lesione. Per questo motivo un confronto tra gli spettri della luce incidente e della luce riflessa consente di aumentare l’accuratezza della diagnosi clinica, sia in termini di sensibilità che di specificità, che possono raggiungere valori prossimi, rispettivamente, al 90 e all’80%. L’analisi computerizzata dell’immagine utilizza una telecamera ed un sistema esperto che riesce a distinguere la lesione dallo sfondo, eseguire valutazioni geometriche, misurare i colori e valutare le irregolarità della superficie della lesione e che, confrontando la diagnosi istologica definitiva, riesce a perfezionarsi con l’aumentare delle lesioni memorizzate. In questo caso, purtroppo, i risultati non sono stati univoci. Varianti clinico-istologiche La presentazione clinica del melanoma dipende dalla sua istogenesi ma anche dallo stadio in cui viene osservato. Sul piano puramente clinico-morfologico si possono distinguere tre varianti di melanoma cutaneo: il melanoma piano, che corrisponde alla variante istologica del melanoma a diffusione superficiale; il melanoma cupoliforme o nodulare ed il melanoma pianonodulare (Cascinelli, 1994 a). La variante di melanoma piano è la più frequente (80% dei casi), può essere localizzato su tutta la superficie corporea e può avere morfologicamente un aspetto maculare (melanoma non palpabile) ed uno a placca (melanoma palpabile), corrispondenti alle due fasi del suo sviluppo. Il primo è dotato di un’aggressività biologica estremamente modesta, è completamente asintomatico e diagnosticabile solo attraverso un accurato esame della cute. Le caratteristiche semeiologiche dell’ABCDE possono essere tutte presenti o presenti solo in parte; in particolare può mancare il criterio dimensionale. Anche se poco evidenti, sono invece quasi sempre presenti l’asimmetria, i bordi indentati ed il colore scuro o nerastro, a volte irregolarmente distribuito. Quando il melanoma piano non palpabile, oltre ad essere di piccole dimensioni, ha colore uniforme, margini abbastanza regolari o è privo di asimmetria, la distinzione da un nevo melanocitico acquisito può essere difficile e rappresentare un dilemma diagnostico. Nella sua fase a placca o palpabile, il melanoma appare leggermente rilevato sul piano cutaneo e risulta pertanto “palpabile” (Fig. 2.5). Morfologicamente assomiglia al melanoma maculare ma le sue caratteristiche semeiologiche sono più accentuate; questo tipo di lesioni sono tipicamente presenti sulla cute del paziente da svariato tempo ed è comune che cambino caratteristiche dell’asimmetria piuttosto che aumentino in dimensione, e queste variazioni sono già un’indicazione all’accertamento istologico. La regressione spontanea è tipica di questa fase di sviluppo del melanoma. In questa fase il melanoma è solo modestamente aggressivo ed un adeguato trattamento chirurgico risulta curativo nella stragrande maggioranza dei casi. Il melanoma cupoliforme o nodulare insorge più spesso al tronco o al dorso. A causa della sua rapida crescita verticale, questo melanoma assume rapidamente aspetto palpabile rilevato, a superficie convessa,talvolta ulcerata e con consistenza molliccia: la sua pigmentazione può essere irregolarmente distribuita o addirittura mancante (melanoma amelanotico) con un colore rossastro che rende alquanto difficile la diagnosi dif-ferenziale con un granuloma piogenico,un angioma,un carcinoma spinocellulare vegetante o una cheratosi seborroica infiammata. L’altra variante morfologica è quella del melanoma piano-nodulare, in cui una lesione rilevata, vegetante insorge relativamente dopo molto tempo, nel contesto di una piatta (Fig. 2.6). Il melanoma del viso si sviluppa tipicamente in tale modo. Questo tipo di lesione frequentemente si ulcera e sanguina spontaneamente o dopo un modesto traumatismo. Un caso a sé stante è rappresentato dalla lentigo maligna,che compare in genere in età avanzata, è pianeggiante, ha forma irregolare, di grandi dimensioni ed una pigmentazione marrone disomogenea. La lentigo maligna è il melanoma più chiaramente correlato all’esposizione cronica ai raggi solari (Kopf, 1984). 2430 2431 Il melanoma acrale viene per definizione riscontrato al palmo delle mani ed alla pianta dei piedi ed è il tipico melanoma che insorge con una certa frequenza nella razza negra. La diagnosi nelle sue fasi iniziali può comportare maggiori difficoltà di quanto non si riscontri per un melanoma di altri distretti del corpo; questo è dovuto principalmente al fatto che in queste sedi lo strato corneo è maggiormente sviluppato e la lesione può avere un colore meno brillante che in altre sedi ed i margini apparire più sfumati. Il melanoma subungueale è quello che in sede acrale dà le maggiori difficoltà. A parte quello avanzato, che deve comunque essere sospettato e non confuso con un granuloma piogenico (molto simile), nelle sue fasi iniziali non deve essere confuso con l’esito di un trauma con emorragia subungueale o con una infezione micotica. Il melanoma acrale lentigginoso, considerato più aggressivo degli altri, è stato recentemente dimostrato essere prognosticamente uguale al melanoma a diffusione superficiale e non rappresenta quindi un istotipo a peggiore prognosi (Cascinelli, 1994 b). Quello desmoplastico è un raro tipo di melanoma che insorge spesso sul viso o in zone fotoesposte. Ha una spiccata tendenza neurotropica, cioè una spiccata tendenza ad infiltrare l’avventizia dei vasi sanguigni e a diffondere attraverso un’invasione perineurale. Per questo, ha una spiccatissima tendenza alla recidività locale (intorno al 50%) e perciò bisogna stare molto attenti all’analisi dei margini di escissione. Non viene trattato in questa sede un altro tipo di melanoma, quello ad insorgenza dalle mucose. z rarissimi casi di nevi blu maligni. Il nevo a cellule fusate o a cellule epiteliodi pigmentate o nevo di Spitz, compare improvvisamente, come un noduletto di piccole dimensioni di colorito rossastro, in genere sulla cute del tronco di un bambino o di un giovane adulto. In caso di più accentuata pigmentazione, può simulare un melanoma e la sua storia repentina può creare allarme circa la natura melanomatosa.Anche il suo aspetto microscopico pleomorfo gli conferisce una stretta analogia istopatologica con il melanoma. Per questi motivi, per un nevo di Spitz fortemente pigmentato può sussistere talvolta l’indicazione ad un accertamento di exeresi bioptica. Diagnosi differenziale La diagnosi differenziale deve essere posta con tutte quelle lesioni pigmentate che per qualcuna delle loro caratteristiche possono essere confuse con il melanoma. È utile descriverle qui di seguito tenendo conto che la peculiarità delle lesioni benigne è quella di non modificarsi nel tempo e quindi di non rispondere al requisito E del codice ABCDE, tranne in rare eccezioni costituite per esempio dalla fisiologica crescita corporea, dalla gravidanza, da un’infiammazione acuta o cronica e quella di non essere quasi mai, se non nei casi che stiamo per descrivere, di un colore francamente nero. z Il nevo giunzionale appare come una piccola lesione maculare o appena rilevata,ben circoscritta,di uniforme colore bronzeo, marrone anche scuro. Un’irregolarità della sua pigmentazione,se presente,può consistere in un reticolo o in una punteggiatura nera. La forma è rotonda o ovale,simmetrica, e la sua distribuzione sulla superficie corporea è casuale. z Il nevo dermico è più rilevato e si presenta spesso come una papula cupoliforme o anche come una formazione papillomatosa, di colorito uniformemente carneo, bronzeo o marrone (Fig. 2.7).Talvolta un nevo di aspetto leggermente traslucido e a superficie teleangectasica può simulare un carcinoma basocellulare. z Il nevo composto è leggermente rilevato e presenta una uniforme colorazione che può andare dall’arancio carne al marrone scuro. Negli individui con carnagione più scura, i nevi composti tendono ad essere relativamente più pigmentati e per escluderne la malignità bisogna considerare la regolarità della loro forma, rotonda o ovale, e le loro dimensioni, in genere non superiori ai 6 mm. La segnalazione della variazione dell’aspetto di un nevo impone un accertamento bioptico, ma è importante ricordare che il normale ciclo vitale dei nevi acquisiti può comprendere periodi di sviluppo o di regressione, che non sono espressione di una trasformazione maligna. Anche i traumi, le infezioni, le trasformazioni cistiche e le influenze ormonali della pubertà e della gravidanza tendono a produrre mutamenti dell’aspetto dei nevi. I nevi acquisiti si trasformano raramente in melanomi; si stima che la trasformazione maligna di queste lesioni si verifichi soltanto in 1 ogni 6.800 nevi acquisiti. z Il nevo blu si presenta come un nodulo cutaneo regolare di colore uniforme blu o blunerastro-grigiastro, di dimensioni raramente superiori al centimetro. La sua superficie è generalmente piana e liscia ed i suoi margini sono regolari (Fig. 2.8). Il nevo blu è generalmente solitario e, comparendo di solito nella seconda decade, si mantiene stabile per tutta la vita. È costituito da un accumulo di melanociti spinosi benigni nello strato profondo del derma (melanocitomi dermici) e non ha potenzialità maligna. In letteratura sono descritti Caso a parte nella diagnostica differenziale è rappresentato dal carcinoma basocellulare, che nella 2432 2433 Il trauma occasionale o ripetuto di un nevo melanocitico clinicamente benigno non è elemento determinante la trasformazione maligna e quindi non comporta l’escissione obbligatoria. Eppure è ancora frequentissima la convinzione che il traumatismo ripetuto di una lesione pigmentata benigna ne possa favorire la trasformazione maligna. Di qui l’indicazione all’asportazione di quei nevi o di quelle lesioni che non sono nemmeno melanocitarie, come cheratosi o fibropapillomi, solo per il motivo che sono localizzate a livello del reggiseno, della cinta dei pantaloni, alla pianta dei piedi o al cuoio capelluto. Nessuna differenza esiste tra un nevo del dorso o della pianta del piede, riguardo al rischio di trasformazione maligna.Tutt’al più, a causa del maggiore spessore dello strato corneo nella cute del piede, la diagnosi differenziale tra melanoma e nevo può comportare maggiori difficoltà, ma le caratteristiche ABCDE sono comuni (Zurrida, 1992). sua variante melanocitica può creare anche al clinico esperto qualche problema di diagnosi differenziale con il melanoma (Fig. 2.9). Ciononostante, anch’esso costituisce un tipo di lesione cutanea di interesse chirurgico ed andrà pertanto asportato per definizione istologica. Il carcinoma basocellulare, in passato chiamato basalioma, è il più frequente tumore maligno della pelle e la sua incidenza è più alta in quelle regioni dove la luce solare è più intensa; aumenta con l’età, colpendo le persone con fototipo basso che trascorrono molto tempo all’aperto (tumore dei contadini e dei pescatori). Alcuni individui, poi, hanno una predisposizione genetica (HLA) per questa neoplasia (sindrome del carcinoma basocellulare nevoide). I due tipi clinici più comuni di carcinoma basocellulare sono rappresentati dal nodulo-ulcerativo e dal superficiale. Il primo si presenta spesso come una formazione rilevata e ombelicata, di colore roseo-grigiastro, a margini netti e rilevati “a gradino”, ricoperto da cute sottile e traslucida, solcata spesso da fini teleangectasie serpiginose (Fig. 2.10). L’altro tumore epiteliale è il carcinoma spinocellulare, molto meno frequente del basocellulare; anch’esso colpisce spesso le aree cutanee esposte alle radiazioni attiniche ed i soggetti in età avanzata: le localizzazioni più frequenti sono al viso (75%), al dorso delle mani (15%) (cancro dei radiologi) e in altre sedi (10%). Si presenta come un’ulcerazione poco rilevata con netta componente infiltrante, margini irre-golari, bordi duri, fondo granuleggiante e sanguinante. La parte centrale della neoplasia può essere necrotica e per questo motivo, in caso di biopsia, è raccomandabile eseguirla ai margini della lesione. Meno frequente è la forma vegetante, che si presenta come un nodulo cutaneo sporgente, irregolare, disepitelizzato e granuloso, di colore roseorossastro, di consistenza dura. Questo tipo di tumore è decisamente più aggressivo del carcinoma basocellulare, per la sua evoluzione più rapida e soprattutto per la possibilità di metastatizzare per via linfatica, in particolare modo nelle localizzazioni agli arti. Per questo i linfonodi regionali devono essere attentamente studiati al momento della diagnosi ed ai successivi controlli. Rarissime le metastasi polmonari. Esistono inoltre altre neoplasie cutanee più rare, di interesse chirurgico, quali il tumore neuroendocrino di Merkel, il sarcoma di Kaposi tipo mediterraneo o classico ed il linfoma cutis. Per questo tipo di neoplasie, quando si presentano nella loro forma localizzata, il trattamento chirurgico di ampia exeresi cutanea rappresenta la terapia di elezione. Nelle forme più avanzate, diffuse a più settori della cute, la chirurgia ricopre solo un ruolo di accertamento bioptico mentre la terapia prevede schemi di trattamento chemioradioterapici combinati. Terapia La terapia del melanoma è quasi esclusivamente chirurgica, almeno negli stadi I, II ma anche nel III (Classificazione M.D. Anderson) (Tab. 2.2). L’atteggiamento per l’accertamento di una lesione pigmentata sospetta ormai adottato ovunque è quello di biopsiarla asportandola completamente con un margine di tessuto sano circostante di 2-3 mm. La sporgenza sul piano cutaneo varia da pochi millimetri fino a volte ad un centimetro. La lesione può assumere aspetto ulcerativo superficiale, modestamente sanguinante, crostoso. L’altro tipo clinico è il carcinoma basocellulare superficiale, che appare come una macchia piatta, biancastrarosea, anch’essa traslucida e solitamente con margini indefiniti (Fig. 2.11) con un aspetto “pergamenaceo”.È spesso multiplo e compare frequentemente sul tronco. 2434 2435 Una volta che il patologo ha diagnosticato un melanoma, di qualsiasi istotipo esso sia, viene programmato l’intervento chirurgico definitivo. Se lo spessore del melanoma è d 2 mm secondo Breslow, l’intervento può essere eseguito sempre in anestesia locale ed in regime ambulatoriale, restando ad 1 cm dalla precedente cicatrice, asportando cute, sottocute fino alla fascia muscolare sottostante generalmente non includendola ed avendo cura di eseguire l’incisione con decorso verso l’esterno e con orientamento parallelo al decorso delle vie linfatiche. La validità di questo tipo di chirurgia, limitata in caso di melanoma sottile, è stata dimostrata da diversi studi, tra i quali quello importante del Gruppo dell’OMS (Veronesi, 1991 d). Se lo spessore è invece > 2 mm o se la sede risulta tale da richiedere un concomitante intervento di chirurgia plastica è preferibile eseguirlo in anestesia generale. I margini di tessuto sano circostante saranno, in questo caso di melanoma più spesso, di almeno 2-3 cm. La tecnica chirurgica è semplice ma deve essere condotta con particolare attenzione. L’approccio ambulatoriale ed in anestesia locale comporta un evidente risparmio in costi diretti ed indiretti ed un evidente impatto psicologico favorevole sul paziente che correla la semplicità del trattamento alla buona prognosi della malattia (Bartoli, 1992). Particolare attenzione deve essere riposta nell’eseguire l’anestesia locale (carbocaina con epinefrina al 2% o senza nei pazienti con malattie cardiovascolari): essa deve essere fatta con infusione sottocutanea mediante diverse punture tutt’intorno alla lesione in senso centrifugo ma non sotto la lesione, mantenendosi ad una distanza di 15 mm dai margini della stessa. Alcuni autori hanno messo in dubbio l’uso dell’anestesia locale, avanzando il sospetto che la sua iniezione nei tessuti circostanti il melanoma potesse favorire la disseminazione di cellule tumorali, ma nessuno studio in letteratura ha suffragato questa ipotesi. L’incisione cutanea ha generalmente forma di losanga con l’asse maggiore lungo l’asse maggiore della lesione, e si approfonda verso l’esterno nel tessuto sottocutaneo e nel grasso profondo fino alla fascia muscolare.Il pezzo definitivo generalmente non include la fascia muscolare sottostante in quanto l’inclusione di questa non porterebbe ad una maggiore radicalità dell’intervento. Olsen, nel 1966, ha anzi dimostrato che la sua asportazione sarebbe controproducente, perché aumenterebbe verosimilmente la possibilità di disseminazione metastatica linfonodale. Durante l’operazione è importante che il pezzo non venga compresso o toccato con ferri chirurgici e qualora si trattasse di una lesione ulcerata, è raccomandabile coprirla con una velina aderente. La breccia cutanea così provocata si chiude direttamente o scollando i due lembi laterali lungo la fascia muscolare, con accostamento del sottocute e con una sutura intradermica. Sull’asportazione dei linfonodi regionali al momento della diagnosi del tumore primitivo, in assenza di un coinvolgimento clinico della stazione linfatica di drenaggio (dissezio-ne cosiddetta elettiva o precauzionale o profilattica), qualunque sia lo spessore del melanoma, non si è ancora raggiunto un orientamento univoco, anche se sembra ormai dimostrata la sua inutilità. Lo studio randomizzato condotto dal Programma Melanoma dell’Organizzazione Mondiale della Sanità su pazienti con melanoma degli arti allo stadio I, non ha dimostrato un miglioramento della sopravvivenza nei pazienti su cui era stata eseguita la dissezione elettiva rispetto a quelli su cui era stata eseguita al momento della comparsa clinica di metastasi linfonodali. La valutazione è stata condotta su 553 pazienti con melanoma al I stadio localizzato agli arti. Questi pazienti sono stati randomizzati in due gruppi: 267 hanno ricevuto un’ampia escissione del primario e dissezione linfonodale immediata, 286 un’ampia escissione del primario e dissezione linfonodale al momento della comparsa di metastasi ai linfonodi regionali dimostrata clinicamente (Fig. 2.12) (Veronesi, 1977 a). Questi dati sono stati confermati anche da uno studio randomizzato prospettico eseguito alla Mayo Clinic. Deve essere categoricamente evitato l’accertamento istologico bioptico di tipo incisionale perché, in caso di melanoma, questo tipo di procedura potrebbe inficiare nell’esame istologico definitivo la definizione dello spessore, che è il parametro più importante dal punto di vista della definizione prognostica. Eccezione può essere fatta per quelle lesioni di grosse dimensioni, localizzate per esempio al viso (è il caso delle grosse lentigo malignae) in cui l’asportazione in toto della lesione per un falso positivo causerebbe danni estetici non giustificati.Nei casi in cui si fosse eseguita una biopsia incisionale o con l’oncotomo, la raccomandazione è quella di praticare l’intervento chirurgico di exeresi nel più breve tempo possibile. L’ampiezza dovrà essere condotta inizialmente ad 1 cm dai margini,in quanto appunto la biopsia non avrà potuto dare l’esatto spessore della lesione: una volta avuto l’esito istologico finale si pianificherà l’intervento definitivo. Nella tabella 2.3 vengono riportate la terminologia e la codifica delle lesioni melanocitiche maligne secondo l’ICD-0 del 1990. Se la dissezione linfatica elettiva o profilattica venisse effettuata su tutti i pazienti, circa il 50% subirebbe un intervento non necessario; d’altra parte, una politica di attesa in presenza di metastasi 2436 2437 linfonodali clinicamente non evidenti può contribuire alla diffusione sistemica della malattia stessa. Dalla considerazione che tutti i pazienti che sviluppano malattia metastatica linfonodale hanno, seppur microscopico, già un coinvolgimento dei linfonodi regionali o delle vie linfatiche di drenaggio tra il primitivo ed i linfonodi al momento della exeresi cutanea del melanoma, è ormai quasi ovunque entrata nella routine chirurgica la pratica della biopsia del linfonodo sentinella, cioè del primo linfonodo stazione di drenaggio di quella regione. Con il razionale che ogni regione cutanea ha una ben definita area di drenaggio linfatico e che tale drenaggio si dirige sempre in un linfonodo specifico, Morton et al. hanno sviluppato così la tecnica dello staging della stazione linfonodale (Morton, 1992). Una biopsia di tale linfonodo è una procedura minimamente invasiva e teoricamente altamente accurata dal punto di vista diagnostico. Iniettando del colorante vitale, o materiale marcato con un materiale radioattivo nell’area cutanea dove il melanoma primitivo è stato asportato o è localizzato nell’arco di pochi minuti si ottiene la colorazione dei vasi linfatici e del linfonodo sentinella o la captazione del materiale radioattivo e l’evidenziazione con una sonda, che viene asportato ed inviato al patologo per essere esaminato. Lo studio del linfonodo sentinella proposto ormai in diversi centri mondiali e con diversi protocolli (a Houston con il protocollo del WHO Melanoma Programme vengono, per esempio, inclusi i melanomi con spessore superiore ai 2 mm, mentre dal gruppo di Morton viene l’indicazione di eseguire tale procedura anche in quelli con Breslow tra 1 e 2 mm) deve essere considerato – nel melanoma come nel tumore della mammella – un’assodata metodica di stadiazione del tumore per la quale è difficile che ad un intervento radicale locale e sentinella negativo si debba assistere ad una evoluzione della malattia a distanza.Tuttavia avendo il melanoma la possibilità di metastatizzare oltre che per via linfatica anche per via ematica, particolare attenzione deve comunque essere prestata nel follow up, agli altri distretti dell’organismo. A dimostrazione che il melanoma viene diagnosticato in una fase precoce, localizzata alla sede primitiva, è il dato che soltanto nel 15% dei casi, la biopsia del linfonodo sentinella dà un risultato positivo (casistica di Gershenwald su 612 pazienti). Da un’analisi multivariata, la presenza di malattia metastatica nel linfonodo sentinella è risultata essere il più importante valore predittivo per la ripresa di malattia e per la sopravvivenza globale. Una problematica che si sono recentemente posti i ricercatori è anche come comportarsi in caso di biopsia del linfonodo sentinella positiva: infatti soltanto nel 20% di questi casi sono state riscontrate altre metastasi ai linfonodi regionali. Sono in atto numerosi studi sui reali meccanismi del melanoma di dare metastasi: per esempio, qual è il motivo per cui nel 20% dei restanti linfonodi negativi si sono manifestate nel follow up delle metastasi? Lo studio di Chuang ha valutato il ruolo di alcuni enzimi proteolitici (metalloproteinasi) nella degradazione della membrana basale della matrice extracellulare, favorendo in questo modo la disseminazione delle cellule tumorali negli spazi interstiziali, ma molti altri ricercatori sono impegnati a studiare il melanoma come modello di biologia tumorale. Lo studio dell’interessamento linfonodale nel melanoma cutaneo in stadio II rappresenta la base conoscitiva sulla quale si fondano tutti i lavori clinici più recenti. La conclusione che si può trarre è che la chirurgia è ancora l’unica arma documentatamente efficace per combattere il melanoma anche quando la malattia è diffusa ai linfonodi regionali, purché questo trattamento sia adeguato: lo svuotamento della stazione linfonodale interessata deve essere completo anche se l’impressione clinica è che ci sia un solo linfonodo interessato. La rinuncia a questo tipo di trattamento vuol dire perdere l’occasione di poter guarire il paziente. Nel 1974 uno studio randomizzato del Programma Melanoma dell’OMS aveva dimostrato che né la chemioterapia o l’immunoterapia, né la loro associazione dopo l’intervento comportavano differenze statisticamente significative della sopravvivenza (Veronesi, 1982 b). Questo studio randomizzato ha confrontato quattro gruppi di pazienti: z sola chirurgia; z terapia chirurgica + BCG, liofilizzato Pasteur alla dose di 75 mg di patina batterica somministrato mediante “heaf gun” una volta al mese per due anni; z terapia chirurgica + DTIC, somministrato per via endovenosa alla dose di 250 mg/m2 una volta al giorno per 5 giorni consecutivi ogni mese per due anni; terapia chirurgica + DTIC + BCG somministrati alle stesse dosi e con le stesse modalità per due anni. I risultati a distanza sono stati assolutamente sovrapponibili. Tuttavia, numerosi studi che hanno sperimentato l’applicazione clinica dei cosiddetti modificatori della risposta biologica ci portano a pensare che, in alcuni sottogruppi di pazienti sensibili, l’uso di queste sostanze consenta un allungamento dell’intervallo libero da malattia ma anche della sopravvivenza, rispetto a quanto offerto dal solo trattamento chirurgico (Bajetta, 1990). Sembra ormai dimostrata l’inutilità di eseguire la dissezione linfonodale “en bloc”con l’asportazione del primitivo: questo tipo di intervento, proposto da Pack, aveva principalmente lo scopo di ridurre l’incidenza di metastasi in transit, incidenza che però non sembra essere influenzata dall’asportazione delle vie linfatiche frapposte tra il primitivo e la stazione regionale di drenaggio. Attualmente, invece, in caso di melanoma cutaneo degli arti recidivato localmente o in caso di metastasi in transit tra la sede del primitivo e la stazione linfatica di drenaggio, in alternativa all’inseguimento chirurgico delle lesioni, il trattamento di elezione consiste nella perfusione ipertermico-antiblastica, che offre insperate percentuali di risposte complete e di sopravvivenza a lungo termine libera da malattia (Vaglini, 1986). La perfusione è un intervento chirurgico in circolazione extracorporea, che prevede un accesso per via extraperitoneale ai vasi iliaci esterni (per le perfusioni dell’arto inferiore) o ai vasi ascellari, divaricando il muscolo grande pettorale (per le perfusioni dell’arto superiore). La percentuale di remissione completa e parziale si aggira intorno al 90% con una sopravvivenza a 5 anni che varia dal 51 al 75% a seconda dell’estensione della neoplasia. Del tutto recentemente i risultati sono ulteriormente migliorati, in termini di risposta, con l’aggiunta nel corso della perfusione di modificatori della risposta biologica, segnatamente il tumor necrosis factor. 2438 2439 z Letture suggerite z z z z z z z z z z z z z z z z z z z z z z z Bajetta E., Negretti E. et al.: Phase II study of Interferon alpha-2a and Dacarbazine in advanced melanoma.Am. J. Clin. Oncol. 13 (15): 405, 1990. Balch C.M., Houghton A.N. et al.: Cutaneous melanoma. Quality Medical Publishing, St Louis, 1998. Bartoli C., Zurrida S. et al.: Outpatient surgical treatment of cutaneous melanoma (CM). Melan. Res. 1: 385, 1992. Boyle P., Maisonneuve P. et al.: Epidemiology of malignant melanoma. Br. Med.Bull. 51 (3): 523, 1995. Cascinelli N., Zurrida S.: Clinical presentation of primary cutaneous melanoma.In Lejeune F.J., Chaudhuri P.K., Das Gupta T.K. (Eds.), Malignant melanoma. Medical and surgical management 13, McGraw-Hill, Inc., New York, 1994 a, pp. 165-169. Cascinelli N., Zurrida S. et al.: Acral lentiginous melanoma: a histologic type without prognostic significance. J. Dermatol. Surg. Oncol. 20: 813, 1994 b. Cristofolini M., Piscioli F. et al.: A program for detection of early lesions of cutaneous malignant melanoma in the province of Trento (Italy). Am. J.Dermatopathol. 6 (1): 283, 1984. Doherty V.R., MacKie R.M.: Experience of a public education program on early detection of cutaneous malignant melanoma. Br. Med. J. 297: 388, 1988. Elwood J.M., Lee J.A.H.: Recent data on the epidemiology of melanoma. Semin. Oncol. 2: 149, 1975. Friedman R.J., Rigel D.S.: The clinical features of malignant melanoma. Dermatol. Clin. 3: 271, 1985. Koh H.K., Caruso A. et al.: Evaluation of melanoma. Skin cancer screening in Massachusetts. Preliminary results. Cancer 65: 375, 1990. Kopf A.W., Kripke M.L. et al.: Sun and malignant melanoma. J. Am. Acad. Dermatol.11: 674, 1984. Lew R.A., Sober A.J. et al.: Sun exposure habits in patients with cutaneous melanoma:A case-controlled study. J. Dermatol. Surg. Oncol. 9: 981, 1983. Maize J.C., Ackerman A.B.: Pigmented lesions of the skin. Lea & Febiger, Philadelphia, 1987, pp. 75-77. Morton D.L., Wen D.R. et al.: Technical details of intraoperative lymphatic mapping for early stage melanoma. Arch. Surg. 127: 392, 1992. Moseley H.S., Giuliano A.E. et al.: Multiple primary melanoma. Cancer 43: 939, 1979. NIH Consensus conference: Diagnosis and treatment of early melanoma. JAMA 268: 13141319, 1992. Silveberg E., Lubera J.A.: Cancer Statistics, 1988. CA 38: 5, 1988. Vaglini M., Santinami M. et al.: Hyperthermic antiblastic perfusion in extracorporeal circulation: surgical technique and results in treatment of extremities tumor. J. Ext.Tech. 18: 12, 1986. Veronesi U., Adamus J.: Inefficacy of immediate node dissection in stage I melanoma of the limbs. N. Engl. J. Med. 297: 627, 1977 a. Veronesi U., Adamus J. et al.: A randomized trial of adjuvant chemotherapy and immunotherapy in cutaneous melanoma. N. Engl. J. Med. 307: 913, 1982 b. Veronesi U., Cascinelli N. et al.: Thin stage I primary cutaneous malignant melanoma.Comparison of excision with margins of 1 or 3 cm. N. Engl. J. Med. 318:1159, 2440 z 1988 c. Veronesi U., Cascinelli N. et al.: Narrow excision (1-cm margin). A safe procedure for thin cutaneous melanoma. Arch. Surg. 126: 438, 1991 d. Zurrida S., Bartoli C. et al.: Melanocytic neoplasias of the sole: diagnosis and therapeutic approach. J. Dermatol. 19: 280, 1992. 2441 Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA 1 Aspetti generali 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva 3 Ustioni 3.1 Eziopatogenesi 3.2 Classificazione Capitolo 3 3.3 Malattia da ustione 3.4 Letture suggerite Ustioni 4 Innesti e impianti 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella L. Donati, V. Donati, A. Fumagalli, V. Rapisarda 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica L’ustione è una condizione patologica conseguente alla esposizione dei tessuti ad una eccessiva temperatura.Tale condizione patologica rappresenta un capitolo importante nell’ambito della chirurgia plastica ricostruttiva, sia per la frequenza con cui questa si verifica sia per le conseguenze spesso invalidanti che ne possono derivare. Di rilevanza spesso locale, le ustioni, se estese, realizzano la cosiddetta malattia da ustione in cui si manifesta un insieme di eventi fisiopatologici che coinvolgono tutto l’organismo, tale da potersi definire uno dei più complessi esempi di politrauma. 9 Chirurgia craniofacciale 10 Traumatologia maxillofacciale 2442 2443 Classificazione L’ustione è una condizione patologica conseguente alla esposizione dei tessuti ad una eccessiva temperatura.Tale condizione patologica rappresenta un capitolo importante nell’ambito della chirurgia plastica ricostruttiva, sia per la frequenza con cui questa si verifica sia per le conseguenze spesso invalidanti che ne possono derivare. Di rilevanza spesso locale, le ustioni, se estese, realizzano la cosiddetta malattia da ustione in cui si manifesta un insieme di eventi fisiopatologici che coinvolgono tutto l’organismo, tale da potersi definire uno dei più complessi esempi di politrauma. Eziopatogenesi La principale causa di ustione sono gli infortuni domestici che si verificano generalmente attraverso il contatto con liquidi portati ad elevate temperature. Seguono gli infortuni sul lavoro e gli incidenti stradali in cui il paziente, frequentemente politraumatizzato, richiede un inquadramento diagnostico-clinico più complesso e multidisciplinare. I fattori determinanti la gravità della lesione sono rappresentati dalla temperatura raggiunta dai tessuti, dal tempo dell’esposizione ed in minore istanza dalla natura dell’agente ustionante. Le ustioni possono essere classificate secondo diversi criteri. La classificazione sicuramente più utilizzata è quella che sulla base del quadro clinico ed anatomo-patologico suddivide le ustioni in tre gradi. z Le ustioni di I grado consistono in intensi e dolenti arrossamenti cutanei legati ai fenomeni vasoattivi scatenati dal trauma. Istologicamente si osservano alterazioni epiteliali a carico degli elementi più superficiali dell’epidermide quali eosinofilia citoplasmatica, picnosi nucleare e congestione vascolare. z Le ustioni di II grado assumono differenti aspetti in ragione della loro profondità e possono essere distinte in superficiali e profonde. Le prime sono caratterizzate da un colore roseo e dalla presenza di flittene.Tali lesioni patognomoniche si presentano come bolle, di dimensioni variabili e contenenti un essudato ricco in proteine; la loro formazione è dovuta al distacco dell’epidermide e del derma papillare necrotici dai piani più profondi. Microscopicamente le fibre collagene appaiono frammentate e rigonfie, il derma papillare è necrotico mentre attorno ai vasi del derma reticolare compaiono caratteristici infiltrati cellulari di natura flogistica. Le ustioni di II grado profondo (Fig. 3.1) presentano una superficie di colore biancastro-purpureo, solitamente priva di flittene. L’epidermide appare omogeneizzata, il derma papillare è distrutto così come gran parte di quello reticolare, minime sono invece le reazioni flogistiche perivascolari. I tegumenti sono in grado, grazie ad alcuni mezzi omeostatici (circolazione del sangue, strato corneo, secrezione sebacea, contenuto tessutale di acqua), di resistere a temperature inferiori ai 44 ° C anche per periodi abbastanza lunghi.A temperature comprese tra 44 e 51 °C queste capacità di distribuzione e dispersione dell’energia calorica vengono superate ed inizia la distruzione cellulare con un gradiente di lesione doppio per ogni grado in più di temperatura.Al di sopra dei 51 °C la velocità di distruzione è ancora più rapida ed a temperature superiori ai 70 °C la necrosi cellulare si realizza anche per brevi periodi di esposizione.A parità di temperatura e durata di esposizione, lesioni di gravità diversa saranno ottenute per le differenti sostanze ustionanti, in funzione delle loro peculiari caratteristiche chimico-fisiche. z Le ustioni di III grado presentano un colore differente a seconda del tipo di agente ustionante e della sua temperatura. Sono caratterizzate dalla formazione dell’escara che può assumere un aspetto di gangrena secca o umida (Fig. 3.2).Da un punto di vista istologico si ha la distruzione di tutta la componente cutanea e nei casi più gravi anche dei tessuti sottostanti. L’omogenizzazione epidermica e degli annessi cutanei, la necrosi profonda e la trombosi dei vasi sanguigni sono i principali aspetti istologici. In base alla natura dell’agente eziologico si distinguono ustioni da liquidi, da vampata,da contatto, da vapore, da agenti chimici, da radiazioni elettromagnetiche. 2444 2445 Malattia da ustione Fisiopatologia Le alterazioni emodinamiche e biochimiche provocate dalla noxa patogena si manifestano durante le prime 48-72 ore con una complessa sindrome morbosa a cui si dà il nome di shock da ustione. Prima di discutere dei meccanismi fisiopatologici che sottendono a tale forma di shock è bene ricordare il significato fondamentale dello stato di shock,ossia la grave insufficienza acuta del flusso ematico nella circolazione periferica, con severa alterazione dei meccanismi della respirazione cellulare. Nella fattispecie dello shock da ustione si distinguono tre momenti fisiopatologici essenziali, e cioè la perdita dell’integrità microvascolare, il danno della membrana cellulare, l’effetto diretto dell’ustione. Nella fase iniziale della malattia da ustione in seguito alla noxa patogena si verifica la messa in circolo nell’organismo di catecolamine, con vasocostrizione arteriolare periferica, ischemia del letto capillare, ipossia tessutale ed acidosi metabolica. A ciò consegue l’apertura di shunt arterovenosi e la paralisi degli sfinteri precapillari mentre le venule postcapillari rimangono contratte con conseguente aumento della pressione idrostatica e passaggio di liquidi, micro e macromolecole nell’interstizio.Tale espansione dello spazio vascolare si verifica in seguito all’immissione in circolo di sostanze vasoattive (per es. peptidi vasoattivi) prodotti dall’attivazione o liberazione di enzimi proteolitici sia per azione diretta del calore sui tessuti, sia a causa dell’ipossia tessutale. Lo stesso edema dello spazio interstiziale aggrava l’occlusione dei capillari e quindi l’ischemia periferica. Tra i cataboliti tossici un’importanza particolare riveste il MDF (fattore depressivo miocardico), che avendo un’azione inotropa negativa riduce l’apporto di sangue ed ossigeno a livello tessutale. Si viene a creare così un meccanismo a cascata che, qualora irreversibile, può dare luogo ad una insufficienza miocardica acuta con exitus. Nelle fasi avanzate dello shock si assiste a modificazioni della coagulazione tipicamente bifasiche con una iniziale ipercoagulabilità secondaria alla liberazione dai tessuti traumatizzati di fosfolipidi di membrana, ed una successiva ipocoagulabilità da deplezione dei fattori della coagulazione precedentemente esauriti. Si crea così un’alterazione dell’equilibrio tra i processi coagulativi e fibrinolitici con, inizialmente, formazione di piccoli trombi e aggregazione intravasale di eritrociti e, successivamente, iperattività fibrinolitica. Il risultato finale è un consumo sproporzionato dei fattori della coagulazione e delle piastrine mentre aumentano i prodotti della fibrinolisi (FDP). Clinica Ustioni superiori al 20% della superficie corporea di un adulto o al 10% in un bambino sono causa di alterazioni fisiopatologiche che interessano tutto l’organismo e che nel loro insieme configurano la cosiddetta malattia da ustione. L’imponente perdita di liquidi in parte all’esterno ed in parte nello spazio interstiziale è causa di uno shock di tipo ipovolemico con emoconcentrazione. La prima conseguenza è rappresentata dalla vasocostrizione di alcuni distretti corporei nel tentativo di assicurare un’adeguata perfusione dei parenchimi nobili, cuore e cervello in particolare. Superati i meccanismi di compenso si aggrava nei tessuti ipoperfusi l’ipossia, che determina la liberazione di enzimi proteolitici e quindi una vasodilatazione periferica che, sottraendo sangue ai distretti nobili, conclude il circolo vizioso. Da un punto di vista clinico la fase di preshock, in cui i sistemi di compensazione dell’organismo risultano ancora efficaci, è caratterizzata da diminuzione della pressione differenziale per aumento della pressione diastolica e da un aumento dell’ematocrito. Nella fase di shock conclamato la pressione sistolica si riduce e la minima aumenta ulteriormente. Il rene non viene protetto da questa 2446 2447 vasocostrizione diffusa per cui si riduce anche il filtrato glomerulare con grave oliguria o addirittura anuria. Tali alterazioni sono in genere reversibili nelle prime fasi ma diventano permanenti quando, nelle fasi avanzate al danno causato dallo shock, si sommano gravi alterazioni tubulari legate al riassorbimento di emoglobina e mioglobina dalla ustione. La gittata cardiaca risulta diminuita sia per l’emoconcentrazione e per l’ipovolemia che per la liberazione da parte del pancreas di un fattore in grado di deprimere l’attività miocardica. A livello dell’apparato gastrointestinale sono ormai note da tempo le gravi lesioni emorragiche che possono addirittura tradursi in vere e proprie ulcere da stress (ulcere di Curling). In tale condizione si realizza una grave insufficienza respiratoria entro le prime 24-72 ore dal trauma legata ad un edema dapprima interstiziale e successivamente intralveolare con formazione di membrane ialine. L’infezione e l’intossicazione legata al riassorbimento di sostanze tossiche costituiscono l’evoluzione della malattia da ustione. compressione del fondo della lesione con uno strumento chirurgico appuntito provoca nel primo caso un impallidimento transitorio a testimonianza della buona vascolarizzazione dermica mentre la puntura con un ago provoca dolore per la conservazione delle terminazioni nervose più superficiali. È bene comunque precisare che il quadro clinico, valutato al momento del ricovero o della prima visita,può modificarsi nei giorni successivi sia in senso positivo che negativo. Sono state proposte diverse metodiche per diagnosticare in modo più oggettivo la profondità di un’ustione di II grado, dalla tintura con coloranti allo studio della vascolarizzazione con fluorosceina, alla biopsia, alla termografia; tuttavia l’esame dell’integrità vascolo-nervosa descritto più sopra appare il più semplice ed affidabile. Importante è come sempre la raccolta di un’accurata anamnesi, sia per quanto riguarda l’esistenza di eventuali patologie preesistenti sia per quanto riguarda le modalità con cui si è realizzato il trauma. A parte infatti i casi di ustioni chimiche o elettriche, con le relative particolari conseguenze clinicoterapeutiche, la discussione delle quali esula dagli obiettivi di questo capitolo, è fondamentale sapere per esempio se il danno termico è stato accompagnato dall’inalazione di vapori tossici, oppure se nel tentativo di fuga sono state riportate altre lesioni traumatiche. In caso di pazienti incoscienti possono essere utili le informazioni raccolte da eventuali testimoni o soccorritori. Se si sospetta l’inalazione di vapori è consigliabile osservare le vibrisse dell’infortunato che potranno apparire più o meno carbonizzate ed effettuare un esame radiografico standard del torace ed una emogasanalisi. L’infezione, costantemente presente, rappresenta attualmente la principale causa di morte nel paziente ustionato. Per quanto riguarda la definizione della gravità della lesione e quindi la sua prognosi, i principali fattori da considerare sono la profondità, l’estensione e la sede anatomica della lesione. L’insorgenza è favorita non solo dal grave stato di immunosoppressione in cui versa l’ammalato, ma anche dalla perdita della barriera cutanea che normalmente separa l’organismo dall’ambiente esterno e dal terreno particolarmente favorevole che i microorganismi incontrano nei tessuti necrotici. Lo stato immuno-depressivo è legato alla liberazione di cataboliti tossici da parte dei tessuti ustionati, alla formazione di immuno-complessi che “distraggono” la risposta immunitaria e infine alla diminuzione della fibronectina opsoninica la cui presenza è necessaria per una normale attività fagocitaria. La fibronectina si legherebbe al tessuto leso e alle fibre collagene esposte, diminuendo così la sua concentrazione attiva. Le stesse PGE si sono dimostrate in grado di inibire l’attività dei linfociti T-helper e di aumentare quella dei T-suppressor. La profondità di un’ustione, come precisato nella eziopatogenesi, è direttamente proporzionale alla temperatura e alla durata del contatto con l’agente lesivo. In linea di massima le ustioni superficiali hanno la tendenza a guarire spontaneamente con restitutio ad integrum. Le ustioni di I grado infatti guariscono spontaneamente nel giro di 5-7 gg. senza alcun esito cicatriziale, mentre le ustioni di II grado superficiale guariscono in 9-14 gg.grazie all’attività proliferativa degli elementi epiteliali superstiti più profondi, quali gli annessi pilosebacei e le ghiandole sudoripare. Le ustioni di II grado profondo possono guarire spontaneamente in 15-20 gg. se non subiscono una trasformazione in ustioni di III grado e comunque con la formazione di esiti cicatriziali di gravità variabile e dipendente, oltre che dalle caratteristiche genetiche personali,anche dall’infezione locale e dalle tecniche di medicazione. Infine le ustioni di III grado guariscono con la formazione di tessuto di granulazione e riepitelizzazione dai margini. L’apparato respiratorio può essere infine coinvolto sia direttamente, in seguito alla inalazione di vapori tossici o aria calda, sia indirettamente con il cosiddetto quadro del “polmone da shock”. Alla fase infettiva segue quella dismetabolica, caratterizzata da negativizzazione del bilancio azotato, da grave calo ponderale ed ipotrofia muscolare. È dovuta all’aumento del fabbisogno energetico e del metabolismo, che segnano il passaggio verso la guarigione del paziente. In particolare l’ipercatabolismo da ustione coinvolge sia le proteine che i lipidi ed i glicidi. Il profilo proteico è caratterizzato da un ipercatabolismo e da una riduzione del metabolismo proteico che si verificano in seguito all’aumentata produzione di glicocorticoidi,androgeni anabolizzanti e all’alterazione delle proprietà deaminanti del fegato (perdita generale) ed alla perdita locale in sede di ustione.Tra le proteine plasmatiche è costante la diminuzione dell’albumina con eventuale iperglobulinemia ed inversione del rapporto A/G. L’iperglicemia, associata a glicosuria con curva di tolleranza al glucosio di tipo diabetico, è correlata alla gravità del trauma ed è strettamente dipendente dall’azione inibitoria delle catecolamine; tuttavia dopo pochi giorni si instaura una fase di resistenza all’insulina ed il glucosio è prodotto attraverso la gluconeogenesi. Solo nel caso di ustioni di III grado molto piccole l’area cruenta guarisce spontaneamente, mentre nella maggior parte dei casi, per accelerare la guarigione e ridurre gli esiti cicatriziali e l’insorgenza di infezioni, si procede mediante terapia chirurgica precoce (escarectomia) ed innesto. Per quanto riguarda l’estensione, essa viene calcolata con un valore numerico in percentuale rispetto alla superficie corporea totale considerata uguale a 100. Vengono utilizzati schemi particolari (Fig. 3.3) riportando su questi la mappa delle superfici ustionate ad esclusione delle aree di I grado; si procede quindi alla somma percentuale ottenendo il dato numerico in percentuale. Diagnosi e prognosi La diagnosi di ustione è immediata ed evidente. Alcuni problemi, tuttavia, possono presentarsi nel caso di diagnosi differenziale tra ustioni di II grado superficiale e II grado profondo. La 2448 2449 In alternativa ci si può avvalere in modo approssimativo della cosiddetta “regola del 9”. Secondo questa, ai distretti corporei viene dato un valore numerico uguale a 9 o a suoi multipli: gli arti superiori rappresentano ciascuno il 9% della superficie corporea, l’arto inferiore il 18%, la parte anteriore e posteriore del tronco il 36% ed il capo ancora il 9%. Nel caso di bambini, questi schemi devono essere modificati in rapporto all’età, soprattutto se vengono interessate regioni come la testa, le cosce e le gambe; infatti, nei piccoli pazienti i distretti sopracitati occupano percentuali di superficie corporea diverse che nell’adulto. Ruolo importante è determinato anche dalla sede anatomica delle lesioni, perché un interessamento delle vie respiratorie per le complicazioni bronco-pneumoniche, oppure del perineo per quelle infettive, o ancora delle mani e del viso per gli invalidanti ed inestetici esiti cicatriziali, risulta essere un fattore decisamente negativo per la prognosi. Minore importanza ha da un punto di vista prognostico l’età del paziente.A parità di estensione e profondità, i bambini e gli anziani godono di una prognosi peggiore rispetto all’individuo adulto. Sono da considerare infine nell’inquadramento clinico-prognostico dell’ustionato eventuali malattie pregresse come etilismo, diabete o cardiopatie o concomitanti come fratture, emorragie o traumi cranici. Tali valutazioni, proprio perché fondate solo su alcuni dei fattori prognostici, hanno chiaramente un valore indicativo e devono essere opportunamente corrette sulla base dell’esperienza del singolo medico e del reparto in cui egli opera. Ai fini pratici la prognosi viene formulata facendo riferimento soprattutto all’estensione ed alla profondità delle ustioni, distinguendo ustioni lievi, intermedie e gravi. Le prime sono quelle con estensione corporea inferiore al 10% della superficie cutanea con aree di III grado non superiori al 2%. Esse richiedono semplicemente un trattamento ambulatoriale con medicazioni a giorni alterni. Le ustioni intermedie sono lesioni estese al 10-25% della superficie corporea con aree profonde inferiori al 10%. Queste lesioni richiedono un ricovero ospedaliero, non necessariamente in un centro ustioni. Il trattamento perfusionale è necessario nei casi in cui le ustioni superino il 15%. Sono considerate ustioni gravi, e richiedono il ricovero in un centro ustioni, le lesioni che coinvolgono più del 25% della superficie corporea se di II grado o del 10% se di III. Terapia Primo soccorso al paziente gravemente ustionato Sono essenziali da parte dei soccorritori decisioni tempestive attraverso una linea di condotta operativa schematica, che permetta di raggiungere una stabilizzazione delle condizioni cliniche del paziente in modo che questi possa affrontare, con ragionevole sicurezza, il trasporto presso una struttura ospedaliera. Sul luogo dell’incidente il soccorritore deve togliere velocemente gli indumenti che coprono la regione interessata e immediatamente raffreddare le aree ustionate mediante lavaggi in acqua fredda. In questo modo ci si prefigge di sottrarre calore dai tessuti arrestandone l’effetto dannoso e nel contempo di attenuare il dolore, chiamare un’autoambulanza e ricoprire il paziente con un indumento o un telo pulito in attesa di raggiungere il Pronto Soccorso più vicino. In caso di ustioni chimiche bisogna proseguire il lavaggio con acqua fino all’arrivo dell’autoambulanza. All’arrivo del paziente in Pronto Soccorso: Vanno innanzitutto valutate le condizioni generali del paziente ed in particolare le condizioni dell’apparato respiratorio e cardiocircolatorio. In caso di insulto inalatorio il trattamento consiste nella somministrazione immediata di ossigeno al 100%, mentre l’intubazione per via endotracheale deve essere effettuata nei pazienti che hanno perso coscienza o per quelli in arresto respiratorio. Per quanto riguarda l’apparato cardiocircolatorio, oltre al controllo di eventuali emorragie da grossi vasi,va posta attenzione ad alcuni semplici parametri clinici, come la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca,il colorito della cute e delle mucose, il sensorio e la temperatura delle estremità quali indici di eventuale insufficienza di circolo. z Occorre rimuovere completamente tutti i vestiti ed iniziare una terapia infusionale (se questa non è già stata attuata durante il trasporto del paziente), che ha lo scopo di disporre di un accesso venoso prima che lo shock abbia fatto collabire tutte le vene e l’edema le abbia rese praticamente irreperibili.Tale terapia si basa sull’utilizzo di soluzione fisiologica o di Ringer lattato. z Nell’approccio col paziente ustionato va sottolineata la necessità di inserire un catetere vescicale per il controllo della diuresi oraria e un catetere venoso centrale. Quest’ultimo provvedimento è da valutare z 2450 2451 caso per caso in quanto non sempre esiste una necessità assoluta di rilevare la PVC, tranne nel cardiopatico in cui si sospetti un’origine dubbia dell’oliguria. Bisogna ricordare anche che il posizionamento di un catetere venoso centrale per lunghi periodi può infatti essere causa di gravi sepsi. Il dolore nelle prime ore dal trauma è inversamente proporzionale alla gravità delle ustioni;nel dolore grave si può impiegare morfina (2-8 mg ogni 2-4 ore) come farmaco di prima scelta oppure meperidina (10-50 mg × 5) o tramadolo (100 mg × 5). È necessario eseguire i prelievi ematochimici di urgenza. Da un punto di vista locale, nel caso di ustioni profonde localizzate a livello degli arti o del torace, è imperativo effettuare incisioni liberatorie delle lesioni costrittive circonferenziali. Occorre coprire il paziente con teli sterili ed inviarlo presso il centro ustioni più vicino. Trattamento della fase di shock L’accettazione ospedaliera del grande ustionato coinvolge una serie di problemi organizzativi, diagnostici e terapeutici che vanno affrontati con grande impegno dal personale medico e paramedico. Se non ancora fatto, bisogna incannulare una vena centrale ed eseguire nuovi esami ematochimici,compresa la emogasanalisi e la carbossiemoglobinemia nelle ustioni da fiamma. Nelle prime 48-72 ore il problema principale è lo shock ipovolemico che deve essere corretto con un adeguato ripristino della massa circolante. La terapia infusionale varia a seconda della condotta locale; quella da noi adottata nasce dalla constatazione che nella correzione dello shock l’elemento fondamentale è rappresentato dallo ione Na +. La quantità di ione Na+ in mEq necessaria per correggere lo shock da ustione è la seguente: Na + = 0,5 – 0,7 mEq u kg u % di ustione Per quanto riguarda la scelta dei liquidi è consigliabile utilizzare una soluzione contenente HSL (Hypertonic Saline Lactate) 50% + Fisiologica 50%. Poiché il contenuto di mEq di Na+ di ciascun litro di questa soluzione è 225, la quantità di liquidi espressa in litri necessari per le prime 24 ore è data dalla quantità di mEq di Na+ richiesti diviso 225. Se consideriamo per esempio un paziente adulto dal peso di 70 kg e con una superficie ustionata pari al 30%, i litri di soluzione da somministrare sono dati dalla seguente formula: 0,5 u 70 u 30 = 1.050 mEq di Na+ 1.050 mEq: 225 mEq/1= 4,5 l circa di cui il 50% di HSL e il 50% di fisiologica. Questa quantità deve essere somministrata per metà nelle prime 8 ore (dal momento del trauma) e per metà nelle successive 16 ore. È importante ricordare che nei pazienti in età pediatrica il coefficiente di moltiplicazione non è 0,5-0,7 ma 3. Sempre durante le prime 24 ore è divieto relativo di assumere liquidi per bocca per non diluire la concentrazione del volume circolante e per mantenere il principio dell’ipertonicità. Ogni 6 ore deve essere effettuato il controllo della QE, tenendo conto che la sodiemia desiderata si aggira tra i 150 ed i 160 mEq/l. Per natriemie superiori il malato deve essere diluito con soluzioni ipotoniche, per il rischio di disidratazione cellulare. Ematocrito e diuresi oraria sono i parametri da tenere maggiormente in considerazione. Spesso questi due valori sono in contrasto e quindi non è possibile contare su una loro correzione diretta; nasce la necessità di privilegiare l’uno o l’altro. Si sceglie il rene perché è l’organo più colpito dalla vasocostrizione compensatoria degli stati di shock e si comporta come un filtro passivo in relazione al flusso renale ed alla pressione di filtrazione glomerulare. La diuresi oraria (valori normali = 1 cc/kg/ora) è quindi una espressione funzionale di adeguata perfusione del distretto più sensibile agli squilibri perfusionali degli stati di shock. Anche una buona peristalsi intestinale rappresenta un indice di situazione emodinamica compensata. Nelle seconde 24 ore la terapia infusionale viene proseguita con la somministrazione di colloidi (plasma e albumina) e di cristalloidi in proporzione del 50%. È possibile introdurre le soluzioni colloidali perché dopo 24 ore le alterazioni della permeabilità endoteliale si riducono e l’albumina e le altre macromolecole possono essere trattenute nel circolo. Dalla III giornata si può ricorrere a plasma, glucosata e soluzioni di aminoacidi ramificati per l’instaurazione di una adeguata terapia nutrizionale. Contemporaneamente si può posizionare il sondino naso-gastrico con lo scopo di somministrare alimenti ipercalorici in grado di far fronte alla spiccata fase di catabolismo caratteristica di questo malato. Di base si instaura la terapia anche con eparina o calciparina per evitare problemi a carattere tromboembolico; inoltre per prevenire le conseguenze delle ulcere gastrointestinali si somministrano H2antagonisti. Talora si usano anche ȕ-bloccanti come modulatori della risposta adrenergica. Il monitoraggio dei parametri vitali comprende ogni 6 ore la valutazione della: frequenza cardiaca; 2452 z pressione arteriosa; z valutazione stato di coscienza; z glicosuria. Trattamento della fase subacuta Superata la fase di shock, qualora insorga un’infezione locale o sistemica con iperpiressia, si instaura una terapia antibiotica mirata in base all’antibiogramma del microrganismo isolato. Ovviamente questa terapia deve essere associata ad una serie di trattamenti idonei. L’uso di antisettici topici mirati in base al topogramma del germe isolato; una terapia con immunostimolanti; eventualmente una plasmaferesi; un’adeguata terapia nutrizionale; un’escarectomia precoce. Il protocollo nutrizionale da noi utilizzato prevede una somministrazione proteica di 2,5 g/die (3 g/kg/die nei pazienti al di sotto dei 2 anni di età); una somministrazione di carboidrati di 7,2 g/kg/die e di lipidi in quantità tale da colmare la quantità mancante del fabbisogno calorico. Il fabbisogno calorico considerato è indicativamente dato dalla moltiplicazione della superficie corporea per 2.000. Terapia topica Il trattamento locale immediato della lesione da ustione consiste essenzialmente in un’accurata detersione della superficie colpita e delle zone circostanti. Dopo rasatura dei peli e dei capelli in prossimità della lesione, si asportano i detriti di materiale estraneo e le sostanze medicamentose eventualmente applicate in precedenza. Si procede alla detersione delle ferite usando garze sterili imbevute di soluzioni saponose e si asportano accuratamente con strumenti sterili i brandelli di cute ustionata. Due tipi di trattamento locale si sono alternati con maggiore o minore successo nei vari decenni: il trattamento occlusivo e quello esposto. Il trattamento occlusivo consiste nel separare dall’ambiente esterno le superfici ustionate mediante una medicazione.La più comune è composta da tulle di garza non aderente e/o da un antisettico topico, il tutto ricoperto da garze e bende. L’antisettico che viene utilizzato esclusivamente per le lesioni di II grado profondo e III grado solitamente è costituito da pomata alla sulfadiazina di Argento al 5% o dal nitrato di Ag al 5‰ o ancora dal Marfanil (o PAMBA ovvero para metil benzen sulfamide al 2%) in impacco, previa esecuzione di un esame colturale microbiologico. z Viceversa il trattamento esposto consiste nella esposizione all’aria delle superfici ustionate, allo scopo di essiccarle favorendo la formazione di una crosta o di un’escara che separi la superficie dall’ambiente esterno. Particolare attenzione richiedono le ustioni a tutto spessore che interessano circolarmente gli arti ed il tronco. In questi casi l’escara dura ed anaelastica che si forma immediatamente sotto l’azione del calore provoca stasi venosa ed edema a valle che a sua volta aumenta la compressione arteriosa delle parti distali, con conseguente insufficienza circolatoria. In questi casi è necessario eseguire tempestivamente delle incisioni col bisturi in senso longitudinale, interessando a tutto spessore la cute ustionata sino a raggiungere i tessuti sani: si definiscono incisioni liberatorie decompressive. È un trattamento che va eseguito solo in centri attrezzati ed è particolarmente indicato per le lesioni del volto e del perineo. La recente introduzione dei letti a levitazione ha diffuso notevolmente questa pratica in quanto si evita la macerazione delle aree di appoggio. z Terapia chirurgica Nel quadro delle terapie del paziente ustionato il timing chirurgico occupa una parte importante in quanto si tratta non solo di intervenire ricoprendo le aree disepitelizzate o ancora ricoperte da escare, ma anche di rimuovere il più precocemente possibile tessuti necrotici al fine di evitare sia la diffusione di tossine che l’insorgenza di infezioni di difficile controllo. La terapia chirurgica si classifica in escarectomia precoce e ritardata a seconda del momento di esecuzione. È bene procedere ad una prima escarectomia non appena il quadro emodinamico è compensato. In presenza di ustioni estese, cioé quando si considera una percentuale maggiore del 50% della superficie corporea con danno di III grado, le aree da trattare immediatamente sono il torace e l’addome in quanto la funzionalità respiratoria deve essere preservata. Anche gli arti superiori ed inferiori rappresentano aree di prima scelta. Gli interventi successivi possono essere programmati ad intervalli di 4-5 gg. fino a totale rimozione delle escare e copertura delle zone cruente. Le ustioni di profondità parziale (II e III grado profondo) richiedono una escarectomia tangenziale ritardata. Attualmente infatti, grazie alla presenza di letti a flussi laminari vi è una buona percentuale di guarigione spontanea di queste lesioni soprattutto nei bambini con riduzione delle aree da innestare. 2453 Le escarectomie tangenziali superficiali o profonde si realizzano per la rimozione precocissima delle escare. Tramite uno strumento tagliente si asportano gli strati più superficiali del derma o dei tessuti sottostanti non vitali fino ad incontrare un tessuto sanguinante. L’escarectomia tangenziale superficiale permette di conservare una certa quantità di derma, premessa ad esiti cicatriziali meno cospicui, ma d’altra parte comporta maggiori perdite ematiche rispetto alle escarectomie più profonde. L’escarectomia tangenziale profonda può essere estesa a vari livelli di profondità in rapporto alle esigenze di reperire tessuto vitale; pertanto può portare al sacrificio di tutto il derma e del sottocute fino al piano fasciale. L’escarectomia fino alla fascia consente una emostasi accurata e progressiva delle perforanti fasciocutanee e può essere praticata con elettrobisturi o mediante laser chirurgico. Il piano fasciale rappresenta inoltre un sito ricevente molto vascolarizzato, sicuramente più del sottocute, e può quindi garantire percentuali e velocità di attecchimento degli innesti dermoepidermici sicuramente superiori. Effettuata l’escarectomia, la copertura di prima scelta delle aree cruente è rappresentata dall’utilizzo della cute autologa tramite innesti dermo-epidermici (Fig. 3.4), generalmente a rete (mesh graft) ossia sottoposti ad un ampliamento della loro superficie in rapporto solitamente di 1:2. Terapia degli esiti cicatriziali Se le aree donatrici sono insufficienti a coprire le aree cruente del paziente, si ricorre agli innesti di cute omologa. Possono essere utilizzati anche diversi sostituti cutanei, biologici o sintetici, quali la cute di maiale o di bovino o ancora numerosi presidi a base di poliuretano a diverso spessore.Tutti sono comunque da considerare come medicazioni temporanee biologicamente attive a breve termine, che contribuiscono al processo di guarigione della ferita, in particolare dove sia già presente tessuto dermico. Il prelievo di cute è effettuato con strumenti chiamati dermotomi. Le aree donatrici guariscono mediamente in 10-12 gg., dopo di che è possibile riutilizzarle per altri prelievi. In presenza di pazienti gravemente ustionati è possibile ricorrere alle colture di cheratinociti in vitro. Con questa metodica si preleva una piccola isola di cute e la si coltiva su fibroblasti irradiati in topo (3T3) assieme ad appropriati enzimi e fattori di crescita. A distanza di 3 settimane si è in grado di ottenere circa 1 mq di lamine cutanee in grado di coprire la superficie corporea ustionata, specie con le colture ingegnerizzate, cioè con cellule cresciute su appositi sostegni, come per esempio gli esteri di acido ialuronico (HYAFF) (Fig. 3.5). 2454 Accanto alla chirurgia della fase acuta vi è quella degli esiti cicatriziali (Fig. 3.6). Il risultato estetico e funzionale connesso agli esiti cicatriziali da ustione è tuttora motivo di insoddisfazione per il chirurgo plastico e per il paziente, dato che le aree cruente secondarie alle lesioni termiche sono spesso sede di cicatrizzazione anomala, che esita nella formazione di cicatrici ipertrofiche o cheloidi. Dalla guarigione clinica fino alla stabilizzazione cicatriziale si attuano questi provvedimenti:compressione continua con guaine elastiche, lamine di gel di silicone, massaggi, ionoforesi, infiltrazioni con cortisonici e mucopolisaccaridasi. Talvolta, nonostante questi provvedimenti il paziente deve sottoporsi ad un ulteriore iter chirurgico per cercare di riacquisire una buona funzionalità ed un risultato estetico accettabile. La terapia chirurgica spazia dalla Z plastica alla W plastica che permettono, tramite la rotazione di lembi alternati, di ampliare la superficie di movimento per arrivare ai più complessi lembi cutanei, fascio-cutanei, muscolocutanei e lembi liberi. L’espansione tessutale è una tecnica chirurgica di recente acquisizione che si basa sulle proprietà elastiche della cute e che, per mezzo del progressivo aumento di volume degli Skin Expander, inseriti temporaneamente sottocute, permette di avanzare lembi a copertura di aree cicatriziali retraenti o deturpanti. I tempi operatori richiesti sono due: il primo è l’impianto dell’espansore, cui seguono una serie di sedute ambulatoriali durante le quali si introduce soluzione fisiologica in modo da distendere gradualmente la cute. Al riempimento massimo si procede al secondo atto chirurgico con rimozione dell’espansore, escissione delle aree cicatriziali ed infine rotazione di lembi cutanei per la copertura delle stesse. 2455 Letture suggerite z z z z z z z z z 2456 Davies J.W.L.: Physiological responses to burning injury. Academic Press, London, 1982. Donati L. et al.: Clinical use of cultured keratinocytes: the Milan experience. In: Horsch A.E.: Cultured keratinocytes and tissue engineered skin, cap. XI. Thieme Verlag, Berlin, 2001. Donati L. et al.: Trattamento delle ustioni. B. e G.,Verona, 1997. Donati L. et al.: Manuale di trattamento dell’ustione. Monduzzi, Bologna, 2000. Donati L. et al.: Le ustioni. In: Staudacher V.: Manuale di chirurgia d’urgenza e terapia intensiva chirurgica. Masson, Milano, 1983. Echinard C., Latarjet J.: Les brûlures. Masson, Paris, 1995. Herndon M.: Color atlas of burn care, Mosby, Boston, 2000. McCarthy J.: Plastic surgery. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990. Morris A., Stevenson J.H.,Watson A.C.H.: Complications of plastic surgery. Bailliere Tindall, London, 1989. 2457 Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva Capitolo 4 Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA Innesti e impianti G. Boggio Robutti, A. Faga, L. Donati 1 Aspetti generali 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico Innesti 3 Ustioni 4 Innesti e impianti La chirurgia plastica, nel suo aspetto riparativo e ricostruttivo, si trova nella necessità di ricorrere al trasferimento di porzioni di tessuti per riparare perdite di sostanza. 4.1 Innesti 4.2 Impianti Gli innesti costituiscono uno dei metodi basilari perché consentono di trasferire da una sede ad un’altra un tessuto privo di connessioni vascolari. 4.3 Letture suggerite 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella Essi presentano quindi grande versatilità. In teoria qualunque tessuto può essere utilizzato per un innesto. Innesti di cute 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica La cute (Fig. 4.1) è il tessuto più frequentemente usato per gli innesti. Salvo condizioni di impiego particolari come nelle ustioni, nella pratica clinica vengono normalmente usati solo gli innesti autoplastici perché sono gli unici in grado di attecchire in modo permanente. 9 Chirurgia craniofacciale 10 Traumatologia maxillofacciale 2458 2459 specie diversa. Dal punto di vista topografico si possono distinguere gli innesti come segue: x innesti isotopici, quando sede di prelievo e sede ricevente sono anatomicamente analoghe come nel trasferimento di cute da un arto inferiore all’arto contro-laterale; x innesti ortotopici, quando le due sedi non sono analoghe ma lo sono i tessuti trasferiti come nel trasferimento di mucosa da un labbro ad una palpebra per riparare un difetto congiuntivale; x innesti eterotopici, quando il tessuto viene trasferito in una sede dove non è naturalmente presente, come nell’impiego di cute per riparare un difetto mucoso. Gli innesti di cute possono schematicamente essere classificati secondo il loro spessore: x innesti sottili (tipo Thiersch-Ollier): comprendono l’epidermide e la porzione più superficiale del derma; x innesti ad un terzo di spessore (tipo Blair-Brown): comprendono l’epidermide ed il terzo superiore del derma; x innesti a due terzi di spessore (tipo Padgett): comprendono l’epidermide ed i due terzi superiori del derma; x innesti a tutto spessore (tipo Wolfe-Krause): comprendono la cute a tutto spessore. Per consentire l’attecchimento di un innesto devono essere rispettate precise condizioni. L’innesto deve avere uno spessore regolare ed essere totalmente privo di residui di tessuto sottocutaneo; la sede ricevente deve essere detersa, libera da residui necrotici e corpi estranei e ben vascolarizzata per consentire all’innesto una immediata sopravvivenza. Il contatto tra innesto e superficie ricevente deve essere assicurato da una moderata compressione e da una rigorosa immobilizzazione. Il prelievo di un innesto di cute viene eseguito con un bisturi quando si vuole ottenere un innesto a tutto spessore; negli altri casi si utilizzano appositi apparecchi chiamati dermotomi (Fig. 4.2 a, b). Gli innesti attecchiscono tanto più facilmente quanto più sono sottili mentre, al contrario, il risultato estetico e funzionale è tanto migliore quanto più essi sono spessi. Gli innesti sottili infatti assumono aspetto cicatriziale, sono discromici e tendono a retrarre; gli innesti di maggior spessore, invece, conservano le caratteristiche della cute della regione donatrice rimanendo morbidi, elastici e di aspetto normale. L’innesto sottile viene impiegato quindi nelle situazioni riparative più difficili, come soluzione di emergenza o di ripiego; quello spesso invece viene usato quando sia necessario conservare il mantenimento della funzione o dell’aspetto estetico della regione da riparare. L’uso di un innesto è comunque sempre una soluzione sicura, pratica e versatile ma grossolana ed aspecifica ed è da considerare una procedura con finalità esclusivamente riparative e non ricostruttive. Dal punto di vista biologico gli innesti vengono classificati nel modo seguente: x innesti autoplastici, quando vengono eseguiti sullo stesso individuo; x innesti alloplastici (o omoplastici), quando il trasferimento avviene tra due individui della stessa specie; x innesti isoplastici, quando donatore e ricevente sono geneticamente identici, come nell’uomo tra gemelli monocoriali o nell’animale tra ceppi inbred; x innesti xenoplastici (o eteroplastici), quando il trasferimento si verifica tra due individui di 2460 2461 sottile prelevato da una zona limitrofa. La riparazione per seconda intenzione porta invece a una guarigione lenta, con costituzione di cicatrici esuberanti ed ipercromiche e quindi esteticamente sgradevoli. Modalità di attecchimento Ve ne sono di diverso tipo: z il coltello a lama regolabile: è di uso rapido e disinvolto ma richiede buona esperienza manuale; z il dermotomo a tamburo: è di uso più complesso ed indaginoso ma consente il prelievo di innesti molto precisi e regolari; è caduto in disuso pressoché ovunque; z il dermotomo elettrico e quello ad aria compressa: sono più facili da controllare,consentono l’uso anche ai chirurghi inesperti ed il prelievo anche in zone a superficie irregolare. Le zone normalmente utilizzate per il prelievo di un innesto sottile o medio sono le cosce, le natiche, l’addome: queste zone infatti sono ampie, pianeggianti e permettono un abbondante prelievo di cute; consentono inoltre di essere nascoste dagli indumenti e quindi gli eventuali reliquati cicatriziali arrecano un danno estetico modesto. Per il prelievo di un innesto a pieno spessore sono invece preferibili zone con cute morbida, spessore e colore uniformi, aspetto piacevole e buona sensibilità: la regione retroauricolare, la regione sopraclaveare, la piega del gomito, la regione inguinale, la superficie interna del braccio. La guarigione della zona donatrice dell’innesto varia a seconda dello spessore del prelievo. Il prelievo di un innesto interrompe tutte le sue connessioni vascolari e nervose con l’area donatrice ed il suo aspetto immediato è quindi intensamente pallido. Il contatto tra innesto e zona ricevente viene in un primo momento stabilito attraverso una trama di fibrina. La sopravvivenza delle cellule dell’innesto nell’intervallo tra prelievo e ripristino delle connessioni vascolari è assicurata dall’assorbimento di fluidi dalla regione ricevente. Questo processo, un tempo denominato erroneamente circolazione plasmatica, può essere più propriamente definito come imbibizione sierica ed è in grado di garantire all’innesto una valida nutrizione per almeno due giorni. Si può ritenere che il ruolo della rete vascolare dell’innesto sia del tutto temporaneo e che i suoi vasi servano soltanto da guida per l’organizzazione di una nuova rete. Già 5 ore dopo l’intervento si possono osservare nel letto ospitante mitosi endoteliali che partono dal fondo e dai margini della lesione e continuano fino a stabilire la vascolarizzazione definitiva. Le prime anastomosi tra l’innesto e l’ospite si possono documentare tra le 24 e le 72 ore dopo l’intervento. Un vero flusso di sangue nell’innesto è evidente già nella terza giornata. La rivascolarizzazione si completa fra il sesto ed il settimo giorno e in ottava giornata si verifica la differenziazione tra arteriole e venule. Il flusso ematico nell’innesto si normalizza entro i 20 giorni. Questi sintetici dati permettono di comprendere la necessità di immobilizzare l’innesto nei primi giorni e la difficoltà di attecchimento di quelli più spessi per la maggior complessità della loro struttura cutanea e la maggiore attività richiesta per la completa formazione della rete vascolare. Entro tre mesi dall’intervento si completa la reinnervazione, che però è frequentemente accompagnata da disturbi soggettivi come iperestesia e parestesia con dissociazione spaziale. Per quanto concerne gli annessi cutanei, il loro mantenimento è limitato per la funzione sudorifera a una lieve ripresa solo negli innesti a pieno spessore, mentre la funzione sebo-secretrice può essere presente anche negli innesti a spessore inferiore. La rivascolarizzazione dell’innesto avviene attraverso tre meccanismi: x inosculazione, cioè la connessione casuale diretta tra i vasi dell’ospite e quelli dell’innesto; x crescita dei vasi dell’ospite fino ad abboccarsi con quelli dell’innesto; x neoformazione di una nuova rete vascolare che parte dai vasi dell’ospite. Innesti alloplastici In tal caso, se la zona di prelievo è limitata può essere riparata suturando i margini per avvicinamento; quando le superfici sono ampie si può provvedere alla riparazione con un innesto Come si è detto un innesto alloplastico non può giungere all’attecchimento definitivo ed ha quindi una sopravvivenza di pochi giorni. Le indicazioni in chirurgia plastica sono perciò limitate alla necessità di una terapia d’urgenza, che trova la sua principale applicazione nelle grandi ustioni. In questo tipo di patologia infatti l’estensione del danno cutaneo può essere tale da impedire l’impiego di autoinnesti creando però nel contempo la necessità di fornire una copertura biologica immediata delle zone esposte. L’uso degli innesti alloplastici in questi casi permette di raggiungere i seguenti obiettivi: la protezione delle zone ustionate dall’inquinamento infettivo e dall’azione degli agenti atmosferici, l’attenuazione del dolore, la limitazione delle perdite plasmatiche, sierose ed ematiche. L’attecchimento di un innesto omologo segue le tappe biologiche degli innesti autologhi fino al momento in cui, con la piena ripresa degli scambi vascolari tra ospite ed innesto, si instaurano fatalmente i fenomeni di rigetto che portano alla trombizzazione ed alla necrosi del tessuto tra la settima e la decima giornata dopo l’intervento. La reazione di rigetto della cute è molto intensa e 2462 2463 Nel caso di un innesto sottile o medio la zona donatrice tende alla guarigione spontanea per riepitelizzazione a partenza dal fondo degli annessi cutanei. La guarigione si completa nell’arco di 15-21 giorni dopo i quali è possibile ripetere il prelievo nella stessa zona. Nel caso dell’innesto a pieno spessore o a tre quarti di spessore la guarigione spontanea può invece avvenire solo per seconda intenzione. parzialmente diversa, nei suoi meccanismi, rispetto agli altri tessuti, a causa delle proprietà immunocompetenti delle cellule di Langerhans presenti nell’epidermide. nella ricostruzione mammaria. Le zone donatrici vengono in questi casi normalmente riparate per semplice avvicinamento dei margini. Gli innesti alloplastici di cute devono quindi essere considerati come un mezzo terapeutico provvisorio, utilizzabile solo in attesa che il quadro clinico consenta la riparazione con cute autologa. Innesti di tessuto adiposo La cute da utilizzare per un innesto alloplastico può essere prelevata dal vivente o dal cadavere. Nel primo caso si preferisce rivolgersi ad un consanguineo del paziente, nel quale è prevedibile una somiglianza immunogenetica che può limitare l’entità del rigetto e rallentarne la velocità.La cute prelevata può essere utilizzata subito – come di solito avviene in questi casi – o essere conservata – se è in quantità esuberante – ed utilizzata per innesti successivi. Nel secondo caso la cute può essere fornita da una banca della pelle. Si tratta di strutture generalmente presenti presso i Centri Grandi Ustionati, che sono gli utilizzatori per eccellenza di questo materiale. Il prelievo dal cadavere deve essere eseguito preferibilmente entro 12 ore dal decesso o al massimo entro 24 ore. Il funzionamento di una banca della pelle, analogamente a tutte le strutture ove si effettuano trapianti d’organo, è regolamentato da una rigorosa legislazione. La conservazione della cute dopo il prelievo può essere effettuata in varie maniere: x a +4 °C in ambiente umido e sterile per non più di due settimane; x a –196 °C per immersione in azoto liquido previo raffreddamento graduale e citoprotezione con dimetilsulfossido o con glicerolo. Così protetta la cute può essere conservata per almeno 6 mesi in condizioni di vitalità latente e, scongelata, è in grado di attecchire come una pelle normale; x a temperatura ambiente sotto vuoto dopo essere stata liofilizzata, per un tempo praticamente illimitato. Questo trattamento toglie ogni vitalità alla cellula per cui la pelle dopo la reidratazione non è più in grado di attecchire perché non è più viva ma rappresenta solamente una possibilità di medicazione biologica. Innesti xenoplastici Gli innesti xenoplastici sono quelli effettuati tra due individui di specie diversa. Gli animali usati come donatori sono il maiale, il vitello ed il feto bovino. La vascolarizzazione dell’eteroinnesto cutaneo non è però mai stata dimostrata nell’uomo per nessuna specie animale. Un eteroinnesto quindi non provoca un vero rigetto né la comparsa di anticorpi circolanti ma solo una risposta infiammatoria aspecifica. L’innesto xenoplastico per questa ragione può rimanere in sede anche per due settimane; dopo questo periodo viene eliminato per necrosi ischemica. Le indicazioni all’impiego degli eteroinnesti sono sovrapponibili a quelle degli innesti alloplastici. La cute xenoplastica viene prodotta a livello commerciale in forma liofilizzata ed usata in sostituzione di quella alloplastica, meno facilmente disponibile. Innesti di mucosa Hanno le stesse modalità di attecchimento dell’innesto cutaneo del quale condividono le indicazioni.Vengono impiegati normalmente a tutto spessore per riparare il fornice gengivale o quello congiuntivale. Un impiego particolare della mucosa della regione genitale – prepuzio nel maschio e piccole labbra nella femmina – è quello di sfruttare la loro particolare morbidezza, la loro pigmentazione e la totale assenza di peli per la ricostruzione dell’areola e del capezzolo, soprattutto 2464 L’innesto adiposo non è utilizzabile per la povertà della sua rete vascolare che conduce inevitabilmente ad una necrosi ischemica con colliquazione completa del tessuto stesso. Per consentire la sua sopravvivenza è necessario trasferirlo in associazione con il derma profondo al quale esso è collegato: la ricchezza della rete vascolare dermica consente in tal modo la sopravvivenza del tessuto adiposo. Il comportamento dell’innesto dermoadiposo, come viene chiamato in questo caso, è analogo a quello descritto nell’innesto cutaneo; le connessioni circolatorie del derma con la sede ricevente riprendono dopo circa 4 giorni dall’innesto. Una parte delle cellule adipose va fatalmente incontro a sofferenza ed a lisi e le cellule necrotiche vengono asportate da una popolazione di istiociti che si raccolgono nella sede dell’innesto. Per il suo incostante comportamento è necessario utilizzare una quantità di tessuto adiposo maggiore di quella apparentemente necessaria in previsione di un parziale riassorbimento. Le indicazioni all’innesto dermoadiposo sono costituite da perdite di sostanza sottocutanea che causano una alterazione del normale profilo di una regione. Come regioni donatrici si utilizzano le natiche o l’addome per la loro ricchezza in tessuto adiposo sottocutaneo e per la possibilità di situarvi cicatrici più facilmente mascherabili. L’innesto dermoadiposo può andare incontro, dopo il suo attecchimento,alla formazione di cavità cistiche nel contesto della sua massa adiposa. Negli ultimi 10 anni si è andata affermando, per la correzione di difetti di modesta entità, la pratica del “lipofilling”, consistente nell’innesto di piccolissimi lobuli di tessuto adiposo ottenuti mediante aspirazione con un apposito ago-cannula e analogamente collocati nel sito ricevente mediante iniezione transcutanea. È dimostrato l’attecchimento di una minoranza di adipociti, verosimilmente grazie alle piccole dimensioni dei lobuli innestati. Innesti di osso Il tessuto osseo viene impiegato quando si debba sostituire o costituire una rigida impalcatura di sostegno. Perché l’innesto attecchisca è necessario che venga trasferito completo del suo periostio e posto a contatto con il periostio dell’osso ricevente in modo da mantenere la funzione osteogenetica. In tal caso fin dalla prima settimana può avvenire una ripresa delle connessioni vascolari che consentiranno all’osso di attecchire, anche se dovrà essere parzialmente riassorbito e rimodellato. Se queste condizioni non vengono rispettate l’innesto viene invece completamente riassorbito dagli istiociti e si trasforma in una massa fibrosa. L’osso viene prelevato dalle seguenti sedi: z le coste, che possono essere impiegate come tali o divise per la loro lunghezza in due parti e quindi duplicate; è la zona di prelievo ideale nei bambini perché il periostio residuo della zona di prelievo genera nuovo tessuto osseo e quindi ricostituisce la costa asportata; z la cresta iliaca, che fornisce una abbondante quantità di tessuto facilmente modellabile; z la cresta tibiale anteriore, utilizzata in condizioni molto particolari così come il grande trocantere ed il processo olecranico, che forniscono piccole quantità di tessuto osseo e non sono quindi di impiego comune. Va segnalata la possibilità di utilizzare osso omologo, il quale però deve essere trattato 2465 preliminarmente con la bollitura, con la liofilizzazione o con l’irradiazione in modo da essere totalmente privato dei suoi costituenti cellulari; in questi casi si tratta di una semplice struttura minerale che serve per guidare provvisoriamente la formazione di tessuto connettivo e non rappresenta un vero e proprio innesto in grado di attecchire. Innesti di cartilagine Le indicazioni di questo innesto sono costituite dalle piccole perdite di sostanza che rendono necessaria la creazione di una impalcatura sottocutanea sostenuta ma elastica come per le ali del naso, il padiglione auricolare, il tarso palpebrale. La cartilagine in alcuni casi può essere frammentata ed utilizzata per colmare perdite di sostanza ossea, per la forma compatta che assume dopo l’attecchimento. L’attecchimento ha luogo per imbibizione. Le regioni donatrici sono le cartilagini costali, il setto nasale ed il padiglione auricolare. L’assenza di una rete vascolare consente di utilizzare la cartilagine anche come omoinnesto: questo infatti non provoca risposta immunitaria, ma viene totalmente riassorbito. È stato recentemente introdotto l’uso della cartilagine bovina irradiata che viene preparata in forma commerciale e conservata senza necessità di particolari cautele. Essa si comporta analogamente ad un impianto sintetico perché, essendo liofilizzata, non contiene elementi vitali; provoca quindi da parte dell’ospite una normale reazione da corpo estraneo. Innesti di muscolo laterale dell’avambraccio, dal safeno, dagli intercostali, dalla branca superficiale del radiale. La tecnica di sutura dei nervi va eseguita con manualità microchirurgica: non deve infatti essere limitata al perinervio ma va estesa all’epinervio ed alle guaine interfascicolari; nei centri più specializzati è possibile suturare un nervo rispettandone con buona approssimazione la mappazione,così da limitare la comparsa di dissociazioni,sia sensitive che motorie. Innesti di tendini e di fascia Un tendine è costituito da un insieme di fasci più piccoli separati tra loro da sottilissimi foglietti connettivali lungo i quali corrono sottili vasi nutritizi che si anastomizzano con la rete vascolare dei foglietti che avvolgono il tendine stesso. L’attecchimento dell’innesto avviene, dopo i primi 3 o 4 giorni di ischemia,mediante anastomosi vascolare tra il letto ricevente e la rete propria del tendine. Le due estremità dell’innesto si saldano a quelle riceventi con un processo di normale cicatrizzazione. Considerate le caratteristiche di un tendine è evidentemente necessaria l’assoluta immobilizzazione per almeno 4 settimane. Se l’innesto è destinato a funzioni dinamiche la costituzione di aderenze cicatriziali lungo il suo decorso può essere causa di insuccesso dell’intervento: è indispensabile infatti che il tendine possa liberamente scorrere nel tessuto circostante. Ciò non ha importanza invece quando il tendine viene usato a scopo statico, come sospensione di tessuti ptosici. I tendini che possono venire prelevati sono quelli dei muscoli palmare lungo, plantare gracile, estensore lungo delle dita dei piedi. Un tessuto simile a quello tendineo è la fascia muscolare, in particolare la fascia lata, che viene utilizzata sia con funzioni di sostegno per sospensione di tessuti, sia con funzioni di rinforzo come nella ricostruzione della parete addominale o toracica, sia con funzioni di riempimento di modeste perdite di sostanza sottocutanea. Il tessuto muscolare attecchisce facilmente grazie alla sua ricca vascolarizzazione, ma va incontro alla perdita della funzione per degenerazione nervosa con conseguente atrofia delle fibre muscolari. Per conservarne la funzione sono stati sperimentati metodi di autonomizzazione del muscolo con la sua denervazione eseguita due settimane prima del trasferimento, ma i risultati sono incostanti. Le indicazioni sono costituite dalla riparazione di paralisi dei muscoli della bocca e delle palpebre o dalla ricostruzione degli sfinteri anale e vescicale. Il prelievo dei muscoli da innestare non deve naturalmente compromettere le normali funzioni del paziente; il muscolo estensore breve delle dita del piede ed il muscolo palmare lungo sono quelli che meglio rispondono a questo requisito. Attualmente l’innesto di muscolo è da considerarsi una pratica desueta, sostituita dal trapianto microchirurgico di unità funzionali neuromuscolari. Innesti di nervo Un innesto di nervo attecchisce a livello delle cellule di Schwann e delle guaine connettivali, ma il tessuto nervoso va incontro alla degenerazione walleriana e quindi alla perdita della funzione. Questa può essere recuperata con la sua neurotizzazione per rigenerazione, da parte degli assoni, del moncone di nervo prossimale. Il recupero della conduzione nervosa è però ostacolato dal processo di cicatrizzazione che tende ad invadere l’innesto ed il moncone distale del nervo da riparare. Le indicazioni all’innesto di tessuto nervoso sono costituite principalmente dalle lesioni traumatiche che creano una soluzione di continuo di un nervo tale che i due capi separati non possano essere semplicemente avvicinati. I nervi donatori sono costituiti dal nervo surale, dal cutaneo ulnare dell’avambraccio, dal cutaneo 2466 2467 Impianti Il materiale ideale per un impianto deve essere: x fisicamente immutabile; x chimicamente inerte; x non conduttore di calore e di elettricità; x resistente ai traumi; x facilmente fabbricabile e reperibile; x facilmente modellabile; x sterilizzabile; x non flogogeno; x non carcinogeno; x non allergizzante. Gli innesti autoplastici che,come abbiamo detto,sono gli unici in grado di attecchire stabilmente presentano peraltro diversi inconvenienti: sono disponibili in quantità limitata, il loro prelievo crea sempre un esito cicatriziale con deficit secondario, possono non attecchire totalmente o parzialmente, sono spesso strutturalmente alterati dai processi cicatriziali ed evolutivi.È quindi evidente che a scopi ricostruttivi si è da sempre ricercato un materiale sintetico in grado di sostiturli. Tralasciando quelli di impiego più remoto,come l’oro e l’avorio, va citata la paraffina che,all’inizio del nostro secolo,ha suscitato molto interesse per il suo particolare stato fisico (solido alla temperatura corporea ma fluido a 50 °C) e che può essere iniettata in sede sottocutanea per colmare depressioni e creare sostegno alla pelle.Vennero segnalate però gravi reazioni da corpo estraneo con costituzione di masse infiammatorie chiamate paraffinomi. Tra nuovi entusiasmi e puntuali delusioni si giunse così alle conquiste dell’industria chimica che, dal secondo dopoguerra, produce sostanze assai prossime alle caratteristiche richieste per un impianto, anche se in verità non esiste nessun materiale dotato pienamente di tutte queste virtù, anche perché solo un’esperienza pluriennale può dimostrare se le caratteristiche evidenziatesi in laboratorio si mantengono tali nella realtà clinica. All’impianto di un qualsiasi materiale sintetico, conseguono inevitabilmente alcune reazioni biologiche, dipendenti essenzialmente dalle caratteristiche fisico-chimiche dell’impianto stesso. Quando queste reazioni assumono un’espressività di grado elevato, possono essere causa di quadri clinici patologici. 2468 Attualmente i materiali da impianto legalmente in commercio, compreso il silicone in tutte le sue forme, non sono né cancerogeni né induttori di patologie autoimmuni. Ogni diversa affermazione al riguardo è da considerare pura fantasia, in quanto non dimostrata da nessuno studio controllato. I materiali da impianto attualmente in uso possono essere classificati da diversi punti di vista: in base alle caratteristiche fisiche, alle caratteristiche chimiche, alle reazioni biologiche che possono indurre, alla destinazione clinica. La classe chimica più versatile e che ha avuto un ruolo protagonista negli ultimi 25 anni è rappresentata dai siliconi, polimeri il cui nome chimico è dimetilpossilossano. Si tratta di catene la cui lunghezza determina lo stato fisico della sostanza, che può essere resa liquida con catene più corte, semifluida, morbida o compatta con l’aumentare della lunghezza. In forma solida il silicone è stato utilizzato fondamentalmente come sostituto dell’osso, delle cartilagini, dei tendini e delle fasce, anche se ormai è da considerare superato a questo riguardo. Altri materiali utilizzabili allo stato solido, sia in blocchi compatti sia in fogli, sono le varie resine, acriliche, poliviniliche e polietileniche, il teflon ed il Gore-tex. Caratteristiche di questi ultimi e più moderni materiali è di possedere una struttura microporosa, tale da potere essere colonizzata da microfibre connettivali neoformate, che stabilizzano l’impianto stesso. Sono utilizzati come sostituti dell’osso e, più correttamente, in sostituzione di innesti di fascia, là dove è richiesta una sospensione o una contenzione. In sostituzione dell’osso l’orientamento attuale è verso le ceramiche, eventualmente associate a metalli nobili (Ti, Vi, Ta), specie nella chirurgia delle articolazioni, oppure, più fisiologicamente, verso materiali osteoinduttori ed osteoconduttori, sia destinati a rimanere a permanenza in sede, come le fibre di vetro e l’idrossiapatite (fosfato tricalcico), sia destinati al riassorbimento, come il corallo naturale (carbonato di calcio). Un posto a parte è occupato dal carbonio pirolitico, variante della molecola di carbonio puro,che viene utilizzato come rivestimento di altri materiali, a causa della sua proprietà di evocare una modestissima reazione da corpo estraneo.Viene utilizzato da anni per rivestire protesi valvolari cardiache e da qualche tempo viene utilizzato sperimentalmente per rivestire protesi mammarie ed espansori cutanei. Recentemente molta attenzione è stata dedicata all’impiego di materiali “biodegradabili”. Tra questi vanno segnalati: i derivati dell’acido polilattico, con i quali sono stati costruiti, oltre che fili di sutura e fettucce, anche placche e viti per fissazione ossea, e il collagene bovino. Quest’ultimo viene utilizzato in forma spugnosa, come induttore della neoangiogenesi ma soprattutto in forma liquida per correggere, mediante semplici iniezioni, piccole depressioni della superficie cutanea (rughe, cicatrici eccetera). Nell’ambito dei materiali fluidi ricordiamo il silicone gel, come riempimento delle protesi mammarie. Si segnalano infine, per puro dovere di completezza dottrinale, il silicone fluido ed il silicone come sospensione di microsferule, in quanto l’impiego di tali preparazioni, oltre ad essere ai limiti della legalità, è assolutamente da proscrivere. Infatti l’organismo reagisce all’iniezione di silicone fluido scindendo il materiale in minutissime gocce,che vengono sequestrate con vivace reazione infiammatoria da corpo estraneo.Inoltre, se iniettato in grandi quantità,tende per gravità o per i movimenti muscolari a spostarsi dalla sede in cui è stato introdotto. Questo comportamento è imprevedibile e responsabile di gravi conseguenze. Qualsiasi tipo di impianto si utilizzi, è fondamentale che venga posizionato al di sotto di un piano cutaneo-sottocutaneo perfettamente trofico, integro e privo di cicatrici (Tab. 4.3). 2469 Letture suggerite z z z z z 2470 Brunelli G.: Textbook of Microsurgery. Masson, Milano, 1988. Donati L., Farneti A., Tallacchini M.C.: Aspetti medico-legali e normativi dei prodotti dell’ingegneria tessutale. Giuffrè Editore, Milano, 1998. Giachero E.: Materiali Sintetici in Chirurgia Plastica. Libreria Cortina, Milano, 1992. McCarthy J.G.: Plastic Surgery, Vol. I.W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990. Smith J.W., Aston S.J.: Grabb and Smith’s Plastic Surgery. Little, Brown and Co., Boston, 1991. 2471 Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA 1 Aspetti generali 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva 3 Ustioni 4 Innesti e impianti 5 Trapianti Capitolo 5 5.1 Lembi a vascolarizzazione casuale 5.2 Lembi arterializzati Trapianti 5.3 Letture suggerite 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella G. Boggio Robutti, A. Faga, L. Valdatta 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica 9 Chirurgia craniofacciale Con il termine trapianto si indica il trasferimento di un organo o di un tessuto conservando un peduncolo vascolare che ne consenta la sopravvivenza. 10 Traumatologia maxillofacciale I trapianti di cute sono alla base di numerose tecniche ricostruttive laddove, al contrario degli innesti, che danno risultati modesti sia dal punto di vista estetico sia funzionale, essi consentono il conseguimento di migliori ricostruzioni, giacché mantengono tutti i caratteri di una vera e propria cute, in quanto sono forniti di tessuto sottocutaneo e di normale vascolarizzazione. I trapianti di cute vengono d’abitudine denominati “lembi cutanei” o skin flaps secondo la terminologia anglosassone. I trapianti di cute possono essere schematicamente suddivisi in due tipi a seconda delle caratteristiche del loro peduncolo vascolare: x lembi a vascolarizzazione casuale con peduncolo nutritizio che include una vascolarizzazione non precisamente identificata; x lembi arterializzati, quando il peduncolo è costituito da vasi afferenti al lembo stesso anatomicamente ben identificati. Quando il peduncolo vascolare di un lembo arterializzato viene reciso, per essere abboccato mediante microanastomosi vascolare a vasi della sede ricevente, si parla di “lembo libero” o free flap. 2472 2473 Con il termine trapianto si indica il trasferimento di un organo o di un tessuto conservando un peduncolo vascolare che ne consenta la sopravvivenza. I trapianti di cute sono alla base di numerose tecniche ricostruttive laddove, al contrario degli innesti, che danno risultati modesti sia dal punto di vista estetico sia funzionale, essi consentono il conseguimento di migliori ricostruzioni, giacché mantengono tutti i caratteri di una vera e propria cute, in quanto sono forniti di tessuto sottocutaneo e di normale vascolarizzazione. I trapianti di cute vengono d’abitudine denominati “lembi cutanei” o skin flaps secondo la terminologia anglosassone. I trapianti di cute possono essere schematicamente suddivisi in due tipi a seconda delle caratteristiche del loro peduncolo vascolare: x lembi a vascolarizzazione casuale con peduncolo nutritizio che include una vascolarizzazione non precisamente identificata; x lembi arterializzati, quando il peduncolo è costituito da vasi afferenti al lembo stesso anatomicamente ben identificati. Quando il peduncolo vascolare di un lembo arterializzato viene reciso, per essere abboccato mediante microanastomosi vascolare a vasi della sede ricevente, si parla di “lembo libero” o free flap. Lembi a vascolarizzazione casuale Questi lembi (random flaps) sono quelli di più comune impiego. Possono avere peduncolo singolo o doppio, possono essere allestiti come lembi piani o tubolizzati ed essere impiegati in prossimità della loro sede di prelievo o a distanza da essa. Lembi piani monopeduncolati I lembi piani monopeduncolati hanno forma approssimativamente rettangolare od ovale (Fig. 5.1); uno dei lati minori non viene inciso e costituisce il peduncolo del lembo. Come regola generale la larghezza del peduncolo non dovrebbe essere inferiore alla metà della lunghezza del lembo per evitare che una insufficiente irrorazione possa condurlo a necrosi parziale o addirittura totale. Nel trasferimento di un lembo dalla sede donatrice a quella ricevente si deve porre attenzione ad evitare uno stiramento o una torsione eccessivi del peduncolo che potrebbero causare lo strozzamento dei vasi. 2474 Non si deve allestire un lembo di cute non perfettamente integra, quale quella interessata da cicatrici o da pregressi trattamenti con radiazioni ionizzanti, che potrebbero avere ridotto notevolmente l’assetto vascolare della regione. Un lembo a vascolarizzazione casuale deve seguire particolari regole a seconda della regione in cui viene tracciato: sul tronco non deve mai attraversare la linea mediana, sugli arti deve avere il peduncolo situato prossimalmente. Sul viso esiste invece una rete vascolare così ricca da consentire di trasgredire alla regola della proporzione tra la lunghezza del lembo e la larghezza del peduncolo e di allestire lembi apparentemente molto audaci. Un lembo può andare incontro a sofferenza da ischemia se l’irrorazione arteriosa è insufficiente ed apparirà in tal caso di colorito pallido; da stasi se è invece insufficiente lo scarico venoso ed in tal caso il lembo diventerà gradualmente cianotico nel giro di alcune ore. La riparazione della zona donatrice di un lembo può avvenire in due modi: per semplice avvicinamento dei margini se questo è consentito dalla grandezza della perdita di sostanza e dall’elasticità della cute della regione o con applicazione di un innesto cutaneo quando non sia possibile la prima modalità. In questo caso l’innesto può essere applicato immediatamente all’atto dell’intervento di rotazione del lembo o in un successivo intervento che, eseguito a distanza di 8 o più giorni dal primo, consentirà di applicare l’innesto cutaneo su un tappeto di tessuto di granulazione che ne faciliterà l’attecchimento. In zone con vascolarizzazione a rischio, come negli arti inferiori, o in lembi con particolari dimensioni è opportuno eseguire un procedimento preliminare denominato autonomizzazione. Esso consiste nello scolpire il lembo nella forma desiderata, ma anziché ruotarlo o farlo scorrere immediatamente nella regione da riparare, riporlo provvisoriamente nella sede del prelievo. Ciò consente di verificare,prima del definitivo trasferimento, se il lembo è sufficientemente vascolarizzato; in caso contrario si può provvedere, dopo alcuni giorni, alla eliminazione della porzione che risulta sofferente utilizzando con sicurezza la parte residua. Inoltre, così facendo, si abitua il lembo a vivere in condizioni di vascolarizzazione ridotta: è dimostrato infatti che una riduzione vascolare stimola la crescita dimensionale e numerica dei vasi del peduncolo e migliora quindi la possibilità di sopravvivenza del lembo successivamente trasferito. L’intervento di trasferimento definitivo nella sede ricevente può essere eseguito 8 giorni dopo l’autonomizzazione. In casi particolari è possibile anche frazionare l’autonomizzazione in tempi diversi in maniera da rendere il procedimento ancora meno rischioso. Un lembo piano può essere trasferito in prossimità della zona di allestimento per scorrimento o per rotazione a seconda delle particolari esigenze riparative. 2475 eseguito può essere separato dalla regione donatrice solo dopo un periodo di almeno 3 settimane, necessario perché si stabiliscano connessioni vascolari, tra il lembo e la regione ricevente, tali da consentire la recisione del peduncolo senza danni per la vitalità del trapianto. Questo metodo presenta, rispetto al lembo piano di prossimità, alcuni aspetti negativi perché le due regioni anatomiche unite dal trapianto devono essere mantenute in stretta immobilità e la posizione è spesso di grave disagio per i pazienti che, soprattutto se anziani, possono conseguire anchilosi articolari difficilmente risolvibili; inoltre occorrendo ripetuti interventi si ripetono i rischi anestesiologici e di contaminazione infettiva e soprattutto si rendono necessarie lunghe degenze. A seconda delle regioni anatomiche coinvolte nel trapianto si distinguono diversi tipi di trapianto a distanza. Plastica a zeta Una modalità di frequente impiego dei lembi piani di prossimità è la cosiddetta plastica a zeta (Fig. 5.2). Essa consiste nella trasposizione di due lembi piani triangolari di dimensioni eguali disposti in modo che i loro margini formino una zeta.Trasponendo i due lembi l’incisione centrale della zeta cambia direzione di circa 90°; per l’elasticità della cute avviene una variazione dimensionale della regione con un allungamento in corrispondenza dell’incisione centrale ed un contemporaneo restringimento in senso perpendicolare ad esso. L’allungamento che si può così ottenere dipende dall’ampiezza degli angoli formati dall’incisione centrale con le due incisioni laterali: con angoli di 30° si ha un allungamento del 25%, con angoli di 45° del 50%, con angoli di 60° del 70%. Queste possibilità dipendono naturalmente dalla regione e dalla sua capacità di cedere in una direzione a vantaggio dell’altra. È inoltre fondamentale che le due incisioni estreme della zeta decorrano parallelamente alle linee di tensione cutanea. La plastica a zeta è impiegata fondamentalmente nella correzione delle retrazioni cicatriziali, soprattutto in corrispondenza di superfici flessorie. La plastica a zeta può essere eseguita, oltre che con due lembi, anche con lembi multipli in situazioni particolari come la correzione di una cicatrice particolarmente lunga. z Con il termine cross leg si indica la riparazione di una perdita di sostanza di un arto inferiore mediante un lembo a distanza dall’arto contro-laterale; il lembo viene generalmente ricavato dalla regione surale o dalla coscia. L’intervento serve per riparare lesioni con esposizione di tendini ed ossa, di fistole osteomielitiche o di necrosi cutanee per fratture esposte con impianto di placche e viti metalliche. z Cross arm: il lembo viene prelevato sulla superficie interna del braccio ed utilizzato per riparare lesioni dell’arto contro-laterale, in particolare della mano. z Cross finger: riparazione della superficie volare di un dito della mano mediante un lembo ricavato dalla superficie interdigitale di un dito adiacente.Per riparare perdite di sostanza della punta delle dita è anche possibile utilizzare un lembo analogo ricavato dalla regione tenar. Un esempio storico di lembo ricavato dalla faccia interna del braccio e condotto a riparare una perdita di sostanza del viso, in particolare del naso, è quello conosciuto col nome di metodo italiano. Il torace e l’addome possono anch’essi fornire abbondante cute per la riparazione di perdite di sostanza degli arti superiori, che vengono facilmente avvicinati e mantenuti in contatto con essi. Espansione cutanea Questa tecnica, in uso da circa 15 anni, consiste nell’incrementare la cute di una regione mediante la sua progressiva espansione, ottenuta tramite inserzione di un “espansore cutaneo”. Esso consta di una sacca in silicone che è possibile gonfiare progressivamente mediante l’iniezione di soluzione fisiologica attraverso un’apposita valvola (Fig. 5.3). L’espansione della cute è determinata sia dalla distensione delle fibre elastiche sia da un’autentica proliferazione dei tessuti. La cute così ottenuta viene utilizzata per scolpire un lembo di vicinanza, opportunamente progettato. Nel corso del secondo intervento viene anche rimosso l’espansore. Il tempo mediamente intercorso tra il primo ed il secondo intervento è di circa 2 mesi. Lembi a distanza Quando in prossimità della zona da riparare non sia possibile reperire sufficiente tessuto, si deve ricorrere al trasferimento di lembi a distanza. Ciò può essere realizzato congiungendo temporaneamente con il lembo piano due regioni anatomicamente non contigue. Il trapianto così 2476 2477 I grandi vantaggi di questa tecnica sono legati all’eliminazione dei ripetuti interventi chirurgici richiesti dai trasferimenti a distanza ed alla possibilità di utilizzare cute di prossimità avente le stesse caratteristiche della regione da riparare. La tecnica riconosce però una discreta percentuale di complicanze, legate all’elevato rischio di infezione ed alla possibilità di sofferenza circolatoria della cute soprastante l’espansore. Inoltre non è evidentemente utilizzabile nelle situazioni cliniche in cui sono necessarie riparazioni immediate. La sua indicazione principale è data dalla necessità di trasferimento di molta cute a grande distanza. Lembi piani bipeduncolati Una particolare categoria di lembi piani è quella dei lembi bipeduncolati, che potrebbero essere definiti anche lembi a ponte. Essi infatti dispongono di due peduncoli e possono perciò essere molto lunghi, con rapporto anche di 4 a 1 tra lunghezza e larghezza. Possono essere usati come lembi di prossimità, per esempio, per portare cuoio capelluto a ricostruire un labbro superiore fornito di peli, o a distanza, per esempio per riparare lesioni di una mano con un lembo di cute addominale. Sono lembi di impiego non frequente. Lembi tubolati Un lembo tubolato è costituito da un lembo bipeduncolato piano suturato su se stesso lungo i due lati maggiori in modo da costituire un tubo che presenta la superficie cutanea esternamente e la parte sottocutanea al suo interno (Fig. 5.4). Il lembo può avere una lunghezza notevole perché è sufficientemente nutrito dai due peduncoli. Il lembo tubolato viene allestito in zone preferenziali costituite dalla base della regione cervicale anteriore, dall’addome, dalla regione pettorale, dalla faccia interna del braccio. Dopo tre settimane dal suo allestimento viene iniziato il trasferimento, che può essere diretto dalla regione donatrice a quella ricevente se esse sono vicine o avvicinabili, o indiretto mediante un primo trasferimento su una regione vettrice, normalmente rappresentata dal polso, che può consentirgli di raggiungere poi anche l’estremità di un arto inferiore. Una volta giunto alla sua sede definitiva esso viene riaperto lungo la cicatrice ventrale per effettuare la riparazione. Nelle prime fasi del trasferimento un lembo tubolato può essere autonomizzato per aumentare la sicurezza dell’attecchimento. Gli aspetti negativi di questi lembi sono il numero elevato di interventi necessari per giungere alla riparazione e quindi i tempi di degenza molto prolungati; inoltre è consistente il rischio di perdite di sostanza per necrosi ischemica che si ripete ad ogni passaggio. I lembi tubolati, che per decenni hanno costituito un caposaldo della chirurgia ricostruttiva, sono divenuti desueti, in quanto il problema del trasferimento a distanza di abbondanti quantità di cute viene oggi elettivamente affrontato con altre tecniche (espansione cutanea e lembi liberi). Lembi ad isola I lembi ad isola (Fig. 5.5) costituiscono un tipo particolare di lembo piano: il loro peduncolo è infatti costituito dal solo tessuto sottocutaneo e la cute del lembo viene totalmente incisa ed isolata dalla cute circostante. Il pregio di questi lembi è la loro estrema versatilità perché il peduncolo sottocutaneo consente torsioni, stiramenti e spostamenti molto più agili di quanto consentito da un peduncolo cutaneo. I lembi ad isola a vascolarizzazione sottocutanea casuale trovano indicazione quasi esclusivamente nel viso, dove l’estrema ricchezza della rete vascolare ne consente un impiego sicuro. 2478 2479 Lembi arterializzati Un lembo arterializzato è un trapianto di cute che comprende, nel suo peduncolo, un’arteria cutanea con la vena ed i vasi linfatici satelliti. Può essere scolpito sia come lembo piano a peduncolo cutaneo, sia come lembo ad isola a peduncolo sottocutaneo. Nel primo caso il fascio vascolare viene mantenuto per tutta la lunghezza del lembo ed il trapianto quindi non è vincolato a particolari rapporti dimensionali tra la larghezza del peduncolo e la lunghezza del lembo poiché, contenendo in sé l’arteria, ha garantita la vascolarizzazione per tutta la sua estensione. Nel secondo caso, invece, viene isolato il fascio vascolare sottocutaneo e si ottiene un’isola cutanea nutrita solamente in posizione centrale: forma ed estensione del lembo variano a seconda della regione anatomica coinvolta. Le arterie sulle quali sono basati i più comuni lembi arterializzati sono: z l’arteria temporale superficiale, per un lembo che può occupare tutta la fronte e viene utilizzato nella ricostruzione del naso, del cavo orale e della guancia; z le prime 4 branche perforanti dell’arteria mammaria interna per un lembo delto-pettorale utilizzato per la ricostruzione dell’esofago cervicale, dei faringostomi, della regione nucale; z il ramo superficiale dell’arteria epigastrica inferiore, per un lembo ipogastrico utile per la riparazione delle zone circostanti o a distanza come sull’arto inferiore; z il ramo superficiale dell’arteria iliaca circonflessa, per un lembo che corrisponde alla regione inguinale e che serve per le riparazioni della regione pubica e perineale o come lembo a distanza; z l’arteria dorsale del piede, per un lembo dorsale del piede; z l’arteria labiale, utilizzata per trasferire una porzione del labbro superiore a riparare il labbro inferiore o viceversa affidando l’intero spessore di un lembo labiale ad un sottile peduncolo di bordo rosa nel quale decorre questa arteria. Lembi liberi Sono lembi basati sull’isolamento e la recisione del peduncolo vascolare che viene poi anastomizzato con analogo peduncolo preventivamente isolato nell’area ricevente: l’intervento va eseguito con tecnica microchirurgica. Le indicazioni di questi lembi sono le situazioni che richiedono un lembo a distanza, evitando però i tempi operatori intermedi richiesti da altri tipi di lembi come quelli tubolati. La progressiva diffusione della manualità microchirurgica in ambito plastico e l’elevata qualità delle tecnologie e dei materiali oggi disponibili rendono attualmente praticabili con ragionevole sicurezza le procedure ricostruttive basate su tali lembi. Oltre che in interventi elettivi, i lembi liberi vengono oggi utilizzati anche per il trattamento in urgenza ed emergenza di gravi traumatizzati, in associazione alla rivascolarizzazione di un segmento di arto. Lembi compositi Lo studio dell’anatomia vascolare della cute, inteso non in senso puramente descrittivo ma finalizzato all’esecuzione di trapianti cutanei, ha condotto, a partire dagli anni Settanta, alla formulazione del concetto di “angiosoma”, unità anatomica pluritissutale, imperniata su di un preciso albero vascolare. Ciò ha consentito l’ideazione di nuove unità ricostruttive, in cui sono presenti anche tessuti diversi dalla cute. La conoscenza dell’anatomia vascolare di tutti i tessuti che costituiscono un angiosoma fornisce la base dottrinale per il trasferimento di unità composite di cute, muscoli, nervi, tendini ed ossa, tutti riforniti da un singolo sistema artero-venoso. 2480 2481 Utilizzati all’inizio solo per veicolare in un solo tempo grandi quantità di cute, ben presto tali lembi si sono dimostrati preziosi per colmare le perdite di sostanza più profonde e vivacizzare la funzione circolatoria della regione ricevente. I lembi miocutanei possono essere impiegati come lembi arterializzati lasciando intatto il peduncolo vascolare del muscolo o come lembi liberi. La loro indicazione è costituita da lesioni con perdita di sostanza ampia e profonda e da situazioni che richiedono la riparazione in un tempo operatorio unico. In un lembo composito, la presenza di diversi tessuti talora ha il solo significato di supportare adeguatamente la cute, più spesso è invece finalizzata alla realizzazione di un complesso progetto ricostruttivo pluritissutale; a volte vengono infine confezionati trapianti in cui la cute è totalmente assente (per es. lembi fasciali e lembi muscolari). In questo tipo di trapianti è completamente perduto l’empi-rismo che è alla base della scultura dei random flaps cutanei, in quanto la vascolarizzazione è sempre esattamente individuata, così come le dimensioni dei tessuti che possono essere trasferiti. Esistono al riguardo apposite tavole anatomiche e la ricerca è tuttora aperta all’identificazione di nuove e sicure unità ricostruttive. Lembi fasciocutanei Sono costituiti da cute, sottocute e fascia e rappresentano una variante dei classici lembi piani. L’inclusione della fascia profonda ha il significato di preservare e veicolare i vasi cutanei dominanti, i quali decorrono intimamente a ridosso e nel contesto della fascia stessa. Va tenuto presente che in seguito al loro impiego possono residuare ernie muscolari in sede di prelievo. Si tratta di lembi frequentemente impiegati per la riparazione di perdite di sostanza a carico degli arti,dove l’assetto vascolare fasciale di tipo longitudinale consente la scultura di versatili lembi lungo l’asse maggiore degli arti stessi. Lembi neurocutanei È dimostrata la possibilità di realizzare il trasferimento di un lembo di cute impostato sopra il decorso di un nervo sensitivo sottostante, che funge da vettore per i vasi ad esso comitanti, in quanto tali vasi sono in grado di assicurare la vitalità del lembo. Nella scultura di tali lembi è importante includere una guaina protettiva di tessuto areolare lasso circostante il nervo, giacché in tale guaina decorrono sia i vasi comitanti sia i vasa nervorum, che in parte concorrono alla perfusione del lembo stesso. Lembi miocutanei Ogni muscolo è potenzialmente utilizzabile per confezionare un trapianto. L’unico limite è rappresentato dai non trascurabili deficit funzionali ed estetici che possono residuare nell’area donatrice. Lembi osteocutanei Utilizzate quasi esclusivamente come lembi liberi, queste unità consentono la ricostruzione di intere strutture anatomiche (per es. lembo osteocutaneo di fibula per la ricostruzione dell’intera regione mandibolare). Le recenti ricerche anatomiche a carico dei vasi perforanti hanno consentito di dimostrare come isole cutanee connesse a segmenti ossei siano dotate di una buona e sicura perfusione ematica, consentendo un ampliamento delle loro applicazioni cliniche in chirurgia ricostruttiva. Lembi muscolari Anche il muscolo isolato può rappresentare un trapianto, utilizzato soprattutto per colmare gravi perdite di sostanza cutanea e sottocutanea; al di sopra del muscolo la riparazione cutanea può essere effettuata con un lembo di prossimità o con un semplice innesto. Un esempio è il riempimento della cavità orbitaria dopo exenteratio orbitae con l’impiego del muscolo temporale opportunamente ruotato. Anche la rianimazione della muscolatura mimica per correggre i deficit consegueti alla paralisi del VII nervo cranico (paralisi del faciale) si consegue per mezzo di un trapianto microchirurgico di unità muscolari rivascolarizzate e reinnervate. Lembi fasciali Come già accennato a proposito dei lembi fasciocutanei, i lembi di fascia hanno il significato di veicolare la rete vascolare ad essi intimamente adesa, migliorando così le condizioni circolatorie della regione ricevente. Devono essere ricoperti da un lembo cutaneo di prossimità o da un innesto cutaneo. Trovano indicazione in quelle situazioni cliniche in cui la copertura con tessuto vitale e perfuso si associa alla necessità di scarso spessore e/o di notevole duttilità del tessuto trasferito. Il loro impiego clinico è in espansione, specie per tecniche ricostruttive a seguito di traumi. Sono unità ricostruttive, la cui prima ideazione risale al pavese Tansini, nei primi anni del Novecento, ma che sono state riprese, studiate ed utilizzate in larga scala solo a partire dalla fine degli anni Settanta. Questi lembi sono impostati sul principio della conservazione dei vasi perforanti, che connettono la cute ai muscoli sottostanti. Salvaguardando il peduncolo vascolare di un muscolo è possibile garantire la vitalità anche di una determinata isola di cute soprastante. A tale proposito i diversi muscoli sono classificabili in 5 diversi sottotipi, in base alle caratteristiche dei diversi peduncoli vascolari. Nell’ambito dei lembi compositi una recente innovazione è rappresentata dai lembi prefabbricati. Si tratta di lembi in cui la composizione tissutale viene non direttamente mutuata da una situazione anatomica esistente naturalmente bensì chirurgicamente prodotta tramite uno o più interventi chirugici. 2482 2483 Lembi prefabbricati Tali operazioni, definite “di allestimento”, servono per prefabbricare una unità ricostruttiva, che verrà nel prosieguo trasferita con tecnica microchirurgica. Tali lembi consentono la riparazione di complesse lesioni pluritessutali, quale per esempio la ricostruzione della intera piramide nasale nelle sue componenti osteo-cartilaginee e cutanee mediante un lembo prefabbricato sulla superficie volare dell’avambraccio in cui le componenti costitutive la piramide nasale da ricostruire siano state opportunamente assemblate nel corso di uno o più interventi chirurgici pregressi. Letture suggerite z z z z z z z z z 2484 Buncke H., Furnas D. (Eds): Clinical Frontiers in Reconstructive Microsurgery. C.V. Mosby Co., St. Louis, 1984. Cormack G.C., Lamberty G.H.: The Arterial Anatomy of Skin Flaps. Churchill Livingstone, London, 1986. Hewitt C.W., Black K.S. (Ed): Composite Tissue Transplantation. R.G. Landes, Austin,Texas, 1999. Masquelet A.C., Gilbert A.: Atlante dei lembi cutanei nella ricostruzione degli arti. Antonio Delfino Editore, Roma, 2000. Mathes S.J., Nahai F.: Clinical Atlas of Muscles and Musculocutaneous Flaps. C.V. Mosby Co., St. Louis, 1979. McCarthy J.G.: Plastic Surgery, Vol I. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990. Smith J.W., Aston S.J.: Grabb and Smith’s Plastic Surgery. Little, Brown and Co., Boston, 1990. Strauch N.,Vasconez L.O.: Grabb’s Encyclopedia of Flaps, Vol I/III. Little, Brown and Co., Boston, 1990. Strauch B., Liang Yu H.: Atlas of Microvascular Surgery. Thieme, New York, 1993. 2485 Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA 1 Aspetti generali 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico Capitolo 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella 3 Ustioni 4 Innesti e impianti 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella 6.1 Ripristino della cute toracica G. Boggio Robutti, A. Faga, L. Valdatta 6.2 Creazione della salienza mammaria 6.3 Ricostruzione del complesso areola-capezzolo 6.4 Simmetria delle mammelle 6.5 Letture suggerite 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica 9 Chirurgia craniofacciale 10 Traumatologia maxillofacciale Il problema della ricostruzione della mammella dopo mastectomia ha assunto grande rilievo negli ultimi anni per il numero crescente di pazienti che non accettano la menomazione creata dall’intervento demolitivo e la vivono come un’autentica mutilazione, con gravi ripercussioni psicologiche, emozionali e relazionali. I chirurghi del passato erano contrari ad intraprendere una ricostruzione dopo interventi oncologici. Le ricostruzioni d’altra parte erano limitate dalle difficoltà tecniche riguardanti il trasferimento di abbondanti quantità di tessuto cutaneo e sottocutaneo. Tali limiti sono da considerare oggi in gran parte superati,grazie all’avvento degli espansori cutanei, dei lembi compositi, sia peduncolati sia microchirurgici,delle protesi mammarie. Inoltre, le lunghe cicatrici verticali e la scheletrizzazione del torace prodotte dalla tecnica di Halsted hanno lasciato il posto sempre più spesso ad interventi che consentono la conservazione del muscolo grande pettorale ed una cicatrice residua trasversale assai più idonea ai fini ricostruttivi, cosicché si può affermare che i risultati estetici oggi ottenibili dalla chirurgia plastica sono molto elevati. Qualunque sia la tecnica demolitiva praticata dal chirurgo oncologo, prima di affrontare un intervento ricostruttivo della mammella è necessario raccogliere una accurata anamnesi della paziente. La storia familiare positiva per neoplasie mammarie aumenta il rischio delle pazienti del 50%; così pure sono indispensabili notizie riguardanti eventuali noduli mammari contro-laterali, l’esistenza di esami bioptici, il tipo di demolizione praticata, la localizzazione e l’entità della lesione rimossa, l’eventuale compromissione linfonodale. È altrettanto importante sapere se la paziente è in trattamento chemioterapico o lo ha ricevuto e se è stata sottoposta a terapia radiante. L’indagine clinica deve inoltre accertare la qualità dei tessuti residui nella regione da ricostruire: la disposizione delle cicatrici, l’abbondanza e lo spessore del tessuto sottocutaneo, la cedevolezza della cute, la presenza del piano muscolare sottostante sono tutti elementi che indirizzano nel tipo di tecnica ricostruttiva da adottare. Fondamentale è il consenso del chirurgo generale e dell’oncologo che hanno seguito la paziente e che debbono essere responsabilmente coinvolti nella decisione di procedere ad una ricostruzione o di evitarla. Si tenga presente che le moderne tecniche di indagine strumentale associate ad una maggiore consapevolezza delle donne nei confronti del “cancro mammario” hanno reso possibile possibile la sempre più frequente individuazione di forme tumorali precoci, per le quali il trattamento chirurgico elettivo si configura in interventi di ablazione di quadranti mammari. Tali interventi demolitivi (quadrantectomie) rendono possibili, in virù della limitata demolizione praticata, ricostruzioni 2486 2487 immediate basate sull’impiego di lembi scolpiti nel contesto del parenchima mammario residuo; tali lembi, opportunamente ruotati nel rispetto della relativa vascolarizzazione ed innervazione,consentono di confezionare una neo-mammella che, per quanto più piccola di quella originale, ha tuttavia il pregio di essere ricostruita con l’impiego di soli tessuti locali, senza ricorrere ad altre sedi donatrici autologhe o a impianti. È intuitivo come interventi ricostruttivi di questo tipo siano di più facile progettazione ed esecuzione rispetto a ricostruzioni mammarie complete e possano essere effettuati solo per demolizioni parziali, tali da risparmiare un volume di parenchima mammario sufficiente a garantire una accettabile salienza e proiezione della mammella così confezionata. La ricostruzione totale della mammella è basata sulla soluzione di quattro distinti problemi fondamentali, che possono peraltro essere affrontati anche contemporaneamente, in senso cronologico, ma sempre rispettandone la sequenza: x il ripristino dei tessuti cutanei e sottocutanei toracici; x la creazione del rilievo mammario; x la ricostruzione del complesso areola-capezzolo; x la simmetrizzazione della mammella ricostruita con la contro-laterale. Il problema della ricostruzione della mammella dopo mastectomia ha assunto grande rilievo negli ultimi anni per il numero crescente di pazienti che non accettano la menomazione creata dall’intervento demolitivo e la vivono come un’autentica mutilazione, con gravi ripercussioni psicologiche, emozionali e relazionali. I chirurghi del passato erano contrari ad intraprendere una ricostruzione dopo interventi oncologici. Le ricostruzioni d’altra parte erano limitate dalle difficoltà tecniche riguardanti il trasferimento di abbondanti quantità di tessuto cutaneo e sottocutaneo. Tali limiti sono da considerare oggi in gran parte superati,grazie all’avvento degli espansori cutanei, dei lembi compositi, sia peduncolati sia microchirurgici,delle protesi mammarie. Inoltre, le lunghe cicatrici verticali e la scheletrizzazione del torace prodotte dalla tecnica di Halsted hanno lasciato il posto sempre più spesso ad interventi che consentono la conservazione del muscolo grande pettorale ed una cicatrice residua trasversale assai più idonea ai fini ricostruttivi, cosicché si può affermare che i risultati estetici oggi ottenibili dalla chirurgia plastica sono molto elevati. Qualunque sia la tecnica demolitiva praticata dal chirurgo oncologo, prima di affrontare un intervento ricostruttivo della mammella è necessario raccogliere una accurata anamnesi della paziente. La storia familiare positiva per neoplasie mammarie aumenta il rischio delle pazienti del 50%; così pure sono indispensabili notizie riguardanti eventuali noduli mammari contro-laterali, l’esistenza di esami bioptici, il tipo di demolizione praticata, la localizzazione e l’entità della lesione rimossa, l’eventuale compromissione linfonodale. È altrettanto importante sapere se la paziente è in trattamento chemioterapico o lo ha ricevuto e se è stata sottoposta a terapia radiante. L’indagine clinica deve inoltre accertare la qualità dei tessuti residui nella regione da ricostruire: la disposizione delle cicatrici, l’abbondanza e lo spessore del tessuto sottocutaneo, la cedevolezza della cute, la presenza del piano muscolare sottostante sono tutti elementi che indirizzano nel tipo di tecnica ricostruttiva da adottare. Fondamentale è il consenso del chirurgo generale e dell’oncologo che hanno seguito la paziente e che debbono essere responsabilmente coinvolti nella decisione di procedere ad una ricostruzione o di evitarla. Si tenga presente che le moderne tecniche di indagine strumentale associate ad una maggiore consapevolezza delle donne nei confronti del “cancro mammario” hanno reso possibile possibile la sempre più frequente individuazione di forme tumorali precoci, per le quali il trattamento chirurgico elettivo si configura in interventi di ablazione di quadranti mammari. Tali interventi demolitivi (quadrantectomie) rendono possibili, in virù della limitata demolizione praticata, ricostruzioni immediate basate sull’impiego di lembi scolpiti nel contesto del parenchima mammario residuo; tali lembi, opportunamente ruotati nel rispetto della relativa vascolarizzazione ed innervazione,consentono di confezionare una neo-mammella che, per quanto più piccola di quella originale, ha tuttavia il pregio di essere ricostruita con l’impiego di soli tessuti locali, senza ricorrere ad altre sedi donatrici autologhe o a impianti. È intuitivo come interventi ricostruttivi di questo tipo siano di più facile progettazione ed esecuzione rispetto a ricostruzioni mammarie complete e possano essere effettuati solo per demolizioni parziali, tali da risparmiare un volume di parenchima mammario sufficiente a garantire una accettabile salienza e proiezione della mammella così confezionata. La ricostruzione totale della mammella è basata sulla soluzione di quattro distinti problemi fondamentali, che possono peraltro essere affrontati anche contemporaneamente, in senso cronologico, ma sempre rispettandone la sequenza: x il ripristino dei tessuti cutanei e sottocutanei toracici; x la creazione del rilievo mammario; 2488 2489 x la ricostruzione del complesso areola-capezzolo; x la simmetrizzazione della mammella ricostruita con la contro-laterale. varia misura ed orientamento secondo le necessità ricostruttive. Ripristino della cute toracica Allorché i tessuti residuati alla demolizione si rivelino insufficienti e siano stati asportati i muscoli pettorali, sarà necessario portare in quella sede un’adeguata quantità di tessuto cutaneo e sottocutaneo. A questo fine si può ricorrere alla rotazione di lembi piani peduncolati di prossimità (Fig. 6.1). Può trattarsi in tal caso o di un lembo toracico laterale o di un lembo toraco-epigastrico. Il lembo miocutaneo di retto addominale (Transverse Rectus Abdominis Myocutaneous flap,TRAM) rappresenta oggi un caposaldo della ricostruzione mammaria, in quanto, grazie all’abbondanza del tessuto sottocutaneo comprendibile nel lembo, consente di ripristinare non solo la perdita di sostanza cutanea, ma anche il volume mammario, senza impiego di protesi ed in un solo tempo operatorio, anche contestuale all’atto demolitivo. Sia il lembo di gran dorsale sia il TRAM possono essere trasferiti come lembi peduncolati o come lembi liberi microchirurgici (Fig. 6.3). In mani molto esperte la ricostruzione contemporanea della cute toracica e della salienza mammaria viene proposta anche mediante trasferimento microchirurgico di lembo miocutaneo di grande gluteo. Quando la demolizione abbia invece conservato cute elastica e sana, mantenendo il muscolo pettorale e lasciando una cicatrice trasversale, il semplice scollamento cutaneo può consentire l’avanzamento in alto di abbondante tessuto addominale. Più frequentemente si ricorre in questi casi all’e-spansione cutanea, grazie alla quale si può aumentare la superficie cutanea in misura tale da ottenere una mammella ricostruita addirittura ptosica, rendendo così ancora più naturale il risultato. Quando invece la mastectomia ha residuato tessuti fortemente retratti per azione della cicatrice residua o in condizioni qualitativamente scadenti per terapie radianti successive è necessario ricorrere al trasferimento di tessuti da sedi lontane, ricorrendo ad un lembo miocutaneo. La rotazione del muscolo grande dorsale (Fig. 6.2) consente una valida sostituzione del piano del muscolo grande pettorale, quando questo sia stato asportato ed il trasferimento di isole cutanee di 2490 2491 Creazione della salienza mammaria Come precedentemente detto, la salienza mammaria può essere validamente ripristinata con tessuti autologhi mediante trasferimento di unità miocutanee. In alternativa, ottimi risultati sono ottenibili mediante impianto di una protesi, purché, come ogni impianto alloplastico, collocata al di sotto di un tessuto spesso ed eutrofico. Le protesi attualmente disponibili sul mercato sono costituite da una sacca di materiale impermeabile, ripiene di fluido, che dona alla protesi una consistenza simile a quella del parenchima mammario. Ne esistono di svariate forme e dimensioni e sono classificabili in base alle caratteristiche della sacca contenitrice e del contenuto. Una protesi mammaria di recente commercializzata, definita come “anatomica”, rappresenta l’ultimo ritrovato della tecnologia relativa agli impianti mammari: tale impianto, consentendo un selettivo recupero di proiezione nei quadranti mammari inferiori, conferisce al cono mammario ricostruito maggiore naturalezza. La legislazione che regolamenta l’utilizzo delle protesi mammarie, in ordine sia alle indicazioni sia al tipo di protesi, varia da paese a paese. Attualmente (2001) in Italia è consentito l’impianto di qualsiasi tipo di protesi, sia con indicazioni ricostruttive sia con indicazioni estetiche. 2492 2493 Ricostruzione del complesso areolacapezzolo Il tessuto più idoneo per ricostruire l’areola (Fig. 6.4) è quello dell’areola contro-laterale che può essere prelevato nella misura del 50% e trasferito come innesto libero; analogamente il capezzolo residuo può essere parzialmente amputato ed usato per la ricostruzione. Tale tecnica viene elettivamente impiegata quando si effettui un modellamento in senso riduttivo della mammella controlaterale. In alternativa, si può ricorrere ad innesti di mucosa delle piccole labbra, che presentano però spesso una eccessiva pigmentazione. Il capezzolo viene creato elevando una porzione di cute alla sommità della mammella ricostruita. Ottimi risultati si ottengono anche con la pigmentazione mediante tatuaggio. 2494 Simmetria delle mammelle In genere non è possibile ottenere una nuova mammella assolutamente identica alla contro-laterale; per ovviare a tale inconveniente si dovrà ricorrere ad una mastoplastica riduttiva, se quella è di volume eccessivo, o ad una mastoplastica additiva se è di volume insufficiente. Tali interventi volti al recupero della simmetria mammaria si rendono spesso necessari anche a seguito di quadrantectomie riparate con rotazioni di lembi locali di ghiandola mammaria residua. Non deve mai essere sottovalutato il concetto che in una paziente operata per carcinoma mammario anche la mammella sana presenta un elevato rischio di malattia. Sia un intervento riduttivo sia l’inserimento di una protesi dovrebbero essere affrontati solo su richiesta della paziente e dopo averla informata del possibile rischio. A questo proposito va considerato che l’atteggiamento psicologico della paziente è l’unico valido motivo per interventi estetici in campo oncologico e che una buona percentuale di pazienti si ritiene soddisfatta dalla semplice creazione della salienza mammaria rifiutando non solo il raggiungimento della simmetria, ma spesso anche la ricostruzione dell’areola e del capezzolo. 2495 Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA 1 Aspetti generali 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico Letture suggerite z z z z 3 Ustioni Ambroggio G.P., Oberto E.: La Ricostruzione Mammaria. Masson, Milano, 1990. Bostwick J. III: Chirurgia Ricostruttiva ed Estetica della Mammella. Capozzi, Roma, 1986. Kroll S.S.: Breast Reconstruction with Autologous Tissue. Springer, New York, 2000. Veronesi U.: Senologia oncologica. Masson, Milano, 1999. 4 Innesti e impianti 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella 7 Malformazioni congenite 7.1 Malformazioni della testa e del collo 7.2 Malformazioni del tronco 7.3 Malformazioni delle mani e dei piedi 7.4 Malformazioni dei genitali esterni 7.5 Letture suggerite 8 Chirurgia estetica 9 Chirurgia craniofacciale 10 Traumatologia maxillofacciale 2496 2497 Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva Capitolo 7 Malformazioni congenite G. Boggio Robutti, A. Faga, G. Nicoletti Le malformazioni congenite sono alterazioni della normale morfologia corporea determinate da un errore di sviluppo nel corso della vita intrauterina. Le malformazioni che interessano la chirurgia plastica sono quelle relative alle strutture esterne della faccia, del collo, della regione mammaria, delle mani, dei piedi e dei genitali esterni. Patogenesi I meccanismi patogenetici delle malformazioni congenite possono essere schematicamente suddivisi in due categorie. z Meccanismi displasici: in questo caso l’anomalo sviluppo di una regione deriva da una precoce o tardiva comparsa dei normali fenomeni di inibizione dello sviluppo stesso. Nel primo caso si avrà la costituzione di una ipoplasia (per es. nella focomelia), nel secondo si avrà un’iperplasia (per es. nella macrodattilia). z Meccanismi disrafici: la formazione deriva dalla mancata saldatura di fessure e di soluzioni di continuo che sono normalmente presenti nei vari stadi della vita embrionale. In linea di massima quanto più precocemente agisce la noxa patogena tanto più grave sarà la malformazione che ne deriva; particolarmente gravi sono quindi le malformazioni che originano nel periodo della organogenesi e cioè nel primo trimestre di vita intrauterina. La correzione di una malformazione congenita da parte del chirurgo plastico richiede un’accurata pianificazione dei tempi chirurgici, che sono spesso molteplici; un risultato definitivo si può infatti avere solo al termine dello sviluppo corporeo. Frequenza Non esistono statistiche relative all’incidenza delle malformazioni congenite in senso assoluto, poiché vi sono malformazioni congenite che determinano alterazioni modeste e che non vengono quindi denunciate. In altri casi, come in certi angiomi cutanei, si manifestano con lesioni inizialmente modeste che, nel corso dello sviluppo del corpo, assumono dimensioni ed aspetti clinici anche di notevole gravità. Nel nostro territorio, come in tutti i Paesi evoluti, il numero dei nati malformati è in diminuzione; ciò è da correlare con: x decremento della natalità; x migliorato standard economico-sociale-culturale medio; x diffusione delle pratiche di igiene e di prevenzione prenatale. Al contrario, nei Paesi del cosiddetto “Terzo mondo” la presenza percentuale di nati malformati è costante. Eziologia L’eziologia della malformazione congenita può essere fondamentalmente suddivisa in due tipi di fattori: fattori endogeni o fetali e fattori esogeni o materni. I fattori endogeni comprendono le alterazioni del patrimonio genetico del neonato trasmesse per via ereditaria; le alterazioni genetiche riferibili ad una mutazione spontanea; le malattie da alterazione del numero di cromosomi sia autosomici, come nella sindrome di Down, sia sessuali come nelle sindromi di Turner, Klinefelter ecc. I fattori esogeni sono fattori di origine ambientale che possono interferire sullo sviluppo di un embrione, quali: traumi meccanici, processi flogistici a livello del sacco amniotico, deficit circolatori a livello placentare, malattie sistemiche metaboliche e/o ormonali della madre, deficit alimentari e vitaminici, assunzione di farmaci potenzialmente teratogeni come ormoni, antiblastici, cortisonici, analgesici, psicofarmaci, antibiotici, alcolismo, tabagismo e tossicodipendenza, esposizione a radiazioni ionizzanti, malattie infettive da vari agenti patogeni (toxoplasmosi, sifilide, rosolia ecc.). 2498 2499 Le malformazioni congenite sono alterazioni della normale morfologia corporea determinate da un errore di sviluppo nel corso della vita intrauterina. Le malformazioni che interessano la chirurgia plastica sono quelle relative alle strutture esterne della faccia, del collo, della regione mammaria, delle mani, dei piedi e dei genitali esterni. Frequenza Non esistono statistiche relative all’incidenza delle malformazioni congenite in senso assoluto, poiché vi sono malformazioni congenite che determinano alterazioni modeste e che non vengono quindi denunciate. In altri casi, come in certi angiomi cutanei, si manifestano con lesioni inizialmente modeste che, nel corso dello sviluppo del corpo, assumono dimensioni ed aspetti clinici anche di notevole gravità. originano nel periodo della organogenesi e cioè nel primo trimestre di vita intrauterina. La correzione di una malformazione congenita da parte del chirurgo plastico richiede un’accurata pianificazione dei tempi chirurgici, che sono spesso molteplici; un risultato definitivo si può infatti avere solo al termine dello sviluppo corporeo. Malformazioni della testa e del collo Lo studio delle malformazioni congenite non può prescindere dalla conoscenza dello sviluppo dell’embrione. In particolare, l’osservazione della testa embrionale (Fig. 7.1) è essenziale per la comprensione della patogenesi del maggior numero di malformazioni ivi reperibili. Nel nostro territorio, come in tutti i Paesi evoluti, il numero dei nati malformati è in diminuzione; ciò è da correlare con: x decremento della natalità; x migliorato standard economico-sociale-culturale medio; x diffusione delle pratiche di igiene e di prevenzione prenatale. Al contrario, nei Paesi del cosiddetto “Terzo mondo” la presenza percentuale di nati malformati è costante. Eziologia L’eziologia della malformazione congenita può essere fondamentalmente suddivisa in due tipi di fattori: fattori endogeni o fetali e fattori esogeni o materni. I fattori endogeni comprendono le alterazioni del patrimonio genetico del neonato trasmesse per via ereditaria; le alterazioni genetiche riferibili ad una mutazione spontanea; le malattie da alterazione del numero di cromosomi sia autosomici, come nella sindrome di Down, sia sessuali come nelle sindromi di Turner, Klinefelter ecc. I fattori esogeni sono fattori di origine ambientale che possono interferire sullo sviluppo di un embrione, quali: traumi meccanici, processi flogistici a livello del sacco amniotico, deficit circolatori a livello placentare, malattie sistemiche metaboliche e/o ormonali della madre, deficit alimentari e vitaminici, assunzione di farmaci potenzialmente teratogeni come ormoni, antiblastici, cortisonici, analgesici, psicofarmaci, antibiotici, alcolismo, tabagismo e tossicodipendenza, esposizione a radiazioni ionizzanti, malattie infettive da vari agenti patogeni (toxoplasmosi, sifilide, rosolia ecc.). Patogenesi I meccanismi patogenetici delle malformazioni congenite possono essere schematicamente suddivisi in due categorie. z Meccanismi displasici: in questo caso l’anomalo sviluppo di una regione deriva da una precoce o tardiva comparsa dei normali fenomeni di inibizione dello sviluppo stesso. Nel primo caso si avrà la costituzione di una ipoplasia (per es. nella focomelia), nel secondo si avrà un’iperplasia (per es. nella macrodattilia). z Meccanismi disrafici: la formazione deriva dalla mancata saldatura di fessure e di soluzioni di continuo che sono normalmente presenti nei vari stadi della vita embrionale. In linea di massima quanto più precocemente agisce la noxa patogena tanto più grave sarà la malformazione che ne deriva; particolarmente gravi sono quindi le malformazioni che 2500 Per quanto riguarda l’estremo cefalico, le malformazioni più frequenti sono da inquadrare nell’ambito delle disrafie. In questo ambito si possono raggruppare il labbro leporino e la palatoschisi (assai frequenti) e schisi più rare, definite con il termine generico di colobomi. È fondamentale sottolineare che il meccanismo patogenetico che porta alla mancata saldatura dei diversi abbozzi embrionari è da riferire ad un difetto di sviluppo e quindi di progressione del mesenchima:è per questo che nella sede di una malformazione disrafica si osserva regolarmente non solo un’anomala fissurazione ma anche un reale deficit, di maggiore o minore entità, dei tessuti di origine mesenchimale (ossa, cartilagini, muscoli eccetera). Labbro leporino Con il termine di labbro leporino (o labioschisi o cheiloschisi) si intende la schisi del labbro superiore (Fig. 7.2). Essa deriva da un difetto di fusione tra il processo mascellare ed i processi nasali. Si distinguono diverse varietà. z Cheiloschisi cicatriziale, nella quale non esiste una vera schisi ma è presente una cicatrice verticale che suggerisce l’idea di un’azione malformativa arrestatasi e regredita spontaneamente. z Cheiloschisi incompleta, quando la schisi interessa il labbro in vario grado dal bordo fino al pavimento della narice che non ne viene però interessato. 2501 z Cheiloschisi completa, quando la schisi interessa oltre al labbro in tutto il suo spessore anche il pavimento della narice ed il palato primario (porzione di palato che si estende dal processo alveolare al forame incisivo). fonetiche di varia gravità secondo il grado di compromissione del palato molle; la mancata chiusura posteriore della cavità nasale durante la pronuncia di consonanti esplosive determina una rinolalia aperta molto sgradevole e nei casi più gravi rende incomprensibile il linguaggio. La terapia chirurgica consiste nell’avvicinamento sulla linea mediana e nella sutura dei due lembi palatini mucoperiostei con ricostruzione della continuità delle fibre muscolari del palato molle,così da consentirne la motilità. L’epoca più adatta per l’intervento è generalmente situata tra i 9 ed i 12 mesi di vita: l’intervento deve essere eseguito bilanciando da un lato la necessità di fornire al paziente uno strumento anatomico atto alla fonazione, prima che si siano completati i circuiti nervosi a ciò preposti, dall’altro la necessità di evitare troppo precocemente cicatrici che possono interferire sullo sviluppo dell’intero massiccio facciale. Colobomi Con questo termine generico si indica un gruppo di malformazioni del volto, abbastanza rare, rappresentate da una o più schisi in corrispondenza dei solchi embrionari. In tutte le cheiloschisi, ma in maggiore misura in quelle complete, sono sempre presenti una ipoplasia dell’osso mascellare ed una deformazione dell’ala nasale dello stesso lato. La cheiloschisi può essere monolaterale o bilaterale ed associata variamente in tutti i possibili gradi di gravità. Nelle forme bilaterali è sempre presente una protrusione verso l’alto e l’avanti del prolabio, porzione di labbro compresa fra le due schisi; esso è inoltre spesso ipoplasico. La riparazione chirurgica ha lo scopo di ripristinare la continuità anatomica del labbro ricostruendo i piani cutaneo, muscolare e mucoso fino ad ottenere un ripristino non solo estetico ma anche funzionale del labbro; ristabilire la continuità dell’arcata alveolare, qualora risulti interrotta, così da consentire una adeguata eruzione dentaria; riposizionare correttamente gli elementi dello scheletro del naso, in varia misura dismorfici e distopici. L’epoca dell’intervento varia a seconda delle scuole e della personale esperienza del chirurgo; è comunque opportuno intervenire nei primi mesi di vita del paziente per ragioni funzionali, poiché la schisi del labbro impedisce la suzione, soprattutto quando si tratta di una schisi bilaterale. Nei pazienti affetti da cheiloschisi sono sempre presenti anomalie dentarie ed occlusali di vario grado che richiedono la collaborazione dell’ortodontista. Possono essere schematicamente suddivisi nel modo seguente. x Colobomi obliqui (naso-oculari ed oro-oculari), derivanti da un difetto di fusione tra il processo mascellare ed il processo nasale laterale (Fig. 7.3). x Colobomi trasversi (oro-auricolari), derivanti da un difetto di saldatura tra il processo mascellare ed il processo mandibolare. Ne risulta una forma clinica definita macrostomia; possono essere associati a microtia ed a dislocazione in avanti ed in basso dell’orecchio con ipoplasia dell’emimandibola corrispondente. x Colobomi mandibolari, risultanti dalla mancata saldatura lungo la linea mediana del primo arco branchiale. Possono limitarsi ad una semplice incisura sul bordo rosa del labbro inferiore o determinare una schisi totale della sinfisi mentoniera. Palatoschisi La schisi del palato origina da un meccanismo patogenetico differente da quello della schisi del labbro, con la quale tuttavia è frequentemente associata. Il palato secondario si costituisce verso la settima-ottava settimana di gestazione e le due lamine ossee palatine, in precedenza verticali per la presenza della lingua, ruotano di 90° disponendosi su un piano orizzontale e congiungendosi sulla linea mediana; avviene così la separazione della cavità orale dalle fosse nasali; il palato molle si costituisce successivamente. La schisi del palato secondario può essere completa quando interessa sia il palato duro che il palato molle o essere limitata al palato molle: in tal caso viene definita veloschisi. La palatoschisi comporta problemi alimentari perché la presenza di comunicazione tra cavità orale e nasale impedisce la suzione per l’impossibilità di creare il vuoto nella cavità orale. L’alimentazione viene quindi ostacolata, ma il piccolo paziente impara rapidamente ad alimentarsi con un cucchiaio. La possibile permanenza di detriti alimentari nella cavità nasale e l’alterazione della massa d’aria che l’attraversa possono provocare uno stato flogistico cronico con riniti, ipertrofia delle tonsille ed otiti. L’alterazione dell’anatomia palatina causa sempre alterazioni 2502 Tra i difetti derivanti da errori di saldatura e di sviluppo degli archi branchiali ricordiamo ancora per 2503 la loro frequenza: z le fistole congenite del padiglione auricolare; z la poliotia, rappresentata da piccole formazioni cutanee con contenuto cartilagineo situate davanti al trago e lungo la linea oro-auricolare; z la sindrome di Franceschetti, caratterizzata da associazione di varie malformazioni: microtia, atresia del condotto uditivo, micrognazia mandibolare, appiattimento delle ossa malari, palato ogivale. Esse danno luogo ad un aspetto caratteristico detto “a profilo di uccello”. La sindrome è bilaterale ma può essere monolaterale e prende in tal caso il nome di TreacherCollins; z le fistole laterali del collo; z la disrafia mento-sternale, rappresentata da una schisi più o meno accentuata, a livello della linea mediana, del collo che origina alla sinfisi mentoniera giungendo fino al manubrio sternale ed anche oltre. Un’altra malformazione che a livello del collo interessa il chirurgo plastico è lo pterigio, che consiste in una plica cutanea mono o bilaterale situata in corrispondenza del margine superiore del muscolo trapezio;la malformazione può essere singola o associata con altre come nel caso della sindrome di Turner. cartilagine autoplastica prelevata dalla regione costale. Microtie Si tratta di ipoplasie di vario grado a carico del padiglione auricolare, frequentemente associate ad iposviluppo o ad atresia del condotto uditivo esterno (Fig. 7.4). La forma più grave, rara, è la anotia, assenza totale dell’orecchio esterno. Nelle forme di media gravità, di più frequente osservazione, è presente il lobulo del padiglione auricolare, variamente deformato ed orientato, al di sopra del quale permane un informe rudimento di scheletro cartilagineo dell’orecchio. In questi casi è spesso presente anche un deficit uditivo, da iposviluppo dell’orecchio medio. La ricostruzione del padiglione auricolare è un intervento di natura esclusivamente plastica, mentre l’aspetto funzionale della malformazione è di competenza dell’otorinolaringoiatra. Gli interventi sono sempre molteplici e devono essere pianificati al fine di ottenere la normalizzazione del padiglione auricolare possibilmente prima dell’età scolare. La ricostruzione si esegue rimuovendo tutti gli abbozzi cartilaginei deformi, mantenendo l’integrità della cute soprastante, sotto la quale va collocato un nuovo scheletro costituito da elementi di 2504 2505 Malformazioni del tronco Malformazioni delle mani e dei piedi Le più frequenti malformazioni a carico del tronco sono le seguenti. Le più comuni sono la polidattilia e la sindattilia sia a carico delle mani sia dei piedi. z Polidattilia: consiste nella presenza di una o più dita soprannumerarie. Può essere isolata o essere associata con altre malformazioni. z Sindattilia: consiste nella fusione a vari livelli di due o più dita (Fig. 7.5). La fusione può riguardare solo la cute o giun-gere alla saldatura delle strutture scheletriche realizzando vere sinostosi; può interessare una o più falangi fino a realizzare il quadro della mano palmata o, nei casi più gravi, dell’acrosindattilia. z Onfalocele, provocato dalla mancata riduzione dell’intestino e, nei casi più gravi, anche del fegato e della milza nella cavità addominale in corrispondenza della cicatrice ombelicale. Si differenzia dall’ernia ombelicale per l’assenza del peritoneo al suo interno. z Sventramenti addominali congeniti con conseguenti ernie viscerali.Tutte queste malformazioni sono, per la presenza di una patologia viscerale, di competenza del chirurgo infantile piuttosto che del chirurgo plastico. z Pectus excavatum, malformazione sternale che porta ad una depressione della parete toracica anteriore. z Di notevole interesse per il chirurgo plastico sono le malformazioni mammarie, soprattutto nel sesso femminile, nel quale è frequente la ipoplasia di una o di entrambe le mammelle. Nel primo caso si verifica una asimmetria che si manifesta solo al momento dello sviluppo della ghiandola mammaria quando a quella ipoplasica si contrappone la contro-laterale sana. In entrambi i sessi si può verificare una polimastia costituita da mammelle soprannumerarie e rudimentali o una politelia quando il difetto interessi i soli capezzoli.L’amastia e l’atelia definiscono l’assenza della mammella o del capezzolo con un danno evidentemente maggiore nel sesso femminile. Tra le malformazioni del capezzolo la più frequente è la sua invaginazione verso l’interno della mammella per la anormale brevità dei dotti galattofori.La ginecomastia,relativa al solo sesso maschile,è provocata da un abnorme aumento del volume delle ghiandole mammarie che le rende simili a quelle femminili. z Spina bifida: è una malformazione della parete posteriore del tronco di varia gravità caratterizzata da una schisi della colonna vertebrale per un errore di saldatura lungo la linea mediana degli archi vertebrali. La varietà più lieve viene denominata spina bifida occulta perché è spesso inapparente, mentre nei casi più gravi si ha la spina bifida cistica che comprende il meningocele o ernia delle guaine meningee, il mielomeningocele quando nel sacco erniario si ritrovano oltre alle meningi anche elementi nervosi ed il mielocele quando tutti gli elementi della colonna vertebrale e del midollo spinale si estrinsecano all’esterno: in quest’ultimo caso la spina bifida è associata a paralisi degli arti inferiori e ad incontinenza degli sfinteri. L’opera del chirurgo plastico è comunque di puro supporto a quella del neurochirurgo. 2506 2507 Malformazioni dei genitali esterni Genitali maschili Letture suggerite z La più frequente malformazione dei genitali maschili è l’ipospadia, nella quale il meato uretrale anziché sulla punta del glande si apre sulla superficie ventrale del pene a varie altezze. È causata dalla mancata fusione delle pieghe genitali disposte lateralmente al seno urogenitale. A seconda dell’epoca di azione della noxa patogena si avrà l’apertura del meato in posizione più o meno prossimale. Si distinguono quindi una ipospadia perineale, spesso associata con una marcata femminilizzazione di tutto l’apparato genitale con pene piccolo e criptorchidismo, un’ipospadia peniena, che è la forma più frequente e nella quale lo sviluppo del pene e dei testicoli è perfettamente normale, una ipospadia balanica, che è la forma più lieve e non necessita di correzioni chirurgiche se non per ragioni psicologiche e di normalizzazione estetica. Nella maggior parte dei casi di ipospadia è presente un cordone fibroso di tipo cicatriziale in corrispondenza del decorso dell’uretra che provoca un incurvamento ventrale del pene nell’erezione. L’epispadia è una malformazione molto più rara e più grave della precedente ed è costituita dallo sbocco del canale uretrale sulla superficie dorsale del pene. Una forma frequente e molto grave è la varietà penopubica, che si associa ad estrofia vescicale ed incontinenza urinaria. z Genitali femminili z z z z z z z z z z L’interesse del chirurgo plastico nelle malformazioni dei genitali femminili si limita all’atresia della vagina. L’opera ricostruttiva avviene in questi casi in stretta collaborazione con il ginecologo.Nella pratica clinica la creazione di una neovagina si collega più frequentemente con problemi d’intersessualità. 2508 z Goodrich J.J., Hall C.D.: Craniofacial Anomalies: Growth and Development from a Surgical Perspective.Thieme Medical Publishers, New York, 1995. Jurkiewicz M.J., Krizek T.J., Mathes S.J., Ariyan S.: Plastic surgery,Vol. I. C.V. Mosby Co., St. Louis, 1990. Lister G.: The Hand, 3rd ed. Churchill Livingstone, New York, 1993. McCarthy J.G.: Plastic Surgery, Vol. IV. W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990. Millard D.R. Jr.: Cleft Craft. Little, Brown and Co., Boston, 1977. Mustardé J.C., Jackson I.T.: Plastic Surgery in Infancy and Childhood. Churchill Livingstone, London, 1988. Perovic S.V.: Atlas of congenital anomalies of the external genitalia. Refot-Arka, Skopie, Macedonia, 1999. Rowe N.L., Williams J.L.L.: Maxillo-Facial Injuries. Churchill Livingstone, London, 1985. Smith J.W., Aston S.J.: Grabb and Smith’s Plastic Surgery. Little, Brown and Co., Boston, 1991. Stricker M.,Van Der Meulen J., Raphael B., Mazzola R.: Craniofacial Malformations. Churchill Livingstone, London, 1990. Tuchman Duplesis H.: Embriologia Umana. UTET, Torino, 1971. Van der Meulen J.C.: The classification and management of facial clefts. In: Cohen M. (Ed): Mastery of Plastic and Reconstructive Surgery. Little, Brown and Co., Boston, 1994. Walsh P.C., Retik A.B., Vaughn E.D., Wein A.J.: Campbell’s Urology, 7th ed. W.B.Saunders Co., Philadelphia, 1998. 2509 Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA 1 Aspetti generali 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico 3 Ustioni 4 Innesti e impianti 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva Capitolo 8 Chirurgia estetica G. Boggio Robutti, A. Faga, S. Scevola 8.1 Naso La chirurgia estetica rappresenta una particolare applicazione della chirurgia plastica, in cui le competenze operative proprie della disciplina vengono rivolte non alla correzione di quadri patologici, ma di tratti morfologici non graditi dal paziente o non aderenti ai canoni estetici del momento, pur essendo compatibili con la norma.Ne consegue che la chirurgia estetica riconosce indicazioni esclusivamente soggettive. Le motivazioni che spingono un paziente a richiedere un intervento di chirurgia estetica sono puramente psicologiche, anche se spesso pienamente giustificate e comprensibili, ma il chirurgo in questi casi può e deve valutare solo la possibilità di soddisfare tecnicamente le richieste. Ne deriva quindi un rapporto tra chirurgo e paziente del tutto particolare, sia sul piano psicologico che contrattuale, con le conseguenti particolari implicazioni medico-legali. 8.2 Padiglione auricolare 8.3 Palpebre 8.4 Viso 8.5 Mammelle 8.6 Addome 8.7 Natiche e fianchi 8.8 Braccia e cosce 8.9 Tatuaggi 8.10 Tecniche di resurfacing del volto Un intervento di chirurgia plastica ha sempre indicazioni di carattere oggettivo, perché l’operatore può valutare il difetto da correggere come una deviazione dalla norma.Un intervento di chirurgia estetica, invece, scaturisce da una richiesta di adeguamento di una morfologia normale ad un soggettivo ideale di bellezza e quindi di correzione di difetti valutabili come tali solo dal paziente. 8.11 Autotrapianto di capelli 8.12 Letture suggerite 9 Chirurgia craniofacciale 10 Traumatologia maxillofacciale I pazienti che richiedono questi interventi vivono un dissidio tra il proprio aspetto fisico e l’immagine interiore di sé; ne derivano talora veri e propri quadri psicotici. In questi casi il soggetto va riconosciuto come anormale ed inviato allo psichiatra; ogni risultato chirurgico sarebbe infatti inferiore all’aspettativa anche se l’intervento fosse ben riuscito e non sarebbe in grado quindi di risolvere il vero problema umano e sociale del paziente. In tutti i casi è comunque sempre necessario un approccio psicologico di base che deve essere eseguito dal chirurgo, competente sia a livello dell’indicazione chirurgica sia a livello psicologico. Un intervento di chirurgia estetica può essere complicato da eventi negativi che possono provocare danni sia morfologici che funzionali. Il chirurgo deve preventivamente informare il paziente di queste possibilità, oltre che dei motivi che possono sconsigliare l’esecuzione dell’intervento richiesto. Gli interventi di chirurgia estetica possono essere schematicamente raggruppati come segue. 2510 2511 La chirurgia estetica rappresenta una particolare applicazione della chirurgia plastica, in cui le competenze operative proprie della disciplina vengono rivolte non alla correzione di quadri patologici, ma di tratti morfologici non graditi dal paziente o non aderenti ai canoni estetici del momento, pur essendo compatibili con la norma.Ne consegue che la chirurgia estetica riconosce indicazioni esclusivamente soggettive. Le motivazioni che spingono un paziente a richiedere un intervento di chirurgia estetica sono puramente psicologiche, anche se spesso pienamente giustificate e comprensibili, ma il chirurgo in questi casi può e deve valutare solo la possibilità di soddisfare tecnicamente le richieste. Ne deriva quindi un rapporto tra chirurgo e paziente del tutto particolare, sia sul piano psicologico che contrattuale, con le conseguenti particolari implicazioni medico-legali. Padiglione auricolare Le orecchie a ventola sono causa di notevole disagio psicologico soprattutto nell’età scolare. L’intervento può essere eseguito sia nell’età prescolare che nell’età adulta; esso non interferisce comunque con lo sviluppo normale del padiglione auricolare. I risultati sono molto buoni poiché le cicatrici rimangono ben dissimulate nei solchi del padiglione. Un intervento di chirurgia plastica ha sempre indicazioni di carattere oggettivo, perché l’operatore può valutare il difetto da correggere come una deviazione dalla norma.Un intervento di chirurgia estetica, invece, scaturisce da una richiesta di adeguamento di una morfologia normale ad un soggettivo ideale di bellezza e quindi di correzione di difetti valutabili come tali solo dal paziente. I pazienti che richiedono questi interventi vivono un dissidio tra il proprio aspetto fisico e l’immagine interiore di sé; ne derivano talora veri e propri quadri psicotici. In questi casi il soggetto va riconosciuto come anormale ed inviato allo psichiatra; ogni risultato chirurgico sarebbe infatti inferiore all’aspettativa anche se l’intervento fosse ben riuscito e non sarebbe in grado quindi di risolvere il vero problema umano e sociale del paziente. In tutti i casi è comunque sempre necessario un approccio psicologico di base che deve essere eseguito dal chirurgo, competente sia a livello dell’indicazione chirurgica sia a livello psicologico. Un intervento di chirurgia estetica può essere complicato da eventi negativi che possono provocare danni sia morfologici che funzionali. Il chirurgo deve preventivamente informare il paziente di queste possibilità, oltre che dei motivi che possono sconsigliare l’esecuzione dell’intervento richiesto. Gli interventi di chirurgia estetica possono essere schematicamente raggruppati come segue. Naso La correzione di una eccessiva dimensione del naso così come di una sua deviazione laterale o di una eccessiva depressione del dorso è l’intervento chirurgico fra i più frequentemente richiesti. Una rinoplastica può essere eseguita solo al termine dello sviluppo corporeo del paziente, all’incirca dopo i 16 anni nella femmina e dopo i 18 nel maschio. La tecnica è basata sul modellamento dello scheletro osseo e cartilagineo del naso attraverso incisioni vestibolari che non lasciano alcuna cicatrice visibile. Nel caso della depressione del dorso nasale l’intervento si avvarrà di innesti autologhi di osso o di cartilagine per ricostituire il deficit scheletrico. 2512 2513 Palpebre Viso La cute della palpebra superiore è soggetta, per il suo naturale invecchiamento, ad una ptosi che la porta a divenire sempre più sovrabbondante ed a disturbare, nei casi più gravi, anche il sollevamento della palpebra stessa provocando disagio funzionale al paziente. L’intervento correttivo di blefaroplastica consiste nell’asportazione della cute in eccesso lasciando una cicatrice che è situata in corrispondenza del solco tarso-orbitale e diviene quindi praticamente invisibile. Le palpebre inferiori vengono corrette più frequentemente nell’anziano, ma possono richiedere una correzione anche nel soggetto giovane costituzionalmente predisposto; esse appaiono rigonfie alla loro base a causa della pressione del grasso retrobulbare associata ad una eccessiva debolezza dello strato muscolo-connettivale così da configurare il quadro clinico di una vera e propria “ernia”. L’intervento consiste nell’eliminare l’eccesso di tessuto adiposo retrobulbare e nel ricostruire il piano muscolo-aponeurotico indebolito; l’incisione è situata a livello del margine della palpebra, subito al di sotto dell’impianto delle ciglia, o a livello congiuntivale. Il naturale processo dell’invecchiamento determina il cedimento dei tessuti anche a livello del viso provocando la costituzione di pieghe e rughe che dichiarano impietosamente l’età del soggetto. L’intervento di correzione si chiama ritidectomia o più comunemente face lifting e consiste nello scollamento della cute del viso e del collo attraverso un’incisione praticata sul cuoio capelluto e sui margini anteriore e posteriore del padiglione auricolare dei due lati.Viene quindi resecata la cute eccedente; per migliorare il sostegno e quindi il risultato nel tempo dell’intervento eseguito si procede al modellamento ed al fissaggio ai piani profondi del sistema muscolo-aponeurotico superficiale (SMAS). Nei casi in cui sia richiesta, più che una distensione cutanea, una profonda modificazione dei tratti fisionomici, si utilizza una tecnica relativamente più nuova, il lifting sottoperiosteo (mask lift), in cui tutti i tessuti molli del volto vengono scollati “en bloc” dallo scheletro e riposizionati nel modo desiderato mediante fissazione all’osso ed alla fascia temporale. I risultati del face-lifting si mantengono per diversi anni e le cicatrici sono facilmente occultabili tra i capelli. Le possibili complicazioni dell’intervento sono principalmente legate all’insorgenza di ematomi postoperatori o, nello scollamento della cute del viso, alla possibilità di danneggiare rami del nervo facciale. 2514 2515 Mammelle Addome Il seno può presentare difetti per ipertrofia, per ptosi, per ipoplasia. L’ipertrofia crea problemi non solamente estetici ma anche di tipo funzionale perché, soprattutto se accentuata, può causare una tensione dolorosa della cute, solchi sulle spalle per la compressione delle spalline del reggiseno, lordosi e scoliosi, intertrigini ed eczemi nel solco sottomammario. L’ipertrofia mammaria è naturalmente sempre associata ad una ptosi provocata dal peso della mammella; la ptosi può però verificarsi anche in una mammella normale o addirittura ipotrofica a causa dell’invecchiamento o per un cospicuo dimagramento o ancora come esito di un prolungato allattamento. L’ipertrofia mammaria viene corretta con un intervento che ha due momenti fondamentali: dapprima una resezione cutanea e ghiandolare per ottenere un volume ottimale, successivamente la ricostituzione del cono mammario. Nelle ptosi si eseguono interventi analoghi che ovviamente non prevedono il tempo della resezione ghiandolare ma solamente l’asportazione dell’eccesso di cute ed il rimodellamento della ghiandola presente. Talora alla ptosi mammaria si può associare anche l’introduzione, quando la ghiandola residua non è sufficiente per ricostituire un seno di volume normale, di una protesi mammaria che assicuri maggiore consistenza. Le cicatrici che conseguono ad un intervento di mastoplastica riduttiva o di mastopessi sono sempre visibili e situate in sede periareolare, lungo il polo inferiore della mammella e,nei casi più gravi,lungo il solco sottomammario. Possono tuttavia essere occultate con un normale reggiseno ed il danno estetico che provocano è quindi accettabile. L’intervento di mastoplastica riduttiva viene sempre condotto in maniera da non alterare la funzione dell’allattamento e da mantenere il più possibile integra anche la sensibilità della areola e del capezzolo. L’ipoplasia mammaria, di natura costituzionale, e l’ipotrofia, conseguente invece a gravidanze, allattamento, dimagramento, menopausa, vengono ottimamente corrette con l’inserimento di una protesi. Come già esposto nel capitolo dedicato alla ricostruzione della mammella, le protesi mammarie sono involucri mono o bistratificati di materiale morbido ed impermeabile che contengono un materiale fluido, di consistenza molle elastica, così da dare una sensazione al tatto di perfetta normalità. Le protesi hanno diverso volume, diversa sezione, diverso profilo a seconda delle diverse situazioni cliniche; vengono situate tra la ghiandola mammaria e la fascia del muscolo grande pettorale o al di sotto di questo muscolo, attraverso una via d’accesso che può essere a livello del solco sottomammario o dell’areola o del pilastro anteriore dell’ascella. Del tutto recentemente è stato proposto l’inserimento delle protesi per via transombelicale, con l’ausilio dell’endoscopio, ma i risultati finora ottenuti sono molto discutibili. I risultati estetici sono ottimi salvo qualche caso in cui la costituzione della capsula fibrosa periprotesica provochi retrazioni così fastidiose da richiedere l’asportazione chirurgica della protesi stessa. L’impiego delle protesi non è in alcun modo collegabile all’insorgenza di carcinoma mammario. 2516 L’addome sottoposto all’azione di gravidanze, diete dimagranti o per condizioni costituzionali di debolezza connettivale può, col passare degli anni, giungere ad uno sfiancamento della parete con diastasi più o meno marcata dei muscoli retti e rilasciamento cutaneo che può giungere fino a formare pieghe al di sopra del pube. La correzione chirurgica presenta quindi indicazioni, a seconda della gravità del caso, di tipo estetico e di tipo funzionale. L’intervento consiste nella resezione di una porzione di cute e tessuto adiposo sottocutaneo simile ad un triangolo isoscele con base a livello del pube, apice a livello dell’ombelico e due angoli laterali a livello delle spine iliache anterosuperiori. Vengono poi avvicinati e suturati insieme i margini mediali dei muscoli retti, la cute al di sopra dell’ombelico viene scollata accuratamente fino alla regione costale e stirata verso il basso per riparare l’asportazione effettuata; infine l’ombelico opportunamente isolato e modellato viene fatto emergere nella posizione conveniente a livello della ricostituita parete addominale. All’intervento residua solo una cicatrice trasversale soprapubica ed una cicatrice periombelicale facilmente mascherata dall’infossamento dell’ombelico stesso. L’intervento risulta controindicato in caso di pazienti forti fumatori, diabetici, cardiopatici e in caso di presenza di cicatrici chirurgiche sovraombelicali che compromettono la vascolarizzazione della cute addominale. 2517 Natiche e fianchi Braccia e cosce Possono, per eccesso di tessuto adiposo o per ptosi, per ragioni costituzionali o acquisite, presentare deformazioni sgradevoli. La correzione chirurgica è possibile eliminando segmenti di cute e di tessuto sottocutaneo che creano però cicatrici vistose che quindi invalidano il risultato estetico. Oggi il problema è in parte risolto dalla liposuzione. Si tratta di una tecnica che consente di aspirare, attraverso piccole incisioni della lunghezza di pochi millimetri e l’introduzione nel tessuto sottocutaneo di cannule, la quantità voluta di grasso e di conseguire un modellamento pilotato della linea corporea e degli eccessi adiposi localizzati. L’aspirazione può essere effettuata mediante un aspiratore o, più modernamente, mediante una siringa azionata manualmente. Può essere integrata dall’azione lipoclasica di una sonda ad ultrasuoni. In mani esperte, si possono raggiungere risultati stabili nel tempo ed estremamente gratificanti per il paziente. È fondamentale sottolineare che, nonostante l’apparente semplicità, la liposuzione è da considerare un intervento maggiore, in quanto nelle aree trattate si verificano fenomeni circolatori e metabolici paragonabili a quelli riscontrabili in una crush-syndrome. La quantità di grasso asportabile in un solo tempo operatorio può essere anche molto elevata (> 10 litri, megaliposuzione o steataferesi), ma solo a condizione di poter contare su un’assistenza anestesiologica e rianimatoria di prim’ordine e per almeno 2-3 giorni dopo l’intervento, a causa dell’insorgenza di profondi scompensi emodinamici. Al contrario, nel caso di aspirazione di poche decine di cc l’intervento può essere eseguito in anestesia locale, ambulatorialmente. Si tratta di correzioni di ptosi cutanee determinate da invecchiamento o da un forte dimagramento delle braccia e delle cosce, che soprattutto nell’anziano appaiono flaccide e di aspetto sgradevole. L’asportazione della cute in eccesso lascia in questi casi cicatrici sempre molto evidenti e quindi sconsigliabili se non in casi con indicazioni particolari. 2518 2519 Tatuaggi Tecniche di resurfacing del volto La richiesta di rimozione di tatuaggi praticati a scopo ornamentale è frequente. Purtroppo, a fronte di un grande numero di tecniche proposte, il problema non è quasi mai di facile soluzione. Le opzioni possibili sono: la distruzione profonda (per es. laser CO2), la distruzione superficiale (per es. peeling chimico, dermabrasione, Argon laser, Q-switched laser), metodi infiammatori (per es. acido tannico, ossalico), metodi chirurgici (escissione, escissioni seriate, escissioni con innesti, lembi, espansione cutanea).Tra queste tecniche i Q-switched laser rappresentano la scelta più nuova e più selettiva, dal momento che attraverso la fotodermolisi selettiva sono diretti solo contro il pigmento intracellulare con minima distruzione del derma e dell’epidermide adiacenti. Esistono laser diversi specifici per diversi colori. Le complicazioni più frequenti consistono in discromie cutanee residue, efficacia parziale del trattamento, cicatrici. Le aspettative del paziente sono di solito maggiori dei risultati ottenibili. I tatuaggi in chirurgia plastica vengono praticati per sfumare o ripigmentare innesti cutanei, chiazze di vitiligine, cicatrici; per accentuare il colore naturale del vermiglione, delle sopracciglia e ciglia; per simulare strutture perdute come ciglia, sopracciglia, barba, areola mammaria. Si basano sulla distruzione dell’epidermide e/o del derma con conseguente rigenerazione di nuovo tessuto e possono avvalersi di metodi fisici (dermoabrasione, laser a CO2) o chimici (acido tricloroacetico, acido salicilico, alfa idrossiacidi, tretinoina). È necessaria una attenta selezione del paziente in base al fototipo della cute (classificazione di Fitzpatrick) perché più alto è il fototipo maggiore è il rischio di discromie post-trattamento. 2520 2521 Autotrapianto di capelli In alopecie di natura diversa a distribuzione androgena (stempiatura, retrazione della linea dei capelli), si prelevano dal cuoio capelluto della regione nucale dello stesso individuo micro- e mininnesti di bulbi, che mantengono l’insensibilità agli androgeni anche nella sede ricevente. Si possono eseguire 2-3 sedute a circa 1 anno di distanza, trapiantando ogni volta migliaia di bulbi che vanno così a reinfoltire le aree da trattare. L’intervento è in anestesia locale. L’attecchimento si calcola attorno al 90% e i risultati sono generalmente ottimi. Letture suggerite z z z z z z z z z z z z 2522 Baker T.J., Gordon H.L., Stuzin J.M.: Surgical Rejuvenation of the Face, 2nd ed. Mosby, St Louis, 1996. Bostwick J.: Aesthetic and Reconstructive Breast Surgery. Quality Medical Publishing, St. Louis, 1990. Fournier P.F.: Liposculpture: the syringe technique. Arnette Blackwell, Paris, 1991. Gonzalez-Ulloa M., Mayer R., Smith J.W., Zaoli G.: Aesthetic Plastic Surgery. Piccin, Padova, 1987. Hamra S.T.: Composite Rhytidectomy. Quality Medical Publishing, St. Louis, 1993. Lejour M.: Vertical mammaplasty and liposuction of the breast. Quality Medical Publishing, St. Louis, 1994. Mustardé J.C.: The correction of prominent ears using simple mattress suture. Br.J. Plast. Surg. 16: 170-176, 1963. Oustermout D.K.: Aesthetic Contouring of the Craniofacial Skeleton. Little, Brown and Co., Boston, 1991. Pitanguy I.: Abdominal lipectomy. Clin. Plast. Surg. 2: 401, 1975. Putterman A.M.,Warren L.A.: Cosmetic oculoplastic surgery-Eyelid, forehead, and facial techniques, 3rd ed.W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1999. Sheeen J.H.: Aesthetic Rhinoplasty, C.V. Mosby Co., St. Louis, 1987. Sullivan D.A.: Cosmetic Surgery: the cutting edge of commercial medicine, Rutgers University Press, 2001. 2523 Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA 1 Aspetti generali 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva 3 Ustioni 4 Innesti e impianti Capitolo 9 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica Chirurgia craniofacciale L. Donati, P. Candiani, M. Klinger, M. Signorini, L. Vaienti 9 Chirurgia craniofacciale 9.1 Craniosinostosi e craniofaciostenosi La chirurgia craniofacciale costituisce il punto di arrivo di decenni di esperienza in chirurgia dell’estremo cefalico e rappresenta la risposta terapeutica per la patologia di origine malformativa, infiammatoria, traumatica e neoplastica del settore craniofacciale. Si definisce “settore craniofacciale” quell’insieme di regioni anatomiche comprendenti la volta, il basicranio e lo scheletro della faccia. Esse riconoscono quale centro il complesso sfenoetmoidale, vera struttura di confine e di comunicazione tra cranio e faccia. La conoscenza dell’anatomia normale, topografica e chirurgica di queste regioni ed in particolare delle regioni “di confine”, cioè le regioni profonde della faccia (fosse nasali, seni paranasali, fissura pterigopalatina, fossa infratemporale e tutto il basicranio), è quindi l’elemento base indispensabile per l’attuazione di questo genere di chirurgia; inoltre i più moderni studi sull’embriologia e la morfogenesi dell’estremo cefalico devono essere tenuti presenti dal chirurgo. La patologia craniofacciale malformativa ha avuto il suo pioniere e studioso nel chirurgo plastico Paul Tessier, ed è oggi una importantissima branca della chirurgia plastica. Da essa sono state sviluppate tecniche di accesso ed aggressione chirurgica che hanno trovato successivamente utilizzo anche nella terapia di patologie flogistiche, traumatiche e neoplastiche dell’estremo cefalico. 9.2 Iperteleorbitismo 9.3 Letture suggerite 10 Traumatologia maxillofacciale La rara ma estremamente complessa patologia malformativa craniofacciale comprende: x le craniosinostosi; x le craniofaciostenosi; x l’iperteleorbitismo; x le sindromi facciali laterali; x altri quadri displastici, ivi comprese le disrafie o schisi. Nel presente capitolo ci occuperemo dei primi tre argomenti, rimandando ad altri testi specifici del settore per eventuali approfondimenti e per la trattazione delle sindromi laterofacciali e displastiche. 2524 2525 La chirurgia craniofacciale costituisce il punto di arrivo di decenni di esperienza in chirurgia dell’estremo cefalico e rappresenta la risposta terapeutica per la patologia di origine malformativa, infiammatoria, traumatica e neoplastica del settore craniofacciale. Si definisce “settore craniofacciale” quell’insieme di regioni anatomiche comprendenti la volta, il basicranio e lo scheletro della faccia. Esse riconoscono quale centro il complesso sfenoetmoidale, vera struttura di confine e di comunicazione tra cranio e faccia. La conoscenza dell’anatomia normale, topografica e chirurgica di queste regioni ed in particolare delle regioni “di confine”, cioè le regioni profonde della faccia (fosse nasali, seni paranasali, fissura pterigopalatina, fossa infratemporale e tutto il basicranio), è quindi l’elemento base indispensabile per l’attuazione di questo genere di chirurgia; inoltre i più moderni studi sull’embriologia e la morfogenesi dell’estremo cefalico devono essere tenuti presenti dal chirurgo. La patologia craniofacciale malformativa ha avuto il suo pioniere e studioso nel chirurgo plastico Paul Tessier, ed è oggi una importantissima branca della chirurgia plastica. Da essa sono state sviluppate tecniche di accesso ed aggressione chirurgica che hanno trovato successivamente utilizzo anche nella terapia di patologie flogistiche, traumatiche e neoplastiche dell’estremo cefalico. La rara ma estremamente complessa patologia malformativa craniofacciale comprende: x le craniosinostosi; x le craniofaciostenosi; x l’iperteleorbitismo; x le sindromi facciali laterali; x altri quadri displastici, ivi comprese le disrafie o schisi. Nel presente capitolo ci occuperemo dei primi tre argomenti, rimandando ad altri testi specifici del settore per eventuali approfondimenti e per la trattazione delle sindromi laterofacciali e displastiche. Craniosinostosi e craniofaciostenosi Si tratta di malformazioni caratterizzate da alterazioni della morfologia e delle funzioni (cerebrale, oculare, respiratoria eccetera) che riconoscono il loro momento patogenetico nella precoce ossificazione di una o più suture craniche (ricorderemo che tale processo è normalmente progressivo e che l’ultima ad obliterarsi è la fontanella bregmatica tra il secondo ed il terzo anno di vita). Eziopatogenesi e classificazione L’eziologia è a tutt’oggi ignorata, anche se fattori ereditari sembrano giocare un ruolo fondamentale. Sono state infatti identificate da Cohen ben 11 sindromi da alterazioni cromosomiche, e numerosi sono i quadri malformativi nei quali è riconoscibile la presenza della stessa malformazione, seppur in forma frusta o non,negli stessi genitori o nell’intero nucleo familiare del paziente,anche se il cariotipo è normale. Anche sulla patogenesi non esiste chiarezza, essendo non ancora del tutto chiarito il meccanismo di crescita craniofacciale. Nei casi di microcefalia malformativa, Cohen propone che l’iposviluppo della massa encefalica non eserciti sulle suture craniche quello stress necessario alla crescita delle varie componenti ossee. D’altra parte non possono essere trascurate le alterazioni metaboliche quali l’ipertiroidismo, che produce una saldatura precoce delle suture, come d’altra parte le cause cromosomiche che possono interferire sui normali processi di ossificazione e sui blastemi mesenchimali presenti a livello della sutura. Comunque ad un attento esame della letteratura si può porre in evidenza come negli ultimi due decenni la ricerca si sia concentrata sullo sviluppo della parte anteriore della base del cranio (baricentro sfenoidale; complesso naso-etmoideo-premascellare in avanti, complesso pterigoideo2526 mascellare-palatino posteriormente), per spiegare la fenomenologia di queste complesse patologie. Grande interesse suscitano in particolare le strutture sfenoetmoidali del basicranio anteriore, le cui alterazioni sarebbero alla base delle alterazioni facciali che si accompagnano a quelle craniche. Si tratta comunque di un meccanismo complesso, coinvolgente le suture craniche, il basicranio, le sovramenzionate strutture facciali che vi sono strettamente connesse nello sviluppo e la dura madre. z La scafocefalia o dolicocefalia è caratterizzata da precoce sinostosi della sutura sagittale, con cranio che in visione frontale si presenta alto e stretto, spesso esibente una cresta sagittale mediana, corrispondente alla sinostosi. In proiezione laterale il cranio appare allungato in senso anteroposteriore, con prominenza delle ossa occipitali posteriormente e dell’osso frontale anteriormente. z La trigonocefalia è caratterizzata da precoce sinostosi della sutura metopica e fronto-etmoidale, con tipica forma a “chiglia” della fronte ed iposviluppo delle eminenze frontali, ipoteleorbitismo. È conveniente studiare questo tipo di malformazione con la proiezione di Hirtz che mette in evidenza la forma triangolare del frontale. z La plagiocefalia, causata dalla precoce sinostosi di metà della sutura coronale e frontosfenoidale, presenta appiattimento del frontale in corrispondenza della sinostosi con precoce ipersviluppo compensatorio del frontale contro-laterale, asimmetria delle volte orbitarie, ovalizzazione dell’orbita omolaterale in senso supero-laterale, spesso ipersviluppo compensatorio in regione temporale omolaterale, deviazione del vertice, asimmetria dello scheletro nasale e sua deviazione omolaterale alla lesione. Anche in questo caso è utile la proiezione di Hirtz che ben mette in evidenza l’asimmetria frontale e la verticalizzazione delle piccole ali dello sfenoide. z La brachicefalia è caratterizzata dalla precoce chiusura delle suture coronale e fronto-sfenoidale per tutta la loro lunghezza. La volta è appiattita in senso antero-sfenoidale e la superficie anteriore del frontale appare come retroposta. Si osserva iposviluppo in senso verticale. Gli esami obiettivo e radiologico evidenziano un accorciamento sagittale del cranio e della base cranica. La sintomatologia, specie neurologica, è ben evidente. z La ossicefalia ne rappresenta una variante, caratterizzata da retroposizione del frontale, che appare in continuità con il dorso nasale. Così anche la turricefalia, spesso esito di una brachicefalia non trattata. z Le craniofaciostenosi più importanti sono rappresentate dalla sindrome di Crouzon e di Apert. Nella Crouzon, sindrome ereditaria trasmessa con carattere autosomico dominante, si associano brachicefalia nelle possibili varianti, o scafocefalia, esorbitismo con accorciamento in senso anteroposteriore dell’orbita, la cui parete laterale è compressa dal lobo temporale. Si associano a livello orbitario anomalie funzionali della visione binoculare, riassumibili in exotropia dovuta ad ipoplasia orbitaria ed infine moderato grado di iperteleorbitismo. L’ipoplasia è dovuta, dal punto di vista fisiopatologico, alla retroposizione del frontale e quindi del tetto orbitario, all’ipoplasia della parete laterale dell’orbita e del terzo medio della faccia, e quindi alla retroposizione della parete mediale e del pavimento dell’orbita. Complessivamente dunque si tratta di una malformazione a sviluppo prevalentemente trasversale, particolarmente evidente nell’adolescente e nell’adulto nei quali si può presentare con il tipico aspetto “batracoide”. A livello facciale si assiste a retrusione naso-mascellare, con il tipico naso “a becco di pappagallo”. z La sindrome di Apert, a trasmissione autosomica recessiva, è caratterizzata da gravi malformazioni coinvolgenti ad un tempo l’estremo cefalico ed i quattro arti. A livello cefalico il reperto più comune è la brachicefalia, con marcatissima ipoplasia del terzo medio facciale, rotazione posteriore della volta osteocartilaginea nasale, che appare come incassata al di sotto dell’arcata sopracciliare. Il labbro superiore si presenta retratto nella sua porzione mediale. Il conseguente esorbitismo è meno marcato che nella malattia di Crouzon, in quanto si associano ptosi 2527 della palpebra superiore e distopia cantale: infatti il legamento cantale interno si inserisce postero-superiormente rispetto alla sua normale sede di in-serzione (cioè la cresta lacrimale), fissandosi a livello dell’osso nasale e creando un aspetto antimongoloide. Si associa altresì frequentemente esotropia. A livello di tutte le estremità è presente sindattilia di tipo simmetrico. Si tratta dunque di una sindrome malformativa grave, a prevalente sviluppo sul piano frontale, la cui sintomatologia obiettiva si palesa fin dalla nascita nella sua gravità. La sindrome di Crouzon e la sindrome di Apert si caratterizzano entrambe come craniofaciostenosi e, visti i molti punti di contatto, è possibile, secondo le più recenti concezioni sulle anomalie dello sviluppo craniofacciale, estrapolare un unico quadro, il cosiddetto “Croupert”, di cui la Crouzon rappresenta l’espansione trasversale e l’Apert quella longitudinale. Valutazione preoperatoria z La sindrome del “cranio a trifoglio” è una forma gravissima e rara di policraniosinostosi associata ad esoftalmo, idrocefalo, ipoplasia del terzo medio della faccia. La prognosi è per lo più infausta. Il timing chirurgico di queste malformazioni si basa su di una approfondita valutazione preoperatoria clinica e strumentale. La presenza di limitazioni funzionali importanti, di frequente riscontro nelle sindromi di Crouzon,Treacher Collins e Apert, richiede l’effettuazione di interventi precoci, resi attualmente possibili dai recenti progressi delle tecniche anestesiologiche e dei trattamenti postoperatori intensivi. La riduzione della morbilità e della mortalità che ne consegue ha permesso inoltre la messa in atto di procedure ricostruttive e tecniche chirurgiche più complesse e articolate. Esse prevedono una serie di esami specialistici, che vengono eseguiti e valutati da una équipe craniofacciale. Tale équipe comprende: il chirurgo plastico, il neurochirurgo, l’oftalmologo, l’otorinolaringoiatra, il foniatra, il neuroradiologo e l’anestesista-rianimatore. Ciascuno di questi esegue un’accurata anamnesi, inoltre l’esame obiettivo verrà compendiato da esami strumentali specialistici. Il neuroradiologo eseguirà: z un esame radiografico standard rappresentato dalle proiezioni cefalometriche e compendiato da particolari proiezioni, la cui indicazione sarà dettata dalle singole situazioni cliniche; z esami altamente specialistici quali la TC e la RMN. Nell’ultimo quinquennio di grande aiuto è stato l’uso della ricostruzione tridimensionale delle immagini ed addirittura la simulazione al computer dell’intervento con l’ausilio di tecniche informatiche software avanzate (design, rappresentazione di superfici curve; L. Donati, 1998), le quali costituiscono l’approccio eidomatico alle craniosinostosi; è oggi altresì possibile, collegando il software con un apparecchio ricevente, robotizzare la ricostruzione dei pezzi anatomici. La componente psicologica del paziente rappresenta un altro elemento di importanza non trascurabile;va infatti tenuto presente che nello sviluppo vi sono fasi che si possono definire “critiche”, durante le quali il bambino evidenzia una vera e propria predisposizione ai traumi psicologici. Pertanto la pianificazione delle differenti fasi chirurgiche deve tenere conto dell’inevitabile confronto con i propri coetanei che si verifica in primo luogo all’ingresso della scuola primaria all’età di circa 6 anni, e successivamente durante la fase critica dell’adolescenza. Aspetti clinici e funzionali Approccio chirurgico Dal punto di vista funzionale queste sindromi si caratterizzano per la discrepanza contenentecontenuto della scatola cranica, che si ripercuote sotto forma di disparità tra crescita cerebrale e capacità intracranica. Ne consegue ipertensione endocranica, tanto maggiore quanto maggiore e più precoce è il grado della sinostosi. Dal punto di vista sintomatologico, se il quadro di ipertensione è facilmente rilevabile dalla seconda infanzia in poi,non lo è nella prima infanzia ed in età neonatale, età nelle quali esso non si manifesta con cefalea,vomito,papilla da stasi. Pertanto in tutti i casi che si presentano a queste età è opportuno, laddove si sospetti presenza di ipertensione endocranica (sospetto clinico anche se non sempre suffragato dalla presenza di impressioni digitate in immagini radiologiche), misurare la pressione intracranica, per esempio con un sensore epidurale riempito con soluzione fisiologica e connesso attraverso il cuoio capelluto con un catetere collegato ad un barotransduttore. Si associano spesso riduzione del QI e/o menomazioni neurologiche (ritardo psicomotorio eccetera). Altro segno funzionale delle craniostenosi, conseguenza anch’esso dell’incremento della pressione endocranica, è il danno visivo, difficilmente quantificabile per la tenera età dei pazienti, se non purtroppo in caso di edema papillare, caso nel quale si deve temere una atrofia ottica secondaria a stasi o a compressione. Si riscontra per lo più nella scafocefalia. Una accurata e precoce diagnosi seguita da un idoneo trattamento evitano gli esiti di questa serissima sintomatologia, esprimibili in una vasta gamma che va dalla riduzione del visus alla ambliopia. Alterazioni respiratorie possono risultare da meccanismo locale (alterazioni delle regioni profonde della faccia) o centrale (da concomitante malformazione nervosa o da sindrome da impegno secondario ad ipertensione endocranica). La topografia detta regole particolari in questo tipo di chirurgia, che deve essere: z extradurale nella cavità cranica; z sottoperiostea nell’orbita e nelle regioni facciali; z extramucosa nelle fosse nasali, nei seni paranasali e nella cavità orale; z al di fuori delle vie olfattive. Infatti la vicinanza di strutture intra ed extracraniche pone il problema di una accuratissima asepsi, allo scopo di evitare le infezioni. Altri cardini fondamentali di tale tipo di chirurgia sono una accurata emostasi ed una manipolazione la più delicata possibile. Il progresso della tecnologia,d’altra parte,ha permesso di conseguire una notevole miglioria in campo chirurgico. I mezzi di sintesi attualmente a nostra disposizione consentono di modificare e modellare in modo più esteso ed accurato i segmenti ossei per ottenere il risultato desiderato. Infatti se precedentemente si realizzavano semplici osteotomie utilizzando come osteosintesi unicamente fili metallici che fissavano i segmenti ossei su un solo piano, attualmente è possibile utilizzare placche e viti, anche riassorbibili, le quali permettono osteotomie e spostamenti maggiori, con tempi di guarigione ridotti e migliori risultati globali anche in pazienti di giovane età. L’obiettivo chirurgico è la restitutio ad integrum morfofunzionale: si dovranno dunque eseguire la liberazione craniotomica delle suture sinostotiche evitandone la prematura riossificazione, ed una o più plastiche di avanzamento e modellamento delle ossa craniche e facciali. L’approccio è rappresentato dalla incisione bicoronale eseguita dopo scollamento periosteo esteso sulla volta cranica, sul frontale e sulle orbite fino ai legamenti cantali mediali e laterali che vengono in genere preservati. Se si pianifica di aggredire anche le strutture facciali si estende lo scollamento fino ai 2528 2529 z La sindrome di Pfeiffer, ereditaria e più rara delle precedenti, è caratterizzata dall’associazione di brachi (o turri) cefalia, con ipoplasia del terzo medio della faccia, iperteleorbitismo, esoftalmo, malformazioni delle estremità (pollice ed alluce vari). z La sindrome di Saethre-Chotzen si presenta con brachicefalia, distopia orbitaria, deviazione del setto nasale, angolo naso-frontale appiattito,modica ipoplasia del terzo medio facciale, attaccatura bassa dei capelli, ptosi sopracciliare, anomalie degli arti superiori (sindattilia specie tra indice e medio). z La sindrome di Carpenter è caratterizzata dall’associazione di brachicefalia o plagiocefalia a polidattilia delle mani e/o dei piedi. Spesso sono presenti iposviluppo psichico ed altre malformazioni dell’apparato cardiocircolatorio. margini orbitari inferiori ed ai mascellari e si ricorre ad incisioni ulteriori (transcongiuntivale, subciliare e vestibolare). Va peraltro segnalato che benché l’evoluzione tecnologica abbia permesso negli ultimi anni un progresso dei programmi chirurgici e delle modalità ricostruttive, le cosiddette “nuove tecniche” derivano tutte da quella creata da Paul Tessier, che tuttora viene considerata come il gold standard nel campo della chirurgia ricostruttiva di queste gravi malformazioni. x Scafocefalia: si pratica una serie di craniotomie, riposizionando l’osso frontale all’indietro previo sollevamento e corretto posizionamento,e l’osso occipitale in avanti tramite una frattura en bois vert. I tre frammenti biparietali intermedi vengono trasposti risultandone un corretto riallineamento. Si può in tal caso fare ricorso ad una incisione situata posteriormente rispetto a quella bicoronale. Bisogna però ricordare che solo nel 40% dei casi questa malformazione sia per il suo aspetto morfologico che per lo stato clinico richiede il trattamento chirurgico. x Trigonocefalia: la terapia chirurgica andrebbe praticata entro il VI mese di vita, ed anticipata solo se il quadro clinico e radiologico di compressione dei lobi frontali è grave. L’intervento consiste nell’allestimento della barra sopraorbitaria che viene modellata: occorre praticare una frattura possibilmente a legno verde sulla linea mediana laddove si forma il segno V tipico di questa malformazione. È spesso necessario, dopo avere modellato la barra, rinforzare la linea mediana anche utilizzando come innesto parte dell’osso frontale che era stato precedentemente rimosso. Seguono il riposizionamento e la fissazione della barra. Il rimodellamento della parte superiore dell’osso frontale può svolgersi con modalità differenti, a seconda delle diverse situazioni cliniche. È comunque preferibile non fissare i frammenti di frontale e lasciarli “flottare”, praticando solo una fissazione nasale mediana in modo da permettere al cervello di esercitare una spinta modellante sulla fronte ossea ricostruita. Per correggere l’eventuale ipoteleorbitismo associato si distanziano i due frammenti della barra e si fissano tra loro con un innesto osseo retroposto. x Plagiocefalia: per il trattamento di questa malformazione si può adottare l’approccio monolaterale o quello bilaterale. In effetti il primo può esitare in asimmetrie da ipercorrezione del lato affetto o da ipocorrezione delle strutture contro-laterali che subiscono sempre un ipersviluppo compensatorio. Preferiamo pertanto l’approccio bilaterale che ci consente di correggere entrambe le deformità. Il trattamento consiste nell’elevazione e modellamento della barra sopraorbitaria e della metà craniale dell’osso frontale. Accade con una certa frequenza di operare pazienti ado-lescenti o adulti: in questo caso bisognerà associare alla cranioplastica rimodellante alcune osteotomie facciali miranti a correggere asimmetrie dello scheletro facciale derivanti dalla crescita viziata dalla sinostosi. x Brachicefalia (isolata o associata a faciostenosi come nella sindrome di Crouzon o di Apert): la tecnica più in uso è quella della “fronte flottante” di Marchac (1978), che consiste nell’allestimento, riposizionamento e rotazione antero-inferiore della barra sovraorbitaria che si accompagna ad ampia craniectomia coronale con riposizionamento di un opercolo frontale. Il nuovo complesso osseo frontale viene fissato solo inferiormente e può quindi “flottare” in avanti sotto la spinta esercitata dal cervello in crescita.Tale tipo di chirurgia si pratica nei casi di brachicefalia isolata ma soprattutto nella Crouzon e nell’Apert, in cui si impone un trattamento il più precoce possibile. In particolare nelle craniofaciosinostosi si profila anche il problema del trattamento della malformazione facciale (Figg. 9.1-9.4). 2530 2531 Iperteleorbitismo Inquadramento nosografico ed eziologia L’iperteleorbitismo non costituisce una sindrome di per sé, ma è uno dei segni associati a malformazioni facciali, siano esse craniosinostosi o craniofaciostenosi, schisi facciali mediane, paramediane o paranasali. Patogenesi-classificazione Il determinismo patogenetico che porta alla condizione di iperteleorbitismo riconosce alcuni fattori biomeccanici, quali: z l’arresto morfocinetico, con assenza del movimento orbitale in senso mediale; z l’ostacolo meccanico in caso di encefalocele etmoidale, specie se l’encefalocele tende ad espandersi direttamente nelle cavità orbitarie; z processi espansivi dinamici quali quelli riscontrabili in caso di sinostosi coronali in cui la crescita compensatoria si svolge verso il basso e l’esterno. Questa spinta eserciterebbe una considerevole pressione sul complesso cartilagineo etmoidale ed espanderebbe lo spazio interorbitario. Il parametro alterato in questo tipo di patologia è la distanza interorbitaria ossea, cioè la distanza tra i due dacryon, da visualizzare su di un radiogramma cranico in proiezione postero-anteriore con una distanza del capo dalla cassetta di 4 metri. La BIOD (Bony Inter Orbital Distance) varia nel normale tra 22 e 28 mm nel sesso femminile e tra 24 e 32 mm in quello maschile. Altri dati da considerare sono la distanza dei forami ottici e soprattutto l’angolo di divergenza tra gli assi orbitari, perché potrebbero rendere inattendibile la misurazione della distanza tra i dacryon quale parametro indicativo di iperteleorbitismo. Una TC è quindi indispensabile. Un esame clinico e strumentale con un test di Hess deve essere effettuato dall’oftalmologo per appurare eventuali danni visivi ed oculomotori. Approccio chirurgico La terapia chirurgica varia a seconda del grado di iperteleorbitismo. L’approccio sarà subcranico per una IOD (Inter Orbital Distance) inferiore a 40 mm o intracranico per valori superiori. Questo criterio è dettato dalle condizioni del complesso etmoidale, che presentandosi ipertrofico e caudalizzato nell’iperteleorbitismo di III grado,deve essere rimosso.L’approccio intracranico sarà adottato anche in casi di iperteleorbitismo di II grado con caudalizzazione pronunciata dell’etmoide, in alcune disrafie mediane e paramediane ed infine negli encefaloceli. Se sono previste osteotomie facciali l’approccio sarà combinato intra ed extracranico. L’approccio intracranico sfrutta le osteotomie facciali secondo Tessier mentre quello intracranico prevede lo scollamento periosteo della base cranica anteriore. Punto in comune delle due tecniche è la resezione del segmento osseo mediano naso-etmoido-glabellare, possibilmente rispettando i nervi olfattivi. Il setto osteo-cartilagineo deve essere rimosso e ricostruito nello stesso tempo chirurgico tramite un innesto costale osteo-condrale. I due segmenti ossei mobilizzati verranno intraruotati e fissati sulla linea mediana. In alcuni casi di sindrome di Apert riesce conveniente praticare un approccio combinato intra ed extracranico e mobilizzare entrambi i mascellari tramite una osteotomia mediana palatina (bipartizione facciale); la successiva rotazione interna dei due segmenti facciali così ottenuti, comprendenti ciascuno en bloc l’orbita ed il corrispondente osso mascellare, consente una brillante correzione contemporanea dell’iperteleorbitismo e dell’open bite da precontatto posteriore. L’eidomatica o chirurgia simulata o virtual surgery permette ora di “programmare” l’intervento con precisione mai vista. La robotica con i nuovi prodotti della ingegneria tessutale, permette la preparazione dei “pezzi”con capacità di rigenerazione tessutale prima dell’intervento. 2532 2533 Scegli Sezione: VII - CHIRURGIA PLASTICA e RICOSTRUTTIVA Letture suggerite z z z z z z z z z z Cohen M.M. Jr: Sutural biology and the correlates of craniosynostesis. Am. J. Med.Genet. 47: 581, 1997. Cohen S.R., Dauser R.C., Newman M.N. et al.: Surgical techniques of cranial vault expansion for inercase in intracranial pressure in older children. J. Craniofac. Surg. 4: 167, 1993. Cohen S.R., Holmes R.E.: Internal Le Fort III distraction with biodegradable devices. J. Craniofac. Surg. 12(3): 264-72, May 2001. Donati L.: Eidomatica e robotica medica. B e G Editori,Verona, 1999. Glineur R., Louryan S., Lemaitre A., Evrard L., Rooze M., De Vos L.: Cranio-facial dysmorphism: experimental study in the mouse, clinical applications. Surg. Radiol. Anat. 21 (1): 41-7, 1999. Honig J.F., Merten H.A., Ludwig H., Bebnke-Mursch J.: Related articles: subgaleal versus subperiosteal dissection in fronto-orbital advancement procedures. J. Craniofac. Surg. 12(3): 287-91, May 2001. Mac Kinnon C.A., David D.J.: Oblique facial clefting associated with unicoronal synostosis. J. Craniofac. Surg. 12(3): 227-31, May 2001. Marchac D., Renier D., Broumand S.: Timing of treatment for craniosynostosis and faciocraniosynostosis – a 20-year experience. Br. J. Plast. Surg. 47: 211, 1994. Marchac D.: Twenty-year experience with cariy surgery for craniosynostosis –results and unsolved problems discussion. Plast. Reconstr. Surg. 96: 296, 1995. Minerva Stomatol. 49(78): 355-68, July-Aug. 2000. Review. Italian. Salyer K.E.: Techniques in aestetic craniofacial surgery. J.P. Lippincott, Philadelphia, 1989. 2534 1 Aspetti generali 2 Il melanoma e altre lesioni cutanee di interesse chirurgico 3 Ustioni 4 Innesti e impianti 5 Trapianti 6 Chirurgia plastica ricostruttiva della mammella 7 Malformazioni congenite 8 Chirurgia estetica 9 Chirurgia craniofacciale 10 Traumatologia maxillofacciale 10.1 Cenni di anatomia funzionale del massiccio facciale 10.2 Principi di pronto soccorso 10.3 Fratture del terzo medio 10.4 Letture suggerite 2535 Sezione VII - Chirurgia plastica e ricostruttiva Capitolo 10 Traumatologia maxillofacciale L. Donati, P. Candiani, V. Donati, M. Klinger, D. Ottavian, M. Signorini La traumatologia maxillofacciale si occupa delle lesioni ossee del terzo medio ed inferiore della testa, la quale viene suddivisa in 3 regioni, superiore, media ed inferiore secondo due piani orizzontali, di cui uno passante per le suture zigomatico-frontali e l’altro per il piano occlusale delle arcate dentarie. Tali lesioni sono molto frequenti nella traumatologia stradale e lavorativa così come nella pratica sportiva. 2536 La traumatologia maxillofacciale si occupa delle lesioni ossee del terzo medio ed inferiore della testa, la quale viene suddivisa in 3 regioni, superiore, media ed inferiore secondo due piani orizzontali, di cui uno passante per le suture zigomatico-frontali e l’altro per il piano occlusale delle arcate dentarie. Tali lesioni sono molto frequenti nella traumatologia stradale e lavorativa così come nella pratica sportiva. Cenni di anatomia funzionale del massiccio facciale Il massiccio facciale o splancnocranio è costituito dalle strutture della parte inferiore ed anteriore della testa. Di esso fanno parte, oltre allo sfenoide, all’etmoide ed al vomere, che sono ossa impari e mediane, diverse ossa pari e simmetriche e cioè le ossa mascellari, nasali, lacrimali, zigomatiche, palatine ed i cornetti inferiori.A queste ossa va aggiunta la mandibola che si articola con l’osso temporale tramite una doppia condilartrosi. Il massiccio facciale presenta sia sul piano verticale che orrizzontale degli ispessimenti ossei che hanno la funzione di zone di maggiore resistenza. Sul piano orrizzontale si distinguono tre ispessimenti, detti travi di Ombredanne, rappresentati dalla base apicale (osso spugnoso intorno e sopra gli apici delle radici dentali) e della zona anteriore dell’osso zigomatico. Sul piano verticale si notano altrettanti ispessimenti, detti pilastri di Sicher: il pilastro anteriore che si diparte dall’alveolo del canino lungo la branca montante del mascellare fino a raggiungere il seno frontale; il pilastro laterale che originatosi dal primo molare si sdoppia a livello dell’osso zigomatico in due branche di cui una verticale che passa lungo l’apofisi montante del mascellare ed una orizzontale che prosegue all’indietro fino all’apofisi zigomatica del temporale; il pilastro posteriore che dalla tuberosità del mascellare, dalla apofisi pterigoidea e dalla apofisi laterale del palatino si prolunga fino alla grande ala dello sfenoide. Tutti e tre i pilastri poggiano poi sul palato che costituisce una volta portante rinforzata lungo la linea mediana dal vomere e dalla lamina perpendicolare dell’etmoide. Tra gli ispessimenti ossei verticali e quelli orizzontali esistono le linee di debolezza lungo cui decorrono le rime delle fratture descritte da Le Fort (Fig. 10.1 a, b). Anche la mandibola presenta zone di minore resistenza dove si localizzano preferenzialmente le fratture. Esse sono rappresentate dalla zona circostante l’eminenza mentoniera, dalla regione canina per la maggiore sottigliezza ossea, dall’angolo mandibolare per il cambiamento di curvatura e per la presenza del III molare spesso incluso o comunque malposizionato, dalla zona centrale del ramo per la presenza del forame mandibolare e del primo tratto del canale mandibolare, dal collo del condilo. 2537 Principi di pronto soccorso Nella traumatologia maxillofacciale è importante valutare attentamente il paziente in quanto vi possono essere associate lesioni di altri distretti che, se sottovalutate, comprometterebbero gravemente la prognosi. Anzitutto è indispensabile mantenere pervie le vie aeree che possono essere ostruite da frammenti ossei o dall’edema stesso della lingua. In alcuni casi è pertanto consigliabile porre il paziente in posizione di sicurezza con la testa in iperestensione, o addirittura in alcuni casi può essere necessario suturare la lingua per evitare che essa cada all’indietro. Inoltre bisogna sempre controllare eventuali emorragie che possono insorgere in traumi che interessano questo distretto anatomico. È bene poi non sottovalutare la presenza di indici di eventuali fratture associate, come per esempio quelle del cranio. Infatti una rinorrea cerebrospinale è segno di frattura della lamina cribrosa dell’etmoide con lacerazione della dura; così come una otorragia è segno di una probabile frattura della base cranica. I traumi del distretto maxillofacciale sono frequentemente complicati da lesioni dei tessuti molli (Fig. 10.2). In linea di massima i piccoli deficit possono essere chiusi per avvicinamento mentre i deficit maggiori debbono essere riparati, dopo opportuna detersione, con lembi o innesti dermoepidermici o mucosi. Le suture in ogni caso devono rispettare i piani anatomici naturali. Nelle prime fasi che seguono il trauma è necessario essere quanto più possibile conservativi, risparmiando i margini sofferenti e sacrificando quelli necrotici. Bisogna tener presente la ricca vascolarizzazione presente in certe regioni del distretto maxillofacciale, in particolare le palpebre e l’orecchio, dove ogni revisione deve essere rimandata ad un secondo tempo. È importante rimuovere accuratamente eventuali detriti presenti nelle ferite del volto in modo da evitare il formarsi di inestetici tatuaggi permanenti. Nel caso invece di ferite del cavo orale, bisogna provvedere ad abbondanti lavaggi con collutori antisettici a scopo igienico. Quando il danno interessa il decorso del VII nervo cranico è necessario verificare una eventuale lesione di questo nervo e procedere alla sua riparazione mediante una sutura entro le prime 72 ore. 2538 2539 Fratture del terzo medio Le fratture del terzo medio si suddividono in fratture del mascellare, fratture zigomatiche e fratture delle ossa nasali. Fratture del mascellare Eziopatogenesi Le fratture del mascellare dipendono nella loro manifestazione da alcuni fattori principali e dalla loro associazione nel singolo caso. Questi fattori sono l’intensità della forza lesiva, la direzione della forza, la superficie dell’agente traumatico, la resistenza delle strutture ed infine l’azione favorevole o sfavorevole dei diversi gruppi muscolari. Esistono a livello mascellare zone di maggior resistenza, dette pilastri, con andamento verticale, alternate a zone di minor resistenza, ad andamento per lo più orizzontale, identificabili nelle cosiddette linee di Le Fort. I pilastri verticali sono tre:anteriore o naso-frontale che parte dall’apertura piriforme e segue la cornice orbitaria mediale, laterale o zigomatico che dalla regione molare segue la parete laterale dell’orbita e posteriore o pterigo-mascellare che dal tuber maxillae si porta a livello dei processi pterigo-idei della base cranica. Tali pilastri rendono l’osso mascellare in grado di resistere soprattutto a sollecitazioni ad andamento verticale, come per esempio forze masticatorie, ma lo rendono più esposto in caso di impatto ad andamento orizzontale. Le cause più comuni sono gli incidenti stradali e del lavoro,infortuni sportivi,cadute accidentali e lesioni da arma da fuoco. Classificazione Le fratture del mascellare si distinguono in fratture trasversali (Le Fort I, II e III), fratture verticali (frattura longitudinale mediana di Lannelongue e fratture paramediane verticali), fratture miste (di Richet, di Bassereu, di Walther e di Gosserez) e fratture parcellari (della branca montante, della parete del seno mascellare, del pavimento dell’orbita, della volta palatina ed alveolo-dentarie). Le fratture trasversali (Fig.10.1) sono caratterizzate dalla disgiunzione del complesso mascellare a tre diversi livelli e a tutte consegue un’alterazione dell’occlusione.La frattura di Le Fort I o trasversale bassa o di Guerin si realizza al di sopra della base apicale decorrendo dalla spina nasale anteriore prima lungo il margine inferiore delle fosse nasali e la parete anteriore del seno mascellare poi lungo la tuberosità mascellare fino alla apofisi pterigoidea.Tale frattura è in genere conseguente ad un impatto traumatico con direzione antero-posteriore che colpisce un’area compresa tra gli incisivi e la columella. La frattura di Le Fort II o piramidale inizia alla radice del naso quindi si porta obliquamente in basso e indietro interessando la branca montante del mascellare, la parete del seno mascellare, l’apofisi piramidale del mascellare e la lamina pterigoidea. La frattura è generalmente conseguente a traumi con direzione antero-posteriore e superficie di contatto compresa tra radice del naso ed il labbro superiore. La frattura di Le Fort III o disgiunzione craniofacciale si realizza col distacco completo delle ossa del massiccio facciale dal cranio. La linea di frattura si origina dalla sutura frontonasale per portarsi verso l’orbita e le masse etmoidali. Raggiunta la fessura sfeno-mascellare si biforca verso l’alto e anteriormente lungo la cresta malare della grande ala dello sfenoide e posteriormente verso il basso e all’indietro fratturando le apofisi pterigoidee. Le ossa zigomatiche si distaccano bilateralmente dall’apofisi zigomatica del temporale e dal processo zigomatico del frontale.Tale frattura è generalmen-te conseguente a traumi con direzione antero-posteriore e ampia superficie di appoggio laterale o verticale su tutto il terzo medio del viso. La frattura verticale di Lannelongue è rappresentata dalla disgiunzione del palato lungo la sutura mediana dal vomere alla spina nasale anteriore. La frattura di Richet è una frattura mista che nasce 2540 dall’associazione di una Le Fort II monolaterale con una di Lannelongue;la frattura di Besserau dalla associazione di una Le Fort I con due fratture verticali e simmetriche che dall’apertura piriforme si portano al dente canino ed alle apofisi palatine del mascellare; la frattura di Walther è dovuta alla associazione di una Le Fort I e II con una frattura verticale mediana o paramediana; nella frattura di Gosserez infine ritroviamo i tre tipi di fratture di Le Fort insieme ad una frattura verticale mediana, ad una frattura zigomatica, ad una della regione fronto-naso-etmoidale ed a fratture multiple della mandibola. Bisogna infine ricordare come soprattutto a seguito di traumi ad alta energia le linee di frattura possono subire un andamento anche diverso da quello usuale e che spesso tra lato destro e sinistro possono verificarsi le combinazioni più svariate delle linee di frattura. Quadro clinico e diagnosi La raccolta dell’anamnesi ed un primo esame obiettivo devono come sempre essere focalizzati sulla esistenza di lesioni associate, specialmente a carico del cranio. L’esame clinico rivela all’ispezione edema ed ecchimosi a livello dei tegumenti del terzo medio e spesso anche a livello delle mucose orali e congiuntivali. All’ispezione la frattura di Le Fort I è caratterizzata da ematomi vestibolari a ferro di cavallo e da precontatto posteriore con conseguente morso aperto. I muscoli pterigoidei infatti tendono a spostare verso il basso il frammento osseo fratturato e quindi favoriscono l’insorgenza di un precontatto a livello dei molari. Patognomonica è l’anomala mobilità alla palpazione bimanuale dell’arcata superiore. Il paziente avverte in genere anche dolore alle tuberosità mascellari e ai processi pterigoidei. L’occlusione è sempre gravemente alterata. La frattura di Le Fort II si manifesta con una maggiore deformazione del profilo consistente in un allungamento ed appiattimento della faccia con morso aperto anteriore. Alla ispezione si notano emorragie sottocongiuntivali, palpebrali, nasali e buccali. Costante è il reperto di ecchimosi ed edemi periorbitari. Alla palpazione bimanuale l’arcata alveolare risulta mobile rispetto al cranio e spesso è possibile rilevare scalini a carico del contorno orbitario. Frequentemente infine si possono osservare lesioni del nervo infraorbitario che sono all’origine di ipoanestesie o fastidiose parestesie. La frattura di Le Fort III ha aspetti clinici sovrapponibili a quelli della Le Fort II ma per l’azione combinata dei muscoli pterigoidei e massetere, che provocano la caduta indietro ed in basso dello scheletro facciale, la malocclusione e la deformazione del viso sono più accentuate.Della massima importanza sono i sintomi relativi alle eventuali lesioni della base del cranio come la perdita di coscienza,la rinorrea e l’otorrea. La frattura di Richet è caratterizzata clinicamente da una eccessiva mobilità di un emimascellare che risulta completamente separato dalle strutture vicine. Nella frattura di Basserau la regione inferiore del mascellare appare frammentata in tre parti mentre nella frattura di Walther tutto il terzo medio è scomposto in quattro frammenti isolati. La frattura di Gosserez può presentare quadri clinici variabili data la impreve-dibile e disordinata dislocazione delle ossa della faccia. Una menzione a parte merita la cosiddetta “frattura blow-out”che interessa il pavimento orbitario senza ledere i margini orbitari o gli zigomi. Questa frattura che si realizza per compressione diretta del bulbo (es. un pugno) si manifesta tipicamente con ecchimosi, emorragia sottocongiuntivale, edema e soprattutto enoftalmo per erniazione del grasso orbitario nell’antro. L’esame radiologico si fonda su proiezioni sagittali con appoggio naso-mento (di Waters, Fig. 10.3) laterali, submento-vertice (per gli archi zigomatici). Utile è il ricorso ad esami stratigrafici, a TC ed a RMN, che mediante scansioni assiali e coronali sono in grado di fornire una esatta ricostruzione dell’andamento e dalla gravità delle linee di frattura. 2541 Fratture dell’osso zigomatico Eziopatogenesi Terapia La terapia prevede la riduzione e la contenzione delle fratture sia per via ortopedica che per via chirurgica. In caso di traumi semplici con modesta dislocazione, il trattamento delle fratture di Le Fort può essere limitato al semplice blocco intermascellare della durata di 25-30 giorni ai quali segue un periodo di 10 giorni di rieducazione funzionale con elastici. Il ripristino dell’occlusione consente in tali casi anche una riduzione della frattura a livello scheletrico con ripristino della morfologia del terzomedio, per la verità non particolarmente compromessa. La riduzione cruenta per via chirurgica si realizza aggredendo direttamente il focolaio di frattura e praticando, ottenuta la riduzione manuale della frattura, una osteosintesi con fili o placche e viti. È possibile anche effettuare la sospensione dei frammenti fratturati a segmenti ossei illesi per garantire una migliore stabilità dei monconi. Un blocco intermascellare da rimuovere dopo 30 giorni circa conclude l’intervento. Per la frattura “blow-out” la decisione di intervenire o meno deve essere fondata sulla gravità del quadro clinico (enoftalmo, diplopia, eccetera). Se sono presenti discontinuità delle pareti orbitarie si provvede alla loro ricostruzione con innesti alloplastici o nei casi più gravi con innesti di osso autologo. Nelle fratture di Le Fort II, in caso di coinvolgimento delle vie lacrimali con lacerazioni del sacco o interruzione dei dotti naso-lacrimali, è consigliabile una esplorazione delle vie lacrimali ed eventualmente un incannulamento dei canalicoli e dei dotti nasolacrimali per evitare epifora o dacriocistiti secondarie. Le fratture di zigomo o dell’osso malare rappresentano le fratture facciali più frequenti ad eccezione di quelle nasali. La regione malare rappresenta infatti la zona laterale più sporgente del terzo medio del viso e riveste un ruolo importante sia sotto il profilo estetico, dando sostegno ai tessuti molli della guancia, sia sotto l’aspetto funzionale, poiché concorre alla formazione della parete laterale e del pavimento orbitario e, a livello dell’arco, dà inserzione al muscolo massetere. L’osso zigomatico, formato dal corpo e da quattro processi (frontale, temporale, mascellare ed orbitario), può essere coinvolto nei grandi traumi della faccia (per es. frattura di Le Fort III) oppure essere sede unica di una frattura. Per quanto riguarda l’arco zigomatico il meccanismo patogenetico può essere sia diretto sia indiretto per dislocazione posteriore dell’osso zigomatico. Classificazione Le fratture dell’osso zigomatico possono essere classificate in: z fratture composte; z fratture con diastasi di una sola sutura; z fratture con diastasi di due suture; z fratture con diastasi di tutte e tre le suture; z fratture con comminuzione in due o più frammenti dello zigomo per coinvolgimento anche del corpo. Oltre a queste fratture bisogna ricordare quelle isolate in due o più frammenti dell’arco zigomatico che rappresenta la porzione scheletrica laterale più sporgente della faccia. Quadro clinico e diagnosi Il paziente si presenta al medico con edema ed ecchimosi variabili a carico dei tessuti molli sovrastanti la lesione. Non è rara pure una emorragia congiuntivale. L’ispezione rivela in genere enoftalmo per perdita del tessuto adiposo periorbitario nel seno mascellare e talvolta ectropion della palpebra inferiore. Caratteristica è la deformazione del profilo facciale con appiattimento della regione malare ed inclinazione antimongoloide del canto laterale.Alla palpazione esterna è possibile sentire, se l’edema non è imponente, una deformazione a gradino del contorno osseo mentre con quella endorale si può talvolta avvertire a livello del solco buccale superiore la linea di frattura od un 2542 2543 crepitio. La diplopia può presentarsi come fenomeno transitorio oppure permanente se la lesione del contorno orbitario è stata importante. La sua insorgenza è legata sia all’abbassamento del pavimento orbitario sia alla lesione diretta dell’apparato muscolare estrinseco dell’occhio sia infine alla sofferenza dei nervi cranici oculomotori. Un’anestesia o parestesia dei territori innervati dal nervo infraorbitario viene in genere facilmente evidenziata. La perdita di sensibilità può interessare i denti dell’arcata alveolare superiore oppure il labbro superiore e la regione alare dal naso. Nel caso in cui il trauma provochi l’arretramento dello zigomatico nella fossa temporale si ha diminuzione del movimento della bocca per urto dell’osso contro il processo coronoide. Per quanto riguarda gli esami radiografici la proiezione abitualmente usata è quella di Waters (Fig. 10.3) (occipitomentoniera con inclinazione di 30°) in grado di mostrare bene irregolarità o linee di frattura del corpo dello zigomatico e dei suoi processi (frontali, mascellare, orbitario) mentre per gli archi zigomatici si preferisce effettuare una submento-vertice. La presenza di sangue nell’antro può farlo apparire opaco. Utile è anche una proiezione antero-posteriore di Caldwell. Nei casi di frattura ad alta energia, al fine di una più accurata programmazione della terapia, si ricorre normalmente alla TC sia con sezioni assiali per studiare il corpo, la parete laterale dell’orbita e l’arco, sia con sezioni coronali per lo studio del bordo infraorbitario e del pavimento orbitario. Terapia Non tutte le fratture zigomatiche richiedono un trattamento chirurgico. Una frattura, per esempio, in cui l’unico sintomo sia un’anestesia dei denti dell’arcata superiore non presenta una indicazione obiettiva per un intervento chirurgico perché l’elevazione dello zigomo non influirà affatto su questo sintomo. La terapia chirurgica si realizza sollevando l’osso zigomatico per via temporale o endorale aprendo l’antro. Il primo approccio è indicato nei casi di frattura dei processi zigomatici mentre le fratture comminute, in cui è insufficiente l’azione di leva, necessitano dell’accesso endorale e di un tamponamento del seno. Una volta effettuata la riduzione in genere il frammento tende a mantenere la posizione, ma in alcuni casi può rendersi necessaria una sintesi con filo metallico che viene realizzata a cielo aperto. Gli accessi chirurgici più utilizzati sono la via endorale per la sutura maxillomalare, la via palpebrale per il bordo infraorbitario e l’esplorazione del pavimento, la via sovracciliare per la parete laterale dell’orbita e la via temporale o coronale per la visualizzazione dell’arco zigomatico. I risultati morfologici del trattamento oggi sono di gran lunga migliorati rispetto a 15-20 anni fa per l’utilizzo di mezzi di osteosintesi, quali placche e viti, in grado di ristabilire meglio dei fili metallici la corretta dimensione verticale, soprattutto quando la sutura maxillomalare risulta comminuta. Fratture delle ossa nasali Eziopatogenesi Le fratture della piramide nasale sono le più frequenti tra le fratture facciali sia perché tale area, a causa della sua prominenza in senso antero-posteriore, è la regione del viso più esposta all’impatto, sia per l’intrinseca debolezza delle ossa proprie del naso. Sia le ossa nasali proprie sia la cartilagine del setto possono essere interessate da traumi accidentali. Nel caso di un urto laterale l’osso nasale dalla parte della lesione è fratturato e spostato verso il setto mentre quest’ultimo appare deviato o addirittura fratturato. L’osso nasale controlaterale è anch’esso fratturato ma spostato lontano dal setto. Nel caso invece di urti dall’alto si produce una deformazione caratteristica della piramide nasale detta naso “a sella” ed uno slargamento della sua metà superiore.Tale deformazione è dovuta alla dislocazione delle ossa nasali, del setto e delle cartilagini laterali sotto la spinta dell’agente traumatizzante. 2544 Quadro clinico e diagnosi L’aspetto clinico del naso e del setto è di per sé diagnostico. I segni clinici più frequentemente associati a fratture nasali isolate sono: z epistassi legate a lacerazioni delle mucose nasali; z alterazione di posizione e forma della piramide nasale in rapporto alla forza ed alla direzione del trauma ed all’entità della dislocazione; z disturbi funzionali con difficoltà o impossibilità alla respirazione nasale. Alla ispezione ed alla palpazione si possono rilevare deviazioni o depressioni delle ossa nasali, deviazioni del setto, e collasso delle cartilagini laterali al di sotto delle ossa nasali. Caratteristici sono inoltre le ecchimosi, l’edema periorbitario e le emorragie sottocongiuntivali. Anche in caso di deformazioni modeste della piramide nasale è opportuno esaminare il setto per la eventuale presenza di un ematoma che appare come una grossa sporgenza uni o bilaterale. L’esame radiologico nelle proiezioni laterali e di Waters è poco significativo in quanto le linee di frattura non calcificano ma cicatrizzano e nuove fratture si distinguono con difficoltà dalle vecchie. Terapia Se presente un ematoma del setto esso richiede un drenaggio immediato per il pericolo di sovrainfezioni e condriti destruenti. La riduzione della frattura deve essere effettuata il più presto possibile perché le ossa nasali dislocate tendono a fissarsi nella nuova posizione in pochi giorni. Se in conseguenza di un urto laterale il naso appare deviato la deformazione può essere corretta con la semplice pressione del pollice dall’esterno e con pinze di Walsham dall’interno. Con queste pinze particolari si afferra il frammento osseo fratturato e dopo averlo disincastrato lo si riposiziona in sede corretta. Se invece un urto dall’alto ha schiacciato la piramide nasale è sufficiente, con le pinze settali di Asch, raddrizzare il setto o ricomporlo per riottenere una buona correzione della lesione. Un tamponamento con tulle grasso per 48 ore è opportuno se si evidenzia anche solo una minima mobilità delle ossa nasali e del setto. Esso inoltre aiuta a prevenire l’insorgenza di un ematoma tardivo del setto. L’applicazione per 7-10 giorni di un apparecchio gessato fornisce infine una buona contenzione dei frammenti di frattura. In caso di distacco naso-frontale o comunque della impossibilità di ottenere una corretta riduzione della frattura, si attua una riduzione a cielo aperto della frattura ed una stabilizzazione mediante osteosintesi con accesso glabellare o sfruttando eventuali ferite cutanee a livello della piramide nasale. In presenza di comminuzione dei frammenti bisogna valutare caso per caso la possibilità di ricorrere alla ricostruzione o meno con innesti di osso autologo in rapporto alla integrità dei tessuti molli cutanei e mucosi. Fratture naso-orbitarie e della regione frontoetmoidale Eziopatogenesi Si tratta di fratture provocate da traumi che incidono dal basso o dall’alto sulla regione fronto-nasoetmoidale, causando la frattura dei processi montanti dei mascellari, delle ossa nasali, dell’etmoide, delle orbite e dei seni mascellari. Questa regione della faccia, per il particolare significato sia estetico sia funzionale, richiede una precisa correzione dei difetti provocati dal trauma. Quadro clinico e diagnosi Il ponte nasale appare affondato ed allargato. Si può osservare iperteleorbitismo (aumento della distanza che separa le due orbite) e telecanto traumatico (dislocazione del legamento palpebrale mediale),ecchimosi periorbitarie ed emorragie sottocongiuntivali. A causa delle lesioni etmoidali si 2545 hanno in genere anosmia (per recisione del nervo olfattorio nel suo decorso a livello della lamina cribrosa) e liquorrea nasale. Questi ultimi due sintomi, insieme ad una eventuale incoscienza, impongono un approfondito inquadramento diagnostico del paziente anche in collaborazione con l’équipe neurochirurgica. Terapia Il trattamento di queste fratture si realizza attraverso la esposizione cruenta del focolaio di frattura tramite una incisione ad “H” nell’area interorbitaria. Nei casi più complessi non si deve avere timore a prolungare le incisioni per ottenere un buon campo perché la deformazione provocata da una insufficiente correzione avrebbe sicuramente un significato antiestetico maggiore. Con un filo sottile passato attraverso i legamenti cantali mediali ed i processi frontali dei mascellari si procede quindi alla riduzione del telecanto. La precisa e meticolosa osteosintesi dei diversi frammenti ossei conclude l’intervento. Fratture della mandibola Eziopatogenesi Le fratture della mandibola possono essere dovute a cause di natura traumatica (incidenti stradali o del lavoro, aggressioni, cadute, infortuni sportivi o colpi da arma da fuoco) oppure patologica (osteomieliti, tumori benigni o maligni primitivi, metastasi da tumori di altre sedi, distrofie ossee). Le inserzioni di alcuni muscoli possono causare la scomposizione dei frammenti ossei.Tali muscoli sono distinti in tre gruppi a seconda della loro funzione principale: z elevatori (massetere, pterigoideo mediale, temporale); z depressori e retrattori (genioioideo, digastrico); z protrusori (pterigoideo laterale). Classificazione In base alla presenza di lacerazioni della mucosa orale o della cute le fratture della mandibola sono distinte in prima istanza in aperte o chiuse. A seconda poi della regione anatomica interessata dalla frattura si distinguono fratture mediane, paramediane (tra incisivo centrale e laterale oppure tra incisivo laterale e canino), del corpo (tra canino ed angolo mandibolare), dell’angolo, del ramo, del condilo, del coronoide e, infine, del processo alveolare (Fig. 10.5). Quadro clinico e diagnosi Raccolta un’accurata anamnesi, con particolare riferimento alle modalità con cui si è realizzato il trauma e ad un’eventuale sofferenza endocranica, si passa alla ispezione della mandibola che può presentare evidenti deformazioni. Si può notare per esempio nel caso di una frattura completa laterale una deviazione verso il lato leso oppure nel caso di una frattura bilaterale dei condili un morso aperto anteriore.Tali deformazioni risultano in genere accentuate dalla presenza di una concomitante tumefazione locale delle parti molli e di ecchimosi regionali. Il sintomo principale delle fratture mandibolari è rappresentato dalla alterazione della normale occlusione dentaria. Il paziente è incapace di serrare completamente la mandibola oppure riferisce che i denti non si ingranano più come facevano prima dell’incidente. Se la frattura ha interessato il nervo alveolare inferiore o il nervo mentale il paziente avvertirà una parestesia o ipoanestesia dei tessuti molli raggiunti da questi nervi. Si passa quindi alla palpazione, che deve essere condotta con delicatezza e procedendo bilateralmente dalle regioni preauricolari lungo il corpo della mandibola fino alla sinfisi mentoniera. Se l’edema non è particolarmente pronunciato è possibile rilevare la presenza di irregolarità del profilo osseo o di un caratteristico crepitio. Prima di procedere all’esame del cavo orale devono essere accuratamente rimossi sangue, saliva, denti rotti o frammenti di protesi eventualmente presenti. La presenza di ematomi, ecchimosi o lacerazioni a carico della mucosa orale depone in genere per la presenza di una frattura della mandibola. Il rilievo palpatorio può aiutare ad identificare i denti e le corone perse, rotte o mobili così come la presenza di deformazioni ossee alveolari. La palpazione bimanuale si esegue con le due mani applicate ai presunti monconi (la presa è effettuata col pollice all’esterno e con l’indice all’interno) cui si imprimono movimenti di flessione e torsione. Le fratture del processo coronoide vengono indagate attraverso la palpazione endorale della branca ascendente in cui può rivelarsi un significativo punto doloroso ed a volte una ecchimosi del pilastro anteriore (segno di Cadenat). Nelle fratture sospette del condilo si valuta la escursione in apertura e lateralità della mandibola appoggiando le dita sulla regione preauricolare sottozigomatica oppure introducendo bilateralmente la punta del mignolo nel condotto uditivo esterno (segno di Pichler). L’esame clinico si conclude con la valutazione dei movimenti di apertura, chiusura e lateralità della mandibola per determinare la presenza di limitazioni funzionali (per esempio difficoltà in apertura per frattura del coronoide o del condilo; difficoltà in chiusura per frattura bilaterale dei condili o del corpo della mandibola; deviazioni in apertura per frattura del condilo) e la localizzazione prevalente del dolore. La natura precisa e la gravità di una frattura mandibolare possono essere definite con precisione solo con l’ausilio di appropriate radiografie. L’esame radiografico ideale è l’ortopantomografia, che è in grado di mostrare tutte le regioni mandibolari, compresi i condili. In aggiunta possono essere utili proiezioni antero-posteriori e laterali oblique o proiezioni particolari come la proiezione di Towne modificata (proiezione antero-posteriore dei condili mandibolari). La regione sinfisaria viene indagata con proiezioni intraorali inferiori e superiori mentre le fratture dentali e dei processi alveolari sono studiate con proiezioni intraorali periapicali. Quando le proiezioni di routine non riescano a fornire informazioni sufficienti su sospette fratture condilari può essere opportuno ricorrere alla stratigrafia ed alla TC. Talvolta se l’occlusione individuale del paziente è difficilmente ricostruibile (fratture complesse, occlusioni patologiche, eccetera) può essere di ausilio lo studio delle impronte in gesso delle arcate dentarie per ricercarla sulla scorta delle faccette presenti a livello delle cuspidi con contatto occlusale. 2546 2547 Complicanze Si possono distinguere complicanze precoci e tardive. Le prime sono rappresentate dalle ostruzioni respiratorie, dalle emorragie, dalla necrosi ischemica ed osteite dell’osso denudato, dal trisma e dalle sovrainfezioni nel caso di fratture esposte. Le seconde comprendono invece l’anchilosi temporo-mandibolare nelle fratture dei condili, le lesioni del fascio vascolonervoso del canale mandibolare, le aderenze cicatriziali dei tessuti orali e, soprattutto, la persistenza di incongruenze occlusali. Terapia Se il paziente non presenta particolari problemi quoad vitam (ostruzioni respiratorie, emorragie, shock) è necessario procedere al più presto alla riduzione ed alla immobilizzazione della frattura (Fig. 10.6). non solo indaginoso ed insidioso (lesione del ramo superiore del VII nervo cranico) ma anche il più delle volte inefficace, si preferisce oggi adottare il trattamento conservativo. Nel caso di fratture bilaterali dei condili articolari le possibilità di compensazione sono notevolmente ridotte e quindi è giustificato un atteggiamento più aggressivo. Per i denti che si trovano interessati direttamente da una rima di frattura, l’orientamento prevalente è quello della loro conservazione in considerazione del fatto che essi favoriscono una corretta impostazione della riduzione e se saldamente inseriti nell’alveolo possono servire per legature complementari interdentali. Nel futuro non lontano della chirugia maxillofacciale sono da segnalare interessanti innovazioni sia diagnostiche che terapeutiche. Per quanto riguarda le prime i progressi della eidomatica del distretto cranio-maxillo-facciale hanno già permesso di ottenere una definizione sempre più precisa delle lesioni ossee.In campo terapeutico sono da segnalare gli studi sulle osteosintesi riassorbibili in acido poliglicolico che hanno il vantaggio di non dover essere rimosse una volta che si è ottenuto i consolidamento della frattura, di ridurre sensibilmente i rischi di decubiti a carico dei tessuti molli ed infine di rilasciare, nel corso del loro fisiologico riassorbimento, sostanze farmacologicamente attive come per esempio antibiotici. La riduzione della frattura consiste nel riposizionamento dei monconi ossei in modo da ripristinare i rapporti di occlusione individuale del fratturato. Essa viene eseguita manualmente in narcosi. Se questo non è possibile si può ricorrere a trazioni lente utilizzando placche con viti, archi di espansione o trazioni elastiche. La contenzione ha lo scopo di mantenere i frammenti in posizione corretta e di favorire quindi una normale guarigione ed il ritorno ad una corretta funzione masticatoria. La contenzione si realizza attraverso un blocco intermascellare elastico o rigido per un periodo di 4-5 settimane. Esso consiste nel fissaggio al mascellare ed alla mandibola di una ferula metallica provvista a intervalli regolari di appigli di forma variabile. Le ferule vengono ancorate ai denti per mezzo di fili metallici e quindi a loro volta unite tra loro sempre con legature metalliche nel caso di blocchi rigidi o con elastici nel caso di blocchi elastici. Questi ultimi vengono utilizzati quando si voglia esercitare una trazione elastica correttiva sui frammenti della frattura. Nel postoperatorio immediato è consigliabile una copertura antibiotica per 3-4 giorni. Durante il periodo di blocco l’alimentazione viene effettuata sfruttando lo spazio retromolare dove viene introdotto un piccolo tubicino attraverso cui sono assunti alimenti semiliquidi. Di particolare importanza è pure, infine, una scrupolosa igiene orale che viene realizzata utilizzando collutori antisettici per risciacqui frequenti del cavo orale. Altro mezzo terapeutico nelle fratture della mandibola è la osteosintesi diretta dei monconi di frattura. Questo trattamento può essere realizzato con fili metallici dopo aver trapanato i frammenti lateralmente alla rima di frattura oppure con placche metalliche e viti o ancora con chiodi di Kirschner. Esso è consigliato nei casi in cui non vi sia un numero sufficiente di denti naturali o artificiali su cui fissare il blocco intermascellare o in casi di frattura in zona edentula (frattura retromolare). Nei soggetti edentuli o nelle fratture oblique è invece preferibile utilizzare un cerchiaggio circonferenziale che è la legatura perimandibolare con filo metallico. In caso di perdita di sostanza ossea è opportuno procedere ad una stabilizzazione con placca metallica dei monconi residui e ad un innesto osseo autologo. Le fratture del condilo mandibolare possono essere trattate sia in modo conservativo attraverso la riduzione incruenta ed un blocco intermascellare sia con l’aggressione diretta del focolaio di frattura e osteosintesi metallica. Poiché’ però quest’ultimo intervento è 2548 2549 Letture suggerite z z z z z z Atala A., Mooney D., Vacanti J.P., Langer R.: Synthetic biodegradable polymer scaffold.Birkhauser, Boston, 1997. Brusati R., Chiapasco M.: Elementi di chirurgia oro-maxillo-facciale. Masson, Milano, 1999. Georgiade N., Georgiade R., Riefkohl R.: Essentials of plastic, maxillofacial and reconstructive surgery. Williams and Wilkins, Baltimore, 1989. McCarthy J.: Plastic surgery.W.B. Saunders Co., Philadelphia, 1990. Patrick C.W., Mikos A.G., Mc Intire L.: Frontiers in tissue engineering. Pergamon Press, Elsevier, 1998. Rowe N.: Maxillofacial injuries. Churchill Livingstone, Edinburgh, 1985. 2550