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agio e disagio nella normalita - Università degli Studi della

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agio e disagio nella normalita - Università degli Studi della
MODULO 2: AGIO E DISAGIO NELLA NORMALITA’
INTRODUZIONE di Luigi Ciotti (presidente del Gruppo Abele)…………...Pag. 2
LEZIONE 1..…………………………………………………………….……..Pag. 3
Il silenzio dolente della normalità di Duccio Scatolero (responsabile di Spazi
d’intesa)
LEZIONE 2………………………………………………………………...…..Pag. 5
Nuovi stili di vita e di consumo
Uguali ma diversi di Fabrizia Bagozzi
Breve viaggio nelle “nuove droghe” di Fabrizia Bagozzi
L’alcol e i giovani di Pino Maranzano (responsabile dell’Aliseo)
Quando disagio e problemi investono il tempo libero Luigi Ciotti
LEZIONE 3..…………………………………………………………..……….Pag. 24
Il rischio: area ponte tra normalità e devianza di Leopoldo Grosso (vicepresidente
del Gruppo Abele)
Allegato: IL RISCHIO E L'AVVENTURA da ABITARE LA NOTTE di M.T. TORTI
LEZIONE 4..…………………………………………………………………..Pag. 35
Il disagio sommerso
Il disagio in famiglia di Luigi Ciotti
Il bambino grasso di Leopoldo Grosso
Allegato1: Educare al rispetto delle diversità sessuali. di Luca Pietrantoni
Allegato 2 IL MALE OSCURO. PERCHE' OGGI MI SENTO DEPRESSO di U.GALIMBERTI
BIBLIOGRAFIA………………….………………………………………….Pag. 56
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INTRODUZIONE
Le periferie giovanili di Luigi Ciotti
I giovani di periferia ci sono ; eppure è come se non ci fossero. Sono quasi spariti
dalle statistiche giudiziarie minorili e da quelle della presa in carico riabilitativa.
Hanno smesso d’essere problema e sono solo più persone. Nell’immaginario comune
vivono “agli angoli” della città: in gruppo su una panchina al parco, sul pezzo di
marciapiede davanti al bar, sotto un tratto di portici, seduti sugli scalini di un
monumento. Che cosa fanno? Stanno lì ad aspettare, a costruire sogni impossibili e
ad attendere eventi improbabili, come solo in periferia si riesce a fare. Quando si
muovono le mete sono quelle della vita virtuale: i centri commerciali, le discoteche,
gli stadi, i locali e le vie del centro città elegante e rumoroso. Si va, si gira, si torna,
e tutto è come prima. E meno male che rimangono gli amici, la ragazza, qualche
familiare, a volte l’incontro con qualche adulto significativo. O il problema non è
tanto sapere che cosa questi giovani vorrebbero o sarebbero disposti a dare, quanto
piuttosto sapere che cosa vogliono farsene di loro il mondo sociale e le istituzioni.
Investire sulle loro potenzialità, tutte da scoprire e da attivare, con un rinnovato
impegno sociale e formativo? O lasciarli lì ad aspettare che una parte del sistema
produttivo li assorba uno ad uno? Più probabile è la seconda ipotesi, almeno stando
a ciò che fino ad ora è successo, o non è successo….. Solo ogni tanto per dare
segnali d’esistenza si mandano in periferia un po’ di risorse e di opportunità che
senza un forte impegno di accompagnamento non possono essere spese e neppure
capite.
Ma c’è dell’altro. Esistono almeno altre due periferie giovanili, forse ancora più
difficili da raggiungere e da accogliere. Una mobile e nomade, è quella dei giovani
immigrati clandestini. Vivono sul territorio ma non si fanno riconoscere. Se ne parla
tanto e forte per problemi e ansie di sicurezza, meno per la loro sofferenza e la loro
fatica sommersa. Un altro territorio di confine lo troviamo nei ragazzi che hanno le
periferie in testa, che scelgono di mettersi fuori, d’impegnarsi in un altro gioco dove
il reale e il virtuale sono confusi. Fra i tanti giovani che si muovono tra mille clic e
chat si celano tanti ragazzi soli e spaventati dalle prime esperienze di vita vissuta.
Ma questi normali, normalissimi ragazzi chi mai si metterà a cercarli visto il poco
fastidio che danno?
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LEZIONE 1
Il silenzio dolente della normalità di Duccio Scatolero
Gli esempi sono tanti, ma forse quello più significativo riguarda la tradizionale
ripartizione fra soggetti forti e soggetti deboli. Una ripartizione che, a ben vedere,
non sta più in piedi: accanto alle condizioni per così dire strutturali di debolezza
(povertà, miseria, cronico abbandono etc.) per altro in aumento, iniziano a
manifestarsi situazioni di improvvisa e contingente fragilità (licenziamenti, infortuni,
malattie, separazioni…) che sconvolgono, a volte in modo traumatico, percorsi di vita
normalmente integrati e adattati. E’ dunque la stessa nozione di forza a relativizzarsi:
a volte un solo temporale è in grado di smantellarla senza possibilità di recupero. I
soggetti strutturalmente forti risultano in realtà molto pochi – sempre di meno, anche
se sempre più forti – e il mezzo della fila appare occupato da una vasta fascia grigia
in continua lotta per mantenere la propria posizione e terrorizzata dall’idea di
scivolare al di là del limite che la divide dal gruppo degli ultimi.
Cambiano dunque anche le condizioni di visibilità del disagio: alla figura canonica
della sofferenza – l’uomo curvato dal peso della sua miseria materiale – si sono
affiancate tante altre immagini certo meno appariscenti, ma non meno affrante. Il
silenzio della normalità le avvolge, laddove figure più famigliari di povertà si
rendevano si rendevano visibili col clamore della loro diversità e con la forza di
rottura dei loro gesti (il folle, il tossicodipendente, l’accattone, l’alcolista, la
prostituta, etc.).
Pezzi così diversi e numerosi di umanità, tutti a loro modo chiusi in se stessi, non
riescono più né a convivere, né a coabitare. E questa difficoltà crescente trova le sue
espressioni più accese e forti proprio nell’intolleranza verso le diversità, verso i
diversi più diversi, fino al pregiudizio razzistico verso lo “straniero”, rappresentato
come l’estrema minaccia e dunque come il capro espiatorio di tutte le insicurezze e le
paure.
Le dinamiche che si vengono a creare fra questi pezzi di umanità – i modi con cui i
forti riescono a stare accanto ai deboli e quelli con cui forti e deboli stanno tra di loro
– diventano il motore del processo stesso di coabitazione.
Dovrebbe ormai essere evidente, nella prospettiva di un’azione sociale, che non è più
sufficiente farsi carico del disagio del singolo senza assumersi anche il peso della sua
relazione con gli altri: gli esclusi smettono di essere tali anche a partire dal momento
in cui gli inclusi li accolgono nei loro spazi. E’ per questo che l’azione sociale oggi
deve essere mirata anche nei confronti degli inclusi o presunti tali, cioè dei loro disagi
e della loro capacità o incapacità di includere, di accogliere. Ma è un’operazione
difficile e complessa ( anche per la ritrosia di chi dovrebbe beneficiarne) quanto
quella dell’affiancare gli esclusi pareva invece immediata e naturale. E tuttavia
occorre farlo – nei modi e tempi più opportuni – perché proprio in ciò sta la
scommessa di un nuovo modello di azione sociale.
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Non avrò altro Dio all’infuori di me
Ma l’impegno a occuparsi della coabitazione fra diversi è reso ancora più gravoso
dalla mancanza di un quadro culturale di riferimento. O. meglio ancora, dalla
presenza di una cornice culturale che spinge in buona parte i cittadini in una direzione
opposta a quella di una ricerca di nuove forme di coabitazione. C’è, in altre parole,
nell’impianto culturale di questi ultimi decenni, un valore che si è fatto sempre più
forte. E’ quella forma di irresponsabilità sociale espressa efficacemente nel detto
“farsi gli affari propri”: la mia responsabilità sociale si ferma dentro le mura di casa:
fuori da lì sono libero di affermarmi come meglio credo, di soddisfare i miei bisogni
e desideri senza curarmi degli altri. Si tratta solo di allenarmi a vivere senza alcun
“senso dell’altro”.
Poco a poco le persone si sono adattate a questo egoistico stile di vita. Chi ha avuto
minore difficoltà sono stati senz’altro i giovani, che lo hanno assimilato dagli adulti,
dai messaggi dei mass media, dal silenzio delle agenzie educative. Oggi questo
processo culturale è ormai realizzato, e trova piena attuazione anche nell’acquisizione
esclusivamente formale del concetto di legalità Le regole non hanno contenuto, non si
legano al concetto di tutela e di protezione dei diritti del singolo, ma soprattutto non
sono coerenti con l’esperienza quotidiana: esistono perché qualcuno le ha scritte ( ma
altri potrebbero cambiarle) e costituiscono un limite imposto e spesso sentito come
arbitrario alla libertà individuale.
C’è dunque un impianto formale centrato su un concetto di responsabilità sociale che
l’individuo conosce solo nell’impatto con i mondi istituzionali, e un impianto
informale centrato sull’assenza di considerazione per l’altro quotidianamente
praticata nelle relazioni con il mondo sociale.
A farne le spese sono ancora i più giovani. La facilità con cui gli adolescenti
ricorrono alla violenza sull’altro anche per risolvere piccoli problemi quotidiani – la
cronaca ci parla ora delle “baby gangs”, fenomeno che ha sollevato preoccupazioni e
interpretazioni più o meno azzardate – trova le sue radici non nei film d’azione o nei
giochetti elettronici, ma nella pratica di una esperienza quotidiana privata del senso
dell’altro.
Allenati a condurre esistenze dominate dalle forme, gli adolescenti non riescono più a
concepire il significato di un contenuto. Non è certo un caso che quei ragazzi che più
si distinguono nell’espressione dei gesti e condotte violente siano passati in
precedenza, e senza alcun risultato, attraverso alcuni dei cosidetti percorsi di tutela
istituzionale (interventi sociali, provvedimenti giudiziari, tentativi di recupero
educativo etc.) L’educazione alla legalità continua infatti a essere troppo spesso
fondata sul condizionamento a “non fare” piuttosto che sull’esperienza diretta di
pratiche di vita fondate sulla responsabilità sociale.
Vi vere il conflitto come una opportunità
Da ultimo ci sembra necessaria una riflessione su un aspetto dell’impegno securitario
che crea non poche inquietudini : quello del conflitto. E’ un tema che, pur avendo
attraversato e condizionato la storia dell’uomo, non ha mai trovato grandi spazi nel
dibattito sulle “cose del mondo”: di solito lo si nega oppure lo si usa come vessillo
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ideologico dietro al quale schierasi. Per la maggior parte delle persone i conflitti sono
solo e sempre buoni oppure solo e sempre cattivi. Occuparsi di un conflitto non vuol
dire necessariamente risolverlo, ma riuscire a farsi carico della relazione che lo
sviluppa. Lavorare in questa direzione obbliga a uscire dagli schemi della tradizionale
azione sociale, centrati essenzialmente sulla dichiarazione di alleanza con una delle
parti (ovviamente la più debole). Tale posizione è imprenscindibile quando le due
parti sono fortemente squilibrate in termini di potere, ma non è di nessun aiuto per
uscire da un’esperienza conflittuale che è per tutti portatrice di sofferenza e di dolore.
Ciò che il trattamento del conflitto ci insegna è che ci sono situazioni relazionali
aggrovigliate e tormentate da cui non si esce senza l’aiuto di un terzo, a patto però
che costui operi non per imporsi alle parti ma per riaffidare loro la responsabilità
della gestione della situazione. Solo così si arriva a concepire un nuovo modello di
azione sociale – da integrare agli altri – basato sugli individui e capace di farli
ridiventare protagonisti dei propri destini sociali e relazionali. E’ una lezione che
abbiamo appreso soprattutto dal lavoro con le vittime dei reati, le quali, quando sono
state messe nella condizione di potersi chiedere se potevano fare qualcosa per se
stesse, hanno imboccato una strada che le ha portate dapprima a riappropriarsi del
senso della propria dignità, e poi, quando dalla propria esperienza hanno tratto lo
stimolo per impegnarsi anche in favore degli altri, a uscire definitivamente da una
condizione che pareva irresolubile. In conclusione l’impegno securitario non può
limitarsi alla semplice difesa delle fasce sociali meglio integrate contro la minaccia
del “diverso”. Occorre saper cogliere – nella prospettiva che quest’impegno ci mette
davanti – indicazioni per nuove forme di azione sociale. Affiancarsi agli ultimi della
fila è il primo gesto, obbligato, quello che ci fa riconoscere come portatori di una
umanità ancora viva e attiva. Ma perché esso si traduca concretamente in
un’assunzione di responsabilità sociale deve essere seguito da altri gesti, forse meno
gratificanti ma non meno necessari. Gesti che non riguardano noi e la nostra umanità,
ma quella di chi ci circonda: quella dei penultimi, dei terzultimi, dei quartultimi e
così via. Senza escludere nessuno, nemmeno i primi.
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LEZIONE 2
NUOVI STILI DI VITA E DI CONSUMO
Uguali ma diversi di Fabrizia Bagozzi
CATEGORIE. CASELLE. ETICHETTE. GABBIE. Ne abbiamo una per ogni cosa, e le
usiamo, anche a rischio di semplificare. Anche i più lucidi, i meno banali di noi ne sono
tentati. Ossessionati dall’ordine, dall’«ogni cosa al suo posto», il posto che noi gli
vogliamo dare, il posto che noi gli riconosciamo perché quello è l’unico che conosciamo.
Ossessionati dalla logica. Tachicardizzati dall’ansia. Schiacciati dalla iperprestazione.
Omologati, anche noi, dai media. Eccoci qui, noi adulti, pronti a scuotere la testa quando
parliamo dei ragazzi della notte.
Cattive, cattivissime, queste nuove generazioni. Perché inani, imbelli, afasiche,
edoniste, prive di spina dorsale. Oppure perché troppo poco di sinistra, inadeguate al
movimento, distanti mille miglia dal mitico pensiero dialettico. Ragazzacci che
fischiano quando in discoteca si fa un minuto di silenzio per ricordare il giovane
Yannick, morto alle 4.35 di un livido mattino di ottobre (ma qualcuno di questi
autorevoli commentatori è mai stato in una discoteca e sa quanto insensata e inutile
sia una misura di questo genere in un contesto come quello?). O tempora, o mores. E
non ci accorgiamo che spesso giudichiamo con tanta sicumera ciò che non
conosciamo, che non vogliamo conoscere, e che un po’ ci fa paura. Che usiamo
etichette scadute per classificare cose nuove, come vecchi archivisti chiusi in stanze
polverose, incapaci di accorgersi che il mondo cambia, che le cose cambiano. E che
con il mondo, si modifica il modo di essere ragazzi, anche se l’essere rimane più o
meno lo stesso.
Certo, alcuni comportamenti, alcune speranze, aspettative, sperimentazioni hanno
affinità con le nostre. Con le nostre di quando eravamo giovani noi. Infatti: alzi la
mano chi non ha provato un senso di intensa ebbrezza tirando il motore della sua auto
o di quella di un amico sulle strade di una collina o su un rettilineo una notte che
aveva vent’anni e si sentiva immortale. O chi non si è preso una sonora sbronza
quella volta che aveva voglia di divertirsi e basta, a quella festa in cui c’erano tutti gli
amici e nessuno lucido e poi che fortuna tornare a casa sani e salvi, nelle condizioni
in cui eravamo. Solo che ora il mondo si è trasformato, complice anche la tecnologia,
e i ragazzi di oggi appartengono a questo mondo, non a quello. Quindi, magari,
anziché tirar tardi attorno a una chitarra cantando gli Inti Illimani, se ne vanno a
ballare la techno. Oppure fanno l’uno e l’altro (cambiando canzoni, però), ma in notti
diverse, per esigenze diverse. Perché hanno più opportunità di divertimento di quanto
non avessimo noi, e scelgono. Sono iperstimolati dal supermercato delle offerte di
qualsiasi cosa. Comprese le sostanze stupefacenti. Comprese le nuove droghe. Che i
più non usano. Chi le usa soprattutto sperimenta. E poi c’è chi esagera – i meno –, ma
quella è un’altra storia, che riguarda numeri contenuti e che richiede doverosamente
servizi e interventi.
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COSÌ, NOI ADULTI SBAGLIAMO molte volte: quando ci dimentichiamo di essere stati
giovani anche noi; quando non ci accorgiamo che le forme della giovinezza sono
mutate e allora giudichiamo ciò che non conosciamo; quando ci chiamiamo fuori da
questi mutamenti (se cambiano gli orizzonti culturali in cui tutti – giovani e adulti –
siamo immersi è anche perché anche noi abbiamo dato il nostro contributo:
accettandoli o contestandoli o, semplicemente, subendoli); quando consideriamo i
giovani come un qualcosa di altro da noi e non come un qualcosa che da noi ha
fatalmente tratto culture, orientamenti, comportamenti, rielaborandoli poi
autonomamente (come gridare all’orrore di fronte alla diffusione dell’ecstasy fra i
ragazzi, se gli adulti divorano le proprie pillole della felicità: psicofarmaci e farmaci
antistress?); quando ci preoccupiamo per i giovani. Meglio occuparsene (per esempio
sostenendoli nella propria ricerca di autonomia, casa, lavoro, aiutandoli a non farsi
del male quando si divertono) che preoccuparsene. Lo so: è un vecchio adagio, un
refrain trito e ritrito. Purtroppo da sempre lettera morta.
Breve viaggio nel mondo dell’ecstasy di Fabrizia Bagozzi
Chi sono i ragazzi dell’ecstasy? Che prendono la «cala» ma non si considerano devianti, che
nel mondo della comunicazione globale ricorrono alla chimica per esprimersi, che studiano e
lavorano per cinque giorni la settimana e usano il weekend come camera di compensazione,
ai quali non importa più di tanto se tra qualche anno il loro fegato non funzionerà più al
massimo? Che non gridano la fantasia al potere, ma in gruppo imboccano la scorciatoia
chimica?
La definiscono «nuova droga», ma tanto nuova non è. E neppure è nata come
«droga», ma come farmaco. È accaduto anche con altre sostanze stupefacenti, per
esempio l’eroina, chiamata così dai chimici della Bayer che l’avevano sperimentata
perché pensavano alle «eroiche» facoltà terapeutiche che il nuovo farmaco appena
scoperto avrebbe potuto avere. Destino analogo per l’ecstasy, scoperta nel 1912 dai
ricercatori dell’industria farmaceutica tedesca Merck alla ricerca di un farmaco
dimagrante da immettere stabilmente sul mercato. Dopo vari tentativi i ricercatori
della Merck trovano l’MDMA e pensano di avercela fatta.
La sostanza viene brevettata nel 1914, ma non verrà mai commercializzata. Il
perché non si conosce. Leggenda vuole che nel corso della Prima Guerra Mondiale
venisse somministrata ai soldati della prima linea per combattere la fame e la sete.
Poi, più nulla fino ai primi anni ’50, quando ricompare, come per magia, nei
laboratori dell’Università del Michigan in America, dove su commissione
dell’esercito statunitense viene sottoposta a uno studio sistematico. I risultati non
sono stati mai resi noti, anche se sono in molti a sostenere che l’Army Chemical
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Center la volesse come siero della verità. Anche in questo caso, comunque, e questo è
certo, la sostanza non ha fortuna, viene messa da parte e le viene preferita la
sorellastra MDA.
Dopo aver riportato alla luce il brevetto originale tedesco, nel 1972 il chimico
Alexander Shulgin la produce nel suo laboratorio. Nella sua biografia l’MDMA risulta
essere solo una delle 179 sostanze psicoattive descritte in dettaglio. Di certo è quella
che più si avvicina all’ambizione del chimico di scoprire un farmaco terapeutico,
come lui stesso sostiene. Sono passati sessant’anni esatti e per l’MDMA comincia una
vita nuova.
Infatti, a partire dalla fine degli anni ’70, l’MDMA comincia a diffondersi negli ambienti
della controcultura californiana e statunitense. È lo stesso periodo in cui alcuni psichiatri
della West Coast cominciano a utilizzarla nel corso delle sedute psicoterapeutiche, nelle
terapie di coppia e con pazienti che mostrano notevoli difficoltà di comunicazione anche
e soprattutto nella interrelazione fra psicoterapeuta e paziente. Sfruttano le caratteristiche
di entactogenicità della molecola, che farebbe veramente parte di una nuova classe di
farmaci perché ha capacità di favorire il dialogo e di migliorare appunto la
verbalizzazione.
Gli anni che vanno dal 1977 al 1984 sono un po’ considerati l’età dell’oro di
«Adam», nome con cui comincia a essere conosciuta negli Stati Uniti. Il giro di
persone che la usa su di sé o su altri è ancora piuttosto limitato. Da una parte c’è la
ristretta cerchia di psicoterapeuti sperimentali che la somministra ai pazienti durante
sedute-fiume di gruppo o individuali, dall’altra ci sono gli sperimentatori
psichedelici, frange della controcultura degli anni ’60, che la impiegano per lo più a
fini conoscitivi, di «espansione della coscienza». Ancora è sconosciuta alla massa e,
finché non viene distribuita su larga scala, non sfiora nessuno l’idea che possa
diventare una dance drug.
Fino a tutto il 1984 in America è assolutamente legale. Comincia a entrare nel giro
studentesco e si diffonde anche negli ambienti di quegli young urban professionals,
negli anni ’80 notissimi come yuppies, che sì prediligono la cocaina, ma non
disdegnano questa nuova sostanza chimica dagli effetti affini, che per di più ha anche
ormai un nome degno delle migliori aspettative.
È proprio questo infatti il periodo in cui l’MDMA cambia pelle e diventa «ecstasy».
Il passaparola della piazza e così i resoconti giornalistici di allora racconta una
favola a proposito di questo nome, azzeccatissimo sul piano della promozione: si dice
che il primo a usarlo sia stato un produttore clandestino di San Francisco. Voleva in
verità chiamarla «emphaty», empatia, nome che descriveva con esattezza l’effetto
della sostanza, ma si era reso conto che «ecstasy» funzionava meglio sul piano delle
vendite. E allora, seguendo i più classici canoni del marketing, la chiamò così. Un
successone, come tutti noi possiamo oggi constatare. Sempre in quel periodo
l’ecstasy si poteva trovare in libera vendita, pagabile con carta di credito, nei night
club del Texas.
Negli Stati Uniti l’ecstasy incappa in un primo stop di carattere legislativo nel
1985. Nei primi mesi di quell’anno una partita di «China White», surrogato legale
dell’eroina, provoca un grave danno cerebrale ad alcuni tossicomani. Il Senato
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approva allora in tutta fretta una legge che consente alla DEA (Drug Enforcement
Administration, l’agenzia americana per la repressione del narcotraffico) di porre un
divieto di emergenza nei confronti di sostanze potenzialmente pericolose per il
pubblico e in particolare nei confronti delle designer drugs, cioè quelle sostanze
studiate a tavolino dai chimici da strada ricalcando lo scheletro di molecole
stupefacenti al fine di ottenere con una diversa molecola chimica non ancora
sottoposta a controllo e dunque legale un effetto uguale o simile a quello di una già
illegale o comunque un effetto stupefacente. La DEA coglie l’occasione al volo e fa
rientrare l’MDMA fra queste a causa della sua somiglianza con la già largamente
illegale sorellastra, la MDA.
Non senza una certa dose di ironia, alcuni produttori clandestini di MDMA
cominciano allora a produrre un’altra sostanza di sintesi, la MDEA, nome
commerciale: «Eve», per far coppia con Adam, dagli effetti analoghi e da vendere
come ecstasy senza incappare nelle maglie della legge. In seguito anche Eve farà la
stessa fine di Adam.
Il 1 luglio del 1985 si giunge dunque a interdire temporaneamente l’uso di MDMA ,
che viene inserita nella categoria delle droghe che danno assuefazione, nella tabella
che raccoglie composti «di nessun impiego terapeutico e socialmente dannosi», la
famigerata tabella I. Interdizione poi confermata e resa permanente l’anno
successivo, il 13 marzo 1986, anche se strascichi di polemiche e di cause giuridiche
proseguono ancora oggi.
Il 22 aprile dello stesso anno l’ecstasy viene messa fuori legge in Svizzera; il 18
luglio in Germania; in Italia nel 1988. Con il DPR 309/90, si fissa anche la dose
giornaliera: 50 mg. In Gran Bretagna è già bandita dal 1977, come tutte le altre
amfetamine psichedeliche.
Sul piano della regolamentazione internazionale, nel 1985 la Convenzione Internazionale sulle sostanze psicotrope chiede alle nazioni associate di inserire la
sostanza in tabella I.
In che modo l’MDMA dai laboratori dei chimici, dagli studi degli psicoterapeuti,
dalle case private degli psiconauti americani, tutt’al più dai college, diventa «la»
droga per ballare? Tutto probabilmente passa per il mondo dell’intrattenimento
notturno. Da quei contesti molto specifici, l’ecstasy filtra nei club più esclusivi di
Chicago, New York, San Francisco e Detroit, complici anche gli yuppies
metropolitani dalle frequentazioni glamour nel mondo dell’arte, del cinema e della
musica. L’ecstasy arriva lì e trova il suo terreno di elezione nei warehouse parties,
feste molto di moda che si tengono in magazzini abbandonati e nei club a prevalenza
gay dove si comincia a fare sperimentazione musicale.
A Chicago è il club Warehouse, paradiso di omosessuali e afroamericani, a New
York il Paradise Garage. In questi locali, già agli albori degli anni ’80 i dj americani
Frankie Knuckles e Lerry Levan ognuno nel proprio territorio: Knuckles a Chicago,
Levan a New York suonano cose strane, roba nuova, mai sentita prima. Mescolano
generi, nel tentativo di colmare un vuoto che si stava creando nel genere dance.
Sono i primissimi passi di quella che poi diventerà house music. «House» perché,
secondo la raffinata versione di Richard West, dj inglese conosciuto al grande
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pubblico come Mr. C, si suonava al Warehouse di Chicago. Ma c’è anche una
corrente di pensiero meno colta, ed è quella di chi sostiene che house stia
semplicemente per «musica fai-da-te», facile da produrre in casa propria, purché
dotati della tecnologia necessaria.
Leggenda vuole poi che il Paradise Garage di New York abbia a sua volta dato il
nome a un sottogenere dell’house, la garage, appunto. Certo è che con l’house parte
una vera e propria rivoluzione musicale.
Discendente diretta della house è la techno, variante da attacco apoplettico,
totalmente computerizzata, da 140-160 battute al minuto. Evoca il senso di
alienazione della vita tutta tecnologia e degrado delle grandi metropoli, e non a caso,
visto che pare sia stata Detroit, feudo dei Ford, a darle i natali. Lato più estremo della
dance music elettronica, ha sostituito all’artista feticcio della musica pop un flusso
sonoro che non ha alcun altro senso se non il valore d’uso: niente volti, niente nomi,
nessuna voce, solo suoni minimali e ritmo velocissimo e vertiginoso. Alla nuova
famiglia musicale appartengono le super estreme hard core e gabber, varianti da oltre
200 battute al minuto, la tribal, la più morbida ambient e la ipnotica trance. Idem per
la progressive, dal ritmo spezzato, imprevedibile, ma ugualmente battente.
Dall’America, house, techno ed ecstasy oltrepassano l’Oceano e giungono d’un
balzo nel Vecchio Continente prima di tutto Ibiza e Valencia, poi Londra e
Manchester grazie ad alcuni dj inglesi che ne rimangono sostanzialmente folgorati.
Siamo sempre a metà degli anni ’80. A Ibiza fanno scuola e cassa di risonanza
europea i frequentatissimi Amnesia e Pasha, dove la trasgressione e l’esibizionismo
fanno già tendenza. A Londra è ancora roba underground, e di nuovo i protagonisti
sono i locali gay, lo Shoom, il Pyramid, il Jungle, dove si balla house tutta la notte e
si calano le prime «E».
Tra fine ’87 e inizio ’88 si avvia la tendenza in Inghilterra. Ma è solo in estate che
esplode la moda, durante la cosiddetta new summer of love di Londra, ricalcata pari
pari da quella del ’67. A guidarla quattro dj inglesi, definiti dalla stampa locale «i
quattro dj dell’apocalisse», Paul Oakenfold, Johnny Walker, Nicky Holloway e
Danny Rampling: tornati in patria dopo aver visitato il Pasha e l’Amnesia di Ibiza,
decidono di ricreare alla grande lo spirito tutto edoné e house dell’isola balearica.
Idea azzeccata. Nei club suonano esclusivamente dischi che appartengono a un
sottogenere inedito che diventerà famoso come acid house e, come a Ibiza, vanno
avanti fino a mattina.
Ben presto, i ragazzi delle serate «acide» diventano i depositari di uno stile di vita
giovanile caratterizzato da un nuovo modo di socializzare, di vestire e da una nuova
droga. Ecco allora che anche in Inghilterra, come già a Ibiza, andare in discoteca o a
un rave fatti di «E» fa tendenza. Ed è una tendenza che funziona. Da lì rimbalza in
tutta Europa, isole e penisole comprese. Siamo nel 1988.
In Italia contribuisce al lancio dell’house music un programma radiofonico di RaiStereoUno, «StereoDrome». Fin dall’autunno ’88, fra gli altri, Stefano Pistolini e il dj
romano Luca De Gennaro mandano esclusivamente selezioni di musica house e acid.
E già verso la fine di quell’anno si svolgono a Roma, nel parco Euritmia, all’EUR, le
serate acid house frequentate tutti i sabati da teen-ager simil-ibizenchi. E sempre a
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Roma cominciano i venerdì sera a tema al Black Out e i mercoledì al Caffè Magnani.
La rivoluzione del ballo è solo cominciata: in breve tempo tutte le discoteche della
Penisola sostituiscono gli ormai antiquati dischi dance di un tempo con le nuove
sonorità.
La tendenza vera e propria arriva dunque in Italia fra il 1988 e il ’90, sulla scia di
techno-viaggiatori, artisti, musicisti, dj e di semplici turisti che per caso vi
s’imbattono e si folgorano, pure loro. E arriva da Ibiza come da Londra o
Manchester. Nel ’90 house e techno vanno già alla grande nelle discoteche più
d’avanguardia. Partono i primi afterhours, i fuori orario, fenomeno tutto italiano.
Esplode di nuovo la dance-mania, come ai tempi di John Travolta. Questa volta,
però, con un efficace additivo chimico, l’ecstasy.
Si balla e si sballa anche volentieri con questa nuova droga che sembra fatta
apposta per la danza. Gruppetti di ragazzi svegli cominciano a improvvisarsi
mediatori per reperire la pillolina della felicità che si sa essere prodotta in grandi
quantità nella lontana Olanda. Anche se non solo ragazzini: a Riccione viene
pizzicata a spacciare ecstasy nelle discoteche della riviera la trentacinquenne moglie
di un industriale della zona.
In Italia filtra anche la cultura rave, che nel frattempo in Inghilterra vive una
stagione felice (bloccata poi dal Criminal Justice Act nel 1994 dopo una serie di
decessi collegati all’uso di ecstasy). Il primo rave di una certa importanza è un raduno
legale, «The Rose Rave», presso la discoteca Doing di Aprilia. È il 1 giugno 1990. Il
’90 è anche l’anno in cui esplodono le prime polemiche sui cosiddetti incidenti del
sabato sera che si ritengono strettamente legati all’uso dell’ecstasy.
Nel ’91 il primo morto in Italia per intossicazione acuta da MDMA .
Aumentano esponenzialmente le operazioni di polizia (da 0 a 50 fra il 1987 e il
1990) e i sequestri, che passano dalle 6-7.000 pastiglie del ’90 alle oltre 15.000 nel
?91.
Arriva la piena, comincia il fenomeno.
Un contenuto incerto. A forma di cuore, bianca, azzurra o verdina, personalizzata
con il segno zodiacale, la pillola di ecstasy che il giovane sperimentatore psichedelico
si trova a maneggiare non sempre è proprio MDMA , abbreviazione di
3,4-metilenediossi-N-metilamfetamina (il suo nome scientifico). In genere è un
miscuglio di più composti, dove l’MDMA è presente in parti variabili, associata a
sostanze simili, per esempio la MDEA (3,4-metilenediossi-N-etilamfetamina), detta
genialmente Eve, per fare il paio con Adam e così venderla meglio, o la MDA (3,4metilenediossiamfetamina), meglio nota come love drug, o anche la MBDB reperibile
in Italia nelle forme di Tnt, X press, «bomba», «dollaro» (peraltro da noi ancora
legalissima), o la 2CB (4-bromo-2,5-dimetossifenetilamina). Altre volte le pasticche
in circolazione altro non sono che MDEA, MDA, MBDB, o amfetamina, e di MDMA
nemmeno l’ombra. In Italia l’ultimo grido dello sballo da ecstasy è l’«uccelletto
grigio», in cui l’ipereccitazione prodotta dall’MDMA viene attenuata dalla
«morbidezza» della morfina.
In alcuni casi, neanche poi così rari, la pastiglia («cala» in gergo) è composta da un
certo contenuto minimo di una di queste sostanze di sintesi mescolato a polvere,
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sabbia, stricnina, veleno per i topi. Niente di psicotropo. Nocivo e basta. A ciò si
aggiunga che se il contenuto medio di principio attivo in una compressa di ecstasy si
aggira attorno ai 75-150 mg, spesso, di fatto, se ne trova poco più della metà,
raramente si arriva a 100 mg. Il resto è costituito da additivi, a volte perfettamente
innocui, altre volte, appunto, un po’ meno.
Una gran parte degli «incidenti» da ecstasy finiti con un ricovero in ospedale
avvenuti in Gran Bretagna dal 1987 a oggi si collega a tagli micidiali della
caramellina. Secondo un rapporto ufficiale della DEA che risale ai primi mesi del ’96,
nella seconda metà del ’94 a Glasgow, in Scozia, un’incursione della polizia in alcuni
laboratori clandestini appena fuori dalla città ha permesso di scoprire mezzo milione
di compresse pronte a essere vendute come ecstasy. Le analisi hanno rivelato che si
trattava di vermifughi per cani, roba che può danneggiare il sistema nervoso centrale,
causare malesseri, capogiri e inibire le capacità cognitive.
Per sentirsi meglio con sé e con gli altri. La confusione fra MDEA, MDA, MBDB,
MDOH, 2CB, non a caso definite ecstasy like, è facile perché appartengono alla stessa
famiglia dell’MDMA e hanno effetti simili, pur con differenze in qualche caso
significative. Rientrano infatti tutte nella categoria delle sostanze «entactogene»
letteralmente «che toccano dentro» , cioè capaci di aumentare la capacità di analisi
rispetto a se stessi, o anche «empatogene», cioè in grado di generare empatia, ricerca
di contatto con gli altri. Tutte quante, e l’ecstasy prima di ogni altra, aprono nel
confronto con il resto del mondo e con se stessi. Scrivono Sophia Adamson, studiosa
californiana di stati di coscienza, e Ralph Metzner, psicologo ed ex collega di
Timothy Leary, fra i più brillanti esponenti del movimento psichedelico degli anni
Sessanta:
Le sostanze empatogene provocano un’esperienza sostanzialmente in grado di
dissolvere la difensiva separazione intrapsichica fra spirito, mente e corpo, così che
la guarigione fisica, la soluzione di problemi psicologici e la consapevolezza
spirituale possono accadere simultaneamente nel corso della medesima esperienza...
Consentono un’apertura del centro-del-cuore.
Sono queste caratteristiche che hanno indotto e inducono tuttora, anche se meno
frequentemente che in passato e non in Italia all’impiego di tali sostanze, MDMA in
testa, nelle sedute psicoterapeutiche (utilizzo peraltro autorizzato in rarissimi casi e in
molti altri del tutto illegale). Ma sono soprattutto altre le caratteristiche, quelle più
dirette, più immediate, più «facili», che hanno fatto la fortuna dell’ecstasy,
diffondendone enormemente l’uso a fini che i sociologi amano definire
«ricreazionali»: in discoteca, nel corso dei rave, negli stadi.
La discoteca o il rave sono il punto d’arrivo, i luoghi in cui si consumano le
aspettative coltivate durante tutta la settimana. Tutto comincia ben prima. C’è la
scelta del look, magari in un negozio specializzato come il Block 60 di Riccione,
unico megastore d’Italia magari al mercatino delle pulci. Si guarda, si prova, si
occhieggia lo specchio. Vale tutto, purché eccessivo, sopra le righe: dallo zatterone di
vernice 20 centimetri 20 di zeppa per le ragazze, ai pantaloncini da ciclista
fosforescenti per i ragazzi e via così, di follia in follia.
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Quanto alle acconciature, grandi cotonature o pettinature a punta scolpite col gel.
L’ultimo grido sono i capelli colorati: al top il rosso fuoco e il blu elettrico. Nel
rituale della notte il corpo è sempre in primo piano. Non solo curato: scolpito. Lo si
vuole evidenziare, sottolineare, agitare, eccitare. La discoteca è il trionfo assoluto del
linguaggio del corpo. Poi c’è la vestizione, e il trucco. Le ragazze lo fanno spesso
insieme. I ragazzi si vergognano un po’ di più e si acconciano da soli, chiusi nel
bagno di casa.
Ci si vede tutti in un posto convenuto, forse un bar, una pizzeria, una birreria,
difficilmente un club o un’associazione, più spesso una piazza o un giardino. Si fanno
in genere le stesse cose, si beve, si mangia una pizza, si va a vedere una partita. Come
sostengono in uno studio Castelli e La Mendola (2), lo stare insieme risponde a una
ragione precisa che è quella di costruire l’evento della serata, rafforzando
l’identificazione collettiva con gli altri del gruppo in una costruzione che dura a lungo
perché in discoteca si entra tardi. Assai raramente si parla di cosa si farà in discoteca.
La costruzione non si realizza attraverso il parlare, il codice verbale, ma
prevalentemente attraverso il fare.
Arrivati al punto di ritrovo, si fumano sigarette di hascisc, che in queste situazioni
non manca mai. Si fa la spola per prendere le birre. Si fumano anche sigarette.
Qualcuno ha già pastiglie in tasca, qualcuno ha già preso mezzo francobollo di acido
lisergico, sostanza tornata di recente alla ribalta del consumo giovanile. Così alla
ribalta, da eguagliare se non superare nei numeri l’ecstasy.
Nella high class come punti di ritrovo vanno forte i bar delle zone «bene», dove si
arriva con le macchine young regalate dai genitori, o con moto e motorini di moda. A
volte si parte per discoteche o rave. Altre volte si va a casa di qualcuno. Via i genitori
per il weekend, casa libera per festini tossici venerdì sera-domenica pomeriggio a
base di coca, anfetamine, acidi ed ecstasy, tanto più che di soldi, in tasca, ce n’è in
abbondanza. Il budget del fine settimana di questi studenti modello dei licei «bene» o
delle università delle professioni si aggira in genere attorno alle quattro,
cinquecentomila lire. Una cifra con cui ci si possono pagare molte cose, anche lo
sballo.
A volte si verifica qualche spiacevole imprevisto. Qualcuno esagera, per stupidità o
per inesperienza, e sta male. Ci si mette una pezza con corse spericolate in ospedale
se il gruppo ha buon cuore. Se la paura di farsi «beccare» è troppa, «gli amici»
lasciano il malcapitato rantolante sul ciglio di una strada di campagna, com’è
successo di recente a Torino: probabile festino tossico in zona «bene», una ragazza va
in overdose dopo un tiro di eroina, la abbandonano su un prato fuori porta e poi
segnalano la cosa al 113. Lei ci rimane secca di brutto. Aveva 20 anni tondi.
A un certo punto della serata, che varia a seconda di quanto è lontana la discoteca o
il rave, si parte e si va. Due o tre macchine cariche su tangenziali e autostrade, verso
il primo stop della notte. Il primo, perché verso mattina da qualche parte c’è di sicuro
qualche afterhour, e ultimamente anche qualche aftertea, festa che comincia alle
cinque della domenica pomeriggio e termina a mezzanotte, proprio al confine col
lunedì. A volte si fa una tappa a un autogrill per comprare alcolici e birre che si
portano dentro se si riesce oppure si nascondono in macchina insieme alle «cale», e
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ogni tanto si esce dalla discoteca a bere un po’. Trucco astuto per chi vuole
risparmiare sulle consumazioni che al bancone sono sempre molto care.
È difficile che le pastiglie si prendano prima di entrare in discoteca (o prima di
arrivare al techno-raduno), anche se può capitare. Si sa che l’effetto dura un tempo
ben determinato, cioè circa sei ore, ma quando «hai preso un pacco», il down arriva
più in fretta. Allora si cala (si prende l’ecstasy) insieme, spesso mettendosele in
bocca a vicenda dentro e non prima di mezzanotte, mezzanotte e mezza. Quando
parte la serata, arriva la piena, cioè esplode l’effetto chimico. In molti ne prendono
«soltanto» una o due, alcuni esagerano davvero e arrivano a cinque, sei. Ci sono stati
casi di dodici ecstasy prese in una sera sola. Tutti, nessuno escluso, ci bevono su. Di
sicuro almeno una birra, quando non uno o due cocktail alcolici. C’è chi non si ferma
lì e prende anche un acido o mezzo acido, per accentuare l’effetto psichedelico. O
anfetamina e cocaina, per incrementare l’eccitazione.
Arrivano le cinque, le sei del mattino. Si esce, si monta in macchina, si fa colazione
e se c’è un afterhour, anche se è lontano, si va, senza problemi. Ogni tanto un
incidente, a un incrocio, o contro un guardrail, e ogni tanto una tragedia.
Il tempo del divertimento dei giovani consumatori è tutto pieno. Sabato sera da
mezzanotte alle sei del mattino in disco (o a un rave), poi l’after, diciamo fino al
pomeriggio. Poi qualcuno va a casa, da mamma, a dormire. Altri si fermano in uno
dei motel che ci sono ai margini delle superstrade, lungo i percorsi classici da una
discoteca all’altra, e prendono una stanza con Jacuzzi per fare bisboccia con fidanzato
o fidanzata. Qualcun altro va dritto allo stadio dove i coretti sostituiscono
temporaneamente il Beat per minute, la velocità del ritmo. E poi, volendo c’è
l’aftertea, dopo lo stadio o dopo l’afterhour. I limiti fisici chiedono l’additivo
chimico. Qualcuno tira fuori un’ecstasy dalla tasca e Adam tira fuori la sua bacchetta
magica. Et voilà, il gioco è fatto. Si è in forma per chiudere il weekend alla grande,
senza battute d’arresto.
Quando non si chiude direttamente il lunedì mattina, il fine settimana termina alla
domenica sera cercando la pace. C’è chi non prende niente se si sente molto eccitato.
C’è chi fuma ancora un po’ di hascisc, un gruppetto per fortuna sparuto sniffa
l’eroina e parte per il mondo dei sogni.
In questi contesti, in genere, il rapporto con la droga è di tipo consumistico; l’idea
non è tanto che le droghe ti rendano migliore: ti mettono solamente in relazione agli
altri.
Assumere l’ecstasy per questi ragazzi non è un motivo di ricerca o di espansione
della conoscenza, per loro è un dato acquisito e consolidato nel passato, per cui non
c’è la necessità di esaltarne o studiarne gli effetti, ma si vuole solo raggiungere una
condizione di benessere nel momento dell’esperienza. È importante la sensazione di
sentirsi in tanti, il piacere di sentirsi confusi, fusi con gli altri. «Bello è farsi l’ecstasy
in una discoteca dove senti gli altri fortemente, senti il gruppo e ti senti unito e
coraggioso» (3).
Questa esperienza fuori dalla legalità, vissuta in comune e sentita in comune, è il
centro, è la motivazione che li spinge a partecipare a questo rito collettivo che si
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baricentra sul gruppo, l’unico a fornire un reale ritorno di senso, una identificazione
forte. Nel gruppo si sentono dentro, protetti, garantiti. Nel gruppo fanno quadrato. E
Adam rafforza tutto questo.
Seguono questi riti e vivono in questo modo, i ragazzi dell’ecstasy. Tentano di
attraversare la notte traghettandosi verso un’età meno insicura, verso un futuro che
non percepiscono, vivendo il qui e ora e schiacciando il pedale dell’acceleratore sulle
emozioni. Ragazzi. Giovanissimi. Chi e quanti sono in Italia gli assidui frequentatori
di discoteche, raves e afterhours ma da qualche tempo anche stadi che non ce la
possono proprio fare a danzare (o a tifare) senza la loro magica «aspirina»? Secondo
la DEA americana, fra amfetamine ed ecstasy, circa 50.000 (20-30.000 solo ecstasy).
Ma una stima artigianale nel nostro Paese, a quasi dieci anni dalla comparsa di Adam
sulla piazza, nessuno ha ancora pensato di disaggregare il dato sul consumo di
sostanze stupefacenti e di tentare un censimento di questi assuntori compiuta da
sommi esperti del settore dice almeno fra le 60 e 85 mila unità. «Probabilmente un
dato sottostimato», commenta Maurizio Sorcioni del CENSIS. Sottostimato anche
perché si riferisce a contesti più o meno censibili, vale a dire le discoteche e gli eventi
che ruotano loro intorno: afterhours e raves commerciali. Del circuito off, la cui entità
è tutt’altro che indifferente, non si può conoscere alcuna cifra. Il SILB (sindacato
italiano locali da ballo) dal canto suo stima che i consumatori di ecstasy in Italia siano
fra i 300 e i 500.000.
Identificarli, questi fanatici della felicità chimica, munirli di una carta d’identità è
tutt’altro che semplice. Ma si può tentare di individuare dei tratti unificanti, di
suggerirne un’immagine. Come tutto il resto della loro generazione, si muovono in
microgruppi tante, tantissime tribù e sottotribù e per rituali codificati all’interno di
ogni gruppo. Tendono ad agire, a lasciarsi vivere e rifuggono ogni definizione di sé,
qualsiasi vago accenno di autoanalisi. Se li intervistano non dicono mai «noi
giovani», fanno gli spacconi, sono spavaldi, ridacchiano, si esibiscono, soprattutto se
sono in gruppo. Sono poco individuabili dal cronista e dallo studioso dei fenomeni
sociali perché in genere distanti mille miglia dalla devianza che riempie le pagine di
cronaca e i manuali. Stanno sotto traccia. Vivono in un mondo a circuito chiuso fatto
di lavoro o studio, TV, musica, ammazzare la noia soprattutto in provincia e nelle
periferie e rito del weekend.
Volendo tentare una rappresentazione grafica del consumo di Adam, si può pensare
a una curva con un rigonfiamento al centro e le due estremità sottili, appiattite verso
il basso: una specie di caramella. Agli estremi due tipologie agli antipodi.
A sinistra il disoccupato o il ragazzino senza lavoro delle periferie urbane che la
cala se la procura con espedienti vari, forse anche con piccoli furti, microtruffe o che
si finanzia spacciando (ecstasy, naturalmente), quando è in contatto con qualcuno del
giro grosso o più semplicemente con un circuito deviante. Più a sinistra ancora
l’eroinomane che prende l’ecstasy, meno cara dell’ero, per attenuare la carenza, o
l’ex tossicodipendente che ha concluso un eventuale percorso riabilitativo e che,
anziché virare sull’alcol, vira sull’ecstasy, prendendola a dosaggi molto elevati. In
questa stessa «zona» si colloca anche chi comincia con l’ecstasy e finisce, volente o
nolente, ingabbiato dall’eroina.
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A destra i cocainomani che alternano cocaina e MDMA , e più a destra ancora i
weekenders della coca (quelli che la prendono ogni tanto), che la sostituiscono
progressivamente (anche se non del tutto) con l’ecstasy. All’estrema sinistra, dunque,
il consumo confina con e sconfina nella devianza, all’estrema destra con il top
dell’integrazione sociale.
Il grosso, il corpo centrale della caramella, ha fra i 16 e i 25 anni ed è «normale». Si
tratta per lo più di figli di famiglie appartenenti a quel gran calderone che è la middle
class italiana, la «classe media». Medio bassa, con picchi di rilievo verso il
proletariato urbano, o medio alta, in direzione notabilato locale e aristocrazia
borghese, dove pure qualcuno ci casca (anche se per la verità la curva deve essere
rappresentata con un certo sbilanciamento a sinistra). Moltissimi studiano. Elevata la
percentuale di diplomati (anche se più di istituti tecnici che di licei), un certo numero
di studenti universitari: il livello di scolarità è dunque buono, come mostra anche la
casistica del SERT di Padova. Chi non studia lavora, e non sono pochi. Molti hanno
un padre piccolo imprenditore o sono dipendenti alla prima esperienza lavorativa. I
meno fortunati si aggiustano facendo lavori saltuari in nero.
In genere hanno una percezione forte e negativa della marginalità come furto, come
violenza, come tossicodipendenza, quella classica da eroina. Comportamenti spinti
troppo oltre verso la delinquenza rientrano in una categoria minoritaria che non
riguarda il numero complessivo. A questo proposito a nessuno passa per l’anticamera
del cervello l’idea di assimilarsi alla figura del tossicodipendente purchessia, e la
quasi totalità guarda all’eroinomane come a un out, un marginale senza speranza.
L’ecstasy la considerano una droga leggera, la percepiscono come una medicina.
Tanto più che ha un’immagine estremamente safe: non necessita, se non nei casi
estremi, di aghi e non evoca scenari da HIV, non dà dipendenza fisica, per cui gode di
buona fama, nel tam tam della piazza.
Ad aiutare poi i pusher nel loro smercio, come se ce ne fosse bisogno, si aggiunge
la disinformazione corrente che ama gridare al lupo. Dipingere a tinte fosche un
mondo e uno stile di vita che già di per sé ha una certa presa sui ragazzi non è
esattamente un buon deterrente. Stimola e non poco la curiosità. E allora giù
pastiglie. La madre a casa prende il Prozac e in una pillolina esaurisce le proprie
ansie. Loro con Adam risolvono in fretta e alla grande qualche problema di identità,
in parte fisiologico, dovuto probabilmente al periodo di crescita che attraversano, in
parte indotto (dalla pubblicità? dalla TV? dal cinema? dal mondo?).
Non amano il quotidiano. Ma non gli va nemmeno come spiega Vittorino Andreoli (4) come il loro corpo attraversa quel quotidiano, loro che cominciano adesso a
scoprirlo, a conoscere le proprie reazioni e a confrontarsi con l’esterno, con un fuori
dove imperversa un culto del bello che ha del demenziale, ma che loro percepiscono
come cogente. C’entra anche l’età: il brufolo, il naso irregolare, l’eccessiva magrezza
o grassezza scatenano l’ira di dio. E allora si vestono e si travestono, al venerdì e al
sabato notte, con un rituale in cui il richiamo è alla tribù, ma quella vera, quella
antropologica. Un legame fortissimo che sentono con il gruppo nel quale scatta
l’identificazione, ma che non ritrovano con gli universi contigui e circostanti.
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Non gli va come con la testa e con il cuore quel che si dice la personalità
attraversano un mondo del quale non leggono il futuro, del quale vedono solo un oggi
che sembra troppo carico di aspettative. Aspettative di carriera, di successo, di
seduzione, di spigliatezza. Sono spavaldi ma insicuri di sé, delle proprie capacità. E
allora c’è Adam, che in mezz’ora e (in media) per cinquantamila lire ti cambia. Fuori
e dentro. Senza rinunce, perché la rinuncia proprio non si contempla. Senza
sofferenza, senza dolore. Con un gigantesco, totale senso di appagamento. Che
percepiscono come dovuto. Per questo se lo prendono dall’ecstasy con quell’aria di
chi ti comunica che non è il caso di farla tanto lunga. Tanto più che la percezione del
rischio risulta in loro piuttosto bassa, come del resto in buona parte della generazione
nel suo complesso.
Certo, l’ecstasy gode di buona stampa, nella scena techno ha un’immagine positiva,
simile a quella che avevano l’hascisc e la marjiuana fra i giovani dell’Europa
occidentale e degli Usa negli anni ’60 e ’70. Ma, puntualizza Gunter Amendt,
è una droga di sintesi. Accettare oppure no gli effetti collaterali delle sostanze di
sintesi (droghe e psicofarmaci) è sempre il risultato di una soggettiva valutazione dei
rischi, tranne naturalmente quando vengono prescritte dal medico. Ci troviamo di
fronte a una generazione che applica parametri completamente nuovi nella
valutazione dei rischi, e questo in gran parte non è ancora stato avvertito
dall’opinione pubblica. La disponibilità ad accettare rischi è aumentata perché
altrimenti la realtà non sarebbe sopportabile. Quelli di oggi sono giovani nati in un
mondo ormai tutto computerizzato e chimico. La decisione se assumere o no una
droga di sintesi come l’ecstasy è soltanto una delle tante valutazioni che si trovano a
fare nel quotidiano confronto con i rischi della chimica. Dobbiamo riconoscere,
anche se a malincuore, che la chimica è di nuovo «in». (5)
Sono integrati o vogliono integrarsi, i ragazzi dell’ecstasy. E non solo perché
tendenzialmente non sono devianti, ma perché hanno orrore di ciò che non è
conforme allo stile di vita che hanno scelto (o subìto?). Della rivoluzione non gliene
importa assolutamente nulla. L’assetto sociale non si sognano nemmeno di metterlo
in discussione. La politica e l’impegno non rientrano nel loro universo di riferimento.
La distanza con la generazione del ’68, quella della «fantasia al potere», non potrebbe
essere maggiore.
L’ecstasy funziona perfettamente anche in questo. Non ha il potenziale eversivo
dirompente di altre droghe. È una sostanza che integra, non una che isola o dissocia.
Racconta Alberto Campo, 38 anni, giornalista musicale, nei ’70 adolescente:
Eroina, marjiuana e cannabis: erano e sono droghe di evasione associate all’idea
di collocarsi fuori dalla società, di andare oltre una certa mentalità produttiva che si
rifiuta.
Farsi di eroina alla fine degli anni ’70 era quasi un’opzione culturale. Per alcuni
ha significato marcare una certa scelta di campo: ascoltare certa musica, ad esempio
Lou Reed e i Velvet Underground, leggere certi libri, certe riviste, pensarla in una
data maniera. Si credeva fosse un modo alternativo per manifestare la propria
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radicale diversità, il proprio dissenso al conformismo sociale. Nel ’77 si era immersi
in una profonda incertezza sul piano degli orizzonti politici. Alcuni hanno fatto
questo ragionamento: noi siamo contro la società, ci hanno battuti e allora ci
chiudiamo dentro il guscio dell’eroina e ci facciamo.
Una forma di protesta totalmente autolesionista che prende le mosse da una
sconfitta sul piano della ridefinizione dello scenario politico. Poi diventa altro e si
colora di significati sideralmente lontani. Ancora Alberto Campo:
Oggi con l’ecstasy ti droghi perché lavori dalle 9,00 alle 18,00 per cinque giorni
alla settimana e poi usi certe sostanze come camera di compensazione. Oggi il
ragionamento è: farsi per star bene. Lavorare si deve in certe forme e seguendo certe
regole: l’assorbimento nell’assetto sociale è totale. E per stare bene si cala l’ecstasy,
un prodotto che la società dei consumi la indossa come un guanto.
E aggiunge:
Questa è una società tossica. Nel 2000 saremo tutti intossicati: dagli psicofarmaci,
dal caffè, dalle sigarette. Non solo dalla droga. E poi, alla faccia di Decoubertin,
l’importante è vincere, mica partecipare.
I messaggi filtrano verso le generazioni più giovani che sono poi anche quelle più
ricettive. Et voilà.
1) Metzner R., Adamson S., Ecstasy, Stampa Alternativa, Viterbo 1992, p.10.
(2) Castelli C., La Mendola S., «Discoteca: fruizione, camere di compensazione e comunicazione
pubblica», in Comunicare la notte, SILB, Bologna 1996.
(3) Panzacchi R., Degiuli S., «Primi risultati della ricerca “I giovani e la techno-trance”», in
Comunicare la notte, cit., pp. 286 ss.
(4) Andreoli V., (intervista a), «Da rospo a principe», in Bagozzi F., Generazione in ecstasy,
EGA , Torino 1996, pp. 122 ss.
(5) Amendt G., «Droghe techno per culti techno», in Saunders N., E come ecstasy, Feltrinelli,
Milano 1995, pp. 13 ss.
Quando disagio e problemi investono il tempo libero di Luigi Ciotti
Hanno un bisogno disperato di tempo libero, ma rischiano di trovarsi sempre più alle
prese con il drammatico problema del “tempo vuoto”. E’ una povertà con la quale
tanti – ma potremmo anche dire troppi – ragazzi hanno ormai imparato a convivere.
Ed è forse questo uno degli aspetti più significativi del nostro momento storico:
moltissimi nostri giovani non sono aiutati a liberare il loro tempo. Dispongono di
tempo non-occupato; sono spesso assillati dal tempo-vuoto; protestano –
giustamente! – perché costretti al tempo-disoccupato; sono resi inquieti dal temponoia; si ritrovano molte volte a vivere alla giornata, lontani, dunque, dalla logica del
progettare e del programmare… e potremmo continuare l’elenco. Non sono aiutati,
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però, ad “abitare il tempo” nel senso pieno dell’espressione. Abitare il tempo. Non è
solo slogan. E’ stile di vita che salda il passato con il futuro. E’ memoria, ma anche
progetto. E’ tensione per sottrarsi alla povertà delle mode, al vuoto di un effimero che
tutto usa e che sempre annoia. Abitare il tempo – proprio come per le nostre case e
territori – è desiderio di arredare il trascorrere delle ore con momenti, azioni e gesti
capaci di dare senso e voglia di vivere. Da questo punto di vista è ovvio: se nessuno ti
aiuta a vivere la settimana, se il cosiddetto tempo dell’occupazione è esperienza
frustrante che priva l’essere persona non solo di interessi e opportunità di crescita,
ma anche di diritti e di dignità, è scontato che il tempo libero diventi il tempo della
protesta e il tempo dello “sballo”. Sballare diventa così non solo il rito del sabato
sera, ma anche il grido – più o meno soffocato – di chi vuol essere aiutato a trovare
una libertà di cui avverte nostalgia, e che il solo tempo libero non riesce a dare.
Significativo, da questo punto di vista, il quesito che alcuni anni or sono è stato posto
a giovani della riviera romagnola sul senso e significato del sabato sera. Le tre
indicazioni che hanno ottenuto il maggior numero di risposte sono state: “ un
romantico incontro a due”, “l’occasione per far vedere chi sono”. Come a dire: il
bisogno di riposo (evasione, festa), l’esigenza affettiva e la “fuga”, lo “sballo” per
esorcizzare un tempo piatto e subito da cui si scappa. Tempo libero così inteso
diventa non solo “grido”, ma anche sfida, voglia di negare il resto del tempo. I 200
morti ( la stragrande maggioranza ragazzi) di ogni sabato sera sulle nostre strade ( per
incidenti spesso imputabili a stili di guida incoscienti) o gli 80.000 giovani che ogni
week-end cercano evasione nell’ecstasy e in altre sostanze, sono solo la punta di un
iceberg.
Moralizzare o colpevolizzare non serve. Cercare di capire non vuol dire tutto
avvallare, ma nemmeno puntare genericamente il dito contro chi cresce. Prima di
accusare i giovani, per il fatto che molti di loro stentano ad assumere progetti e
responsabilità adulte, domandiamoci tutti quali responsabilità ci si è assunti – a
livello sociale, politico, culturale…- nei confronti dei nostri giovani.
Di loro ci si “preoccupa” molto, ma raramente ci si occupa; spesso i giovani sono
vissuti come “problema”, ma solo a parole vengono presentati come “risorsa”. Gli
investimenti educativi stentano ad inserirsi in una progettualità ordinaria e il più delle
volte non escono dalla logica dell’emergenza.
La fatica con cui il loro “tempo libero” diventa “tempo pieno”, è il segno per
eccellenza dell’essere – per molti giovani – “orfani”, lontani o, per dirla con un
termine usato e abusato, in condizione di disagio.
Che fare?
Nessuno ha facili ricette e nemmeno si possono vantare bacchette magiche o
soluzioni preconfezionate.
Restituire il forte equilibrio – a livello di tempo – tra occupazione e riposo è il
segreto della vita tutta.
Alcune indicazioni possono, però interrogare e pungolare.
Un aiuto concreto perché possano:
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- Abitare il territorio: perché il vivere non resti prigioniero del proprio privato, e
perché la responsabilità personale si trasformi in corresponsabilità per chi è più
debole e svantaggiato;
- Abitare la politica: perché il Bene comune non sia individuato da pochi “delegati”,
ma venga inseguito e realizzato con il concorso e contributo di tutti, di ciascuno;
- Abitare la vita: perché il vivere si opponga – con tutte le forze possibili – al
lasciarsi vivere. Perché la vita sia piena, vissuta, giocata con passione e , in una
parola, “Abitata” con la semplicità, il colore e il “disordine” che l’espressione
esprime.
Solo così l’attenzione al tempo libero dei giovani ci permette di rispondere al loro
disagio senza prediche o moralismi, ma con l’impegnativo compito dell’Abitare con
loro il tempo che insieme siamo chiamati a vivere.
Perché di questo dobbiamo essere certi: sulla questione del “tempo” siamo in cordata,
ciò che manca ad una generazione impoverisce l’altra e viceversa.
Nessuno può ritrovare il “suo tempo libero” da solo. Soltanto se proviamo ad
“abitarlo” insieme lo avvertiamo come tempo a nostra misura, “umano”, in una
parola “libero.
Alcol e giovani di PINO MARANZANO
Un discorso sulle differenze tra giovani e adulti nei loro rapporti con l’alcol, può
essere affrontato sotto tre profili: quello dei comportamenti, quello dei significati,
infine, della loro rappresentazione sociale (soprattutto nei media).
Sotto il primo profilo la ricerca sui consumi alcolici registra in modo abbastanza
chiaro un processo di modificazione del tipo e delle quantità delle bevande
consumate e delle modalità di assunzione. Per quanto riguarda i giovani, si osserva un
aumento notevole di consumo di superalcolici e in particolare di birra.
L’arrivo sul mercato italiano di bevande diverse ha comportato l’assommarsi di
modalità di consumo che fanno più riferimento all’evasione e all’affermazione di
un’identità spesso più marcatamente individualistica che ai valori della convivialità e
della festa.
Mentre l’adulto è schematicamente rappresentato nelle due categorie estreme del
consumatore capace di apprezzare il buon bere e dell’alcolista bisognoso di cure e di
rieducazione, molto più articolate sono le immagini dei giovani fruitori di alcol e del
significato che esso assume nel loro contesto di vita. Se si cerca di elencare i tratti
emergenti delle diverse rappresentazioni del rapporto tra giovani e alcol, appare
evidente la molteplicità di immagini e di valenze ad esso attribuite. Il peculiare modo
di usare l’alcol da parte dei giovani è di volta in volta:
??consumo à la mode, che consente la realizzazione piena della possibilità di
gioire più che per il gusto delle bevande, per le gratificazioni accessorie,
simboliche e materiali, che all’alcol sono solitamente correlate nella
pubblicità, nella quale il testimonial, rappresentato come fruitore di un bere
ricco di valenze positive soprattutto in ordine agli aspetti relazionali, è quasi
sempre giovane;
20
??consumo
associato alla festa, all’eros, alla bellezza, alla socievolezza, alla
appartenenza al gruppo;
??modo per affermare l’autonomia delle nuove generazioni dai modelli parentali,
per sfidare il mondo degli adulti ai fini dell’acquisizione di una propria
identità adulta;
??sperimentazione finalizzata alla conoscenza di sé, dei propri limiti, della ricerca
di accettazione ed omologazione con il gruppo dei pari;
??momento di rischio sempre e comunque, dal momento che è la sostanza e non
il suo uso a guidare il gioco, soprattutto trattandosi di giovani, per loro natura
incapaci di operare scelte e solitamente trascinati dalle tentazioni;
??fondamento di un possibile – ancorché marginale se comparato a quello in cui
si realizza l’incontro con le droghe definite illegali – legame di dipendenza,
che si instaura a partire dall’illusoria attesa di una soluzione a problemi
esistenziali o a carenze profonde nella struttura delle personalità che lo
sperimentano;
??potenziale premessa di esclusione sociale;
Nel caso di giovani adolescenti il consumo di alcol si inserisce facilmente nella
problematica di questa età: opposizione, ricerca di una nuova identità, momenti
depressivi, crisi narcisistica, cattivo umore, senso di incompletezza.
Il consumo si fa spesso in gruppo, nel week-end, balli, mentre dopo i 30 anni
l’alcolismo diventa più solitario.
Alcuni aspetti evidenziati da una recente ricerca su giovani e alcol in Piemonte
1. Nel comportamento giovanile si va affermando il modello anglosassone del bere:
consumo discontinuo di grandi quantità concentrate in alcune occasioni.
2. La tendenza è verso un livellamento nelle modalità del bere, o comunque nei
significati attribuiti al consumo, tra maschi e femmine.
3. L’ambito di specializzazione primario, rappresentato dalla famiglia, costituisce un
ambito ancora importante ai fini sia dell’apprendimento dei diversi modelli di
consumo, sia dell’attribuzione di significati alle diverse modalità di fruizione della
sostanza alcol.
4. Esistono tuttavia altri momenti importanti nell’esperienza del giovane, che
possono determinare mutamenti considerevoli nel comportamento, nonché nella
percezione soggettiva dei significati che può assumere l’alcol: l’identificazione in
un gruppo dei pari dotato di autonomia dal mondo degli adulti, l’appartenenza ad
un determinato contesto socio-culturale, l’inserimento nel mondo del lavoro.
5. Anche in relazione alla successione temporale con cui tali esperienze si compiono,
si può affermare che esistono dei momenti chiave, particolarmente significativi
nell’evoluzione dei comportamenti e degli atteggiamenti nei confronti del bere.
Tali momenti sembrano correlati con i momenti di frattura sia di tipo soggettivopsicologico-relazionale (15-17 anni), con l’affermazione del bisogno di autonomia
e del primato del gruppo dei pari, sia di tipo oggettivo-esistenziale-sociale (19-21
anni), con l’avvicinamento e, per alcuni almeno, l’ingresso nel mondo del lavoro.
21
6. Importanza rilevante nella modificazione delle abitudini alcoliche riveste
l’ingresso nel mondo del lavoro.
7. Fattori diversi possono orientare chi vive condizioni problematiche a livello
personale, familiare, ambientale nella direzione di un abuso di alcol, piuttosto che
verso sostanze illegali.
8. D’altra parte, a causa dell’ampia accessibilità non più solo dell’alcol ma anche di
un ampio ventaglio di sostanze psicoattive illegali, sembra venire meno la netta
differenziazione di consumi (e di sistemi di riferimento) esistente fino a non molto
tempo fa tra alcol e sostanze psicoattive illegali. Modelli polimorfi sembrano
affermarsi sia nelle situazioni di abuso saltuario, sia in quelle situazioni di
particolare problematicità individuale in cui, l’alcol assume nettamente il
significato di strumento di auto-medicazione, del tutto assimilabile e spesso
intercambiabile con altre sostanze (psicofarmaci, eroina, ecc.).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che il 9,6% del carico di malattia
nella popolazione europea sia prodotto dall’alcol ed il 15,6% di anni vissuti da
disabili. I costi diretti ed indiretti che la società paga a causa dell’alcol, in senso
generale sia di danni materiali a persone e patrimoni che in termini di costi sanitari,
possono essere stimati tra il 2 e il 5% del PIL di ciascuna nazione.
Sebbene sia di difficile valutazione sono sempre di più i dati scientifici che
stimano che le morti attribuibili all’alcol oscillano tra le 30.000 e le 50.000 per anno,
basta pensare che il 30% degli incidenti stradali e che il 10% di tutti gli incidenti sul
lavoro sono ascrivibili al consumo di bevande alcoliche.
Circa il 15% dei cittadini che si rivolgono al medico di medicina generale
(medico di base) presenta problematiche legate all’uso di bevande alcoliche e che il
5% risulta alcol dipendente.
Anche nell’area della violenza e dell’abuso sessuale di donne e minori l’alcol
risulta presente con una percentuale intorno al 12%.
Un altro aspetto estremamente importante è il consumo di alcol tra i giovani,
fenomeno questo fortemente sottovalutato a favore di una maggiore e sovrastimata
attenzione per altre sostanze. Tra i giovani è ormai diffusa l’abitudine orientata al
“binge drinking”, cioè al bere per ubriacarsi ed al bere per rinforzare gli effetti di
altre sostanze psicotrope. Inoltre:
?? il consumo regolare di bevande alcoliche interessa circa il 30% dei giovani. Tale
consumo giornaliero inizia in un range di età intorno ai 12/16 anni.
?? gli episodi di ubriachezza sono presenti in circa il 40% dei giovani;
?? il 20-25% dei giovani dichiara di aver avuto incidenti in macchina o motorino
correlabili al consumo di bevande alcoliche;
?? circa il 10% dei giovani presenta problemi e patologie compatibili con un quadro
di dipendenza da alcol;
?? la birra è la bevanda alcolica preferita dal 72-93% dei giovani;
?? il vino risulta la bevanda di inizio ed è presente come consumo nel 65-85% dei
giovani;
22
??
??
??
??
l’alcol viene provato per la prima volta in range di età che va dai 5 ai 16 anni
(media 10,5);
la modalità di primo approccio alle bevande alcoliche avviene nel 40% dei casi in
famiglia;
le occasioni di assunzione sono nel 40% in famiglia, per il 50% in
feste/discoteche/bar comunque extrafamiliari;
negli ultimi anni gli studi epidemiologici hanno sempre più messo in evidenza la
stretta correlazione del poliuso di sostanze psicostimolanti ed il consumo di alcol
tra i giovani.
23
LEZIONE 3
Il rischio area ponte tra normalità e devianza di Leopoldo Grosso
Il mondo della notte, il tempo del week-end, legati a una cultura del divertimento e a
modalità più disinibite e anticonvenzionali di espressione di sé, simbolo di
trasgressione e di avventura, costituiscono un’area ponte tra “normalità” e tentazioni
devianti, tra uscita libera dalla quotidianità con le sue ordinarietà e vincoli e
sperimentazioni spericolate di ricerca di identità e autoaffermazione. È in quest’area
ponte che emergono le condotte a rischio.
C’è un insegnamento che ci giunge dalla epidemiologia: “L’adolescente è un
individuo che si ammala poco, ma muore spesso”. Le cause di morte sono incidenti,
stradali e non, suicidi, omicidi e, da alcuni anni a questa parte, l’Aids, la cui infezione
ha molto a che vedere col prendersi dei rischi. Questo che cosa vuol dire? Che la
morte non è preceduta da una malattia, ma è riconducibile a dei comportamenti. La
medicina comportamentale ha bisogno di un approfondimento per capire se in realtà
ci si ammala, anche se non appare.
La sottovalutazione spesso consapevole dei rischi inerenti certe scelte e l’aumento
della frequenza di comportamenti ad esito auto ed eterolesivo tra i giovani sono un
dato di fatto che anche la letteratura scientifica specifica ha cominciato a
documentare. Già Cavalli e De Lillo nel ’93, poi Burzi nel ’97 testimoniano
dell’aumento di questa cultura del rischio e della frequenza dei comportamenti ad
esito auto ed etero lesivo.
Dall’approccio di tipo socioculturale, vogliamo fornire solo due suggestioni, che si
collocano come coordinate di sfondo. La prima riguarda la soggettività: si evidenzia,
soprattutto tra i giovani, una diffusione di una cultura di annessione consapevole del
rischio al dato esistenziale. L’assunzione del rischio è costitutiva di una cultura
dell’esistenza. Di conseguenza aumenta anche la percezione del rischio di non
prendersi rischi, nel senso che l’assenza di una certa capacità di rischiare comporta
una situazione di stallo e di insoddisfazione, conseguenza dell’evitamento del
conflitto che può condurre, in adolescenza in particolare, a parziali blocchi evolutivi.
La seconda ha a che fare con un dato oggettivo di confronto ed è in parte paradossale.
In apparente contraddizione con l’aumentata assunzione soggettiva di rischi, si
afferma l’evidenza, documentata da numerose ricerche, secondo cui in Italia il 70%
delle persone tra i 25 e i 29 anni vive ancora nella famiglia di origine (Eurostat,
1997).
Sono due aspetti che dobbiamo coniugare: l’aumento della cultura del rischio e la
protrazione di una dipendenza familiare, tra sicurezze, insoddisfazioni e vantaggi
secondari.
La letteratura sul rischio non è solo allarmistica. Esistono diversi percorsi per
raggiungere obiettivi di crescita e di costruzione di identità. Alcuni di essi mettono
maggiormente a rischio la salute fisica e psicologica. In questa prospettiva i
comportamenti a rischio sono considerati, prima ancora che come condotte
problematiche, come mezzi per raggiungere gli scopi evolutivi. Ne consegue che gli
24
elementi di rischio costituiscono anche opportunità di sviluppo, per cui debbono o
possono essere considerati come aspetti di uno stesso continuum piuttosto che poli
opposti. La contraddizione è interna. E, del resto, che la trasgressione abbia anche un
volto evolutivo lo sappiamo da tempo: nasce da un desiderio di cambiamento, che è
importante trovi il modo di indirizzarsi verso alternative non distruttive. Insomma,
non siamo lontanissimi dalla lezione di Winnicott, “la delinquenza minorile come
segno di speranza”.
Ma quali sono i rischi? Nel mondo della notte abbiamo un rischio arcinoto, che è
l’uso e l’abuso di sostanze, con i suoi effetti acuti e cronici. Molti studi, soprattutto
stranieri, ci dicono che l’andamento del consumo e dell’abuso di alcune sostanze
(l’hashish, ad esempio) è ben rappresentato da una curva gaussiana, sebbene
imperfetta: la maggior parte, dei giovani nell’arco di 7/8 anni tende a cessare il
consumo (gli altri si addentrano in percorsi in cui l’utilizzo di una sostanza si
sostituisce e compensa l’effetto dell’altra; e attraverso questa via alcuni diventano poi
dipendenti da sostanze più pericolose). Ma, al di là del rischio sostanza, di per sé ci
sono tre rischi in parte indotti e potenziati dall’uso delle cosiddette nuove droghe, e
impliciti nel modo di intendere il divertimento, la notte, il week-end. Sono
brevemente sintetizzabili sotto il titolo delle tre V: violenza, velocità, virus.
Della violenza gli epifenomeni sono certe brutalità osservate in occasione di
avvenimenti sportivi, le risse in discoteca, una psicopatologia dell’aggressività del
week-end. Episodi di cronaca e ricerche documentate tendono a evidenziare il ruolo
delle sostanze stupefacenti, cocaina in particolare, dietro tali comportamenti. Della
velocità il riscontro è fornito dagli incidenti stradali, principale causa di morte tra i
giovani; gli incidenti stradali “corrono” dalle trasgressioni banali ma molto diffuse,
come l’andare in moto senza casco, , passare col rosso, lo sporgersi dall’auto in corsa
fino alle prove ordaliche dell’andare in contromano. Il “down” delle sostanze,
spossatezza e stanchezza concorrono a diminuire capacità di attenzione , prontezza di
riflessi e percezione del rischio.
Terzo il virus: la questione riguarda le malattie sessualmente trasmesse; alcuni dati
interessanti di Fabrizio Schifano, responsabile di Sert a Padova, mostrano come tra i
consumatori di cocaina (non per via endovena), eterosessuali, coinvolti nel “mondo
della notte” l’aumento percentuale della diffusione del virus HIV risulti significativo.
Così per tutte le MST. Non bisogna poi dimenticare le gravidanze indesiderate, non
scordando che oggi a 15 anni uno studente su 10 ha già “debuttato” sessualmente, e a
16 anni 4 studenti su 10. Ma il dato significativo è che almeno la metà di loro non usa
condom. Su questa disattenzione convergono altre importanti ricerche, ma, senza
entrare nei dettagli, è importante sottolineare che l’uso di sostanze risulta concausa
significativa delle mancate precauzioni.
Proviamo a definire il comportamento a rischio come “un’azione intenzionale dagli
esiti incerti che implica la possibilità di conseguenze negative per il soggetto”. Si
evidenziano due elementi importanti nell’assunzione di rischio:
?? un’intenzione, che implica la consapevolezza di una condizione di incertezza e
delle possibilità dell’esito negativo dell’azione intrapresa;
25
?? la significatività personale della eventuale perdita, con il “peso” specifico che le
conseguenze negative di tale perdita assumono per ogni singola persona.
Non è solo la situazione oggettiva a determinare la gravità del rischio, ma il senso che
il singolo soggetto attribuisce all’idea di perdita. Nel rischio confluiscono quindi
componenti oggettive, ma anche e soprattutto soggettive.
Tentiamo di capire come i ragazzi si rappresentano il rischio, a partire da una
domanda: quali sono le dinamiche nell’assunzione volontaria di rischio da parte dei
giovani? Una ricerca condotta sui giovani ferraresi (ricerca Promoco) indica come il
rischio sia vissuto dai ragazzi: per il 31% di loro è paura, per il 28% sfida con se
stessi, per il 17% eccitazione, per il 14% elemento del vivere (il dato esistenziale di
cui si è detto), per un ridotto ma significativo 6% rischio significa provocazione
rispetto ad altri. L’assunzione di rischio è da intendersi come inizio di un percorso, il
prerequisito di un’esperienza altamente emozionale: la sfida è il punto di partenza.
Succedono poi paura, ricerca e ostentazione del coraggio, speranza di farcela,
sensazione di dominio (quando ci si accorge che ce la si può fare), eccitazione,
soddisfazione di sé (per esserci riusciti), e una sensazione finale, libertaria e
confortante, di ritrovata sicurezza.
È in questa sequenza che dobbiamo cogliere alcuni elementi psicodinamici. Il
presupposto è che l’azzardo non lo si incontra per caso. Tra provocazione e tentativo
di manipolazione delle circostanze nell’adolescente si assiste a un incrocio pericoloso
tra un compito evolutivo (rito di passaggio o svincolo fisiologico) da una parte e una
psicodinamica tra rischio e piacere/ebbrezza e trasgressione dall’altra. Fa ancora testo
in proposito un lavoro di Balint del ’59, Thrills and regression, da cui è enucleabile la
sequenza della ricerca del brivido. Balint elenca: “1) Il provare paura (ovviamente
conscia) di fronte al pericolo reale esterno; 2) l’esporsi volontariamente, con
intenzionalità, a tale pericolo e al timore che viene causato; 3) mentre si ha la
speranza di superare il pericolo e la dimostrazione di tollerare il timore, il pericolo
passa e si torna (con soddisfazione di sé) a una situazione di sicurezza”.
Sulle dinamiche psicologiche dell’assunzione di rischio offrono indicazioni
interessanti alcuni lavori sulle professioni ad altissimo rischio. C’è una ricerca
empirica di Lyng, del 1990, sugli sky divers, i “tuffatori nel cielo”, ossia coloro che si
lanciano con un paracadute ad apertura ritardata. Questo rimane forse lo studio più
significativo sull’assunzione volontaria di rischio.
Il rischio è considerato come hedgework, come “lavoro al limite”, come azione in cui
l’individuo negozia il confine tra la vita e la morte, tra lo stato di salute e una
possibile infermità permanente. Hedgework designa quindi quelle attività in cui il
soggetto riesce a sperimentare tutta la sua abilità nel controllare una situazione al
limite. Quali sono le sensazioni che produce? La ricerca dice: “un senso di
autodeterminazione e di autorealizzazione, che lascia una sensazione purificata e
magnified (amplificata) del proprio io. All’iniziale paura, che è sempre presente,
subentra successivamente un senso di gioia e onnipotenza”, per avere controllato una
situazione che gli altri definivano incontrollabile. L’alimentazione narcisistica è
evidente. Ma non basta. Si è riusciti a sopravvivere e si è avvertito un senso di
controllo totale sull’ambiente, nonché “di totale armonia con l’esterno”. I piloti che
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“provano” gli aerei, che ne testano le prestazioni, dichiarano di sentirsi una cosa sola
con la macchina, di esercitare un controllo mentale totale sull’apparecchio. Si
sviluppa così la convinzione di possedere una capacità fuori dal comune, anche se
non ben individuata: “the right stuff”., viene detto sbrigativamente in inglese. La
tendenza a sopravvalutare le proprie capacità è spesso il risultato della stessa
esperienza di hedgework.
Emerge al tempo una quota di “illusione di controllo” (variabile individualmente, ma
presente) che si sviluppa, e che può portare a dispercepire e a negare gli eventi
fortuiti rispetto a quelli legati invece alle capacità, tendendo a considerare tutti gli
eventi come controllabili (il caso viene sempre più escluso). Il fortuito è invece, lo
sappiamo, incontrollabile, indipendente dalle capacità dell’attore.
Quali sono i fattori e le azioni del protagonista che determinano questa quota
d’illusione di controllo? 1) la scelta dei materiali utili all’attività compiuta dal
soggetto, 2) la familiarità con i comportamenti richiesti dall’attività di hedgework (gli
allenamenti, per segmenti, e continuamente ripetuti), 3) il coinvolgimento iper attivo
dell’attore dalla A alla Z in tutto, 4) la presenza di una competizione. Ciò determina
“una aspettativa di probabilità di successo più alta di quanto la probabilità oggettiva
possa garantire”.
L’illusione di controllo è la percezione di totale dipendenza tra l’azione e gli esiti.
Tale percezione è erroneamente appresa. È il risultato di una generalizzazione
sbagliata dell’esperienza precedente dovuta ad un errore di presunzione. Tipica infatti
è la reazione che queste persone hanno alla morte di un compagno. Si rifiutano di
considerarla una disgrazia. “No, non è il caso; la causa dell’incidente è un errore
umano, l’inabilità della vittima”. Questo a riprova che non sempre un’esperienza
indiretta, anche se fortemente toccante, come la perdita di un amico, muta i
comportamenti. Ma questa è una vecchia storia.
Studi interessanti sono stati condotti anche su egocentrismo adolescenziale e illusione
di invulnerabilità. In questo ambito la contraddizione è tra l’acquisizione, oramai
consolidata, del pensiero logico-deduttivo a cui fa da contrasto un nucleo di
egocentrismo emotivo. Ciò che rende rischiosa la vita di un adolescente è la
conseguenza comportamentale diretta del suo sentirsi al centro del mondo. L’acuta
concentrazione su di sé può portarlo all’errata conclusione di essere al centro
dell’attenzione degli altri, non diversamente da come egli lo è dalla propria. È come
se pensasse a un costante pubblico immaginario sempre interessato alla sua vicenda.
Si rinchiude in una sorta di “favola personale” ed è assai disattento alla realtà
concreta, i cui limiti, quando vengono avvertiti, sono percepiti come soffocanti, e
quindi negati e incautamente “bypassati”. Col crescere, le esperienze della vita
avvicineranno sempre di più il pubblico immaginario a quello reale; c’è il
superamento della favola personale tramite l’esperienza di genere, come principale
cardine, dell’affettività e dell’intimità, del mutuo contatto e della confidenza con
un’altra persona.
Qual è invece il ruolo dell’immaturità nel calcolo delle probabilità quando si
assumono comportamenti a rischio? La motivazione a considerare le componenti più
accattivanti di una scelta, cosa comporta sul calcolo razionale dei rischi?
27
La capacità di immaginare tutti gli scenari delle possibili conseguenze è un aspetto
importante nel decidere. Altrimenti si decide senza essere in possesso di tutte le
informazioni. Legate a questo aspetto del pensiero sono le capacità di anticipare il
futuro e la consuetudine a ragionare in termini ipotetici. Quindi indispensabile per la
persona, di nuovo, è saper “influenzare l’influenza” del caso. La valutazione
dell’elemento di incertezza rende indispensabile l‘uso corretto del ragionamento
probabilistico; ed è qui che molti ragazzi sembrano invece vittime di un errore noto
come l’”errore del giocatore”. Essi considerano le probabilità di un evento come
cumulative anziché indipendenti fra loro (come di fatto sono). Il giocatore pensa:
“Più sono stato sfortunato, più deve ridursi il margine di sfortuna”, oppure “più
tempo passa dall’ultima uscita di un numero, più aumentano le probabilità che esca”.
Non diversamente i ragazzi: se si fa sesso raramente, si ritiene minima la probabilità
di rimanere incinta... La mancanza di esperienze negative rinforza l’errore cognitivo.
L’esperienza negativa diretta rende la percezione del rischio più accurata.
?? I limiti della teoria della scelta razionale
La teoria del rischio si è sviluppata sul calcolo delle probabilità ed è entrata a far
parte della teoria delle scelte. La risk analysis, il filone di studi nato negli anni ‘70, ha
applicato all’analisi del rischio i metodi della teoria economica (calcolo delle
probabilità e dei costi/benefici). Si basa sull’assunto che si agisce guidati da desideri
e convinzioni e che si cerca di soddisfarli tenendo conto dei limiti posti
dall’ambiente. Il limite in realtà è interno alla teoria: è attribuire a colui che si assume
il rischio solo le caratteristiche di un uomo razionale!
Per capire perché alcuni si espongono a forti rischi dobbiamo tenere presente che le
alternative di scelta sono valutate sempre in modo soggettivo. I costi e benefici di
qualunque scelta dipendono dalle preferenze individuali.
E nel valutare i costi/benefici di una scelta c’è sempre un bipolo: da una parte, la
valutazione concreta dell’atto (costi e benefici, logica economica), dall’altra (ed è
l’aspetto interessante) la “ricaduta” delle conseguenze di quell’atto nella valutazione
della propria vita presente e proiettata nel futuro: è lì il metro. Corriamo il rischio
altrimenti, se non facciamo attenzione a questa doppia valutazione, di una lettura
parcellare del rischio. Esso è assunto sempre all’interno di una sintesi tra la
valutazione dell’atto concreto e una complessiva coscienza di sé. Una metafora rende
bene l’idea di questo punto:
Un condannato a morte esprime l’ultimo desiderio: un rapporto di amore. In questa
circostanza per lui il sesso sicuro, il condom, non è un problema che lo sfiora…
?? Sensation seekers
Zuckerman definisce sensations seeker chi cerca il rischio, persone con un tratto di
personalità definito come ricerca di sensazioni. Tre sono i fattori collegati a questo
tratto: 1) la ricerca di avventura e del brivido tramite un desiderio continuo di
esperienze, anche attraverso uno stile di vita non convenzionale, 2) la disinibizione,
che consente la ricerca di sensazioni attraverso la varietà sociale e sessuale, 3) una
spiccata (e questo forse è il dato di sfondo) sensibilità alla noia, definita come
tendenza a evitare situazioni poco stimolanti, quindi un senso di inquietudine non
appena la si sperimenta. È il bisogno di sensazioni forti e diverse tra loro a spingere la
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persona a cercare attività ed esperienze rischiose, per la carica di eccitazione che esse
generano. Si precisa che ovviamente non tutte le attività di chi ama le sensazioni forti
sono necessariamente rischiose: alcuni si limitano ai film dell’orrore e alle montagne
russe (che già selezionano i loro fruitori). In questo quadro i diversi comportamenti a
rischio sono correlati: guida spericolata, gioco d’azzardo, fumo, abuso d’alcool e/o di
sostanze, sport rischiosi, ecc.
Alla base c’è un substrato biologico di forte reattività alla stimolazione: enzimi
neurologici e livelli ormonali. Ma altrettanto efficace è una considerazione di
Galimberti sulla psicodinamica nel cortocircuito tra limite e trasgressione: “Ciò verso
cui la trasgressione si scatena è il limite che incatena. La trasgressione è la
celebrazione del limite”. La potenza di questa sensazione di cui si è alla ricerca, mi è
capitato di coglierla nel trattamento di una persona eroinodipendente. L’assunzione
avveniva a periodi: il soggetto alternava momenti in cui “si faceva” in modo
compulsivo ad intervalli in cui trovava deboli tregue. Commerciava oggetti con
l’Estremo Oriente e nel corso di questi viaggi faceva, ovviamente, anche il carico di
eroina. “Quando riuscivo a passare la dogana”, mi diceva, “provavo una sensazione
di indicibile soddisfazione”. E in un tentativo di ricerca di riabilitazione un giorno mi
disse: “… se si potesse andare a fare lo sminatore da qualche parte...”. Cercava
l’equivalente socialmente riconosciuto. Mi sono reso conto in quel momento come la
ricerca di sensazione fosse decisamente competitiva con lo stesso craving, con la
stessa voglia di farsi, così come la soddisfazione di averla fatta in barba ai finanzieri
era almeno altrettanto di quella procurata dall’iniezione della sostanza.
?? Assunzione di rischio tra ricerca di senso e di autoaffermazione
È rispetto al problema della valutazione del più generale senso della propria vita che
si colloca la scelta del rischio. Quando non si dà troppo valore al proprio futuro, che
senso ha occuparsi di problemi contingenti (anche se possono recare danno)?
Qualcuno, nelle ricerche sociologiche, ha parlato del “padre di tutti i rischi” per
l’adolescente: che è quello di perdere i propri sogni. La sopravvalutazione
dell’esperienza concreta, capitalizzabile subito, determina una prevalenza della
dimensione del presente. Chi si assume dei rischi proietta le eventuali conseguenze
negative in un ipotetico domani lontano, e in quanto tale ritenuto meno probabile;
l’indebolimento della percezione del futuro, in questo senso, può spiegare certi
atteggiamenti giovanili verso la propria salute, di noncuranza, nonostante la piena
consapevolezza delle conseguenze della propria condotta. L’adozione di una
irrazionalità a breve termine è insomma conseguente a una strategia di adattamento
all’incertezza percepita dal contesto sociale, di cui si vogliono cogliere subito, e sino
in fondo, le situazioni favorevoli.
È dunque un problema di motivazioni, che per prudenza non chiameremo profonde,
ma di sfondo. L’assunzione di comportamenti a rischio può essere motivata dal
risultato oggettivo, legato a fattori contingenti quali la pressione sociale a rischiare,
se si vogliono scalare posizioni nella “gara della vita”, e/o da un guadagno
psicologico, dal momento che nelle condotte rischiose si scaricano tensioni, ansie
depressive e persecutorie. Le due motivazioni non sono sempre nettamente
distinguibili,
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È questa costante o ricorrente consapevolezza di fragilità del proprio esistere da parte
dell’adolescente che ne denuncia tutta la vulnerabilità, peraltro speculare alla sua
illusione di invulnerabilità. C’è ovviamente un diverso grado di vulnerabilità tra gli
adolescenti: una diversa capacità di tollerare l’incertezza di sé, i dubbi sul proprio
valore, l’esito dello sviluppo del proprio corpo. All’interno di questo vissuto si
innesta la psicodinamica nota. Alcuni più di altri sentono la propria immagine
minacciata, più forte il senso di disvalore, con un cocktail di emozioni che vi gira
intorno: vergogna, timore e rabbia. Il sé ne risulta mortificato e l’azione rischiosa
viene sentita a quel punto come azione vitale, che “riscatta”. Emergono pienamente le
radici affettive delle condotte rischiose. Le difese consuete non bastano più, non sono
più funzionali, subentra allora l’agito e aumenta di conseguenza l’area del rischio
possibile in cui viene scaricata la tensione conflittuale, viene innestato il tentativo di
riparazione di un narcisismo ferito (disvalore, poca autostima, ecc.).
Qual è il guadagno psicologico prodotto dall’affermazione immediata rispetto a una
condotta rischiosa?
Essa solleva le sorti della propria immagine, di fronte a sé e agli altri.. Allora si
esagera per valutarsi, per mostrarsi, per rivalutarsi. Non per farsi del male. E questo è
un punto importante, oggetto spesso di fraintendimento. Anche nel tentato suicidio, e
a volte nel suicidio stesso, non c’è sempre stretta equazione tra suicidio e desiderio di
morire. Un “nemico esterno” da ritrovare, magari solo in una parete da scalare a mani
nude, non ti fa sentire morto dentro. L’azione rischiosa è sentita come azione vitale. Il
rischio e la sua assunzione diventano allora espressione di un desiderio non di morire,
ma di vivere meglio, di rivivere e di rinascere.
Se a tutto questo si aggiungono, come tipici dell’adolescenza, meccanismi proiettivi
di scissione di parti stimabili e non stimabili di sé, per cui gli adolescenti
attribuiscono al contesto sociale (genitori, insegnanti, chi altro) un potere opprimente
e devitalizzante, al di là dei demeriti specifici, allora la fuga nella condotta rischiosa
può coniugarsi con un sogno onnipotente, giustizialista più che vendicativo nei
confronti di un mondo che non è “perfetto” e verso cui ci si scaglia contro e i
comportamenti spericolati vengono in qualche modo legittimati dal proprio sentire,
depresso e arrabbiato, a conseguenza di scoperte deludenti.
Ci si trova di fronte allora a un supplemento affettivo, un’aggiunta che può aggravare
i comportamenti rischiosi. Tutto questo è un po’ meno fisiologico nello sviluppo
adolescenziale, anche se diffuso, e fornisce motivazioni in più a comportamenti
cosiddetti normali dell’assunzione di rischio, che ripetiamo: la curiosità esplorativa,
la sperimentazione, il cimentarsi e il mettersi alla prova, il godimento della
sensazione di un’acquisita maggiore capacità di controllare la realtà, la sensazione di
eccitazione e talvolta di brivido.
I fattori di protezione.
Nella discussione sui comportamenti pericolosi che include il concetto di evolutivo
inerente ai compiti di sviluppo, la creazione di subculture giovanili centrate sulla
sfida e le provocazioni e un rischio “patologico” sintomo di problematiche personali
per alcuni soggetti, non possono essere lasciati fuori i fattori di protezione.
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Tutti i problemi inerenti alla predizione del rischio sono strettamente congiunti a
quelli della sua protezione. Per ogni bambino che, in base ai predittori di rischio,
presenterà l’esito negativo previsto, ce ne sono almeno altri due, che riusciranno a
padroneggiare in qualche modo la propria difficile situazione e almeno a non
sviluppare un disturbo diagnosticabile (fonsi, Bonino, Caproro). Ciò significa che, a
livello individuale, interpersonale e contestuale, è importante tenere conto delle
risorse, le quali esercitano una funzione protettiva nei confronti di un disagio che di
per sé, se non contrastato, aumenterebbe la probabilità di assunzione di
comportamenti a rischio. Sono i fattori di protezione che, combinandosi variamente
con i fattori a rischio, non consentono un esito scontato, benché prevedibile, di molte
situazioni difficili. Sono fattori di resistenza, che limitano la vulnerabilità di molti
ragazzi, che riducono l’esposizione ai pericoli, che “mescolano le carte” rispetto ad
alcuni esiti ritenuti certi sulla base di variabili più evidenti. È merito delle ricerche
longitudinali, degli studi nord-americani, inglesi e scandinavi, il mettere in luce
l’efficacia dei fattori protettivi. Il rischio risulta cumulativo, più c’è somma di fattori
problematici, più sono probabili gli esiti negativi. Tuttavia l’esito non è
scontatamente algebrico e sarebbe un’operazione ingenua (che ha corrisposto a una
fase ingenua dei percorsi di ricerca) pensare di predire uno stacco evolutivo
controbilanciando numericamente i fattori di rischio con i fattori di protezione
individuati. Non è solo una questione di quantità di stress e antistress. L’esito
evolutivo è meglio definibile come il risultato di un’interazione dinamica, variabile
nel tempo, tra fattori di rischio e protettivi, la cui qualità congiunturalmente può
impoverirsi come acquistare di valore, precipitando situazioni o capovolgendo
percorsi.
Quali sono i fattori protettivi più efficaci? Si annoverano due ambiti: l’ambito dei
processi cognitivi e l’ambito socio-relazionale. I primi sono i cosiddetti fattori di selfefficacy, di autoefficacia, che poggiano sulla convinzione individuale di poter contare
sulle proprie forze, sull’interiorizzazione di una fiducia nella proprie risorse.
Alcuni, al proposito, ricorrono al concetto di intelligenza emotiva, di stile cognitivo
ottimistico, di cui un indicatore è un qualche successo, non tanto scolastico, quanto
nell’area diversificata delle prestazioni. Gli psicologi di “locus of control” delle
scelte, degli avvenimenti e delle circostanze, per quanto possibile, collocato dentro di
sé e non affidato all’esterno, all’ambiente, al caso, al destino.
Gli altri fattori protettivi considerati efficaci rientrano nell’ambito relazionale.
Giocano molto le relazioni significative, i rapporti che veramente contano nella vita
delle persone: un genitore, un altro parente, un adulto significativo, un amico intimo,
una compagnia portata avanti dai tempi dell’infanzia. Risulta protettivo, come
sembrano indicare alcune ricerche, godere di elevata stima da parte dei coetanei. Una
relazione significativa, profonda, sicura, è uno strumento, un fattore, che consente
un’individuazione di sé e ci dà conto di una nostra amabilità.
Se da questa breve riflessione sui fattori protettivi intendiamo ricavare alcune
indicazioni preventive, emergono con forza due zone di intenso lavoro educativo:
sentirsi amati, percepire di essere amabili e acquisire fiducia in sé stessi, pensare di
volere, almeno un po’. Tra i due fattori c’è correlazione certa.
31
Allegato 1: IL RISCHIO E L’AVVENTURA da ABITARE LA NOTTE di M.T.
TORTI
Per i giovani l’andare in discoteca aderisce a due modalità prevalenti: una routine di consumo del
tempo libero e un’avventura da vivere con differenti aspettative e gradi di intensità. Già Simmel, in
un suo suggestivi saggio, aveva definito l’avventura come un corpo estraneo nella nostra esistenza,
ma congiunto in qualche modo al suo centro:” L’avventura è una parte della nostra esistenza che si
collega alle altre parti poste prima e dopo di lei. Anche se per una via insolita e molto indiretta,
l’essere fuori è una forma dell’essere dentro. Per questa posizione psichica l’avventura guadagna
con facilità i colori del sogno”. Sempre secondo Simmel, “un avvenimento diviene un’avventura
quando è suscettibile di questa duplice determinazione: avere un inizio e una fine ben definiti e
realizzare qualcosa che abbia una qualche rilevanza “; nella dimensione dell’avventura agiscono sia
azioni di conquista che comportamenti di abbandono, proprio come nel rapporto d’amore. L’aspetto
più importante dell’avventura è dato dal fatto che essa si configura come una forma che deve essere
vissuta; mentre il contenuto è meno qualificante, i significati si creano attraverso stati d’animo in
un clima di interazione empatica più volte verificato nei luoghi del ballo. Il concetto di avventura
implica anche la possibilità del rischio e dell’azzardo, una prospettiva che Goffman collega invece
alla sfera dell’azione, intesa come “quell’attività che è suscettibile di conseguenze problematiche e
che è intrapresa come fine a se stessa”. Rispetto ai mondi del ballo ci pare tuttavia più appropriato il
modello interpretativo elaborato da Mary Douglas secondo cui “ le istituzioni usano l’argomento
del rischio per avere un controllo sull’incerto comportamento umano, per rafforzare le norme e per
facilitare la coordinazione”; in sostanza, attraverso la definizione sociale del rischio, si stabiliscono
i confini della morale dominante. Il comportamento rischioso segna dunque il limite “tra ciò che è
lecito culturalmente fare e ciò che non lo è; analizzandolo si potrebbe scoprire le scelte valoriali del
sistema sociale.” Le pratiche e riti del ballo vengono spesso associati a molteplici fattori di rischio
(alcool, sostanze, condotte sessuali, guida pericolosa) e lo stesso sfondamento dei confini temporali
all’interno della colonizzazione della notte è letto in chiave trasgressiva. L’aura del pericolo assume
per i giovani una valenza ambivalente tra il fascino del proibito e la conferma della norma; gli spazi
e i luoghi di infrazione delle regole tendono infatti ad essere ben definiti e circoscritti nel contesto
di unas trasgressione puramente simbolica e rituale. E’ interessante ricordare che che, in base ai dati
dell’ultima indagine Iard, la dimensione del rischio pare aver assunto per i giovani una più marcata
capacità attrattiva. Se un tempo al rischio erano collegate valutazioni negative- era un disvaloreoggi si sta diffondendo un orientamento di diverso segno; d’altro canto, l’elogio della flessibilità e
del “rischio” sul mercato del lavoro, espresso più volte da autorevoli opinion leader sui giornali e in
televisione, contribuisce alla ridefinizione dei significati di una differente prospettiva esistenziale.
Tali atteggiamenti coinvolgono segmenti eterogenei dell’universo giovanile e possono indurre
pratiche che si esplicano in luoghi diversi, dalle occasioni di aggregazione legate alla scuola o al
lavoro a quelle del tempo libero, in casa, in discoteca o al bar. La disponibilità o la curiosità nei
confronti del comportamento rischioso preesistono e formano un canovaccio propedeutico alla
scelta di un luogo o di una pratica ritenuti adeguati allo scopo. Non è la discoteca in sé a proporsi
come “fiera degli eccessi”, ma sono i differenti tipi di investimento libidico dei frequentatori a
ricercare gli spazi più adatti per vivere il proprio sogno di avventura fino a inseguire le occasioni di
emozioni estreme per andare oltre i limiti dei confini biopsichici, come avviene anche nella pratica
di alcuni sport. E’ utile tuttavia sottolineare come le evidenze empiriche mettano in luce una
atteggiamento di maggiore franchezza e di minore autocensura da parte dei giovani, all’interno di
un sistema sociale che non offre più alcuna garanzia di lavoro e protezione. Per le nuove
generazioni, in fondo, laq vita stessa si propone come un’incognita e un rischio che si cerca di
affrontare con molti timori e incertezze. Siamo pienamente d’accordo con Renato Bricolo, quando
afferma che la tanto declamata crisi dei valori non è un modello interpretativo, “ è la diagnosi
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dell’ovvio”; per i giovani “determinati valori non esistono proprio più, perché sono già dentro a una
prospettiva di grande cambiamento. La loro esigenza prima è la fuga dalla paura”. Su questa
seconda affermazione siamo invece perplessi in quanto, sulla scorta della nostra verifica empirica,
abbiamo colto un orientamento di attitudine alla fuga, non necessariamente determinato dalla
percezione di una situazione di pericolo, ma proteso verso la fuoriuscita dalle routine quotidiane e
verso l’esplorazione - più virtuale che reale- di altri mondi sconosciuti. In questa logica troviamo
interessanti punti di analogia con i risultati di una ricerca qualitativa, relizzata in tre città italiane,
che pone in luce la prevalenza dei reticoli quotidiani nella dimensione spaziotemporale dei giovani,
“un presente” scriva Tina Lalli “assorbito in tutta la sua intensità e profondità; (…) la puntualità del
kairos- il tempo dell’occasione- sembra contrapporsi alla linearità cumulativa del chronos,
all’interno del variegato arcipelago giovanile si è infatti accentuata la presenza di presentificazione
temporale, messa in lice da Franco Garelli più di dieci anni or sono, e il tempo dell’occasione tende
ad assumere una centralità inedita, assoluta e autoreferenziale, all’interno di un involucro sociale
sempre più esile e atomizzato.
Le principali motivazioni della ricerca di divertimento risiedono infatti nella propensione ludica che
contiene il desiderio di evasione, di avventura, di rottura della monotonia quotidiana per vivere
spazi differenti e significativi di esperienza. Il significato etimologico del termine “intrattenimento”
discende dal francese antico entretenir. “tenere separato”, creare una soglia, uno spazio di transito
tra ambiti diversi di vita quotidiana entro cui possono compiersi i riti di passaggio. Secondo Van
Gennep tali riti tendono a separare determinati gruppi di persone dalla vita quotidiana, collocondali
in una sorta di limbo che rimarca un momento di sospensione e le attività del prima e il tempo e le
attività del poi, una soglia tra il vivere il sacro e il vivere profano. Lo spazio ludico diventa dunque
il luogo privilegiato di produzione e rappresentazione simbolica all’interno di un limen che
consente di giocare modalità e stili di vita differenti e opposti a quelli della tradizionale scansione
routinaria diruoli e di tempi. Il regno del possibile dove estrinsecare, con libertà e senza vincoli di
scelte irreversibili, le molte potenzialità dell’immaginazione e della fantasia. In tale prospettiva, lo
spazio della discoteca si può collocare su un orizzonte più iperreale che irreale.
E’ in questo senso che l’estensione del campo esperienziale si rivolge più alla categoria
dell’intensità che non a quella della quantità: per molti aspetti, si potrebbe parlare di esperienze di
flusso laddove con questo termine si intende la sensazione olistica che interviene in uno stato di
coinvolgimento totale. Ma tale esperienza è anche temporalmente e spazialmente definita, la
sperimentazione e l’immersione si concentrano entro il perimetro di particolari cornici, il rapporto
tra il “dentro” e il “fuori” del soggetto e della sua pratica sociale disegna molte possibili
configurazioni di transiti più che di approdi, di giochi di identità e di possibilità più che di
appartenenze totalizzanti e univoche. La performance del ballo all’interno della discoteca può
essere letta come un’attività riflessiva nel cui ambito agiscono un insieme di io , intesi sia come area
di aggregazione collettiva sia come espressione della pluralizzazione delle componenti dell’identità
individuale. Una specie di stanza degli specchi dove performance di svago e attività di vita sociale
si riflettono e interagiscono per co-fondersi in nuovi modelli di identità e di comunicazione.
Utilizzando l’approccio di Turner, si può dire che ci troviamo di fronte a un fenomeno liminoide nel
senso che questi riti, pur avendo un forte riferimento a un contesto collettivo, aprono molte
possibilità di espressione e di creazione individuale. Per l’autore le fasi liminali appartengono ai
contesti delle società semplici, sono caratterizzate da una maggiore aderenza e fedeltà alla
tradizione, mentre i fenomeni liminoidi tendono a essere idiosincratici, discontinui, riconoscibili e
riconosciuti entro cerchie sociali definite. Essi si collocano soprattutto nell’ambito delle attività di
svago e, a differenza dei fenomeni liminali, non si limitano a invertire, ma tendono a sovvertire
l’ordine simbolico e le norme sociali, tramite la satira, l’ironia, il travestimento iconoclasta o
mediante vere e proprie azioni di pirateria e di guerriglia dei segni. Nell’ambito dei riti notturni
della musica e del ballo il discorso procede attraverso una sintassi di incontri, di sguardi, di
sfioramenti empatici che permettono una rapida alternanza di momenti di fusione e momenti di
autoindividuazione, di giochi di appartenenza al cerimoniale collettivo e di performance
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individualizzate. All’interno di definite cornici spazialii e temporali i giovani agiscono componenti
di identità reali e virtuali e sono nel contempo protagonisti di un evento e attori di un rito. La
centralità della sfera del loisir nei nuovi riti di passaggio tra mondi di vita ordinaria e mondi di vita
parallela si asspcia ai significati della festa nella società contemporanea. Secondo Maffesoli” la
perturbazione dionisiaca, l’inversione esprimono il conflitto dei valori sempre presente nel corpo
sociale e nel contempo lo ritualizzano dandogli una forma accettabile e “passibile”. La festa è, in
qualche modo, il conflitto di passioni vissuto in maniera omeopatica”. L’aspetto interessante della
riflessione del sociologo francese riguarda il superamento dell’iconografia tradizionale di
contrapposizione tra l’armonia apollinea e l’effervescenza dionisiaca per mettere in luce la funzione
che i riti e le forme del “disordine” di Dioniso rivestono nella società attuale come elementi
vivificanti e innovatori. Della socialità, nuovi collanti dei legami sociali dopo il tramonto delle
appartenenze connesse al lavoro, alla classe sociale o all’ideologia. A questo potremmo aggiungere
che il ludus,la festa hanno sempre, al tempo stesso, invertito e confermato i valori dominanti
dell’ordine sociale esistente: in tutte le diverse epoche storiche, le maschere, il carnevale, i
trattenimenti del ballo hanno delimitato i confini di una trasgressione vissuta e agita soltanto sul
piano simbolico. Il disordine della festa ha assolto funzioni di assorbimento e di decantazione delle
tensioni derivanti dal lavoro, dalla vita sociale, dall’ambiente familiare che venivano così “prese in
cura” in modo omeopatico. E, da sempre, i mondi del ballo hanno subito censure e condanne perché
accoglievano i linguaggi liberi dell’incontro e dell’eros, i movimenti dei corpi intrecciati ai ritmi
della musica, le attese di emozioni e di ebbrezze al di fuori delle routine di tutti i giorni. Ma
l’etichettatura sociale ha sancito anche, per opposto, il fascino e il richiamo attrattivo dei luoghi del
ballo: là dove imperava il divieto, più forte si alimentava il desiderio di viveri i momenti di
liminarità rispetto alla vita ordinaria.
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LEZIONE 4
Il disagio sommerso
Il disagio in famiglia di Luigi Ciotti
Molte famiglie sono messe, e si collocano, ai "margini": ai margini della vita
produttiva, dei rapporti sociali, delle relazioni affettive, della partecipazione politica.
Oggi si può essere sul margine (che rappresenta l'anticamera dei processi di
esclusione e di disgregazione) per una varietà di motivi e percorsi anche molto
diversi. Il denominatore comune è rappresentato dal senso di solitudine che avvolge
la famiglia, dalla povertà di comunicazione con l'esterno e al suo interno, dalla
convinzione, maturata nei componenti più significativi, dell'impossibilità a cambiare,
dal timore per il proprio futuro.
Essere ai margini non significa però essere immediatamente emarginati. La
rappresentazione sociale più comune, lo stereotipo, della famiglia emarginata è oggi
non solo riduttivo, ma anche fuorviante rispetto alle tante forme, ai tanti diversi
risvolti che assumono i processi di esclusione.
La famiglia sprovvista economicamente, "multiproblematica", secondo il linguaggio
dei servizi sociali, sulla quale converge il peso di più di un problema
(disoccupazione, malattia, carcerazione, alcolismo, violenza, per quanto riguarda gli
adulti; evasione dall'obbligo scolastico, vandalismo, microdelinquenza,
"caratterialità", per quanto riguarda i minori) rende conto unicamente dei processi
disgregativi più esasperati, ma è solo in parte rappresentativa delle diverse e
complesse situazioni di sofferenza più nascoste e meno emergenti, variamente
articolate, tutte potenzialmente destinate a finire nell'imbuto dell'emarginazione
conclamata.
Quando si parla di marginalità, anziché di emarginazione, si intende una famiglia che
in qualche modo, a costo di una dura fatica e di un altrettanto costosa sofferenza,
ancora "tiene" rispetto agli esiti più negativi, ancora mantiene un "decoro" che si
esprime socialmente, anche se è meno remunerativo in termini di attenzione e di
integrazione sociale. E’ una famiglia in bilico, a cui basta molto poco perché si spezzi
l'ultimo filo di equilibrio che la mantiene ancora in contatto, almeno formalmente,
con la presenza e il mondo degli altri. La disgregazione familiare è spesso l'esito di
una marginalità che è "scivolata via", che si è trovata senza aiuti e senza attenzioni,
precipitata verso l'emarginazione conclamata.
La marginalità sociale della famiglia contribuisce alla sua disgregazione interna e la
disgregazione interna accentua ulteriormente la situazione di marginalità nel contesto
ambientale. Si crea cosi il circolo vizioso in cui un aspetto condiziona negativamente - l'altro, creando una spirale da cui è sempre più difficile uscire, una
spirale autodistruttiva.
Marginalità, esclusione, disagio, devianza o povertà sono fenomeni attribuiti in modo
superficiale quasi sempre al singolo, senza prendere in considerazione i legami
parentali e amicali che coinvolgono, con l'individuo in questione, anche la sua rete di
appartenenza.
Ciò che non può essere dimenticato è il fatto che tanto lo star bene come lo star male
sono processi ampi che includono, insieme alle responsabilità del singolo, anche ciò
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che lo circonda: il suo ambiente, quanti sono nel suo arco relazionale, con altrettanti
condizionamenti e parziali responsabilità.
Declinare la marginalità in termini rigorosamente individuali può essere un nonservizio, un'operazione di astrazione che non tiene conto dei legami affettivi,
relazionali, culturali, sociali, economici che fanno appartenere ogni persona a un
contesto molto preciso e ben identificato.
Non si tratta, ovviamente, di negare "il personale", quanto di soggettivo è presente, e
spesso anche determinante, in molti percorsi di emarginazione, quanto piuttosto di
non intendere la categoria "personale" come un sinonimo di "privato", scollegata
dall'intreccio di relazioni e di situazioni a cui è necessariamente connessa.
Ciò che vale in chiave interpretativa vale anche in sede riabilitativa: illudersi di agire
sul "frammento", senza anche interagire con il "tutto" delle relazioni sociali che
compongono i riferimenti della persona, è un rischio che può far si che gli sforzi
prodotti risultino sterili e inconcludenti.
Marginalità significa lontananza dal centro; da quella centralità che dovrebbe essere
riconosciuta a ogni persona e che rappresenta il presupposto del proprio star bene
individuale. La lontananza è invece vissuta come mancanza, carenza, privazione,
svantaggio. Simbolicamente la lontananza dal centro evidenzia un'assenza che nega
uguaglianza e pari opportunità.
L'espressione "agio" deriva dal latino adiacens, vicino, e indica quella prossimità
relazionale che crea benessere. Chi si trova ai margini e lontano, si sente lontano da
tutta una serie di attenzioni, di riconoscimenti, di tutele e di diritti che non percepisce
di avere e di esercitare. Essere ai margini significa soprattutto sentirsi lontani dalle
possibilità di vita dignitosa che altri possono permettersi, vuol dire vivere con
sofferenza il divario tra la propria realtà e le proprie aspettative. Essere ai margini
segnala il disagio - difficile da rimuovere - del non contare, di non sentirsi importante
per nessuno, dell'essere senza voce, reso debole. E’ un vissuto soggettivo, più o meno
fortemente correlato a una realtà oggettiva, a cui bisogna dedicare attenzione; se il
malessere non viene affrontato nel suo costituirsi e rafforzarsi è probabile che il
disagio si cronicizzi e si esprima in vera e propria esclusione o devianza.
Marginalità economica e materiale, marginalità culturale e relazionale sono aspetti
che, pur avendo origini e "matrici" diverse, confluiscono a caratterizzare alcuni
contesti sociali (la realtà di alcune periferie urbane, alcune zone e paesi d'Italia, alcuni
gruppi sociali...) e la storia personale di molti individui. Precarie condizioni
economiche ostacolano l'accesso alla cultura, alle fonti di informazioni e al miglior
utilizzo delle stesse. Il non sapersi gestire nel mondo delle conoscenze, il non
possedere i meccanismi delle procedure rende più deboli e con minore possibilità di
ricavare forme di reddito, di reimpostare attività economiche, di uscire dalle crisi di
settore...
Povertà economica e povertà culturale isolano e creano deficit relazionali, per cui ci
si difende in mondi e circuiti sempre più chiusi, autoreferenziali, senza più contatti
vivificanti con la circolazione di idee, opportunità, incontri, stimoli. Povertà culturale,
economica, relazionale, si intrecciano, si innescano e si rinforzano reciprocamente:
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nel momento in cui convergono nella stessa situazione non è più possibile parlare di
stati marginali, ma di vera e propria emarginazione.
Prima che si inneschi l'accelerazione della crisi che tenderà a trascinare l'intera
famiglia in uno stato di emarginazione, è necessario offrire un aiuto, non importa se
sotto l'aspetto affettivo-relazionale, o sotto quello economico; si tratta anzitutto di
disinnescare l'intreccio emarginazione-isolamento-solitudine-senso di disperazione
offrendo un riferimento, una possibilità di prospettive, una speranza, una presenza.
La soluzione che - superficialmente - appare più alla portata di tutti è il ricorso
all'allontanamento dalla famiglia, dal proprio ambiente di appartenenza, delegando a
specialisti della cura e dell'assistenza, con trattamenti residenziali, il compito di
gestire la situazione. E’ la scorciatoia del "contenitore": sia che riguardi gli anziani
non più autosufficienti, sia le altre situazioni di emarginazione. E’ la proposta che
appare spesso come l'unica possibilità di sopravvivenza perché libera e alleggerisce
dalle incombenze e dalle tensioni quotidiane che l'esclusione e l'emarginazione
generano.
Perché non si rendano croniche alcune situazioni, in cui diventa improbabile la
risposta ai bisogni e lo stesso esercizio dei diritti, il primo obiettivo da raggiungere è
il riuscire a creare relazione. Per fare ciò è essenziale una prospettiva di intervento "in
rete" che consenta di poter continuare ad avvalersi del contributo dei familiari e dei
parenti, senza accettarne la delega deresponsabilizzante, ma aiutandoli e sostenendoli
nelle fatiche e difficoltà quotidiane. Allo stesso modo le strutture del territorio di cui
fanno parte le situazioni di disagio e di emarginazione sono interpellate affinché si
propongano attivamente interventi e aiuti e non ci si nasconda nella coltre
dell'indifferenza e del "non impicciarsi".
Un lavoro, in altre parole, di collaborazione tra familiari, servizi pubblici, agenzie
private, realtà del volontariato e del mondo associativo, vicini di casa e singoli
cittadini che operano per rispondere alle situazioni di difficoltà, creando circuiti
relazionali per costruire nuove o più robuste socializzazioni, legami e vincoli di
sostegno.
Quando il "prendersi cura" agisce all'interno di queste dimensioni e modalità, si
determina una corresponsabilità che è il contrario della delega deresponsabilizzante
agli specialisti e alle istituzioni ad hoc; una corresponsabilità che abilita invece ad
abitare il territorio in modo diverso, che propone una più equa ridistribuzione delle
fatiche e che facilita movimenti di sviluppo e crescita collettivi.
Se la famiglia, con la sua difficoltà, non viene abbandonata, fatta "trottare" da un
servizio all'altro o gestita in termini puramente curativi e parziali da terzi, il disagio
che la caratterizza assume le forze della denuncia e della risorsa. Per tutti apre
interrogativi e questioni sociali a cui quel territorio è chiamato a dare una risposta.
Quando il bisogno interroga il diritto, a essere chiamate in causa non sono solo
l'assistenza, la cura e tantomeno la beneficenza, ma soprattutto la giustizia, intesa
come politica di redistribuzione di risorse, di attenzioni, di generosità verso chi è più
in difficoltà e in situazione di svantaggio.
Servizi per i figli, assistenza domiciliare per gli anziani, interventi specifici per le
diverse difficoltà, possibilità di aggregazione e di consulenza a largo raggio: la
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flessibilità delle proposte e la modalità di azione sono risposte che appartengono
all'ente pubblico e alla Comunità locale. Istituzioni che garantiscono maggiore
aderenza ai bisogni e una più pronta attenzione ai mutamenti.
Le rigide "standardizzazioni" degli interventi spesso non si adattano alle specificità
delle richieste ne ai loro mutamenti nel tempo. Il ruolo dell'istituzione pubblica,
tramite i servizi sociali e sanitari e d'attenzione alla persona, consiste, soprattutto, nel
promuovere, facilitare, sostenere, coordinare e verificare l'articolazione dei diversi
interventi a favore delle famiglie, senza necessariamente doverli gestire in prima
persona. "Promuovere" e "sostenere" sono i due termini tecnici utilizzati per indicare
tale funzione. I diversi attori degli interventi più specifici, quando non hanno bisogno
di competenze specialistiche, sono invece i gruppi, i cittadini attivi e responsabili, che
tramite l'associazione presente nel territorio, operano in stretto rapporto con l'Ente
locale. Se l'Ente locale, tramite un lavoro di sensibilizzazione, di formazione, di
sostegno e coordinamento, promuove il protagonismo dei propri cittadini e valorizza
le risorse familiari presenti nel proprio ambito, può contribuire a sviluppare una
cultura della solidarietà e della mutualità in antagonismo e in controtendenza alla
passività all'individualismo e all'indifferenza indotti dalla perdita progressiva dei
legami sociali e del senso di vicinanza.
Volontariato e auto-mutuo-aiuto sono risorse rispetto alle quali il Comune, l’Azienda
Sanitaria e le Regioni non possono prescindere nella definizione di uno stato sociale
che non voglia solo essere, nel migliore dei casi, asettica erogazione di servizi, ma
concreta attenzione alla persona, partecipazione e coinvolgimento attivo dei propri
cittadini, valorizzazione dei diritti e del senso di responsabilità di ciascuno.
I FIGLI DI GENITORI SEPARATI
In genere si individua nella famiglia che si separa, la dove marito e moglie non
trovano accordo e ormai la vita in comune è diventata incompatibile, una situazione
emblematica che getta un'ombra pesante sulla serenità dei figli, soprattutto se piccoli,
e ne rende più problematica la crescita. L'esperienza dimostra che molte separazioni
non riescono a tutelare e a proteggere i figli, non solo dal dolore, ma anche da
negative interferenze rispetto al loro sviluppo. Molte altre coppie, al contrario,
riescono, nel processo di separazione, a dare priorità all'attenzione per i bambini e
limitano le sofferenze a esso collegate (vuol dire che svolgono nei confronti dei figli
un ruolo più protettivo di quanto invece, spesso, non riesce a molte coppie conviventi
in perenne conflitto).
Gestire il conflitto: è questo il vero problema
La felicita della coppia, e dei figli, non dipende, purtroppo, dal fatto che non si riesca
a evitare la separazione. Le ricerche sui danni arrecati ai figli di coppie che litigano in
continuazione e che non si separano non sono state condotte in modo sistematico. Il
fatto importante, rispetto ai problemi di convivenza, ci sembra un altro. Al di la
dell'esito della vita di coppia (separazione, ridefinizione della convivenza e così via) è
molto importante come si riescono a gestire il conflitto e le modalità di
ricomposizione. Il non usare i figli nella contesa, il saper dare priorità alle loro
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esigenze anziché alle proprie sono atteggiamenti necessari per limitare i danni sempre
probabili in qualsiasi situazione di contesa protratta tra madre e padre.
L'obiettivo di ogni "buona" separazione è di evitare la pietrificazione del conflitto, la
sua degenerazione fino alla prova di forza e allo scontro frontale. Non si tratta di
eliminare il conflitto, ma di gestirlo nel possibile rispetto reciproco, con la
preoccupazione delle conseguenze e delle ricadute che una cattiva gestione dello
stesso può avere sui figli. Si tratta di riuscire a ridurre gli effetti distruttivi di un
conflitto non più "governato" dalle due parti in contrasto, che, pur in via di
separazione, continuano tuttavia a condividere una comune responsabilità genitoriale.
Essa non può essere totalmente separata e divisa in quanto ricondotta a ciascun
genitore e in quanto gestita in tempi e spazi differenti, perché, in genere, la
responsabilità dei genitori non è separata nella "testa" del bambino, che "riconnette",
che "reinteragisce", che modula nel suo immaginario e anche nella quotidianità la
relazione verso un genitore non disgiungendola dalla preoccupazione e dall'effetto
sull'altro. E’ importante, quindi, che, rispetto alla dinamica con i figli, i genitori
continuino a parlarsi e a confrontarsi.
E’ pertanto decisivo per entrambi i genitori il fare ogni sforzo affinché i figli possano
sempre contare sul sostegno, sulla guida e sull'affetto gratuito da parte del padre e
della madre "insieme", anche quando la loro convivenza non è più possibile. Ciò non
significa che le unioni di coppia vadano salvaguardate a ogni costo. Una volta che la
coppia verifica di aver tentato tutto il possibile per tenere in piedi un rapporto
soddisfacente, se prevalgono ingiustizie, umiliazioni, e perdita di ogni interesse
dell'uno per l'altra, se non c'è più un progetto in comune e la relazione non è fonte ne
di sicurezze né di benessere, la separazione é scelta inevitabile, anche nell'ipotesi del
danno minore. La separazione non é di per se una scelta di cui ci si debba vergognare,
ma un'eventualità implicita in ogni unione.
Senza sottovalutare le sofferenze che la separazione comporta per i figli, é bene
mettere in rilievo che la vera differenza, per quanto riguarda i carichi di malessere e
di disagio, non é tra figli di separati e quelli di coppie unite, ma tra figli di coppie
gravemente conflittuali e non. E’ comunque la responsabilità e la maturità dei
genitori che fa la differenza. I figli di genitori in conflitto non sono di per sé una
categoria su cui puntare i riflettori, ma è necessario farlo se l'odio, il risentimento e la
disperazione di padre e madre degenerano in comportamenti violentemente
conflittuali e incivili.
La comparsa di difficoltà emotive e psicologiche nei figli non è attribuibile alla
separazione di per se, ma alle modalità della stessa, così come alle modalità di una
convivenza che non lascia margini di tranquillità e di sicurezza emotiva.
La rottura totale della comunicazione dei genitori, lo stato di guerra, fredda o calda
che sia, che ha come obiettivo di arrivare alla vittoria dell'uno sull'altro, sono
atteggiamenti che non vanno nella direzione di una separazione responsabile.
Rispetto ai figli, è importante continuare a dialogare, collaborare e progettare insieme
tutte le questioni importanti. Non dimenticando che i figli, proprio in quel periodo di
difficoltà, hanno particolare bisogno dei genitori, si tratta di trasformare un'esperienza
di per se negativa e portatrice di ansie in un tentativo di dimostrare ai bambini e ai
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ragazzi che si può affrontare con responsabilità, senza distruggere, ma con spirito
costruttivo anche le situazioni di alta sofferenza interpersonale.
In ogni separazione, c'è sempre un genitore più fragile dell'altro. Chi subisce ed è
costretto ad accettare, nei fatti, la separazione, può reagire, soprattutto in alcuni
momenti, senza tenere conto del superiore interesse dei figli. E’ importante che il
genitore che si trova in una situazione più forte (perché non e stato abbandonato) non
ceda alla tentazione di approfittare delle reazioni spropositate, dei comportamenti
incoerenti, dei vissuti provocatori, e a volte vendicativi, del marito o della moglie in
maggiore difficoltà. Bisogna che il suo comportamento assuma in qualche modo
anche la responsabilità venuta meno, al momento, dell'altro, continuando a rispettarlo
e anche a "proteggerlo", perché proteggendo lui o lei, esercita indirettamente una
protezione anche nei confronti dei figli.
Una volta attuata la separazione, bisogna che, qualunque sia la configurazione della
collocazione dei figli - affidati a un genitore e non all'altro, gestiti più dall'uno che
dall'altro quando l'affidamento è comune - essa avvenga nella totale chiarezza e sia
accompagnata da una regolarità assoluta nell'impegno della relazione da parte del
genitore meno "titolato" (in termini giuridici e per la più limitata disponibilità di
tempo).
Un bambino che conserva entrambi i genitori, pur separati, non ha niente a che
spartire con un bambino orfano di affetti e di rapporti. Un genitore non si perde
perché non é più convivente. Entrambi i genitori, quello con cui abita, e anche l'altro
con cui condivide solo qualche pomeriggio o fine settimana, devono poter continuare
a essere (e a volte diventare) punto di riferimento, fonte di sicurezza e di
gratificazione emotiva. Perché ciò sia effettivamente possibile, di nuovo è necessario
che la relazione coniugale non interferisca con la relazione genitoriale. Riuscire a
tenerle distinte, da parte di marito e moglie, significa ad esempio riuscire a fare dei
momenti in cui il bambino è presso l'altro non momenti di ansia e di scontro, ma
momenti di sostegno reciproco, di fiducia e di collaborazione. Di nuovo, se i bisogni
dei figli sono posti al primo posto, devono essere questi a regolare gli orari di visita o
di spostamento, i tempi e i luoghi dello stare con l'uno o con l'altro, all'interno di un
progetto comune a loro favore.
Se non si riesce a raggiungere questo obiettivo, il rischio che la separazione dei
genitori abbia ricadute negative sui figli aumenta. Le famiglie separate hanno allora
più probabilità di configurarsi come famiglie spezzate, nel cuore dei genitori e nella
vita psichica ed emotiva dei bambini.
Se, di fronte al bambino, si incolpa acriticamente l'altro coniuge della separazione, se
lo si denigra apertamente e implicitamente, se si cerca la complicità e l'alleanza del
minore contro il coniuge, si tende, volontariamente o meno, a sovraesporre il
bambino alla sofferenza adulta e a mostrare un genitore quale nemico, poiché causa
della sofferenza dell'altro. I condizionamenti sui figli, volti a scavare fossati
relazionali verso chi si vuole "punire", passano attraverso meccanismi sottilmente
perversi.
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LE FAMIGLIE TERZOMONDIALI IMMIGRATE
Le motivazioni che spingono giovani e non più giovani a cercare fortuna in Europa e,
negli anni recenti, nel nostro paese, si rapportano a diverse esigenze, prima fra tutte la
necessità economica, ma non solo. Il bisogno di Occidente, l'attrazione che esso
esercita nell'immaginario dei più giovani si coniuga con il desiderio di cimentarsi in
un'avventura difficile, con l'illusione di esserne vincenti; spesso con la
sprovvedutezza e l'ingenuità. In altri casi cerca un rifugio politico; altre volte si
seguono semplicemente le orme dei fratelli maggiori e dei parenti Ambizione,
ingenuità, ottimismo, stato di bisogno, fiducia in se stessi sono ingredienti soggettivi
di un impasto di motivi che hanno come motore di fondo lo squilibrio economico tra
nord e sud del mondo, i diversi livelli di consumo, le diverse aspettative di vita e di
durata della stessa.
Famiglie lontane
Per coloro che approdano in Italia e rimangono clandestini non ottenendo con
l'attività lavorativa il permesso di soggiorno, la famiglia non può che rimanere
lontana. Poiché l'obiettivo è il ricongiungimento in Italia, alla distanza geografica
s'accompagna sempre di più un'altrettanta distanza temporale al cui disagio si cerca di
sopperire con lunghe telefonate intercontinentali di cui sono testimoni, la sera e la
notte, le cabine telefoniche della città.
Tornare indietro non appare possibile: il ritorno rappresenterebbe una sconfitta
personale, la rinuncia al proprio progetto, il riconoscimento di un fallimento. E’
anche opportuno far sapere, all'altro capo del filo, che le cose non vanno troppo male,
e a riprova della propria intraprendenza, inviate ogni tanto qualche somma in conto
corrente postale. Il rapporto è vivo ma è vissuto nella lontananza. Si nutre di
aspettative; aspettative di successo economico a cui è legata l'aspettativa del
ricongiungimento. Da una parte e dall'altra le attese sembrano, di volta in volta,
accorciarsi, per poi riallungarsi improvvisamente: manca sempre qualche aspetto
ritenuto decisivo per un ricongiungimento senza troppi rischi.
Quando la famiglia si ricompone
Quando ciò avviene, i fratelli e le sorelle, o l'intera famiglia acquisita, si ricongiunge
in Italia e l'obbiettivo pare raggiunto.
Comincia allora, in realtà, un lento, lungo e complesso periodo di adattamento che ha
a che fare con la ricerca di un'abitazione idonea, L'apprendimento della lingua e la
familiarizzazione con modi di essere e un ambiente completamente diversi da quelli
di provenienza. La mediazione culturale, la capacità di trovare le giuste misure, o le
migliori possibili, nel conciliare senza costi eccessivi il proprio stile di vita con i
codici comportamentali propri del territorio di destinazione. Nel caso in cui
l'appartenenza etnica, culturale e religiosa non consenta le mediazioni necessarie, il
conflitto con l'ambiente assume toni aspri e l'esito può imboccare due diverse strade:
un'accettazione passiva della logica del mondo dell'altro (non ha importanza se giusta
o "prepotente"), oppure una reazione polemica e recriminante che, sulle lunghe
distanze, conferma i pregiudizi in corso.
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Al di la delle diverse situazioni concrete, spesso di sfruttamento e abuso ben oltre le
soglie della legalità che costituiscono l'ordinaria quotidianità di molte persone
immigrate (affitto di stanze sovraffollate a prezzi esosi, lavoro in condizioni di
particolare disagio e senza tutela, atteggiamento di rifiuto e intolleranze e cosi via) e
che trovano passiva rassegnazione o scatenano ribellione e protesta, al di la,
viceversa, di altre situazioni minoritarie, ma in significativa crescita, in cui
comportamenti illegali delle persone immigrate trovano riscontro in complicità
mafiose e convergenze di interesse della piccola e media criminalità della città
(spaccio di sostanze, prostituzione, furti e cosi via); al di la delle forme specifiche e
delle complicazioni che di volta in volta può assumere la realtà dell'inserimento, il
nodo ineludibile rimane il conflitto interetnico tra italiani e stranieri, tra bianchi e
persone di colore.
Pensare che il conflitto sia solo una componente del fenomeno immigratorio,
un'espressione marginale o transitoria, nonché sgradevole, dell'innesto di minoranze
etniche nel tessuto sociale di un'altra popolazione, significa illudersi in un'immagine
rassicurante e ottimistica delle realtà, cullarsi nella ragione delle buone intenzioni e
nell'autocompiacimento dei buoni sentimenti. Il conflitto è strutturale al fenomeno
immigratorio; lo sottende e lo accompagna in quasi ogni situazione e non è
sopprimibile. Bisogna imparare a riconoscerlo e prevenirlo e, soprattutto, a gestirlo.
La capacità di gestire il conflitto è il presupposto per evitare il diffondersi della
cultura del pregiudizio e dell'intolleranza, il rinchiudersi difensivamente nel cerchio
della propria etnia, lo scontro frontale tra due realtà contrapposte e non comunicanti.
Il conflitto non risparmia alcun momento e alcuna situazione della vita
dell'immigrato. Coinvolge lui, la moglie, i figli. Dal lavoro alla casa, dall'uso del
territorio al rapporto coi servizi, il confronto-scontro tra due culture è all'ordine del
giorno. L'inserimento scolastico dei bambini non è indolore. Il colore della pelle, la
differenza visibile dei tratti somatici, i propri modi di essere e di fare, li espongono al
confronto immediato, al giudizio istantaneo che scaturisce dalla mancata
rassomiglianza, all'automatismo della categoria di straniero quale prima marcia
ingranata da un pensiero impegnato nel relazionarsi con il diverso.
Il modo di intendere il rapporto tra uomo e donna, il ruolo riservato alla moglie, la
stessa concezione della sessualità, nel confronto con lo stile di vita e le aperture
occidentali, non possono non risentirne e in qualche modo venirne contaminati. Le
ripercussioni avvengono sia all'interno della coppia, sia tra la coppia e il mondo
esterno che la circonda. Nel primo caso l'influenza occidentale mette in discussione la
distribuzione del potere tra marito e moglie, evade la sicurezza che la tradizione
assicura ai diversi ruoli familiari, può creare tensioni con ricaduta sul sentimento di
identità e costituire una minaccia per un'immagine definita di se. Nel secondo caso il
conflitto si innesca sullo scontro forte tra i valori, sui punti di non compatibilità tra
due culture che devono fare i conti con il vivere lo stesso territorio, il fruire degli
stessi servizi (su questi temi si rinvia a quanto detto nel cap. IV).
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IL DISAGIO PSICHICO
L'insorgere di uno squilibrio psichiatrico in un componente della famiglia mette
immediatamente a prova le capacita e le risorse del nucleo convivente.
L'esordio può essere improvviso e inaspettato, oppure lento, progressivo e largamente
previsto. Nella seconda situazione la famiglia ha, in qualche modo, piano piano
"preso le misure" rispetto alle sofferenze di un suo componente, e ha trovato un
adattamento.
Definendo progressivamente, per tentativi ed errori, le modalità e gli equilibri di una
nuova convivenza, apprendendo, per esperienza
diretta, gli atteggiamenti più idonei ed efficaci di fronte alle crisi, la famiglia impara
a relazionarsi con la malattia, a gestirne la quotidianità, a non averne paura. Di fronte
a un esordio improvviso dello squilibrio mentale prevale invece la reazione di panico
da parte dei familiari, totalmente sprovveduti e sprovvisti di mezzi per affrontare la
nuova situazione.
Spaventati di fronte alla crisi e alle sue manifestazioni, molti familiari si ritraggono,
delegano l'intervento totalmente agli specialisti, oppure non comprendono la radicale
diversità dell'esperienza del malato mentale e continuano a interpretarlo e a
rapportarsi con lui come se volesse, intenzionalmente, comportarsi in tal modo,
cercando di correggerlo e di convincerlo a fare diversamente.
Il tipo di problematica evidenziata pesa non poco sulla capacità di reazione e di
accoglienza dei vari membri familiari. La depressione, la sindrome dissociativa, gli
atteggiamenti schizoidi e aggressivi richiedono atteggiamenti diversificati di reazione
e richiedono, alla famiglia, aiuti anche molto dissimili e dal peso specifico differente.
A volte, del tutto involontariamente, è all'interno del nucleo familiare che si generano
la sofferenza e la patologia. Una comunicazione distorta, un sistema di relazioni
confuso o perverso, segreti e nondetti che pesano come macigni, complicità degli uni
a danno degli altri, possono far si che il componente più debole e più fragile
soccomba o cerchi di sottrarsi all'esposizione continua a una situazione di sofferenza
utilizzando modalità disadattive che, tuttavia, in qualche modo, lo difendono e lo
proteggono. Il disagio, da sotterraneo e implicito, ma persistente e maligno, diventa
improvvisamente manifesto e assume la forma conclamata della malattia mentale.
Ciò, improvvisamente, ristruttura e ridefinisce i rapporti familiari, crea l'evento
intorno al quale la famiglia, pur con modalità spesso involutive, troverà un nuovo
equilibrio, senza mettere in crisi l'assetto complessivo e la sicurezza dei rapporti.
E’ molto importante evitare che l'intera famiglia rimanga contagiata dalla
problematica psichiatrica. L'alleanza tra la famiglia e i servizi è essenziale per il
miglior esito possibile del trattamento. La psicofarmacopea può giocare un ruolo
importante nella cura, soprattutto nel contenimento delle crisi acute.
Il processo riabilitativo e di re-integrazione sociale è lento, nulla affatto scontato, e
richiede invece l'aiuto di tutti e della famiglia in particolare. La rete dei servizi è
essenziale nell'evitare l'isolamento: l'isolamento del paziente all'interno delle mura
domestiche e l'isolamento della famiglia che lo ha internato in casa.
Il ruolo delle cooperative di solidarietà sociale, delle borse lavoro, delle
incentivazioni abitative è fondamentale nel limitare gli aspetti di alienazione propri
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della malattia mentale. Nel momento in cui la società risponde con attenzione e senso
di responsabilità, evitando la segregazione negli ospedali psichiatrici e nelle case di
cura che ne riproducono la logica, il peso della gestione di situazioni difficili e a volte
anche pericolose non può essere lasciato solo sulle spalle delle famiglie. Una politica
di aiuto economico, psicologico e di opportunità di integrazione è indispensabile
affinché le famiglie non debbano soffrire di quella stessa malattia e di quello stesso
senso di isolamento e preclusione di cui patiscono le persone con problemi di
equilibrio mentale.
Nuove forme di emarginazione di L. Grosso
Il bambino grasso ha difficoltà supplementari con cui fare i conti, più pesanti della
sua stessa obesità.
Le ripercussioni relazionali e psicologiche sono precoci. Se a quattro-cinque anni, in
scuola materna, un bambino inizia a manifestare sovrappeso, a sette-otto, nel primo
ciclo elementare, l’obesità risulta radicata e conclamata. L’immagine corporea mina
l’inserimento del bambino nella comunità dei coetanei. Il rimando dei compagni di
giochi e di classe può essere crudele e spietato. Le forme eccessivamente rotonde e
flaccide del corpo non forniscono una buona carta d’identità. Soprannomi e
nomignoli spazzano via nome e cognome. Le ore di ginnastica, che mostrano in
palestra le difficoltà di movimento e il deficit di abilità nei giochi di squadra,
rialimentano ciclicamente dinamiche di denigrazione e di esclusione che gli sforzi
settimanali per rendersi simpatici, generosi e interessanti cercano invano di
contrastare. Il bambino grasso è un bambino che soffre ben prima che subentrino i
danni fisici dell’obesità. Esposto alle cattiverie dei compagni egli è costretto a lottare,
a scuola come in tutti gli altri luoghi di aggregazione tra bambini. Un’orgogliosa
reazione aggressiva a difesa della propria autostima, risulta controproducente:
esaspera il conflitto, porta all’“uno contro tutti”, rischia di rendere ancora più
evidente il motivo che alimenta lo scherno. Per questa via si può anche diventare
vendicativi imboccando un vicolo cieco, lastricato di astio e risentimento.
Più spesso il bambino grasso adotta vere e proprie strategie di accettazione, spesso
inconsapevoli, in una sorta di lotta per la sopravvivenza psicologica, che gli
garantisca una sufficiente serenità nello stare con i compagni. Può “far buon viso a
cattivo gioco”, ridendo per primo delle proprie fattezze, accentuando goffaggini per
divertire i coetanei e conquistarsi degli amici, in un percorso che avrà successo se dal
ruolo di clown e di buffone della classe riuscirà a sviluppare umorismo e simpatia, a
prescindere dal proprio peso. Oppure indosserà i vestiti del bambino buono e
servizievole, in ascolto e in soccorso dei dolori altrui, premuroso e attento; se non si
fermerà ai più scoperti tentativi iniziali di “comprarsi” le neutralità e la benevolenza
dei propri pari, mettendo a disposizione astucci e offrendo caramelline, sarà
apprezzato dai compagni più sensibili, in grado di andare oltre l’etichetta del
ciccione. Tra i maschi, ma non tra le femmine, il bambino grasso che associa al
proprio sovrappeso una costituzione robusta, può vantare una prestanza fisica da
“peso massimo” e guadagnare, in virtù della sua forza, una considerazione e un ruolo
all’interno del gruppo dei pari, oppure ergersi a difensore delle bambine che lo
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chiamano in soccorso quando subiscono le angherie dei compagni maschi. La
strategia più remunerativa poggia, per i più competenti, sull’investimento nello
sviluppo di abilità che, a medio e lungo termine costituiranno motivo di
apprezzamento e di successo. Individuare i propri talenti, crederci, sostenerli con
applicazione quotidiana, è fatica a cui non tutti i bambini sono in grado di dare
continuità, anche quando sono circondati e sostenuti da un buon clima familiare.
Talvolta non si riesce a trovare una modalità di convivenza con un mondo in
ricorrente guerra contro le proprie sembianze, né si perviene a un accettabile
compromesso, in grado di assorbire denigrazioni brutali ma anche sottili evitamenti,
in cambio di una cerchia ristretta di relazioni rassicuranti e di riconoscimenti su altri
aspetti di sé. Allora il rischio, sempre in agguato, che essere grassi si trasformi nella
convinzione di essere “tutti sbagliati”, può divenire un pericolo reale. A quel punto
vergogna, colpa e disistima di sé prendono il sopravvento. Ci si rinchiude, in casa e in
se stessi, si rinuncia alla lotta per un proprio legittimo posto tra i compagni, ci si
intristisce, ci si aggrappa a passatempi solitari e che non inducono movimenti, (TV,
videogiochi, computer…), ci si consola con le piacevoli compensazioni alimentari
fuori pasto. Il pregiudizio sociale che avversa le persone grasse, che le vuole ignave e
causa del loro aspetto, deficitarie nella volontà, perché incapaci di controllare il
comportamento alimentare, trova conferma nello sviluppo delle situazioni
problematiche. Quando ci si sente schiacciati dal proprio peso e sconfitti dalla propria
immagine corporea, si fa forte la tentazione di gettare la spugna e ci si rifugia
nell’unica gratificazione certa: cioccolato, patatine, merendine, che riempiono i vuoti
relazionali e saturano la “fame” di una diversa identità.
È ormai un circolo vizioso, difficile da interrompere, in cui causa ed effetto diventano
indistricabili: l’obesità procura isolamento e comportamenti di chiusura, il sentirsi
non desiderati e poco “appetibili” nelle relazioni genera appetito alimentare
compensatorio.
La spirale negativa è costituita dall’avvicendarsi di frustrazione, assunzione di cibo,
disprezzo di sé. In adolescenza l’incontro e il rispecchiamento tra i sessi provoca crisi
ulteriore e incrementa la sofferenza. Si è irrevocabilmente bocciati in seduttività e le
incertezze su se stessi si estendono all’identità di genere che non trova conferma nello
sguardo interessato dell’altro sesso.
Il ruolo della famiglia nel prevenire l’obesità, nel contenerne il “danno” psicologico,
nell’aiutare a risolvere il sovrappeso del figlio, può risultare decisivo.
Genitori inconsapevoli, con le proprie abitudini alimentari erronee, possono condurre
il bambino a ingrassare.
Come per la socializzazione all’alcol, la famiglia che non si preoccupa dei figli che
fanno un consumo moderato di vino o birra durante i pasti, può indurre una
iniziazione precoce e instaurare nocive consuetudini al bere, così il comportamento
alimentare del bambino può essere orientato da scorrette abitudini nei confronti del
cibo espresse dai genitori.
In alcologia, rispetto al consumo di bevande si distingue tra culture familiari
“asciutte” e culture familiari “bagnate”. Analogamente rispetto all’assunzione di cibo,
le culture familiari possono essere improntate all’essenzialità e alla sobrietà, come
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all’abbondanza e all’eccesso. Alle famiglie con abitudini alimentari erronee manca
una sufficiente informazione sull’adeguata assunzione di cibo, così come sui rischi di
una vita troppo sedentaria.
L’istruzione alimentare non è un bene posseduto da tutti. Alla confusione e mancanza
di informazione, si aggiungono i condizionamenti e le seduzioni del mercato con
spinte consumistiche che contano non poco nella diffusione dell’obesità in tutto il
mondo occidentale L’eccedenza dell’offerta si sposa con le propensioni al consumo e
in un clima di maggiore benessere materiale si tende a non accorgersi, a considerare
“naturale”, se non addirittura un segnale di salute, il sovrappeso del bambino di
quattro-cinque anni. Non ci si interroga sull’interazione tra predisposizione genetica
all’obesità e abitudini alimentari che la favoriscono. Non ci si pongono domande sul
riflesso dell’immagine corporea nella costruzione dell’identità del bambino. Non ci si
chiede quale sia la qualità dei rapporti con i coetanei allorché l’esigenza di
socializzazione e la scuola impongono un confronto diretto. Si colgono tardivamente
i segnali di sofferenza muta espressi dal figlio tramite comportamenti passivi ed
incupimenti improvvisi. Si fraintendono gli scoppi di aggressività, confondendo il
pretesto che li scatena con la causa che ne è alla base. E poi, quando l’obesità è
conclamata, ormai evidente agli occhi di tutti, come si interviene? Da un
atteggiamento di trascuratezza e di indifferenza si rischia di approdare all’eccesso
opposto, all’accanimento sul controllo del cibo, alla dieta spartana e al movimento
forzato, al rimprovero ossessivo ogniqualvolta si scopre la trasgressione di una
“coccola” alimentare autogratificante. Si rischia in tal modo di innestare dinamiche
familiari perennemente conflittuali, che fanno della sfida alimentare il punto di
precipitazione dell’opposizione all’autorità genitoriale, rischiando di giungere a
soglie di più difficile ritorno, con complicazioni di tipo psichiatrico, bulimicoanoressico. Il pericolo più immediato, consiste nel mettere a repentaglio l’ultimo
rifugio del figlio, già troppo rinchiuso in casa, togliendo ulteriori possibilità di
comunicazione e di ascolto, lasciandolo totalmente solo con il suo problema, con
l’effetto non desiderato di trasformare la potenziale risorsa dell’aiuto genitoriale in
ulteriore minaccia da cui difendersi.
Il fornire informazione, il suggerire preziose indicazioni ai genitori nella prevenzione
dell’obesità, nell’aiuto per contenerla e risolverla, programmando una gradualità di
obiettivi e individualizzando l’approccio per le simili ma diverse problematiche dei
bambini obesi, sono compiti importanti se si vuole prevenire il disagio.
(premessa a Mamma mi danno del ciccione di Elisabeth Lesne, EGA,1999)
Allegato1: Educare al rispetto delle diversità sessuali. Un percorso con gli insegnanti
sull’omosessualità e sul pregiudizio anti-omosessuale nella scuola di Luca Pietrantoni
La messa in discussione dei propri pregiudizi sulle diversità è facilitata quando non ci si sente
attaccati o svalutati da altri, ma soprattutto quando si riesce a creare un luogo di contatto
personalizzato in cui si possono sperimentare qui e ora forme empatiche di comunicazione. A sua
volta l’apprendimento consapevole dall’esperienza relazionale permette di aprirsi intenzionalmente
a nuovi atteggiamenti e comportamenti sociali.
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In quanto luogo di sperimentazione e progettualità, la scuola è sempre più al centro di discorsi sulla
prevenzione del disagio e sulla valorizzazione della dimensione relazione che intercorre tra i vari
soggetti scolastici. La consapevolezza di una società sempre più multiculturale e poliedrica ha
stimolato interventi educativi volti all’integrazione delle differenze, non solo come fonte di
problemi e incomprensioni, ma come potenzialità e risorse vitali. In molti istituti educativi, le
esperienze di educazione alla multietnicità e di valorizzazione delle differenze stanno
incominciando a far parte della programmazione scolastica (Bortolone, 1997); l’educazione
multiculturale rappresenta un’opportunità anche per gli educatori e gli insegnanti per confrontarsi
sulle problematiche del razzismo, per prevenire gli episodi di esclusione verso membri di minoranze
e per integrare i saperi e le culture provenienti da paesi o da comunità diverse. Sono molti gli
educatori che, al di là del buonismo o della correttezza politica, ritengono importante strutturare
percorsi disciplinari sul rispetto delle diversità che coinvolgano l’intera attività formativa della
scuola. Attraverso la celebrazione della festa del Ramadan o la lettura delle fiabe africane, si può
trasmettere un repertorio culturale in genere trascurato e, nello stesso tempo stimolare un desiderio
di conoscenza dell’altro e delle culture «altre» che è alla base del rispetto dell’altro.
Il pregiudizio o la diffidenza verso la diversità non rimane solo una semplice opinione, ma si
concretizza a volte in atti di esclusione e discriminazione. Il lavoro pionieristico di Olweus (1996)
ha messo di recente in rilievo il fenomeno delle prepotenze scolastiche che vengono perpetrate da
bambini e ragazzini nei confronti dei loro coetanei, scatenando une vero e proprio boom della
letteratura sul fenomeno del bullismo. È stato riscontrato che il bullismo a scuola ripropone le stesse
dinamiche di oppressione sociale e le vittime sono spesso persone che fanno parte di gruppi
socialmente stigmatizzati (le donne, le persone sovrappeso o quelle appartenenti a minoranze
etniche o sessuali, ecc.). La ricerca di Ada Fonzi (1997) ha sollevato la consapevolezza di questo
problema anche in Italia, dimostrando che lo staff scolastico può efficacemente prevenire gli
episodi, occasionali o continuativi, di violenza verbale e fisica che accadono tra i banchi di scuola.
Le ragioni di un intervento educativo
Recenti programmi nel Nord Europa hanno incentrato il loro intervento sull’esclusione sociale delle
minoranze sessuali nei contesti educativi, in una logica di prevenzione del disagio e di educazione
alle alterità. Occuparsi di questioni omosessuali a scuola ha sempre scatenato polemiche e
interrogativi: perché le scuole si devono occupare di minoranze sessuali? Non sarebbe una
inadeguata «promozione dell’omosessualità»? Non rischierebbe di diventare solo il pretesto
dell’ennesimo conflitto tra cattolici e laici? In realtà, solo un occhio miope impedisce di vedere
quanto sia rilevante la questione dell’orientamento sessuo-affettivo (omosessuale o eterosessuale)
per numerosi ragazzi e adolescenti.
Prima di tutto è rilevante numericamente. Gli scienziati sociali sostengono che circa il 5-7% della
popolazione ha un orientamento prevalentemente omosessuale e che circa il 20-30% della
popolazione ha quindi un familiare omosessuale. In una classe scolastica di trenta alunni, quindi, un
numero approssimativo di tre-sette ragazzi/e è omosessuale o ha un’esperienza diretta con
l’omosessualità (GLSTN, 1997). In secondo luogo, è rilevante perché l’adolescenza è caratterizzata
dallo sviluppo della propria identità sessuale e da sentimenti di esplorazione e sperimentazione che
si traducono in un bisogno di conoscenza e in una maggiore interazione con il mondo adulto.
Quando gli adolescenti esprimono la loro curiosità sulla sessualità, si è capito che il silenzio e il non
parlarne comunica indirettamente dei valori quanto il parlarne.
Gli interventi di educazione sessuale e socio-affettiva sperimentati in Italia sono stati mirati
all’apprendimento di tecniche di ascolto a partecipazione di gruppo da parte degli insegnanti in
modo tale da poter facilitare un’aperta comprensione delle problematiche sessuo-affettive
parallelamente a un aumento delle competenze prosociali e dell’autostima (Francescato D., Putton
A., Cedin S., 1986; Arcidiacono C., Gelli B.R., 1994).
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Tra i compiti della scuola vi è anche quello di promuovere il rispetto delle persone
indipendentemente dalle differenze di razza, status, idee politiche o religiose o orientamento
sessuale perché questo significa prevenire le manifestazioni di disagio, di ostracismo e di
isolamento sociale. La stigmatizzazione sociale che gli alunni gay e le alunne lesbiche provano nel
contesto scolastico, insieme agli stress che possono vivere nel contesto extrascolastico (famiglia,
pari, circoli sportivi, ecc.), può alla lunga compromettere seriamente la salute mentale e
l’adattamento psicosociale. Secondo Remafedi (1987), la discriminazione arreca nei giovani
omosessuali più vulnerabili un aumentato rischio di drop out scolastico (il 28% in un campione di
studenti omosessuali ha riportato di aver lasciato o cambiato scuola a causa di atti di
discriminazione) e di fughe da casa ( il 26% dei giovani aveva almeno una volta fatto una fuga da
casa).
Altri studi empirici sugli adolescenti hanno rivelato una proporzione significativamente maggiore di
ragazzi e ragazze omosessuali tra quelli che tentavano il suicidio. Secondo celebri studi statunitensi
(Gibson, 1989), il suicidio è la prima causa di morte tra la popolazione giovanile gay e lesbica e i
suicidi della popolazione gay costituirebbero il 30% di tutti i suicidi adolescenziali. L’unica
documentazione empirica in Italia è rappresentata dalla ricerca condotta dall’ISPES (1991), secondo
cui il 32,5% di gay e lesbiche sotto i vent’anni ha pensato almeno una volta all’opportunità di
suicidarsi e il 10,8% l’ha esecutivamente tentato.
Questo è assolutamente comprensibile se si pensa a quanto è pervasiva e comune l’omofobia (paura
e disprezzo dell’omosessualità). Nelle scuole, gli/le alunni/e omosessuali sono esposti
quotidianamente a manifestazioni di omofobia: commenti verbali dispregiativi verso persone
omosessuali o presunte tali, sanzioni verso certi comportamenti considerati inappropriati («Dai non
fare il frocio!»), soprusi fisici e a volte anche sessuali. Una curiosa ricerca di un’associazione di
insegnanti ha dimostrato che un alunno sente al giorno a scuola almeno venti parole o battute
antigay (GLSTN, 1997) e un’indagine italiana su giovani omosessuali, maschi e femmine, ha
verificato che il 70-80% ha subito insulti verbali e il 30% anche soprusi e maltrattamenti fisici
(Pietrantoni, 1996). È quindi comprensibile negli alunni omosessuali una progressiva perdita della
motivazione scolastica, dell’autostima e una maggiore preoccupazione per la propria sicurezza.
Gli incontri formativi con gli insegnanti
Il cambiamento del pregiudizio etnico, religioso o sessuale è un’opera ovviamente non facile. Il
pregiudizio ha invece complesse radici culturali, assolve paradossalmente a una varietà di funzioni
«utili e ragionevoli» (Mazzara, 1997) e quindi non può essere sradicato attraverso un singolo
approccio, ma attraverso un intervento integrato individuale, relazionale, sociale, culturale e
politico. In particolare, il pregiudizio verso gli omosessuali nell’adolescenza non si basa
sull’esperienza diretta con le persone omosessuali, ma ha una funzione «simbolica»: serve per
esprimere i propri valori, la propria appartenenza al gruppo e per affermare le proprie ansie rispetto
alla sessualità o al genere (Pietrantoni e Casamassima, 1996).
Le ricerche sugli interventi di riduzione del pregiudizio anti-omosessuale in ambito educativo hanno
sottolineato l’importanza di due tipi di fattori. In primo luogo, le persone eterosessuali che
conoscono amici o conoscenti apertamente gay hanno un atteggiamento di accettazione verso le
persone omosessuali in generale e questo è vero anche in gruppi demografici dove l’ostilità è la
norma, ad esempio tra le persone altamente religiose e conservatrici o le persone poco istruite. In
secondo luogo, l’atteggiamento degli eterosessuali tende a essere più favorevole attraverso
programmi educativi sull’omosessualità. Cambiamenti si sono ottenuti attraverso corsi generali di
educazione sessuale, corsi e seminari sull’omosessualità, lezioni tenute da persone apertamente gay,
proiezioni di film con personaggi gay, video che ridicolizzavano il pregiudizio verso le minoranze
ed esercizi in cui i partecipanti simulavano il coming out (lo svelamento) di una persona
omosessuale a un’altra (Sears e Williams, 1997).
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Questi programmi educativi producono un cambiamento negli atteggiamenti per una serie di
ragioni: danno informazioni reali e permettono di sfatare gli stereotipi, sono un’opportunità per
sviluppare sentimenti positivi verso una specifica persona gay, contribuiscono a creare norme
sociali di rispetto e tolleranza. La ricerca sulla cosiddetta «ipotesi del contatto» ha messo in
evidenza che il contatto tra gruppi diversi (ad esempio, nei programmi educativi con classi
multiculturali) riduce il pregiudizio nel gruppo di maggioranza se il contatto avviene quando gli
scopi condivisi sono salienti, quando è incoraggiata la cooperazione intergruppo, quando il contatto
è continuativo e intimo piuttosto che breve e superficiale, quando ai rappresentanti dei due gruppi
viene riconosciuto il medesimo status. Il ruolo degli insegnanti e di tutto lo staff scolastico è quindi
fondamentale nel produrre un cambiamento nell’atteggiamento e nei comportamenti.
Sulla base di queste ultime premesse, sono stati ideati una serie di incontri formativi con gli
insegnanti di scuole medie inferiori e superiori sull’omosessualità e sul pregiudizio antiomosessuale all’interno delle scuole. L’incontro è stato promosso dal Consultorio dell’associazione
Arcigay-Arcilesbica in collaborazione con l’Associazione studi psicologici dell’omosessualità ed è
stato condotto da due psicologi e da altri operatori. L’obiettivo generale è stato quello di «formare i
formatori» e di fornire strumenti e abilità agli insegnanti per ridurre le forme di intolleranza e creare
un ambiente scolastico collaborativo, inclusivo e sicuro per tutti e tutte. A momenti teorici sono
seguiti momenti esperienziali, simulate, lavori di gruppo, test di autovalutazione e proiezioni video.
È stato inoltre utile l’affiancamento di alcune tecniche di comunicazione del metodo Gordon, come
il «messaggio - io» o l’«ascolto attivo», più volte utilizzato nell’ambito della formazione degli
insegnanti all’educazione socio-affettiva (Gordon, 1984).
Fare esperienza della diversità
Nella fase introduttiva sono stati svolti due esercizi esperienziali per comprendere insieme al
gruppo degli insegnanti stessi il significato e il valore della diversità tra le persone. Il primo
(chiamato «Sono uguale, sono diverso») ha lo scopo di aiutare a comprendere la pluralità delle
esperienze umane e delle molteplici identità che abbiamo, e di aiutare a identificare il difficile
confine tra diversità e somiglianze. Ogni persona ha più identità, ruoli e appartenenze; ognuno di
noi può quindi far parte di maggioranze e minoranze contemporaneamente. Possono esistere
differenze tra le persone in termini di caratteristiche sociali (status, provenienza geografica, ecc.) o
attributi personali (preferenze sessuali, musicali, o nelle materie scolastiche, ecc.). Ciononostante,
queste differenze sono state valutate diversamente a seconda del periodo storico e del contesto
sociale. Ad esempio, le persone mancine una volta erano vittime di persecuzioni nel Medio Evo e
venivano indicate con una terminologia dispregiativa (si pensi alla parola «sinistro» connotata
negativamente); si è cercato di cambiare il loro comportamento, legando ad esempio la mano dietro
la schiena, ma questo portava solo i mancini a nascondersi e a impegnarsi in atti occasionali con la
mano destra senza avere in realtà cambiato il loro orientamento.
Sulla base delle caratteristiche elencate da ciascun insegnante, i partecipanti hanno indagato a
coppie le seguenti aree: «In che cosa mi sento uguale a te?», «In che cosa mi sento diverso?», «In
che modo giudico (positivamente o negativamente) questa differenza?» ,«In che modo il resto della
società giudica questa differenza?». In tal modo gli insegnanti hanno avuto l’opportunità di
soffermarsi sulla percezione di sé rispetto all’appartenenza di gruppo.
Il secondo esercizio (chiamato «La vecchia fattoria») ha avuto lo scopo di sperimentare
emotivamente le dinamiche intragruppo di esclusione e integrazione sociale e capire potenzialmente
come ci si trova a essere in una minoranza, qualunque essa sia.
Ci si siede in cerchio e lo psicologo spiega che ai partecipanti verrà bisbigliato il nome di un
animale. Lo psicologo bisbiglia il nome della mucca alla maggior parte delle persone, del maiale a
un po’ meno, del gatto a qualcuno e dell’uccellino a uno solo. I partecipanti dovranno farne il verso
camminando nella stanza a occhi chiusi e cercare gli animali della loro specie. Questo gioco in
genere diverte sia adulti che bambini e permette di esplorare le emozioni connesse con il sentirsi
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parte di un vasto gruppo o, al contrario, il senso di isolamento che si prova nel ritrovarsi da soli
nella stanza, al buio a cercare il proprio simile.
Garantire rispetto e sicurezza
La seconda sessione è iniziata con un brainstorming di tutti gli insulti che gli insegnanti usualmente
sentono nei corridori delle loro scuole o nelle loro classi, da quelli più «tenui» a quelli più offensivi
e denigratori. Tutti gli epiteti sono stati scritti su una lavagna e sono stati suddivisi in categorie:
quelli rivolti ai maschi e quelli alle femmine, quelli etnici, quelli geografici, quelli sessuali e quelli
religiosi. Ci si è poi soffermati sui termini denigratori per indicare le persone omosessuali,
comprese le numerose espressioni dialettali (ad esempio, «finocchio», ecc.). Si è discusso
dell’impatto emotivo che hanno queste parole sulle persone, della carica di aggressività che le
connota e del contesto in cui vengono utilizzate. Un insegnante ha sottolineato che vengono usate
non tanto per indicare un ragazzo gay, quanto persone o cose che in generale non piacciono o non si
rispettano. Un altro insegnante ha fatto notare che non intervenire quando uno studente utilizza
termini denigratori può indirettamente comunicare che il disprezzo verso gli omosessuali sia
socialmente accettabile.
Il pregiudizio non rimane solo una credenza individuale, ma si può trasformare in atti di
discriminazione e di prepotenza. Sono stati discussi tre scenari: un ragazzo gay viene picchiato
durante l’ora di ginnastica nello spogliatoio maschile; una ragazza viene presa in giro perché sua
sorella è lesbica dichiarata; uno studente d’arte con molto talento viene derubato perché si pensa sia
gay. La discussione ha fatto emergere che il clima di svalutazione delle persone omosessuali ha
conseguenze negative su tutte le persone, non solo sugli adolescenti omosessuali. Per due motivi:
primo, perché gli adolescenti eterosessuali possono venire in qualche modo offesi indirettamente se
hanno in famiglia un’altra persona omosessuale; secondo, perché gli adolescenti eterosessuali, come
nel caso dello studente d’arte, a volte limitano la propria espressività, censurano l’affettività per gli
amici dello stesso sesso e monitorano eccessivamente i loro comportamenti (adeguandosi agli
stereotipi di mascolinità e femminilità) al fine di non essere etichettati negativamente dagli altri.
Fare un lavoro di prevenzione significa aumentare la consapevolezza sulle limitazioni che pone
l’omofobia su tutti quanti e sull’importanza della scuola come «luogo sicuro» di accoglienza,
confronto e rispetto delle diversità tra le persone.
Rispondere alle domande
Nella terza sessione è stato proposto un esercizio in cui si è chiesto di immaginare le domande che
gli alunni avrebbero potuto fare riguardo all’omosessualità o alle persone omosessuali e si è cercato
insieme di trovare le risposte più adeguate, più accurate e sgombre da pregiudizi, avvalendoci delle
recenti dichiarazioni delle maggiori associazioni psicologiche.
Le domande che, nella percezione degli insegnanti, sono le più richieste sono le seguenti (e di
seguito sono illustrate le risposte più concordi). Qual è la causa dell’omosessualità? «La maggior
parte delle persone omosessuali sono attratte dal loro stesso sesso già da piccoli. Altri invece lo
scoprono tardi, anche a quaranta, cinquant’anni». «Alcuni sostengono un’ipotesi genetica, altri
dicono che sia dovuto alle dinamiche familiari». «Nessuno esattamente conosce le origini
dell’orientamento sessuale di una persona». Essere gay è una scelta? «Io non penso che sia una
scelta. Se mi dicessero: “Scegli di essere discriminato, escluso e di avere una vita più difficile”?
Penso che nessuno lo sceglierebbe». «Se gli ebrei scelgono di essere ebrei, vuol dire allora che
l’antisemitismo va bene?». L ’omosessualità è una malattia mentale? «Prima lo era, ma adesso
l’omosessualità non è più considerata una malattia mentale neanche dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità». «Anche gli psicoterapeuti prima cercavano di curare i gay facendoli diventare
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eterosessuali, ma questi trattamenti funzionavano per poco tempo e creavano dei traumi emotivi
nelle persone».
Gli insegnanti poi hanno scritto su un foglio le domande che vengono poste più frequentemente a
gay e lesbiche. Sulla base di un suggerimento del conduttore, gli insegnanti sono stati invitati a
ribaltare le domande sostituendo la parola «omosessuale» con «eterosessuale» e viceversa. Così è
stata fatta una lista di domande «ribaltate» tipo: «Cosa pensi abbia causato la tua eterosessualità?
Quando e come hai scelto per la prima volta di essere eterosessuale? È possibile che la tua
eterosessualità sia solo una fase che supererai? È possibile che la tua eterosessualità sia causata da
una paura nevrotica verso quelli dello stesso sesso?».
Così formulate, le domande si rivelano inutili, prive di senso se non ridicole. Altre potranno
risultare offensive perché, al contrario di quello che succede in realtà, presuppongono
l’omosessualità come superiore e normativa.
Quando persone omosessuali e persone eterosessuali vengono valutate con il medesimo status e la
medesima dignità, molte domande perdono senso.
Costruire un’alleanza tra insegnanti
Nella quarta e ultima sessione, è stato proiettato un video americano dal titolo It’s elementary che
illustrava alcune iniziative pilota sperimentate negli Stati Uniti nelle scuole elementari e medie
sull’inclusione degli argomenti relativi all’omosessualità. In una scuola elementare, su iniziativa del
preside, ogni bambino doveva fare un disegno in cui esprimere il desiderio di una scuola rispettosa
e sicura per tutti e tutte; in un’altra scuola era stata organizzata una mostra fotografica sul rispetto
delle differenze e sulla diversità delle preferenze affettive e dei legami d’amore.
Introdurre la questione omosessuale a scuola non significa parlare di comportamenti sessuali,
tutt’altro, ma parlare di persone, vissuti, affetti, gruppi sociali, pregiudizi. Educare alle diversità,
anche sessuali, rappresenta un’opportunità per prevenire i fenomeni di bullismo che spesso hanno
come oggetto le persone percepite come più deboli, per scandagliare le motivazioni che portano a
squalificare l’altro e a esprimere rabbia all’interno del gruppo.
Ma come organizzare iniziative e sensibilizzare il contesto scolastico? Gli insegnanti omosessuali
probabilmente non si fanno portavoce di queste istanze in prima persona perché temono il giudizio
sociale, in quanto la presenza di persone omosessuali nelle agenzie educative è sempre stata
considerata negativamente. Un partecipante del gruppo di insegnanti si è svelato omosessuale e ha
ricordato le sue difficoltà: «Mi sento un po’ come l’insegnante gay del film In and Out. Ho paura
che i genitori pensino che abbia una cattiva influenza sui ragazzi, per questo non ho mai detto a
nessuno che sono omosessuale». Al contrario, gli insegnanti eterosessuali dicevano di sentirsi più a
loro agio nel parlare di omosessualità e di pregiudizio a scuola in quanto questo aveva una minore
ricaduta personale ed emotiva.
La maggior parte degli insegnanti ha fatto notare quindi l’importanza di un’alleanza tra insegnanti,
qualsiasi sia l’orientamento sessuale, nel fare qualcosa contro la discriminazione sociale.
Gli insegnanti sono stati invitati quindi a fare un brainstorming sulle iniziative da intraprendere
nella loro scuola per renderla più sicura e tollerante. Queste sono le conclusioni che ne sono
derivate: «È importante che gli alunni sappiano che siamo lì per loro, che possiamo dire loro a chi
rivolgersi se hanno bisogno d’aiuto. Ma soprattutto che venga rispettata la privacy; ognuno dice di
essere omosessuale solo se se la sente, è una sua scelta». «Penso che dobbiamo fornire dei modelli
di ruolo positivi, fare capire che non sono soli, ma che vi sono omosessuali là fuori che hanno una
vita felice e soddisfacente».
«Si potrebbero proiettare dei film o dei video, invitare dei membri delle associazioni gay nelle
assemblee di istituto e non tralasciare questi aspetti durante le lezioni. Io insegno letteratura inglese
e abbiamo parlato della discriminazione dell’omosessualità quando si è parlato di Oscar Wilde; ma
anche storia, scienze, o religione potrebbero dire qualcosa».
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Conclusioni
La scuola non può difendersi in una posizione neutrale di fronte a salienti tematiche sociali e civili.
Non solo è «impossibile fare storia della cultura, storia della letteratura, dell’arte, della filosofia,
delle religioni, fare scienze naturali e scienze sociali, senza approfondire direttamente le tematiche
della vita sessuale e dell’esperienza erotica di cui tutta la cultura è costitutivamente intrisa» (Massa,
1997, p. 27), ma è altresì impossibile dimenticare che uno dei compiti della scuola è quello di
educare alle norme sociali di rispetto e di tolleranza.
La scuola deve contenere le schegge del razzismo e della discriminazione e non riflettere
passivamente (o peggio amplificare) le subalternità e le ostilità interpersonali e intergruppali.
Il ruolo dell’insegnante nell’autoregolare i meccanismi di stigmatizzazione ed esclusione nel gruppo
classe è fondamentale. È l’insegnante che deve far nascere, consolidare e dare un senso agli
atteggiamenti e ai comportamenti di non discriminazione e di cooperazione. La decostruzione degli
stereotipi e delle modalità relazionali di prepotenza deve essere accompagnata da una ricostruzione
di nuove competenze relazionali e sociali che attivino una positiva interdipendenza tra i soggetti.
Come suggerisce Massa (1997), la scuola deve superare la scissione tra educare e istruire, tra
cognitivo e affettivo, per diventare un nuovo campo di materialità educativa. Le tematiche della
sentimentalità, dell’identità sessuale e del pregiudizio sociale sono un crocevia tra elaborazione
delle informazioni e comprensione affettiva, tra conoscenza ed emotività. La scuola non può
risolvere la sua funzione nella mera trasmissione di contenuti, ma deve integrare la cultura
intellettuale con la cultura emozionale per gettare le basi per un autentico processo di crescita
dell’allievo e per lo sviluppo delle sue capacità (Blandino, 1995).
Il linguaggio della cooperazione e dell’integrazione tra le diversità umane è una sfida sì complessa,
ma è una grande opportunità per tutti.
Allegato 2: U.GALIMBERTI. IL MALE OSCURO. PERCHE’ OGGI MI SENTO DEPRESSO,
REPUBBLICA, 1 FEBBRAIO 2000.
“Quando il rimedio è peggio del male”. Questo vien da dire a proposito della depressione e dei
farmaci deputati ad alleviarne le sofferenze. Farmaci efficaci, senz’altro, almeno a livello
sintomatologico, ma che insieme creano le condizioni per aumentare lo stato depressivo, fino a
renderlo definitivo stile di vita dell’esistenza. Dell’esistenza di tutti noi se appena ci scrolliamo di
dosso quella pigrizia mentale che continua a considerare la depressione come una delle tante forme
delle malattie dell’anima, mentre a partire dagli anni Settanta, la depressione è diventata la forma
della sofferenza psichica, liquidando d’un colpo le forme “nevrotiche” che hanno caratterizzato il
nostro secolo, e quindi anche la psicoanalisi nata e cresciuta come cura della nevrosi. La nevrosi
infatti è un conflitto tra il desiderio che vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il
desiderio. Come conflitto, la nevrosi trova il suo spazio espressivo nelle società della disciplina che
si alimentano della contrapposizione permesso/proibito, una macchina che i più vecchi tra noi
conoscono perché regolava l’individualità fino a tutti gli anni ‘50 e ‘60. Poi, a partire dal ‘68 e via
via per gli anni successivi, la contrapposizione tra il permesso e il proibito tramonta, per far spazio a
una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra il possibile e l’impossibile. Che significa
tutto questo agli effetti della depressione?
Significa che nel rapporto tra individuo e società, la misura dell’individuo ideale non è più data
dalla docilità e dall’obbedienza disciplinare, ma dall’iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai
risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L’individuo non è più regolato
da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genere sensi di colpa (per cui il
vissuto di colpevolezza era il nucleo centrale delle forme depressive), ma deve fare appello alle sue
risorse interne, alle sue competenze mentali per raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà
valutato.
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In questo modo, dagli anni ‘70 in poi, la depressione ha cambiato radicalmente forma: non più il
conflitto nevrotico tra norma e trasgressione con conseguente senso di colpa ,ma, in uno scenario
sociale dove non c’è più norma perché tutto è possibile, il nucleo depressivo origina da un senso di
insufficienza per ciò che si potrebbe fare e non si è grado di fare, o non si riesce a fare secondo le
attese altrui, a partire dale quali, ciascuno misura il valore di se stesso. Questo “mutamento”
strutturale della depressione, che gli psichiatri, legati come gli uomini di religione a quel breviario
che è per loro il DSM (Manuale Diagnostico Statistico) è stato invece ben colto e ottimamente
illustrato dal sociologo francese Alain Ehrenberg, autore de La fatica di essere se stessi.
Depressione e società, che la casa editrice Einaudi ha opportunamente tradotto in italiano
(pagg.300, lire 36000) nella speranza che l’esercito degli psicologi, degli psichiatri e egli
psicanalisti siano tentati a variare il genere delle loro monotone letture. Il libro, ottimo per lo stile,
la scrittura e il modo di argomentare la tesi, è preceduto da una splendida prefazione di Eugenio
Borgna che segue da vicino questo passaggio, dove i sintomi classici della depressione: quali la
tristezza, il dolore morale, il senso di colpa, passano in secondo piano rispetto all’ansia ,
all’insonnia, all’inibizione, in una parola alla fatica di essere se stesi. E questo perché in una società
dove la norma non è più fondata, come in passato, sull’esperienza della colpa e della disciplina
interiore, ma invece sulla responsabilità individuale, sulla capacità di iniziativa, sull’autonomia
nelle decisioni e nell’azione, la depressione tende a configurarsi non più come la perdita della gioia
di vivere, ma come una patologia dell’azione, e il suo asse sintomatologico si sposta dalla tristezza
all’inibizione, alla perdita di iniziativa in un contesto sociale dove “realizzare iniziative” è assunto
come criterio unico e decisivo per misurare e sigillare il valore di una persona. Qui intervengono i
nuovi farmaci antidepressivi (quelli venuti dopo gli antidepressivi triciclici) che hanno assunto
come orizzonte terapeutico elettivo quello di sopprimere l’insonnia e l’ansia parossistica oppure la
perdita più o meno estesa di iniziativa, l’inibizione all’azione, il senso di fallimento e di scacco,
fattori questi che entrano in implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di successo che la
società odierna considera essenziali per definire la dignità e la significanza esistenziale di
ciascuno di noi. Già Freud nell’ultimo anno della sua vita scriveva che “per il primitivo è facile
essere sano, mentre per l’uomo civilizzato è un compito difficile”, ma attribuiva la difficoltà
all’eccesso di regole che governano le società civili, e quindi descriveva al depressione nel novero
delle “nevrosi”, dove si registra il conflitto tra norma e trasgressione, con conseguente vissuto di
colpevolezza. Oggi le norme limitative non esistono più, per cui ciò che un tempo era proibito è
sfumato nel possibile e nel consentito. Per effetto di questo slittamento oggi la depressione non si
presenta più come un “conflitto” e quindi come una “nevrosi”, ma come un fallimento nella
capacità di spingere a tutto gas il possibile fino al limite dell’impossibile. E quando l’orizzonte di
riferimento non è più in ordine a ciò che è permesso, ma in ordine a ciò che è possibile, la domanda
che si pone alle soglie del vissuto depressivo non è più :” ho il diritto di compiere quest’azione?”,
ma “sono in grado di compiere quest’azione? “quel che è saltato nella nostra attuale società è il
concetto di “limite”. E in assenza di un limite, il vissuto soggettivi non può che essere di
inadeguatezza, quando non di ansia, e infine di inibizione. Tratti questi che entrano in collisione con
l’immagine che la società richiede a ciascuno di noi e , come scrive Borgna, la coscienza di questo
crudele fallimento sul piano della responsabilità e dell’iniziativa, o anche, aggiungo io, sul piano del
mancato sfruttamento di una possibilità, amplifica immediatamente i confini della sofferenza e
dell’inadeguatezza che sono presenti in ogni depressione e che i modelli sociali dominanti rendono
ancora più dolorose e talora insanabili. Alain Ehrenberg vede l’origine dell’odierna depressione,
così diversa da quella che si legge nei manuali di psicologia, psicoanalisi e psichiatria troppo
disattenti ai mutamenti sociali, in due cambiamenti di tendenza registrati negli ultimi trent’anni
della nostra storia circa il modo di concepire l’individuo e le possibilità della sua azione. Il primo
cambiamento s’è registrato verso la fine degli anni Sessanta quando la paola d’ordine dell’intero
continente
giovanile era :”Emancipazione” all’insegna del “tutto è possibile”, per cui: la famiglia è una camera
a gas, la scuola una caserma, la scuola una caserma, il lavoro,e il suo rovescio il consumismo,
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un’alienazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si deve liberare (“vietato
vietare”). Una libertà di costumi fino allora sconosciuta si coniuga a un progresso delle condizioni
materiali, e nuove prospettive di vita diventano una realtà tangibile nel corso del decennio. Se la
follia, nel comune sentire dei primi anni Settanta; appare come il simbolo dell’oppressione sociale e
non più come una malattia mentale, questo è appunto dovuto al fatto che tutto è possibile: il pazzo
non è malato, è solo diverso, e soffre proprio per la mancata accettazione della sua diversità.
Su questa cultura preparata dal ‘68, ma che il ‘68 aveva pensato in termini sociali, si impianta, per
uno strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa logica di impostazione americana, giocata
però a livello individuale, dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di iniziativa di
performance spinta, di efficienza, di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto di limite
spinto all’infinito, per cui oggi siamo a chiederci: qual è il limite tra un ritocco di chirurgia estetica
e la trasformazione in androide di Michael Jackson, tra un’ abile gestione dei propri umori
attraverso farmaci psicotropi e la trasformazione in robot chimici, tra le strategie di seduzione
troppo spinte e l’abuso sessuale, tra il riconoscimento dei diritti degli omosessuali e il diritto
all’adozione, tra il diritto di avere figli e le tecniche artificiali per ottenerli, tra il diritto alla salute e
al prolungamento della vita e la manipolazione genetica? E questo solo per fare degli esempi che
dimostrano come le frontiere delle persona e quelle tra le persone determinano un tale stato
d’allarme da non sapere più chi è chi. Come scrive Augustin Jeanneau in Les Risques di un’ epoque
ou le narcissisme du dehors (1986): “La liberazione sessuale ha sostituito la preoccupazione di
sbagliare con la preoccupazione di essere normali”.
Espressione sintomatica del cambiamento non dissimile da quella segnalata da Vidiahar S. Naipaul,
Alla curva del fiume (1979) : “ Non potevo più rassegnarmi al destino. IL mio destino non era di
essere buono secondo la nostra tradizione, ma di fare fortuna. Ma in che modo? Che cosa avevo da
offrire? L’inquietudine cominciava a mangiarmi dentro”. E allora psicofarmaci, amici miei , o se
preferite: droga. Qui Ehremberg traccia un parallelismo che approda alla complementarietà. Sia la
depressione sia la tossicodipendenza, per differenti che possano apparire, esprimono la patologia di
un individuo che non è mai sufficientemente se stesso, mai sufficientemente colmo di identità, mai
sufficientemente attivo, perché troppo indeciso, troppo titubante, troppo ansiogeno, per cui
depressione e tossicodipendenza sono come il diritto e il rovescio di una medesima patologia
dell’insufficienza. Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione odierna, attiva la
dipendenza psicofarmacologica, dove le promesse di onnipotenza assomigliano non a caso a quelle
che popolarizzano la droga. Il farmacodipendente e il tossicodipendente sono infatti due versanti di
quel tipo umano che infrange la barriera tra il “tutto è possibile” e il “tutto è permesso”.
Essi
radicalizzano la figura dell’individuo sovrano e pagano il conto con la schiavitù della dipendenza,
che è il prezzo della libertà illimitata che l’individuo si assegna. Ma i nuovi antidepressivi sono in
un certo senso più insidiosi delle droghe, perché le molecole messe oggi sul mercato dalle ni dustrie
farmaceutiche contro la depressione alimentano l’immaginario di poter maneggiare illimitatamente
la propria psiche, senza i rischi di tossicità delle droghe o gli effetti secondari dei vecchi
antidepressivi. In questo modo lo psicofarmaco, sopprimendo i sintomi della depressione, che è un
arresto nella corsa sfrenata a cui siamo chiamati, accelera la corsa, rendendoci perfettamente
omogenei alle richieste sociali. In questo senso, dicevo all’inizio, il rimedio farmacologico al blocco
della depressione è peggio del male, perché , mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti,
induce il soggetto a superare se stesso, senza essere mai se stesso, ma solo una risposta agli altri,
alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della
vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione alle norme di
socializzazione richieste dalla nostra società a cui fanno più comodo- e non è scoperta di oggi- robot
demozionalizzati e automi impersonali, che soggetti capaci di essere se stessi e di riflettere sulle
contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla fatica divivere. Nel 1887, un anno prima di scendere
nel buio della déraison, Nietzsche annunciava profeticamente l’avvento dell’individuo sovrano
“riscattato dall’eticità dei costumi”. Oggi, a cento anni dalla morte di Nietzsche, possiamo dire che
l’emancipazione ci ha forse affrancato dai drammi del senso di colpa e dallo spirito di obbedienza,
54
ma ci ha innegabilmente condannati al parossismo dell’efficienza, dell’iniziativa e dell’azione. E
così la fatica depressiva ha preso il sopravvento sull’angoscia nevrotica. Raccomando questa
riflessione di Ehremberg agli psichiatri e agli psicoanalisti che, impegnati a cercare l’origine della
depressione nel fondo biologico del nostro corpo, o chiusa interiorità della nostra anima, non
sollevano mai lo sguardo per dare un’occhiata al sociale, la cui trasformazione potrebbe suggerire
loro che la depressione non è più pensabile ,come un tempo, in termini di tristezza e sensi di colpa,
bensì in termini di capacità e incapacità. La capacità di essere se stessi al di là delle richieste sociali
di efficienza, iniziativa, rapidità di decisione e di azione, di cui non è dato scorgere il limite.
Nell’ANNUARIO SOCIALE Bambini maltrattati: i dati di Telefono azzurro p.144,
L’anoressia e la bulimia p. 148, scheda sulle Nuove droghe p. 353\354, Ricerca
CIRM sull’uso di nuove droghe (2 dicembre) p. 349, Giovani e alcol p. 329 (20
maggio), alcol schede pp361-364, tabacco 365-367, alcol e tabacco tabelle pp. 387390-394-399, suicidi pp. 590-592
55
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