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La morte repentina, tra dubbi diagnostici e speranze di rianimazione
La morte repentina, tra dubbi diagnostici e speranze
di rianimazione (secc. XVII-XVIII)
di Maria Pia Donato
La morte improvvisa tra teoria medica e cultura popolare
Nell’inverno del 1707 a Roma circolava una storia tragica e macabra. Secondo
un anonimo curiale autore di un Diario di Clemente XI (Archivio Segreto Vaticano, fondo Borghese I, 578, in data 22 febbraio), una giovane donna, dopo aver perso il bambino in un aborto, “fu creduta morta” e fu quindi portata in chiesa per il
funerale. Si disse in seguito che “nel seppellirla il beccamorto la trovasse calda, e
[...] ne avvisasse il parroco e marito”, ma non riuscisse a farsi credere. La giovane
dunque “fu sepolta dentro la cassa”, ma “fu di poi trovata la detta cassa chiodata et
essa tutta graffiata, chiarissimo inditio [...] che quando essa fu sepolta, non era
morta come tutti hanno affermato”.
Non era certo questo il primo spaventoso racconto di morti apparenti e di sepolti vivi che si fosse sentito. Racconti sul tema rimontavano all’antichità, e la cultura medievale non ne mancava, tanto che Boccaccio volgeva il tema in chiave comica con la novella di Andreuccio da Perugia della seconda giornata del Decameron. Una popolarissima leggenda voleva che il teologo francescano Giovanni Duns
Scoto fosse stato deposto nel sepolcro mentre era ancora vivo, e che fosse poi riesumato il corpo con un braccio scarificato, come se il frate avesse cercato di nutrirsi. In età moderna, storie di morti rianimati e di funerali interrotti si moltiplicarono. Soprattutto in area tedesca, circolavano fogli volanti e raccolte di fatti prodigiosi e spaventosi di questo tipo, sia dirette al pubblico popolare che al lettorato colto,
come il De miraculis mortuorom di Heinrich Kornmann (1610), parte di un trittico
dedicato a tutte le possibili manifestazioni prodigiose (due altri volumi erano dedicati, rispettivamente, ai miracoli dei vivi e delle cose naturali). In questa silloge di
aneddoti e notizie tratti dalle fonti le più varie, non mancavano i morti parlanti, i
creduti morti, i seppelliti vivi come il già menzionato Duns Scoto, l’imperatore Zenone (un’altra leggenda tramandata nell’annalistica moderna e che era stata ripresa
anche da Cesare Baronio), le donne gravide cadute in catalessi. Anche autori medici ne parlavano: un aneddoto riferito dal chirurgo Ambroise Paré sul famoso anatomista Vesalio, che si sarebbe visto una donna risvegliarsi quando già aveva iniziato
a sezionarla, divenne un classico di tutta la letteratura successiva.
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Le malattie delle donne, infatti, e specialmente la cosiddetta “soffocazione isterica” o uterina, erano le infermità alla quale si attribuivano comunemente le morti
apparenti (Veith, 1965; Trillat, 2006). L’indicazione veniva naturalmente da Ippocrate e Galeno, ma per gli aneddoti facevano fede soprattutto la Storia naturale di
Plinio insieme al diffusissimo compendio del medico romano Celso, De medicina.
Lo stesso Boccaccio, nella novella di Gentil de’ Carisendi e Caterina di Nicolò
Caccianimico, della decima giornata, ne traeva ispirazione. I trattati di medicina
dedicati alle malattie femminili insistevano su questo aspetto, come faceva per esempio il medico Albertino Bottoni nel suo noto De morbis muliebribus (1585, p.
67) e il chirurgo Ambroise Paré ([1575], 1840-41, vol. 2, p. 754) per non citare
che due nomi in una vasta letteratura ad uso di medici e di legali (Bahuin, 1586).
Nelle raccolte di observationes e curationes, che diventano un genere medico minore ma sempre più apprezzato tra Cinque e Seicento (Pomata, 2005), i casi di morti
apparenti erano per una parte significativa connessi alla soffocazione uterina. Una
delle più fortunate raccolte di tal genere, le Observationum medicarum rariorum di
Johannes Schenck von Grafenberg, pubblicate per la prima volta nel 1597, ne riporta diverse, sia tratte da altri libri, che dall’esperienza del compilatore (Schenck,
1644, p. 617). Anche gli esperti di medicina legale di età moderna come Fortunato
Fedeli (1602, p. 296-97), il protomedico pontificio Paolo Zacchia (1655, p. 246)
erano concordi sui rischi di diagnosi connessi alla soffocazione della matrice.
Se la paura della sepoltura prematura era dunque antichissima, nel suo classico
studio sull’atteggiamento collettivo verso la morte in Occidente, Michel Vovelle
(1983, p. 453) attribuisce il rinverdirsi di tale timore all’inizio del Settecento al
diffondersi di nuovi usi funerari, in particolare all’uso di casse da morto chiodate,
come sarebbe il caso della sventurata giovane romana. D’altra parte, in quello stesso periodo, Roma era già scossa da una tragica, e per certi aspetti misteriosa, vicenda di morte, che potrebbe forse in parte spiegare la riattivazione del topos. Tra
1705 e 1706, infatti, numerosi casi di “accidenti” e apoplessie colpirono persone di
ogni condizione ed età senza che i medici fossero d’accordo se si trattasse di una
epidemia o addirittura di un male contagioso. La paura sollevata dagli eventi fu tale
che il papa ordinò alle massime autorità mediche cittadine di svolgere un’indagine
attraverso la dissezione pubblica dei corpi di alcuni degli uomini morti all’improvviso per le strade della città. Sempre su mandato del papa, il suo medico personale
nonché lettore di medicina pratica all’università Giovanni M. Lancisi scrisse una
dotta dissertazione De subitaneis mortibus (Lancisi, 1707), in cui escludeva decisamente l’ipotesi di una “pestilenza” o di qualsivoglia epidemia, e sosteneva che i casi
di morti repentine non fossero più frequenti dell’ordinario (Donato, 2010).
Da sempre, la morte repentina era particolarmente aborrita. Era il terrore di
ogni cristiano, sia che avvenisse in modo violento o accidentale (Ariès, 1977). Le
preghiere per scongiurarla erano diffusissime, e le litanie dei santi imploravano
sempre la protezione a subitanea et improvisa morte. La morte improvvisa non solo
metteva a rischio la salvezza dell’anima, visto che non era accompagnata dagli ultimi sacramenti, ma anche del corpo, che poteva essere sepolto in terra sconsacrata.
Per ovviare almeno a questo triste destino, i fedeli portavano abitualmente delle
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immagini e medagliette della Madonna e dei santi per poter almeno segnalare la
propria fede in caso di una tragica morte in solitudine, nei campi, in viaggio o in
acqua.
Inoltre, la morte repentina era comunemente ritenuta possibile fonte di tragici
errori di accertamento del decesso. Non a caso il Rituale Romanum del 1614 ordinava di osservare un intervallo di tempo adeguato prima della sepoltura, e avvertiva di prestare maggior attenzione ai casi di decesso repentino e inaspettato. Questo perché, insieme alla soffocazione dell’utero, la morte repentina era l’altra occorrenza in cui poteva darsi morte apparente. Insomma, ieri come oggi, la morte improvvisa era una circostanza in cui, al timore di esser colti impreparati, si aggiungeva la paura di essere lasciati andare troppo presto (Pernick, 1999).
Sulla difficoltà di diagnosi di morte dei pazienti colpiti da violenti affezioni repentine c’era consenso sin dall’antichità. Per la verità, la diagnosi della morte era
un problema assolutamente marginale nella medicina greco-romana, incomparabilmente più attenta alla prognosi di morte, cioè a individuare quali pazienti e quali
patologie potevano far presagire la fine e da quali segni anticiparla: i signa mortis o
letalia, appunto, si riferivano in primo luogo alla morte incombente, non al cadavere, che nella cultura greco-romana era un oggetto pericoloso, da maneggiare con
cura e da allontanare (D’Alessandro, in questo volume). Nondimeno, qualche episodio di persone risvegliatesi sulla pira non mancava nelle autorità antiche. Nel
corpus ippocratico, sebbene sia assente il richiamo a possibili errori nella diagnosi
della morte, c’è comunque il caso di un ubriaco creduto morto (Grmek, 1987). Il
medico della scuola metodica Asclepiade di Bitinia si vantava di aver sventato una
morte apparente: il fatto è riportato dai dossografi e medici posteriori, tra i quali
Celso, che, nel quadro del suo generale approccio empirista, è probabilmente
l’autore più dubitativo sulla certezza dei segni della morte, e come tale fu interpretato nei secoli successivi sia da medici che da giuristi (come Riva, 1599, pp. 88-89).
La questione era collegata soprattutto all’apoplessia, nei due sensi prognostico
e diagnostico. L’apoplessia, un termine che indicava in greco l’essere colpiti all’improvviso, stupefatti, come da un fulmine, era comunemente ritenuta un’affezione
mortale, a partire da Ippocrate. Gli scrittori ippocratici l’attribuivano ad un flusso
di umori freddi nella testa che gelano il sangue improvvisamente e privano l’intero
corpo del calore vitale, alla quale erano soggetti specialmente alcune categorie di
persone come anziani, obesi e atleti, ma che in ogni caso lascia poche speranze
(Clarke, 1963; Bruun, 1999). Una malattia “fredda” del cervello che priva improvvisamente e immediatamente del senso e del moto e che conduce quasi sempre alla
morte rapida se non immediata considerava l’apoplessia anche Galeno (Rocca,
2003; Karenberg, 1994).
Poiché colpiva le facoltà sensorie e motorie, l’apoplessia poteva indurre l’apparenza della morte. Poteva infatti ledere in modo grave la respirazione, primo
segno di vita, anzi, essenza stessa della vita nella concezione galenica, nonché più
ovvia sua manifestazione (Debru, 1996), a differenza di altre condizioni morbose,
come lo stupor in cui la privazione di senso e moto non si accompagnava da difficoltà nella respirazione. Su tale rischio, ancorché remoto, concordavano i medici
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antichi come Galeno, appunto (specialmente nel principale trattato di patologia,
De locis affectis), medievali come Arnaldo da Villanova nella sua autorevole Practica
medicinae, e moderni : ci si limita a ricordare un medico di Montepellier molto
celebrato ai suoi tempi, François Ranchin, autore di un breve trattato dal titolo
rivelatore De morbis repentinis (Ranchin, 1627, p. 595).
E ancora su questo punto si sofferma la medicina legale, per quanto, è bene
ricordarlo, l’accertamento della morte non fosse un compito sistematico del medico, tranne in circostanze sospette. Così per Fedeli (1602, pp. 196-99): poiché il
miglior modo di accertare la vita è, secondo le indicazioni di Galeno, il respiro, ne
deriva che apoplettici e isteriche sono i pazienti a cui è necessario prestare maggiore attenzione, ricorrendo a tecniche empiriche già note dall’antichità, ossia portare
fili di lana o uno specchio alla bocca del presunto morto. Stessi consigli, con l’aggiunta di altre tecniche come posare una scodella piena d’acqua sullo sterno, dà
Zacchia (1655, p. 246). Ciò va fatto in tutte le condizioni a rischio di errore, ossia
con catalettici, congelati, attoniti, siderati, letargici, e ancor di più nelle affezioni
che davvero menomano la respirazione e creano apparenza di morte: la soffocazione isterica, già ricordata, e le due principali patologie connesse alla morte repentina, apoplessia e sincope, ossia un’affezione rapida del cuore e del calore vitale che
qui aveva la sua sede principale. E anch’egli riportava episodi e testimonianze da
fonti letterarie, storiche e mediche.
Zacchia si dilunga su queste tre condizioni, interrogandosi quanto a lungo sia
necessario aspettare prima delle esequie. Egli ritiene che il solo segno certo della
morte sia l’inizio della putrefazione; questa inizia generalmente dopo tre giorni,
che sono “lo spazio in cui i resti del calore naturale permangono nel cadavere”,
dopo il quale interviene “il calore della putrefazione” (Zacchia, 1655, p. 238).
D’altro canto, data la gravità di tali morbi, non è ragionevole pensare che chi ne sia
colpito sopravviva a lungo: in particolare, seguendo il medico greco Areteo (autore
di un celebre trattato De causis et signis acutorum morborum), una sincope grave
uccide in ventiquattr’ore al massimo, settantadue ore per le altre. La trattazione di
Zacchia, comunque, risente molto del contesto in cui è svolta, ossia la sezione De
miraculis, e perciò l’autore accentua la cautela, liquidando però al contempo una
serie di presunti fenomeni vitali del cadavere come la crescita delle unghie che sono solo effetti ottici.
Si deve notare per inciso che, sulla scia di Galeno (specialmente De locis affectis,
4,10 e 6,5), per spiegare la morte apparente nel XVI e XVII secolo si sosteneva che
la traspirazione bastasse a introdurre aria invece della respirazione; lo stesso Zacchia riprende questa spiegazione. Tra fine cinquecento e inizio seicento emerse
pure un filone di letteratura medica dedicato specificatamente alla morte repentina, che si attestò su posizioni analoghe. Anche in questa, infatti, si ripropone il binomio morte improvvisa/morte apparente. Ne tratta, per esempio, il medico veronese Domenico Terilli. Egli definisce la morte repentina una “estinzione del calore
innato, che si diffonde dal cuore in tutto il corpo, originata da una qualche causa o
interna o occorrente dall’esterno e agente con la massima e violenta rapidità” (Terilli, 1615, p. 14). Ne distingue vari tipi, giacché il calore innato può essere
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alterato “per qualità opposta” (a causa del freddo, per esempio ingerendo una bevanda troppo fredda), per soffocazione (come una fiamma, spento dagli umori in
eccesso), per difetto o dissoluzione. Naturalmente, Terilli concorda che i decessi
improvvisi possono rendere difficile la diagnosi di morte, in particolare la soffocazione isterica nelle donne e l’apoplessia negli uomini (Terilli, 1615, p. 102). C’è da
aggiungere, però, che egli non si sofferma troppo su questo problema: si dilunga in
dotte disquisizioni sulla falsariga dei Parva naturalia aristotelici su cosa sia la vita,
ma poi si contenta in concreto della cessazione del respiro e del battito.
In fondo, per Terilli come per quasi tutti i suoi contemporanei, nonostante
fosse venuto meno l’orrore verso il cadavere della medicina greco-romana, la morte non costituiva ancora un oggetto di indagine scientifica autonomo e, anche se
nominalmente figurava come tema principale di specifiche opere, erano sempre le
malattie del paziente in vita a costituire il vero argomento. Perciò, si può dire che,
nella medicina galenica di età moderna, il problema diagnostico della morte in
relazione alla morte repentina esisteva – e il buon medico ne doveva tener conto –
ma non era una preoccupazione centrale, perché la morte in generale non lo era.
Lancisi e l’interpretazione meccanicista della morte repentina
È in questo quadro che si inserisce l’opera di Lancisi De subitaneis mortibus, che
segna una cesura con la lunga tradizione aristotelico-galenica nel modo di affrontare la questione della morte repentina e di tutti i problemi ad essa connessi, compreso l’accertamento del decesso. Scritto a conclusione della misteriosa “epidemia” di
morti improvvise che aveva terrorizzato Roma, è al tempo stesso un rapporto sulla
sanità pubblica, la relazione delle autopsie realizzate nel teatro anatomico dell’università e un ampio trattato di medicina meccanicista. Ed è anche, per molti aspetti,
la prima investigazione medica moderna sulla morte (Ackerknecht, 1968).
Sin dall’inizio, Lancisi imposta la sua trattazione in termini rigorosamente meccanicisti. La vita, in una definizione che si ispira alla filosofia di Descartes già rielaborata da medici e naturalisti come G.A. Borelli e Giorgio Baglivi (Hall, 1968; Pichot, 1993; Duchesneau, 1998), non dipende più dal calore vitale e dall’umido
radicale della biologia aristotelico-galenica, bensì dalla
combinazione di vari principi e principalmente di due, la struttura organica
delle parti solide delle principali funzioni e la giusta mistura, la fluidità e la massa delle parti liquide di analoga funzione (Lancisi, 1707, p. 3).
Tre sistemi organici sono considerati da Lancisi indispensabili per la conservazione della vita, ossia trachea e polmoni, cuore e vasi sanguigni, cervello e sistema
nervoso, ai quali corrispondono tre fluidi: aria, sangue e fluido nerveo, secreto dal
cervello e sospinto nei nervi. Perciò, la vita può essere vista come il “costante flusso
e riflusso” di questi fluidi “da, e attraverso, gli organi principali, che sono in grado
di ben funzionare e mutualmente e alternativamente in moto” (Lancisi, 1707, p.
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4). Quanto alla morte, se uno o alcuni o tutti degli organi e fluidi principali “sono
stati danneggiati, separatamente o congiuntamente, in modo grave e persistente,
allora è probabile che incomba una morte repentina” (Lancisi, 1707, p. 14-15).
Nel corso dell’opera, Lancisi esamina dunque gli impedimenti, i danni, le alterazione meccaniche e chimiche che possono danneggiare il corpo procedendo dall’esame analitico dei tre fluidi ai tre organi maggiori ed enumerando i danni letali,
le ferite, gli impedimenti meccanici, le lacerazioni e ostruzioni che possono condurre alla morte repentina (Donato, 2010, pp. 75-92). Secondo il medico papale,
in quella “straordinariamente delicata e fine e ingegnosamente interconnessa compagine di fluidi e solidi” che è la vita (Lancisi, 1707, p. 6), l’origine degli stati morbosi si deve individuare per lo più in un mutuo danneggiamento delle parti. Aria,
sangue e succo nerveo, se alterati, erodono, lacerano o ostruiscono le parti solide
che, a loro volta, non sono più in grado di filtrare e propellere la giusta quantità di
fluidi e li lasciano disperdere o ammassare patologicamente. Pertanto, le anormalità di solidi e fluidi si alimentano le une delle altre, sebbene i fluidi si alterino in genere più rapidamente, giacché sono degli aggregati di corpuscoli e dunque più instabili.
Attraverso un’ampia trattazione teorica e pratica dell’argomento, sempre svolta
all’insegna della moderna medicina meccanicista e corpuscolarista, e corroborando
la sua teoria con numerosi referti autoptici (la cui esposizione dettagliata costituisce la parte principale del libro secondo), Lancisi riformula le entità patologiche
tradizionalmente associate con la morte repentina, ossia soffocamento, sincope e
apoplessia. Egli avvia la revisione concettuale della vita come interdipendenza di
complessi organico-funzionali (invece che come principio localizzato in un centro
principale) e, di conseguenza, della morte (Albury, 1993; Defanti, 2007).
Recuperando le suggestioni dell’antico atomismo democriteo che aveva ispirato la filosofia naturale e la fisiologia meccanicista, specialmente in Italia, Lancisi
considera infatti la morte l’esito di “naturale senescenza e graduale disintegrazione” dei meccanismi corporei che rendono possibile il moto della vita, la cui cessazione definitiva coincide con il distacco dell’anima immortale (che tuttavia non è
più considerata informante il corpo, ma preposta solo alle operazioni mentali, secondo il dualismo cartesiano). Egli rifonda gli spunti dispersi nella scienza del suo
tempo e propone una definizione meccanicista di morte come la
vera e in ogni senso completa cessazione del movimento di aria, sangue e
fluido nervoso in e attraverso gli organi di maggiore funzione, che hanno perso
veramente e completamente il loro moto naturale (Lancisi, 1707, p. 7).
Alla luce della dottrina esposta nel suo libro, dunque, il problema del decesso
apparente connesso alla morte repentina si rivela secondo Lancisi un falso problema. La circolazione di aria, sangue e fluido nervo è sempre e comunque necessaria
alla vita, per quanto talvolta siano molto limitate, specialmente in persone colpite
da sincopi o apoplessie, difficili da misurare. Egli stesso ricorda qualche caso di
morte apparente, dalla letteratura secondaria, e uno dalla propria esperienza. Ri204
prende perciò tutto l’arsenale di sistemi tradizionali, dallo specchio alla ciotola
sullo sterno, e anzi suggerisce di usare anche altri stimoli, per esempio sostanze
starnutatorie. Raccomanda soprattutto di prestare attenzione al battito cardiaco,
ma non limitandosi al polso, bensì sentendo le carotidi, e per un motivo che si ricollega alla visione meccanico-idraulica del corpo:
Queste arterie riescono a ricevere l’impressione del più tenue grado di pressione sanguigna ricevuto dal cuore… perché hanno diametro più largo di quelle
che si estendono verso le braccia, e non si svolgono in maniera contorta attraverso l’angolo delle ascelle, ma sono dritte dall’arco delle grandi arterie verso la
testa (Lancisi, 1707, p. 46).
La spiegazione dell’interdipendenza tra le funzioni vitali in termini meccanicisti
permette altresì di dar conto di alcuni comuni fenomeni che possono erroneamente suggerire un residuo di principio vitale (come il gas intestinale o l’erezione maschile).
Nel ponderare la questione della morte apparente o pseudo-morte, Lancisi, pur
ammettendo qualche possibile difficoltà, mette soprattutto l’accento sull’errore
umano: inganni di persone che si fingono morte con l’uso di veleni soporiferi
(Lancisi non li ricorda, ma come non pensare a Romeo e Giulietta?) (Pastore,
2010), fretta colpevole dei becchini, o, viceversa, errori dei medici che sentono il
proprio battito quando premono con le dita il braccio del morto. Dunque, conclude deciso il medico romano, se è vero che possono esserci purtroppo casi di inumazioni intempestive, specialmente nei tempi di gravi pestilenze, essi dipendono
solo dall’incuria e ignoranza degli inservienti dei luoghi pii e dei becchini, e tocca al
medico sensibilizzare governo e cittadini su tali rischi (Lancisi, 1707, p. 42).
Non solo: secondo Lancisi, è anche possibile essere cautamente ottimisti quanto alla prognosi. Intanto, il decesso improvviso è un evento sporadico, preceduto
nella maggioranza dei casi da una qualche infermità. È vero, tuttavia, che lo stato
patologico può essere impercettibile, e per questo motivo, la morte ghermisce improvvisamente persone all’apparenza sane, il che la rende particolarmente impressionante. Inoltre, poiché la morte è un processo di disaggregazione della macchina
corporea, il decesso, che pure avviene tecnicamente in un istante (che è poi la dottrina cattolica sulla separazione dell’anima) si svolge in una successione di stadi sui
quali il medico può intervenire. Lo scopo della medicina è imparare a prevedere il
pericolo di morte e procrastinarlo con rimedi sperimentalmente provati, per mezzo dei quali le dipartite che sembrano improvvise potrebbero in futuro “essere previste attraverso un qualche sintomo latente e strano, e poi ritardate per un breve
tempo con l’amministrazione di qualche medicinale, almeno per la salvezza dell’anima” (Lancisi, 1707, p. 6).
Nei capitoli XII e XIII di De subitaneis mortibus, il medico papale presenta i mali
incurabili, come la rottura improvvisa di grossi vasi o gli aneurismi, le emorragie
gravi o le apoplessie che colpiscono gli anziani, i cui tessuti non sono più in grado
di tornare a un livello sufficiente di elasticità; nondimeno, invita a non sottovaluta205
re mai le possibilità di intervento, e anzi a tentarlo sempre. Talvolta persone soffocate, strangolate, apoplettiche, benché considerate morte e persino dichiarate tali,
possono tornare alle funzioni vitali in modo naturale o assistite dall’arte medica:
specialmente nei casi di apoplessia e di isteria che anch’egli considera le occorrenze in cui più verosimile può essere un errore nella certificazione del decesso, il
“saggio medico [...] non è mai così impotente da non avere speranze” (Lancisi,
1707, p. 37). Giacché induce morte improvvisa solo ciò che
velocemente, persistentemente e gravemente danneggia i fluidi o i solidi e li
priva del loro movimento in tale modo che tali movimenti non possono essere
restaurati per mezzo dell’arte [medica] o della natura […].
Prima o poi, la medicina troverà il modo per impedirla, o almeno di rallentarla.
L’utilizzo di metodi drastici, come l’applicazione di ferri roventi al cranio o ai piedi,
viene raccomandato per dare una stimolazione massima al corpo. E, aggiunge, Lancisi, quando il medico riesce a strappare qualcuno dalle morte, specialmente qualcuno dato per spacciato, opera in modo quasi divino (Lancisi, 1707, p. 12 e 37,
corsivo aggiunto).
La morte-processo della medicina meccanicista e la fobia della morte
apparente
La chiarificazione del processo di morte repentina e la concezione meccanicista
del corpo fornirono il razionale per un’inedita attenzione medica rispetto ai morenti, specialmente rispetto a coloro che erano colti da attacchi improvvisi. L’azione del medico, in verità, si riduceva ai semplici e tradizionali strumenti dei ferri
roventi o della flebotomia, ma, almeno dal punto di vista ideologico e deontologico, si profilò un interventismo che si differenziò dall’atteggiamento precedente
(Stolberg, 2011) e al quale si sarebbe ispirata una parte consistente della medicina
del Settecento, anche quando il paradigma meccanicista avrebbe ceduto il passo al
vitalismo (Foucault, 1963; Rey, 1996). Nel corso del secolo, in molte città europee
si affermarono tecniche e apparecchi vari e si organizzarono associazioni di cittadini per soccorrere le vittime di “accidenti” repentini in cui si poteva sperare di rianimare i moti vitali, ossia annegati, asfissiati e apoplettici, sebbene la nascita di una
vera medicina d’urgenza avrebbe richiesto altri due secoli (Goulon et al., 2004;
Marinozzi, in questo volume).
Eppure, nonostante le rassicurazioni e persino il moderato ottimismo che la
nuova interpretazione della morte e la conseguente volontà di intervenire nel suo
processo per rallentarlo o invertirlo, il settecento fu il secolo in cui la paura legata
all’incertezza dei segni della morte e alle inumazioni premature non fece che crescere (Ariès, 1977). Già negli anni Trenta del Settecento, i segnali si infittirono,
per esempio nell’inserimento sempre più ricorrente nei testamenti dell’indicazione
dei giorni da attendere prima della sepoltura (Chaunu, 1978, pp. 39-41; Visceglia,
206
1982). A metà secolo, poi, si accese la famosa querelle sull’incertezza dei segni della morte, che destò molto clamore sia tra i medici sia nel pubblico generale
(Milanesi, 1989). Nella seconda metà del settecento, in coincidenza con il dibattito sui cimiteri (Vovelle, 1983; Etlin, 1984; Tomasi, 2001) divenne poi un tema
davvero diffuso (Patak, 1967; Schwengler, 2003). Nell’Ottocento, infine, benché il
dibattito medico si fosse ormai ricomposto, a livello dei profani divenne una vera e
propria fobia (Pernick, 1988; Bertrand, Carol, Pelen, 2005; de Ceglia, 2010).
Secondo alcuni studiosi (Illich, 1975; Alexander, 1980; con qualche sfumatura,
Milanesi, 1989), anzi, la fobia della sepoltura prematura che dilagò sarebbe direttamente collegata all’incipiente medicalizzazione della morte e, in particolare, alla
speranza di rianimazione che essa pretendeva ormai di poter offrire. La rianimazione divenne così un mito fondatore della medicina moderna, da cui i medici trassero legittimazione sociale e culturale per controllare la gestione della morte, anche
se permaneva (e permane tuttora) uno iato incolmabile tra il discorso e l’effettiva
riuscita di tali interventi (Timmermans, 1999).
Qualche radice almeno dell’atteggiamento diffidente di fronte alla morte affonda innegabilmente nel nuovo paradigma scientifico che la medicina meccanicista
aveva affermato tra la fine del seicento e l’inizio del settecento. Sulle rovine dell’aristotelismo cristianizzato che per secoli aveva spiegato la realtà biologica, la questione del confine tra la vita e la morte assunse così una pregnanza inedita.
Occorre fare un passo indietro. Come si è accennato, la medicina antica e medievale dedicava un’attenzione incommensurabilmente maggiore alla vita che alla
morte. La morte era ovviamente un criterio discriminante della vita (come insegna
Aristotele, solo gli esseri viventi muoiono), ma la medicina era orientata al rapporto tra il medico, il paziente e la natura: si focalizzava quindi sul paziente vivo, al
massimo morente. Pertanto, se in pratica erano sufficienti la cessazione del respiro
e del battito cardiaco ad accertarla, in teoria la definizione di morte comunemente
utilizzata era quella del consumo del calore innato e dell’umido radicale necessari
alla vita, fino all’istante finale nel quale si esala l’ultimo respiro, che coincide con il
distacco dell’anima immortale (Duranti, in questo volume). La morte si concepiva
essenzialmente come privazione, come perdita di un’essenza materiale e principio
immateriale che è la vita/anima (Albury, 1993). Non vi era una vera trattazione
del modo in cui la morte avviene: è un termine a quo, di un progressivo esaurimento e privazione, quindi sempre considerata dal punto di vista della vita. Questo
anche perché nella biologia aristotelico-galenica, gli esseri viventi non hanno solo
un’anima razionale (la quale è al tempo stesso preposta a determinate funzioni, ma
anche, nel dogma cristiano, forma di tutto il corpo), ma anche un’anima vegetativa
e sensitiva inerenti al corpo e alle funzioni corporee, e resta sempre una tensione
nel modo di concepire l’articolazione tra anima/anime e corpo dal punto di vista
medico, filosofico e teologico (Wright, Potter, 2000). Perciò, la fortunata metafora
della lampada (la vita è come la fiamma di una lanterna, che, per bruciare, esaurisce
l’olio, ossia l’umido radicale innato) bastava, il più delle volte, per risolvere la questione ancora nel XVII secolo (Hall, 1971). Anche quando si parlava di morte repentina, in verità non si elaborava più di tanto la morte in sé, come si è visto in Te207
rilli, che dopo molte disquisizioni, tornava poi a usare la metafora della lampada e
il criterio pratico della cessazione del battito cardiaco. Semmai, vi era una grande
attenzione al cadavere, ma in quanto problema autonomo, sul quale misurare i
principali assiomi della filosofia naturale antica e della teologia cristiana (Micrologus 1999). È vero che a volte anche gli autori galenici, per esempio Zacchia, parlavano di morte come cessazione dei moti naturali, ma questa era un fenomeno
concomitante, non causale, perché la morte era comunque la privatio vitae (Zacchia, 1655, p. 238, 244).
Nella fisiologia meccanicista, invece, si delineava una nuova articolazione tra
vita e morte, che recuperava le idee dell’atomismo antico. Se la vita s’identificava
con l’economia animale, con il movimento, e non vi erano più le facoltà, gli spiriti,
le anime inferiori (rimaneva solo quella razionale e immortale), allora pure la morte si “somatizzava” nei meccanismi del solo corpo: non era dunque più l’estinzione
del principio fisico e metafisico della vita. E se la vita era l’organizzazione di sistemi
in movimento, la morte non era solo un trapasso, ma piuttosto un processo di disintegrazione. Quanto al cadavere, esso non aveva più alcun principio metafisico
né poteva avere alcun principio vitale o facoltà residua che avrebbe spiegato fenomeni mirabili di movimenti, calore o addirittura loquela.
Da ciò derivavano due conseguenze fondamentali, relative alla temporalità della morte e all’intervento medico. Nel suo trattato, infatti, Lancisi introduce due
regimi di temporalità per spiegare la morte repentina in modo innovativo. Uno
riguarda il processo patologico e distingue tra l’azione lenta e silenziosa della malattia fino al momento di rottura; l’altro interessa la morte stessa. Certo, la morte è
un dato “punto nel tempo”, ma in una successione sufficientemente lunga per essere compresa, rallentata, forse fermata, se non addirittura invertita. Dalla morteprocesso, perciò, Lancisi deduce l’obbligo per il medico di intervenire sempre e
comunque per tentare di interromperne il processo, e la motivazione di tale interventismo è espressamente collegata alla temporalità della morte, giacché, egli scrive, “non c’è alcuna causa o malattia capace di uccidere pur con la massima rapidità
che non eserciti la sua forza in momenti divisibili nel tempo” (Lancisi, 1707, p.
13). Come si è detto, inoltre, Lancisi dà una definizione di morte come la “vera e in
ogni senso completa cessazione del movimento” dei fluidi e solidi somatici; e aggiunge una precisazione di grande importanza: “Questa cessazione deve essere davvero così stabile e costante che non c’è più nessuna possibilità di riavviarla per mezzo di
alcuna forza naturale” (Lancisi, 1707, p. 7, corsivo aggiunto).
Egli introduce così un criterio nuovo, l’irreversibilità. La morte è un processo
irreversibile o, per meglio dire, il punto finale di un processo reversibile, almeno a
livello delle dipendenze organico-funzionali. Poiché la morte comporta la cessazione stabile e definitiva del moto, esiste un tempo in cui si può agire per conservare il
moto o riattivare i sistemi circolatori prima che il loro arresto diventi irreversibile.
Dopo Lancisi, l’irreversibilità è assunta come criterio discriminante nelle definizioni di morte nella letteratura medica e divulgativa. Basta citare l’esempio dell’Encyclopédie di d’Alembert e Diderot agli articoli Mort (médécine) (edizione di Neuchâtel, vol. 10, 1765, pp. 718-719), e ancor più chiaramente Oeconomie animale (vol.
208
11, 1765, pp. 360-366), nei quali tale criterio è appunto utilizzato (di Palo in questo volume).
Ma qui sta il punto. Come stabilire quale sia il momento in cui il processo, da
reversibile diventa irreversibile? Come essere certi che il moto non sia impercettibilmente ancora attivo a livello delle componenti minime del corpo? La questione
è tanto più pressante quanto più il medico pensa di poter (e di dover) intervenire.
È vero che anche per il medico ippocratico-galenico c’erano casi di morte apparente con qualche vestigio di vita e talvolta persone credute morte si risvegliavano in
modo naturale (o miracoloso, ma questa era un’altra faccenda), ma una eventuale
“porziuncola di vita” (per dirla con Zacchia, 1655, p. 246) non si poteva davvero
ripristinare. Del resto, secondo Aristotele, si poteva passare dal possesso alla privazione, ma non viceversa. Con la meccanizzazione della vita e la fisiologia circolatoria, invece, si metteva l’accento sulla ripresa del moto, sulla rianimazione di una
vita “sospesa” o rallentata.
Perciò gli argomenti di rassicurazione e di ottimismo che offrono i medici meccanicisti, a partire da Lancisi, potevano essere anche essere rovesciati in motivi di
dubbio e di timore. È quanto successe precisamente nella querelle sulla diagnosi del
decesso di metà Settecento. Lo scritto che ne fu all’origine, la disputa accademica
fatta sostenere da Jacques-Bénigne Winslow An mortis incertae signa minus incerta a
chirurgius, quam ab aliis experimentis? (1740) non è altro che una ripresa della parte medico-legale dell’opera di Lancisi del 1707. E come Lancisi, il medico francodanese (anch’egli anatomista meccanicista) ammette che talvolta può essere difficile accertare la morte e che le tecniche correnti sono a volte usate poco scrupolosamente, ma sostiene che si tratta di avere una chiara visione dei processi vitali e di
esaminare con maggior cura i segni vitali e di applicare eventualmente energiche
stimolazioni. Invece, nella traduzione in francese che ne fa Jacques-Jean Bruhier
nella celebre Dissertation sur l’incertitude des signes de la mort (1742-45), gli stessi
argomenti sono svolti in senso pessimistico, accentuando la possibilità di errore.
Tra l’altro, Bruhier recupera la vecchia letteratura sui prodigi dei morti e collaziona
più di duecento racconti di decessi apparenti e sepolture precipitose dalle fonti le
più disparate.
Nondimeno, non si deve fraintendere il discorso di Bruhier, perché anch’egli,
partendo da posizioni scettiche, si fa comunque partigiano assoluto della rianimazione Dopo un’analisi delle tecniche di rianimazione disponibili, anzi, finisce per
concludere riprendendo quasi letteralmente Lancisi e scrivendo che quando la
rianimazione riesce, “si può dire in verità che i medici risuscitano i morti” (Bruhier,
1742-44, vol. 2, p. 466). Con una frase identica Jean-Jacques Menuret de Chambaud conclude l’articolo Mort (médécine) nel X tomo dell’Encyclopédie (1765),
parlando delle rianimazioni: “C’è niente che renda gli uomini più vicini alla divinità di azioni simili?”. L’articolo condanna, è vero, quello che oggi si chiamerebbe
accanimento terapeutico, e tuttavia, nel caso particolare della morte subitanea raccomanda di tentare ogni possibile rimedio, pur violentissimo, nella speranza di
riattivare i moti vitali.
209
Una breve conclusione
Morte intermedia e morte imperfetta, secondo la bella definizione di Claudio
Milanesi (1989), sarebbero diventati temi davvero cruciali solo a fine settecento,
quando la biologia vitalista e materialista avrebbe riformulato la questione del tempo della morte e della distruzione dell’organismo. Nel secolo successivo, poi, la
fisiologia sperimentale e la biologia cellulare avrebbero fornito gli strumenti per
teorizzare una vera e propria “strutturazione spazio-temporale della morte, che
comporta l’esistenza di livelli gerarchici e determina diverse ‘tappe’ della morte”;
ciò avrebbe portato a distinguere una morte a livello organico-clinico (cardiocircolatorio e cerebrale), al quale i medici settecenteschi ancora si riferivano, e una
morte cellulare; la prima è potenzialmente reversibile, la seconda irreversibile
(Fantini, Grmek, 1989; Defanti, 2007).
I medici tra Sei e Settecento, invece, parlavano di morte apparente, cioè di uno
stato nel quale i moti vitali sono danneggiati, ma persistono in modo rallentato e
impercettibile. Anzi, la distinzione tra rianimazione (un processo naturale, per
quanto indotto dai medici o dai soccorritori) e la vera e propria resurrezione (un
evento miracoloso, opera esclusiva di Dio contro le leggi naturali) fu fondamentale
perché il nuovo discorso medico sulla vita e la morte fosse accettabile dal punto di
vista religioso.
Un’ultima notazione deve essere appunto fatta sul rapporto tra medicina e religione. È opportuno sottolineare la matrice religiosa di un mutamento di atteggiamento da parte dei medici nei confronti della morte, mutamento che la storiografia
legge generalmente in termini di secolarizzazione, perché si tratterebbe di non
accettare più in modo cristianamente rassegnato l’inevitabile fine. Per Lancisi,
l’obiettivo era chiaro: il medico deve intervenire per guadagnare almeno il tempo
per la somministrazione dei sacramenti o perché il morente possa fare contrizione.
Un altro medico romano che scriveva a proposito della “epidemia” di morti improvvise nella Roma di primo Settecento, lo esprime a lettere ancora più chiare:
Quando questo [l’intervento del medico con i ferri roventi] non ci richiamasse
che a pochi momenti di vita, quando non ci facesse tornar a dir altro che un Domine
miserere mei, quando non ci risvegliasse, che ad un semplice atto interno di dolore,
pur egli sarebbe un gran fuoco, et un massimo rimedio (Mistichelli, 1709, p. 172).
È pure di matrice religiosa, per la precisione la matrice dell’agostinismo rigorista e moderatamente razionalista che si affermò a fine Seicento e proseguì poi nel
cosiddetto Illuminismo cattolico (o Auklärung cattolica), la revisione di credenze,
leggende, culti incrostati di “superstizioni”, che riguardavano, tra varie cose, i rapporti tra vivi e morti e le apparizioni e fantasmi, i morti viventi e i vampiri, le resurrezioni momentanee degli infanti per ricevere il battesimo e così via (Gélis, 2005).
Proprio negli anni della querelle sull’incertezza dei segni della morte, videro la luce
opere come De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione (1734-38) di
Prospero Lambertini, poi divenuto papa Benedetto XIV, De revelationibus, visioni210
bus et apparitionibus di Eusebius Amort (1744), e il Traité sur les apparitions di Augustin Calmet (1746).
Tuttavia, tale matrice religiosa si diluì nel generale processo di secolarizzazione
della società europea dei Lumi, nel quadro della quale, tra l’altro, la morte repentina perse almeno in parte il carattere spaventoso e orribile che aveva in precedenza
(Ariès, 1974; Favre, 1978; McManners, 1984; Vecchi, 1990). In tal senso, mantiene ancora la sua forza di suggestione la proposta avanzata da Philippe Ariès nel suo
influente lavoro su L’uomo e la morte (Ariès, 1977, pp. 256-58) di considerare la
fobia delle morti apparenti una sorta di “inferno secolarizzato”, una paura che si
sostituisce a quella delle fiamme dell’inferno e dei tormenti del purgatorio, quest’ultimo ormai in desuetudine persino nel discorso religioso.
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