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leggi il libro - Gruppo Famiglie

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leggi il libro - Gruppo Famiglie
mangia prega ama
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Vorrei che Giovanni mi baciasse.
Ah, ma è un’idea pessima per molte ragioni. Tanto per cominciare, Giovanni ha dieci anni
meno di me e - come quasi tutti i ragazzi italiani - vive ancora con sua madre. Basta questo a
renderlo uno spasimante improbabile per me, che sono un’americana con una professione,
ho trentaquattro anni e sono appena uscita da un matrimonio fallito e da un divorzio devastante e interminabile, a cui ha fatto immediatamente seguito un’appassionata storia d’amore finita malissimo. Dopo tante disavventure mi sento triste, fragile, vecchia di settemila anni. Per
una pura questione di principio non infliggerei mai la sofferente, consunta e decrepita me
stessa all’incantevole, immacolato Giovanni, senza contare che sono arrivata all’età in cui
una donna comincia a domandarsi se il modo più saggio di consolarsi della perdita di un bel
giovane dagli occhi neri sia davvero quello di invitarne immediatamente un altro nel proprio
letto. Ecco perché sono sola da molti mesi. Ecco perché, in effetti, ho deciso di passare tutto
quest’anno in astinenza.
A questo punto il lettore perspicace potrebbe domandare: «Allora perché sei andata in
Italia}».
E io potrei solo rispondergli - guardando Giovanni, bellissimo, seduto all’altro capo del tavolo - «Ottima domanda».
mi ascolta pazientemente, poi parliamo in inglese e io lo ascolto pazientemente. Ho
scoperto Giovanni qualche settimana dopo il mio arrivo a Roma, grazie all’Internet Café di
piazza Barberini, nella strada di fronte alla fontana con la statua di quel tritone sexy che soffia
dentro una grossa conchiglia. Aveva attaccato nella bacheca (Giovanni, non il tritone) un
volantino in cui spiegava che un madrelingua italiano cercava un madrelingua inglese per
esercitarsi nella conversazione. Vicino al suo volantino ce n’era un altro identico, parola per
parola, carattere per carattere. Solo gli indirizzi e-mail erano diversi, uno corrispondeva al
nome di Giovanni e l’altro a quel
lo di un certo Dario. Ma il numero di telefono era lo stesso.
Guidata dalle mie acute facoltà intuitive avevo mandato la stessa e-mail a entrambi,
domandando in italiano: «Siete fratelli?».
Era stato Giovanni a rispondere al mio messaggio: «Meglio ancora: gemelli!».
Già, meglio ancora. Due gemelli di venticinque anni. Alti, bruni, bellissimi, identici. Con
quegli enormi, liquidi occhi scuri italiani che mi confondono sempre. Dopo aver visto quei due,
avevo cominciato a domandarmi se non fosse il caso di ritoccare la mia regola dell’astinenza.
Avrei potuto fare un’eccezione e, per esempio, prendermi come amanti due gemelli italiani
venticinquenni. Come quel mio amico vegetariano che faceva un’eccezione per il bacon...
Stavo già immaginando la mia lettera a «Penthouse»:
In quel caffi romano, alla tremula luce delle candele, era impossibile capire di chi erano le
mani che mi stavano accarez...
Ma no.
No e poi no. Troncai la fantasticheria a metà. Non era il momento, per me, di andare in
cerca di una storia d’amore e (poiché al giorno segue la notte) di complicare ulteriormente la
mia vita già sufficientemente ingarbugliata. Era il momento di cercare la guarigione, la pace
che solo la solitudine può dare.
A ogni modo, a metà novembre, il timido, studioso Giovanni e io siamo diventati buoni
amici. Quanto a Dario - il più scatenato dei due - l’ho presentato alla mia amica svedese,
Sofie, e anche loro sono diventati Compagni di Scambio, ma di tutt’altro genere. Giovanni e io
parliamo soltanto. O meglio, mangiamo e parliamo. Abbiamo passato settimane piacevoli tra
pizze e garbate lezioni di grammatica, e stasera non fa eccezione: un delizioso incontro di parole nuove e mozzarella fresca.
è una mezzanotte nebbiosa, e Giovanni mi sta accompagnando a casa a piedi lungo le
tranquille stradine romane che serpeggiano intorno agli edifici come fiumiciattoli tra i cipressi.
Adesso siamo davanti al portone, l’uno di fronte all’altra. Lui mi abbraccia con calore. è un
progresso, durante le prime settimane mi dava solo la mano. Forse, se dovessi rimanere in
Italia altri tre anni, allora, chissà, troverebbe il coraggio di baciarmi. D’altra parte, potrebbe
anche baciarmi stasera, adesso, davanti alla porta di casa... voglio dire, siamo qui stretti,
l’uno contro l’altra, al chiaro di luna... e sarebbe, naturalmente, un errore spaventoso... ma
anche una meravigliosa occasione se lo facesse davvero, proprio in questo momento... se si
chinasse su di me... e... e...
Niente.
Si scioglie dall’abbraccio.
«Buonanotte, cara Liz» dice.
«Buonanotte, caro» rispondo in italiano.
Salgo i quattro piani di scale fino al mio appartamento, sola. Sola entro nel mio monolocale. Chiudo la porta alle mie spalle. E ancora una volta vado a dormire da sola, a Roma.
Un’altra lunga notte con niente e nessuno nel mio letto se non una pila di vocabolari e manuali di conversazione.
Sono sola, completamente sola.
Nel fare i conti con questa realtà lascio cadere la borsa, m’inginocchio e appoggio la
fronte sul pavimento. Offro all’universo una fervida preghiera di ringraziamento.
Prima in inglese.
Poi in italiano.
E infine, tanto per essere chiara, anche in sanscrito.
2
E visto che sono già a terra in atteggiamento supplice, tanto vale che ci rimanga, e torni
indietro di tre anni, al momento in cui questa storia ha avuto inizio.
Tre anni fa, però, l’intero scenario era diverso. Non ero a Roma, ma nel bagno al piano
superiore di una grande casa alla periferia di New York, che avevo da poco comprato con mio
marito. Erano circa le tre del mattino di un novembre freddo. Mio marito dormiva nel nostro
letto. Io mi ero nascosta in bagno per la quarantasettesima notte di seguito e - come tutte le
precedenti - singhiozzavo. Singhiozzavo così forte che un lago di lacrime e moccio si era
sparso tutt’intorno sulle piastrelle, un vero Lago Inferiore (per così dire) di tutta la mia vergogna, paura, confusione, dolore.
Non voglio più essere sposata.
Questa verità premeva su di me con insistenza, anche se cercavo con tutte le forze di non
accettarla.
Non voglio più essere sposata. Non voglio vivere in questa grande casa. Non voglio avere
un bambino.
Ma avrei dovuto volerlo. Avevo trentun anni. Mio marito e io
- insieme da otto anni e sposati da sei - avevamo costruito tutta la nostra vita sulla
comune speranza che, dopo aver barcollato oltre la soglia della vecchiaia (trent’anni), io mi
sarei decisa a cambiare stile di vita e ad avere dei bambini. Allora, ci dicevamo, mi sarei stancata di viaggiare e avrei desiderato vivere in una grande casa, con tanti bambini e tante
coperte fatte a mano, un giardino sul retro e un buono stufato che borbotta in cucina (che
questa fosse la riproduzione quasi esatta della vita di mia madre spiega quanto allora mi
fosse difficile capire la differenza tra me e la formidabile donna che mi ha allevata). Ma io me ne rendevo conto con terrore - non volevo niente di simile. Con l’avvicinarsi dei trenta,
quella scadenza aveva cominciato a incombere su di me come una condanna a morte, e mi
ero accorta di non avere nessuna fretta di rimanere incinta. Aspettavo fiduciosa che arrivasse
il momento in cui avrei voluto un figlio, ma quel momento continuava a non arrivare. Io so
quello che si prova quando si vuole davvero una cosa, credetemi. So bene che cosa significa
desiderio. E non ne provavo. Non riuscivo a smettere di pensare a quel
lo che mi aveva detto una volta mia sorella, mentre allattava il suo primogenito: «Avere un
figlio è come farsi un tatuaggio in faccia. Devi essere maledettamente sicura di volerlo davvero».
Ma come fare marcia indietro? Era tutto pronto. Quello era l’anno giusto. In effetti ci stavamo provando già da qualche mese, senza risultati (se si esclude la nausea psicosomatica che
tutte le mattine mi faceva vomitare la colazione). E ogni mese, quando arrivavano le mestruazioni, mi ritrovavo a mormorare di nascosto, in bagno: Grazie, grazie, grazie, grazie per
avermi concesso ancora un mese di vita.
Avevo cercato di convincermi che non c’era niente di strano, che tutte le donne si sentivano nello stesso modo quando cercavano di rimanere incinte. (Usavo la parola
«ambivalente» invece della più accurata espressione: «completamente stravolta dal terrore».)
Cercavo di persuadermi che i miei sentimenti erano del tutto normali, malgrado avessi le
prove del contrario: la settimana prima, per esempio, avevo incontrato una conoscente che
aveva scoperto di aspettare un bambino, dopo aver speso interi anni e un vero patrimonio in
cure per la fertilità. Era in estasi. Da tutta la vita desiderava diventare mamma: mi confessò
perfino di aver comprato di nascosto, per anni, vestiti da bambini che nascondeva sotto il
letto, perché suo marito non li trovasse. Nella gioia assoluta dipinta sul suo viso, avevo riconosciuto la stessa gioia che avevo provato io, la primavera precedente, quando la rivista per la
quale lavoravo mi aveva mandato in Nuova Zelanda a scrivere un articolo sulla caccia al calamaro gigante. Così avevo pensato: «Finché la prospettiva di avere un bambino non mi
renderà felice almeno quanto quella di andare in Nuova Zelanda a scrivere un articolo sul
calamaro gigante, non potrò diventare madre».
Non voglio più essere sposata.
Durante le ore del giorno riuscivo a sfuggire a questo pensiero, ma di notte mi logorava.
Che catastrofe. Come potevo essere stata così stupida e colpevole da calarmi fino in fondo in
un matrimonio da cui ora volevo solo scappare? Avevamo comprato quella casa appena un
anno prima. Non l’avevo voluta io quella bella casa? Non l’avevo forse amata? E allora
perché la notte mi aggiravo per i corridoi ululando come Medea? Non ero orgogliosa di tutto
quello che avevamo accumulato - una bella villa nella Hudson Valley, un appartamento a
Manhattan, le otto linee telefoniche, gli amici, i picnic e le feste, i week-end passati a vagare
tra le corsie di un centro commerciale per acquistare l’ennesimo elettrodomestico? Avevo
partecipato attivamente a ogni istante della costruzione di questa vita - allora perché sentivo
che non mi assomigliava? Perché mi sentivo oppressa dal senso del dovere, stanca di essere
la colonna, la casalinga, l’organizzatrice mondana, la dogsitter, la moglie, la futura mamma e
- più o meno nei ritagli di tempo - una scrittrice?
Non voglio più essere sposata.
Mio marito stava dormendo nella stanza accanto. Io lo amavo e lo detestavo in parti
uguali. Non potevo svegliarlo e dividere con lui la mia angoscia - a che scopo? Da mesi, impotente, mi osservava andare in pezzi e comportarmi come una pazza (avevamo convenuto
che questa era la definizione più appropriata). Ero riuscita solo a esaurirlo. Sapevamo tutti e
due che qualcosa in me non andava e lui era sul punto di perdere la pazienza. Avevamo litigato e pianto, eravamo stanchi, di quella stanchezza che solo una coppia il cui matrimonio
sta crollando impara a conoscere. Avevamo ormai lo stesso sguardo da profughi.
Le svariate ragioni per cui non volevo più essere la moglie di quell’uomo sono troppo personali e troppo tristi per essere elencate. Le complicazioni erano in gran parte mie, ma anche
lui aveva le sue responsabilità. È naturale: dopotutto un matrimonio è fatto di due persone,
due voti alle elezioni, due teste, due serie contrastanti di decisioni, desideri, debolezze. Non
mi sembra giusto, però, discutere qui dei problemi di mio marito. La cronaca del fallimento del
nostro matrimonio non apparirà su queste pagine. Non parlerò delle ragioni per cui volevo
ancora essere sua moglie, o di tutte le sue eccezionali qualità; non racconterò perché lo
amavo e perché lo avevo sposato e perché non riuscivo a immaginare la mia vita senza di lui.
Basti dire che quella sera lui era ancora il mio faro e la mia maledizione. Restare era impossibile, andarsene era ancora più inconcepibile che restare. Non volevo distruggere niente
e nessuno, volevo so
lo scivolare via dalla porta di servizio, senza creare trambusto o generare conseguenze, e
scappare fino in Groenlandia.
Questa parte della mia storia è triste, lo so. Ma la racconto lo stesso perché sul pavimento
di quel bagno stava per succedere qualcosa che avrebbe cambiato per sempre gli sviluppi
della mia vita - quasi come in uno di quegli assurdi, grandiosi fenomeni stellari, quando un pianeta schizza inspiegabilmente nel
lo spazio profondo e il suo nucleo si sposta, i poli si invertono e l’intera massa da sferica
diventa ovoidale. Qualcosa di simile.
Mi sono messa a pregare.
Insomma, a pregare Dio.
3
Ecco, per me era la prima volta. E visto che è la prima volta che introduco questa traboccante parola - dio -, destinata ad apparire molte volte ancora nelle pagine seguenti, mi sembra giusto interrompermi per un attimo, solo per spiegare esattamente che cosa intendo, in
modo che il lettore possa decidere subito fino a che punto debba sentirsi offeso.
Rimandiamo la discussione sull’esistenza di Dio (no, ho un’idea migliore, lasciamola perdere del tutto); intanto vi spiego perché dico Dio, quando potrei altrettanto facilmente dire
Gema, Allah, Shiva, Brahma, Vishnu o Zeus. Potrei decidere di chiamare Dio «Quello», come
nelle antiche scritture sanscrite, per indicare l’entità indescrivibile e universale della quale ho
avuto qualche volta la percezione. Ma «Quello» mi sembra impersonale, mi fa pensare a una
cosa e non a un essere, come faccio a pregare Quello? Mi serve un nome proprio per avere
la sensazione di essere ascoltata veramente. è per questa ragione che quando prego non mi
rivolgo aH’Universo, al Grande Vuoto, alla Forza, all’Essere Supremo, all’Assoluto, al Creatore, alla Luce, all’Onnipotenza e nemmeno alla massima espressione poetica del nome di
Dio, presa, credo, dai Vangeli gnostici, l’«Ombra del Divenire».
Non sono prevenuta nei confronti di nessuna di queste definizioni. Ho l’impressione che
siano tutte descrizioni ugualmente adeguate e inadeguate dell’indescrivibile. Ma ciascuno di
noi ha bisogno di dare a questa indescrivibilità un nome inerente alle sue funzioni, e «Dio» è il
nome che a me trasmette più calore, perciò è quello che uso. Devo confessare che di solito
mi riferisco a Dio come a un «Lui» e non mi causa alcun imbarazzo perché, nella mia mente,
è solo un pronome, non una descrizione anatomica precisa o il pretesto per una rivoluzione.
Non importa, naturalmente, se qualcuno preferisce «Lei», è un’esigenza che posso capire. Insomma, per me Lui e Lei si equivalgono, sono efficaci e inefficaci allo stesso modo (anche se
penso che per entrambi la lettera maiuscola sia un gesto dovuto, un fatto di buona educazione).
Culturalmente, anche se non teologicamente, sono cristiana, protestante e anglosassone.
E anche se amo quel grande maestro di pace chiamato Gesù e, qualche volta, nelle
situazioni difficili, mi domando cosa farebbe lui al mio posto, non posso digerire il principio inamovibile della cristianità secondo il quale Cristo è la sola strada per arrivare a Dio. A rigor di
termini, quindi, non posso dirmi cristiana. La maggior parte dei cristiani che conosco accetta
questi miei pensieri con garbo e liberalità. D’altra parte, non frequento cristiani intransigenti
(nelle parole o nei pensieri). Per quelli che lo sono tutto ciò che posso fare è scusarmi se ho
ferito i loro sentimenti, e lasciarli in pace.
Ho sempre subito il fascino del lato mistico di tutte le religioni. Ho sempre ascoltato con
entusiasmo chiunque dicesse che Dio non vive in una sacra scrittura o su un trono lontano, in
Cielo, ma abita molto vicino a noi, molto più vicino di quanto immaginiamo, e respira attraverso i nostri cuori. Ascolto con gratitudine chiunque abbia camminato faticosamente fino al
centro di quel cuore e poi sia tornato a spiegarci che Dio è un ’esperienza di amore supremo.
In ogni tradizione religiosa del mondo, ci sono santi che hanno descritto esattamente questa
esperienza. Purtroppo molti sono stati perseguitati e uccisi. Io ho per loro la massima considerazione.
Quello che, infine, sono arrivata a credere sull’esistenza di Dio è semplice. Ecco: una
volta avevo una cagna splendida. L’avevo presa al canile. Era il risultato di una decina di
razze diverse, ma sembrava che da ciascuna avesse preso il meglio. Era marrone. Quando
mi domandavano «Di che razza è?», rispondevo soltanto «è marrone». Allo stesso modo, se
mi domandano «In che Dio credi?», mi è facile rispondere «Credo in un Dio stupefacente».
4
Ho avuto molto tempo per elaborare il mio concetto di divinità dopo la notte, passata sul
pavimento del bagno, quando per la prima volta ho parlato direttamente con Dio. Durante
quella oscura crisi novembrina, non m’importava di formulare teorie: volevo solo salvarmi. Mi
ero finalmente accorta di essere caduta in un pericoloso stato di disperazione e mi ero ricordata che in simili circostanze molti si appellavano a Dio per chiedergli aiuto. Dovevo averlo
letto in qualche libro.
Soffocata dai singhiozzi, mi rivolsi a Dio: «Ciao, Dio, come va? Sono Liz. Lieta di conoscerti».
Proprio così - avevo parlato al creatore dell’universo come se fossimo a un cocktail e ci
avessero appena presentati. D’altronde ci sono automatismi ai quali è difficile sfuggire, e
quelle erano le parole che ero abituata a usare ogni volta che incontravo una persona nuova.
In effetti ero riuscita a stento a trattenermi dal dire: «Da anni ammiro il tuo lavoro...».
«Scusami se ti disturbo a quest’ora di notte» proseguii, «ma mi sono cacciata in un guaio.
Mi dispiace non avertene parlato prima, ma spero di averti sempre manifestato la mia gratitudine per le benedizioni di cui hai colmato la mia vita.»
A questo pensiero mi misi a singhiozzare ancora più forte. Dio aspettò che mi riprendessi.
«Come sai perfettamente, non sono un’esperta in preghiere, ma non potresti lo stesso fare
qualcosa per me? Ho un disperato bisogno di aiuto. Non so cosa fare. Mi serve una risposta.
Ti prego, dimmi che cosa devo fare. Ti prego, dimmi che cosa devo fare. Ti prego, dimmi che
cosa devo fare...»
E così la mia preghiera finì per limitarsi a quella semplice supplica - Ti prego, dimmi che
cosa devo fare - ripetuta non so quante volte. Pregavo come chi chiede di aver salva la vita.
E non smettevo di piangere.
Poi, all’improvviso, il pianto cessò.
Adesso singhiozzavo solo un po’, ogni tanto. La mia infelicità era stata risucchiata come
da un aspirapolvere. Rialzai la fronte da terra e mi misi a sedere, sorpresa, quasi aspettandomi di trovarmi di fronte l’Essere Supremo che aveva portato via il mio pianto, ma non vidi
nessuno. Ero sola. Non completamente sola, però. Ero circondata da qualcosa che riesco a
descrivere unicamente come un involucro di silenzio - un silenzio così raro che non osavo
respirare per non spaventarlo. La mia immobilità era totale, senza incertezze. Non ricordavo
di essere mai stata così immobile.
Poi sentii una voce. Niente paura, non era Charlton Heston nel Vecchio Testamento hollywoodiano e nemmeno una voce che mi ordinava: costruisci un campo da baseball nel cortile
dietro casa. Era la mia voce, che mi parlava da dentro. Ma io, quella mia voce, non l’avevo
mai sentita prima. Era saggia, calma, compassionevole. Era la voce che avrei avuto se nella
vita avessi conosciuto solo amore e certezza. Come descrivere il suo calore affettuoso
mentre mi dava la risposta destinata a risvegliare la mia fede nel divino?
La voce diceva: Toma a letto, Liz.
Respirai profondamente.
Sì, era quella l’unica cosa da fare. Non mi sarei fidata di una voce tonante che mi avesse
ingiunto: Divorzia da tuo marito! Oppure: Non divorziare da tuo marito! Non sarebbe stata
vera saggezza. La vera saggezza dà l’unica risposta possibile nel momento esatto in cui
viene invocata, e quella notte tornare a letto era l’unica risposta possibile. Toma a letto, aveva
detto quella onnisciente voce interiore, perché non hai bisogno di sapere la risposta definitiva
adesso, alle tre del mattino di un giovedì di novembre. Toma a letto, perché ti voglio bene.
Toma a letto, perché adesso hai bisogno di riposarti e di prenderti cura di te finché non avrai
la risposta. Toma a letto, così, quando verrà la tempesta, avrai la forza di affrontarla. E la
tempesta arriverà, Liz. Molto presto. Ma non stanotte. Allora:
Toma a letto, Liz.
Questo piccolo episodio ha tutte le caratteristiche di una conversione cristiana: la notte oscura dell’anima, la richiesta di aiuto, la voce che risponde, la trasformazione interiore. Ma non
si trattò esattamente di una conversione religiosa, non nel senso tradizionale di rinascita o
salvezza: piuttosto, direi che quella notte era cominciata una conversazione religiosa. Le
prime parole di un dialogo libero e aperto che alla fine mi avrebbe portata davvero vicino a
Dio.
5
Se, come ha detto una volta Lily Tomlin, avessi saputo per tempo che le cose sarebbero
andate molto peggio ancor prima di andare peggio, non credo che quella notte sarei riuscita a
dormire. Ma quando, dopo sette mesi molto difficili, lasciai infine mio marito, credetti che il
peggio fosse davvero passato. è la prova di quanto poco sapessi sul divorzio.
Tempo fa vidi una vignetta sul «New Yorker». Una donna diceva a un’altra: «Se vuoi conoscere veramente qualcuno, chiedigli il divorzio». Ovviamente, io avrei detto il contrario: se
vuoi smettere di conoscere qualcuno, divorzia da lui. O da lei. è quello che successe tra me e
mio marito. La rapidità con cui passammo dall’intimità più totale alla più completa estraneità e
incomprensione reciproca fu, credo, scioccante per tutti e due. Entrambi stavamo facendo
qualcosa che l’altro non avrebbe mai ritenuto possibile: lui non avrebbe mai pensato che
potessi veramente lasciarlo e mai, nemmeno nelle mie più sfrenate fantasie,
io avrei creduto che lui potesse rendermi così difficile il distacco.
Ero sinceramente convinta che mio marito e io, nello sciogliere il nostro matrimonio,
avremmo sistemato in qualche ora le questioni pratiche con l’aiuto di una calcolatrice, del
buon senso e della buona volontà di due persone che una volta si erano amate. La mia idea
iniziale era vendere la casa e dividere tutto a metà, non mi era mai passato per la mente che
si potesse procedere in un modo diverso. Lui trovò che non era giusto. Così alzai l’offerta e
proposi una soluzione più drastica: a lui tutti i beni materiali e a me tutte le colpe del nostro
fallimento. Ma neanche questa proposta portò a un accordo. Che fare? Come si può aprire
una trattativa dopo che hai già offerto tutto? Non mi restava che aspettare una controproposta. Il senso di colpa per averlo lasciato mi vietava di pensare che avrei potuto tenere per
me almeno qualche soldo di quelli guadagnati negli ultimi dieci anni. Inoltre, la spiritualità cui
ero da poco approdata rendeva essenziale che non ci fossero scontri. La mia posizione
dunque era questa: non mi sarei difesa e non avrei attaccato. Per moltissimo tempo, contro il
parere delle persone che mi volevano bene, resistetti anche alla tentazione di consultare un
avvocato, perché mi sarebbe parsa un’azione di guerra. Volevo essere un Gandhi, un Nelson
Mandela. Senza pensare che tutti e due erano avvocati.
Passarono i mesi. Vivevo in un limbo, in attesa di essere libera e di conoscere le condizioni del divorzio. Vivevamo separati (lui si era trasferito nel nostro appartamento di Manhat-tan), ma niente era stato deciso. Le bollette si ammonticchiavano, le carriere di entrambi
ristagnavano, la casa andava in rovina e i silenzi di mio marito erano interrotti solo da qualche
saltuaria comunicazione in cui lui mi ricordava che ero una stupida e una criminale.
E poi c’era David.
Tutte le complicazioni e i traumi dei brutti anni del divorzio furono ingigantiti dal dramma di
David, l’uomo di cui mi ero innamorata mentre il mio matrimonio finiva. A proposito, ho detto
che mi ero innamorata di David? Meglio dire che mi ero tuffata dal mio matrimonio nelle braccia di David esattamente come l’acrobata di un cartone animato si tuffa da un trampolino dentro un bicchier d’acqua e ne viene inghiottito. Mi ero aggrappata a David come all'ultimo
elicottero in fuga da Saigon, scaricandogli addosso tutte le mie speranze di salvezza e felicit. E, sì, lo amavo. Disperatamente.
Subito dopo aver lasciato mio marito, ero andata a vivere con David. Era - ed è - giovane
e affascinante. Nato a New York, attore e scrittore, con quegli occhi italiani, scuri e liquidi che
da sempre (l’ho già detto?) hanno il potere di confondermi. Tracotante, indipendente, vegetariano, sboccato, spirituale, fascinoso. Un poeta-yogi ribelle. Un atleta sexy e prediletto da
Dio. Leggendario, eccessivo. Almeno per me. La prima volta che Susan, la mia migliore amica, mi aveva sentito parlare di lui, osservando la mia espressione esaltata aveva detto:
«Oddio, ragazza, in che guaio ti sei cacciata».
Ci eravamo conosciuti perché David recitava in una commedia tratta da alcuni miei racconti. Interpretava una parte, e questo spiega molte cose. Non è sempre così quando si ama
troppo? Inventiamo delle parti per coloro che ci stanno accanto, ed esigiamo che le rispettino,
e ci sentiamo morire se rifiutano di farlo.
Ma, oh, che belli i primi mesi passati insieme, quando lui era ancora il mio eroe romantico
e io la realizzazione di un suo sogno. C’erano tra noi una gioia e un accordo che non avrei
immaginato possibili. Parlavamo una lingua solo nostra. Viaggiavamo in continuazione. Scalavamo montagne, esploravamo abissi, progettavamo avventure in capo al mondo. Eravamo
più felici noi due, insieme, in coda alla Motorizzazione, di chissà quante coppie in luna di
miele. Ci chiamavamo con lo stesso soprannome, perché niente ci separasse. Dividevamo
cene, promesse, giuramenti, traguardi. Lui mi leggeva dei libri e faceva il bucatcA (La prima
volta che avevo telefonato a Susan per raccontarle quella meraviglia, era come se avessi
visto un cammello usare un telefono pubblico. «Un uomo ha appena fatto il bucato per me!»
le avevo detto. «Ha lavato a mano i capi delicati!» E lei, di nuovo: «Ragazza, in che guaio ti
sei cacciata!».)
La prima estate di Liz e David fu un montaggio di tutte le scene d’amore di tutti i film che
siano mai stati girati, compreso il tuffo tra le onde e la corsa mano nella mano attraverso i
prati dorati nella luce del tramonto. A quel tempo pensavo ancora che il mio divorzio sarebbe
avvenuto senza scosse e stavo concedendo a mio marito un’estate sgombra da discussioni,
in modo che tutti e due avessimo il tempo di ritrovare la calma. Era molto facile non pensare a
tutto quello che avevamo perso, con tutta la felicità che David mi regalava. Poi quell’estate
(altrimenti nota come «la tregua») finì.
Il 9 settembre 2001 ebbi l’ultimo colloquio con mio marito, senza sospettare che qualsiasi
incontro successivo avrebbe richiesto la mediazione di un avvocato. Cenammo in un ristorante. Io cercavo di parlare della separazione, ma in realtà non facemmo che litigare. Lui mi
disse che ero bugiarda e traditrice, che mi odiava e che non mi avrebbe mai più rivolto la parola. Due giorni dopo mi svegliai da un sonno agitato, e scoprii che degli aerei dirottati si
erano schiantati contro i due edifici più alti della mia città e che quei simboli indistruttibili
erano diventati una valanga di rovine incandescenti. Telefonai a mio marito per assicurarmi
che fosse sano e salvo e piangemmo insieme per quel disastro, ma non andai da lui. E non ci
andai nemmeno nei giorni che seguirono, quando tutti a New York lasciarono da parte la rabbia e le polemiche per rispetto verso le vittime di quella tragedia. Era veramente tutto finito.
Non esagero se dico che, nei quattro mesi successivi, non riuscii più a dormire.
Pensavo di essere già andata in pezzi altre volte, ma a quel punto (in sintonia con la
sensazione che fosse crollato il mondo intero) la mia vita divenne davvero un ammasso di
rovine. Inorridisco al pensiero di quello che ho fatto passare a David durante i mesi trascorsi
insieme tra l’1l settembre e la separazione definitiva da mio marito. è facile immaginare la sua
sorpresa nell'accorgersi che la donna più felice e ottimista che avesse mai conosciuto, presa
da sola, era un piagnucoloso grumo di dolore. Non c’era niente da fare, non riuscivo a
smettere di piangere. Fu allora che lui cominciò a tirarsi indietro e
io vidi l’altro aspetto del mio eroe romantico e appassionato -un David solitario come un
naufrago, freddo al tatto e bisognoso di spazio più di una mandria di bufali.
L’improvvisa ritirata emotiva di David avrebbe probabilmente rappresentato una catastrofe
anche in circostanze migliori, poiché io incarno la più affettuosa forma di vita esistente sul pianeta (un incrocio tra un golden retriever e una cozza), ma in quel momento le circostanze
erano davvero pessime. Io ero scoraggiata e insicura, più indifesa di tre gemelli nati prematuri. Vederlo allontanarsi mi rendeva particolarmente fragile e il bisogno che avevo di lui
non faceva che accrescere la sua voglia di distacco, fino a farlo ritirare del tutto sotto il fuoco
delle mie lacrimose richieste: «Dove vai? Che cosa ci è successo?». (Piccola dritta sentimentale: gli uomini adorano quando facciamo così.)
La verità è che io ero diventata David-dipendente (a mia difesa posso dire che era difficile
resistergli perché si trattava di una sorta di homme fatai) e ora che la sua presenza vacillava
ne soffrivo le inevitabili conseguenze. La dipendenza è una caratteristica delle storie d’amore
basate sull’infatuazione. Tutto ha inizio quando l’oggetto della tua adorazione ti concede una
inebriante, allucinogena dose di qualche cosa che non hai mai ammesso di desiderare - una
pera emotiva fatta di amore tempestoso é sconvolgente eccitazione. Presto cominci a volerne
sempre di più, con l’avidità di un drogato. Quando la droga finisce, perdi immediatamente le
forze, ti ammali, impazzisci (per non parlare del risentimento nei confronti dello spacciatore,
che prima ha incoraggiato la dipendenza e adesso si rifiuta di fornire la roba migliore, anche
se tu sai che la nasconde da qualche parte, accidenti... perché una volta te la dava gratis). La
fase successiva ti vede scheletrica e tremante, con la sola certezza che venderesti l’anima
per avere una volta ancora quello di cui hai bisogno. Nel frattempo, l’oggetto della tua adorazione ti trova repellente. Ti guarda come se non ti avesse mai vista prima, non come colei
che un tempo aveva amato appassionatamente. E tu, ironia della sorte, non puoi nemmeno
fargliene una colpa; guardati, sei un disastro, irriconoscibile ai tuoi stessi occhi.
Sei arrivata alla fase finale dell’infatuazione: la totale e spietata svalutazione di te stessa.
Se io ora posso scriverne con calma è merito del potere taumaturgico del tempo, perché
all’epoca non la presi affatto bene. Perdere David subito dopo il fallimento del mio matrimonio
e subito dopo la catastrofe che si era abbattuta sulla mia città, e in più durante le peggiori
brutture del divorzio (un’esperienza di vita che il mio amico Brian ha efficacemente paragonato ad «avere tutti i giorni, per due anni, un brutto incidente d’auto»), era veramente
troppo.
Durante il giorno, David e io continuavamo ad avere i nostri brevi periodi di allegria e buon
accordo, ma di notte, nel suo letto, io diventavo l’unica sopravvissuta a un inverno nucleare
mentre lui, visibilmente, ogni giorno di più, si allontanava da me come se avessi una malattia
infettiva. Cominciavo ormai a temere la notte come una camera di tortura. Giacevo li, accanto
al bel corpo di David, addormentato e inaccessibile, e mi dibattevo tra il terrore della solitudine e scenari suicidi immaginati in ogni dettaglio. Avevo dolori in tutte le parti del corpo. Mi
sentivo come un primitivo congegno a molla, sottoposto a una tensione inimmaginabile e
prossimo a esplodere con gravi danni per chiunque nelle vicinanze. Immaginavo le parti del
mio corpo schizzare via dal torso per sfuggire al centro vulcanico di quel groppo di infelicità
che ero diventata. Quasi sempre, quando si svegliava la mattina, David mi trovava in terra accanto al letto, immersa in un sonno agitato, avvolta in un asciugamano, come un cane.
«E ora che c’è?» mi domandava. Un altro uomo che si era stancato di me.
In quel periodo persi almeno quindici chili.
6
Oh, non che andasse poi tutto così male...
Perché Dio non ti sbatte mai una porta in faccia senza prima averti aperto almeno una
scatola di biscotti; all’ombra nefasta di quel dolore è successo anche qualcosa di bello. Tanto
per fare un esempio, mi sono messa finalmente a studiare l’italiano. E mi sono trovata una
guru indiana. Poi sono stata invitata da un vecchio sciamano a vivere con lui in Indonesia.
Ma procediamo con ordine.
Le cose presero a migliorare quando lasciai la casa di David, all'inizio del 2002 e, per la
prima volta nella mia vita, andai a vivere da sola. Non potevo permettermelo, perché stavo
ancora pagando quella grande casa nei sobborghi dove nessuno viveva più ma che mio
marito mi impediva di vendere, e intanto cercavo di non annegare nelle parcelle degli avvocati
e degli psicologi... ma era vitale che avessi una «stanza tutta per me». Vedevo
quell’appartamento quasi come un sanatorio, una casa di cura dove ritrovare la salute. Dipinsi
le pareti dei colori più caldi che riuscii a trovare e ogni settimana mi compravo un bel mazzo
di fiori, come se dovessi andare a trovare me stessa all’ospedale. Mia sorella mi regalò una
borsa per l’acqua calda (per non farmi sentire troppo sola in un letto freddo) e io me la tenevo
stretta al cuore ogni notte, come si fa con il ghiaccio su un brutto livido. David e io ci eravamo
lasciati davvero. O forse no. è difficile, ora, ricordare quante voi-te ci lasciammo e riconciliammo in quei mesi. Ma c’era uno schema in quegli andirivieni: ogni volta che mi separavo
da David ritrovavo un’energia e una sicurezza che, invariabilmente, lo attiravano e riaccendevano in lui la vecchia passione. Facevamo delle riflessioni intelligenti, sensate e piene
di rispetto reciproco sulla possibilità di «riprovarci», forti di qualche nuovo progetto che ci aiutasse a ridurre le nostre apparenti incompatibilità. Ci impegnammo fino in fondo a trovare una
soluzione. Come potevano, infatti, due persone così innamorate non vivere per sempre felici
e contente? Doveva essere per forza così. Tornavamo insieme, con ritrovata speranza, e
vivevamo giorni di delirante felicità. O addirittura settimane. Poi David ricominciava a tirarsi indietro e di nuovo io mi aggrappavo a lui (o io mi aggrappavo a lui e lui si tirava indietro - non
si riusciva mai a capire chi avesse innescato il meccanismo) così io entravo in crisi e lui finiva
per andarsene.
David era per me erba gatta e criptonite.
Durante i periodi in cui eravamo separati, per quanto mi riuscisse difficile, cercavo
d’imparare a vivere da sola, e quello fu l’inizio di un cambiamento interiore. Cominciai ad
avere la sensazione - sebbene la mia vita somigliasse ancora a un incidente plurimo
sull’autostrada per il New Jersey - di avvicinarmi, barcollando, alla prospettiva di una vita
autonoma. Quando non pensavo a suicidarmi per via del divorzio o per David, ero a tutti gli
effetti deliziata all’idea dei nuovi tempi e spazi che i giorni mi offrivano, e della domanda che
finalmente ero in grado di pormi: «Che cosa hai voglia di fare, Liz?».
La maggior parte delle volte (ancora stravolta per essermi catapultata fuori dal matrimonio) non osavo nemmeno rispondere a quella domanda, ma bastava a esaltarmi la sola possibilit di formularla. E quando finalmente cominciai a rispondermi, lo feci con cautela, concedendomi di esprimere solo desideri piccoli come i primi passi di un bambino. Così:
Voglio andare a scuola di yoga.
Voglio andarmene presto da questa festa, tornare a casa e leggere un libro.
Voglio comprarmi una scatola di matite.
E non mancava mai quella bizzarra risposta, sempre uguale:
Voglio imparare l’italiano.
Da anni desideravo imparare l’italiano - una lingua che trovo più bella delle rose - ma non
riuscivo a trovare la minima giustificazione pratica per cominciare. Perché non perfezionare il
francese o il russo, che avevo già studiato anni prima? Perché non imparare lo spagnolo che
mi avrebbe permesso di comunicare con milioni di concittadini americani? Che me ne facevo
dell’italiano? Non intendevo mica trasferirmi in Italia. Sarebbe stato più utile imparare a suonare la fisarmonica.
Ma perché tutto deve avere sempre un’applicazione pratica? Per anni ero stata un soldato
obbediente - avevo lavorato, prodotto, rispettato le scadenze, mi ero presa cura dei miei cari,
delle mie gengive e del mio conto in banca, ed ero sempre andata a votare. La vita è forse
fatta solo di doveri? Nella crisi nera che stavo attraversando, avevo davvero bisogno di una
giustificazione per imparare l’italiano, oltre al fatto che non c’era nient’altro che potesse farmi
piacere? Studiare una lingua non era un obiettivo scandaloso. Non era come dire, a trentadue
anni: «Voglio diventare la prima ballerina del New York City Ballet». Era realisticamente fattibile. Perciò mi iscrissi a un corso in uno di quei posti meglio noti come Scuole Serali per
Donne Divorziate. I miei amici lo trovavano esilarante. Nick mi disse: «Perché studi l’italiano?
Be’, se l’Italia dovesse invadere di nuovo l’Etiopia, questa volta con successo, potresti vantarti
di conoscere una lingua che si parla in ben due Paesi al mondo».
Ma il fatto era che l’italiano mi piaceva proprio. Ogni parola era per me il canto di un
passero, una formula magica, un tartufo profumato. Correvo a casa sotto la pioggia, dopo la
lezione, facevo un bagno caldo e, immersa nella schiuma, leggevo a voce alta il vocabolario
italiano, mentre le angosce del divorzio e il crepacuore diventavano un lontano ricordo. Certe
parole m’incantavano, mi divertiva chiamare il cellulare con quel tenero vezzeggiativo, il mio
telefonino. Ero diventata una di quegli americani irritanti che salutano sempre con un Ciao! e
non mancavo mai di spiegare l’origine della parola. (Se volete saperlo è un’abbreviazione di
una frase che si usava nel Medioevo a Venezia a mo’ di saluto: «Schiavo vostro!».) Mi
bastava ripetere quelle parole per sentirmi sexy e felice. L’avvocato al quale mi ero rivolta per
il divorzio mi aveva rassicurato raccontandomi di una sua cliente di origine coreana che, dopo
un divorzio particolarmente sgradevole, aveva preso un nome italiano, proprio per sentirsi di
nuovo così: sexy e felice.
Forse prima o poi sarei andata davvero in Italia...
7
Un’altra cosa importante di quel periodo fu la scoperta della disciplina spirituale. Aiutata e
stimolata, naturalmente, dall’ingresso nella mia vita di una vera guru indiana - circostanza per
la quale sarò sempre grata a David. Me la fece conoscere la prima sera che mi invitò a casa
sua. Mi innamorai di tutti e due contemporaneamente. Avevo appena messo piede nel suo
appartamento, quando vidi sul cassettone la fotografia di una bellissima, radiosa donna indiana. Domandai: «Chi è?».
«La mia guida spirituale» rispose David.
Il mio cuore perse un battito, inciampò su se stesso e cadde a faccia in giù. Poi si rialzò, si
spolverò le maniche, tirò un profondo respiro e annunciò: «Voglio anch’io una guida spirituale». Intendo esattamente questo: il mio cuore parlò attraverso le mie labbra. Provai una
sorta di strana scissione: per un attimo la mia mente sgusciò fuori dal corpo, e fronteggiò il
mio cuore chiedendo sbalordita: «Davvero?».
«Sì» fu la risposta, «davvero.»
E la mente ribattè, sarcastica: «E da quando?».
Sapevo benissimo da quando: da quella notte sul pavimento del bagno.
Mio Dio, quanto desideravo una guida spirituale! Cominciai subito a immaginarmela:
quella bellissima donna radiosa sarebbe venuta da me qualche sera alla settimana, avremmo
preso il tè parlando del senso del divino e lei mi avrebbe consigliato delle letture, spiegandomi il significato delle strane sensazioni che avvertivo durante la meditazione...
Tutte queste fantasie sfumarono quando David mi disse del prestigio internazionale di
quella donna, che aveva decine di migliaia di discepoli, molti dei quali non l’avevano mai incontrata di persona. A ogni modo, aggiunse, ogni martedì sera i suoi seguaci si trovavano a
New York per meditare e cantare litanie. «Se non ti spaventa l’idea di trovarti in una stanza
con qualche centinaio di persone che cantilenano il nome di Dio in sanscrito» mi disse David,
«puoi venire qualche volta.»
Il martedì seguente lo accompagnai. E invece di scappare via di fronte a tutte quelle persone normalissime che rivolgevano strani canti a Dio, sentii la mia anima alzarsi e diventare
diafana nell’onda di quelle voci. Quella sera tornai a casa con la sensazione che l’aria mi attraversasse, come un fazzoletto pulito sulla corda dei panni, come se la stessa New York
fosse fatta di carta di riso e io fossi tanto leggera da volare sui tetti. Cominciai a frequentare le
riunioni ogni martedì, poi a meditare ogni mattina sull’antico mantra sanscrito che il guru dà a
tutti i suoi discepoli (il regale Om Namah Shivaya, che significa «Onoro la divinità che risiede
dentro di me»). Poi, per la prima volta, ascoltai la guru in persona e le sue parole mi
trasmisero brividi ovunque, anche sulla faccia. E quando seppi che aveva un ashram in India,
capii che dovevo andarci al più presto.
8
Nel frattempo, però, dovevo andare in Indonesia.
Di nuovo, su incarico di una rivista. Proprio mentre mi commiseravo per essere così a
pezzi, sola e confinata nel Campo di Concentramento per Divorziati, la direttrice di una rivista
femminile mi aveva chiesto se fossi disposta ad andare a Bali a scrivere un pezzo sulle vacanze yoga. Potete immaginare la mia risposta. Quando arrivai a Bali (che è, in due parole,
un posto bellissimo) , l’insegnante che seguiva il ritiro yoga ci disse: «Dal momento che siete
qui, vi interesserebbe incontrare uno sciamano balinese di nona generazione?». (Anche qui,
troppo facile indovinare la risposta.) E così una sera andammo tutti a casa sua.
Lo sciamano era un vecchietto con uno sguardo allegro, la pelle rossobruna e la bocca
quasi completamente sdentata, incredibilmente simile a Yoda di Guerre Stellari. Si chiamava
Ke-tut Liyer. Parlava uno strano inglese spezzettato, una vera delizia per l’orecchio. Per fortuna c’era un interprete a disposizione quando lui si bloccava su una parola.
L’insegnante di yoga ci aveva detto che avremmo potuto fargli delle domande e che lui
avrebbe cercato di aiutarci. Erano giorni che pensavo a cosa chiedergli. Le idee iniziali erano
piuttosto squallide: Può fare in modo che mio marito mi conceda il divorzio? Può fare in modo
che David mi desideri nuovamente ? Mi ero vergognata di quei pensieri. Che senso aveva andare all’altro capo del mondo per incontrare uno sciamano indonesiano e, giunti al dunque,
chiedergli di intervenire in un problema di cuore?
Così, quando il vecchio mi domandò direttamente che cosa desiderassi davvero, risposi
con altre parole, più sincere.
«Voglio avere un contatto duraturo con Dio» gli dissi. «Qualche volta mi sembra di percepire l’essenza divina di questo mondo, ma poi ne perdo il senso, distratta da piccoli desideri
e piccole paure. Io voglio restare sempre accanto a Dio, ma senza farmi monaca o rinunciare
interamente ai piaceri della vita. Voglio vivere nel mondo e godere delle gioie che ci offre, ma
voglio anche imparare a dedicarmi a Dio.»
Ketut disse che mi avrebbe risposto con un disegno. Mi mostrò uno schizzo che aveva
fatto durante una meditazione: una figura umana androgina, in piedi, con le mani congiunte in
preghiera. Ma quella figura aveva quattro gambe, e al posto della testa un groviglio di foglie e
fiori selvatici. Sul cuore era disegnato un piccolo viso sorridente.
«Per trovare l’equilibrio che stai cercando» mi rispose Ketut attraverso l’interprete «devi
diventare così. Devi tenere i piedi ben piantati a terra, come se avessi quattro gambe. In
questo modo puoi vivere nel mondo, ma devi smettere di guardarlo con la testa, devi
guardarlo con il cuore. Così conoscerai Dio.»
Poi mi domandò se poteva leggermi la mano. Gli porsi la sinistra e lui mi ricompose come
un puzzle di tre sole tessere.
«Sei-una donna che viaggia in giro per il mondo.»
Cosa che mi parve un po’ ovvia, visto che in quel momento mi trovavo in Indonesia, ma
decisi di non sottolinearlo.
«Sei più fortunata di chiunque altro abbia conosciuto. Vivrai a lungo, avrai molti amici e
farai molte esperienze. Vedrai tutto il mondo. Hai un solo problema nella vita: ti preoccupi
troppo. Sei emotiva, ansiosa. Se ti prometto che non avrai mai alcuna ragione di preoccuparti,
mi crederai?»
Annuii nervosamente, senza credergli affatto.
«Hai un lavoro creativo, forse artistico, ben pagato. Sarai sempre pagata bene per il tuo
lavoro. Sei generosa con il denaro, forse troppo. Una volta nella vita perderai tutti i tuoi soldi.
Forse succederà presto.»
«Entro sei, dieci mesi al massimo» risposi, pensando al mio divorzio.
Ketut fece un cenno con la testa, che voleva dire: Sì, andrà più
o meno così. «Ma non preoccuparti» aggiunse, «dopo aver perso il denaro, lo riavrai
subito. E poi starai bene. Ci saranno due matrimoni nella tua vita, uno breve e uno lungo. Avrai due figli...»
Mi aspettavo che dicesse: «Uno basso, uno alto», invece all’improvviso tacque, guardandomi il palmo con la fronte aggrottata. Poi riprese: «Strano...», una parola che nessuno
vorrebbe sentir pronunciare né da un chiromante né da un dentista. Mi chiese di spostarmi
sotto la lampadina appesa al soffitto, per vedere meglio.
«Mi sono sbagliato» disse infine, «avrai un solo figlio. Più avanti negli anni, una bambina.
Forse. Se lo vorrai... ma c’è qualcos’altro.» Aggrottò di nuovo la fronte, poi alzò gli occhi, improvvisamente sicuro. «Presto tornerai a Bali. Devi tornare. E restare qui per tre mesi, forse
quattro: sarai mia amica. Forse vivrai con la mia famiglia. Potrò esercitarmi in inglese parlandò con te. Non ho mai avuto nessuno con cui far pratica. Tu sei brava con le parole. Forse
il lavoro creativo che fai riguarda le parole?»
«Sì» risposi. «Scrivo libri.»
«Sei una scrittrice e vieni da New York» concluse, quasi come una conferma. «Dunque
tornerai a Bali, vivrai qui e m’insegnerai l’inglese. E io t’insegnerò tutto quello che so.»
Si alzò e si strofinò le mani come a dire: siamo d’accordo.
«Se per lei è una cosa seria» dissi, «lo è anche per me.»
Mi offrì un luminoso sorriso sdentato e rispose: «See you la-ter, alligator».
9
Ora, se uno sciamano balinese di nona generazione mi dice che il mio destino è di
trasferirmi a Bali e vivere con lui per quattro mesi, è ovvio che io faccio tutto il possibile per
andare incontro a quel destino. E così il mio progetto di viaggio per quell’anno cominciò a
prendere forma. Dovevo assoluta-mente tornare in Indonesia, e questa volta con i miei quattro soldi. Anche se non riuscivo ancora a immaginare come avrei fatto, con la mia vita caotica
e travagliata. (Non solo dovevo ancora concludere il mio costosissimo divorzio e risolvere il
problema David, ma avevo anche un contratto con una rivista che mi impediva di sparire per
tre o quattro mesi.) Oltre a tornare in Indonesia, però, volevo anche andare in India a visitare
1 ’ashram della mia guru, e anche per quello occorrevano soldi e tempo. Ad accrescere la
confusione, c’era il fatto che da un pezzo morivo dalla voglia di andare in Italia per migliorare
il mio italiano, e anche perché ero affascinata dalla prospettiva di assorbire, per quanto potevo, una cultura che venerava il piacere e la bellezza.
Tutti questi desideri sembravano in contrasto l’uno con l’altro. Vedevo soprattutto un conflitto tra Italia e India. Che cosa contava di più? La parte di me che voleva mangiare vitello a
Venezia? O quella che voleva svegliarsi molto prima dell’alba nell’austerità di un ashram per
cominciare una lunga giornata di meditazione e preghiera? Rumi, il grande poeta e filosofo
sufi, consigliava ai suoi discepoli di elencare le tre cose che desideravano di più nella vita. Se
due voci contrastavano, ammoniva Rumi, si era destinati all’infelicità. Meglio vivere una vita
tesa a un unico scopo. Ma non c’erano dei vantaggi nel dividersi armoniosamente tra posizioni estreme? Non sarebbe stato bello crearsi una vita così traboccante da riuscire a
contenere opposti apparentemente inconciliabili? La mia verità era esattamente quella che
avevo detto allo sciamano di Bali: volevo fare entrambe le esperienze. Volevo le gioie del
mondo e la trascendenza - il duplice splendore di una esistenza pienamente umana. Volevo
quello che i Greci antichi chiamavano kalòs kai agathòs, l’equilibrio tra ciò che è buono e ciò
che è bello. Negli ultimi difficili anni non avevo fatto che perdere di vista entrambi, perché piacere e spiritualità richiedono uno spazio libero da tensioni e io ero vissuta in un grosso com-
pattatore di rifiuti pieno di ansie dilanianti. Quanto a bilanciare l’impulso ai piaceri terreni e il
desiderio di spiritualità... un trucco doveva pur esserci. Mi bastò il poco tempo trascorso a Bali
per capire che sarebbero stati i suoi abitanti a insegnarmelo. O forse addirittura il vecchio
sciamano in persona.
Quattro piedi puntati a terra, la testa piena di foglie e il mondo visto attraverso il cuore...
Così smisi di costringermi a scegliere - Italia? India? Indonesia? - e ammisi che volevo
conoscere tutti e tre i Paesi. Quattro mesi per ciascuno. Un anno in tutto. Certo, era un sogno
leggermente più ambizioso dell’acquisto di una scatola di matite. Ma era quello che volevo. E
poi volevo scrivere di tutto questo. Per me non erano tanto luoghi da esplorare, altri viaggiatori lo avevano fatto prima di me; quello che mi interessava era indagare un aspetto di me
stessa sullo sfondo di ciascun Paese. Volevo imparare l’arte del piacere in Italia, l’arte della
devozione in India e, in Indonesia, l’arte di bilanciare l’uno e l’altra. Solo più tardi, dopo aver
capito qual era il mio sogno, mi sono accorta che i nomi di quei tre Paesi cominciano tutti con
la i. Mi è sembrato un presagio felice per un viaggio alla scoperta del mio Io.
Provate a immaginare adesso i commenti che il progetto scatenò tra i miei saccenti amici.
Volevo partire per le tre i? Allora perché trascurare l’Iran, l’Islanda, l’Irlanda? O, meglio
ancora, perché non partire in pellegrinaggio alla volta della grande triade Ikea, Ipermercato,
Idromassaggio? La mia amica Susan mi consigliò di fondare un’associazione umanitaria no
profìt e di chiamarla «Divorziate senza frontiere», ma erano scherzi non pertinenti perché io
non ero ancora in grado di andare da nessuna parte. Il divorzio, anche adesso che il matrimonio non esisteva più da molto tempo, non c’era ancora. Avevo dovuto ridurmi a esercitare
pressioni legali su mio marito, facendo cose spaventose, come fargli recapitare convocazioni
scritte e denunce (richieste dalla Legge dello Stato di New York) comprovanti l’accusa di
crudeltà mentale. Erano documenti che non lasciavano spazio a sottigliezze, negandomi la
possibilità di spiegare al giudice: «Senta, era una relazione piuttosto complicata, anch’io ho
fatto dei grossi sbagli e me ne dispiace, ma tutto quello che chiedo è di essere libera».
(A questo punto farò una pausa per rivolgere una preghiera in favore dei miei affezionati
lettori: che mai e poi mai si trovino immischiati in una causa di divorzio a New York.)
Nella primavera del 2003 la situazione raggiunse un punto critico. Dopo un anno e mezzo
di separazione, mio marito era finalmente pronto a discutere i termini di un accordo. Sì, voleva i soldi, la casa e l’appartamento in affitto a Manhattan, e
io ero disposta a dargli tutto. Ma lui chiedeva anche cose che a me non sarebbero mai
neanche passate per la mente, una parte dei diritti sui libri che avevo scritto durante il matrimonio, una fetta dei possibili diritti futuri su eventuali film tratti dai miei lavori, una quota della
mia pensione, e così via. Mesi di trattative tra i nostri avvocati sfociarono in un compromesso
che stava per essere messo sul piatto, con qualche speranza che mio marito fosse disposto a
sottoscriverlo, magari con qualche modifica. Se avesse firmato l’accordo, io non avrei dovuto
fare altro che pagare e andarmene. Altrimenti, saremmo finiti in tribunale. Un processo, quasi
inevitabilmente, avrebbe inghiottito i pochi soldi che mi restavano. E, peggio ancora, avrebbe
richiesto a dir poco un altro anno. Dunque, c’era in ballo un anno della mia vita. L’avrei passato a viaggiare da sola in Italia, in India, in Indonesia? O a rispondere a ossessivi e interminabili controinterrogatori nel seminterrato di un tribunale?
Ogni giorno telefonavo almeno quattordici volte al mio avvocato - Ci sono novità ? - e ogni
giorno lei mi assicurava che stava facendo del suo meglio e che se l’accordo fosse stato firmato mi avrebbe avvertita immediatamente. Provavo un’agitazione a metà tra l’attesa davanti
all’ufficio del preside e l’ansia per il risultato di una biopsia. Mi piacerebbe descrivere la mia
calma Zen, ma non posso. Più di una volta, in preda alla rabbia, trascorsi la notte a picchiare
sul letto con la mazza da baseball. Il resto del tempo ero solo terribilmente depressa.
Nel frattempo, David e io ci eravamo di nuovo lasciati. Sul serio, questa volta. O forse no non ce la sentivamo di rinunciare del tutto. Spesso venivo presa dal desiderio di sacrificare
ogni progetto per amor suo. Altre volte provavo l’impulso opposto -mettere tra me e quel
tipaccio tutti i continenti e gli oceani possibili, nella speranza di trovare finalmente pace e felicit.
Mi erano venute le rughe, due solchi permanenti tra le sopracciglia, a furia di piangere e
angustiarmi.
E, nel bel mezzo di tutto questo, un mio libro vecchio di anni decise di uscire in edizione
economica, costringendomi a partire per un piccolo giro pubblicitario. Portai con me la mia
amica Iva, per tenermi compagnia. Iva ha la mia età, ma è cresciuta in Libano, a Beirut.
Questo vuol dire che, da ragazze, mentre io facevo sport o audizioni per partecipare a un musical in una scuola media del Connecticut, lei stava rannicchiata in un rifugio antiaereo cinque
notti su sette, per cercare di salvarsi la pelle. Non so fino a che punto essere esposti alla violenza aiuti a crescere forti, ma Iva è la persona più calma che conosca. Inoltre possiede quello
che io chiamo «collegamento ultrasonico con l’universo», un canale esclusivo di comunicazione con il divino, accessibile ventiquattr’ore su ventiquattro.
Iva e io viaggiavamo dunque attraverso il Kansas, e io mi trovavo nel mio solito stato di
sudaticcia confusione mentale - firmerà, non firmerà? - quando confessai: «Non credo di farcela a sopportare un altro anno di pratiche legali. Mi serve un intervento divino. Vorrei
scrivere una specie di petizione a Dio per chiedergli di porre fine a tutta questa storia».
«E perché non la scrivi?»
Spiegai a Iva la mia personale opinione sulla preghiera. Le dissi che non mi sembrava
giusto pretendere da Dio qualcosa di specifico. Indebolisce il concetto di fede. Non mi piaceva l’idea di chiedere: «Potresti liberarmi da questa difficoltà o da quest’altra?». Chi lo sa,
magari Dio aveva inteso mettermi di fronte a un determinato ostacolo per il mio bene. Preferivo chiedergli il coraggio di affrontare con equilibrio qualsiasi cosa mi capitasse, indipendentemente dai risultati. Iva mi ascoltò educatamente, poi domandò: «Chi ti ha messo in
mente un’idea così stupida?».
«Che cosa vuoi dire?»
«Perché pensi di non poterti rivolgere all’universo con la preghiera? Tu sei parte di questo
universo, Liz. Hai tutti i diritti di partecipare al suo evolversi e di manifestare ciò che senti.
Esprimi la tua opinione. Solleva la questione che ti preoccupa. Credimi - alla fine riceverai
ascolto.»
«Davvero?» Per me era un modo di ragionare assolutamente nuovo.
«Davvero! Se tu adesso fossi costretta a scrivere una petizione a Dio, come dici tu, che
cosa gli chiederesti?»
Riflettei un momento, poi tirai fuori dalla borsa un libretto di appunti e scrissi:
Caro Dio,
per favore intervieni e metti fine a questo divorzio. Io e mio marito abbiamo sbagliato tutto
nel matrimonio e ora stiamo
sbagliando tutto nel divorzio. Questa causa è un veleno che distrugge noi e chiunque ci
voglia bene.
So che devi pensare a guerre e tragedie, a contrasti ben più importanti di quelli di una
coppia che non funziona, ma so anche che la salute del pianeta è condizionata da quella di
ogni sua parte. Fino a quando anche due anime soltanto si dibattono in un conflitto, tutto il
mondo ne sarà contaminato. Allo stesso modo, se una o due anime si libereranno dalla discordia, la salute del mondo ne gioverà.
Ciò che ti chiedo con molta umiltà è di aiutarmi a porre fine al nostro dissidio, di modo che
possiamo tornare a essere liberi e sani, in un mondo già troppo segnato dalla sofferenza.
Grazie per la tua gentile attenzione.
Con rispetto,
Elizabeth M. Gilbert
Lo lessi a Iva e lei annuì.
«Metterei anche la mia firma» disse.
Le porsi il foglio e la penna, ma stava guidando. «Fa’ conto che l’abbia fatto» rispose.
«L’ho firmata con il cuore.»
«Grazie, Iva. Grazie per il tuo appoggio.»
«Chi altri la firmerebbe?»
«La mia famiglia. Mia madre e mio padre. Mia sorella.»
«ok, ci sono anche loro. Vedo i loro nomi sulla lista. Chi possiamo aggiungere? Fammi un
elenco.»
Così cominciai a nominare tutti quelli che, secondo me, avrebbero firmato la petizione. Gli
amici più cari, altri membri della mia famiglia e qualcuno dei miei colleghi. Ogni volta Iva
diceva con sicurezza: «Giusto. Ha firmato anche lui» oppure «Ha firmato anche lei». Qualche
volta era lei a proporre nuovi nomi: «Hanno firmato anche i miei genitori. Hanno allevato i loro
figli durante la guerra, detestano i conflitti inutili, sarebbero felici di sapere che la tua causa di
divorzio è finita».
Chiusi gli occhi e attesi che mi venisse in mente qualcun altro.
«Credo che anche Bill e Hillary Clinton abbiano appena firmato» dissi.
«Non ne dubito. Ascolta, Liz. Una petizione del genere la firmerebbe chiunque, lo capisci?
Chiama qualsiasi persona ti venga in mente, viva o morta, e comincia a raccogliere le adesioni.»
«San Francesco d’Assisi ha firmato!»
«E naturale! Che cosa ti aspettavi?» ribattè Iva dando un pugno al volante.
Tiravo fuori un nome dopo l’altro.
«Abraham Lincoln ha firmato! Gandhi, Mandela, tutti i pacifisti. Eleanor Roosevelt, Madre
Teresa, Bono, Jimmy Carter, Mohammed Ali, Jackie Robinson e il Dalai Lama... e mia nonna
che è morta nel 1984, e l’altra mia nonna che è ancora viva... e il mio insegnante d’italiano e il
mio psicologo e il mio agente... e Martin Luther Kingjr. e Katharine Hepburn... e Martin
Scorsese (non ci contavo, ma è un gesto simpatico da parte sua)... e la mia guru, naturalmente... e Joanne Wood-ward, e Giovanna d’Arco e la mia maestra di prima media, la signora Carpenter, e Jim Henson...»
I nomi sgorgavano come un fiume dalle mie labbra. Seguitai ad aggiungerne per più di
un’ora, e intanto la mia petizione per la pace si allungava, una pagina invisibile dopo l’altra,
con le firme dei miei sostenitori. Iva non faceva che confermare - ha firmato anche lui, sì, ha
firmato anche lei - e io mi sentivo crescere attorno un grande senso di protezione.
Poi la lista finì e la mia ansia con essa. Avevo sonno. Iva disse: «Dormi un po’, io continuo
a guidare». Chiusi gli occhi. Apparve l’ultimo nome: «Michael J. Fox. Ha firmato anche lui»
mormorai prima di scivolare nel sonno. Non saprei per quanto tempo dormii, forse solo dieci
minuti, ma di un sonno profondo. Quando mi risvegliai, Iva guidava ancora canticchiando una
canzone. Sbadigliai.
II mio cellulare squillò.
Vidi il telefonino vibrare di entusiasmo nel portacenere dell’automobile a nolo. Ero disorientata, ancora un po’ stordita, improvvisamente incapace di ricordare come funziona un telefono.
«Dai» mi incitò Iva, che aveva capito. «Rispondi.»
Presi il telefono, bisbigliai: «Pronto».
«Grande notizia!» annunciò il mio avvocato dalla lontana New York. «Ha firmato!»
10
Qualche settimana dopo, vivevo in Italia.
Avevo lasciato il lavoro, pagato le spese di divorzio e le parcelle, ceduto la mia casa e il
mio appartamento, lasciato in deposito da mia sorella quel che mi era rimasto e riempito due
valigie. Il mio anno di viaggio era cominciato. E potevo permettermelo grazie a un miracolo: il
mio editore aveva comprato
il libro che volevo scrivere sui miei viaggi. Era successo, in altre parole, quello che lo
sciamano mi aveva predetto in Indonesia, e cioè avevo perso tutti i miei soldi e li avevo immediatamente recuperati - almeno in misura sufficiente a finanziarmi un anno di vita.
Adesso abitavo a Roma. In un piccolo appartamento in un edificio storico a qualche isolato dalla scalinata di Piazza di Spagna, lungo la strada che parte da Piazza del Popolo. Il mio
nuovo quartiere non possedeva, naturalmente, lo splendore grandioso di quello dove abitavo
a New York, con vista sull’ingresso del Lincoln Tunnel, ma c’era di peggio...
Per quattro mesi poteva andare.
11
La mia prima cena a Roma non è stata niente di speciale. Un piatto di pasta (spaghetti
alla Carbonara) e spinaci al burro e aglio. (Il grande poeta romantico Shelley scrisse una volta
a un amico una lettera orripilata a proposito della cucina italiana: Le ragazze di alto rango
mangiano, non ci crederai mai, Vaglio!) Ho assaggiato anche un carciofo; i romani sono molto
orgogliosi dei loro carciofi. Poi la cameriera è arrivata con la sorpresa del giorno, offerta dalla
casa - fiori di zucca fritti e ripieni di formaggio, preparati con tanta delicatezza che probabilmente i fiori non si erano nemmeno accorti di non essere più sulla pianta. Dopo gli spaghetti,
ho mangiato il vitello. Ah, sì, ho anche bevuto una bottiglia di vino rosso, tutta da sola. Ho
mangiato il pane caldo con l’olio d’oliva e il sale. E per dessert il tiramisù.
Dopo cena, verso le undici, mentre tornavo a casa a piedi, ho sentito un gran chiasso
provenire da un palazzo vicino. Ho pensato a una riunione di bambini di sette anni - forse una
festa di compleanno? Risate, grida e passi di corsa. Sono salita nel mio appartamento, mi
sono distesa sul mio nuovo letto e ho spento la luce. Pensavo che avrei cominciato a piangere o ad angustiarmi, perché era quello che mi succedeva di solito ogni volta che
spegnevo la luce, invece mi sono sentita tranquilla. Stavo bene. Erano i primi sintomi della
serenità.
Il mio corpo stanco ha domandato alla mia mente stanca: «Era di questo, allora, che avevi
bisogno?».
Non c’è stata risposta e mi sono addormentata.
12
In tutte le grandi città del mondo occidentale si incontrano cose simili: le stesse bancarelle
che vendono imitazioni delle stesse borse e degli stessi occhiali disegnati dallo stesso
celebre stilista, gli stessi guatemaltechi che suonano El condor posa con i loro strumenti di
bambù. Però certe cose ci sono solo a Roma. Come l’uomo al banco dei panini che mi
chiama «bella» ogni volta che mi rivolge la parola. Lo vuoi freddo o te lo scaldo, il panino,
bella ? O le coppie che pomiciano ovunque, come in gara tra loro, avvinghiate sulle panchine,
intente ad accarezzarsi i capelli e anche dell’altro, strusciandosi e dimenandosi come bisce.
E poi le fontane. Plinio il Vecchio scrisse: «Se consideriamo l’acqua che Roma fornisce in
abbondanza a bagni, cisterne, pozzi, case, giardini, ville e teniamo conto delle distanze che
quell’acqua percorre, degli archi che disegna, delle montagne che perfora, delle ampie valli
che attraversa, non possiamo non riconoscere che mai è esistito al mondo qualcosa di più
bello».
Oggi, qualche secolo dopo, molte fontane si contendono il privilegio di essere la mia
preferita. Una è a Villa Borghese e ha al centro una giocosa famiglia di bronzo. Papà è un
fauno, mamma una donna. Il bambinetto mangia golosamente un grappolo d’uva. Mamma e
papà sono in un atteggiamento bizzarro. Si tengono per i polsi e hanno il corpo inclinato all’indietro, ed è diffìcile dire se lottino o giochino, ma di certo le loro figure sprigionano grande energia. Il piccolo sta esattamente in mezzo a loro, aggrappato ai loro polsi con il suo grappolo
d’uva, e non gl’importa se mamma e papà stiano litigando o giocando. Il suo piccolo zoccolo
fesso penzola nel vuoto. (Ha preso da suo padre.)
è l’inizio del settembre 2003. L’aria è calda e invita alla pigrizia. In questo quarto giorno a
Roma la mia ombra non si è ancora stagliata sulla soglia di una chiesa o di un museo, non ho
nemmeno dato un’occhiata alla guida, ma ho camminato all’infinito, senza scopo, e alla fine
ho trovato un posticino dove, m’informa un gentile conducente di autobus, si vende II Gelato
Più Buono di Roma. Si chiama «Il gelato di San Crispino», se ho capito bene, e lì ho provato i
gusti miele e nocciola. Quel giorno stesso sono tornata, più tardi, ad assaggiare pompeimo e
melone. E poi di nuovo, dopo cena, per una coppetta di zenzero e cannella.
Cerco di leggere ogni giorno un articolo di giornale, anche se mi porta via molto tempo.
Ogni tre parole circa devo aprire il vocabolario. Oggi le notizie sono particolarmente interessanti. Diffìcile immaginare un titolo più drammatico: Obesità! I bambini italiani sono i più grassi
d’Europa. (Grazie al Cielo dei bambini americani non si fa parola.) L’articolo dice che non
sono solo i bambini piccoli ad essere pericolosamente sovrappeso, ma anche quelli più grandicelli. (Ovviamente, l’industria della pasta si difende.) Queste allarmanti statistiche sono state
rivelate ieri da una «task force internazionale» (inutile il vocabolario, qui). Per decifrare tutto
l’articolo ho impiegato un’ora intera. Nel frattempo ho mangiato una pizza e ho ascoltato un
bambino che suonava la fisarmonica dall’altra parte della strada. Non mi è sembrato grasso,
forse perché in realtà non è italiano. Non sono sicura di aver capito bene la conclusione
dell’articolo, ma sembra che il governo abbia dichiarato che l’unico modo di combattere
l’obesità è mettere una tassa sui chili di troppo... Possibile? E se, dopo qualche mese di cibo
italiano, decidessero di tassare anche me?
è importante leggere i giornali ogni giorno anche per vedere come sta il papa. Qui, a
Roma, le condizioni di salute del papa sono riportate quotidianamente, come le previsioni del
tempo o i programmi della tv. Oggi il papa è stanco. Ieri, il papa era un po’ meno stanco di
oggi. Speriamo che domani il papa non sia stanco come oggi.
Roma è il paradiso della lingua italiana, per me che ho sempre voluto impararla. è come
se qualcuno avesse inventato una città solo per soddisfare le mie esigenze, una città dove
ognuno (anche i bambini, anche i tassisti, anche gli attori negli spot alla tv) parla questa lingua meravigliosa. è come se si fossero messi tutti d’accordo per insegnarmela. I giornali sono
stampati in italiano, apposta per me. E si vendono libri scritti in italiano! Sono entrata in una
libreria, ieri mattina, e mi è parsa un palazzo incantato. Tutto era in italiano - anche il Dottor
Seuss. Gironzolavo qua e là, toccando tutti i libri, e speravo che qualcuno pensasse che la
mia lingua materna era l’italiano. Vorrei tanto che l’italiano si aprisse davanti a me senza più
segreti. è la stessa sensazione che provavo quando, a quattro anni, morivo dalla voglia
d’imparare a leggere. Ricordo che, nella sala d’aspetto di un medico, seduta accanto a mia
madre, avevo sfogliato lentamente un numero di «Good Housekeeping» con gli occhi fissi sul
testo, sperando che gli adulti presenti pensassero che stavo leggendo. Mai, da quella volta,
mi ero sentita tanto desiderosa di sapere. A Roma, ieri mattina in libreria, ho trovato molti poeti americani tradotti, con il testo a fronte. Ho comprato una raccolta di Robert Lowell e
un’altra di Louise Gluck.
Posso fare pratica di conversazione ovunque. Oggi ero seduta sulla panchina di un parco
quando una vecchietta vestita di nero si è appollaiata vicino a me e ha cominciato a parlarmi
di non so che con piglio autoritario. Ho scosso la testa, muta e imbarazzata. Mi sono scusata,
cercando di non fare errori: «Mi dispiace, non parlo italiano». Se avesse potuto, mi avrebbe
probabilmente colpita con un cucchiaio di legno; ma si limitò a insistere: «No, lei capisce». (E
aveva ragione, quella frase almeno l’ho capita.) Poi ha voluto sapere da dove venivo. Le ho
detto che venivo da New York, e le ho rivolto la stessa domanda... Ovviamente, lei era di
Roma. Mi sono messa a battere le mani come una bambina. Ah, Roma! Bellissima Roma! Mi
piace tanto Roma! Bella Roma! Lei mi ha ascoltato berciare con aria scettica, poi è andata
dritta al sodo e mi ha domandato se ero sposata. Le ho risposto che ero divorziata. Era la
prima volta che lo dicevo a qualcuno e per di più mi toccava dirlo proprio in italiano. Natural-
mente lei mi ha domandato: «Perché?». La risposta era difficile in qualsiasi lingua. Infine ho
balbettato qualcosa di simile a: «L’abbiamo rotto».
Lei ha annuito, si è alzata, si è avviata verso la vicina fermata, poi è salita sull’autobus
senza neanche voltarsi. Era arrabbiata con me? Non so perché, ma ho aspettato su quella
panchina altri venti minuti, pensando, irragionevolmente, che potesse tornare per riprendere
la conversazione, ma non è tornata. Si chiamava Celeste e mi piaceva il suono di quella «c»,
come in «violoncello».
Più tardi, quel giorno, ho trovato una biblioteca. Io vado matta per le biblioteche. Qui, poi,
siamo a Roma e questa biblioteca è bella e antica e ha un cortile-giardino di cui nessuno,
dalla strada, può sospettare l’esistenza. è perfettamente quadrato, con tanti alberi di arancio
e una fontana nel mezzo. La vedevo per la prima volta e subito ho capito che quella fontana
sarebbe entrata in gara con le mie preferite, anche se era diversa dalle altre. Tanto per
cominciare, non era scolpita nel marmo. Era una piccola, verde, muscosa fontana naturale:
un intricato e gocciolante cespuglio di felci. (In verità, ricordava moltissimo il fogliame
selvatico che cresceva al posto della testa nella figura che il vecchio sciamano mi aveva
mostrato in Indonesia.) L’acqua sgorgava dal centro di questo cespuglio fiorito e ricadeva
lungo le foglie con un incantevole suono che echeggiava malinconicamente in tutto il giardino.
Mi sono seduta all’ombra di un arancio e ho aperto uno dei libri di poesie che avevo comprato il giorno prima. Era di Louise Glùck. Ho letto la prima poesia in italiano, poi in inglese e
mi sono soffermata su questo verso:
Dal centro della mia vita venne una grande fontana...
«From thè center of my life, there carne a great fountain... »
Sono rimasta seduta con il libro in grembo, tremante di sollievo.
13
A dir la verità, non sono la migliore viaggiatrice che esista al mondo.
Lo so, perché ho viaggiato molto e ho conosciuto viaggiatori straordinari. Nati per quello.
Così forti fisicamente che, a Calcutta, potrebbero bere l’acqua di un rigagnolo da una scatola
da scarpe senza patire alcun effetto. Gente che assimila una lingua nuova dove noi assimiliamo solo una malattia infettiva. O che sa come battere in ritirata davanti a una minacciosa guardia di frontiera, e come blandire, all’ufficio visti, un burocrate accigliato. Hanno la
statura giusta e la carnagione che li fa apparire accettabili ovunque vadano - potrebbero essere turchi in Turchia, messicani in Messico, baschi in Spagna e arabi in Nordafrica...
Io non ho queste qualità. Prima di tutto, non mi mimetizzo. Sono alta, bionda e ho un colorito roseo. Più un fenicottero che un camaleonte. Dovunque vada, esclusa Dùsseldorf, sono
vistosamente straniera. In Cina, le donne mi indicavano ai bambini come se fossi un animale
fuggito dallo zoo. E loro, che non avevano mai visto un fantasma con le guance rosa e i
capelli gialli, spesso scoppiavano in singhiozzi. Era una cosa che odiavo, in Cina.
Sono incapace (o forse è solo pigrizia) di prenotare un posto prima di partire, preferisco
stare a vedere quello che succede. Quando si viaggia così, «quello che succede» si risolve
nel ciondolare in una stazione senza sapere da che parte andare, o nel
lo spendere un mucchio di soldi nell’unico albergo che ha una camera libera, ovviamente
il più costoso di tutti. Il mio scarso senso deH’orientamento e la mia pessima conoscenza
della geografia mi hanno portato a esplorare sei continenti sempre con una vaghissima idea
di dove mi trovavo. Oltre ad avere l’ago della bussola sghembo, non sono abbastanza calma
e questo in viaggio è una mancanza grave. Non sono mai riuscita ad assumere quell’aria di
consapevole invisibilità che è tanto utile quando si viaggia in posti sconosciuti e pericolosi.
Sapete, quell’espressione tranquilla, sicura, di chi è perfettamente a proprio agio ovunque,
anche nel mezzo di una sommossa a Giacarta. No, purtroppo quando non so cosa fare do
esattamente l’impressione di non sapere cosa fare. Se sono eccitata o nervosa, appaio esattamente tale. E quando ho l’aria smarrita è perché mi sento smarrita. La mia faccia è una
finestra trasparente sui miei pensieri. Anche David l’aveva detto una volta: «Hai l’opposto di
una faccia da poker... Direi che hai una faccia da minigolf».
Ah, quante sofferenze i miei viaggi hanno inflitto al mio apparato digerente! Non per aprire
un capitolo imbarazzante, ma non c’è emergenza gastrointestinale che non abbia sperimentato. Una volta, in Libano, sono stata così spettacolarmente male che pareva mi fossi
presa il virus Ebola mentre per caso passava di lì. In Ungheria, invece, ho sofferto
dell’inconveniente opposto, tanto che da allora per me il «blocco sovietico» ha assunto un
nuovo significato. Ma ho anche altri punti deboli. Il mal di schiena si è fatto sentire il primo
giorno del mio viaggio in Africa; sono stata l’unica del mio gruppo, in Venezuela, a emergere
dalla foresta con un’infezione dovuta al morso di un ragno e - indovina! - chi altri mai è riuscito a beccarsi un’insolazione a Stoccolma?
Eppure, nonostante tutto, niente al mondo mi piace come viaggiare. Da quando a sedici
anni andai per la prima volta in Russia con i soldi guadagnati facendo la baby-sitter, ho
sempre avuto la sensazione che a un viaggio valga la pena di dedicare spese e sacrifici. Il
mio amore per il viaggio è più sincero e costante degli altri miei amori. Ho con il viaggio il rapporto di una giovane madre felice con il suo insopportabile, costipato, irrequieto figliolo - non
m’importa il prezzo da pagare, lo adoro. è mio. Mi assomiglia. Può vomitarmi addosso, se
vuole.
Per essere un fenicottero, non sono però del tutto sprovveduta. Ho le mie tecniche di
sopravvivenza. Sono paziente. So come si prepara un bagaglio leggero. Sono un’intrepida
man-giatrice. Ma la mia vera virtù è la capacità di fare amicizia con chiunque. Perfino con i
morti. Una volta, in Serbia, ho fatto amicizia con un criminale di guerra che mi ha invitata in
montagna con la sua famiglia. Non che sia orgogliosa di includere tra i miei conoscenti anche
uno sterminatore serbo (dovetti fare amicizia con lui per scrivere un articolo e anche perché
non mi desse un pugno in faccia), è solo per dire che mi è capitato anche quello. Se non ci
fosse nessun altro in giro con cui parlare, potrei attaccar discorso con una pila di mattoni (a
patto che sia alta almeno un metro e mezzo). Ecco perché non ho paura di viaggiare nei
luoghi più remoti del mondo, quando so di poter incontrare altri esseri umani. Prima che partissi per l’Italia, molti mi domandavano: «Hai degli amici a Roma?». Io rispondevo di no e dentro di me pensavo: Li avrò.
Le amicizie nascono soprattutto quando si viaggia senza uno scopo preciso e ci si trova
seduti vicini in treno, o al ristorante,
o nella cella di una prigione. Ma sono incontri casuali e non ci si può affidare sempre al
caso. Per un approccio più sistematico vige ancora l’onorato, antico sistema della «lettera di
presentazione» (oggi una e-mail) con la quale ci si mette in contatto con
il conoscente di un conoscente. è un modo fantastico per farsi degli amici, a patto di avere
la faccia tosta di alzare la cornetta e autoinvitarsi a cena. Perciò, prima di partire per l’Italia ho
domandato a tutti quelli che conoscevo in America se avevano amici a Roma, e ho la gioia di
poter affermare che mi hanno mandata all’estero con un consistente elenco di nomi.
Tra i miei potenziali nuovi amici italiani, quello che mi incuriosisce di più è... tenetevi
forte... Luca Spaghetti, segnalatomi da un mio ex compagno di università, Patrick McDevitt.
Si chiama proprio così, lo giuro. Non me lo sono inventato. Non ci sarei mai riuscita. E un
nome davvero assurdo, lo so. Pensate: portarsi sulle spalle per tutta la vita un nome come...
Patrick McDevitt?
Ho deciso di contattare Luca Spaghetti appena possibile.
14222832India49617788100
14
Prima, però, devo iscrivermi a scuola. All’Istituto di Lingue Leonardo da Vinci, dove per
quattro ore, cinque giorni alla settimana, studierò l’italiano; le lezioni cominciano oggi. Non sto
nella pelle. Sono una studentessa davvero sfacciata. Ieri sera, come alla vigilia del primo
giorno di scuola, ho preparato
i vestiti che avrei indossato, le scarpe di vernice e il cestino della colazione. Spero che
l’insegnante mi prenda in simpatia.
Il primo giorno si deve superare un test di italiano per essere assegnati al livello giusto.
Appena l’ho saputo, ho cominciato a sperare di non finire al primo livello, perché sarebbe
umiliante visto che ho frequentato un intero semestre di italiano alla Scuola Serale per Signore Divorziate di New York, ho imparato a memoria le schede di grammatica durante
l’estate, e ho già passato una settimana a Roma chiacchierando perfino con le vecchiette.
Veramente non so nemmeno quanti livelli ci siano in questa scuola, ma appena ho sentito la
parola livello, ho deciso che devo entrare almeno al secondo.
E così, sotto una pioggia battente, arrivo a scuola, in anticipo (è tutta la vita che mi capita
- che secchiona!) e comincio a leggere il test. Com’è difficile! Non ne capisco nemmeno un
decimo. Eppure so tante cose in italiano, decine di parole, ma
il test non me ne chiede nemmeno una. Poi è la volta dell’esame orale, che è anche peggio. C’è un’insegnante italiana, magra come un chiodo, che mi fa delle domande. Parla troppo
in fretta, secondo me, e io so che sono più brava di quanto non riesca a dimostrare, ma sono
nervosa e faccio errori banali (ad esempio, perché ho detto Vengo a scuola invece di Vado a
scuola? Io lo sapevo!).
Però, alla fine, è un successo. L’insegnante magra come un chiodo legge il mio test e decreta: «secondo livello!».
Le lezioni cominciano nel pomeriggio. Dopo pranzo (cicoria ripassata in padella) torno a
scuola, passo con aria di sufficienza davanti agli studenti del Primo Livello (che devono essere tutti «molto stupidi») ed entro in classe con i miei parigrado. Purtroppo risulta subito
evidente che non sono affatto miei parigrado e che io con loro non ho niente a che spartire,
perché il Secondo Livello è spaventosamente difficile. E come se stessi cercando di nuotare
senza riuscirci. A ogni respiro inghiotto una boccata d’acqua. L’ossuto insegnante (ma perché
gli insegnanti sono tutti magri in questa scuola? Non mi fido degli italiani magri.) procede
troppo rapidamente, dice: «Questo lo sapete, quest’altro lo sapete», e salta interi capitoli del
libro, intrecciando rapidissime conversazioni con i miei loquaci compagni. Ho lo stomaco contratto dalla paura, mi manca il respiro, prego il Cielo che non si rivolga a me. All’intervallo
esco e, con le gambe molli, corro fino alla segreteria dove, in purissimo inglese, chiedo di essere retrocessa al Primo Livello. Vengo accontentata. E ora eccomi qui.
L’insegnante è grassoccia e parla lentamente. Molto meglio.
15
L’aspetto interessante della mia classe d’italiano è che nessuno ha davvero bisogno di essere qui. Siamo in dodici, di tutte le età, provenienti da tutte le parti del mondo, ma ciascuno è
venuto a Roma spinto dallo stesso desiderio - studiare l’italiano per il solo piacere
d’impararlo. Nessuno di noi può affermare di trovarsi qui per uno scopo pratico. A nessuno un
datore di lavoro ha detto: «E necessario che lei impari l’italiano perché intendiamo estendere
la nostra attività all’estero». Ognuno, anche il sussiegoso ingegnere tedesco, la pensa allo
stesso modo: vogliamo studiare l’italiano per godere delle sensazioni che ne ricaviamo. Una
russa dal viso triste dice che si è regalata queste lezioni di italiano perché ha pensato di
«meritare qualcosa di bello». L’ingegnere tedesco spiega: «Mi piace l’italiano perché mi piace
la dolce vita...». La dolce vita! (Peccato che, con il suo duro accento tedesco, l’impressione
sia che gli piaccia «la deutsche vita», la vita tedesca, mentre a me pare che di quella ne abbia avuta più che abbastanza.)
Scoprirò nei prossimi mesi che non a caso l’italiano è una delle più belle e affascinanti
lingue del mondo. Bisogna sapere, prima di tutto, che un tempo in Europa c’era una confusione assordante di innumerevoli dialetti derivati dal latino che, a poco a poco, attraverso i
secoli, si sono organizzati in diverse lingue - francese, portoghese, spagnolo, italiano. In
Francia, in Portogallo e in Spagna c’è stata un’evoluzione organica: il dialetto della città più
importante è diventato la lingua dell’intero Paese. Quello che noi oggi chiamiamo francese
deriva dal dialetto parigino medievale. Il portoghese è il dialetto di Lisbona. Lo spagnolo è essenzialmente madrileno. è la vittoria delle capitali.
Per l’Italia è andata diversamente. La differenza principale sta nel fatto che per un lunghissimo periodo l’Italia non è stata un Paese unito. L’unificazione è avvenuta solo nel 1861; fino
ad allora la penisola era stata divisa in città-stato in guerra tra loro, dominate da principi locali
o da potenze straniere. Alcune parti dell’Italia appartenevano alla Francia, altre alla Spagna,
altre ancora alla Chiesa, o a chiunque fosse riuscito a conquistare la fortezza oppure il
palazzo del luogo. Queste dominazioni mettevano gli italiani in una posizione umiliante.
Buona parte della popolazione non amava i conquistatori europei, ma c’era sempre la massa
apatica che sapeva dire solo: «O Franza o Spagna, purché se magna».
Questa situazione interna ha fatto sì che l’Italia non fosse mai unita e gli italiani nemmeno.
Non c’è da meravigliarsi, allora, che per secoli gli italiani abbiano parlato e scritto in dialetti
tanto diversi da risultare reciprocamente incomprensibili. Uno scienziato fiorentino poteva a
stento comunicare con un poeta siciliano o con un mercante veneziano, se non in latino, naturalmente, che era quasi una lingua nazionale. Nel xvi secolo, alcuni letterati italiani si sono
riuniti e hanno deciso che era un’assurdità. La penisola italiana doveva avere una lingua italiana, almeno nella forma scritta, che tutti avrebbero accettato e compreso. Così questi intellettuali, con un procedimento che non ha eguali in Europa, hanno scelto il migliore tra tutti i
dialetti locali e l’hanno eletto a lingua ufficiale.
Per trovare il più bel dialetto d’Italia sono dovuti tornare indietro di duecento anni, fino alla
Firenze del xiv secolo. è stato deciso che da quel momento in avanti la vera lingua italiana
sarebbe stata quella di Dante Alighieri. Quando Dante, nel 1321, aveva descritto nella Divina
Commedia il suo viaggio immaginario attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso, il mondo
letterario dell’epoca si era stupito che la lingua del poema non fosse il latino. Dante aveva la
percezione che il latino fosse una lingua corrotta, elitaria e che il suo uso negli scritti letterari
trasformasse «la letteratura in meretricio», ovvero in qualcosa a cui solo le classi privilegiate
e colte potevano accedere. Dante, invece, si era rivolto alla strada, aveva scelto il fiorentino
parlato nel quotidiano e, come Boccaccio e Petrarca, lo aveva usato per scrivere la propria
opera.
La nuova scuola poetica divenne nota come dolce stil novo, secondo la definizione data
da Dante stesso nel «purgatorio». Dante aveva usato la lingua del popolo modificandola
come avrebbe fatto poi Shakespeare con l’inglese elisabettiano. Ed è per questo che quel
gruppo di studiosi italiani avrebbe deciso, due secoli dopo, che l’italiano di Dante dovesse
rappresentare la lingua ufficiale della penisola. Un po’ come se un gruppo di docenti di Oxford
avesse stabilito, all’inizio del xix secolo, che da quel momento in avanti tutta l’Inghilterra
dovesse parlare come Shakespeare. E la cosa avesse funzionato!
L’italiano che parliamo oggi non è dunque il romano o il veneziano (anche se Roma e
Venezia sono state potenze militari e mercantili) e nemmeno, in assoluto, il fiorentino. è, essenzialmente, il dantesco. Nessuna lingua europea ha un’ascendenza altrettanto nobile. E
forse nessuna lingua più di questo italiano fiorentino del xrv secolo è mai stata concepita in
una forma così adatta a esprimere le emozioni umane né arricchita dai contributi di un poeta
tanto geniale. Dante ha scritto la Divina Commedia in terza rima (il primo verso fa rima con il
terzo e il secondo dà la rima al primo e al terzo della terzina successiva) regalando alla lingua
popolare fiorentina il ritmo di quella che gli studiosi chiamano terzina incatenata, che ancora
oggi vive nelle rapide e poetiche cadenze dei tassisti, dei macellai, dei funzionari comunali.
L’ultimo verso della Divina Commedia, in cui Dante descrive la visione di Dio stesso, è la rappresentazione di un sentimento comprensibile da chiunque abbia familiarità con il cosiddetto
italiano moderno. Dante scrive che Dio non è soltanto una fulgida luce ma è anche, soprattutto, l’amar che move il sole e l’altre stelle...
Non c’è da stupirsi che io voglia imparare questa lingua.
16
Depressione e Solitudine riescono a rintracciarmi dieci giorni dopo il mio arrivo in Italia.
Sto passeggiando una sera per Villa Borghese dopo una giornata felice passata a scuola: il
sole, tutto d’oro, tramonta dietro la basilica di San Pietro. Mi sento appagata dalla bellezza di
questo scenario, anche se sono sola, mentre nel parco gli altri sono in compagnia di un innamorato oppure giocano con bambini ridenti. Mi fermo, appoggiata a una balaustra, per
guardare il tramonto, e comincio a pensare, e i miei pensieri diventano ossessivi, ed ecco che
i miei due nemici, Depressione e Solitudine, mi catturano.
Mi arrivano addosso muti e minacciosi come agenti della Pinkerton e mi affiancano: Depressione a sinistra, Solitudine a destra. Non serve che mi mostrino il distintivo, li conosco
bene, sono anni ormai che giochiamo come il gatto con il topo. Sono sorpresa, tuttavia, che
siano qui, al tramonto, in questo elegante giardino italiano.
«Come mi avete trovata? Chi vi ha detto che ero a Roma?»
Depressione, il più aggressivo dei due, abbaia: «Che succede, non sei felice di vederci?».
«Andate via! »
Solitudine, lo sbirro sensibile, corregge il tiro: «Chiedo scusa, signora, ma devo seguirla
per tutto il viaggio. È il mio mestiere».
«Preferirei che mi lasciaste in pace». Lui si stringe nelle spalle e mi viene più vicino.
Mi perquisiscono. Mi svuotano le tasche di qualunque gioia sia riuscita a portarmi fin qui.
Depressione confisca anche la mia identità, come al solito. Solitudine dà il via alle domande,
ed è una cosa che mi fa paura perché so che è capace di andare avanti per ore. è cortese ma
implacabile, e finisce sempre con il farmi cadere in contraddizione. Mi domanda se ho qualche motivo per essere felice. Mi domanda perché stasera sono di nuovo sola. Mi domanda
(per la centesima volta) perché non riesco a far durare le mie relazioni sentimentali, perché
ho mandato a monte il mio matrimonio, perché ho rovinato la storia con David. Mi domanda
dov’ero la sera in cui ho compiuto trent’anni e perché da allora tutto è andato così male. Mi
domanda perché non so organizzarmi una vita normale, perché non abito in una bella casa e
non allevo dei bei bambini come qualsiasi rispettabile donna della mia età. Mi domanda, a
muso duro, perché, dopo aver combinato tanti pasticci nella vita, penso di meritarmi una vacanza a Roma. Mi domanda se andare a zonzo per l’Italia come una studentessa in vacanza
mi renderà felice. Mi domanda dove passerò la vecchiaia se vado avanti così.
Torno a casa, sperando di seminarli, ma loro continuano a tallonarmi.
Depressione tiene una mano ben ferma sulla mia spalla e Solitudine non smette di tartassarmi con le sue domande. Non voglio cenare, non sopporto che stiano a guardarmi mentre
mangio; non voglio nemmeno che salgano le scale della casa dove abito, ma conosco Depressione, so che ha in tasca un manganello e che nessuno può fermarlo.
«Perché sei venuto? Non è giusto!» gli dico. «Ho già pagato. Ho scontato la mia
condanna a New York.»
Ma Depressione, con il suo cupo sorriso, si siede sulla mia poltrona preferita, appoggia i
piedi sul tavolo e si accende un sigaro, riempiendo la stanza di un fumo rivoltante. Solitudine
si guarda intorno con un sospiro e si stende sul letto, sotto le coperte, tutto vestito, scarpe
comprese. Dovrò dormire con lui anche stanotte.
17
Avevo smesso solo da qualche giorno di prendere la mia medicina. Mi era parsa una
pazzia ricorrere a un antidepressivo in Italia. Come potevo sentirmi depressa a Roma?
Volevo rifiutarla fin dall’inizio, quella medicina. Avevo cercato a lungo di resistere, adducendo il mio personale, interminabile elenco di motivi (gli americani prendono troppi farmaci; non conosciamo gli effetti a lungo termine di questa roba sul cervello; è criminale che
oggi in America anche i bambini prendano psicofarmaci; i problemi di salute mentale sono
un’emergenza nazionale e noi ne curiamo i sintomi invece delle cause...). Negli ultimi tempi,
tuttavia, era indiscutibile che mi trovassi in grave difficoltà e che questa difficoltà non si
sarebbe risolta facilmente. Mentre il mio matrimonio si dissolveva e il dramma con David si
evolveva, ero arrivata a manifestare i sintomi di una grave depressione - perdita del sonno,
dell’appetito e della libido, accessi di pianto incontrollabili, dolori di schiena e di stomaco
cronici, straniamento, disperazione, perdita di concentrazione nel lavoro, difficoltà a ribellarmi
perfino di fronte alla notizia che i repubblicani avevano imbrogliato alle elezioni presidenziali...
e così via.
Quando ci si perde nel folto di questo bosco, a volte ci vuole un po’ di tempo prima di capire che ci siamo davvero persi. Per un lungo periodo ci convinciamo di esserci allontanati appena di qualche metro dal sentiero, e siamo sicuri di ritrovarlo da un momento all’altro. Ma i
mesi passano, e noi abbiamo un’idea sempre più vaga di dove ci troviamo, finché arriva il momento di ammettere che siamo talmente lontani e disorientati da non sapere più da che parte
sorgerà il sole.
Avevo affrontato la mia depressione come una lotta per la vita, e questo era in realtà.
L’avevo studiata, cercando di districarne le cause. Com’era l’origine di tanta disperazione?
Psicologica? (Colpa di papà e mamma?) Passeggera, un fugace «brutto momento»? (Dopo il
divorzio tutto sarebbe andato a posto?) Genetica? (La malinconia, che si può chiamare con
tanti nomi diversi, aveva segnato la mia famiglia insieme al suo triste sposo, l’alcolismo.) Culturale? (Il cedimento di una postfemminista americana in carriera che cerca di trovare un
equilibrio nella vita metropolitana sempre più faticosa e alienante?) Astrologica? (Sono così
triste perché sono un Cancro suscettibile con molti pianeti nell’instabile Gemelli?) Artistica?
(Non si dice forse che i creativi soffrono di depressione perché sono così ipersensibili e diversi?) Evoluzionistica? (Porto in me un tanto del panico accumulato dalla mia specie in millenni
di sforzi per sopravvivere in un mondo brutale?) Kar-mica? (Gli accessi di dolore non sono
forse conseguenza di un cattivo comportamento in vite precedenti, gli ultimi ostacoli prima
della liberazione?) Ormonale? Alimentare? Filosofica? Stagionale? Ambientale? Mi stavo collegando a un’universale ricerca di Dio? Soffrivo di uno squilibrio chimico? O avevo so
lo bisogno di farmi scopare?
Quanti fattori compongono un unico essere umano! Quanti strati si sovrappongono in noi,
com’è varia l’influenza che riceviamo dalla nostra mente, dal nostro corpo, dalle vicende che
viviamo, dalle nostre famiglie, dalle nostre città, dalle nostre anime e dai cibi che mangiamo!
Avevo finito con il pensare che la mia depressione fosse un insieme sempre in movimento di
tutti questi fattori, con in più un elemento di cui ignoravo il nome o che non arrivavo a capire.
Così, affrontai la lotta a ogni livello. Mi comprai manuali di autoaiuto dai titoli imbarazzanti
(assicurandomi sempre di nasconderli dietro l’ultima copia di «Penthouse» perché nessuno si
accorgesse che leggevo quella roba). Mi rivolsi a uno specialista e trovai una psicoterapeuta
tanto gentile quanto intuitiva. Pregai come una novizia. Smisi di mangiare la carne (ma per
poco) perché qualcuno mi aveva spiegato che «mangiavo la paura dell’animale nel momento
in cui veniva ucciso». Un massaggiatore new age un po’ fuori di testa mi spiegò che avrei
dovuto indossare mutande arancioni per equilibrare i miei chakra sessuali e, povera me, lo
feci. Bevvi così tanto infuso di quella dannata erba di San Giovanni da rallegrare un gulag,
senza risultati apprezzabili. Feci ginnastica. Seguii corsi di arte e misi al bando film, libri, canzoni tristi (se qualcuno pronunciava le parole Léonard, e Cohen nella stessa frase, uscivo
dalla stanza).
Cercai disperatamente di combattere i pianti senza fine. Una notte, rannicchiata in lacrime
sul solito vecchio divano, rimuginando i soliti vecchi, penosi pensieri, ricordo di essermi
domandata: «Liz, non potresti cambiare qualcosa in questo quadretto?». Ma non ero riuscita
a fare altro che alzarmi in piedi e, provando a stare in equilibrio su un piede solo, continuare a
singhiozzare in mezzo al salotto. Tanto per dimostrare che non avevo perso del tutto il controllo dei miei movimenti: riuscivo a piangere anche in equilibrio su un piede solo. Un inizio
incoraggiante.
Cominciai ad attraversare la strada ogni volta che vedevo il sole sul marciapiede di fronte.
Provai a dedicare più tempo alla mia rete di affetti, visitando regolarmente la mia famiglia e
passando più tempo con gli amici. E quando le solite riviste femminili mi dicevano che una
scarsa autostima non aiutava a guarire la depressione, cambiavo pettinatura, mi compravo
qualche trucco nuovo e un bel vestito. (Ma se un’amica mi diceva che stavo bene, riuscivo
solo a rispondere con aria cupa: «Operazione Autostima - Prima schifosa giornata».)
L’ultimo tentativo, dopo aver lottato due anni per vincere questa sofferenza, era stato il ricorso ai farmaci. Se posso dire la mia, consiglio a tutti di guardare ai farmaci come all'ultima
risorsa. La decisione di intraprendere questo cammino giunse dopo una notte passata sul pavimento della mia camera da letto a cercare di convincermi che non dovevo ferirmi il braccio
con un coltello da cucina. Vinsi la battaglia, ma a stento. Altre idee mi passavano per la testa,
come saltare giù dalla finestra
o spararmi un colpo alla tempia per non soffrire più. Ma quella notte passata con un coltello in mano si rivelò utile.
La mattina dopo, appena sorto il sole, telefonai alla mia amica Susan e la supplicai di
aiutarmi. Credo che nella storia della mia famiglia nessuna donna prima di me si sia fermata
nel bel mezzo della strada e nel bel mezzo della propria vita per gridare: «Non posso fare
neanche un altro passo - qualcuno mi aiuti». Certo, alle mie antenate non sarebbe servito a
niente, nessuno avrebbe potuto o voluto aiutarle. Come unico risultato sarebbero morte di
fame insieme alla loro famiglia. Non riuscivo a smettere di pensare a loro.
E non dimenticherò mai la faccia di Susan quando entrò di corsa in casa mia, un’ora dopo
la telefonata, e mi vide, un fagotto sul divano. L’immagine del mio dolore riflessa sul suo viso
mentre mi guarda e teme per la mia vita è ancora oggi uno ’ dei ricordi più spaventosi del mio
repertorio. Mi raggomitolai a palla mentre Susan telefonava a uno psichiatra disposto a vedermi quel giorno stesso per un consulto ed eventualmente per prescrivermi degli antidepressivi. La sentii dire: «Temo che possa veramente farsi del male». Lo temevo anch’io.
Quando andai dallo psichiatra, quel pomeriggio, mi domandò perché avevo aspettato
tanto a farmi aiutare, come se non avessi già cercato così a lungo di aiutarmi da sola. Gli
spiegai le mie obiezioni e riserve sugli antidepressivi. Allineando sulla sua scrivania le copie
dei tre libri che avevo scritto, gli dissi: «Sono una scrittrice, per favore, non faccia niente che
intacchi la mia mente». «Se avesse mal di fegato» mi rispose «non si curerebbe il fegato?»
Evidentemente non conosceva la mia famiglia, altrimenti avrebbe saputo che un Gilbert si
sarebbe rifiutato di curarsi il fegato, visto che da noi qualsiasi malattia viene da sempre considerata un fallimento personale, etico e morale.
Mi prescrisse vari farmaci - Xanax, Zoloft, Wellbutrin, Bu-sperin - finché non riuscimmo a
trovare la combinazione che non mi dava la nausea e non riduceva la mia libido a un vago,
lontano ricordo. In meno di una settimana sentii aprirsi nella mia mente uno spiraglio di luce.
Inoltre, riuscivo finalmente a dormire. E questo era il vero regalo, perché finché non si dorme
non si esce dal tunnel. Le pastiglie mi permettevano di recuperare le ore di sonno, impedivano alle mie mani di tremare, allentavano la morsa che mi stringeva il petto e spegnevano
il motore che alimentava il mio panico.
Eppure, nonostante quelle medicine mi avessero procurato un immediato sollievo, non ero
mai tranquilla all’idea di prenderle. Per quanto mi sforzassi di pensare che rappresentavano
una buona soluzione e che non erano assolutamente pericolose, mi sentivo in conflitto con
loro. Erano una parte del ponte che mi doveva portare sull’altra sponda, non ne dubitavo, ma
volevo liberarmene il più presto possibile. Avevo cominciato a prenderle nel gennaio del
2003. A maggio avevo già diminuito considerevolmente le dosi. Erano stati comunque i mesi
più difficili, gli ultimi del divorzio e gli ultimi dell’ormai logora relazione con David. Sarei riuscita a superarli senza medicine se avessi resistito un po’ più a lungo? Sarei riuscita a sopravvivere solo con le mie forze? La vita è fatta così, non c’è possibilità di controllo, non c’è modo
di sapere come sarebbe andata a finire se le variabili fossero state diverse.
Oggi so che queste medicine hanno reso la mia infelicità meno catastrofica. Sono grata a
chi me le ha prescritte, ma continuo a essere scettica. Sono consapevole degli effetti degli
psicofarmaci, ma preoccupata della loro diffusione. Credo che bisognerebbe limitarne l’uso e
affiancarlo sempre a un trattamento psicoterapeutico. Curare i sintomi di una malattia senza
ricercarne le radici è tìpico della ottusa mentalità occidentale. Quelle pastiglie mi hanno forse
salvato la vita, ma solo perché unite all’impegno che ho messo nel cercare di guarire. Di certo
spero di non doverle prendere mai più, anche se una volta un dottore mi consigliò di continuare a fame uso, considerata la mia «tendenza alla malinconia». Mi auguro con tutto il cuore
che quel dottore avesse torto. Anzi, intendo fare del mio meglio per dimostrare che si
sbagliava, usando qualsiasi mezzo a disposizione per combattere la «mia» malinconia. Non
so se a rendermi così cocciuta sia un eccesso di difesa o di prevenzione.
Ma questo è il punto a cui sono arrivata.
18
O meglio, sono arrivata qui, a Roma, e sono in difficoltà. Depressione e Solitudine si sono
di nuovo intrufolati nella mia vita. Ho preso l’ultimo Wellbutrin tre giorni fa. Ho ancora delle
pastiglie in un cassetto, ma non le voglio, intendo liberarmene per sempre. E non voglio nemmeno che Depressione e Solitudine mi ronzino intorno, ma non so come impedirglielo, quindi
mi avvito su me stessa in preda al panico. Per stasera mi limito ad afferrare il libretto di appunti che tengo vicino al letto in caso di emergenza. Lo apro. Sulla prima pagina vuota,
scrivo: «Mi serve il tuo aiuto».
Poi aspetto. Poco dopo, nella mia grafia, appare la risposta.
Sono qui. Che cosa posso fare per te ?
Ricomincia così una strana e segreta conversazione. è qui, nel mio privatissimo libretto di
appunti, che parlo con me stessa. Parlo a quella voce che avevo sentito quando, sul pavimento del bagno, avevo pregato Dio che mi aiutasse, e qualche cosa (o qualcuno) aveva risposto: «Torna a letto, Liz». Da allora ho cercato quella voce nei momenti di angoscia, di allarme rosso. E ho imparato che il modo migliore per evocarla è la conversazione scritta. è
sorprendente come sia facile rintracciare quella voce. Anche nei momenti più cupi, perfino
quando la sofferenza è più profonda, lei è disponibile a rispondermi, a qualsiasi ora del giorno
o della notte: calma, compassionevole, affettuosa e infinitamente saggia (forse sono io e
forse non sono io, non lo so per certo).
Ho deciso di togliermi dalla testa che quelle conversazioni sulla carta siano la prova che
sono schizofrenica. Forse la voce che mi risponde è la voce di Dio, forse è la mia guru che
parla attraverso di me, forse è l’angelo incaricato di seguire le mie vicende personali, forse è
la parte più elevata del mio essere o forse è davvero una emanazione del subconscio, nata
per proteggermi dal mio tormento. Santa Teresa chiamava queste divine voci «locuzioni interiori» - parole del mondo soprannaturale che entrano nella mente umana tradotte nella lingua di chi le ascolta, e sono prodighe di consolazioni celesti. Io so che cosa avrebbe detto
Freud di queste consolazioni spirituali - avrebbe detto che sono irrazionali e non meritano di
essere credute, perché l’esperienza ci insegna che il mondo non è un asilo infantile. Sono
d’accordo. Il mondo non è un asilo infantile, bensì una sfida continua, e per questo qualche
volta si sente il bisogno di uscirne, facendo appello a un’autorità superiore.
All’inizio della mia esperienza spirituale, non sempre mi fidavo di quella saggia voce interiore. Ricordo che una volta, in un impeto di rabbia e di dolore, scrissi alla mia voce segreta alla mia divina consolazione interiore - un messaggio in lettere maiuscole che occupava tutta
una pagina: «vaffanculo, non esisti!!!».
Dopo un momento, ancora fremente di rabbia, sentii accendersi dentro di me un puntino
luminoso e, quasi senza accorgermene, scrissi questa risposta divertita e tranquilla: «Ma allora con chi stai parlando1?».
Da quel giorno non ho più dubitato dell’esistenza della voce, e adesso sto provando di
nuovo a comunicare con lei. è la prima volta dal mio arrivo in Italia. Scrivo che mi sento debole e spaventata, che Depressione e Solitudine sono ricomparsi e ho paura che non se ne
vadano più. Dico che non voglio prendere gli psicofarmaci, ma ho paura che dovrò. Sono terrorizzata al pensiero di non riuscire più a rimettere insieme i frammenti della mia vita.
Da chissà dove, dentro di me, arriva la risposta di una presenza familiare, che mi dà tutte
le certezze che ho sempre desiderato nei momenti difficili. Ecco che cosa scrivo:
Sono qui. Ti voglio bene. Non m ’importa se non puoi fare a meno di stare sveglia tutta la
notte a piangere, io ti rimarrò accanto. Se avrai di nuovo bisogno di farmaci, ricomincia pure a
prenderli, io ti vorrò bene anche così. Se non ne hai bisogno, ti vorrò bene comunque. Niente
può farti perdere il mio amore. Ti proteggerò fino alla morte, fino a dopo la morte. Sono più
forte di Depressione, più audace di Solitudine e niente potrà mai stancarmi.
Stasera, questo strano gesto di amicizia nato dentro di me
- una mano tesa da me a me stessa - mi ricorda una cosa che mi è successa una volta a
New York. Sono entrata in un palazzo di uffici, avevo fretta, e mi sono precipitata verso
l’ascensore. Mentre correvo, ho visto, per caso, il mio riflesso in uno specchio. In quel momento il mio cervello ha fatto una cosa strana - mi ha sparato un messaggio della durata di
una frazione di secondo: «Ma tu quella la conosci, è una tua amica!». E io sono corsa verso
la mia immagine con un sorriso, pronta a salutare quella ragazza. Il nome non me lo ricordavo, ma la faccia la conoscevo benissimo. In un lampo, naturalmente, mi sono resa conto
dell’errore e ho riso, imbarazzata, per non aver riconosciuto, come capita ai cani, l’effetto di
uno specchio. Quell’episodio mi ritorna in mente durante queste ore di tristezza, a Roma, e mi
scopro a scrivere in fondo alla pagina un consolante promemoria:
Non dimenticare che tanti e tanti anni fa, in un momento di distrazione, hai riconosciuto in
te stessa un 'amica.
Mi addormento con il quaderno appoggiato al petto, aperto sull’ultimo messaggio rassicurante. La mattina, quando mi sveglio, Depressione non c’è più, se n’è andato chissà dove not-
tetempo, lasciando solo una traccia leggera nell’aria. E anche il suo amico Solitudine ha tolto
il disturbo.
19
Ecco, però, una cosa strana: da quando sono a Roma non sono riuscita a fare neanche
un po’ di yoga. Per anni ho praticato coscienziosamente e con costanza i miei esercizi, e
anche questa volta ho portato con me il materassino, animata dalle migliori intenzioni. Invano.
D’altra parte, quand’è che potrei fare yoga? Prima della mia succulenta colazione italiana
(brioche al cioccolato e due cappuccini)? O subito dopo? I primi giorni, la mattina, srotolavo
coraggiosamente il materassino, ma poi mi veniva da ridere. Una volta, in procinto di cominciare un esercizio, mi ero sorpresa a domandarmi a voce alta: «Bene, signorina penne ai
quattro formaggi, di cosa hai voglia per pranzo?». Piena di sensi di colpa, avevo ficcato il materassino in fondo alla valigia. (E non l’avrei più srotolato fino aH’arrivo in India.) Poi me n’ero
andata a fare una passeggiata e a mangiare un gelato al pistacchio. Erano le nove e mezzo
della mattina e mi era parsa un’idea perfettamente ragionevole.
La cultura romana, a quanto pare, non va d’accordo con la cultura yoga. Mi sono convinta
che Roma e yoga non hanno niente in comune, a parte la capacità di evocare, per associazione e per assonanza, l’immagine di una toga.
20
Avevo bisogno di amici. Mi sono data da fare e adesso, a ottobre, ne ho un
bell’assortimento. Conosco due Elizabeth a Roma, oltre a me. Sono entrambe americane e
scrittrici. La prima Elizabeth scrive romanzi e la seconda libri di cucina. Que-st’ultima ha un
appartamento a Roma, una casa in Umbria, un marito italiano e un lavoro che le consente di
viaggiare per tutta l’Italia assaggiando cibi per scriverne su «Gourmet»; a quanto pare, in una
vita precedente, questa seconda Elizabeth deve aver salvato una quantità di orfani dalla
morte per annegamento. Niente di strano che conosca i posti dove si mangia meglio a Roma,
compresa una gelateria dove fanno budini di riso gelati (e se in paradiso non c’è niente di
simile, preferisco non andarci). L’altro giorno mi ha invitata a pranzo e abbiamo mangiato agnello con tartufi e fettine di carpaccio su una mousse di nocciola, e poi uno strano piatto in
salamoia, il lam-pascione che, come tutti sanno, è il bulbo del giacinto selvatico.
Ormai ho fatto amicizia anche con Giovanni e Dario, i gemelli. La dolcezza di Giovanni lo
rende una sorta di tesoro nazionale. Mi è stato simpatico fin dalla prima sera, quando mi arrabbiavo perché non riuscivo a trovare le parole in italiano e lui mi ha posato una mano sul
braccio e mi ha detto: «Liz, devi essere gentile con te quando stai imparando qualcosa di
nuovo». A volte mi sembra più vecchio di me, con la sua fronte pensosa, la laurea in filosofia
e le sue profonde convinzioni politiche. Mi piace farlo ridere, ma non sempre capisce i miei
scherzi. L’umorismo spesso è inafferrabile in un’altra lingua, soprattutto quando sei un
ragazzo serio come Giovanni. L’altra sera mi ha detto: «Quando scherzi non riesco a starti dietro, sono lento. è come se tu fossi il lampo e io il tuono».
E io ho pensato: Sì, baby, tu sei il magnete e io il ferro! Dammi il tuo cuoio, prenditi il mio
merletto!
Eppure non mi ha ancora baciata.
Dario, l’altro gemello, non lo vedo spesso, anche perché passa molto tempo con Sofie, la
più cara tra le compagne del corso di italiano. E mi rendo conto che chiunque, al posto di
Dario, sarebbe contento di passare con lei quanto più tempo è possibile. Sofie è svedese, ha
venticinque anni o giù di lì ed è così carina che si potrebbe appenderla a un amo e usarla
come esca per pescare uomini di tutti i Paesi e di tutte le età. In Svezia ha un buon lavoro in
una banca e ha preso quattro mesi di aspettativa, tra l’orrore della sua famiglia e lo stupore
dei colleghi, solo per venire a Roma e imparare bene l’italiano. Ogni giorno, dopo la lezione,
io e lei andiamo a sederci vicino al Tevere a mangiare un gelato e a studiare. Forse non è
esatto dire che studiamo l’italiano, piuttosto lo assaporiamo in una specie di rito adorante che
prevede lo scambio continuo di nuove parole e modi di dire. Ho appena imparato, per esempio, l’espressione stringere un'amicizia, e ho pensato che, allora, un’amicizia è un abbraccio,
è un vestito che aderisce alla pelle, un po’ quello che la mia amica Sofie sta diventando per
me.
All’inizio mi piaceva l’idea che sembrassimo sorelle, poi, l’altro giorno, abbiamo fatto un
giro per Roma in taxi e il tassista ha domandato a Sofie se era mia figlia. Ora, diciamo la verit, questa ragazza ha solo sette anni meno di me. La mia mente ha messo in moto un meccanismo di difesa e ho cercato di darmi una giustificazione. (Per esempio, ho pensato: forse
questo tassista romano non parla italiano perfettamente e voleva so
lo domandare se siamo sorelle.) Ma no, ha detto figlia e quello intendeva. Be’,.non c’è da
stupirsi. Ho avuto parecchie traversie in questi ultimi anni, probabilmente appaio più sciupata
e più vecchia dopo il divorzio. Ma, come dice quella vecchia canzone western, «tartassata,
denunciata, marchiata, sono ancora in piedi, qui davanti a voi...».
Ho conosciuto anche Maria e Giulio, una simpatica coppia di amici della mia amica Anne.
Maria è americana, Giulio viene dall’Italia meridionale; lui è uno sceneggiatore cinematografico, lei lavora in un’organizzazione internazionale per le politiche agricole. Giulio non sa
molto bene l’inglese, Maria invece parla perfettamente l’italiano (e anche il francese e il
cinese, tanto per mettermi a mio agio...). Giulio vuole imparare l’inglese e mi ha chiesto se
può fare pratica con me. Nel caso vi domandiate come mai non fa pratica con sua moglie, la
ragione è proprio che sono sposati e cominciano invariabilmente a litigare quando uno dei
due cerca di correggere l’altro. Così io e Giulio ci vediamo all’ora di pranzo, due volte alla settimana, per fare esercizio d’inglese e d’italiano; un compito gradevole per due che, come noi,
non hanno il dono di irritarsi a vicenda.
Giulio e Maria abitano in un bell’appartamento la cui caratteristica principale è, a mio avviso, la parete che Maria una volta ha coperto di rabbiose imprecazioni all’indirizzo di Giulio,
scarabocchiandole con un grosso pennarello nero durante un litigio in cui «lui gridava più
forte» e lei voleva avere l’ultima parola.
Maria è, secondo me, una donna straordinariamente sexy, e quella appassionata esplosione di graffiti lo conferma. Giulio, con sottigliezza interessante, li considera un sintomo di repressione, perché gli insulti sono scritti in italiano e quando parla in questa lingua, che non è
la sua, lei ha sempre bisogno di un momento per cercare le parole. Giulio sostiene che, se si
fosse lasciata sopraffare dalla collera - e non le succede mai, perché è una buona protestante
anglosassone - lo avrebbe insultato in inglese. Secondo lui tutti gli americani sono repressi e,
di conseguenza, pericolosi e potenzialmente letali.
«Un popolo di selvaggi» è la sua diagnosi.
Il bello è che mi diceva queste cose mentre eravamo seduti tranquillamente a cena
proprio davanti a quella parete.
«Ancora un po’ di vino, amore?» gli ha chiesto Maria.
Tra le mie amicizie italiane la più recente è quella con Luca Spaghetti. A proposito, anche
qui in Italia è strano e buffo chiamarsi Spaghetti. Io gli sono grata perché mi ha permesso di
prendermi finalmente una rivincita sul mio amico Brian, che si è sempre vantato di essere
cresciuto porta a porta con un indiano d’America di nome Dennis Ah-Ah. Ora posso partecipare anch’io alla gara dei nomi più assurdi.
Luca parla un inglese perfetto ed è quella che in Italia si definisce una buona forchetta:
una coincidenza felice per chi, come me, ha sempre fame. Mi telefona a qualsiasi ora, e propone: «Sono vicino a casa tua, che ne dici di una tazza di caffè o di una coda alla vaccinara?». Passiamo un sacco di tempo nelle bettole non proprio pulitissime che si trovano nelle
stradine interne della città. Ci piacciono i ristoranti con l’insegna fluorescente ma senza nome,
le tovaglie a quadretti bianchi e rossi, il limoncello e il vino rosso fatti in casa. E adoriamo i piattoni di pasta portati da quelli che Luca chiama i «piccoli Giulio Cesare» - fieri, sfacciati
giovanotti locali con le mani pelose e un sontuoso ciuffo di capelli neri sulla fronte,
amorosamente curato. Una volta gli ho detto: «Luca, mi sembra che questi ragazzi si considerino prima di tutto romani, poi italiani e infine europei». Lui mi ha corretto: «No, sono romani,
romani e ancora romani. E ciascuno di loro è un imperatore».
Luca fa il commercialista. Un commercialista italiano, cioè, secondo la sua definizione,
«un artista», perché in Italia ci sono alcune centinaia di leggi sulle imposte e tutte in contraddizione tra loro. Compilare una cartella delle tasse richiede quindi un genio
nell’improvvisazione pari a quello di un jazzista. Mi sembra così strano che un cuorcontento
come Luca faccia un lavoro tanto minuzioso. Anche lui, d’altra parte, trova strano un aspetto
della mia vita, quello che riguarda la pratica yoga, della quale non sa nulla. Non riesce a capire perché, con tutti
i posti che ci sono al mondo, voglio andare proprio in India -e per di più in un ashram,
mentre potrei starmene tranquillamente tutto l’anno in Italia, che è chiaramente il luogo a cui
appartengo. Mi guarda mentre faccio scarpetta e mi lecco le dita, e mi domanda: «Che cosa
mangerai quando sarai in India?». Qualche volta mi chiama «Gandhi» in un tono molto
ironico, soprattutto quando stappo la seconda bottiglia di vino.
Luca ha viaggiato molto, anche se sostiene di non poter vivere che a Roma, vicino a sua
madre, perché è pur sempre un uomo italiano, e poi, che male c’è? Ma non è solo la mamma
a tenerlo a Roma: ha un po’ più di trent’anni e da quando era adolescente è sempre uscito
con la stessa ragazza (si chiama Giuliana, è graziosissima, lui la descrive teneramente e appropriatamente come acqua e sapone). Gli amici sono gli stessi dall’infanzia e abitano ancora
nel quartiere. Ogni domenica si trovano per vedere la partita - allo stadio o al bar (se le
squadre romane giocano in trasferta) - poi ciascuno torna a casa propria, per la grande cena
domenicale preparata dalle rispettive madri e nonne.
Neanch’io vorrei andarmene da Roma, se fossi Luca Spaghetti.
Luca è stato più di una volta in America e gli piace. Trova New York affascinante, ma
pensa che tutti lavorino troppo, anche se ammette che hanno l’aria di farlo perché ci provano
gusto. Invece i romani lavorano tanto ma palesemente malvolentieri. Quello che Luca proprio
non sopporta è il cibo americano che, secondo lui, è tutto uguale alla pizza che si mangia
nelle stazioni della linea ferroviaria Amtrak.
Ero con lui la prima volta che ho mangiato le interiora di un agnello appena nato. è una
specialità romana. Roma ha una sua astuta saggezza nel cibo, è famosa per i suoi volgari piatti tradizionali fatti di lingua e budella, le parti degli animali che il ricco nord getta via. Le interiora d’agnello avevano un buon sapore, bastava non pensare a che cos’erano. Venivano
servite con un sugo burroso, saporito, pesante, di per sé fantastico... Ma avevano... be’... una
certa consistenza intestina. Un po’ come il fegato, ma più spappolate. Tutto è andato liscio
finché non ho cominciato a domandarmi come avrei descritto questa pietanza e ho pensato:
non sembrano interiora, sembrano vermi solitari. Allora ho spinto da parte quel che restava
nel piatto e ho chiesto dell’insalata.
«Non ti piacciono?» ha domandato Luca, stupito.
«Credo che Gandhi non abbia mai mangiato interiora d’agnello in vita sua» ho risposto.
«Forse sì.»
«No, Luca. Gandhi era vegetariano.»
«Ma un vegetariano può mangiare le interiora d’agnello» ha insistito Luca. «Questa non è
carne, Liz, è solo merda.»
21
Devo ammettere che qualche volta mi domando che cosa ci faccio qui.
Sono venuta in Italia per sperimentare il piacere, ma durante le prime settimane sono
stata presa dal panico all’idea di non sapere quale fosse la strada da seguire. Il piacere puro
non è, sinceramente, il mio modello culturale. Provengo da generazioni di sgobboni. Mia
madre appartiene a una famiglia di contadini svedesi immigrati. A guardarli in fotografia, sembra che, se mai si fossero imbattuti in qualcosa di piacevole, l’avrebbero prontamente
calpestato con i loro zoccoli chiodati. (Mio zio li chiama affettuosamente «bovini».) Da parte di
padre sono tutti puritani inglesi, notoriamente amanti del divertimento sfrenato. Alle radici del
mio albero genealogico, se arrivo fino al xvii secolo, trovo nomi come Diligenza e Mansuetudine.
I miei genitori hanno una piccola fattoria, e mia sorella e io siamo cresciute lavorando. Ci
hanno insegnato a essere affidabili, responsabili, sempre le prime della classe, le migliori
babysitter del vicinato, modelli in miniatura della nostra mamma, fattoressa e allevatrice: due
coltellini svizzeri multiuso. In casa avevamo occasione di scherzare tra di noi, ci facevamo un
mucchio di risate, ma le pareti erano tappezzate di elenchi di lavori da eseguire e io, in vita
mia, non sono mai stata in ozio né ho visto altri oziare.
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che gli americani in generale sono incapaci di godere
tranquillamente di un piacere puro e semplice. La nostra è una nazione alla ricerca del divertimento, non necessariamente del piacere. Gli americani spendono miliardi per divertirsi, dal
porno ai parchi a tema alla guerra, ma non è questo il modo di godersi tranquillamente la vita.
Oggi gli americani lavorano di più, più a lungo e con più impegno di chiunque altro al mondo.
Ma, come fa osservare Luca Spaghetti, abbiamo l’aria di farlo perché ci proviamo gusto. A
conferma di questa teoria, statistiche allarmanti rivelano che gli americani sono più felici e
soddisfatti sul posto di lavoro che a casa. Naturalmente, poiché tutti lavoriamo troppo e bruciamo così le nostre energie, dobbiamo poi passare il week-end in pigiama mangiando cereali
direttamente dalla scatola e guardando la tv in stato semicomatoso (è l’opposto del lavoro,
d’accordo, ma non è esattamente il mio ideale di piacere). Gli americani, in realtà, non sanno
che cosa significa stare senza far niente. E questa l’origine del triste stereotipo del dirigente
americano superstressato che va in vacanza ma non riesce a rilassarsi.
Una volta ho domandato a Luca Spaghetti se l’italiano in vacanza aveva gli stessi problemi. Ha riso tanto che per poco non è finito con il motorino in una fontana.
«Oh no!» ha risposto. «Noi siamo i maestri del dolce far niente.»
è una bella espressione «la dolcezza del far niente». La cosa strana è questa: gli italiani
sono sempre stati, per tradizione, grandi lavoratori (soprattutto i braccianti, chiamati così
perché non disponevano di altro se non della forza delle loro braccia per sopravvivere), ma
insieme a questa immagine di fatica in Italia c’è sempre stato anche l’ideale del dolce far niente. La bellezza del dolce far niente è lo scopo per cui si lavora, la conquista che riscuoterà
l’ammirazione generale. Quanto più è raffinato e piacevole il tuo far niente, tanto maggiore è
la tua realizzazione. L’italiano ha anche un’altra bellissima espressione: l’arte di arrangiarsi l’arte di trarre qualche cosa dal niente. Trasformare pochi, semplici ingredienti in un banchetto
o la presenza di qualche amico in una festa. Chiunque abbia il genio della felicità può riuscirci, non solo i ricchi.
Quanto a me, l’ostacolo principale nella ricerca del piacere era un radicato, puritano senso
di colpa. La domanda era: merito davvero questo piacere? Un modo di sentire molto americano - il dubbio di non meritarsi la propria felicità. In America, il pianeta della pubblicità orbita
intorno alla necessità di convincere il consumatore incerto del suo diritto a godere di un beneficio particolare. Questa birra è per Te! Oggi meriti qualcosa di speciale! Perché Tu vali! Ne
hai fatta di strada, bello! E il consumatore insicuro pensa: Grazie, adesso esco e ne compro
una confezione da sei! Forse anche due! Ed ecco la sbornia. Seguita dal rimorso. Forse
queste campagne pubblicitarie non sarebbero altrettanto efficaci in Italia, dove la gente sa di
avere il diritto alla gioia in questa vita. La risposta italiana a «Oggi meriti qualcosa di speciale» suona più o meno così: Stavo giusto pensando di andare a letto con tua moglie.
Forse per questo, quando ho detto ai miei amici italiani che ero venuta nel loro Paese per
sperimentare quattro mesi di puro piacere, si sono scatenati. Complimenti! Procediamo! Accomodati! Vuoi una sbronza? Conta pure su di noi. Nessuno mi ha detto: «Sei
un’irresponsabile» o «Che avidità!». Ma, nonostante gli italiani mi avessero dato allegramente
il permesso di divertirmi, non riuscivo ancora a lasciarmi andare. Durante le prime settimane
romane, le mie sinapsi protestanti erano in subbuglio, alla disperata ricerca di qualcosa da
fare. Il piacere era per me un compito assegnatomi a scuola o una vasta e nobile ricerca scientifica cui portare il mio contributo. Riflettevo e mi domandavo: «Qual è il modo più efficace
per realizzare il massimo del piacere?». Forse, pensavo, dovrei trascorrere questi mesi in biblioteca studiando la storia del piacere. O intervistare gli italiani che hanno goduto di molti piaceri nella vita e poi scrivere un resoconto sull’argomento. (Interlinea doppia e margini di due
centimetri e mezzo? Da consegnare lunedì mattina?)
Tutto è cambiato quando mi sono resa conto che la questione, in realtà, era una sola:
«Qual è la definizione che io do alla parola “piacere”?». Allora ho capito che l’Italia era il posto
giusto per cercare liberamente una risposta. D’un tratto tutto è diventato... una delizia. Per la
prima volta nella vita, non dovevo fare altro che domandare a me stessa: «Che cosa ti pi-
acerebbe fare oggi, Liz? Dove ti porta la tua ricerca del piacere?». Non dovevo tener conto
delle esigenze di nessuno, non avevo obblighi, la domanda finalmente era limpida e specifica.
E stato interessante per me, a quel punto, scoprire che cosa non volevo fare in Italia. Ci
sono così tante occasioni di sperimentare il piacere e io non avevo tempo di coglierle tutte.
Bisogna scegliere, in Italia, altrimenti c’è il rischio di venir sopraffatti. Ho messo da parte, per
necessità, la moda, l’opera, il cinema, la passione per le automobili, lo sci sulle Alpi. Anche
l’arte, perché è troppa. Mi costa un po’ doverlo ammettere, ma non ho visitato nemmeno un
museo durante i quattro mesi che ho passato in Italia. (Anzi, peggio, qui a Roma ho visitato
soltanto il Museo della Pasta.) Ho scoperto che volevo solo mangiare divinamente e imparare
l’italiano. Basta così. Le materie in cui avevo deciso di specializzarmi erano queste due, parlare e mangiare (con un’attenzione particolare per il gelato).
La quantità di piacere che ricavavo da tali attività era inestimabile, e ottenerla era semplicissimo. Una volta, a metà ottobre, ho vissuto momenti che non mancherò mai di annoverare
tra i più belli della mia vita, anche se nessun osservatore estraneo l’avrebbe mai sospettato.
Avevo scoperto un mercato poco lontano da casa. Mi sono avvicinata a un banco dove una
donna e suo figlio vendevano un vasto assortimento di frutta e ortaggi - spinaci con le foglie
carnose e verdi come alghe marine, pomodori rossi come il sangue, tanto da sembrare gli organi interni di una mucca, grappoli d’uva color champagne, con la buccia aderente come la
calzamaglia di una showgirl.
Ho scelto un fascio di asparagi lucidi e sottili. Sono riuscita a chiedere alla donna, in un
italiano passabile, se potevo comprarne solo metà. Le ho spiegato che ero sola, tutti erano
troppi. Lei ha preso il fascio degli asparagi dalle mie mani e lo ha diviso in due. Le ho chiesto
se quel mercato c’era tutti i giorni e mi ha risposto che c’era, sì, dalle sette del mattino. Allora
il figlio, che era molto carino, mi ha rivolto uno sguardo malizioso e ha aggiunto: «Diciamo
che ci piacerebbe arrivare per le sette del mattino...». Abbiamo riso tutti e tre.
Sono tornata a casa e per pranzo ho preparato due uova alla coque. Le ho messe su un
piatto insieme a sette asparagi (così teneri che non c’era bisogno di lessarli). Ho aggiunto
qualche oliva, quattro rotolini di formaggio di capra che avevo comprato il giorno prima alla
formaggeria, e due fette di salmone lucido e rosato. Come dessert una bella pesca che la
donna del mercato mi aveva regalato, ancora calda del sole di Roma. Ho aspettato a lungo
prima di intaccare quel pranzo, perché era la prova di come dal niente si può fare un capolavoro. Infine, dopo averne assorbita con gli occhi tutta la bellezza, mi sono seduta al centro di
una chiazza di sole sul mio bel pavimento di legno e ho mangiato tutto con le mani, leggendo
su un giornale un articolo in italiano. La felicità penetrava ogni molecola del mio corpo.
Fino a quando - come spesso accadeva durante quei primi mesi di viaggio ogni volta che
ero felice - non è scattato il senso di colpa. La voce del mio ex marito mi ha bisbigliato
all’orecchio: è per questo che hai rinunciato a tutto? Per questo hai fatto a pezzi la nostra vita
? Per un po ’ di asparagi e un giornale italiano ?
Gli ha risposto a voce alta: «Prima di tutto» ho detto, «scusa tanto, ma non sono più fatti
tuoi. E poi, se ci tieni a saperlo, la risposta è... sì».
22
C’è un aspetto della mia ricerca del piacere in Italia che, per quanto ovvio, non è ancora
stato affrontato: il sesso.
Potrei rispondere semplicemente: finché sono qui, non ne voglio sapere.
Oppure, per essere più sincera e più precisa - certo, qualche volta il sesso mi manca moltissimo, ma è un gioco che ho deciso di tenere in disparte per un po’. Non voglio essere
legata a nessuno. Certo, i baci mi piacciono e perciò mi mancano. (Me ne lamento anche
troppo con Sofie, tanto che lei, alla fine, è sbottata: «Basta, Liz, per male che vada potrò
sempre baciarti io!».) Ma per il momento non intendo fare niente del genere. Quando mi sento sola, in questi giorni, penso: Se ti senti sola, sta’sola, Liz. Disegna una mappa della solitudine e, per una volta nella vita, fermati a studiarla. Goditi tutto quanto puoi, ma non usare più il
corpo o i sentimenti di un ’altra persona come un libretto di appunti per i tuoi desideri insoddisfatti.
è una tecnica di emergenza per salvarsi la vita, più che altro. Io ho cominciato presto a
cercare la realizzazione sessuale e sentimentale. Ero poco più che una bambina quando ho
incontrato il mio primo fidanzato, e dai quindici anni in poi ho avuto sempre un ragazzo o un
uomo (qualche volta tutti e due). Sono passati - vediamo - circa diciannove anni. Quasi due
decenni. Con qualcuno mi sono trovata in situazioni drammatiche cui però, ogni volta, si sovrapponeva la storia successiva, senza nemmeno una settimana di respiro tra l’una e l’altra.
Non posso fare a meno di pensare che il mio cammino verso l’età matura sia avvenuto sotto il
segno di una certa passività sentimentale.
Inoltre, con gli uomini ho problemi di limiti. Ma forse non è corretto esprimersi così. Per
avere problemi di limiti, prima di tutto bisogna avere i limiti. Io, al contrario, sparisco nella persona di cui mi innamoro. Divento una membrana permeabile. L’uomo che amo può avere
tutto da me. Tempo, dedizione, impegno, famiglia, soldi, il mio cane, i soldi del mio cane, il
tempo del mio cane - tutto. Mi prendo sulle spalle il suo dolore, i suoi debiti (in tutti i sensi
della parola), lo proteggo dalle sue insicurezze, gli attribuisco tutte le buone qualità che non
ha mai coltivato e a Natale compro regali per tutta la sua famiglia. Gli do il sole e la pioggia e
quando non sono disponibili gli regalo un buono da usare alla prossima occasione. Gli do
tutto questo e anche di più, fino a essere così stufa e svuotata che per ritrovare un po’ di energia posso solo innamorarmi di un altro.
Non ne vado orgogliosa, ma la verità è che per me è sempre stato così.
Avevo lasciato da poco mio marito quando, a una festa, un tale che conoscevo appena mi
disse: «Sembri completamente diversa ora che stai con David. Prima eri identica a tuo marito,
adesso sei identica a David. Ti vesti come lui, parli come lui. Lo sai che i cani spesso somigliano ai loro padroni? Ecco, forse tu somigli sempre all’uomo con cui stai».
Dio, ho bisogno di interrompere questo ciclo, di concedermi un po’ di spazio per scoprire
come appaio e come parlo quando non cerco di essere tutt’uno con un altro. Se prendo in esame i miei precedenti sentimentali, non riesco a trovare niente di buono. Disastri a catena.
Quanti uomini ancora potrò amare continuando a fare lo stesso errore? Mettiamola così: se
avessi avuto dieci gravi incidenti stradali uno in fila all’altro, non mi toglierebbero forse la patente? E non sarei io stessa a non voler guidare mai più?
C’è un’altra ragione che mi fa esitare a legarmi a qualcuno. Sono ancora innamorata di
David e sarei sleale nei confronti del suo successore. Non so nemmeno bene se io e David ci
siamo lasciati davvero. Prima che partissi per l’Italia ci ronzavamo ancora attorno e, anche se
da tanto non andavamo più a letto insieme, ammettevamo entrambi di nutrire qualche speranza che un giorno, forse...
Non lo so.
Quello che invece so molto bene è che mi pesano sulle spalle le conseguenze, accumulate nel corso di una vita, di scelte affrettate e passioni disordinate. Quando sono partita per
l’Italia avevo il cuore e lo spirito inariditi. Mi sentivo come un terreno troppo sfruttato che
aveva bisogno di una stagione di riposo. Ecco perché ho smesso.
Credetemi, non mi sfugge l’ironia di un viaggio in Italia alla ricerca del piacere in un periodo di astinenza sessuale, ma penso che, al momento, questa sia la cosa giusta per me. Me
ne sono convinta, in particolare, la notte in cui ho sentito la mia vicina del piano di sopra (una
ragazza italiana molto carina, con una collezione di stivaletti a tacco alto) gridare di piacere,
insieme all'ultimo fortunato visitatore del suo appartamento, nell’incontro d’amore più lungo,
più rumoroso, più schioccante, più spaccaletto e spaccaschiena che mi fosse mai capitato di
sentire. Questa slam-dance è durata per più di un’ora, completa di effetti sonori iperventilati e
richiami di animali selvatici. Un piano sotto di loro, io ero sola e stanca nel mio letto, e tutto
quello che riuscivo a pensare era: che lavoraccio.
Naturalmente, qualche volta, la voglia prende anche me. Ogni giorno passo davanti ad almeno una decina di uomini italiani che potrei facilmente immaginare nel mio letto. A mio giudizio, gli uomini romani sono ridicolmente, dolorosamente, stupidamente belli. Ancora più belli
delle donne, a essere sinceri. Sono come le donne francesi, delle quali si dice che nessun
particolare sia stato trascurato nella ricerca della bellezza. Sono barboncini da sfilata. Alcuni
romani sono così attraenti che per descriverli dovrei abbandonarmi a una rapsodia da ro-
manzo rosa. Sono «diabolicamente affascinanti» o «crudelmente belli» o «straordinariamente
muscolosi».
Devo ammettere, però, anche se non è molto lusinghiero, che i bei romani che incontro
per strada non mi dedicano mai più di uno sguardo. Anzi, qualche volta neanche quello. Da
principio mi è parso un sintomo allarmante. Ero stata in Italia una sola volta, a diciannove
anni, e ricordavo di essere stata oggetto di continue attenzioni maschili. In strada. E nelle
pizzerie. Al cinema. E in Vaticano. Non la smettevano più, era sfiancante. Una zavorra che
trascinavo in giro per l’Italia e che mi faceva passare qualsiasi appetito. Adesso, a trentaquattro anni, sono diventata invisibile. Certo, qualche volta capita che un uomo mi dica, in tono
cordiale: «Com’è bella oggi, signorina» ma sono casi rari e tutto finisce lì. Preferisco senza
dubbio poter prendere l’autobus senza essere palpeggiata da uno sconosciuto, ma il mio
amor proprio mi fa domandare: Che cosa c’è di diverso? Sono io o sono loro?
Mi sono un po’ informata in giro e tutti convengono che sì, c’è stato un cambiamento in
Italia durante gli ultimi dieci o quindici anni. Forse è una vittoria del femminismo, forse una
svolta culturale o un’inevitabile modernizzazione dei costumi dopo l’ingresso nell’Unione
Europea. O forse è la conseguenza di una forma di disagio che provano i giovani nei confronti
della nota licenziosità dei loro padri e nonni. Qualunque sia la causa, pare che i corteggiamenti furtivi e pressanti siano meno accettabili di un tempo. Infatti la mia graziosa e giovane
amica Sofie non viene mai molestata per strada, e nemmeno quelle pettorute svedesi che
una volta erano le vittime designate di ogni dongiovanni locale.
In conclusione, sembra che gli italiani si siano guadagnati una promozione in condotta.
è una constatazione confortante, perché per un po’ avevo pensato di essere io, io che non
attiravo l’attenzione degli uomini perché non ero più bella come a diciannove anni. Avevo
paura che avesse ragione il mio amico Scott quando mi aveva detto: «Non ti preoccupare,
Liz, gli italiani non ti infastidiranno più, non sono come i francesi che vanno a caccia di bambole attempate».
23
Ieri pomeriggio sono andata a vedere una partita di calcio con Luca Spaghetti e i suoi
amici. Giocava la Lazio. A Roma ci sono due squadre: la Lazio e la Roma. Tra i loro tifosi c’è
una rivalità senza limiti, che può scatenare guerre civili in famiglie felici e in tranquilli quartieri
residenziali. è importante scegliere presto nella vita se si è tifosi della Lazio o della Roma,
perché significa anche scegliere con chi si passeranno in futuro i pomeriggi di tutte le
domeniche.
Luca ha una decina di amici che si vogliono bene come fratelli, ma una metà fa il tifo per
la Lazio e l’altra per la Roma. Per loro non c’è scelta, provengono da famiglie nelle quali la
fedeltà a una squadra è già stabilita in partenza. Il nonno di Luca gli ha regalato la prima
maglietta azzurro cie
lo della Lazio quando lui aveva appena imparato a camminare. Ne consegue che Luca
sarà un tifoso della Lazio fino alla morte.
«Si può cambiare moglie» dice, «si può cambiare lavoro, nazionalità e anche religione,
ma non si può cambiare squadra.»
A proposito, la parola tifoso deriva da tifo, che è come dire che il tifoso è affetto da una
febbre altissima.
La prima partita di calcio cui ho assistito con Luca Spaghetti è stata per me una festa di
lingua italiana. Allo stadio ho imparato una quantità di parole nuove e interessanti che non
s’insegnano a scuola. Un vecchio, seduto dietro di me, ha intrecciato una ghirlanda di stupende invettive all’indirizzo dei giocatori in campo. Non m’intendo di calcio e, invece di perder
tempo a informarmi su come andava il gioco, ho domandato a Luca: «Che cosa sta dicendo
quello seduto dietro di me? Che cosa significa cafoneì». E Luca, senza distogliere lo sguardo
dal campo, mi ha risposto: «Stronzo. Fa’ conto che significhi stronzo».
Prendevo appunti. Poi ho chiuso gli occhi e ho ascoltato il vecchio che sbraitava pressappoco così:
Dài, dài, dai, Albertini dài... va bene, va bene, figlio mio, perfetto, bravo, bravo... Dài! Dài!
Via! Via! In porta! Eccola, eccola, eccola, bravo, bravo, eccola, ecco -aaahhhh!!! vaffanculo!!!
figlio di mignotta!!! stronzo! cafone! traditore! Madonna... Ah, Dio, Dio, guarda questo imbecille, è una vergogna, che vergogna... Che casino, che bordello... non hai un cuore, albertini!
fai finta! Guarda, non è successo niente... dài, dài, ah...
Molto meglio, Albertini, molto meglio, sì, sì, sì, eccola, bello, bravo, ah, ottimo, eccola adesso... in porta, in porta, in - vaffanculo!!!!!!
Ho passato un momento felice e fortunato della mia vita seduta sugli spalti davanti a
quell’uomo. Ho goduto di ogni parola che usciva dalla sua bocca. Volevo piegare la testa
all’in-dietro per appoggiarla sulle sue ginocchia e lasciare che quelle eloquenti imprecazioni
mi si riversassero nelle orecchie per sempre. E non era certo il solo! Tutto lo stadio echeggiava di soliloqui di quel genere, altrettanto accorati. Ogni volta che in campo si verificava
un’azione giudicata scorretta, tutti si alzavano agitando le braccia, sdegnati, imprecando
come se, tutti e ventimila, fossero coinvolti in un alterco in mezzo al traffico.
I giocatori della Lazio avevano la stessa vena teatrale dei loro tifosi, si rotolavano in terra,
a beneficio degli spettatori, quasi stessero interpretando la scena della morte nel Giulio
Cesare, e poi, in due secondi, balzavano in piedi e guidavano un altro attacco verso la rete.
Alla fine la Lazio ha perso.
Per consolarsi dopo la sconfitta, Luca Spaghetti ha chiesto ai suoi amici: «Andiamo?».
Ho pensato che volesse dire: «Andiamo al bar?». In America, gli appassionati di sport fanno così quando la loro squadra ha perso. Vanno al bar e bevono. E non solo gli americani,
anche gli inglesi, gli australiani, i tedeschi... tutti. Ma Luca e i suoi amici non sono andati a
consolarsi al bar. Sono andati in una panetteria. Una piccola, insignificante panetteria
nascosta in un seminterrato in un anonimo quartiere di Roma. C’era folla quella domenica
sera, ma è sempre così dopo le partite. I tifosi della Lazio si fermano lì davanti lungo il tragitto
dal
lo stadio a casa, e restano per ore appoggiati ai motorini, a discutere di com’è andato il
gioco, con le loro inconfondibili arie da macho, divorando cornetti alla crema.
Adoro l’Italia.
24
Imparo venti parole italiane al giorno. Studio in qualsiasi momento, faccio scorrere il mio
schedario tascabile mentre cammino per la città, cercando di schivare i passanti. Dove
troverò
lo spazio nella mia testa per immagazzinare tutto? Spero di riuscire a scacciare qualche
vecchio pensiero negativo o qualche ricordo triste per rimpiazzarli con queste luminose parole
nuove. M’impegno molto nello studio dell’italiano, ma continuo a desiderare che un giorno
questa lingua mi appaia, come una rivelazione, in tutta la sua perfetta interezza. Un giorno
aprirò la bocca e per incanto parlerò senza esitazioni. Allora sarò una vera ragazza italiana,
invece di un’americana dalla testa ai piedi che quando sente qualcuno chiamare dall’altra
parte della strada il suo amico Marco, istintivamente aggiunge: «Polo!». Vorrei che l’italiano
diventasse semplicemente parte di me, ma ci sono tante stranezze in questa lingua. Per esempio, perché le parole albero e albergo sono tanto simili? Senza accorgermene, finisco
sempre con il dire che sono cresciuta in un vivaio di «alberghi di Natale». E poi ci sono parole
che hanno un doppio o addirittura triplo significato. Una di queste è: tasso. Il tasso può essere
l’interesse prodotto da un capitale, oppure un animale o un albero. Quello che mi sconvolge
di più è imbattermi in parole che hanno - mi dispiace dirlo - un suono veramente brutto. Lo
ritengo un affronto personale. Scusate, ma non sono venuta fino in Italia per imparare parole
come schermo.
Al di là di queste piccolezze, imparare l’italiano resta per me un puro piacere. Io e Giovanni ci divertiamo a insegnarci a vicenda modi di dire inglesi e italiani. L’altra sera stavamo
parlando delle frasi che si usano quando si vuole confortare qualcuno che è in difficoltà. Gli
ho detto che noi, qualche volta, diciamo «I’ve been there». Lui dapprima non ha capito: «
There... là... ma là dove?». Gli ho spiegato che una sofferenza profonda qualche volta ha una
sua collocazione particolare, delle coordinate precise sulla mappa del tempo. Quando sei nel
folto di una foresta di dolore, pensi che non troverai mai l’uscita, ma se qualcuno ti garantisce
di essere stato in quella foresta e di esserne tornato, ecco che rinasce la speranza.
«Allora la tristezza è un luogo?» mi ha domandato Giovanni.
«Un luogo dove qualcuno rimane per anni.»
Giovanni, in cambio, mi ha detto che per esprimere empatia gli italiani dicono: «L’ho
provato sulla mia pelle». Come a dire, so cosa provi perché porto su di me le cicatrici delle
stesse ferite.
Finora, però, ad affascinarmi in italiano è soprattutto una comune forma verbale.
Attraversiamo.
è una parola semplice, eppure per me è speciale. La prima volta che l’ho sentita dire da
Giovanni, stavamo camminando vicino al Colosseo, e mi è parsa bellissima. Mi sono fermata
e ho domandato: «Che cosa vuol dire? Che cos’hai detto?».
« A traversiamo. »
Giovanni non riusciva a capire perché fossi così incantata, ma al mio orecchio
quell’attraversiamo era uno straordinario, irripetibile concerto di suoni italiani. Vah iniziale,
pieno di rammarico, poi la rapidità di quel trillo, la pausa della esse e l’indugiare musicale
della fine, ii-aa-moo. Come mi piace questa parola! La ripeto di contìnuo. Cerco tutte le scuse
per pronunciarla. Sofie impazzisce. Attraversiamo! Attraversiamo! La trascino nel traffico di
Roma. A furia di «attraversare», finiremo con il farci investire.
La parola preferita di Giovanni in inglese, invece, è half-as-sed. In italiano si potrebbe
tradurre con «fatto con il culo», cioè male.
Quella preferita da Luca Spaghetti è surrender, «arrendersi».
25
Di questi tempi si è accesa in Europa una lotta di potere: alcune città sono in competizione per il titolo di grande metropoli europea del xxi secolo. Sarà Londra? Berlino? Zurigo?
Forse Bruxelles? Tutte vogliono prevalere culturalmente, architettonicamente, politicamente,
finanziariamente. Ma Roma non si è curata di partecipare a questa gara. Roma non rivaleggia
con nessuno, sta a guardare, pacifica e distaccata, gli sforzi altrui, e ha l’aria di dire: Qualunque cosa facciate, io sono sempre Roma. Mi sento ispirata dalla regale sicurezza di
questa città, solida e armonica, allegra e monumentale, consapevole di dimorare nel palmo
della Storia. Vorrei essere come Roma quando sarò una vecchia signora.
Oggi ho fatto una passeggiata di sei ore per la città. Niente di faticoso, soprattutto se ti
fermi spesso a bere un caffè corroborante accompagnato da qualche pasticcino. Sono partita
da casa e ho cominciato con un giro per quella sorta di centro commerciale di lusso che è il
mio quartiere con i suoi dintorni (e con i suoi «abitanti»: Valentino, Gucci e Armani). In questa
zona hanno abitato Rubens, Tennyson, Stendhal, Balzac, Liszt, Wagner, Thackeray, Byron,
Keats. Io vivo in quello che veniva chiamato «il ghetto inglese», dove gli snob aristocratici si
fermavano durante i loro grand-tour in Europa. Un touring club londinese si chiamava addirittura «The Society of Dilettanti»... Che magnifica sfrontatezza...
Adesso sono in Piazza del Popolo, di fronte al grande arco scolpito dal Bernini in onore
della storica visita della regina Cristina di Svezia (che è stata, in realtà, una delle bombe a
neutroni della Storia. Così la descrive la mia amica svedese Sofie: «Andava a cavallo, a caccia, era una letterata e si era convertita al cattolicesimo, scandalizzando tutti. Qualcuno dice
che era un uomo, ma probabilmente era solo lesbica. Portava i pantaloni, partecipava agli
scavi archeologici, era collezionista d’arte e si rifiutava di mettere al mondo un erede»). Vicino
all’arco c’è una chiesa, dove si può entrare liberamente ad ammirare due quadri di Caravaggio che rappresentano l’uno il martirio di san Pietro e l’altro la conversione di san Paolo (il
quale, sopraffatto dalla grazia, giace in terra in preda a un’estasi mistica, con grande stupore
del suo cavallo). Questi dipinti di Caravaggio non mancano mai di emozionarmi fino alle lacrime, ma poi mi rallegro subito spostandomi dall’altro lato della chiesa a contemplare un affresco che raffigura il più felice, strambo, ridanciano Bambino Gesù di tutta Roma.
Ho ripreso a camminare verso sud. Passo accanto a Palazzo Borghese, dove hanno soggiornato ospiti illustri, compresa Paolina, la scandalosa sorella di Napoleone, che vi ha
ricevuto un incalcolabile numero di amanti. Pare, tra l’altro, che fosse solita usare le cameriere come panchette poggiapiedi. (Uno spera sempre di aver letto male questa frase nella
Companion Guide to Rome, invece no, è proprio così. Nella guida si dice anche che Paolina,
quando faceva il bagno, si faceva portare in braccio da un «negro gigantesco».) Passeggio
lungo le rive del grande, paludoso Tevere dall'aria campestre, e arrivo all’isola Tiberina che,
nella sua tranquillità, è uno dei luoghi di Roma che preferisco. Quest’isola è sempre stata collegata al concetto di guarigione. Qui, nel 291 a.C., dopo un’epidemia di peste, è stato eretto
un tempio a Esculapio; nel Medioevo, un gruppo di monaci chiamati Fatebenefratelli (il nome
è tutto un programma) vi ha costruito un ospedale, e tuttora sull’isola ne sorge uno.
Passo sull’altra riva e vado a Trastevere, la zona che vanta il privilegio di essere abitata
dai veri romani, i lavoratori, quelli che attraverso i secoli hanno costruito i monumenti che si
trovano dall’altra parte del fiume. Vado a pranzo in una tranquilla trattoria e indugio per ore
davanti al cibo e al vino, perché nei ristoranti di Trastevere non ti mettono mai fretta se capiscono che quello che desideri è trattenerti ancora un po’. Ho ordinato una varietà di
bruschette, un piatto di spaghetti cacio e pepe e poi un piccolo pollo arrosto da dividere con il
cane randagio che, da quando ho cominciato a mangiare, mi sta guardando come solo un
cane randagio ti sa guardare.
Torno al ponte passando per il ghetto degli ebrei, un luogo doloroso e solitario, sopravvissuto nei secoli fino a quando non è stato svuotato dai nazisti. Mi dirigo verso nord, oltre
piazza Na-vona e la sua mastodontica fontana che celebra i quattro grandi fiumi del pianeta
Terra (tra i quali è incluso, anche se non propriamente, il pigro Tevere). Ogni volta che posso,
cerco di dare un’occhiata anche al Pantheon perché, dopotutto, sono a Roma e un vecchio
proverbio dice che andare a Roma senza vedere il Pantheon significa «tornare a casa come
un somaro».
Lungo la strada di casa, mi concedo una piccola deviazione e mi fermo nel luogo che, per
me è il più suggestivo di Roma: il Mausoleo di Augusto. Questa grande, circolare massa di
mattoni, che è poi andata distrutta, aveva iniziato la sua vita come uno stupendo mausoleo
fatto costruire da Ottaviano per custodire in eterno le sue spoglie e quelle della sua famiglia.
Di certo, allora, era impossibile per l’imperatore immaginare che Roma potesse un giorno
smettere di essere la capitale del più potente impero del mondo. Come avrebbe potuto prevedere che sarebbe crollato? O sapere che, con gli acquedotti distrutti dai barbari e le grandi
strade abbandonate alla rovina, la città si sarebbe svuotata e avrebbe impiegato quasi venti
secoli per riavere la popolazione che vantava quando era all’apice della gloria?
Durante l’Alto Medioevo il Mausoleo di Augusto è caduto in rovina ed è stato depredato.
Qualcuno, chissà chi, ha rubato le ceneri dell’imperatore. Ma nel xii secolo, il monumento è
stato riportato in vita dalla potente famiglia Colonna, che l’ha utilizzato come fortezza per proteggersi dagli assalti dei principi nemici. Poi il Mausoleo è stato trasformato, chissà come, in
un vigneto, in seguito in un giardino rinascimentale, più avanti in un’arena (siamo ormai nel
xviii secolo), successivamente in un deposito di fuochi artificiali e infine in una sala per concerti. Nel 1930 Mussolini ne assunse la proprietà e lo fece restaurare sulla base delle fondamenta originarie perché un giorno potesse diventare la sua tomba. (Forse anche allora a
qualcuno poteva sembrare impossibile che Roma smettesse un giorno di essere la capitale
dell’impero di Mussolini.) Il sogno fascista, com’era prevedibile, non è durato a lungo e Mussolini non ha avuto la sepoltura imperiale a cui aspirava.
Oggi il Mausoleo è uno dei luoghi più tranquilli e isolati di Roma, situato a un livello più
basso rispetto alla costruzioni circostanti. La città gli è cresciuta intorno nel corso dei secoli.
(Si calcola che l’accumulo dei detriti del tempo aumenti di due centi-metri e mezzo circa
l’anno.) Al di sopra del monumento, il traffico scorre in un cerchio febbrile, ma nessuno
scende mai fin lì, a quanto posso giudicare, se non per utilizzarla come bagno pubblico. Ma il
monumento è lì e occupa con dignità il suo posto sul suolo romano, in attesa della prossima
reincarnazione.
è rassicurante pensare che il Mausoleo sia riuscito a resistere così a lungo, che la sua
struttura abbia compiuto un percorso così accidentato, riuscendo ogni volta ad adeguarsi alla
stramba imprevedibilità dei tempi. Per me il Mausoleo di Augusto è come una persona che ha
avuto una vita pazzesca -una casalinga che, a seguito di una vedovanza improvvisa, si trasforma per sopravvivere, comincia una carriera di ballerina di danza dei ventagli, diventa mir-
acolosamente la prima donna dentista mai andata nello spazio, poi, non contenta, si butta in
politica... e, tuttavia, pur in mezzo a tanta varietà e scompiglio, conserva intatta l’essenza di
se stessa.
Guardo il Mausoleo e penso che forse, dopotutto, la mia vita non è caotica come sembra.
è il mondo che è caotico e ci costringe a continui, inattesi cambiamenti. Il Mausoleo mi ammonisce a non restare ancorata alla vecchia idea di me. Posso essere stata, in passato, per
qualcuno, una meravigliosa opera d’arte e trasformarmi domani in un deposito di fuochi artificiali. Anche nella Città Eterna, dice nel suo silenzio il Mausoleo di Augusto, bisogna essere
preparati ad affrontare violente, infinite ondate di trasformazione.
26
Prima di partire per l’Italia, avevo spedito a mio nome, via mare, uno scatolone di libri. Mi
era stato assicurato che sarebbe arrivato al mio appartamento di Roma entro 4-6 giorni al
massimo, ma credo che all’ufficio postale italiano abbiano scambiato quel 4-6 con un 46, dal
momento che sono passati due mesi e i libri ancora non si sono visti. I miei amici italiani mi
dicono di non contarci più, uno scatolone può arrivare e può non arrivare, qualsiasi intervento
esterno è inutile.
«L’avranno rubato?» domando a Luca Spaghetti. «L’avranno perso all’ufficio postale?»
Lui si copre gli occhi con le mani. «Inutile farsi queste domande, servono solo ad agitarsi.»
Il mistero dello scatolone smarrito diventa oggetto di una discussione tra me, Maria, la mia
amica americana, e Giulio, suo marito. Maria ritiene che in una società civile si debba poter
fare conto sull’efficienza delle Poste, ma Giulio dichiara con garbo di non essere d’accordo.
L’ufficio postale, dice, non è governato dal genere umano, ma dal fato e la consegna della
posta non è una cosa che si possa mai dare per certa. Maria si spazientisce e afferma che è
solo una prova in più di quanto i cattolici siano diversi dai protestanti. Questa differenza è
confermata, dice, dalla difficoltà che hanno gli italiani - suo marito compreso - a formulare
progetti per il futuro, sia pure con una sola settimana di anticipo. Se si chiede a un protestante del Midwest di intervenire a una cena la settimana successiva, il protestante, sicuro di
essere padrone del proprio destino, dirà: «Sì, giovedì per me va bene». Ma se lo si chiede a
un calabrese è probabile che risponda: «Giovedì? Mah, siamo nelle mani di Dio...».
Nonostante tutto, vado ogni tanto all’ufficio postale a cercare di rintracciare il mio scatolone. Inutile. L’impiegata, romana, non è contenta di dover interrompere la telefonata con il
suo fidanzato per rispondermi e il mio italiano, che pure, sinceramente, sta migliorando, in
queste circostanze difficili finisce per tradirmi. Mentre cerco di parlarle concretamente del
mancato arrivo dei miei libri, lei mi guarda come se stessi facendo le bolle con la saliva.
«Crede che possano arrivare entro la settimana prossima?»
Lei si stringe nelle spalle: «Magari».
Un’altra espressione della lingua parlata che è impossibile da tradurre, qualcosa tra
«speriamo» e «te lo sogni, povera illusa».
Ah, ma forse è meglio così. Tanto per cominciare, non mi ricordo nemmeno quali erano i
libri che avevo messo nello scatolone. C’erano sicuramente testi che mi ripromettevo di
leggere per capire meglio l’Italia. E poi c’era un bel po’ di materiale su Roma, che avrei
dovuto studiare diligentemente, ma che ora che sono qui mi sembra del tutto inutile. Credo ci
fosse anche l’edizione completa del Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano. Forse sto meglio senza. La vita è breve, voglio davvero passare un novantesimo dei
giorni che mi rimangono sulla Terra leggendo Edward Gibbon?
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La settimana scorsa ho conosciuto una ragazza australiana che, con lo zaino in spalla,
visitava l’Europa per la prima volta in vita sua. Le ho dato indicazioni per raggiungere la
stazione. Stava andando in Slovenia, tanto per vedere com’era. Ho provato un muto accesso
d’invidia. Voglio andare in Slovenia! Perché non riesco mai ad andare da nessuna parte ?
Ora, queste parole potrebbero suonare bizzarre, visto che sto già viaggiando e voler
viaggiare mentre si è in viaggio appare certamente un segno di assurda ingordigia. È come
sognare il sesso con il tuo attore preferito mentre lo stai facendo con Valtro tuo attore
preferito. Ma se quella ragazza mi ha domandato la strada per arrivare alla stazione
(scambiandomi chiaramente per una normale cittadina) è perché io non sono in viaggio a
Roma, io vivo a Roma. Forse, provvisoriamente, io sono romana. Quando ho incontrato
quella ragazza, infatti, stavo andando a pagare la bolletta della luce, cosa che non compete
certo al turista. L’energia che si impiega per viaggiare verso un luogo e quella necessaria per
viverci sono di natura fondamentalmente diversa; e dopo l’incontro con quella ragazza australiana ho sentito una irresistibile voglia di mettermi in viaggio.
Così ho telefonato a Sofie e le ho detto: «Andiamo a Napoli a mangiare la pizza, oggi, in
giornata».
Qualche ora dopo eravamo in treno e, in un lampo, siamo arrivate a Napoli. Mi è piaciuta
subito. Frenetica, aspra, rumorosa, sporca, incasinata città. Un gigantesco formicaio con tutto
l’esotismo di un bazar mediorientale e in più un tocco di voodoo stile New Orleans. Un
esaltato, pericoloso e allegro manicomio. La mia amica Wade è venuta a Napoli nel 1970 ed
è stata derubata... in un museo. La città è decorata da festoni di biancheria che penzolano nei
vicoli tra una finestra e quella di fronte, canottiere e reggipetto appena lavati che svolazzano
al vento come bandiere da preghiera tibetane. Non c’è strada a Napoli in cui non si veda un
monello in pantaloni corti e calze una diversa dall’altra che strilla rivolto a un altro monello ap-
pollaiato sul tetto di fronte. Non c’è casa, in questa città, che non abbia alla finestra una vecchia, ingobbita dagli anni, intenta a osservare sospettosa la strada di sotto.
I napoletani sono totalmente condizionati dall’appartenenza alla loro città. E perché non
dovrebbero? Hanno dato al mondo la pizza e il gelato. Le napoletane, in particolare, sono una
rumorosa combriccola di donne generose dalle voci forti e dall’eloquio impertinente e sovrabbondante, che ti si piantano davanti, minacciose e prepotenti, ma solo perché stanno cercando di darti un fottutissimo aiuto, per l’amor di Dio, cht cosa credevi, stupida che sei... ma
perché dobbiamo fare tutto noi donne, in questa città? L’accento napoletano è un’amichevole
pacca sull’orecchio. Usano tutti ancora il dialetto, qui, e hanno un vocabolario fluido e mutevole. Ho scoperto che in Italia sono proprio i napoletani quelli che io capisco meglio degli altri.
Perché? Ma perché vogliono essere capiti, accidenti. Parlano a voce alta e con enfasi, e se
non è chiaro quello che dicono con la bocca, lo si può sempre dedurre dai gesti. Come
quando quella scolaretta punk, seduta in sella al motorino, dietro a un ragazzino più grande di
lei, sfrecciandomi accanto mi ha mostrato il dito medio con un gran sorriso, giusto per dirmi:
«Ehi, non te la prendere, nonna, ho sette anni e so già che sei una sfigata totale, ma va bene
così, non sei nemmeno tutto ’sto cesso, mi piace quell’aria da rimbambita. Lo sappiamo tutt’e
due che vorresti essere me, ma mi spiace, non puoi. Ecco il medio, divertiti a Napoli e ciao!».
Come in ogni spazio libero in Italia, anche nelle piazzette di Napoli ci sono ragazzi, adolescenti e uomini adulti che giocano a pallone; ma qui c’è anche di più. Per esempio, ho
scoperto un gruppetto di bambini sugli otto anni che hanno improvvisato, con delle vecchie
cassette per trasportare le galline, tavolo e sedie, e si sono messi a giocare a poker in strada
con un accanimento tale da far temere che qualcuno finisse ammazzato.
Giovanni e Dario, i miei gemelli, sono di origine napoletana. Non riesco a crederci. Non
posso immaginare il timido, studioso, affettuoso Giovanni, da ragazzino, a zonzo per questi
vicoli. Ma è napoletano, non ci sono dubbi in proposito, perché prima che partissi da Roma mi
ha dato l’indirizzo di una pizzeria dove, a quanto pare, fanno la migliore pizza di Napoli. Mi è
parsa una prospettiva estremamente interessante, perché se la pizza più buona del mondo si
mangia in Italia e la pizza più buona d’Italia si mangia a Napoli, questa pizzeria dovrebbe offrire... se non è azzardato dirlo... la pizia più buona del mondo. Giovanni mi ha consegnato
l’indirizzo con aria solenne, e io ho avuto l’impressione di essere ammessa a far parte di una
società segreta. Mi ha premuto il foglietto nel palmo della mano e ha detto, serissimo: «Ti
prego di andare in questa pizzeria e di ordinare una margherita con doppia mozzarella. Se
non lo farai, preferisco non saperlo, piuttosto al tuo ritorno dimmi una bugia».
E così, io e Sofìe siamo andate alla pizzeria «Da Michele» e le pizze che stiamo mangiando ci stanno facendo perdere la testa. La mia pizza mi piace talmente tanto che, nel mio
delirio, ho la certezza di piacere anche io a lei. Anzi, tra me e la mia pizza sta nascendo uno
stretto rapporto personale, quasi una storia d’amore. Sofie, praticamente in lacrime, ha una
crisi metafisica e mi domanda: «Perché almeno non tentano di fare la pizza a Stoccolma?
Non ci si dovrebbe nemmeno sedere a tavola, a Stoccolma».
La pizzeria «Da Michele» ha solo due piccole sale e un forno che non è mai spento. è a
circa un quarto d’ora di strada dalla stazione e nemmeno la pioggia, oggi, ci ha impedito di
raggiungerla. Siamo arrivate sul presto, perché so che qualche volta restano senza pasta, e
allora ti si spezza il cuore. All’una, le strade intorno alla pizzeria sono già affollate di clienti in
attesa, che si fanno largo a spintoni come se dovessero trovare posto su una scialuppa di salvataggio. Non c’è molta scelta, so
lo due tipi di pizza, normale o con doppia mozzarella. Niente che somigli a quelle finte
pizze new age californiane, tutte olive e pomodorini seccati al sole. La pasta, devo arrivare
quasi a metà pizza per capirlo, ha un sapore più simile al naan indiano di qualsiasi altra io abbia mai assaggiato. è soffice, consistente ed elastica, ma incredibilmente sottile. Avevo
sempre pensato che, quanto alla base della pizza, la vita ci offrisse so
lo due possibilità: croccante e sottile oppure spessa e pastosa. Chi l’avrebbe mai detto
che al mondo esisteva una pizza sottile e anche pastosa? Sottile, pastosa, consistente, elastica, squisita, scivolosa, gustosissima pizza paradiso. Sopra c’è una dolce salsa di pomodoro
che spumeggia frizzante e cremosa quando incontra la mozzarella fresca di bufala e, al
centro di questa armonia, una spruzzata di basilico diffonde su tutta la pizza la sua solarità di
erba aromatica, come una smagliante stella del cinema, al centro di una festa, trasmette vibrazioni luminose a chiunque le stia intorno. E praticamente impossibile mangiare un insieme
di questo genere. Cerchi di dare un morso alla tua fetta, ma la pasta è morbida, si piega, il
formaggio caldo scivola come uno strato di terra in uno smottamento, imbrattando te e tutto
quello che hai intorno. Ma alla fine, in qualche modo, ce la fai.
I responsabili di questo miracolo spingono le pizze dentro e fuori dal forno a legna come
addetti alle caldaie nel ventre di una grande nave che caricano di carbone le ingorde fornaci.
Portano le maniche arrotolate sopra gli avambracci sudati. Hanno la faccia rossa per lo
sforzo, gli occhi socchiusi per il calore del fuoco e una sigaretta appesa a un angolo delle labbra. Io e Sofie ordiniamo altre due pizze. Sofie cerca di darsi un contegno, ma la pizza è così
buona che è difficile controllarsi.
Una parola sul mio corpo. Prende peso ogni giorno, com’è ovvio. Lo sto veramente maltrattando qui in Italia, con queste spaventose quantità di formaggio, pasta, pane, vino, cioccolato e pizza. (Come se non bastasse, a Napoli mi hanno detto che esiste anche la pizza al
cioccolato. Che controsenso! Poi ci ho ripensato e sono andata a provarla, era squisita, ma
non riesco ancora a convincermi - pizza al cioccolato, è mai possibile?) Non faccio ginnastica,
non mangio abbastanza fibre, non prendo vitamine. Gli amici sanno che nella mia vita di ogni
giorno la mia prima colazione si compone di yogurt fatto con latte di capra e germi di grano.
Ma la mia vita di ogni giorno è finita da un pezzo. In America, la mia amica Susan dice a tutti
che sono partita «senza la benzina per tornare a casa», ma il mio corpo se la gode un
mondo. Chiude gli occhi davanti alle mie malefatte e alla mia eccessiva indulgenza, come se
dicesse: «Tutto bene, mia cara, divertiti pure, tanto dura poco. Quando avrai finito la tua
ricerca del piacere, vedrò come riparare ai danni».
Eppure, se mi guardo nello specchio della pizzeria di Napoli, vedo una faccia sana e felice, con la pelle limpida e gli occhi brillanti. Era da tanto che non vedevo una faccia così
guardandomi allo specchio.
«Grazie» dico sottovoce, e corro fuori con Sofie, sotto la pioggia, a cercare una pasticceria.
28
Forse per via di questa felicità (che durava ormai da qualche mese) cominciai a pensare,
durante il viaggio di ritorno a Roma, che con David dovevo prendere una decisione. Forse era
venuto il momento che la nostra storia finisse. Eravamo già separati, questo si sapeva, ma
c’era ancora uno spiraglio che lasciava intravedere la possibilità di un altro tentativo, forse
dopo i miei viaggi, forse dopo un anno di separazione. Ci amavamo, non era questo il problema, però non riuscivamo a trovare il modo di non renderci l’un l’altra sempre così disperatamente, clamorosamente, autolesionisticamente infelici.
La primavera passata, David aveva proposto, non del tutto per scherzo, questa folle
soluzione alle nostre pene: «Se ammettessimo che i nostri rapporti sono terribili e tenessimo
duro nonostante questo? Se ammettessimo che ci esasperiamo a vicenda, che litighiamo
continuamente e non facciamo quasi mai l’amore, ma che non possiamo vivere lontani e che
vale la pena di tenerne conto? Potremmo passare tutta la vita insieme, lamentandoci, ma felici di non essere divisi».
A testimoniare il mio disperato amore per quest’uomo basti dire che avevo passato gli ultimi dieci mesi prendendo seriamente in considerazione la sua proposta.
L’alternativa cui entrambi pensavamo, senza parlarne, era che uno di noi cambiasse. Lui
sarebbe potuto diventare più aperto, più affettuoso, smettendo di ritrarsi da chi lo amava
come se avesse avuto paura che gli mangiasse l’anima. Oppure io avrei potuto imparare a...
smettere di mangiargliela, l’anima.
Tante volte avevo desiderato, nella mia vita con David, di riuscire a diventare come mia
madre nella sua vita matrimoniale - indipendente, forte, autosufficiente. Un congegno ad alimentazione propria. Capace di esistere senza regolari som ministrazioni di sentimentalismi o
vezzeggiamenti da parte di quell'agricoltore solitario che era mio padre. Capace di piantare
allegramente aiuole di margherite in mezzo agli inesplicabili muri di silenzio che mio padre
erigeva intorno a sé. Mio padre è in assoluto la persona che preferisco al mondo, ma è decisamente un caso particolare. Un mio ex fidanzato lo aveva descritto così: «Tuo padre ha solo
un piede sulla terra e le gambe lunghissime...».
Sono cresciuta vedendo che mia madre riceveva l’amore e l’affetto di suo marito ogni
volta che lui voleva offrirglielo, ma si teneva in disparte e badava a se stessa ogni volta che
lui scivolava nel suo personale universo di sottile, immemore negligenza. Questa almeno era
la mia impressione, tenendo conto che nessuno (tantomeno i bambini) conosce i segreti di un
matrimonio. Io credevo di avere una madre che non chiedeva niente a nessuno. Era una
donna che, da ragazzina, aveva imparato a nuotare da sola in un gelido lago del Minnesota
seguendo le istruzioni di un manuale di nuoto preso in prestito alla biblioteca del paese. Ai
miei occhi non c’era niente che mia madre non sapesse fare da sola.
Poi, però, avevo avuto con lei, poco prima di partire per Roma, una conversazione rivelatrice. Era venuta a New York per salutarmi e, mentre eravamo a pranzo insieme, mi aveva
domandato, contravvenendo a tutte le regole che, in casa nostra, presiedevano agli scambi
verbali, che cos’era successo tra me e David. Allora, incurante a mia volta del «Regolamento
delle comunicazioni tra i membri della famiglia Gilbert», le avevo raccontato tutto. Le avevo
spiegato che amavo David, ma che mi faceva sentire sola, e che mi spezzava il cuore vivere
con una persona che spariva continuamente dalla stanza, dal letto, dal pianeta.
«Mi sembra che appartenga allo stesso genere di tuo padre» aveva detto lei un’affermazione temeraria e generosa.
«Il guaio è che io non sono dello stesso genere di mia madre» avevo ribattuto. «Io non
sono forte come te, mamma. Ho bisogno di un livello costante di vicinanza con la persona
che amo, e non posso farne a meno. Vorrei somigliarti di più, allora potrei portare avanti
questa storia con David, ma mi distrugge non poter contare sull’affetto di cui ho bisogno.»
La risposta mi era arrivata di sorpresa. «Tutte queste cose, Liz, le ho sempre volute
anch’io.»
Era stato come se mia madre, quella donna così forte, avesse allungato il braccio sul tavolo e, aprendo il pugno, mi avesse finalmente mostrato i rospi che aveva dovuto inghiottire
per decenni al fine di restare felicemente sposata con mio padre. E, a conti fatti, è tuttora felicemente sposata. Non l’avevo mai vista prima in questa luce. Non avevo mai pensato a quel
lo che poteva desiderare, a quello che poteva mancarle ma cui aveva deciso di rinunciare
in vista di un fine maggiore. Da quel momento, la mia visione del mondo subì un cambiamento radicale.
Se perfino lei vuole quello che voglio io, allora... ?
Mia madre aveva proseguito, sul filo dei ricordi personali: «Devi capire che l’educazione
che ho ricevuto mi aveva preparata ad aspettarmi poco dalla vita. Appartengo a un ambiente
e un’epoca diversi dai tuoi».
Con gli occhi socchiusi, avevo visto mia madre che a dieci anni, nella fattoria della sua
famiglia in Minnesota, lavorava come una bracciante, allevava i suoi fratelli, portava i vestiti
smessi dalle sorelle maggiori e risparmiava un soldo alla volta per riuscire a venir via...
«E devi anche capire quanto bene voglio a tuo padre» aveva concluso.
Mia madre ha fatto delle scelte nella vita, come tutti noi, ed è in pace con le sue scelte. Io
la vedo la sua pace. Non si è pentita. Le conseguenze positive sono evidenti - un matrimonio
lungo e senza scosse con un uomo che la definisce ancora la sua migliore amica; una
famiglia che ora si è allargata anche ai nipotini che l’adorano; la certezza della propria forza.
Forse a qualcosa ha dovuto rinunciare, e questo vale anche per mio padre - ma chi al mondo
può dirsi esente da sacrifici?
Ora io mi domando: quali devono essere le mie scelte? Che cosa penso di meritare nella
vita? Dove posso accettare di compiere un sacrificio e dove no? È stato difficile per me immaginare una vita senza David. Anche solo immaginare che non ci sarebbe mai stato un altro
viaggio con il mio compagno preferito, che non lo avrei aspettato più vicino al marciapiede
con i finestrini dell’automobile abbassati e Spring-steen che cantava alla radio, tanti scherzi,
tanti panini e una meta oceanica che ci aspettava in fondo all’autostrada. Ma com’era possibile accettare che tanta felicità portasse con sé questo lato oscuro - un isolamento che mi
stritolava le ossa, un’insicurezza corrosiva, un rancore insidioso e il totale annullamento di me
stessa ogni volta che David smetteva di dare e cominciava a prendere. Io non potevo continuare così. C’è stato qualche momento, nella gioia che ho provato quel giorno a Napoli, che mi
ha fatto capire che non solo posso essere felice senza David, ma devo. Anche se lo amo (e lo
amo, stupidamente), devo dirgli addio subito. E restare ferma nella mia decisione.
Perciò gli ho scritto una e-mail.
è novembre. Da luglio non abbiamo notizie l’uno dell’altra. Gli avevo chiesto di non cercarmi mentre ero in Italia, sapendo che il mio attaccamento per lui era così forte che non avrei
più potuto concentrare l’attenzione sul mio viaggio se avessi dovuto seguire anche il suo.
Ora, invece, sto entrando nella sua vita con questa e-mail.
Gli dico che spero stia bene e che io sto bene. Aggiungo qualche spiritosaggine, perché è
sempre stata la nostra specialità. Poi gli spiego che dovremmo mettere veramente fine al
nostro legame, che è arrivato il momento di riconoscere che non andrebbe comunque a finire
bene. Il messaggio non ha un tono esageratamente drammatico. Di scene drammatiche ne
abbiamo già fatte abbastanza tutti e due, adesso voglio solo scrivere in maniera breve e semplice quello che penso. Ma c’è ancora una cosa da dire. Trattengo il respiro e continuo: «Nel
caso volessi cercarti un’altra compagna per la vita, hai la mia benedizione». Mi tremano le
mani. Concludo con un saluto affettuoso, il più affettuoso e allegro possibile.
Mi sento come se qualcuno mi avesse colpita al petto con un bastone.
Non dormo molto, perché penso che lui potrebbe star leggendo le mie parole. Il giorno
dopo corro più volte all’Intemet Café per vedere se c’è un messaggio. Cerco di non accorgermi che una parte di me muore dalla voglia di ricevere una risposta del tipo: «torna indietro!
non andar via! voglio cambiare!». Cerco di ignorare la Liz che sarebbe felice di scambiare il
suo grande progetto di viaggiare per il mondo con le chiavi dell’appartamento di David.
Finché verso le dieci di sera non arriva la risposta. Una e*mail scritta benissimo. David è uno
che sa scrivere. Sì, anche lui pensa che sia venuto il momento di dirci addio per sempre. è
d’accordo con me su tutta la linea, la sua risposta non potrebbe essere più garbata. Condivide il mio rimpianto e
il mio dolore per il distacco, con quella profonda tenerezza che
- soffro nel ricordarlo - altre volte aveva già saputo dimostrare. Si augura che io sia consapevole dell’intensità del suo amore per me, che va oltre la sua capacità di trovare le parole
per esprimerla. «Ma non siamo la persona giusta l’uno per l’altra» dice, però è sicuro che la
troverò, la persona giusta. Ne è sicurissimo. Dopotutto, conclude, «la bellezza attira la
bellezza».
è una cosa carina da dire. La più carina che l’amore della tua vita possa dire invece di torna indietro! non andar via! voglio cambiare!
Resto seduta in silenzio davanti allo schermo del computer per un momento lungo e triste.
è meglio così, lo so. Ho scelto la felicità al posto della sofferenza, so anche questo. Sto
creando nella mia vita uno spazio che il futuro potrà riempire di sorprese nuove. So tutto. Eppure...
è David. Ora l’ho perso davvero.
Mi nascondo la faccia tra le mani per un altro momento, ancora più lungo e ancora più
triste. Infine alzo gli occhi e vedo che una delle donne albanesi che lavorano allTnternet Café
ha finito il suo turno serale, ha smesso di lavare il pavimento e, appoggiata al muro, mi osserva. I nostri sguardi stanchi s’incrociano. Scuoto la testa con aria cupa e dico a voce alta:
«Che situazione di merda». Lei fa segno di sì con la testa, solidale. Non capisce ma, naturalmente, a modo suo, sa.
Il mio cellulare suona.
è Giovanni. Esita. Dice che mi sta aspettando da più di un’ora in piazza Fiume, dove
c’incontriamo ogni giovedì sera per la conversazione italiano-inglese. E stupito, perché di
solito è lui che arriva tardi o dimentica gli appuntamenti, ma stasera, una volta tanto, era in
anticipo ed era sicuro che... non dovevamo vederci?
Me n’ero dimenticata. Gli dico dove sono. Propone di venirmi a prendere in macchina, io
non ho voglia di parlare con nessuno, ma è troppo diffìcile spiegarlo al telefonino con il nostro
linguaggio stentato. Vado ad aspettarlo fuori, al fresco. Qualche minuto dopo, la sua automobilina rossa si ferma davanti a me e io salgo. Lui mi domanda in un italiano un po’ gergale
che cos’è successo. Io faccio per rispondere e improvvisamente mi metto a piangere. O
meglio: a guaire, con quei terribili lamenti discontinui che la mia amica Sally chiama «a doppia pompata», perché tra un singhiozzo e l’altro hai bisogno di due boccate d’ossigeno. Non
sento mai arrivare questi terremoti di dolore, vengo sempre colta alla sprovvista.
Povero Giovanni! Mi domanda, nel suo inglese difficoltoso, se mi ha fatto qualcosa di
male. Sono arrabbiata con lui? Mi ha offesa? Non posso rispondere, scuoto solo la testa e
continuo a guaire. Mi vergogno, mi dispiace per lui, intrappolato in questa automobile con una
vecchia incoerente che non smette di singhiozzare ed è completamente a pezzi.
Infine riesco a rassicurarlo, con voce stridula, che lui non c’entra. Quasi mi strozzo nel
chiedergli scusa per essermi lasciata andare così. Giovanni si fa carico della situazione con la
serietà di una persona molto più grande di lui. «Non devi scusarti se piangi» dice. «Se non piangessimo saremmo dei robot.» Prende un fazzolettino di carta da una scatola sul sedile posteriore. «Andiamo via di qui.»
Ha ragione, lo spazio davanti all’Internet Café è troppo pieno di gente e troppo illuminato
per disperarsi in santa pace. Giovanni guida fino a Piazza della Repubblica, uno degli spazi
aperti più suggestivi di tutta Roma. Accosta l’auto proprio di fianco alla meravigliosa fontana
dove irriverenti ninfe saltellano nude, con pornografica grazia, tra i colli eretti e fallici di cigni
giganteschi. La fontana è stata costruita abbastanza di recente rispetto alle altre fontane
romane. Secondo la mia guida, le donne che avevano fatto da modelle per le ninfe erano due
sorelle, due ballerine del varietà, allora famose. La fontana aveva, naturalmente, aumentato
la loro popolarità, ma le autorità ecclesiastiche avevano cercato- per mesi di impedirne
l’inaugurazione perché le statue erano giudicate troppo sexy. Le sorelle vissero fino a tarda
età e, nel 1920, si vedevano ancora queste due vecchie, dignitose signore passeggiare nella
piazza e contemplare quella che ritenevano giustamente la «loro» fontana. Ogni anno, una
volta all’anno, lo scultore francese che le aveva immortalate nel marmo veniva a Roma e le
invitava a pranzo per ricordare insieme i tempi lontani in cui erano due ragazze belle e scatenate.
Giovanni, dunque, ferma qui l’automobile e aspetta che mi riprenda. Ma tutto quello che
posso fare è premermi io i palmi delle mani contro gli occhi per ricacciare indietro le lacrime.
Non abbiamo mai parlato di noi, io e Giovanni. In questi mesi, durante le nostre cene insieme,
abbiamo conversato di filosofia, di arte, di cultura, di politica e di cibo. Non conosciamo l’uno
la vita privata dell’altra. Lui non sa nemmeno che sono divorziata e che ho lasciato il mio
amore in America. Anch’io non so niente di Giovanni, tranne che vuole fare lo scrittore e che
è nato a Napoli. Il mio pianto, però, ci impone un nuovo livello di conversazione. Preferirei che
non fosse così. O almeno che non dovesse accadere in questa spaventosa circostanza.
Lui dice: «Scusami, ma non capisco. Che cosa ti è successo, oggi?».
Ma io non riesco ancora a parlare. Giovanni ride e m’incoraggia. «Parla come magni.» Lui
sa che è una delle mie espressioni preferite in dialetto romanesco, è un modo per ricordarci,
quando non riusciamo a trovare le parole giuste, che il linguaggio migliore è semplice ed essenziale, come il cibo romano. Non va elaborato, ma solo messo in tavola.
Respiro a fondo ed espongo la versione italiana (ridotta ma esauriente) della mia
situazione.
«è più o meno una storia d’amore, Giovanni. Oggi ho dovuto dire addio a qualcuno.»
Ma di nuovo mi copro gli occhi con le mani e attraverso le dita strette sulle palpebre sento
scorrere le lacrime. Quel tesoro di Giovanni non cerca di mettermi un braccio rassicurante intorno alle spalle, e non esprime il minimo disagio davanti alla mia esplosione di tristezza. Assiste al mio pianto in silenzio, finché non mi sono calmata. A quel punto, con sincera partecipazione, attento a non sbagliare (come sua insegnante d’inglese sono orgogliosa di lui!), ripete con calma, chiarezza e gentilezza la frase che la prima volta aveva stentato a capire: «I
have been there, Liz».
29
L’arrivo di mia sorella a Roma, qualche giorno dopo, mi ha aiutata a distogliere la mia attenzione dal pensiero incombente di David e a rimettermi in marcia. Mia sorella fa tutto di cor
sa, l’energia sprizza da lei in tanti piccoli cicloni che le turbinano intorno. Ha tre anni più di me
ed è più alta di sette centimetri. è un’atleta, una studiosa, una scrittrice e un’ottima madre.
Per tutto il tempo che è stata a Roma si è allenata per una maratona, cioè si è alzata tutte le
mattine all’alba e ha percorso ventisette chilometri nel tempo che di solito a me serve per
leggere un articolo e bere due cappuccini. Corre come un cervo. Quando aspettava il suo
primo figlio, una notte, al buio, ha attraversato il lago a nuoto. Io non sono riuscita a seguirla,
e non ero neanche incinta. Avevo troppa paura. Mia sorella non ha mai paura. Quando stava
per partorire il secondo figlio, la levatrice le ha domandato se aveva motivo di temere che il
bambino nascesse con qualche difetto genetico o che durante il parto insorgesse qualche
complicazione. Mia sorella le ha risposto: «Una sola cosa temo, ed è che da grande diventi
repubblicano».
Si chiama Catherine. è la mia unica sorella. Siamo cresciute insieme, inseparabili, nella
campagna del Connecticut, alla fattoria dei nostri genitori. Non c’erano altri bambini nelle vicinanze. Lei era forte e prepotente e ha dominato tutta la mia vita. L’ho temuta e venerata,
solo quello che pensava lei mi pareva giusto. Quando giocavamo a carte, imbrogliavo per
farla vincere e non farla arrabbiare. Non sempre andavamo d’accordo, a volte la irritavo,
spesso mi faceva paura. Finché a ven-totto anni, più o meno, ne ho avuto abbastanza. è
stato allora che, infine, mi sono ribellata, e lei ha avuto una reazione del tipo: «Come mai ci
hai messo tanto?».
Stavamo cominciando a fissare i termini dei nostri nuovi rapporti, quando il mio matrimonio ha cominciato a vacillare. Sarebbe stato facile per Catherine trarre una vittoria dalla mia
sconfitta. Delle due, io ero stata la sorella amata, fortunata, prediletta dalla famiglia e dal destino. Il mondo mi aveva sempre mostrato un volto sereno e accogliente, mentre lei prendeva
la vita di punta e qualche volta ne restava ferita. Avrebbe potuto reagire al mio divorzio e alla
mia depressione con un: «Ecco qua com’è finita la mia radiosa sorellina!», invece mi ha sostenuta e protetta. Mi ha ascoltata al telefono, nel cuore della notte, consolandomi con affettuosi, comprensivi mormorii. Mi ha accompagnata quando andavo a cercare una risposta alla
mia tristezza. Ha praticamente fatto la terapia insieme a me. Le telefonavo dopo ogni seduta,
e lei lasciava perdere qualsiasi cosa stesse facendo in quel momento per dedicarsi a me.
Spesso diceva: «Ah, questo spiega molte cose». E intendeva «molte cose di noi due».
Ora ci parliamo al telefono quasi tutti i giorni, o almeno era così fino a prima che io venissi
a Roma. Ogni volta che una di noi prende un aereo, telefona all’altra: «Non vorrei sembrarti
morbosa, ma volevo solo dirti che ti voglio bene, non si sa mai...». E quella non manca di
rispondere: «Lo so... non si sa mai».
è arrivata a Roma bell’e pronta a entrare in azione, come sempre. Ha cinque guide della
città, le ha già lette tutte e si è impressa nella mente la pianta ancora prima di partire da Filadelfia. Classico esempio di quanto siamo diverse. Io ho passato le prime settimane a Roma
girando senza meta, sentendomi smarrita al novanta per cento e felice al cento per cento,
mentre tutto mi sembrava un meraviglioso, inesplicabile mistero. Ma a me l’intero mondo
sembra un po’ così. Agli occhi di mia sorella, invece, non c’è niente che non possa essere
spiegato: basta avere accesso alla biblioteca giusta. è una donna che tiene la Columbia Encyclopedia in cucina, vicino ai libri di ricette - e la legge per svagarsi.
C’è un gioco divertente che faccio qualche volta con i miei amici. Se a qualcuno viene in
mente una domanda strana (per esempio, chi era san Luigi), io dico: «Sta’ a vedere!».
Prendo
il telefono e chiamo mia sorella. Magari la trovo al volante della sua Volvo che sta accompagnando i bambini a scuola, ma, potete scommetterci, dopo un attimo di riflessione risponder: «San Luigi... san Luigi... be’ era un re di Francia che portava il cilicio, un particolare interessante perché...».
E così mia sorella viene a trovarmi nella mia nuova città - e non trova di meglio da fare
che illustrarmela. Questa è Roma stile Catherine. Piena di date e definizioni che io ignoro
perché la mia mente va in un’altra direzione. L’unica cosa che voglio sempre sapere di un
luogo o di una persona è la sua storia, non chiedo altro - i particolari estetici non
m’interessano. (Sofie è venuta a casa mia quando vi abitavo da un mese e ha detto: «Bello il
bagno tutto rosa», e così io ho saputo che era rosa.) Ma l’occhio allenato di mia sorella riconosce l’architettura gotica, romanica o bizantina di un palazzo, il disegno del pavimento di una
chiesa, il pallido abbozzo di un affresco dietro l’altare. Cammina per Roma a grandi falcate
(per quelle sue gambe lunghe la chiamavamo «Catherine un metro di femore»), e io arranco
dietro di lei perché, da quando ho imparato a camminare, a ogni suo passo corrispondono
due dei miei.
«Vedi, Liz?» mi dice. «Vedi come hanno piazzato quella facciata del xix secolo sulla struttura di mattoni? Scommetto che se voltiamo l’angolo troviamo... ma sì!... Ecco, hanno usato i
monoliti originali romani per sostenere le travi, probabilmente perché non avevano braccia
per trasportarli... Be’, in fondo non mi dispiace l’accozzaglia di stili di questa basilica, sembra
d’essere a una vendita di beneficenza...»
Catherine porta la mappa della città e la guida Michelin, io porto il cestino del picnic (due
di quei pani grandi come palle da softball, salsa piccante, sardine sottaceto avvolte attorno a
olive verdi e carnose, un pasticcio di funghi profumato come una foresta, bocconcini di mozzarella affumicata, rucola pepata e grigliata, pomodorini a ciliegia, formaggio pecorino, acqua
minerale e una mezza bottiglia di vino bianco fresco), e mentre penso che forse sarebbe ora
di decidersi a mangiare, lei mi domanda ad alta voce: «Perché non si parla mai abbastanza
del Concilio di Trento?».
Mi porta in una decina di chiese, non riesco a ricordarmele tutte - Santo Questo e Quello,
San Qualcuno dei Penitenti Scalzi e/o della Beata Sofferenza... ma solo perché non riesco a
tenere a mente i nomi e i particolari non bisogna pensare che non mi piaccia visitare questi
posti insieme a mia sorella, ai cui occhi di cobalto non sfugge niente. Non ricordo il nome di
una chiesa con affreschi che fanno pensare ai gloriosi murales americani della Works Progress Administration del New Deal, ma ricordo molto bene il dito di Catherine che me
li mostra e dice: «Guarda che belli i papi stile Roosevelt quassù...». Una mattina ci siamo
alzate presto per andare a messa a Santa Susanna, e ci siamo tenute per mano mentre
ascoltavamo le suore intonare i canti gregoriani dell’alba, piangendo tutte e due, tanto era
forte la suggestione delle loro preghiere. Mia sorella non è religiosa. Nessuno nella mia
famiglia lo è veramente. (Ormai ho deciso di definirmi la «pecora nera» della famiglia.) I miei
approfondimenti spirituali interessano mia sorella solo per la sua curiosità intellettuale.
«Dev’essere bellissimo avere il dono di questa fede» mi bisbiglia all’orecchio in chiesa, «ma
io non ce l’ho, proprio non ce l’ho...»
Ecco un’altra divergenza nella nostra visione del mondo. Una famiglia che abitava vicino a
mia sorella era stata colpita da una duplice sventura: la giovane madre e il suo bambino di tre
anni si erano entrambi ammalati di cancro. Quando Catherine me l’aveva detto, ero riuscita a
dire solo: «Dio, quella famiglia ha bisogno di una grazia!». «Quella famiglia» mi aveva risposto mia sorella con fermezza «ha bisogno di qualcuno che faccia da mangiare», e aveva
organizzato una serie di turni tra i vicini perché in quella casa non mancasse mài la cena. Se
non è grazia questa...
Usciamo da Santa Susanna e Catherine mi dice: «Lo sai perché nel Medioevo i papi
dovevano pianificare l’organizzazione di tutta la città? Perché ogni anno una media di due
milioni di pellegrini cattolici venivano da tutto l’Occidente a percorrere
- alcuni in ginocchio - il tratto dal Vaticano a San Giovanni in Laterano, e c’era bisogno di
strutture per accoglierli».
La vera fede di mia sorella è nell’apprendimento. Il suo testo sacro è Y Oxford English
Dictionary. quando ne scorre le pagine, con la testa china sul libro, entra in comunicazione
con il suo Dio. Quando arriviamo al Foro Romano, cade letteralmente in ginocchio, toglie un
po’ di sporcizia da un piccolo pezzo di terreno (come se pulisse una lavagna), raccoglie un
sasso e traccia per me nella polvere il profilo di una basilica romanica. Poi mi indica il rudere
che ha davanti, perché io capisca (anche se le mie capacità visive sono scarse) come doveva
essere quell’edificio diciotto secoli prima. Traccia nell’aria gli archi mancanti, la navata, le
finestre che non ci sono più. Come il piccolo Harold, in quel famoso libro per bambini, che con
la sua matita viola e l’immaginazione riempie il cosmo e ridà vita alle rovine.
Il giorno dopo mia sorella riparte.
«Ascolta» le dico, «chiamami appena atterri, d’accordo? Non vorrei sembrarti morbosa,
ma...»
«Lo so, Liz» dice. «Anch’io ti voglio bene.»
Qualche volta mi sembra strano che mia sorella sia una moglie, una madre e io no. Avevo
sempre pensato, più o meno inconsciamente, che sarebbe stato l’opposto. Credevo che avrei
avuto io una casa piena di stivali infangati e di bambini urlanti, e che Catherine sarebbe vissuta per conto suo, le sere a letto con un libro e nessuno accanto. Almeno, questo era ciò
che sarebbe stato facile prevedere quando eravamo bambine. E invece ci siamo create due
vite che corrispondono a quello che siamo davvero, indipendentemente dalle previsioni. Per
la sua natura solitaria mia sorella aveva bisogno di una famiglia che la preservasse
dall’isolamento; la mia natura gregaria fa sì che
io non corra il rischio di restare sola, anche se non divido la mia vita con nessuno. Sono
felice che Catherine sia tornata a casa, dalla sua famiglia, e sono felice di avere davanti a me
altri nove mesi di viaggio, durante i quali potrò mangiare, leggere, pregare e scrivere.
Non so ancora se vorrò mai avere dei bambini. Sono rimasta molto stupita, a trent’anni, di
accorgermi che non li volevo e il ricordo di quello stupore mi consiglia di non fare previsioni su
come mi sentirò a quaranta. Quello che so è come mi sento adesso: grata di essere sola. So
anche che non avrò dei bambini solo per paura di pentirmi quando sarà troppo tardi: non
credo che sia un motivo sufficiente per mettere al mondo una nuova creatura. I figli si hanno
per ragioni diverse - per il puro desiderio di veder crescere una vita, perché non si ha altra
scelta, per legare a sé una persona che si ama, per avere un erede, o anche senza rifletterci
in modo particolare. E non tutte sono necessariamente ragioni prive di egoismo. D’altra parte
anche per non avere figli si possono avere ragioni diverse. E non tutte, necessariamente,
egoistiche.
Dico tutto questo perché sto ancora elaborando l’accusa che mio marito mi ha mosso
mentre il nostro matrimonio stava crollando: V egoismo. Ogni volta che lo diceva, io gli davo
ragione, riconoscevo le mie colpe, le ammonticchiavo una sull’altra. Dio mio, non avevo
ancora bambini e già li trascuravo, già anteponevo me stessa a loro. Ero già una cattiva
madre. Quei bambini - quei fantasmi di bambini - entravano spesso a far parte dei nostri litigi.
Chi se ne sarebbe occupato? Chi sarebbe rimasto a casa con loro? Chi avrebbe provveduto
al loro mantenimento? Chi gli avrebbe dato da mangiare quando si svegliavano la notte? Ricordo di aver detto alla mia amica Susan, quando il mio matrimonio stava diventando un peso
insopportabile: «Non voglio che i miei figli crescano in un ambiente familiare come questo». E
Susan mi aveva risposto: «Perché non lasci questi ipotetici figli fuori dalla discussione? Non
esistono ancora, Liz. Perché non vuoi ammettere che sei tu a non voler più vivere così? Nessuno di voi due lo vuole. Ed è meglio rendersene conto subito piuttosto che nella sala parto,
quando hai già cinque centimetri di dilatazione».
Più o meno in quel periodo, ero andata a un ricevimento a New York. Due pittori di successo, marito e moglie, da poco diventati genitori, festeggiavano l’inaugurazione di una
mostra di quadri di lei. Ricordo di averla guardata, quella neo madre, quell’artista, mentre cercava di accogliere gli ospiti nel proprio studio e, nello stesso tempo, di occuparsi del bambino
e di presentare in modo professionale il proprio lavoro. Non avevo mai visto nessuno così
provato dalla mancanza di sonno. Non dimenticherò mai la scena a cui ho assistito più tardi,
quando il ricevimento era ormai finito: lei era in cucina, con le braccia immerse fino al gomito
nel lavandino pieno di piatti, e intanto suo marito (mi dispiace dirlo, non voglio assoluta-mente
che sembri una raffigurazione stereotipata dei mariti in generale), nella stanza accanto, con i
piedi sul tavolino, guardava la tv. Quando lei, infine, gli aveva chiesto di aiutarla a fare un po’
di ordine, lui le aveva risposto: «Lascia perdere, tesoro, metteremo tutto a posto domani mattina». Il bambino si era rimesso a piangere. Gocce di latte colavano dal petto della mia amica
attraverso il vestito da cocktail.
Quasi certamente altri ospiti avranno riportato un’immagine diversa di quella inaugurazione. Molti avranno invidiato quella donna così bella, con il suo neonato in perfetta salute,
una carriera artistica di successo, il matrimonio con un uomo simpatico, una casa invidiabile e
un bel vestito da cocktail. Più d’una non avrebbe esitato a cambiare all’istante la propria vita
con la sua. E lei stessa, probabilmente, avrà ripensato a quell’occasione - ammesso che ci
abbia ripensato - come a uno stancante ma più che proficuo episodio della sua tutto sommato
soddisfacente vita di madre, moglie e artista. Per quanto mi riguarda, durante tutto il ricevimento io non avevo fatto che pensare: Se tu non capisci che questo dovrebbe essere anche il
tuo futuro, Liz, vuol dire che sei fuori di testa. Non lasciare che succeda.
Potevo assumermi la responsabilità di una famiglia? Oh, Signore - la responsabilità.
Questa parola aveva agito su di me finché io non avevo cercato di agire su di lei. L’avevo studiata attentamente e l’avevo divisa nelle due parti che ne formano il significato: l' abilità di
rispondere. E la mia risposta era che sapevo di dover sciogliere il mio matrimonio. Lo sapevo
con ogni cellula del mio corpo. Un sistema d’allarme interiore mi aveva avvertito che se
avessi insistito a cercare un atterraggio di fortuna in quella bufera, mi sarebbe venuto il cancro. E che se avessi messo al mondo dei figli solo per non affrontare il fastidio o la vergogna
di dover rivelare alcuni aspetti del mio carattere, questa sì che sarebbe stata una grave mancanza di responsabilità.
Alla fine, però, mi ero lasciata guidare soprattutto da quel
lo che mi aveva detto la mia amica Sheryl la sera dell’inaugurazione della mostra, quando
mi aveva trovata nascosta nella stanza da bagno dell’eccentrico loft della pittrice mentre, in
preda al panico, mi buttavo dell’acqua fresca in faccia. Sheryl non sapeva, allora, di quello
che stava succedendo tra me e mio marito. Nessuno lo sapeva. E io, quella sera, non gliel’ho
detto. Sono riuscita a dire soltanto: «Non so che cosa fare». Ricordo che lei mi aveva abbracciata e, guardandomi negli occhi con un sorriso sereno, mi aveva dato questo consiglio: «Di’
la verità, di’ la verità, di’ la verità».
Ed è quello che ho cercato di fare.
Ma uscire da un matrimonio è difficile, e non solo per le complicazioni legali e finanziarie o
per lo scompiglio che porta nelle abitudini di due persone. (Come mi ha detto una volta con
molta saggezza la mia amica Deborah: «Nessuno è mai morto per aver diviso a metà i mobili».) è il balzo indietro emotivo che uccide, la scossa del dover fare un passo fuori dal sentiero tracciato dalle convenzioni, del dover abbandonare la sicurezza avvolgente che tiene
così tante persone con i piedi ben piantati su quel sentiero. Nella società americana (o in
qualsiasi altra) sposarsi e creare una famiglia è uno dei modi principali per dare sicurezza e
significato alla propria esistenza. Torno a scoprire questa verità ogni volta che partecipo a
una delle grandi riunioni della famiglia di mia madre nel Minnesota e vedo come ciascuno, anno dopo anno, non manca mai di rispettare il proprio ruolo. Bambino, adolescente, giovane
sposo, genitore, pensionato, nonno - a ogni tappa sai chi sei, qual è il tuo dovere e qual è il
posto che ti compete durante la riunione. Siedi con i bambini, con gli adolescenti, con i
giovani genitori o con i pensionati. Finché non arrivi a sedere in un angolo in ombra, con
quelli che hanno novant’anni. E stai a guardare soddisfatto la tua progenie. Chi sei? Nessun
problema - sei la persona che ha creato tutto quello che hai davanti agli occhi. Constatarlo dà
una soddisfazione immediata, riconosciuta da tutti come un diritto. Quante persone ho sentito
affermare che i figli sono la realizzazione e il conforto della loro vita! è il pensiero cui ci si appoggia durante una crisi metafisica o nei momenti di dubbio - Anche se non ho fatto altro
d’importante nella vita, almeno ho saputo allevare bene i miei figli.
Ma che succede se, per scelta o per una sfortunata necessità, ci si trova a non essere
partecipi di questa consolante continuità familiare? Se sei uscito dal seminato, dove ti siedi
durante la riunione? Come fai a misurare il trascorrere del tempo se hai paura di non aver
prodotto niente di così importante da dargli un senso? Dovrai trovare un altro metro di giudizio per valutare i tuoi risultati. A me i bambini piacciono, ma che cosa succede se non ne ho?
Che tipo di persona questa particolarità fa di me?
Virginia Woolf ha scritto: «Attraverso il vasto continente della vita di una donna si disegna
l’ombra di una spada». Da un lato di questa spada, dove «tutto è regolare», prosegue la scrittrice, ci sono le consuetudini, la tradizione e l’ordine. Ma dall’altro lato, per chi è tanto folle da
attraversare quell’ombra e scegliere una vita che non obbedisce alle convenzioni, «tutto è
confuso, niente è regolare». Attraversare l’ombra della spada può rendere la vita di una
donna molto più interessante, ma anche più pericolosa.
Io sono fortunata perché, almeno, scrivo. è una cosa che la gente può capire. Ah sì, ha
lasciato suo marito per dedicarsi alla scrittura. E un po’ vero, ma non del tutto. Molte scrittrici
hanno una vita familiare. A Toni Morrison, tanto per fare un esempio, allevare un figlio non ha
impedito di vincere una co-setta da niente come il premio Nobel. Ma Toni Morrison ha seguito
la sua strada e io devo seguire la mia. La Bhagavad Gita - l’antico testo indiano yogi- dice che
è meglio vivere la propria vita in modo imperfetto piuttosto che vivere in modo perfetto
l’imitazione di quella di un altro. Io adesso ho cominciato a vivere la mia vita. Per imperfetta e
disarticolata che sia, mi assomiglia completamente.
Detto questo, mi rendo conto perfettamente che, così com’è adesso, la mia vita dà
l’impressione di una certa instabilità. Non ho nemmeno un indirizzo e questo, alla matura età
di trentaquattro anni, è un delitto contro la normalità. Al momento, tutta la mia roba è ammassata in casa di Catherine, che mi ha messo provvisoriamente a disposizione una camera
all’ultimo piano (detta «il quartierino della zia zitella», perché c’è un abbaino con una piccola
finestra da dove posso guardare la brughiera, mentre indosso il mio vecchio abito da sposa e
rimpiango la giovinezza perduta). A Catherine non sembra dar fastidio questa sistemazione,
che a me fa certamente comodo, ma non voglio correre il rischio, se me ne andrò in giro per il
mondo troppo a lungo, di diventare La Scervellata della Famiglia. O forse lo sono già. L’estate
scorsa, la mia nipotina di cinque anni aveva invitato un’amica a giocare e io le ho domandato
quando sarebbe stato il suo compleanno.
«Il 25 gennaio» mi ha risposto.
«Ah! Oh!» ho esclamato. «Sei un acquario. Io sono stata fidanzata con tanti acquari da
poterti assicurare che sono tutti una sciagura! »
Quelle due bambine di cinque anni mi hanno guardata stupite e anche un po’ spaventate,
e io ho avuto immediatamente davanti agli occhi l’immagine della donna che potrei diventare
se non mi fermo in tempo: Zia Liz la Pazza. La divorziata con il vestito hawaiano sgargiante e
i capelli tinti di rosso, che non mangia burro o formaggio e fuma sigarette al mentolo, che è
appena tornata dalla sua crociera astrologica o che ha appena lasciato il fidanzato aromaterapeuta, che legge i tarocchi ai bambini dell’asilo e dice frasi come: «Portami un altro wine
cooler, piccolina, e ti lascio provare il mio anello cam-bia-colore-con-l’umore».
Lo so che tornerò a essere una equilibrata, affidabile abitante del pianeta, ne sono sicura.
Ma non ancora... per piacere. Non ancora.
31
Nelle sei settimane successive vado a Bologna, a Firenze, a Venezia, in Sicilia e ancora
una volta a Napoli, poi in Calabria. Sono viaggi brevi, una settimana, un week-end - solo il
tempo necessario per farmi un’idea dei luoghi, guardarmi in giro, domandare a qualcuno per
strada dove si mangia bene e poi andarci. Ho smesso di frequentare la scuola d’italiano
perché ho avuto la sensazione che sia meglio andarsene in giro per le strade imparare la lingua viva direttamente dalle persone che s’incontrano.
Questi viaggi non programmati sono come meravigliosi giri in giostra. Non mi sono mai
sentita così leggera in vita mia, corro alla stazione, compro biglietti per il primo posto che mi
viene in mente e la mia libertà si fa sempre più duttile perché finalmente ho capito che posso
davvero andare dove voglio. è un po’ che non vedo i miei amici romani. Giovanni mi dice al
telefono: «Sei una trottola». Una sera, in una cittadina del Medi-terraneo, non ricordo quale,
nella camera di un albergo vicino al mare mi sveglia l’eco della mia risata. Chi ride nel mio
letto? Mi rendo conto che sono sola e perciò rido un’altra volta. Non mi ricordo che cosa stavo
sognando. Forse qualcosa che aveva a che fare con le barche.
32
Firenze è un week-end che comincia con una corsa in treno il venerdì mattina. Sto andando a incontrare zio Terry e zia Deb, venuti dal Connecticut per visitare l’Italia, e naturalmente per fare un saluto alla loro nipote. Atterrano verso sera e li porto a vedere il Duomo,
uno spettacolo sempre emozionante, come risulta dallo sgomento che mio zio esprime in yiddish: « Oy vey!... Ma forse non è così che si loda la bellezza di una chiesa cattolica...».
Nella Loggia dei Lanzi guardiamo le sabine stuprate senza che nessuno sia intervenuto a
salvarle, e paghiamo il nostro tributo a Michelangelo, al Museo della Scienza e al panorama
che si gode dalle colline che circondano la città. Lascio gli zii a godersi il resto della vacanza
senza di me e vado a Lucca, ricca, ariosa cittadina della Toscana, famosa per i suoi negozi di
macelleria, dove sono esposti i più bei tagli di carne che abbia mai visto in Italia, sensuali
come se ti sussurrassero: «tu sai di volermi». Salsicce di tutte le dimensioni, colori e provenienza possibili sono inguainate come gambe femminili in lussuose calze di seta, e pendono,
provocanti, dal soffitto dei negozi. Dalle vetrine, polpose natiche di prosciutto sollecitano il
passante come prostitute di Amsterdam. I polli sembrano così grassi e soddisfatti, anche
dopo morti, da far pensare che si siano offerti con orgoglio al sacrificio, dopo aver gareggiato
per ottenere in vita il titolo del più turgido e carnoso. Ma non so
lo la carne è meravigliosa a Lucca, lo sono anche le castagne, le pesche, le cascate di fichi, Dio mio, i fichi...
La città, naturalmente, è famosa anche perché qui è nato Puccini. So che dovrebbe essere per me un motivo d’interesse, ma mi piace di più parlare del segreto di cui mi ha messo
a parte un salumiere del luogo - i migliori funghi della città si mangiano in un ristorante di
fronte alla casa natale del compositore. Di conseguenza giro per Lucca, domandando in italiano: «Sa dirmi dov’è la casa di Puccini?» finché un lucchese gentile mi porta proprio lì davanti e si stupisce, immagino, nel vedermi girare i tacchi, marciare nella direzione opposta al
museo ed entrare nel ristorante di fronte ad aspettare, al riparo dalla pioggia, il mio risotto ai
funghi.
Non ricordo se è stato prima o dopo Lucca che sono andata a Bologna - una città così
bella che non ho mai smesso di canticchiare, per tutto il tempo che sono rimasta lì, la famosa
canzone di Daniel Bedingfield, «My Bologna has a first name: Pretty...». Con le sue stupende
architetture di mattoni rossi e la sua famosa opulenza, Bologna è chiamata, per tradizione,
«la Rossa, la Grassa e la Bella». Il cibo è certamente più buono qui che a Roma o forse,
semplicemente, usano più burro. Anche
il gelato a Bologna è più buono (mi sembra sleale dirlo, ma è la verità). I funghi qui sono
grandi lingue carnose e sensuali, e le guarnizioni di prosciutto sulle pizze sembrano merletti
che ornano il cappellino di una bella signora. Poi, ovviamente, c’è il sugo alla bolognese, che
sbeffeggia sdegnoso qualsiasi altra idea di ragù.
Mentre torno in treno da Bologna mi rendo improvvisamente conto che non esiste in
inglese un’espressione equivalente a buon appetito. Purtroppo devo riconoscere che è molto
indicativo. Mi accorgo anche che le fermate dei treni in Italia sono un susseguirsi di nomi di
cibi e vini tra i più famosi al mondo, Parma, Bologna... Montepulciano. In treno ci sono panini
e cioccolata calda e, se piove, è ancora più bello mangiare mentre si va veloci.
Durante uno dei miei spostamenti, ho come compagno di viaggio un italiano bello e
giovane che dorme da ore, mentre fuori piove e io mangio un’insalata di polipi. Quando stiamo per arrivare a Venezia, si sveglia, si stropiccia gli occhi, mi squadra ben bene e dice più
o meno tra sé: «Carina».
«Grazie mille» rispondo con una gentilezza un po’ caricaturale. Lui non immaginava che
parlassi italiano e non lo immaginavo nemmeno io, veramente, ma chiacchieriamo per venti
minuti e per me è la prima volta. A parte qualche ovvia difficoltà, adesso non traduco più, parlo direttamente. In ogni frase mi scappa almeno un errore e conosco solo tre tempi verbali,
ma riesco a comunicare. Me la cavo, si dice in italiano, e poiché per aprire una bottiglia di
vino si usa il cavatappi mi sembra di poter dire che, quando parlo italiano, libero me stessa...
Gli piaccio, a questo ragazzo! E ne sono anche un po’ lusingata. Non è brutto. Ed è tremendamente sicuro di sé. A un certo punto mi dice in italiano, come per farmi un complimento: «Non sei molto grassa per essere un’americana».
Gli rispondo in inglese. «E tu non sei troppo insinuante per essere un italiano.»
«Come?»
Ripeto in italiano, con qualche lieve modifica. «E tu sei gentile, come tutti gli uomini
italiani.»
Allora l’ho imparata questa lingua! La so parlare! Il ragazzo mi guarda e pensa di piacermi, ma è con le parole che sto civettando. Dio mio - ho tolto il tappo e l’italiano scorre liberamente! Il ragazzo vuole che ci vediamo più tardi a Venezia, ma lui non m’interessa, è delle
parole italiane che sono innamorata. Lo lascio andar via. Ho già un appuntamento a Venezia,
con la mia amica Linda.
Linda la Matta, come mi piace chiamarla anche se è tutt’altro che fuori di testa, è venuta a
Venezia da Seatde, un’altra città umida e grigia. Voleva vedermi e io le ho proposto di raggiungermi in questa tappa del mio viaggio perché rifiuto - respingo nel modo più categorico - la
prospettiva di visitare da sola la più romantica città della Terra - non ora, non quest’anno. Mi
vedo tutta sola in una gondola, trasportata in un velo di nebbia dal canto sommesso del gondoliere mentre... sfoglio una rivista! è un’immagine triste, un po’ come salire su per una collina
da soli in una bicicletta per due. Invece ci sarà Linda a farmi compagnia, e sarà un’ottima
compagnia.
Ho conosciuto Linda la Matta (la sua pettinatura reggae e i suoi piercing) a Bali, quasi due
anni fa, al ritiro yoga. Poi siamo andate insieme in Costa Rica. è una delle mie compagne di
viaggio preferite, non si tira indietro di fronte a nulla, e con lei è impossibile annoiarsi. In
calzoncini rossi e aderenti di velluto stropicciato, è una specie di folletto straordinariamente
organizzato. Linda possiede una psiche tra le più integre al mondo, totalmente refrattaria alla
depressione, e un’autosti-ma che non ha mai nemmeno potuto concepire di non essere alta.
Una volta, guardandosi allo specchio, mi ha detto: «Riconosco di non essere perfetta in tutto,
ma non posso fare a meno di volermi bene». Ha l’abilità di chiudermi la bocca ogni volta che
comincio a tormentarmi con questioni metafisiche del tipo «Qual è l’essenza dell’universo?».
(Risposta di Linda: «Perché chiederselo?».) Lei vorrebbe che i suoi riccioli reggae crescessero tanto da poterseli comporre sopra la testa in una struttura sostenuta da un filo di
ferro, come nell’arte delle sculture vegetali, e magari ospitarci un uccellino. I balinesi volevano
bene a Linda, e anche i costaricani. A Seattle, quando non si occupa delle sue lucertole e dei
suoi furetti domestici, dirige una società di software e guadagna più di tutti noi.
E adesso siamo insieme a Venezia. Linda studia con la fronte corrugata la mappa della
città, la capovolge, trova il nostro albergo, si orienta e annuncia, con la sua tipica modestia:
«La città è senza segreti per noi. è nostra fino al buco del culo».
La sua allegria, il suo ottimismo mal si conciliano con questa puzzolente, sprofondata,
misteriosa, muta, strana Venezia, una città splendida per morirci di morte alcolica, per perderci l’amante o l’arma mortale con cui l’hai ucciso. Ora che vedo Venezia, sono ancora più
contenta di aver scelto di stare a Roma. Non credo che qui mi sarei liberata così in fretta degli
antidepressivi. Venezia è bellissima ma non ci vorresti vivere, come non vorresti vivere in un
bellissimo film di Bergman.
Tutta la città è scrostata e scolorita, come accade nelle vecchie dimore patrizie, quando
diventa troppo dispendioso mantenerle ed è più facile sbarrarne l’ingresso con due assi e dimenticare i tesori rimasti all’interno. Questa è Venezia. Il denso fluire della risacca
dell’Adriatico urta le fondamenta pazienti di questi edifici, durature testimonianze di un volenteroso esperimento scientifico risalente al xiv secolo - E se costruissimo per davvero una città
sull’acqua?
Venezia è sinistra sotto il suo cielo di novembre, pesante di nuvole. Scricchiola e oscilla
come un pontile da pesca. Nonostante la fiducia iniziale di Linda che ci vedeva già dominatrici
della città, ci perdiamo contìnuamente e, soprattutto se è buio, imbocchiamo le curve
sbagliate ritrovandoci a percorrere inquietanti stradine che finiscono direttamente nell’acqua
dei canali. In una sera nebbiosa passiamo davanti a un palazzo che sembra realmente
gemere di dolore. «Non c’è da preoccuparsi» cinguetta Linda, «sono solo le avide fauci di
Satana.» Le insegno la parola italiana che preferisco: attraversiamo, e così ci allontaniamo in
fretta.
La bella veneziana proprietaria del ristorante vicino al nostro albergo si lamenta del suo
destino. Odia Venezia. Giura che tutti quelli che vivono a Venezia la considerano una tomba.
Si era innamorata di un pittore sardo, che le aveva promesso un altro mondo, di luce e di
sole, e invece l’ha lasciata con tre bambini e senz’altra scelta che tornare a Venezia a gestire
il ristorante di famiglia. Ha la mia età, ma sembra perfino più vecchia di me. Non riesco a im-
maginare quale uomo possa aver fatto una cosa del genere a una donna così graziosa.
(«Aveva un potere speciale» dice lei «e io sono morta d’amore alla sua ombra.») Venezia è
tradizionalista. Da quando è tornata, questa donna ha avuto qualche storia d’amore, forse
anche con uomini sposati, ma sono finite tutte dolorosamente. I vicini sono pettegoli. Quando
la vedono si zittiscono all’istante. Sua madre vorrebbe che portasse una fede nuziale, tanto
per salvare le apparenze, e le dice sempre: «Ricordati che non siamo a Roma, dove puoi
dare scandalo finché vuoi». Ogni mattina, quando io e Linda andiamo da lei a fare colazione,
domandiamo alla nostra giovane-vecchia amica veneziana qua
li sono le previsioni del tempo. Lei si appoggia due dita della mano destra alla tempia e dichiara: «Ancora pioggia».
Nonostante tutto non mi sento depressa. Non so dire perché, ma mi piace, per qualche
giorno, la naufragante malinconia di Venezia. Non è la mia malinconia, appartiene alla città, e
io capisco di aver raggiunto una condizione di salute mentale sufficiente a farmi vedere la differenza. Non posso fare a meno di pensare che è un segno di guarigione, il sangue si sta coagulando sulle ferite. Ho passato qualche anno di disperazione sconfinata, in cui ho sperimentato su di me tutta la tristezza del mondo. La tristezza allora filtrava attraverso di me lasciandosi dietro tracce umide.
In ogni caso, come potrei essere depressa con Linda che mi chiacchiera accanto, cercando di convincermi a comprare un enorme colbacco di pelliccia viola, o domandandomi,
davanti a una cena orribile: «Questa roba non ti ricorda i bastoncini di vitello surgelati della
nostra infanzia...?». Linda è luminosa come una lucciola. Nel Medioevo, a Venezia, si poteva
pagare un uomo perché ti accompagnasse con un lanternino nella notte, spaventando ladri e
demoni. Lo chiamavano il codega. Ebbene, Linda è la mia accompagnatrice, il mio codega
«da viaggio», inviatomi su ordinazione.
33
Qualche giorno dopo, la pioggia ormai alle spalle, scendo dal treno in una Roma brulicante dell’eterno, caldo, assolato disordine. In strada, sento grida simili a quelle di uno stadio:
è la manifestazione. Un’altra protesta sindacale. Che cosa stanno gridando il tassista non me
lo dice, soprattutto perché non gliene importa niente. « ’Sti cazzi» impreca all’indirizzo degli
scioperanti. Sono contenta di essere tornata. Dopo la grigia uniformità di Venezia, è bello
vedere un uomo in giacca leo-pardata passare accanto a due adolescenti che si baciano praticamente in mezzo alla strada. La città è viva e sveglia, più bella e più e sexy sotto il sole.
Ricordo che una volta Giulio, mentre a un tavolino di un caffè all’aperto facevamo i nostri
esercizi di conversazione, mi aveva domandato che cosa pensavo di Roma. Gli avevo risposto, naturalmente, che mi piaceva moltissimo, ma che sentivo che non era la mia città,
quella dove sarei vissuta per il resto della vita. In Roma c’era un aspetto che mi era estraneo,
anche se non avrei saputo dire con esattezza quale. Mentre parlavo mi era venuta in soccorso, per caso, l’immagine di una donna che passava di lì. Era la quintessenza della donna
romana - una quarantina d’anni, conservata perfettamente, coperta di gioielli, equipaggiata
con tacchi da dieci centimetri, gonna aderente con spacco lungo quanto un braccio e quegli
occhiali da sole che fanno pensare a un’auto da corsa e che, probabilmente, costano altrettanto. Camminava con il suo cagnolino legato a un guinzaglio tempestato di pietre colorate, e
il colletto della sua giacca sembrava fatto con il pelo del cagnolino precedente. Emanava
l’aria di assoluta sicurezza di chi dice: «Voi guardatemi, ma io mi rifiuto di guardare voi».
Sembrava impossibile che avesse passato anche solo dieci minuti della sua vita senza mascara. Era l’esatto contrario di me.
Avevo detto a Giulio: «Vedi, quella è una donna romana. Non è possibile che Roma sia la
sua città e anche la mia. Solo una di noi due può appartenere a questa città e credo che io e
te sappiamo chi».
«Forse tu e Roma avete parole diverse.»
«Non capisco.»
«Il segreto per capire una città e chi la abita sta nell’impa-rare la parola che circola per le
strade.»
Mi aveva spiegato, un po’ in inglese, un po’ in italiano e un po’ a gesti, che ogni città ha
una parola che la definisce e che serve a identificare chi la abita. Se si potesse leggere nella
mente di chi passa per strada, in qualsiasi luogo, si scoprirebbe che c’è un pensiero che ricorre più frequentemente di tutti. E quel pensiero è la parola della città. Se la tua parola personale non coincide con la parola della città, vuol dire che non ne fai parte.
«Qual è la parola di Roma?»
«SESSO.»
«Non è uno stereotipo?»
«No.»
«Ma ci sarà pure, a Roma, chi pensa a qualcosa di diverso dal sesso.»
«No. Tutti, tutto il giorno, pensano al sesso.»
«Anche in Vaticano?»
«Il Vaticano non è Roma. Lì hanno una parola diversa e questa parola è potere.»
«Si potrebbe pensare che sia fede.»
«È potere. Credimi. Ma la parola di Roma è sesso.»
A dar retta a Giulio, questa parolina così breve - sesso - forma l’acciottolato sul quale si
posano i piedi a Roma, scorre con l’acqua delle fontane, riempie l’aria insieme al rumore del
traffico. Si pensa al sesso, ci si veste in suo nome, lo si cerca, lo si sceglie, lo si rifiuta, lo si
trasforma in uno sport o in un gioco. Forse è per questo che, pur con tutto il suo splendore, io
non sento Roma come la mia città. Non in questo momento della mia vita, sesso ora non è
per me la parola giusta. Per questo, anche se turbina in tutte le strade, su di me rimbalza per
poi ruzzolare via, senza impatto. Ed è per questo che non posso dire che Roma sia davvero
la mia città. è una teoria strampalata, difficile da dimostrare, ma in fondo non mi dispiace.
Giulio mi aveva domandato: «Qual è la parola di New York?».
Dopo averci pensato un momento, avevo risposto: «è un verbo, naturalmente: realizzare».
(C’è una differenza sottile, secondo me, con la parola di Los Angeles, che pure è un
verbo: riuscire. Più tardi, ne avrei parlato con la mia amica svedese Sofie, secondo la quale la
parola che circola per le vie di Stoccolma è adeguarsi, e ne siamo rimaste rattristate entrambe.)
Avevo domandato a Giulio, che conosce bene il sud: «E Napoli?».
«lotta, la parola di Napoli è lotta. E la parola della tua famiglia, quando eri una
ragazzina?».
Era una domanda difficile. Avevo cercato di pensare a una sola parola che unisse il concetto di frugalità e insolenza, ma Giulio aveva già pronta la domanda successiva, la più ovvia:
«E la tua parola, qual è?».
A questa domanda non seppi rispondere.
E non lo so nemmeno adesso, dopo averci pensato per qualche settimana. Le parole ci
sono, ma nessuna è quella definitiva. matrimonio no, questo è evidente, famiglia nemmeno
(anche se è la parola della cittadina dove ho vissuto per qualche anno con mio marito ed è
stata la causa dei miei dispiaceri). Non è più, grazie al Cielo, depressione. Sono contenta di
non condividere la parola di Stoccolma, adeguarsi, ma quella di New York, realizzare, non mi
trova più così in sintonia come tra i venti e i trent’anni. La mia parola potrebbe essere cercare
(ma, per associazione, mi viene in mente nascondere). Durante gli ultimi mesi passati in
Italia, la mia parola è stata in larga parte piacere, anche se la mia adesione non è totale, altrimenti non avrei tanta voglia di andare in India. Potrei forse provare con devozione, ma mi fa
sembrare ingiustamente un esempio di virtù e non tiene conto di tutto il vino che bevo.
In conclusione, non so rispondere e credo che sia questa la ragione del mio viaggio di un
anno. Trovare la parola. Ma una cosa posso dire con assoluta sicurezza: non è sesso.
Resta da capire perché oggi i miei piedi mi guidano quasi di loro iniziativa in un negozio
poco appariscente vicino a via Condotti, dove - sotto l’esperta tutela di una giovane ed elegantissima commessa italiana - impiego qualche ora di sogno a comprare (al prezzo di un volo
transcontinentale) tanta biancheria che potrebbe bastare alla sposa di un sultano per mille e
una notte. Reggiseni di ogni forma e fattura, canottie-rine impalpabili e vezzose, minuscole
mutandine in tutti i colori pastello, culotte di raso color crema o di seta liscia come la guancia
di un neonato, insomma una giostra multicolore di merletti, nastrini e ricami.
Non ho mai posseduto niente di questo genere in vita mia. Allora, che cos’è cambiato?
Mentre uscivo dal negozio con il mio involto di seriche sconvenienze sotto braccio, mi sono
rivolta aH’improwiso l’angosciosa domanda che avevo sentito gridare da un tifoso poche sere
prima, durante la partita della Lazio, quando il campione Albertini, in un momento critico,
aveva lanciato la palla, dritta verso il nulla, mandando a monte la partita.
«Per chi?» aveva gridato il tifoso, impazzito. «Per chi, se non c’era nessuno? Nessuno!»
nessuno. Perché hai lanciato la palla, Albertini, se non c’era nessuno? Per chi?
In strada, dopo quelle ore deliranti nel negozio di biancheria, mi sono ricordata di quella
frase e mi sono domandata in un bisbiglio: «Per chi?».
Per chi, Liz? Per chi tutte queste cose sexy e decadenti, se non c’è nessuno? Mi
restavano da passare solo poche settimane in Italia e non pensavo affatto ad andare a letto
con qualcuno. O sì? Ero stata contagiata dalla parola che percorreva le strade di Roma? O
era il mio sforzo finale per diventare italiana? Era forse un regalo che volevo fare a me stessa
o a qualcuno che, ancora non lo sapevo, sarebbe diventato il mio amante? O era solo un
tentativo di ritrovare la mia libido dopo il crollo della fiducia nelle mie capacità sessuali?
Ho domandato a me stessa: «Porterai tutta questa roba in India?».
34
Il compleanno di Luca Spaghetti cade quest’anno proprio in coincidenza con il Giorno del
Ringraziamento, e lui vuole festeggiare con un bel tacchino. Non ha mai mangiato un grosso
e grasso tacchino arrosto da Ringraziamento americano, ma ne ha visti in fotografia e pensa
che sia facile cucinarne uno, soprattutto con l’aiuto di un’amica americana. Dice che può
usare la cucina dei suoi amici Mario e Simona che hanno una bella casa fuori Roma, in
montagna, e la mettono sempre a disposizione per la sua festa di compleanno.
Ecco il programma di Luca: verrà a prendermi verso le sette di sera, dopo il lavoro, e poi
andremo fuori Roma, verso nord. Dopo circa un’ora saremo a casa dei suoi amici (dove
troveremo ad aspettarci gli altri invitati), berremo il vino, faremo conoscenza e poi, intorno alle
nove, metteremo in forno un tacchino da dieci chili...
Ho dovuto spiegare a Luca quanto tempo ci vuole per cuocere un tacchino da dieci chili,
gli ho detto che sarebbe stato pronto verso l’alba del giorno dopo. Era distrutto. «E se ne
comprassimo uno piccolo? Appena nato?»
«Luca» gli ho proposto, «non sarebbe più semplice mangiare una pizza, come avviene
nelle famiglie americane disorganizzate?»
Ma lui è ancora triste per questa storia del tacchino. In questi giorni, d’altra parte, in tutta
Roma si sente un po’ di tristezza. È arrivato il freddo. Gli spazzini, i ferrovieri, i lavoratori degli
aeroporti hanno scioperato tutti nello stesso giorno. Da una ricerca risulta che il 36% dei
bambini italiani è allergico al glutine usato nella pasta, nella pizza, nel pane (ecco dove va a
finire la cultura italiana). Come se non bastasse, ho letto un articolo con un titolo sconvolgente Insoddisfatte 6 donne su 10! Inoltre, pare che il 35% degli uomini italiani abbia difficoltà
a mantenere un 'erezione, un problema che lascia i ricercatori perplessi e mi fa domandare,
personalmente, se Roma non debba cominciare a prendere le distanze dalla parola sesso.
Ci sono notizie ben più importanti: diciannove soldati italiani sono stati uccisi recentemente in Iraq, nella «guerra americana» (come la chiamano qui). è il più alto numero di
italiani morti in guerra dai tempi della Seconda guerra mondiale. I romani ne sono rimasti profondamente colpiti e il giorno della sepoltura tutto era chiuso in città in segno di lutto. La maggioranza degli italiani non vuole aver niente a che vedere con la guerra di George Bush.
L’intervento è stato deciso dal primo ministro Silvio Berlusconi (che, da queste parti, viene
chiamato spesso con epiteti poco lusinghieri). Questo scaltro uomo d’affari è proprietario di
una squadra di calcio, ha un passato di intrallazzi e corruzione, si esprime al parlamento
europeo con gesti e parole imbarazzanti per i suoi connazionali, è maestro nell’arte di
vendere aria fritta, controlla i media a suo piacimento (non gli è difficile poiché ne possiede
gran parte), si comporta non come un leader ma come il sindaco corrotto di Waterbury
(chiedo scusa, è un’allusione riservata agli abitanti del Connecticut), e ora ha pensato bene di
trascinare gli italiani in una guerra che loro ritengono non
li riguardi assolutamente.
«Sono morti per la libertà» ha detto Berlusconi ai funerali dei diciannove soldati italiani,
ma la maggioranza dei romani è di altro parere. «Sono morti per il desiderio di vendetta di
George Bush» dicono. In questo clima politico, si potrebbe pensare che il turista americano
incontri qualche difficoltà, e al mio arrivo in Italia mi aspettavo di essere accolta con risentimento, invece non è accaduto nulla del genere. Parlando di Bush, le persone lo associano a
Berlusconi e hanno parole di comprensione. «Sappiamo che cosa significa - anche noi ne abbiamo uno pressappoco così.»
We’ve been there.
è strano, date le circostanze, che Luca abbia scelto una ricorrenza americana per festeggiare il suo compleanno, ma l’idea mi piace. Il Giorno del Ringraziamento è una bella festa,
non ancora del tutto commerciale, di cui gli americani possono andare orgogliosi. è un giorno
di preghiera, di gratitudine e di fratellanza e... sì, anche di piacere. Forse è quello di cui ora
abbiamo bisogno.
La mia amica Deborah è venuta a Roma da Filadelfia per festeggiare il Giorno del
Ringraziamento con me. è una famosa psicoioga, ha scritto saggi importanti ed è una teorica
del femminismo, ma io penso ancora a lei come alla mia cliente preferita quando facevo la
cameriera a Filadelfia e lei, all’ora di pranzo, veniva a mangiare un boccone e a bere una Diet
Coke senza ghiaccio e intanto, dall’altra parte del banco, mi diceva molte cose intelligenti. Ha
reso davvero importante il nostro incontro. Siamo amiche da quindici anni. Anche Sofie verrà
alla festa di Luca. Io e Sofie siamo amiche da quindici settimane. Tutti sono i benvenuti nel
Giorno del Ringraziamento. Soprattutto se è anche il compleanno di Luca Spaghetti.
Usciamo dalla stanca, stressata Roma delle ore serali e andiamo verso la montagna. A
Luca piace la musica americana, perciò lasciamo il campo ai rumorosi Eagles e cantiamo con
loro: «Take it... to thè lìmit... one more time!!!!!!», arricchendo così di una colonna sonora californiana il nostro viaggio tra boschi di ulivi e antichi acquedotti. Arriviamo a casa dei vecchi
amici di Luca, Mario e Simona, genitori delle gemelle dodicenni Giulia e Sara. Paolo - un
amico di Luca che ho già conosciuto alle partite di calcio - è venuto con la sua ragazza. Naturalmente c’è anche la ragazza di Luca, Giuliana, che è arrivata molto prima. La casa è incantevole, nascosta tra gli ulivi, i mandaranci e i limoni. Il camino è acceso. L’olio è di
produzione della casa.
Non c’è il tempo per cuocere dieci chili di tacchino, questo è chiaro, ma Luca fa rosolare in
padella dei meravigliosi petti mentre io sovrintendo a un febbrile sforzo collettivo per produrre
un ripieno da Giorno del Ringraziamento il più possibile fedele a quanto mi ricordo della
ricetta tradizionale: briciole di un pane italiano particolarmente buono e, necessariamente, gli
ingredienti sostitutivi di una cultura diversa (datteri invece delle albicocche, finocchio invece
del sedano). Non so come, ma il risultato è eccellente. Luca era preoccupato per la conversazione, perché una metà degli ospiti non parla inglese e l’altra metà non parla italiano (e
solo Sofie parla svedese), ma la serata si rivela subito una di quelle occasioni meravigliose in
cui tutti si capiscono perfettamente e a tavola ciascuno ha almeno un vicino che, quando
manca una parola, interviene a suggerirla.
Non so più quante bottiglie di vino sardo abbiamo bevuto quando Deborah propone di
seguire l’usanza americana di tenersi tutti per mano intorno al tavolo, e dire a turno qual è la
cosa per cui ci sentiamo di dover ringraziare. E così, in tre lingue diverse, comincia a scorrere
davanti ai nostri occhi un montaggio di testimonianze di gratitudine.
Deborah, la prima, ringrazia perché presto l’America avrà la possibilità di scegliere un
nuovo presidente. Sofie (in svedese, poi in italiano, poi in inglese) ringrazia le persone gentili
che le hanno permesso di trascorrere quattro mesi così piacevoli in questo Paese. Le lacrime
cominciano a scorrere quando Mario
- il nostro ospite - esprime piangendo la sua gratitudine per essere riuscito con il suo lavoro a offrire alla famiglia e agli amici una bella casa dove riunirsi a far festa. Paolo suscita
una risata generale quando dice che anche il suo grazie è per la prossima elezione di un
nuovo presidente degli Stati Uniti. Tutti ascoltiamo rispettosi, in silenzio, la piccola Sara, una
delle gemelle, mentre dice che è grata di trovarsi stasera con persone così buone e simpatiche, perché a scuola, in questo periodo, i suoi compagni sono cattivi con lei - «grazie,
quindi, perché voi siete tutti diversi da loro». La ragazza di Luca ringrazia perché Luca sta
con lei da tanti anni e si è preso cura della sua famiglia nei momenti difficili. Simona piange
ancor più di suo marito, grata per questa nuova abitudine di festeggiare e ringraziare che è
stata introdotta nella sua famiglia dagli amici americani, che non sono stranieri perché sono
amici di Luca e di conseguenza amici della pace nel mondo.
Quando viene il mio turno, comincio in italiano con un «Sono grata...» ma mi accorgo che
non posso esprimere a parole quello che penso davvero. Non posso dire, soprattutto, che
stasera sono grata di sentirmi libera dalla depressione che mi aveva rosicchiata come un
topo, che mi aveva perforato l’anima al punto che non avrei mai pensato di poter ancora
godere di una serata come questa. Ma le bambine s’impressionerebbero. Preferisco dichiarare soltanto che sono grata di avere questi amici vecchi e nuovi, in modo speciale Luca
Spaghetti. Gli auguro un buon compleanno e una lunga vita che gli dia modo di dimostrare
alle persone come si può essere generosi, leali, e solleciti verso gli altri. E, aggiungo, spero
che a nessuno dispiaccia se mentre parlo piango, visto che piangono anche gli altri.
Luca è soffocato dall’emozione e, rivolto a tutti, riesce solo a dire: «Le vostre lacrime sono
le mie preghiere».
Il vino sardo continua ad arrivare a tavola. Mentre Paolo lava i piatti e Mario accompagna
a dormire le figlie ormai stanche, Luca suona la chitarra e tutti, un po’ ubriachi, con accenti diversi, cantiamo le canzoni di Neil Young. Deborah mi bisbiglia all’orecchio: «Guarda come
sono aperti e gentili questi uomini italiani e con quanto affetto partecipano alla vita familiare.
Sono pieni di considerazione e rispetto per le loro donne e i loro figli. Non bisogna credere a
quello che si legge sui giornali, Liz, questo è un Paese che funziona molto bene».
La festa finisce quasi all’alba. Avremmo fatto in tempo a cuocerlo, il tacchino di dieci chili,
e a mangiarlo come prima colazione. Luca Spaghetti mi riaccompagna a casa insieme a Deborah e a Sofie. Mentre il sole spunta e Luca guida verso Roma, cerchiamo di tenerlo sveglio
con delle canzoncine di Natale, Silent night, sainted night, holy night, in tutte le lingue che
sappiamo.
35
Non posso più andare avanti così. Dopo quattro mesi in Italia non ho più un paio di pantaloni in cui riesca a entrare. Anche
i vestiti che mi sono comprata il mese scorso (quando avevo già dovuto scartare i
«pantaloni del secondo mese in Italia») non mi vanno più. Non posso permettermi un
guardaroba nuovo ogni tre o quattro settimane e sono sicura che, quando sarò in India, i chili
si scioglieranno da soli - ma intanto questi pantaloni sono stretti. E un pensiero che non
posso sopportare.
Poco tempo fa mi sono fatta coraggio e sono salita su una bilancia in un elegante albergo
italiano. Ho appreso così di aver acquistato quasi dodici chili nei quattro mesi che ho passato
in Italia - un dato impressionante. Sette chili mi erano consentiti perché negli ultimi anni, tra
divorzio e depressione, mi ero ridotta uno scheletro. Tre li ho presi per divertimento. E gli ultimi due? Gli ultimi due erano lì a sottolineare che sono ingrassata davvero.
Ed ecco che mi ritrovo a comprare un capo di vestiario che conserverò per sempre come
un ricordo carissimo: i «jeans del mio ultimo mese in Italia». La paziente commessa mi passa
taglie via via più grandi attraverso la tendina del camerino, senza commenti, domandandomi
solo se questi mi pare che possano andare. Io métto fuori la testa e dico: «Scusi, non ce ne
sarebbe un paio solo leggermente più grande?». Finché quella creatura gentile non mi propone dei jeans con una vita così larga che sto male solo a guardarla. Esco dal camerino di
prova e mi mostro alla commessa.
Lei non batte ciglio. Sembra un esperto d’arte che valuti un vaso. Un vaso piuttosto
grande.
«Carina» decide, infine.
Le chiedo in italiano di dirmi sinceramente se con questi jeans sembro una mucca.
«No di certo, signorina» risponde, «lei è tutta diversa da una mucca.»
«Allora sembro un maiale?»
«No» mi assicura, con la massima serietà. «Non sembra un maiale.»
«Una bufala?»
Mi esercito a scegliere le parole e, nello stesso tempo, cerco di strapparle un sorriso, ma
lei è troppo attenta a mantenere la sua veste professionale.
Tento un approfondimento: «Sembro una mozzarella di bufala?».
«Forse...» concede, con un sorriso appena percettibile. «Forse sembra, ma solo un pochino, una mozzarella di bufala.»
Non mi resta che una settimana da passare in Italia. Sto progettando di tornare in America
a Natale, prima di partire per l’ìndia, non solo perché non sopporto l’idea di passare le feste
lontana dalla mia famiglia, ma anche perché i prossimi otto mesi del mio viaggio - India e Indonesia - richiedono un equipaggiamento completamente diverso. Delle cose che ti servono
per vivere quattro mesi a Roma, ben poche ti saranno di qualche utilità in un viaggio in India.
E forse è in prospettiva di questo prossimo viaggio che decido di passare l’ultima settimana in Sicilia - la parte d’Italia per certi versi meno sviluppata. O forse voglio andarci solo per
quello che ha detto Goethe: «Chi non ha visto la Sicilia non può avere una chiara immagine
dell’Italia».
Ma non è facile arrivare in Sicilia e muoversi al suo interno. Devo usare tutte le mie abilità
indagatrici per trovare un treno che domenica mi porti a sud lungo la costa e arrivi alla punta
dello Stivale in coincidenza con il traghetto per Messina (inquietante e guardinga città portuale che sembra urlare dietro le sue porte sbarrate: «Non è colpa mia se sono brutta! Sono
stata distrutta da un terremoto, ho subito bombardamenti a tappeto e in più la mafia mi ha
stuprata!»). A Messina, vado alla stazione degli autobus (sporca come i polmoni di un fumatore), trovo l’uomo il cui mestiere è stare seduto dietro lo sportello della biglietteria a lamentarsi della propria esistenza, e chiedo un biglietto per la città di Taormina. Procedo in autobus a balzelloni tra gli scogli e le spiagge della stupenda costa orientale, alta e frastagliata,
finché non arrivo a Taormina dove devo trovare un taxi e un albergo. Poi mi metto a cercare
la persona adatta cui rivolgere in italiano la mia domanda preferita: «Qual è il posto dove si
mangia meglio, in città?». Questa volta, la persona eletta è un poliziotto sonnolento, che mi fa
uno dei regali più graditi che possa ricevere: un pezzetto di carta con il nome di un modesto
ristorante e una piccola mappa, disegnata a mano, per arrivarci.
Si tratta di una minuscola trattoria dove l’anziana, cordiale proprietaria si prepara ad accogliere i clienti della sera. Si è tolta le scarpe, ha solo le calze e, in piedi su un tavolo, lucida
la vetrina, attenta a non sciupare il presepio che vi è esposto. Le dico che non mi serve
vedere il menu, ma vorrei mangiare qualcosa di veramente buono, perché sono appena arrivata in Sicilia. Lei si strofina le mani, tutta contenta, e grida qualcosa in dialetto verso la cucina, dove c’è sua madre, ovviamente ancora più vecchia. Nello spazio di venti minuti mi ritrovo occupata a consumare la cena più sorprendente che mi sia stata offerta in Italia. Il primo
è un piatto di pasta, ma una pasta che non ho mai visto prima, perché è stata tagliata in
grossi pezzi e avvolta, come si fa con i ravioli, intorno a un ripieno. La cosa più strana è la
forma, che ricorda (non certo nelle dimensioni) il cappel
lo del papa. Il ripieno è un impasto profumato di crostacei, polipi e calamari, e la pasta è
condita con vongole sgusciate e striscioline di verdure che nuotano in un oceanico brodo di
olio d’oliva. Per secondo, coniglio arrosto al profumo di timo.
Siracusa, il giorno dopo, è ancora meglio. L’autobus mi deposita a un angolo di strada,
verso la fine della giornata, sotto una pioggia fredda. La città mi conquista immediatamente.
Ci sono tremila anni di storia sotto i miei piedi, e di civiltà così antiche da far sembrare Roma
come Dallas. Il mito vuole che Dedalo sia fuggito in questa città da Creta e che Ercole una
volta vi abbia dormito. Siracusa era una colonia greca che Tucidide aveva definito «non inferiore alla stessa Atene». Rappresenta il legame tra l’antica Grecia e l’antica Roma. Molti grandi
drammaturghi e scienziati dell’antichità sono vissuti qui. Platone vede in Siracusa la collocazione ideale dell’espe-rimento utopistico grazie al quale, «forse per un divino intervento del
fato», i governanti sarebbero diventati filosofi e i filosofi governanti. Gli storici sostengono che
la retorica sia nata a Siracusa e che qui sia stata concepita addirittura (è solo un’ipotesi) l’idea
di complotto.
Cammino attraverso il mercato di questa città così antica da sembrare sul punto di sgretolarsi e il mio cuore ha un palpito d’amore, cui non posso dare una spiegazione o una risposta, mentre guardo un vecchio pescivendolo con un cappello di lana nera che sventra un
pesce per una cliente (si è messo la sigaretta tra le labbra per non perderla, come una sarta
tiene gli spilli in bocca mentre cuce, e intanto, con religiosa cura, taglia
il pesce in sottili filetti). Domando timidamente al pescatore dove potrei andare a mangiare
stasera e di nuovo la risposta è affidata a un pezzetto di carta che mi guida a un piccolo ristorante senza nome dove - appena mi siedo - il cameriere mi porta delle nuvole di aerea
ricotta spruzzate di pistacchio, fette di pane galleggianti in un olio aromatico, sottilissime fettine di carne con le olive, un’insalata di arance gelate condite con una salsa di cipolla cruda e
prezzemolo. Tutto prima ancora che abbia sentito nominare i calamari, specialità della casa.
«Una città non può vivere pacificamente, qualunque sia la sua legislazione» ha scritto Platone, «quando i suoi cittadini... non fanno altro che banchettare e bere e lasciarsi esaurire
dalle fatiche dell’amore.» Ma che male c’è a vivere così solo per un po’? A viaggiare attraverso il tempo, solo per qualche mese nella vita, senz’altra ambizione che il prossimo gustoso
pranzo? A imparare una lingua nuova solo perché suona bene all’orecchio? A dormicchiare in
un giardino in una fascia di sole, a metà giornata, vicino alla nostra fontana prediletta? E fare
lo stesso il giorno dopo?
Non si può vivere così per sempre, è naturale. La realtà della vita, le guerre, i traumi e la
morte intervengono sempre. Qui, in Sicilia, in questa immensa povertà, la realtà entra prepotentemente nella vita di ciascuno. La mafia è stata per secoli l’unica impresa di successo in
Sicilia e ancora tiene in suo potere i cittadini. Palermo - una città che Goethe definiva di una
bellezza impossibile a descriversi - è forse l’unica città dell’Europa occidentale dove puoi trovarti ancora a camminare in mezzo alle macerie della Seconda guerra mondiale. è stata imbruttita sistematicamente da case orribili e malsicure che la mafia ha costruito negli anni Ottanta nell’ambito di operazioni di riciclaggio di denaro sporco. Ho domandato a un Siciliano se
quelle case erano fatte di cemento a buon mercato e mi ha risposto: «Oh no, è cemento che
costa caro. Ogni partita contiene due o tre cadaveri di gente uccisa dalla mafia, e questo non
è gratis. Ma con tutte quelle ossa e quei denti il cemento si rinforza...».
In un ambiente del genere, pensare a quello che mangerai a pranzo è forse una prova di
eccessiva leggerezza? O, al contrario, è il meglio che tu possa fare? Luigi Barzini, nel suo
fondamentale libro Gli Italiani del 1964 (scritto quando si era stancato di tutti gli scrittori
stranieri che parlavano dell’Italia amandola o detestandola smodatamente), ha cercato di analizzare la situazione direttamente, partendo dalla sua cultura di italiano. Ha cercato di spiegarsi perché l’Italia abbia dato vita alle massime personalità artistiche, politiche e scientifiche
di tutti i tempi senza essere mai diventata una potenza mondiale. Perché gli italiani, universal-
mente riconosciuti come maestri della diplomazia, si rivelano incapaci di governare se stessi?
Perché sono valorosi se presi individualmente e messi tutti insieme non formano un esercito
valido? Come possono essere astuti mercanti a livello personale e formare una nazione dal
capitalismo inefficiente?
Le risposte di Barzini sono troppo complesse perché io possa riassumerle in queste righe,
ma si riferiscono alla triste storia italiana di corruzione dei governanti locali e di sfruttamento
da parte dei dominatori stranieri. Corruzione e sfruttamento hanno portato gli italiani a concludere, non a caso, che al mondo non ci si può fidare di niente e di nessuno. E poiché il
mondo è corrotto, confuso, instabile, frenetico e ingiusto, non c’è altra via d’uscita che affidarsi alle sensazioni, ai sensi. Per questo i sensi sono più esercitati in Italia che in qualsiasi altra parte d’Europa. Ecco perché, scrive Barzini, gli italiani sopportano generali, presidenti, tiranni, professori, burocrati, giornalisti, industriali spaventosamente incapaci, ma non sopporterebbero mai l’incompetenza di «cantanti d’opera, direttori d’orchestra, ballerine, cortigiane,
attori, registi, cuochi, sarti...». In un mondo di disastri, tragedie, inganni, succede che uno si
fidi solo della bellezza. Soltato la perfezione artistica è incorruttibile. Con il piacere non si può
scendere a patti. E qualche volta non c’è che un buon pranzo a valere il suo prezzo.
Dedicarsi alla creazione e al godimento della bellezza può essere una cosa seria - non
solo un modo per sfuggire alla realtà ma, al contrario, un modo di aggrapparsi a essa quando
tutto il resto si disperde... nella retorica e nel complotto. Non molto tempo fa le autorità hanno
arrestato in Sicilia una confraternita di monaci cattolici, per collusione con la mafia. Viene da
chiedersi: ma allora, di chi ci si può fidare? A chi si deve credere? Il mondo è crudele e
ingiusto. Ma chi parla contro questa ingiustizia, in Sicilia almeno, finisce nelle fonda-menta di
una casa in costruzione. Che cosa si può fare per mantenere la dignità umana? Forse niente.
Forse resta solo l’orgoglio di riuscire a tagliare i filetti di pesce alla perfezione o di fare la
ricotta più soffice della città.
Non voglio offendere nessuno facendo un confronto tra la mia vita e le protratte sofferenze del popolo siciliano. Tuttavia penso che la stessa cosa che ha aiutato generazioni di siciliani a mantenere la propria dignità abbia aiutato me a recuperare la mia - e cioè l’idea che
saper apprezzare il piacere sia ciò che ci tiene ancorati alla nostra umanità. Forse questo intendeva Goethe quando diceva che per capire l’Italia bisogna venire in Sicilia. E io, probabilmente, in modo istintivo, ho sentito la stessa cosa quando ho deciso di fare questo viaggio in
Italia per capire me stessa.
Ero nella vasca da bagno, a New York, e leggevo a voce alta le parole di un vocabolario
italiano, quando mi sono resa conto che stavo cominciando a ritrovare la salute dell’anima. La
mia vita era andata in pezzi, ero diventata irriconoscibile perfino a me stessa, al punto che
non sarei riuscita a identificarmi neanche in una fila di presunti colpevoli in una centrale di
polizia. Ma avevo intravisto uno sprazzo di felicità quando avevo iniziato a studiare l’italiano e
se, dopo un periodo oscuro, sentiamo, per quanto debolmente, che la felicità non ci è del tutto
negata, allora l’afferriamo alle caviglie e non la lasciamo più andare finché non ci porta, a faccia avanti, fuori dalla sporcizia - e questo non è egoismo, è un debito da pagare. Ci è stata
data la vita ed è nostro dovere (e anche nostro diritto) trovarci qualcosa di bello, anche se
non necessario.
Sono arrivata in Italia con i lineamenti tirati, sofferente e dimagrita. Non sapevo ancora a
che cosa potevo aspirare. Forse non lo so neanche adesso, ma so che - attraverso il godimento di piaceri innocenti - ho riscattato la persona che ero diventata negli ultimi tempi, dandole una maggiore integrità dello spirito. Il modo più semplice e, in fondo, più umano per dirlo
è che ho preso peso. Esisto. Più di quanto non esistessi quattro mesi fa. Dopo quattro mesi
lascio l’Italia, e ho cambiato consistenza. Parto con la speranza che l’espandersi di una persona
- l’estendersi dei suoi confini - abbia un valore mondo. Anche se questa persona, questa
volta, non è altri che me.
India
o
«... mi congratulo di conoscerLa.»
o
Trentasei capitoli sulla ricerca della devozione
Quand’ero piccola, la mia famiglia aveva delle galline. Ne avevamo una decina e quando
una moriva - portata via da un falco o da una volpe, o da qualche oscura malattia dei gallinacei - mio padre la rimpiazzava. Andava in qualche allevamento di polli nelle vicinanze e tornava con una nuova gallina in una sporta. Ma bisogna stare molto attenti quando si introduce
una nuova inquilina nel pollaio: non la si può buttare dentro così, o le altre la considereranno
un'intrusa pericolosa. Bisogna infilarla nella stia nel cuore della notte, mentre le altre
dormono. La si deve collocare su un trespolo accanto alle compagne e poi bisogna allontanarsi in punta di piedi. Al mattino, quando le galline si svegliano, non si accorgono
dell’estranea, al massimo si dicono: «Deve essere sempre stata con noi», dal momento che
non l’hanno vista arrivare. E anche la nuova gallina non ricorda di essere un’estranea e
pensa: «Devo essere sempre stata qui...».
Anche per me, quando sono arrivata in India, è stato così.
Il mio aereo atterra a Mumbai verso l’una e mezza del mattino. è il 30 dicembre. Trovo il
mio bagaglio, poi il taxi che mi porterà al villaggio di campagna, a diverse ore di distanza dalla
città, dove si trova V ashram. Durante il tragitto sonnecchio, svegliandomi ogni tanto per
guardare dal finestrino enigmatiche ed esili sagome di donne in sari che camminano con far-
delli di legna da ardere sulla testa. A quest’ora? Ci sorpassano degli autobus senza fari, e noi
sorpassiamo dei carri tirati da
buoi. Gli alberi di baniano allungano le loro eleganti radici attraverso i fossati.
Ci fermiamo davanti al cancello principale dell’ashram alle tre e mezza del mattino,
proprio davanti al tempio. Mentre scendo, un giovane in abiti occidentali e con in testa un
cappello di lana esce dall’ombra e viene verso di me - è Arturo, un giornalista messicano di
ventiquattro anni e un devoto della mia guru, ed è qui per darmi il benvenuto. Mentre ci
presentiamo sottovoce, io sento le prime, familiari note del mio inno sanscrito preferito giungere dall’interno. è l'arati mattutino, la prima preghiera del giorno, si canta ogni mattina a
quest’ora, quando Vashram si sveglia. Indico il tempio, chiedendo ad Arturo: «Posso...?». E
lui mi fa un cenno d’incoraggiamento. Così, pago l’autista del taxi, lascio lo zaino sotto un albero, mi tolgo le scarpe, m’inginocchio e tocco con la fronte il gradino del tempio, poi entro,
unendomi al piccolo gruppo di donne indiane che stanno cantando.
è l’inno che io chiamo «L’incredibile grazia del sanscrito», pieno di aneliti e di devozione. è
l’unico che ho imparato a memoria, non per essere zelante, ma per amore. Comincio a cantare, dalle semplici parole d’introduzione agli insegnamenti sacri dello yoga alle più alte espressioni di adorazione («Io adoro la causa dell’universo... adoro colui i cui occhi sono il sole,
la luna e il fuoco... tu sei tutto per me, o dio degli dèi...»), fino alla summa di tutta la fede
(«Questo è perfetto, quello è perfetto, se togli il perfetto dal perfetto, rimane il perfetto»).
Le donne finiscono di cantare. S’inchinano in silenzio, poi escono dalla porta laterale in un
cortile buio ed entrano in un tempio più piccolo, illuminato a malapena da un lume a olio e
profumato di incenso. Le seguo. La stanza è piena di devoti
- indiani e occidentali - avvolti in scialli di lana che li riparano dal freddo antelucano. Stanno meditando seduti, quasi appollaiati come uccelli che si stanno riposando dopo un lungo
volo, mentre io cerco di insinuarmi tra loro, sono il nuovo uccello dello stormo ma passo inosservata. Mi siedo a gambe incrociate, poso le mani sulle ginocchia, chiudo gli occhi.
Non ho meditato per quattro mesi. Non ho nemmeno pensato di meditare, per quattro
mesi. Sono lì, seduta. Il mio respiro diventa silenzioso. Recito a me stessa il mantra una
volta, con molta lentezza e attenzione, sillaba per sillaba.
Om.
Na.
Mah.
Shi.
Va.
Ya.
Om Namah Shivaya.
Onoro la divinità che risiede dentro di me.
Poi lo ripeto ancora. E ancora. Più che meditando, sto svolgendo con cura infinita il mio
ritrovato mantra, nel modo in cui spacchetteresti la più preziosa porcellana di tua nonna, da
lungo tempo riposta in una scatola. Non so se mi sto addormentando, o se sto cadendo in
una specie d’incantesimo, non so nemmeno quanto tempo passi. Ma quando finalmente
sorge il sole in India, e ognuno apre gli occhi e si guarda intorno, mi accorgo che l’Italia è
lontana diecimila miglia, e mi sembra di non aver mai lasciato questo stormo.
38
«Perché pratichiamo lo yoga?»
Una volta un mio insegnante di yoga ci ha rivolto questa domanda durante una lezione
particolarmente impegnativa, tanto tempo fa a New York. Eravamo tutti piegati a triangolo con
il busto proteso da un lato, e l’insegnante ci faceva mantenere quella sfiancante posizione più
a lungo di quanto ognuno di noi avrebbe voluto.
«Perché facciamo yoga?» aveva domandato di nuovo. «Lo facciamo per diventare un po’
pixx flessibili dei nostri vicini? O forse c’è uno scopo più elevato?»
«Yoga» in sanscrito significa «unione». La sua radice originaria è yuj, che vuol dire
«aggiogare», sottomettere se stessi al compito più urgente con bovino spirito di sacrificio. E il
compito più urgente nello yoga è quello di trovare l’unione - tra mente e corpo, tra l’individuo e
il suo Dio, tra i nostri pensieri e la loro fonte, tra insegnante e studente, e persino tra noi
stessi e il nostro talvolta inflessibile vicino. In Occidente, siamo venuti a conoscenza dello
yoga principalmente attraverso gli esercizi per il corpo, ma questo è lo Hatha yoga, cioè solo
un ramo di tutta la filosofia. Gli antichi avevano inventato questo tipo di flessioni non per il benessere fisico personale, ma per sciogliere i muscoli e la mente al fine di prepararli alla meditazione. È difficile stare immobili per molte ore a meditare se ti fa male un fianco e non riesci
a contemplare la tua divinità interiore perché sei troppo occupato a pensare: «Ahi-ahi, che
dolore...».
Chi pratica lo yoga può raggiungere Dio attraverso la meditazione, lo studio, il silenzio e la
devozione, o il mantra - la ripetizione di parole sacre in sanscrito. Mentre alcune di queste
pratiche possono sembrare di derivazione indù, yoga non è sinonimo di induismo, e non è
vero che tutti gli indù sono degli yogi. Né si può dire che la pratica yoga competa con una religione, o che la precluda. Puoi usare il tuo yoga - la tua disciplina dell’unione sacra - per avvicinarti a Krishna, Gesù, Maometto, Buddha o Yahweh. Durante il periodo trascorso all’
ashram, ho incontrato dei devoti che si definivano cristiani, ebrei, buddhisti, indù e persino
musulmani. Ne ho conosciuti altri che preferivano non parlare della loro affiliazione - e non si
può biasimare il loro riserbo, in questo mondo di polemiche e conflitti.
Il percorso dello yoga ha lo scopo di districare le tortuosità insite nella natura umana o,
per semplificare, di aiutarci a vincere la nostra straziante incapacità di essere contenti e
appagati. Varie scuole di pensiero nel corso dei secoli hanno trovato spiegazioni diverse per
questa debolezza apparentemente congenita all’essere umano. I taoisti la chiamano squilibrio, il buddhismo la chiama ignoranza, l’islamismo imputa la nostra triste condizione alla ribellione contro Dio, e la tradizione giudaico-cristiana attribuisce tutta la nostra capacità di sofferenza al peccato originale.
I freudiani dicono che la mancanza di felicità è il risultato inevitabile dello scontro tra le
nostre pulsioni naturali e le esigenze della civiltà. (Come dice Deborah, la mia amica
psicoioga: «Il desiderio è il nostro difetto di fabbricazione».) Gli yogi, invece, dicono che
l’insoddisfazione umana dipende da un malinteso concetto di identità. Siamo infelici perché
pensiamo di essere soltanto degli individui, abbandonati a noi stessi con le nostre paure e i
nostri difetti, pieni di aspirazioni frustrate e condannati alla mortalità. Riteniamo - sbagliando che nel nostro piccolo e limitato «ego» sia contenuta tutta la nostra natura. Che tutto si risolva
lì. Non siamo capaci di riconoscere in noi l’elemento divino. Non ci rendiamo conto che, da
qualche parte in ciascuno di noi, esiste davvero un Io supremo in un perenne stato di pace.
Quell’Io supremo è la nostra vera identità, universale e divina. Prima di capirlo, dicono gli
yogi, si vive nella disperazione. Epitteto, filosofo stoico greco, l’ha spiegato con parole efficaci: «Porti Dio dentro di te, sciagurato, e non lo sai».
Lo yoga è il tentativo di provare direttamente l’esperienza della propria divinità e poi di
mantenerla per sempre viva. Lo yoga aiuta a trovare il dominio di sé e la forza di non rimuginare sul passato o preoccuparsi per il futuro, in modo da trovare un eterno presente dal quale
guardare se stessi e ciò che ci circonda con placida imperturbabilità. Solo in questo stato di
equilibrio mentale potrà esserci rivelata la vera natura del mondo (e di noi stessi). I veri yogi,
dalla loro composta posizione seduta, vedono tutto questo mondo come un’unica manifestazione dell’energia creativa di Dio - uomini, donne, rape, cimici, corallo: tutto è Dio, sotto diverse spoglie. Ma gli yogi credono anche che la vita umana sia un’opportunità molto speciale,
perché solo nella mente umana può verificarsi la comprensione di Dio. Le rape, le cimici, il
corallo non avranno mai la possibilità di scoprire chi sono veramente. Noi, invece, ce
l’abbiamo.
«Tutto quello che dobbiamo fare» ha scritto sant’Agostino, piuttosto yogicamente, «è riportare in salute l’occhio del cuore, perché grazie a quello si può vedere Dio.»
Come altri grandi pensieri filosofici, anche questo è semplice da capire ma virtualmente
impossibile da realizzare. Siamo tutti una cosa sola, la divinità è dentro di noi - in ciascuno di
noi, in uguale misura. Benissimo. Ma prova a vivere partendo da questa idea. Cerca di
mettere in pratica quello che hai capito, ventiquattr’ore al giorno. Non è così facile. Per questo
si dà per scontato che ci sia bisogno di un maestro yoga. A meno che non nasci santo e già
perfettamente realizzato, avrai bisogno di qualche ammaestramento sulla via
deH’illuminazione. Con un po’ di fortuna, puoi trovarti un guru ancora in vita. I pellegrini da
secoli vengono qui per questo. Alessandro Magno, nel iv secolo a.C., aveva mandato un ambasciatore in India perché trovasse uno yogi e lo portasse a corte. (L’ambasciatore ne trovò
uno, ma non riuscì a convincerlo a partire.) Nel i secolo a.C., Apollonio di Tirana, un altro ambasciatore greco, scrisse del suo viaggio attraverso l’india: «Ho visto dei brahmi-ni indiani che
vivevano sopra la terra, e tuttavia non su questa, fortificati pur senza fortificazioni, privi di ogni
cosa ma forti della ricchezza di tutti gli uomini». Lo stesso Gandhi aveva sempre desiderato
studiare con un guru, ma non ebbe mai, con suo rammarico, il tempo o l’opportunità di cercarsene uno. «Penso che ci sia molta verità» ha scritto «nella dottrina secondo la quale la
vera conoscenza è impossibile senza un guru.»
Chiunque abbia raggiunto uno stato di illuminata e permanente beatitudine è un grande
yogi. Un guru è un grande yogi in grado di trasmettere questa beatitudine agli altri. La parola
guru è composta da due sillabe sanscrite. La prima significa «tenebre», l’altra «luce». Dalle
tenebre nella luce. Quello che passa dal maestro al discepolo è il mantravirya, la «potenza
della coscienza illuminata». Ci si rivolge a un guru, cioè, non so
lo per ricevere lezioni, come da qualunque maestro, ma per ricevere da lui il suo stessp
stato interiore.
Tali passaggi di grazia possono verificarsi persino durante gli incontri più fuggevoli. Una
volta sono andata ad ascoltare il grande monaco, poeta e pacifista vietnamita Thich Nhat
Hanh, che teneva una conferenza a New York. Era una tipica, nevrotica serata infrasettimanale in città, la folla spingeva e si face largo per entrare neH’auditorium, e l’aria stessa si caricava un’urgenza esasperante. Poi il monaco è salito sul palco. è ri masto per molto tempo seduto immobile prima di cominciare a parlare, e il pubblico - lo si percepiva con chiarezza - è
stato colonizzato dalla sua immobilità, una fila di frenetici newyorkt dopo l’altra. Nella sala non
si sentiva più volare una mosca, in dieci minuti, questo piccolo vietnamita aveva saputo attirarci tutti nel suo silenzio. O forse è più preciso dire che ci aveva gui dati nel nostro silenzio,
nella pace che ciascuno di noi possiede interiormente, ma che nessuno aveva ancora
scoperto o recl mato. La capacità di far emergere quello stato di pace in tutti noi, con la sola
presenza: ecco che cosa può definirsi potere di vino. La ragione per cui si va da un guru è la
speranza che i me riti del maestro ci rivelino la nostra grandezza interiore.
Secondo le sacre scritture yogiche, sono tre gli elementi che stabiliscono se un’anima è
adatta a ricevere la benedizione della più grande fortuna dell’universo:
1. Essere nati consapevoli e capaci di interrogarsi.
2. Essere nati con un forte desiderio di comprendere la na tura del mondo, o averlo sviluppato in seguito.
3. Aver trovato un maestro spirituale ancora in vita.
C’è una teoria che dice: se si anela sinceramente a trova un guru, lo si troverà di certo.
L’universo si muoverà, le mole cole del destino si riorganizzeranno e il tuo cammino presto i
crocerà il cammino del maestro di cui hai bisogno. è stato ap pena un mese dopo la notte di
disperata preghiera sul pavi mento del bagno che ho trovato la mia maestra, entrando in casa
di David e imbattendomi nella fotografia di questa ecce zionale donna indiana. Naturalmente,
all’inizio il mio atteg giamento rispetto all’idea di avere un guru era ambivalente,in generale,
gli occidentali non si trovano a proprio agio con que sta parola. La nostra storia recente può
spiegarne in parte il motivo. Negli anni Settanta, un folto gruppo di ricchi, entusia sti, influenzabili giovani occidentali alla ricerca dell’illumina zione è entrato in collisione con alcuni carismatici ma ambigui guru indiani. Oggi, la confusione di giudizi e il caos provocati da quel
fenomeno si sono assestati, ma gli echi della diffidenza risuonano ancora. Anche per me è
così: ancora adesso, in certe occasioni mi sento imbarazzata dalla parola «guru». Al contrario
dei miei amici indiani, per i quali il concetto è familiare perché sono cresciuti imparando a
conoscerlo. Una ragazza di qui una volta mi ha detto: «Tutti in India quasi hanno un guru!».
Ho capito che cosa intendesse dire (che quasi tutti in India hanno un guru), ma ero del tutto
d’accordo con la sua affermazione non intenzionale, perché qualche volta io mi sento così,
come se quasi avessi un guru. Mi sembra di non riuscire nemmeno ad ammetterlo, perché,
da buona cittadina del New England, vivo lo scetticismo e il pragmatismo come un’eredità intellettuale. Comunque, non è che sia deliberatamente andata a fare shopping di guru. Lei è
arrivata, e basta. E la prima volta che l’ho vista, è stato come se mi guardasse attraverso la
fotografìa - quegli occhi scuri che bruciavano di intelligente compassione - e mi dicesse: «Mi
hai cercata e adesso sono qui. Dimmi che cosa vuoi fare, vuoi andare avanti, oppure no?».
Ricorderò sempre cosa ho risposto quella notte: un semplice, inesauribile Sì.
39
Una delle mie prime compagne di stanza all’ashram era un’afroamericana del South Carolina, di mezza età e di religione battista, istruttrice di meditazione. Altre mie compagne di
stanza, nel corso dei mesi, sono state: una ballerina argentina, un’omeopata svizzera, una
segretaria messicana, un’australiana madre di cinque figli, una giovane programmatrice di
computer del Bangladesh, una pediatra del Maine e una ragionie-ra filippina. Alcune sono rimaste molto poco, perché i fedeli cambiano periodicamente residenza.
Questo ashram non è un posto che si possa visitare di passaggio, per turismo. Prima di
tutto, non è facilissimo da raggiungere. È molto lontano da Mumbai, ci si arriva percorrendo
una strada sterrata in una valle coltivata e attraversata da un fiume. L’ashram è vicino a un
grazioso villaggio un po’ sconnesso (composto da una strada, un tempio, una manciata di negozi e una popolazione di mucche che circolano liberamente, entrando a loro piacimento
nelle botteghe e magari sdraiandosi sul pavimento) . Una nuda lampadina da sessanta watt
che pende da un albero è il solo lampione della «città». L'ashram rappresenta l’unica vera attivit economica del villaggio, ed è fonte di orgoglio per la gente del posto. Fuori dalle sue
mura, è tutto polvere e miseria, mentre all’interno ci sono giardini irrigati, aiuole fiorite, orchidee nascoste, canti di uccelli, alberi di mango, anacar-di, palme, magnolie, baniani. Gli edifici
sono belli, anche se non sontuosi. La sala da pranzo è semplice, come una mensa. C’è una
fornita biblioteca con i testi sacri delle diverse tradizioni religiose del mondo. Ci sono templi
per i diversi tipi di incontri. Ci sono due «grotte» per la meditazione - seminterrati bui e silenziosi, dotati di comodi cuscini, aperti giorno e notte. All'esterno c’è un padiglione coperto dove
al mattino si tengono lezioni di yoga, e c’è una specie di parco ovale circondato da un sentiero, dove gli studenti possono correre per fare esercizio. Io dormo in un edificio di cemento.
Durante la mia permanenza -aM' ashram non c’è mai stato più di qualche centinaio di residenti alla volta. Se la nostra guru fosse stata presente, quel numero sarebbe stato molto
maggiore, ma per tutto il tempo che sono rimasta lì, lei non è tornata in India. Me l’aspettavo negli ultimi tempi ha passato lunghi periodi in America - ma sapevo che sarebbe potuta comparire in qualsiasi momento, a sorpresa. Non è essenziale trovarsi realmente in sua presenza
per continuare a studiare con lei, anche se un’esperienza del genere è da considerarsi suprema e insostituibile, e io l’avevo provata. Ma secondo alcuni devoti, può anche essere sviante: se non stai attento, puoi venire catturato dal vortice di eccitazione celebrativa che circonda il guru e perdere di vista il tuo vero obiettivo. Al contrario, se vai in uno dei suoi ashram
e ti abitui a mantenere gli austeri orari dell’esercizio, ti accorgerai che comunicare con il tuo
maestro dall’intimità di queste meditazioni è più facile che farti largo nella folla di discepoli
entusiasti tentando di scambiare una parola con lui.
All’ ashram c’è un personale retribuito, ma la maggior parte del lavoro viene svolta dagli
allievi stessi. Ci sono anche contadini delle campagne vicine che lavorano qui e percepiscono
un salario, mentre alcuni abitanti del villaggio sono diventati fedeli della nostra guru e sono
venuti a vivere nelV ashram come allievi. In particolare, c’è un ragazzo indiano che mi ha affascinato. La sua (perdonate la parola...) aura mi ha colpita profondamente. Per prima cosa, è
magrissimo (è vero che da queste parti la magrezza è una caratteristica fisica tipica...), si
veste come si vestivano i miei compagni delle medie - quelli appassionati di computer quando andavano a un concerto rock: pantaloni scuri e camicia bianca stirata troppo grande
per lui, tanto che il collo sottile spunta come lo stelo di una solitaria margherita in un vaso gigante. I capelli sono sempre pettinati accuratamente e inumiditi perché mantengano la piega.
Porta una vecchia cintura avvolta quasi due volte intorno a un girovita da quaranta centimetri
o poco più. Indossa ogni giorno gli stessi vestiti. I soli che possieda, penso. Probabilmente
ogni sera lava a mano la camicia e la stira al mattino. (Anche l’attenzione al decoro
nell’abbigliamento è tipica di queste parti. I ragazzi indiani, con i loro abiti inamidati, non finiscono di stupirmi e mi fanno vergognare dei miei vestiti spiegazzati da contadina, spingendomi
a indossarne di più ordinati e meno vistosi.) Ma che cosa ha di speciale questo ragazzo?
Perché rimango così colpita ogni volta che vedo la sua faccia - una faccia tanto luminosa da
far pensare che sia appena tornato da una lunga vacanza nella Via Lattea? Alla fine chiedo
notizie su di lui a una ragazza indiana. Lei mi risponde con naturalezza: «è il figlio di uno dei
negozianti del paese. La sua famiglia è molto povera. La guru lo ha invitato a stare qui.
Quando lui suona il tamburo, puoi sentire la voce di Dio».
Nell’ashram c’è un tempio aperto al pubblico, e molti indiani nel corso della giornata vengono a rendere tributo alla statua del Siddha Yogi, il «maestro perfetto», che negli anni Venti
ha avviato una lunga discendenza di insegnanti, ed è ancora oggi riverito in tutta l’india come
un santo. Il resto dell ’ashram è solo per gli studenti. Non è un albergo o una località turistica, è più simile a un
campus universitario. Devi fare domanda per essere ammesso come residente, devi dimostrare di aver studiato seriamente questo tipo di yoga, devi dichiarare di volerti trattenere
per un periodo minimo di un mese. (Io ho deciso di rimanere qui per sei settimane, e poi di
viaggiare per conto mio attraverso l’india, esplorando altri templi, ashram e luoghi di culto.)
Gli studenti sono in egual numero indiani e occidentali (e gli occidentali sono americani ed
europei). I corsi sono tenuti sia in hindi sia in inglese. Oltre alla domanda di ammissione,
bisogna scrivere un breve testo di presentazione, raccogliere dati e rispondere a domande
sulla propria salute mentale e fisica, sul proprio rapporto con droghe e alcol, e anche sulla
solidità della propria condizione economica. La nostra guru non vuole che si usi il suo ashram
per fuggire dai manicomi che ciascuno di noi può essersi creato fuori di qui; non gioverebbe a
nessuno. Inoltre, se la tua famiglia e i tuoi cari, per qualche ragione, sono profondamente
contrari all’idea che tu segua un guru e viva in un ashram, la nostra maestra pensa che non
dovresti farlo, non ne vale la pena. è meglio che tu stia a casa, che viva normalmente, cercando di essere una persona buona. Non c’è ragione di creare drammi.
La ragionevolezza della nostra maestra mi è sempre di grande conforto.
Per essere ammesso devi dimostrare di essere una persona assennata e dotata di senso
pratico. Devi dimostrare di poter lavorare, perché ci si aspetta che tu contribuisca, con circa
cinque ore al giorno di seva o «lavoro disinteressato», al funzionamento dell’ ashram. La
direzione dell’ ashram chiede ai candidati che hanno subito nei sei mesi precedenti un trauma
emotivo, come un divorzio o un lutto, di posticipare la loro domanda, perché c’è il rischio di
non riuscire a concentrarsi nello studio o, nel caso di un tracollo, di portare scompiglio nella
vita degli altri studenti. Io stessa sono appena uscita dai postumi del divorzio. E quando
penso all’angoscia che ho provato nel periodo successivo alla fine del mio matrimonio, non
ho alcun dubbio che sarei stata di grande peso per tutti qui al-Vashram, se fossi arrivata allora. Molto meglio aver prima riposato in Italia e aver riacquistato la forza e la salute. Perché
ora ne avrò bisogno.
La vita dell’ashram è rigorosa e stancante. Non solo fisica-mente, con giornate che cominciano alle tre del mattino e finiscono alle nove di sera, ma anche psicologicamente. Si trascorrono ore e ore al giorno in contemplazione e in muta meditazione, non ci si può quasi mai distrarre né cercare sollievo dalla propria mente. Si vive a stretto contatto con degli estranei, e in
campagna. Nel cuore dell’india rurale. Ci sono insetti, serpenti e roditori. Le condizioni meteorologiche possono toccare estremi drammatici - qualche volta la pioggia torrenziale dura
per settimane, altre volte il caldo arriva ai trenta gradi all’ombra già nelle primissime ore della
mattina. Tutto può diventare seriamente tangibile qui, e anche molto in fretta.
La mia guru dice sempre che quando si arriva all’ ashram può succedere una sola cosa, e
cioè scoprire chi si è veramente. Quindi se sei sull’orlo della pazzia, la guru preferisce che tu
non venga. Perché, onestamente, nessuno vuole essere costretto a portarti via di qui con un
cucchiaio di legno tra i denti.
40
Il mio arrivo coincide esattamente con l’anno nuovo. Ho appena un giorno per ambientarmi nell’ ashram, ed è già la notte di Capodanno. Dopo cena, il piccolo cortile comincia a
riempirsi di folla. Ci sediamo tutti per terra - alcuni di noi sul freddo pavimento di marmo, altri
sull’erba. Le donne indiane sono vestite come se fossero a un matrimonio. Hanno i capelli
scuri intrecciati lungo la schiena, lucidi di balsamo. Indossano i loro migliori sari di seta e
braccialetti d’oro, e ognuna ha al centro della fronte un bindi di una pietra brillante, pallida eco
della luce delle stelle sopra di noi. Il programma è di salmodiare in questo cortile, fino a
mezzanotte, fino al volgere dell’anno.
Salmodiare è una parola che non amo, usata per indicare una pratica che al contrario
amo profondamente. Per me questo termine indica una sorta di ottusa e sinistra monotonia,
simile alle cantilene dei druidi attorno a un fuoco sacrificale. Ma il nostro salmodiare, qui all
'ashram, è una specie di canto angelico. Di solito è in forma di domanda e risposta. Un piccolo gruppo di giovani, uomini e donne, con voci bellissime, comincia a cantare una frase armoniosa, e il resto di noi la ripete. E un esercizio di meditazione - l’intento è di rivolgere la
concentrazione sul progredire della musica, per poi fondere la propria voce con quella del vicino, e alla fine cantare all’unisono. Io soffro le conseguenze del jet-lag e temo che mi sarà
impossibile stare sveglia fino a mezzanotte, e ancor più trovare l’energia per cantare così a
lungo, ma poi la serata di musica comincia, con un singolo violino nell’ombra che suona una
lunga nota struggente. Si aggiungono l’armonium, i tamburi, le voci...
Sono seduta in fondo al cortile insieme alle madri, che si sono messe comode, a gambe
incrociate, con i figli che dormono loro in grembo. La litania di questa notte è una ninnananna,
un lamento, un canto di gratitudine, scritto per seguire una raga (una melodia) di compassione e devozione. Come sempre cantiamo in sanscrito (lingua che in India non si usa più,
tranne che per la preghiera e gli studi religiosi), e io sto tentando di riflettere nella mia voce le
voci degli altri, raccogliendo le loro inflessioni come piccoli fili di luce blu. Loro mi passano le
parole sacre, io le tengo con me per un po’, poi le rimando indietro, ed è in questo modo che
riusciamo a cantare per miglia e miglia di tempo, senza stancarci. Ondeggiamo come alghe
nella buia corrente della notte. I bambini intorno a me sono avvolti nella seta, come doni.
Sono tanto stanca, ma non lascio cadere il mio piccolo filo blu di canto, e scivolo in uno
stato di dormiveglia, mi sembra di star chiamando il nome di Dio nel sonno, o di precipitare in
fondo al pozzo dell’universo. Verso le undici e mezzo, tuttavia, l’orchestra ha accelerato il
tempo del canto, trasformandolo in un inno di pura gioia. Donne splendidamente vestite, con
bracciali tintinnanti, battono le mani e danzano, scandendo il ritmo con tutto il corpo. I tamburi
riecheggiano, ritmici, trionfanti. Mentre i minuti passano, ho la sensazione che stiamo tirando
tutti insieme l’anno 2004 verso di noi. Come se lo avessimo preso al laccio con la nostra musica, e lo stessimo trascinando attraverso il cielo notturno. Il 2004 è un’enorme rete da pesca,
carica di tutti i nostri ignoti destini, di tutte le nascite, le morti, le tragedie, le guerre, le storie
d’amore, le invenzioni, le trasformazioni e le calamità destinate a ciascuno di noi. Continuiamo a cantare e continuiamo a tirare, mano per mano, minuto per minuto, voce dopo voce,
sempre più vicino. I secondi diminuiscono, arriva la mezzanotte, e noi stiamo ancora cantando con tutte le nostre forze, e in un ultimo, audace sforzo tiriamo la rete del nuovo anno
sopra di noi, coprendo sia il cielo che i nostri corpi. So
lo Dio sa che cosa questa rete contiene, ma adesso siamo tutti sotto di essa.
A quanto mi ricordo, questo è il primo Capodanno della mia vita in cui non conosco nessuna delle persone con le quali sto festeggiando. Si balla e si canta, ma non c’è nessuno da
abbracciare a mezzanotte. Eppure non è una notte solitaria.
41
Nell’ ashram viene assegnato un compito a tutti, il mio è quello di strofinare i pavimenti del
tempio. Ed è quindi al tempio che trascorro diverse ore al giorno - in ginocchio sul marmo
freddo, con una spazzola e un secchio, a sgobbare come le orfanel-le nelle favole. (A proposito, sono consapevole della metafora: il tempio è il mio cuore, pulire a fondo il suo pavimento significa tirare a lustro la mia anima, all’esercizio spirituale bisogna applicarsi con lo
stesso impegno con cui si svolge una mansione domestica, solo così potrò purificare il mio
essere, ecc. ecc.)
i miei compagni strofinatori sono quasi tutti ragazzi indiani. Danno sempre questo lavoro
ai giovani perché richiede energia fisica ma non necessariamente senso di responsabilità: c’è
un limite all’ammontare dei danni che puoi provocare in caso di errore. Mi piacciono i miei
compagni di lavoro. Le ragazze sono aeree come farfalle e sembrano molto più giovani delle
coetanee americane, i ragazzi sono seri e amanti del lavoro, e sembrano molto più vecchi dei
coetanei americani. Nessuno dovrebbe parlare nel tempio, ma sono ragazzi, e chiacchierano
di continuo. Non fanno solo futili pettegolezzi. Il ragazzo che lava la parte di pavimento accanto alla mia mi fa sempre la predica, mi spiega che devo prendere il lavoro seriamente: «Sii
puntuale. Sii tranquilla. Cerca di essere brava nel tuo compito. Ricorda: ogni cosa che fai, la
fai per Dio. E ogni cosa che Dio fa, la fa per te».
è una fatica, ma lavorare è più facile che meditare. La verità è che non penso di essere
portata per la meditazione. So di essere fuori esercizio, ma so anche di non essere mai stata
brava. Non riesco a tenere ferma la mente. Una volta l’ho detto a un monaco indiano, e lui mi
ha risposto: «Ma guarda, sei l’unica persona nella storia del mondo ad aver avuto questo
problema...». Il monaco mi ha citato la Bhagavad Gita, il più sacro degli antichi testi dello
yoga: «Oh Krishna, la mente non conosce pace, è irrequieta, potente e incoercibile. Penso
che sia difficile da sottomettere come lo è il vento».
La meditazione rappresenta sia l’ancora che le ali dello yoga. La meditazione è la via. C’è
una differenza fra meditazione e preghiera, anche se ambedue cercano la comunione con il
divino. Ho sentito dire che la preghiera è l’atto di parlare con Dio, mentre la meditazione è
l’atto di ascoltare. Provate allora a indovinare quale delle due mi riesca meglio. Posso andare
avanti a chiacchierare con Dio di tutti i miei sentimenti e i miei problemi per un’intera giornata,
ma quando viene il momento di rimanere in silenzio e ascoltare... allora è un’altra storia.
Quando chiedo alla mia mente di restare immobile, è incredibile come diventi subito 1) annoiata, 2) irritata, 3) depressa, 4) ansiosa o 5) tutt’e quattro le cose insieme.
Come la maggior parte degli umanoidi, sono oppressa da quella che i buddhisti chiamano
«scimmia mentale» - i pensieri che dondolano da un ramo all’altro, fermandosi solo per grattarsi, sputare e ululare. Dal lontano passato al futuro imperscrutabile, la mia mente oscilla
senza sosta, soffermandosi su decine e decine di idee al minuto, indisciplinata e fuori controllo. Di per sé non sarebbe grave, il problema è la tensione emotiva che si accompagna al
pensare. I pensieri felici mi rendono felice, ma
- oplà! - ecco che con un salto vado a finire in un pensiero angosciante, che mi rovina il
buon umore; oppure è il ricordo di un momento di rabbia che mi irrita, così mi scaldo e mi
saltano i nervi, o ancora la mia mente decide che è il momento giusto per commiserarsi, ed
ecco puntualissimo il senso di solitudine. Dopotutto, tu sei quello che pensi. Le tue emozioni
sono schiave dei tuoi pensieri, e tu sei schiavo delle tue emozioni.
L’altro problema di questo continuo dondolarsi sulle liane della mente è che tu non sei mai
dove sei. Stai sempre scavando nel passato, o indagando nel futuro, ma raramente sei fermo
nell’attimo presente. Come la mia cara amica Susan, che ogni volta che vede un bel posto
non può trattenersi dal-l’esclamare, quasi in preda al panico: «Come è bello! Voglio tornarci,
un giorno o l’altro!», e ci vuole tutto il mio potere di persuasione per convincerla che è già lì.
Se cerchi l’unione con il divino, questo correre avanti e indietro può crearti molti problemi. C’è
un motivo per cui ci si riferisce a Dio come a una presenza - perché Dio è proprio qui, proprio
adesso.
Ma restare nel presente richiede una buona capacità di messa a fuoco. Tecniche differenti
di meditazione insegnano a concentrarsi su un obiettivo in modi diversi - per esempio, focalizzando lo sguardo su un singolo punto di luce, o seguendo con la mente il ritmo del tuo
respiro. La mia guru insegna la meditazione con l’aiuto di un mantra, parole sacre o sillabe su
cui concentrarsi ripetendole all’infinito. Il mantra ha una duplice funzione. In primo luogo, tiene
la mente occupata. è come se tu avessi dato alla tua scimmia un mucchio di diecimila bottoni
e le avessi detto: «Sposta questi bottoni, uno alla volta, e forma un nuovo mucchio». Per lei è
un ordine semplice da eseguire. Se l’avessi mollata in un angolo e le avessi chiesto di non
muoversi, l’avresti messa in difficoltà. Il secondo scopo del mantra è quello di traghettarti in
un altro stato, come su una barca a remi, attraverso le onde agitate della mente. Ogni volta
che la tua attenzione viene attirata in un gorgo del pensiero, fa’ di tutto per ritornare al mantra, risalire sulla barca e continuare a navigare. I grandi mantra in sanscrito hanno poteri inimmaginabili: se riesci a non perdere la tua barca, verrai traghettato fino alle sponde del divino.
Tra i miei numerosi problemi con la meditazione c’è anche il fatto che non riesco a trovare
nella mia mente un posto per il mantra che mi hanno assegnato - Om Namah Shivaya. Amo il
suo suono e il suo significato, ma non riesce a farmi scivolare nella meditazione. Non lo ha
mai fatto, non per i due anni in cui ho praticato questo yoga. Quando tento di ripetere Om
Namah Shivaya nella testa, mi si blocca in gola, serrandomi il petto e facendomi innervosire.
Non riesco mai a far coincidere le sillabe con il mio respiro.
Alla fine, ne parlo alla mia compagna di stanza Corella. M’imbarazza ammettere che non
riesco a concentrarmi sul mantra, ma Corella è un’insegnante di meditazione. Forse può
aiutarmi. Mi dice che anche lei una volta non riusciva a impedire alla sua mente di vagare
durante la recitazione del mantra, ma che adesso l’esercizio spirituale è diventato la più
grande gioia della sua vita, la più facile da raggiungere, l’unica capace di produrre trasformazioni positive.
«Mi siedo, chiudo gli occhi, e penso al mantra» dice, «e questo basta per portarmi in paradiso.»
L’invidia mi dà il mal di mare. Corella, però, ha praticato lo yoga tutta la vita, o quasi. Le
chiedo se può mostrarmi come recita Om Namah Shivaya nei suoi esercizi di meditazione. Inspira a ogni sillaba? (Quando lo faccio, a me sembra interminabile e fastidioso.) O dice una
parola per ogni respiro? (Ma le parole hanno ciascuna una lunghezza diversa!) O recita il
mantra tutto in una volta, inspirando, e poi ancora una volta espirando? (Quando provo
questa tecnica, il ritmo accelera da solo e mi viene l’ansia...)
«Non lo so» dice Corella. «Io... lo dico e basta.»
«Ma tu lo canti?» insisto, disperata. «Gli dai un ritmo?»
«Lo dico e basta.»
«Potresti dirlo a voce alta per me, nel modo in cui lo reciti nella tua testa quando stai meditando?»
Condiscendente, la mia compagna di stanza chiude gli occhi e comincia a recitare il mantra a voce alta, così come appare nella sua testa. E, davvero, lo sta solo... dicendo. Lo dice
tranquillamente, normalmente, con un lieve sorriso. Lo dice alcune volte, finché io non comincio ad agitarmi e la interrompo.
«Ma non ti annoi?» le domando.
«Ah» dice Corella, e apre gli occhi, sorridendo. Guarda il suo orologio. «Sono passati
dieci secondi, Liz. Ci stiamo già annoiando?»
42
La mattina seguente arrivo appena in tempo per la sessione di meditazione delle quattro,
che segna l’inizio della giornata. Dobbiamo restare seduti in silenzio per un’ora, ma io conto i
minuti come se fossero miglia - sessanta lunghe miglia da percorrere. Arrivata al
miglio/minuto numero quattordici, i miei nervi cominciano a cedere, le ginocchia non mi reggono, e mi assale la disperazione. Non è difficile capire perché, se si pensa che il dialogo che
si svolge tra me e la mia mente durante la meditazione è più o meno di questo tenore:
io: Ok, adesso cominciamo a meditare. Rivolgiamo l’attenzione al respiro e concentriamoci sul mantra. Om Namah Shivaya. Om Namah Shiva...
MENTE: Io ti posso aiutare, se vuoi!
io: Bene, in effetti ho bisogno del tuo aiuto. Procediamo. Om Namah Shivaya. Orti Namah
Shi...
mente: Posso aiutarti a pensare a qualche bella immagine su cui meditare. Come - ehi! eccone una buona. Immagina di essere un tempio. Un tempio su un’isola! E l’isola è in mezzo
al mare!
io: Oh, sì, questa è un’immagine bellissima...
mente: Grazie. Ci sono arrivata da sola.
io: Ma quale mare ci stiamo raffigurando?
mente: Il Mediterraneo. Immagina di essere una di quelle isole greche, con sopra un tempio antico. No, lascia perdere, è troppo da turisti. Sai cosa? Dimentica il mare. I mari e gli
oceani sono troppo pericolosi. Ecco un’idea migliore: immagina di essere un’isola in mezzo a
un lago, invece.
io: Possiamo meditare, per favore? Om Namah Shiv...
mente: Sì, certo! Ma cerca di non immaginarti un lago pieno di... di quelle cose... come si
chiamano...?
io: Moto acquatiche?
mente: Sì! Moto acquatiche! Quelle che consumano tantissima benzina! Sono minacce
per l’ambiente. Sai qual è un’altra cosa che consuma un sacco di carburante? Le macchine
per soffiare via le foglie. Non lo diresti, ma...
IO: Ok, ma adesso meditiamo, per favore? Om Namah...
mente: Giusto! Voglio assolutamente aiutarti a meditare! Lasciamo perdere l’immagine
dell’isola su un lago o nel mare, che evidentemente non funziona. Meglio immaginare che tu sia un’isola su un... fiume!
io: Oh, intendi come Bannerman Island sul fiume Hudson?
MENTE: Sì! Esatto! Perfetto! Meditiamo su questa immagine - pensa di essere un’isola su
un fiume. Tutti i pensieri che ti passano vicino sono le correnti del fiume, e tu puoi ignorarle
perché sei un’isola.
io: Aspetta, all’inizio avevi detto che sono un tempio.
MENTE: E vero, scusa. Sei un tempio su un’isola. O meglio, sei sia il tempio sia l’isola.
io: Sono anche il fiume?
mente: No, il fiume sono solo i pensieri.
io: Basta! Per favore, basta! mi fai impazzire!
mente (offesa): Scusa. Stavo solo cercando di essere d’aiuto.
IO: Om Namah Shivaya... Om Namah Shivaya... Om Namah Shivaya...
A questo punto, c’è una pausa di otto secondi. I miei pensieri si fermano. Ma subito
dopo...
mente: Sei arrabbiata con me?
... e infine, con un respiro strozzato, come se uscissi dall’acqua per riprendere fiato,
concedo la vittoria alla mia mente. I miei occhi si spalancano e io cedo. Scoppio in lacrime.
Avverto una pressione insostenibile. Non so come fare. Non posso mica uscire ogni giorno di
corsa dal tempio, piangendo, dopo appena quattordici minuti di meditazione?
Questa mattina, invece di combattere, ho rinunciato. Mi sono lasciata cadere contro il
muro alle mie spalle, facendomi male alla schiena. Non avevo più forza, la mia mente vacil-
lava. Sono crollata come un ponte che si disintegra. Ho scacciato il mantra dalla cima della
mia testa (dove aveva continuato a premere su di me come un’incudine invisibile) e l’ho
messo sul pavimento, al mio fianco. Poi ho detto a Dio: «Mi dispiace, ma oggi non potevo arrivare più vicino a te di così».
I Lakota Sioux dicono che un bambino che non sa stare seduto e fermo è un bambino
cresciuto solo a metà. E un vecchio testo in sanscrito dice: «Quando un uccello si poserà
sulla tua testa pensando che tu sia un oggetto inerte, allora capirai che stai meditando nel
modo giusto». Non è quello che è successo a me, finora. Per i quaranta minuti successivi al
mio cedimento, stamattina, ho cercato di stare in silenzio più che ho potuto, intrappolata in
quella sala di meditazione, prigioniera della mia stessa vergogna e della mia inettitudine,
guardando i devoti intorno a me seduti in posizioni perfette, con gli occhi perfettamente chiusi,
con le facce compiaciute che emanavano una calma perfetta, mentre sicuramente trasportavano se stessi in un perfetto paradiso. Ero colma di una tristezza bruciante e violenta, e
avrei voluto scoppiare in singhiozzi per trovare conforto, ma ho cercato di non farlo, ho cercato di tener fede all’insegnamento della mia guru, secondo cui non bisogna mai permettere a
se stessi di capitolare, perché, quando lo fai una volta, poi tendi a farlo sempre più spesso.
Bisogna esercitarsi a resistere, bisogna essere forti.
Ma io non mi sentivo forte. Il mio corpo era dolorante per l’estremo senso di inadeguatezza che provavo. Mi domandavo chi fosse l’«io» delle conversazioni con la mia mente, e
chi fosse la «mente». Ho pensato a quella spaventosa macchina ela-boratrice di pensieri e
divoratrice dell’anima che è il mio cervello, e mi sono domandata come diavolo sarei mai riuscita a controllarla. Poi mi sono ricordata una battuta del film Lo squalo, e non sono riuscita a
trattenere un sorriso: «Avremo bisogno di una barca più grande».
Ora di cena. Siedo da sola, cercando di consumare il mio pasto con lentezza. La nostra
guru ci incoraggia a esercitare la disciplina, quando si tratta di mangiare. Ci esorta non abbuffarci e a non deglutire come disperati, per non estinguere i sacri fuochi del nostro corpo gettando troppo cibo troppo in fretta nel nostro tratto digerente. (La mia guru, ne sono certa, non
è mai stata a Napoli.) Quando qualche studente va da lei a lamentarsi perché trova difficile la
meditazione, lei gli domanda sempre come digerisce. è logico che tu abbia difficoltà a
scivolare con leggerezza nella trascendenza, se le tue viscere lottano con un calzone alla salsiccia, mezzo chilo di ali di pollo fritte in salsa piccante, e tre fette di torta al cocco. è per
questo che qui non servono pietanze del genere. La cucina all’ ashram è vegetariana, leggera
e sanissima. Ma deliziosa. Per me, quindi, è comunque diffìcile non divorare il cibo come un
orfano affamato. Inoltre, i pasti sono serviti come a un buffet, e a me non è mai stato facile
resistere a una seconda o una terza porzione quando tante cose buone, profumate e gratuite
sono così facilmente accessibili.
Eccomi, dunque, seduta a tavola, tutta sola e intenta al controllo della forchetta, quando
vedo avvicinarsi un uomo con il vassoio in mano, in cerca di una sedia libera. Gli faccio cenno
di accomodarsi. Da quando sono qui è la prima volta che lo vedo. Dev’essere un nuovo arrivato. Cammina disinvolto, senza fretta, autorevole come lo sceriffo di una cittadina di confine,
o come un esperto giocatore di poker abituato ad alzare la posta. Sembra sulla cinquantina,
ma cammina come se avesse vissuto qualche secolo in più. Ha i capelli e la barba bianchi, e
una camicia scozzese di flanella. Spalle larghe e mani gigantesche, potenzialmente capaci di
far danni, ma una faccia tranquilla.
Si siede di fronte a me e dice con l’accento strascicato tipico del sud: «Accidenti, qui intorno ci sono zanzare grosse abbastanza da stuprare una gallina».
Signore e signori, attenzione: è qui per voi... Richard il texano!
Richard il texano ha fatto molti lavori nella sua vita. So di tralasciarne parecchi, ma almeno qualcuno lo voglio ricordare. è stato operaio in un campo petrolifero; conducente di
autotreni; primo venditore autorizzato di scarpe Birkenstock nel Nord e Sud Dakota;
scuotitore di sacchi in una discarica del Midwest (mi dispiace, ma non ho veramente il tempo
di spiegare che cosa sia uno «scuotitore di sacchi»); operaio di costruzioni auto-stradali;
venditore di automobili usate; soldato in Vietnam; «mediatore in merci» (per merci
s’intendono allucinogeni di provenienza messicana); drogato e alcolista (sempre che la si
possa chiamare una professione); drogato e alcolista recuperato alla vita (professione molto
più rispettabile); agricoltore hippie in una comune; voce fuoricampo alla radio; e, infine, venditore (con successo) di apparecchiature mediche di alto livello (finché il suo matrimonio non è
andato in pezzi e Richard ha ceduto la società alla sua ex moglie, restando senza un soldo a
«grattarsi il suo culo bianco»). Adesso restaura case a Austin. «Non ho mai seguito un vero
percorso professionale» dice. «Ho sempre vissuto di espedienti.»
Richard il texano non si crea troppi problemi. Non è il tipo. è tutto fuorché un nevrotico. E
io, che invece un po’ nevrotica lo sono, ho finito per adorarlo.
La presenza di Richard in questo ashram mi garantisce un grande e piacevole senso di
sicurezza. L’immensa tranquillità e la fiducia che trasmette con la sua camminata mettono a
tacere ogni mia inquietudine, assicurandomi che davvero tutto andrà bene (e se no, sarà almeno divertente). Richard sembra un personaggio dei cartoni animati, e comincio a sembrarlo un po’ anch’io. E infatti, come dice lui: «Accidenti, accidenti, ah-ah, io e la cara Senza
Fondo non facciamo che ridere, tutto il tempo...».
Senza Fondo.
Questo è il soprannome che mi ha dato Richard. Mi ha insignito del titolo la sera che ci
siamo conosciuti, quando ha notato la quantità di cibo che sono capace di stivare. Ho tentato
di difendermi («... è perché mangio con disciplina!») ma il nome è rimasto.
Forse Richard il texano non sembra un tipico yogi, anche se
il tempo trascorso in India mi ha messo in guardia dal tentare di definire il tipico yogi. (Non
fatemi cominciare con il produttore di latticini irlandese, che ho conosciuto qui l’altro giorno, o
l’ex suora del Sud Africa.) Richard è arrivato a questo yoga attraverso una ex fidanzata, che
lo aveva portato in auto dal Texas all’ ashram di New York per sentir parlare la guru. Richard
mi ha raccontato: «Ho pensato che l’ashram fosse la cosa più strana che avessi mai visto, e
mi domandavo dov’e-ra la stanza in cui ti fanno consegnare tutti i tuoi soldi e il contratto di
proprietà della casa e della macchina, ma non è mai successo nulla del genere...».
Dopo quell’esperienza, circa dieci anni prima, Richard si è ritrovato a pregare tutto il
tempo. La sua preghiera era sempre la stessa. Continuava a supplicare Dio: «Per favore, per
favore, per favore apri il mio cuore». Era quello che voleva - un cuore aperto. E concludeva
sempre la sua preghiera chiedendo a Dio: «E ti prego, mandami un segno quando sta per
succedere». Adesso, ricordando quel periodo, dice: «Sta’ attenta a ciò che chiedi a Dio, cara
Senza Fondo, perché potresti averlo». Dopo qualche mese di preghiere perché il suo cuore
venisse aperto, che cosa pensate che Richard abbia ottenuto? Un’operazione d’urgenza a
cuore aperto. Il suo torace è stato letteralmente spaccato in due, le costole separate l’una
dall’altra per consentire alla luce di raggiungere il suo cuore, come se Dio stesse dicendo: «è
questo il segno che volevi?». Adesso Richard è più cauto quando prega, mi ha detto che non
dimentica mai di raccomandarsi a Dio con queste parole: «Ma sii gentile con me, per favore».
«Come posso migliorare i miei esercizi di meditazione?» domando a Richard un giorno,
mentre mi guarda pulire i pavimenti del tempio. (Lui è fortunato - lavora in cucina, non ha niente da fare fino a un’ora prima della cena. Ma gli piace guardarmi pulire i pavimenti del tempio. Pensa che sia divertente.)
«Perché ti preoccupi, Senza Fondo?»
«Perché i miei esercizi fanno schifo.»
«Cioè?»
«Non riesco a tenere la mente ferma.»
«Ricorda cosa c’insegna la guru - se siedi con la pura intenzione di meditare, qualunque
cosa accada dopo non ti riguarda. Allora perché ti metti a giudicare la tua esperienza?»
«Perché quello che mi accade durante la meditazione non può essere l’oggetto di questo
yoga.»
«Bella mia, tu non hai idea di quello che accade durante le tue meditazioni.»
«Io non ho mai visioni, non ho mai esperienze trascendenti...»
«Vuoi vedere dei bei colori? O vuoi conoscere la verità su te stessa? Qual è il tuo
scopo?»
«Quando cerco di meditare, riesco solo a litigare con me stessa.»
«è solo il tuo ego, che cerca di mantenere il controllo. Lui continua a farti sentire divisa, ti
trasmette un senso di dualità, cerca di convincerti che hai qualcosa che non va, che sei disperata e sola, invece che intera e completa.»
«Ma allora a che mi serve il mio ego?»
«Non deve servirti proprio a nulla. Il compito del tuo ego non è di servire te. Il suo scopo è
mantenere il potere. E in questo momento, il tuo ego è spaventato a morte perché sta per essere ridimensionato. Segui il tuo cammino spirituale, piccola, e quel ragazzaccio avrà i giorni
contati. Lui sarà fuori gioco, e il tuo cuore potrà cominciare a prendere le decisioni.
Il tuo ego lotta per sopravvivere giocando con la tua mente, cercando di affermare la sua
autorità, tentando di metterti in un angolo, in un recinto, lontana dal resto dell’universo. Non
ascoltarlo.»
«Come si fa a non ascoltarlo?»
«Hai mai provato a togliere un giocattolo a un bambino piccolo? Scalcerà, protesterà...
L’unico modo per riuscirci è distrarlo, dandogli qualcos’altro con cui giocare. Invece di
cercare di strappare a forza i pensieri alla tua mente, prova a darle qualcosa di meglio con
cui giocare. Qualcosa di più salutare.»
«Ad esempio?»
«Ad esempio amore, mia piccola Senza Fondo. Puro divino amore.»
45
Entrare nella grotta della meditazione dovrebbe rappresentare ogni giorno un momento di
comunione con Dio, ma negli ultimi tempi mi ci sono avventurata con molte esitazioni, restia
come la mia cagna quando entrava nello studio del veterinario (sapeva che, indipendentemente dall’amicizia che le veniva dimostrata, avrebbe finito con il sentire la dolorosa puntura
di un ago). Dopo la mia ultima conversazione con Richard il texano, però, sono decisa a
tentare un nuovo approccio. Mi siedo a meditare, e dico alla mia mente: «Capisco che tu sia
spaventata. Ma non sto cercando di annientarti, davvero. Desidero solo darti un posto dove riposare. Ti voglio bene».
L’altro giorno un monaco mi ha detto: «Il posto dove la mente riposa è il cuore. La mente
sente tutto il giorno fra stuono di campane, rumore e discussioni, e invece vuole solo tranquillit. Il luogo dove la mente troverà pace è il silenzio del cuore. è là che hai bisogno di andare».
Sto provando anche un mantra diverso. è un mantra con cui ho avuto fortuna in passato.
è semplice, solo due sillabe:
Ham-sa.
In sanscrito significa «Io sono Quello».
Gli yogi dicono che Ham-sa è il mantra più naturale, quello che riceviamo tutti da Dio
prima della nascita. è il suono del nostro stesso respiro. Ham quando si inspira, sa quando si
espira. (Ham, infatti, si pronuncia a bassa voce, con la «a» bene aperta... E sa fa rima con
«Ahhhh...».) Ogni volta che inspiriamo e espiriamo, per tutta la vita, ripetiamo questo mantra.
Io sono Quello. Sono divino, sono con Dio, sono un’espressione di Dio, non sono un’entità
separata, non sono sola, non sono la limitata illusione di un individuo. Ho sempre trovato
Ham-sa facile e riposante, più facile per meditare che non Om Namah Shivaya, il mantra
«ufficiale» di questo yoga. Il monaco dell’altro giorno mi ha detto di usare pure Ham-sa, se
aiuta la mia meditazione. Ha detto: «Meditare provoca comunque una rivoluzione nella tua
mente».
E così oggi me ne starò qui seduta con Ham-sa.
Ham-sa.
Io sono Quello. I pensieri arrivano, ma non li ascolto, piuttosto li ammonisco in tono materno: «Vi conosco, ragazzacci birichini... adesso andate fuori a giocare... la mamma sta
ascoltando Dio».
Ham-sa.
Io sono Quello.
Per un po’ mi addormento. (O qualcosa del genere. Nella meditazione, non puoi mai essere veramente certa se quello che tu credi sia sonno lo è veramente; qualche volta, è solo
un altro livello di coscienza.) Quando mi sveglio, diciamo così, sento una leggera energia
elettrica pulsare attraverso il mio corpo, a ondate azzurrine. è un po’ allarmante, ma anche
sorprendente. Non so che cosa fare, mi limito a rivolgermi silenziosamente a questa energia.
Le dico: «Io credo in te» e come per rispondermi le ondate si amplificano, acquistano
volume. Adesso l’energia è paurosamente forte. Sta salendo con un ronzio verso l’alto, dalla
base della mia spina dorsale. Il mio collo vuole stirarsi e torcersi, e io gli consento di farlo. Mi
sorprendo nella più strana delle posizioni - seduta con la schiena eretta come un bravo yogi,
ma con l’orecchio sinistro premuto contro la spalla sinistra. Non so perché la testa e il collo si
siano posizionati così, ma non ho intenzione di discutere con loro; sono troppo insistenti. La
pulsante energia azzurra continua ad avanzare lungo il mio corpo e le orecchie sono invase
da un suono sordo e rombante, così forte che non riesco a resistere.
Mi spaventa così tanto che dico: «Non sono ancora pronta!», e spalanco gli occhi. Tutto
sparisce. Sono di nuovo nella grotta. Guardo l’orologio. Sono stata qui - o da qualche altra
parte - per quasi un’ora.
Sto ansimando, letteralmente ansimando.
46
Per capire che cos’è successo (intendo sia nella grotta della meditazione, sia dentro di
me), bisogna fare riferimento a un tema esoterico e sconcertante: il kundalini shahti.
Tra i fedeli di ogni religione del mondo si è sempre formato almeno un sottoinsieme di
seguaci in cerca di un’esperienza diretta e trascendente con Dio, che si sono allontanati dallo
studio letterale delle scritture o dai dogmi al fine di incontrare direttamente il divino. La cosa
interessante è che quando questi mistici descrivono le loro esperienze, finiscono tutti per parlare di uno stesso fenomeno. Generalmente, la loro unione con Dio avviene durante la meditazione, tramite una fonte di energia che riempie l’intero corpo di euforia, di luce, di elettricità.
I giapponesi chiamano questa energia hi, i buddhisti cinesi la chiamano chi, i balinesi la
chiamano taksu, i cristiani la chiamano Spirito Santo, gli aborigeni del Kalahari la chiamano
n/um (i loro santoni la descrivono come una forza simile a un serpente che sale dalla spina
dorsale e apre un buco nella testa, dal quale poi entrano gli dèi). I poeti sufi islamici chiamano
quell’energia divina «la Diletta» e le hanno dedicato poemi devozionali. Gli aborigeni australiani descrivono un serpente nel cielo, che discende sullo sciamano e gli conferisce poteri
ultraterreni. Nella tradizione ebraica della Kabbalah si dice che quest’unione con il divino
avvenga attraverso diverse fasi di ascensione spirituale, con l’energia che, di nuovo, corre su
per la spina dorsale lungo una serie di invisibili meridiani.
Santa Teresa d’Avila, tra le massime figure della mistica cattolica, ha descritto l’unione
con Dio come la sensazione fisica di un’ascensione luminosa attraverso le sette «dimore» interiori che precedono il punto in cui si giunge alla presenza di Dio. Santa Teresa cadeva in
trance meditative così profonde che le altre suore non sentivano più battere il suo cuore. Lei
le implorava di non raccontare a nessuno quello che avevano visto, perché si trattava di «una
cosa straordinaria che non avrebbe mancato di suscitare chiacchiere e critiche». (Per non
parlare di un possibile interrogatorio da parte dell’Inquisitore...) L’impresa più difficile, ha
scritto la santa nelle sue memorie, consiste nel non provocare l’intelletto durante la meditazione, perché ogni pensiero della mente - anche le più fervide preghiere - estingue il fuoco
di Dio. Una volta che la fastidiosa mente «comincia a comporre discorsi e immaginare argomenti di discussione, specialmente se sono intelligenti, in poco tempo si convincerà di star
svolgendo un compito importante», che necessita di tutta l’attenzione. Ma se si riesce a ignorare questi pensieri, ha spiegato Teresa, e ad ascendere verso Dio, si raggiungerà «uno stato
di glorioso stupore, una follia celestiale nella quale si acquisirà la vera saggezza ». Facendo
senza saperlo eco alle poesie di Hafiz - il mistico persiano sufi che si domandava perché, con
un Dio così meravigliosamente amoroso, non siamo sempre tutti ubriachi - Teresa scrive che,
se queste esperienze di comunione con Dio sono pura follia, allora non ci resta che supplicarlo con le parole: «Padre, ti preghiamo: facci impazzire tutti!».
Poi, nelle pagine seguenti del suo libro, è come se sì fermasse a riprendere fiato. Leggendo santa Teresa oggi, la si può quasi immaginare mentre esce da quell’esperienza di delirio per guardare la situazione politica della Spagna medioevale (una delle più repressive tirannie religiose della Storia) e, con sobrietà, diligentemente, scusarsi per la sua eccitazione.
Scrive: «Perdonatemi se sono stata molto audace», e continua a ripetere che tutto il suo blaterare senza senso va ignorato perché lei è solo una donna, un verme, uno spregevole parassita e così via. Pare quasi di vederla mentre si ricompone la gonna da suora e si rimette a
posto quegli ultimi ciuffi di capelli disordinati - il suo segreto divino un bruciante falò a tutti
celato.
Nella tradizione yogica indiana, questo segreto divino è chiamato kundalini shakti, ed è
raffigurato come un serpente che giace attorcigliato alla base della spina dorsale finché non
viene liberato dal tocco di un maestro o da un miracolo, e poi risale attraverso sette chahra, o
ruote (che si possono anche chiamare «le sette dimore dell’anima»), entra nella testa ed
esplode nell’unione con Dio. Questi chakra non si trovano nel corpo manifesto, dicono gli
yogi, dunque non vanno cercati lì; esistono so
lo nel corpo inafferrabile, quello a cui si riferiscono i maestri buddhisti quando incoraggiano i loro discepoli a estrarre un nuovo io dal corpo fisico, proprio come si estrae una spada
dal fodero. Il mio amico Bob, che è uno studente di yoga ma anche un neuroscienziato, mi ha
detto che in passato il concetto di chakra lo aveva sempre turbato, e che avrebbe voluto
vedere queste sette «ruote» in un corpo umano sezionato per credere nella loro esistenza,
ma dopo un’esperienza meditativa trascendente, era arrivato a uno stadio di comprensione
del tutto nuovo. «Proprio come di un testo scritto esistono una verità letterale e una verità poetica, anche di un essere umano esistono un’anatomia letterale e un’anatomia poetica. La
prima si può vedere, l’altra no. La prima è composta di ossa, denti e carne; l’altra è fatta di
energia, memoria e fede. Ma sono vere entrambe.»
Mi piace quando la scienza e la devozione si intersecano. Non molto tempo fa, ho letto un
articolo sul «New York Times» in cui si parlava di un gruppo di neurologi che hanno monitorato il cervello di un monaco tibetano offertosi volontario per l’esperimento. Volevano esaminare dal punto di vista neurologico che cosa accade nella mente di un mistico durante i momenti d’illuminazione.
Nella mente di una persona che pensa, infuria una tempesta elettrica di impulsi che viene
registrata dall’elettroencefalogramma con lampi gialli e rossi. Se il soggetto si agita o si infervora, i lampi rossi diventano più intensi. Mistici di tutti i tempi e di tutte le culture hanno
descritto la sospensione di ogni attività intellettiva durante la meditazione affermando che
solo allora avviene l’unione con Dio tramite la comparsa di una luce azzurra che si irradia dal
centro del cranio. Nella tradizione yo-gica, questa luce è chiamata «la perla azzurra» e pro-
varne l’esperienza è l’obiettivo che si prefigge ogni persona in cerca della trascendenza. Il
cervello del monaco, monitorato durante la meditazione, era apparso ai medici perfettamente
quieto, non aveva emesso impulsi di alcun tipo, l’elettroencefalogramma non aveva mostrato
lampi né rossi né gialli. Tutta la sua energia neurologica si era concentrata nel centro del
cervello - la si poteva vedere proprio lì, sul monitor - in una piccola, fredda, luminosa perla
azzurra. Proprio come quella descritta dagli yogi.
Questo è lo scopo del kundalini shaktì.
Il misticismo indiano, come molte tradizioni sciamaniche, considera il kundalini shakti una
forza troppo pericolosa perché la si affronti da soli, senza un supervisore; a uno yogi inesperto si può annientare il cervello, se non ha chi lo aiuta. Ci vuole un maestro - un guru - che faccia da guida e, idealmente, un luogo sicuro - un ashram - dove esercitarsi.
Si dice che sia il tocco del guru (da intendersi sia come contatto fisico, sia soprannaturale
- per esempio, sognato) che libera l’energia kundalini dalla sua posizione attorcigliata alla
base della spina dorsale e le consente di cominciare a viaggiare verso l’alto, in direzione di
Dio. Il momento dello scioglimento è chiamato shaktipat, o divina iniziazione, ed è il più
grande dono che un maestro illuminato possa offrirci. Dopo quel tocco, il discepolo potrebbe
ancora cercare per anni l’illuminazione, ma a quel punto il viaggio è incominciato. L’energia è
stata liberata.
Ho ricevuto l’iniziazione shaktipat due anni fa, quando ho incontrato la mia guru per la
prima volta, ancora in America. E successo durante un ritiro di un week-end, nel suo ashram
sui monti Catskill. A voler essere onesti, dopo non ho sentito niente di speciale. Speravo in un
incontro elettrizzante con Dio, forse qualche lampo azzurro o una visione profetica, ma cercando nel mio corpo gli effetti travolgenti dell’iniziazione, mi rendevo conto di avere solo un
certo appetito, come al solito. Mi ricordo di aver pensato che probabilmente non avevo abbastanza fede per provare qualcosa di così sconvolgente come il liberarsi del kundalini shakti.
Mi sono detta che ero troppo cerebrale, non abbastanza intuitiva, e che il mio percorso devozionale sarebbe probabilmente stato più di tipo intellettuale che esoterico. Avrei pregato,
letto libri, formulato pensieri interessanti, ma, probabilmente, non sarei mai ascesa al tipo di
divina beatitudine descritto da santa Teresa. Pazienza. Amavo ancora l’esercizio devozionale. Solo il kundalini shakti non faceva per me.
Il giorno seguente, tuttavia, era accaduto qualcosa di davvero strano. Eravamo di nuovo
tutti insieme alla guru. Lei ci guidava nella meditazione, e nel bel mezzo del processo io mi
sono addormentata (o come volete chiamarlo) e ho fatto un sogno. Ero su una spiaggia, in
riva all’oceano. Le onde erano immense e terrificanti, e crescevano sempre più. Improvvisamente, un uomo è apparso accanto a me. Era il maestro della mia guru - un grande, carismatico yogi, che qui chiamerò «Swamiji» (in sanscrito vuol dire «diletto monaco»), Swamiji è
morto nel 1982. L’avevo visto solo nelle fotografìe esposte nel-l’ashram. E anche in fotografia
- devo ammetterlo - lo avevo sempre trovato un po’ troppo temibile, duro e infervorato per i
miei gusti. Avevo evitato per molto tempo di pensare a lui, eludendo il suo sguardo che mi fissava dalle pareti. Mi dava una sensazione di oppressione. Non era il mio genere di guru.
Avevo sempre preferito la mia cara e compassionevole maestra
- guru al femminile e per di più vivente - a questo maestro deceduto, ma ancora terribile.
Eppure Swamiji adesso mi appariva in sogno, in piedi accanto a me sulla spiaggia, in tutta
la sua forza. Ero terrorizzata. Lui mi ha indicato le onde che si abbattevano con violenza sulla
riva e ha detto in tono severo: «Io voglio che tu trovi un modo per impedire alle onde di avanzare». In preda al panico, ho tirato fuori un quaderno e ho cercato di disegnare qualcosa di
immaginario che fermasse le onde. Enormi barriere, canali e dighe. Ma tutti i miei progetti
erano stupidi e irrazionali. Sapevo di essere lontana dalla mia sfera di conoscenze (non sono
un ingegnere!) e nello stesso tempo sentivo che Swamiji mi guardava, impaziente e arcigno.
Mi sono arresa. Nessuna delle mie trovate era abbastanza astuta, nessuno dei miei argini abbastanza resistente da impedire alle onde di frangersi.
Ed è stato in quel momento che ho sentito Swamiji ridere. Ho alzato lo sguardo su quel
minuscolo indiano vestito di arancione, e ho visto che rideva veramente, piegandosi in due e
asciugandosi le lacrime. Poi, indicandomi lo sterminato e possente oceano in burrasca, mi ha
detto: «Scusa tanto, mi spieghi come intendevi fermarlo, precisamente?».
47
Per due notti di fila ho sognato un serpente che entrava nella mia stanza. Ho letto che dal
punto di vista spirituale è da considerarsi un segno positivo (e non solo secondo le religioni
orientali; anche sant’Ignazio aveva visioni di serpenti durante le esperienze mistiche), ma il
buon auspicio non rende l’immagine di un serpente meno vivida e spaventosa. Mi sono svegliata in un bagno di sudore. Peggio: una volta sveglia, la mia mente ha cominciato a prendersi gioco di me, gettandomi in una disperazione che non ricordavo di avere più provato
dagli anni peggiori del divorzio. Ho gli occhi aperti e sento i miei pensieri volare all’indietro, li
sento tornare al mio matrimonio fallito, alla vergogna e alla rabbia di allora. Ancora peggio:
sto ripensando a David. Litigo con lui, tra me e me, sono furibonda e sola, mi tornano in
mente le cose dolorose che mi ha detto o che mi ha fatto. E in più, non riesco a smettere di
rimpiangere la nostra felicità insieme, l’eccitante delirio dei giorni più belli. A stento resisto alla
tentazione di saltare giù dal letto e telefonargli dall’india nel cuore della notte, per poi, probabilmente, riattaccare la cornetta. O per implorarlo di amarmi ancora. O per leggergli l’elenco
completo dei suoi difetti.
Perché tutti questi ricordi riaffiorano proprio adesso?
Immagino il commento dei veterani del nostro ashram: è normale, tutti attraversano
questa fase, l’intenso esercizio meditativo fa riemergere il passato, ti stai liberando degli ultimi
demoni rimasti... Lo so, ma io mi trovo in uno stato emotivo tale da non riuscire a sopportare
nulla del genere, e non voglio sentire le teorìe hippie di nessuno. Lo vedo che ogni cosa sta
tornando su, grazie tante. Anche il vomito torna su.
In qualche modo riesco a riaddormentarmi, per fortuna, e faccio un altro sogno. Niente
serpenti questa volta, ma un cane magro e feroce che m’insegue e dice: «Ti ucciderò. Ti uccider e ti mangerò».
Mi sveglio piangendo e tremando. Non voglio disturbare i miei compagni di stanza, e così
vado a nascondermi in bagno.
Il bagno, sempre il bagno! Che il Cielo mi aiuti, eccomi di nuovo in un bagno, di nuovo nel
cuore della notte, di nuovo sola e in lacrime. Oh, gelido mondo - sono così stanca di te e di
tutti i tuoi orribili bagni.
Dato che non riesco a smettere di singhiozzare, vado a prendere un quaderno e una
penna (ultimo rifugio di una canaglia...) e mi siedo ancora una volta di fianco al gabinetto.
Apro su una pagina bianca, e scarabocchio l’ormai familiare implorazione: «HO bisogno del
tuo aiuto».
Finalmente con un sospiro di sollievo leggo nella mia stessa grafia le parole sincere del
mio fedele amico (ma chi sarà?): «Sono qui. è tutto a posto. Ti voglio bene. Non ti lascio...».
48
La mattina seguente, la meditazione è un disastro. Disperata, supplico la mia mente di
farsi da parte e di lasciarmi trovare Dio, ma lei mi dice con volontà d’acciaio: «Non lascerò
mai che tu mi metta da parte».
Per tutto il giorno sono così piena di odio e rancore che temo per la vita di chiunque incroci il mio cammino. Tratto male una povera tedesca perché non parla bene l’inglese e non
capisce dov’è il negozio di libri. Mi vergogno della mia rabbia e vado a nascondermi (ancora!)
in bagno per piangere in pace, poi m’indigno con me stessa per aver pianto, e mi viene in
mente che la mia guru dice di non lasciarsi andare ogni volta, altrimenti diventa un’abitudine...
Ma che ne sa lei? Lei è illuminata. Non può aiutarmi. Non può capire me.
Nessuno deve rivolgermi la parola. In questo momento non posso tollerare la faccia di
nessuno. Per un po’ riesco a evitare anche Richard il texano, ma all’ora di cena mi trova e si
siede, coraggioso, nel bel mezzo della nera nebbia che mi circonda.
«Com’è che sei tutta così accartocciata?» Strascica le parole, lo stuzzicadenti in bocca,
come al solito.
«Non domandarmelo» rispondo, ma poi comincio a parlare e gli racconto tutto, concludendo: «E, quel che è peggio, sono ossessionata da David. Pensavo di averlo dimenticato,
ma “torna su” di nuovo».
«Concedigli altri sei mesi, ti sentirai meglio.»
«Gliene ho già concessi dodici, Richard.»
«Forza, altri sei. Continua a lanciargli mesi addosso finché non se ne andrà. Roba del
genere richiede tempo.»
Dalle mie narici, come da quelle di un toro, esce uno sbuffo di aria calda.
«Senti» dice Richard, «un giorno ripenserai a questo momento della tua vita come a un
dolce periodo di dolore. Capirai che eri in lutto e il tuo cuore era a pezzi, ma la tua vita stava
cambiando e ti trovavi nel miglior posto al mondo, un bellissimo luogo di preghiera e adorazione del divino, circondata di grazia. Goditi questo periodo, goditi ogni minuto. Lascia che
le cose si risolvano da sole, qui in India.»
«Ma io Io amavo veramente.»
«Sai che gran cosa. Va bene: ti eri innamorata. Ma non vedi che cos’è successo? Lui ha
toccato un punto del tuo cuore più profondo di quanto tu stessa pensassi. Sto dicendo che sei
stata travolta, piccola. Ma l’amore che hai sentito è solo l’inizio. Hai avuto un assaggio
dell’amore. E di un limitato, piccolo, dilettantesco amore mortale. Aspetta e vedrai quanto più
profondamente puoi amare. Diavolo, un giorno avrai la capacità di amare il mondo intero. E il
tuo destino. Non ridere.»
«Non sto ridendo», infatti stavo piangendo. «E per favore, non prendermi in giro, ma non
riesco a farmene una ragione, perché credevo davvero che David fosse la mia anima
gemella.»
«Probabilmente lo era. Il problema è che tu non sai cosa significhi. La gente crede che
l’anima gemella sia come un vestito che ci sta alla perfezione, e tutti la cercano per questo. E
invece è uno specchio che ti mostra tutti i tuoi limiti, e attira la tua attenzione su di te, facendoti capire che è il momento di cambiare la tua vita. Una vera anima gemella è forse la
persona più importante che tu possa incontrare, perché demolisce i muri che ti circondano e ti
sveglia di colpo. Ma non puoi pensare di vivere per sempre con ei. Per carità! Troppo doloroso. Le anime gemelle arrivano nelle nostre vite proprio per farci scoprire un’altra parte di noi
stessi, un altro strato, e poi se ne vanno. Grazie a Dio, se ne vanno. Tu dici, non riesco a lasciarlo andare. Ma è finita, ragazza. La funzione di David era quella di darti una scossa, di
guidarti fuori da un matrimonio del quale volevi liberarti; David doveva dare un piccolo strappo
al tuo ego, mostrarti gli ostacoli e le dipendenze, doveva aprire di colpo il tuo cuore, perché
potesse entrare una nuova luce, doveva farti disperare e perdere il controllo, tanto da
costringerti a trasformare la tua vita, presentarti al tuo maestro spirituale, e farcela. Questo
era il suo compito, e lo ha fatto benissimo, ma adesso basta. Tu non riesci ad accettare che
fosse una relazione a breve scadenza. Sei come un cane che fruga in una discarica: stai lec-
cando un barattolo vuoto per sfamarti. Ma se non stai attenta, quel barattolo ti resterà attaccato al muso per sempre, e renderà la tua vita un tormento. Lascialo perdere.»
«Ma lo amo.»
«E allora amalo.»
«E mi manca.»
«E allora che ti manchi. Mandagli amore e luce ogni volta che pensi a lui, e poi lascialo
perdere. Hai paura di mollare gli ultimi pezzi di David, perché allora sarai veramente sola, e
Liz Gilbert ha paura di quello che accadrà se sarà veramente sola. Ma devi capire questo:
se sgomberi lo spazio mentale che stai dedicando al pensiero ossessivo di quest’uomo, otterrai un vuoto - una possibile apertura. E indovina che cosa farà l’universo quando troverà
quell’apertura? Ci si precipiterà dentro - Dio si precipiterà dentro e ti riempirà di più amore di
quanto avresti mai potuto sognare. Smetti di usare David per bloccare quella porta. Dimenticalo.»
«Ma vorrei che io e David potessimo...»
M’interrompe. «Lo vedi il problema? Tu vuoi troppo. Smetti di avere l’ossicino dei desideri
al posto della spina dorsale.»
Ecco la mia prima risata di oggi.
Poi domando a Richard: «Allora, quanto tempo ci vorrà perché il dolore passi?».
«Vuoi una data?»
«Sì.»
«Vuoi fare un cerchietto sul calendario?»
«Sì.»
«Ti dico una cosa, tesoro: tu soffri seriamente di un’ansia di controllo.»
Questa affermazione m’infiamma di rabbia. Ansia di controllo? Io? Ho l’impulso di prenderlo a sberle. E poi, dall’abisso della mia indignazione, vedo venire a galla la verità. Ovvia e
risibile.
Richard ha ragione. La rabbia si placa.
«Hai assolutamente ragione» gli dico.
«Lo so, cara. Sei una donna forte, abituata a ottenere quel
lo che vuole dalla vita. I tuoi ultimi legami, invece, ti hanno delusa e tu ti sei sentita disorientata. Tuo marito non si è comportato come avresti voluto, e neanche David. Per una volta
non è andata come volevi. E niente fa imbestialire di più i fanatici del controllo.»
«Non chiamarmi fanatica del controllo, per favore.»
«Tu hai veramente un’ansia di controllo. Avanti, possibile che nessuno te l’abbia mai detto
prima?»
(Insomma... sì. Ma è che, dopo un divorzio, si è veramente stanchi di ascoltare le cose
cattive che gli altri dicono di noi...)
Mi riprendo e ammetto: «Va bene, penso che tu abbia ragione. Forse ho veramente un
problema di controllo. Ma è strano che tu lo abbia notato. Perché non pensavo che fosse così
evidente. Voglio dire - scommetto che quasi nessuno di quelli che incontro vede la mia ansia
di controllo».
Richard il texano ride così forte che quasi fa cadere lo stuzzicadenti.
«Quasi nessuno la vede? Tesoro, persino Ray Charles potrebbe vedere la tua ansia di
controllo!»
«Ottimo, ora penso di averne abbastanza di questa conversazione, grazie.»
«Devi imparare a lasciarti andare, Senza Fondo. Altrimenti, starai male. Non dormirai più
bene la notte. Andrai avanti per sempre a dibatterti, a flagellarti pensando di essere un fiasco.
Cosa c’è che non va in me? Come mai ho sbagliato tutto nei miei rapporti con gli uomini ?
Perché sono un fallimento ? Fammi indovinare - è per questo che te ne andavi in giro ieri
notte invece di dormire.»
«Basta, Richard, basta davvero. Non voglio più che scorrazzi per la mia mente, adesso.»
«E allora chiudi la porta» conclude il mio grande yogi texano.
49
Quando avevo nove anni, quasi dieci, mi ricordo di aver avuto una vera crisi metafìsica.
Forse può sembrare strano che una bambina provi un’esperienza simile, ma io sono sempre
stata precoce. E successo nell’estate tra la quarta e la quinta elementare. Avrei compiuto
dieci anni in luglio, e c’era qualcosa nella transizione da nove a dieci - da un numero di una
cifra a un numero di due - che mi turbava fino a comunicarmi una sensazione di panico esistenziale, forse lo stesso che di solito è riservato a chi compie cinquant’anni. Ricordo di aver
pensato che la vita mi stava passando davanti così in fretta. Mi sembrava di avere appena
lasciato l’asilo e improvvisamente già mi ritrovavo ad avere quasi dieci anni. Presto sarei
stata un’adolescente, poi una donna di mezza età, poi una vecchia, e alla fine una morta. E
mi sembrava che anche tutti gli altri invecchiassero iperveloce-mente. Presto sarebbero morti.
I miei genitori sarebbero morti.
I miei amici sarebbero morti. Il mio gatto sarebbe morto. Mia sorella maggiore stava per
cominciare le superiori, ma io ricordavo benissimo la sua prima elementare. Sembrava che
fosse passato così poco tempo, la rivedevo con i suoi calzettoni... e adesso era alle superiori? Presto sarebbe morta anche lei. Non avevo dubbi. Come poteva tutto questo avere un
senso?
La cosa più strana della mia crisi era che non l’aveva provocata nessun episodio specifico. Nessun amico o parente era morto, offrendomi il primo assaggio della mortalità umana,
né avevo letto o visto qualcosa di particolare sulla morte; non avevo ancora nemmeno letto
Dickens. Si può dire che l’origine della mia angoscia di bambina decenne non era dovuta ad
altro se non alla mia autonoma e improvvisa realizzazione della ineluttabilità della morte. E
non avevo, per giunta, il vocabolario spirituale adatto a esprimere i miei nuovi sentimenti. La
mia famiglia era protestante, ma non osservante. Pregavamo e ringraziavamo Dio solo prima
della cena di Natale e di quella del Ringraziamento, e andavamo solo ogni tanto in chiesa.
Mio padre preferiva stare a casa la mattina della domenica, pensava di professare meglio la
sua fede con l’impegno nel lavoro agricolo. Io cantavo nel coro perché mi piaceva cantare; la
mia bella sorellina era l’angelo nella recita di Natale. Mia madre usava la chiesa come quartier generale per l’organizzazione di attività di volontariato utili alla comunità. Ma anche in
chiesa, allora, non ricordo che si parlasse molto di Dio. Eravamo nel New England, e gli yankee, si sa, s’innervosiscono quando sentono la parola Dio.
Mi sentivo impotente. Avrei voluto un gigantesco freno a mano come quelli che avevo
visto nella metropolitana di New York durante una gita scolastica. Volevo fermare l’universo.
Volevo che tutti si bloccassero al mio STOP perché io potessi capire. Forse l’idea di obbligare
tutti a fermarsi per dare a me il tempo di riprendere fiato può considerarsi il primo segno di ciò
che il mio caro Richard chiama «ansia di controllo».
Naturalmente, ogni mio sforzo di allora si era dimostrato vano. Il tempo correva tanto più
veloce quanto più da vicino io l’osservavo e quell’estate passò così in fretta da farmi girare la
testa. Ricordo che ogni sera pensavo: «Un altro giorno se n’è andato», e scoppiavo in lacrime.
Un mio vecchio compagno delle superiori che adesso lavora con i disabili psichici racconta che i suoi pazienti autistici hanno una straziante consapevolezza del tempo che passa,
come se fossero privi del filtro che consente al resto di noi di dimenticare ogni tanto
l’ineluttabilità della fine. Uno dei pazienti di Rob vuole sempre sapere da lui che giorno è, e
alla sera gli domanda: «Rob, quando sarà di nuovo il quattro febbraio?». Prima che Rob
possa rispondere, scuote la testa e aggiunge: «Lo so, lo so, non importa... non prima
dell’anno prossimo...».
Conosco questa sensazione fin troppo intimamente. Conosco il triste desiderio di rimandare la fine di un altro quattro febbraio... Lo struggimento per il tempo che passa è una delle
prove più difficili che gli esseri umani devono sostenere nel loro esperimento esistenziale. Per
quanto ne sappiamo, siamo la sola specie sul pianeta alla quale sia stato elargito il dono - o
inflitta la condanna - della consapevolezza della propria mortalità. Tutto muore; e solo a noi è
toccata la fortuna di poterci pensare ogni giorno. Come possiamo gestire questa consapevolezza? Quando avevo nove anni, non riuscivo a fare altro che piangere. Più avanti, nel corso
degli anni, la mia ipersensibilità al problema del tempo mi ha spinta a vivere ogni esperienza
alla massima velocità. Se la mia visita sulla Terra doveva essere così breve, volevo fare il
possibile per assaporarla subito. Ecco perché ho viaggiato tanto, ho avuto tante avventure
sentimentali, ho coltivato tante ambizioni, ho mangiato tanta pasta. Un’amica di Catherine
credeva che lei avesse almeno tre o quattro sorelle, perché raccontava di quella partita per
l’Africa, di quella che lavorava in un ranch nel Wyoming, di quella che faceva la barista a New
York, di quella che stava scrivendo un libro, di quella che stava per sposarsi... non potevano
certo essere tutte la stessa sorella! E veramente, se avessi potuto dividermi in molte Liz Gilbert, lo avrei fatto, per non perdermi un solo momento della vita. Che cosa sto dicendo? Io ho
diviso me stessa in molte Liz Gilbert, che sono crollate tutte insieme, all’età di trent’anni, una
notte, sul pavimento di un bagno in una casa fuori città...
So che non tutti attraversano crisi metafisiche come quella che ho sperimentato io
nell’infanzia. Alcuni di noi hanno l’angoscia della morte, altri convivono più facilmente con il
problema. S’incontrano persone indifferenti, ma s’incontrano anche persone che semplicemente accettano le regole dell’universo, i suoi paradossi e le sue ingiustizie. Ho un’amica alla
quale la nonna diceva sempre: «Non c’è problema al mondo che non possa essere risolto
con un bagno caldo, un bicchiere di whisky e il Libro dei Salmi». Per qualcuno è davvero così.
Per altri, ci vuole qualcosa di più drastico.
Mi sembra che sia ora di parlarvi del mio amico irlandese produttore di latticini - in apparenza, la persona che meno ci si aspetterebbe d’incontrare in un ashram indiano. Ma Sean è,
come me, uno di quelli nati con l’inquietudine, con il folle desiderio di capire i meccanismi
dell’universo. Nella piccola parrocchia della contea di Cork, dove viveva, non ha trovato risposte ai suoi interrogativi, così negli anni Ottanta ha lasciato l’azienda agricola per andare in
India e cercare la pace interiore nello yoga. Qualche anno dopo è tornato in Irlanda, e ha ripreso il lavoro al caseificio. Un giorno, era seduto nella cucina della sua vecchia casa di
pietra con il padre - uomo di poche parole, contadino da tutta la vita - e gli raccontava le
rivelazioni spirituali che aveva avuto in Oriente. Il padre ascoltava con scarso interesse,
guardando il fuoco nel camino, e fumando la sua pipa. Non ha parlato finché Sean non ha
detto: «Papà, la meditazione è una cosa di un’importanza cruciale, t’insegna la serenità. Può
veramente salvarti la vita. T’insegna a dare pace alla mente».
Suo padre si è voltato a guardarlo e gli ha risposto gentilmente: «Io ho già la mente in
pace, figliolo». Poi ha ripreso a guardare il fuoco.
Ma io no. E neanche Sean. E così molti altri. Molti di noi guardano il fuoco e vedono solo
l’inferno. Ho bisogno d’imparare a fare quello che il padre di Sean sembra saper fare dalla
nascita - stare cioè, come scriveva Walt Whitman, «separato da ciò che attira e trascina... divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, unitario... Dentro e fuori del gioco, osservandolo e meravigliandosi di tutto». Ma, invece di divertirmi, sono solo ansiosa. Invece di osser-
vare, passo il tempo a indagare e interferire. L’altro giorno, in una preghiera, ho detto a Dio:
«Capisco che una vita inconsapevole non valga la pena di essere vissuta, ma pensi che un
giorno potrò fare almeno un pranzo inconsapevole?».
La tradizione buddhista racconta che quando - dopo trentanove giorni di meditazione - il
velo dell’illusione finalmente cadde, e il vero operare dell’universo si rivelò al Buddha, il
grande maestro aprì gli occhi e disse: «Questo non può venire insegnato». Ma poi cambiò
idea e decise di andare per il mondo e tentare d’insegnare la meditazione a un piccolo gruppo
di discepoli. Sapeva che sarebbero stati in pochi a trarre profitto dai suoi insegnamenti (o a
esserne interessati). La maggior parte degli uomini, diceva, ha gli occhi così incrostati dalla
polvere dell’inganno che non vedrà mai la verità, non importa di quale guida disponga. Sono
pochissimi (tra loro forse c’è il papà di Sean) quelli che hanno per natura lo sguardo così
limpido e sereno da non aver bisogno di istruzione o assistenza. Ma c’è anche chi ha gli occhi
solo un po’ incrostati di polvere, e potrebbe, con l’aiuto del maestro giusto, arrivare un giorno
a vedere con più chiarezza. Il Buddha aveva deciso di diventare un maestro per il bene di
questa minoranza - «per quelli con poca polvere negli occhi».
Spero con tutto il cuore di essere una di quelli con incrostatura media, ma non lo so. So
solo che sono stata guidata alla ricerca della pace interiore con metodi che a molti potrebbero
sembrare un po’ drastici. (Per esempio, quando ho detto a un amico, a New York, che sarei
andata in India a vivere in un ashram in cerca della grazia divina, lui ha sospirato e ha detto:
«Ah, c’è una parte di me che desidererebbe tanto volerlo fare... ma in realtà non lo voglio».)
Io, invece, non ho avuto molta scelta. Ho cercato freneticamente la serenità, per tanti anni e
in tanti modi, e tutte queste ricerche e graduali acquisizioni alla fine ti logorano. La vita, se la
insegui con troppo accanimento, finisce per portarti alla morte. Il tempo - quando viene braccato come un bandito - si comporta come tale; sarà sempre in un altro Paese o in un’altra
stanza, cambierà nome e colore di capelli per seminarti, uscirà furtivo dalla porta sul retro del
motel proprio mentre tu stai facendo irruzione nell’atrio sventolando un mandato, e lascerà
solo una sigaretta accesa nel portacenere per beffarsi di te. A un certo punto dovrai fermarti
tu, perché lui non lo farà. Dovrai ammettere che non riesci a prenderlo. E poi capire che non
devi prenderlo. A un certo punto, come continua a dirmi Richard, devi mollare, sederti e restare ferma per permettere alla serenità di venire da te.
La decisione di mollare, naturalmente, fa paura a chi, come me, crede che il mondo giri
solo grazie a una leva che noi azioniamo personalmente, e che se lasciassimo andare questa
leva, anche per un solo istante, insomma... sarebbe la fine dell’universo. Ma cerca di lasciarla
andare, Senza Fondo... Il messaggio che ricevo è questo. Siedi tranquilla e sospendi questa
tua incessante partecipazione. Guarda, gli uccelli non precipitano dal cielo, gli alberi non avvizziscono e non muoiono, i fiumi non scorrono rossi di sangue. La vita continua ad andare
avanti. Persino le Poste italiane continueranno ad arrancare, anche senza di te. Perché sei
così sicura che la tua microgestione del mondo sia essenziale? Perché non lasci perdere?
Ascolto, e questo argomento mi affascina. Ci credo, intellettualmente. Davvero. Ma poi mi
domando: se metto a tacere
il mio inquieto desiderare, il mio sovreccitato fervore e questa mia natura stupidamente affamata - che cosa farò allora della mia energia?
Ecco la risposta della guru:
Cerca Dio. Cerca Dio come un uomo con la testa in fiamme cerca l’acqua.
50
La mattina dopo, durante la meditazione, tutti i miei vecchi, caustici, sgradevoli pensieri
riemergono. Penso a loro come a fastidiosi operatori di cali center, quelli che chiamano nei
momenti meno opportuni. In realtà, temo che la mia mente non sia un posto interessante. E
ho paura di averne la conferma proprio grazie alla meditazione. Io penso a poche cose e
sempre a quelle. Il termine ufficiale per descrivere l’attività del mio cervello è «rimuginare».
Rimugino sul mio divorzio, e sullo strazio del mio matrimonio, e sui miei errori, e sugli errori di
mio marito, e poi (e qui non c’è via d’uscita) comincio a rimuginare su David...
Sta diventando imbarazzante, a essere onesti. Voglio dire: sono qui, nel cuore dell’india,
in un luogo sacro e deputato al
lo studio, e non so fare altro che pensare al mio ex fidanzato? Ma che cosa sono, una
scolara di terza media?
A questo proposito mi torna in mente una storia che mi ha raccontato la mia amica Deborah. Negli anni Ottanta, le era stata offerta dalla città di Filadelfia la possibilità di lavorare
come volontaria con un gruppo di rifugiati cambogiani - boat people - che erano da poco sbarcati in America. Deborah, come ho già detto, è una psicoioga bravissima, ma la proposta di
quel lavoro l’aveva molto spaventata. I rifugiati cambogiani avevano patito le peggiori sofferenze che gli esseri umani possano infliggersi gli uni con gli altri - erano stati vittime di stupri,
torture, violenze, avevano sofferto la fame, avevano visto morire i loro familiari, avevano vissuto lunghi anni in campiprofughi e avevano affrontato pericolosi viaggi in mare verso
l’Occidente, durante i quali i cadaveri di quelli che morivano venivano gettati agli squali. Quale
aiuto poteva offrire Deborah a queste persone? Come poteva stabilire un contatto con la loro
esperienza di dolore?
«Indovina» mi ha detto Deborah «di che cosa volevano parlare quando si trovavano di
fronte lo psicologo...»
Solo di questo: L’ho incontrato quando ero nel campo-profughi e ci siamo innamorati.
Pensavo che mi amasse veramente, ma poi siamo finiti su due barche diverse, e lui si è
messo con mia cugina. Adesso è sposato con lei, ma dice che ama me, e continua a
chiamarmi, e so che dovrei dirgli di sparire, ma lo amo ancora e non posso smettere di
pensare a lui. Non so che cosa fare...
è così che siamo fatti. Questo è il paesaggio emotivo della nostra specie. Una volta ho
conosciuto una vecchia signora, di quasi cento anni, che mi ha detto: «Per tutta la storia
dell’umanità non si è fatto che litigare su due questioni: Quanto mi ami? e Chi comandai».
Qualsiasi altro problema è più o meno risolvibile. Ma le questioni d’amore e di potere ci distruggono, ci spingono a commettere errori, provocano guerre, dolore e sofferenza. E sfortunatamente (o inevitabilmente), sono questi due i problemi che devo affrontare all’ ashram.
Quando osservo in silenzio il lavorio della mia mente, vedo emergere so
lo ansie d’amore o di dominio, e l’inquietudine che ne deriva è ciò che m’impedisce di
evolvere verso un nuovo equilibrio.
Questa mattina, dopo un’ora passata a pensare a cose tristi, ho provato a immergermi
ancora una volta nella meditazione e a lavorare su una nuova idea, l’idea della pietà. Ho chiesto al cuore di darmi una visione più generosa del lavorio della mia mente. Invece di
pensare di essere una fallita, forse potevo accettare d’essere semplicemente umana - come
tutti. I pensieri sono affiorati con la solita insistenza - e va bene, facciamoli entrare - accompagnati dalle relative emozioni. Mi sono sentita frustrata e piena di pregiudizi su me stessa,
sola e arrabbiata. Ma poi, da qualche parte, dalle più profonde caverne del mio cuore, ho sentito arrivare un’ondata di fierezza, e mi sono detta: «No, non ti giudicherò per questi pensieri».
Improvvisamente è stato come se un leone ruggisse nel mio petto, spazzando via con il
suo boato tutte quelle idiozie. Una voce urlava in me, come non avevo mai sentito urlare
prima. Era così forte, profonda e apocalittica, che mi sono tappata la bocca con una mano
perché temevo che se quel grido si fosse liberato nell’aria, sarebbero crollate le case fino a
Detroit.
Il ruggito diceva:
TU NON SAI QUANTO È FORTE IL MIO AMORE !!!!!!
I blateranti pensieri negativi sono usciti dalla mia testa e si sono sparsi al vento sull’onda
di questa frase, sono scappati come uccelli, come lepri e antilopi - terrorizzati. è arrivato il silenzio. Intenso, vibrante, solenne. Il leone, nella savana gigante del mio cuore, osserva adesso soddisfatto la ritrovata quiete del suo regno. Dà una leccata al suo grande pezzo di
carne, chiude gli occhi gialli, e torna a dormire.
In questo regale silenzio, ho cominciato a meditare su (e con) Dio.
51
Richard il texano ha le sue simpatiche abitudini: ogni volta che mi passa vicino e intuisce
dalla mia espressione assente che i pensieri mi hanno trascinata a un milione di miglia di distanza, mi dice: «Come sta David?».
«Fatti gli affari tuoi» gli rispondo. «E non cercare di leggermi nel pensiero.»
E invece ha ragione.
Un’altra delle sue abitudini è quella di aspettarmi sulla porta della grotta di meditazione,
per vedermi quando mi trascino fuori in preda a un totale stravolgimento. Sembra che io abbia lottato con degli alligatori o con dei fantasmi. Richard afferma di non aver mai visto nessuno combattere così strenuamente con se stesso. Non so se ha ragione, ma è vero che
quello che succede nella buia grotta di meditazione può diventare molto intenso. Le esperienze più forti le provo quando mi libero delle ultime timorose riserve e permetto all’energia di salire come un turbine su per la mia spina dorsale. Mi diverte, ora, il pensiero che io abbia potuto in passato liquidare il kundalini shak-ti come un mito o una leggenda. L’energia corre attraverso di me e rimbomba come un motore diesel in prima, e per me ha solo una richiesta:
Vorresti essere così gentile da rivoltarti compieta-mente, così che i tuoi polmoni, il cuore e le
viscere siano all’esterno, e tutto l’universo all’interno? E ti spiace fare lo stesso anche a livello
emotivo ? Il tempo si stravolge in questo spazio di burrasca, e io vengo trasportata - intorpidita, istupidita e attonita - in ogni sorta di mondi, e provo le sensazioni più intense: bruciore,
gelo, odio, desiderio, paura... Quando è tutto finito, mi alzo in piedi barcollante e mi spingo
fuori, nella luce, in uno stato di fame feroce, di sete disperata... Sono più assatanata di un
marinaio in licenza a terra per tre giorni, e Richard è lì che mi aspetta, pronto a farsi una
risata e a provocarmi sempre con la stessa domanda ironica: «Allora, combinerai mai qualcosa di buono, mia vorace Senza Fondo?».
Ma questa mattina, dopo aver sentito il ruggito del leone -tu NON SAI QUANTO È forte il
mio amore!!!! - sono uscita dalla grotta di meditazione come una regina guerriera. Richard
non ha neanche avuto il tempo di domandarmi se ero riuscita a «combinare qualcosa di
buono», perché io l’ho subito guardato negli occhi e gli ho detto: «Cosa fatta, mister».
«Prenditi un’ora di permesso» ha detto Richard. «Dobbiamo festeggiare, bambola. Ti
porto in città e ti offro una Thumbs-Up.»
La Thumbs-Up è una bibita indiana, una specie di Coca-Cola, ma con una percentuale di
glucosio nove volte più grande e il triplo di caffeina. Forse ci sono anche delle metanfetami-ne. Mi fa vedere doppio. Spesso, durante la settimana, io e Richard facciamo un giro
in città e ce ne dividiamo una - un’esperienza decisamente forte, dopo la purezza del cibo vegetariano dell' ashram - sempre attenti a non toccare la bottiglia con le labbra.
La regola di Richard per i soggiorni in India è sensata: «Non toccare mai nient’altro che te
stesso».
Le nostre mete preferite in città sono il tempio, dove ci fermiamo a rendere omaggio, e la
bottega del signor Panicar, il sarto, che ci stringe la mano e ogni volta ci dice: «Mi congratulo
di conoscerla!». Guardiamo le mucche che si godono il privilegio di essere animali sacri
(penso che in realtà ne abusino e occupino il centro della strada solo per sottolineare il loro
status), e i cani che si grattano tormentosamente come se si domandassero perché diavolo
sono finiti lì. Osserviamo le donne impegnate nei lavori stradali che sollevano pietre sotto il
sole rovente e maneggiano il martello pneumatico, scalze, così misteriosamente belle nei loro
sari colorati, adorne di collane e braccialetti. Ci rivolgono radiosi sorrisi e io non riesco nemmeno vagamente a capire come facciano. Come possono essere felici facendo quel lavoro infame in condizioni così terribili? Come fanno a non svenire sotto quel sole allucinante e con i
martelli pneumatici in mano? Lo domando al signor Panicar, il sarto, e lui mi risponde che la
gente dei villaggi di questa parte del mondo è abituata dalla nascita ai lavori più duri, e che
qui le persone non fanno altro che faticare tutta la vita.
«E poi» aggiunge, come senza pensarci, «da noi la vita non è lunga.»
è un villaggio povero, ovviamente, ma non disperato, se si pensa agli standard indiani. La
presenza (e la carità) Ae\Y ashram e la circolazione di un po’ di valuta occidentale fanno la
differenza. Non che ci sia molto da comprare* anche se a me e a Richard piace girare per i
negozi che vendono perline e statuette. Ci sono alcuni abili venditori del Kashmir che cercano
sempre di affibbiarci la loro mercanzia. Oggi, per esempio, ce n’era uno che mi ha inseguita
domandando se proprio «la signora» non voleva comprare un bel tappeto «per la sua casa».
Richard ha riso. Si diverte, tra le altre cose, a prendermi in giro perché sono praticamente
una senzatetto.
«Risparmia il fiato, fratello» ha detto al venditore. «Questa “signora” non ha pavimenti per
i tuoi tappeti.»
Per niente turbato, il venditore ha insistito: «La signora vuole forse un tappeto da appendere al muro?».
«Vedi» gli ha detto Richard, «il problema è che la signora è anche a corto di muri.»
«Ma ho un cuore coraggioso!» ho proclamato per difendermi.
«E altre preziose qualità» ha aggiunto Richard, premiandomi, per una volta, con il lancio
di quest’osso.
52
L’ostacolo più difficile da superare, nella mia esperienza al-V ashram, non è in realtà la
meditazione; quella è difficile, sì, ma non ti uccide. La cosa che invece può anche ucciderti, e
che facciamo ogni mattina dopo la meditazione e prima della colazione (mio Dio, queste mattine sono davvero lunghe) , è un canto chiamato la Guru Gita. Richard lo chiama «la Gita». La
Gita mi mette in difficoltà. Non mi piace per niente, non mi è mai piaciuta, fin dalla prima volta
in cui l’ho sentita cantare nell’ashram sui monti Catskill. Amo tutti gli altri canti e inni di questa
tradizione yogica, ma la Guru Gita mi sembra lunga, tediosa, enfatica e, in una parola, intollerabile. Questa è solo la mia opinione, naturalmente; altra gente sostiene di amarla, anche
se non riesco a immaginare il perché.
La Guru Gita è composta di 182 versi, che devono essere declamati a voce molto alta (e
qualche volta faccio anche questo), e ogni verso è un paragrafo di impenetrabile sanscrito.
Dal preambolo al coro conclusivo, l’esecuzione richiede un’ora e trenta minuti. E, come vi
dicevo, è prevista prima della colazione, quando siamo già reduci da un’ora di meditazione e
venti minuti di inno del mattino. La lunghezza della Guru Gita è il motivo per cui dobbiamo
alzarci alle tre.
Non mi piace la musica di questo canto, e non mi piacciono le parole. Ogni volta che lo
dico a qualcuno dell’ ashram, mi sento rispondere: «Ma è così sacro!». Sì, e lo è anche il
Libro di Giobbe, ma io non scelgo di cantarlo a voce alta ogni mattina prima di colazione.
La Guru Gita ha sicuramente un’ascendenza spirituale di tutto rispetto: fa parte di
un’antica scrittura sacra di yoga chiamata Skanda Purana, quasi completamente perduta
tranne pochi versi che sono stati tradotti dal sanscrito. Come molte scritture yogiche, è in
forma di dialogo, un dialogo quasi socratico che si svolge tra la dea Parvati e il sommo, onnicomprensivo dio Shiva. Parvati e Shiva sono l’incarnazione divina della creatività (divinità
femminile) e della coscienza (divinità maschile). Lei è l’energia generatrice dell’universo; lui è
la saggezza senza forma. Qualsiasi cosa Shiva immagini, Parvati la porta in vita. Lui sogna;
lei materializza. La loro danza, la loro unione (il loro yoga) è la causa dell’universo e insieme
la sua manifestazione.
Nella Guru Gita, la dea chiede al dio i segreti dell’appaga-mento terreno, e lui glieli rivela.
Quest’inno mi infastidisce. Avevo sperato che durante il mio soggiorno all ’ ashram avrei imparato ad amarlo. è successo il contrario. Nel corso di queste poche settimane, i miei sentimenti nei confronti della Guru Gita sono passati dalla semplice antipatia all’autentica repulsione. Adesso la evito, al suo posto faccio cose che penso siano molto più utili alla mia crescita spirituale, come scrivere nel diario, o fare una doccia, o telefonare a mia sorella in
Pennsylvania e domandarle come stanno i bambini.
Richard il texano mi rimprovera sempre perché non mi presento all’ora della Gita. «Ho
notato che questa mattina eri assente» dice, e io: «Comunico con Dio in altri modi», e lui:
«Restando a dormire, forse?».
Ma andarci serve solo ad agitarmi. Fisicamente, intendo. Non mi sembra di seguire il
canto, ma di esserne trascinata. Mi fa sudare, cosa molto strana, perché io sono una di quelle
persone che hanno sempre freddo e, in questa parte dell’india, in gennaio, prima del sorgere
del sole, fa freddo davvero. Durante il canto, tutti sono avvolti in coperte di lana e hanno
il berretto in testa, mentre io, man mano che l’inno procede sempre più tedioso, mi tolgo
uno strato dopo l’altro, schiumando come una bestia da soma. Dopo la Guru Gita, esco dal
tempio, e il sudore evapora dalla mia pelle nell’aria del mattino, come una nebbia, un’orribile,
verde nebbia fetida. La reazione fisica è niente se paragonata al nervosismo che
s’impadronisce di me mentre tento di cantare, senza riuscirci. Riesco solo a gracchiare piena
di risentimento.
Ho detto che è lunga centottantadue versi?
Qualche giorno fa, dopo una sessione particolarmente irritante, ho deciso di chiedere consiglio al mio insegnante preferito - un monaco con un nome sanscrito meravigliosamente
lungo, traducibile più o meno così: «Colui che abita nel cuore del Signore che abita dentro il
suo stesso cuore». è un monaco americano, di sessant’anni, intelligente e colto. è stato professore di teatro classico alla New York University, e ha un’aria venerabile. Ha preso i voti
monastici trentanni fa. Mi piace perché è una persona pratica e divertente. Una volta, in un
cupo momento di confusione su David, gli ho confidato le mie sofferenze amorose. Mi ha
ascoltata gentilmente, mi ha dato un consiglio compassionevole, e poi mi ha detto: «Adesso
bacerò la mia tonaca». Ha sollevato un lembo della tonaca color zafferano e le ha dato un
sonoro bacio. Pensavo che si trattasse di un’arcana usanza religiosa e gli ho domandato che
significato avesse.
Mi ha risposto: «Lo faccio ogni volta che qualcuno viene da me per un consiglio su questioni sentimentali. Ringrazio Dio di essere un monaco, e di non dover più combattere con
queste cose».
Quell’episodio mi ha dato la certezza di potermi sempre confidare con lui, così ho deciso
di parlargli dei miei problemi con la Guru Gita. Siamo andati a fare una passeggiata nei
giardini &e\Y ashram, dopo cena; gli ho spiegato quanto detestavo quell’inno e gli ho chiesto
se, da allora in poi, per favore, poteva esonerarmi dal cantarlo. Il monaco si è messo a rìdere
e ha detto: «Non devi cantarlo, se non vuoi. Qui nessuno ti farà fare una cosa che non vuoi
fare».
«Ma tutti dicono che è una pratica spirituale di vitale importanza.»
«Lo è. Ma non ti dirò che andrai aH’inferno, se ti sottrai. La sola cosa che ti dirò è che la
tua guru è stata molto precisa al riguardo - la Guru Gita è il testo fondamentale del suo yoga,
è forse l’esercizio spirituale più importante, dopo la meditazione. Se hai intenzione di rimanere all’ ashram, la guru si aspetta che tu ti alzi e venga a cantarlo ogni mattina.»
«Non è per non alzarmi presto...»
«E allora, qual è il problema?»
Spiego al monaco perché non sopporto la Guru Gita, e come mai mi sembra tanto tortuoso.
«Ehi, ma davvero ti basta parlarne per contorcerti così?»
Era vero. Potevo sentire il sudore freddo accumularsi sotto le ascelle. Ho domandato:
«Non potrei impiegare quel tempo per altre pratiche? Mi è capitato di andare alla grotta di
meditazione durante la Guru Gita e riuscire a trovare una vibrazione giusta...».
«Ah... Swamiji avrebbe inveito contro di te, ti avrebbe chiamata “ladra del canto altrui”, ti
avrebbe accusata di andare avanti con l’energia prodotta dal lavoro degli altri. Ascolta, la
Guru Gita non è fatto per essere divertente. Ha una funzione diversa. è un testo di una forza
inimmaginabile. è un difficile esercizio di purificazione. Brucia le tue scorie, le tue emozioni
negative. E penso che stia avendo un effetto positivo su di te, se hai reazioni fisiche così forti
mentre lo canti. Può essere doloroso, ma è una fonte di grandi benefici spirituali.»
«Ma come si fa a resistere, a mantenersi motivati?»
«Be’, qual è l’alternativa? Mollare solo perché la cosa sta diventando troppo impegnativa?
Girare a vuoto tutta la vita, triste e incompleta?»
«Che cosa dovrei fare?»
«Devi decidere da sola. Ma il mio consiglio - dal momento che lo hai chiesto - è che tu insista a cantare la Guru Gita mentre sei qui, proprio perché provoca in te una reazione così violenta. è questa la sua funzione. Brucia il tuo ego, lo trasforma in cenere. Non può non essere un’impresa ardua,-Liz. E inaccessibile alla comprensione razionale. Tu starai all 'ashram
solo un’altra settimana, vero? Poi sarai libera di viaggiare e divertirti. E allora, cantalo ancora
sette volte, e poi non dovrai farlo mai più. Ricorda quello che dice la nostra guru - devi essere
come uno studioso, uno scienziato che indaga la propria esperienza spirituale. Non sei qui
come una turista o una giornalista; sei una che cerca. E allora va’ ed esplora.»
«E così non mi toglierà il cappio dal collo?»
«Puoi togliertelo quando vuoi, il cappio, Liz. è quel nonnulla che chiamiamo libero arbitrio.»
53
Così mi sono ripresentata la mattina dopo, piena di buona volontà, e la Guru Gita mi ha
scaraventato a pedate giù per una rampa di scale di cemento alta sei metri... o almeno
questa è stata la mia sensazione. Il giorno dopo è andata anche peggio. Mi sono svegliata
furibonda, e prima ancora di arrivare al tempio, stavo già sudando, ribollendo, grondando.
Continuavo a pensare: «è solo un’ora e mezza - non c’è niente di così tremendo che non permetta di resistere un’ora e mezza. Santo Dio, hai delle amiche che hanno avuto un travaglio
di quattordici ore...». Ma il mio corpo era a disagio, come se mi avessero fissata a una sedia
con la cucitrice. Mi sentivo investita da proiettili di fuoco, tipo vampate da menopausa, e
pensavo che sarei svenuta da un momento all’altro, o mi sarei precipitata a mordere qualcuno
nella mia furia.
Ero fuori di me. Me la prendevo con tutti, ma in particolare con Swamiji - il maestro della
mia guru, che aveva istituito la regola della Guru Gita.
Swamiji era stato un inarrestabile agitatore spirituale. Come san Francesco d’Assisi, era
nato da genitori ricchi e tutti pensavano che si sarebbe occupato dei prosperi affari di
famiglia. Ma quando era ancora un bambino, aveva incontrato un santo in un piccolo villaggio
vicino al suo, e ne era rimasto profondamente colpito. Ancora adolescente, Swamiji aveva
lasciato la sua casa, vestito solo di un perizoma, e aveva vissuto per anni da pellegrino, visitando i luoghi sacri dell’india, in cerca di un vero maestro spirituale. Si dice che abbia conosciuto oltre sessanta tra santi e guru, senza mai trovare il maestro che voleva. Aveva patito la
fame, vagato a piedi, dormito all’aperto durante le tempeste di neve sull’Himalaya, si era
preso la malaria, la dissenteria - e aveva chiamato quegli anni
i più felici della sua vita, gli anni in cui cercava qualcuno che gli mostrasse Dio. Swamiji
era diventato un Hatha Yogi, un esperto in medicina e cucina ayurvedica, un architetto, un
giardiniere, un musicista e uno spadaccino (questo mi piace). Era arrivato alla mezza età e
ancora non aveva trovato un guru, finché un giorno un saggio, nudo e folle, non gli aveva
detto di tornare a casa, e studiare con il grande santo che aveva incontrato da bambino.
Swamiji aveva obbedito, era tornato a casa, ed era diventato il discepolo più devoto di quel
santo, trovando finalmente l’illuminazione grazie alla sua guida.
Swamiji stesso è poi diventato un guru. Con il tempo, il suo ashram in India si è ingrandito
e dalle prime tre stanze in una fattoria si è trasformato nel giardino lussureggiante di oggi. In
seguito Swamiji ha avuto l’ispirazione e ha cominciato a viaggiare in tutto il mondo predicando la nascita di una rivoluzione meditativa universale. è arrivato in America nel 1970 e ha
sconvolto le menti di tutti. Concedeva la divina iniziazione, o shaktipat, a centinaia e migliaia
di persone al giorno. Aveva un potere immediato e trasfigurante. Il reverendo Eugene Callender (un importante leader nella lotta per i diritti civili, compagno di Martin Luther King Junior, e tuttora pastore di una chiesa battista a Harlem) ricorda di aver conosciuto Swamiji negli
anni Settanta, e di essere caduto in ginocchio esterrefatto davanti a lui, pensando fra sé:
«Niente più chiacchiere, ci siamo... Quest’uomo sa quello che c’è da sapere».
Swamiji esigeva entusiasmo, dedizione, autocontrollo. Rimproverava sempre alle persone
di essere jad, la parola hindi per «inerti». Ha insegnato i più antichi valori della disciplina ai
suoi giovani e spesso ribelli seguaci occidentali. Non voleva che perdessero tempo (il loro e
quello degli altri) ed energia con la leggerezza e il libertinaggio hippie. Lanciava loro addosso
il suo bastone da passeggio, e l’attimo dopo li abbracciava. Era complicato, spesso controverso, ma aveva la stoffa del vero innovatore. In Occidente oggi abbiamo accesso a molte delle
antiche scritture yogiche solo perché Swamiji ha presieduto alla loro traduzione, ridando vita
a testi filosofici da tempo dimenticati anche in gran parte dell’india.
La mia guru era la più devota tra i seguaci di Swamiji. Era letteralmente nata per essere
sua discepola; i suoi genitori erano stati tra i primi a credere nel maestro. Era solo una bam-
bina, e già era in grado di salmodiare fino a diciotto ore al giorno, instancabile nella sua devozione. Swamiji aveva riconosciuto la potenziale forza della sua fede, e l’aveva presa con sé
quando era ancora un’adolescente, come traduttrice. La mia guru ha viaggiato per tutto il
mondo con lui, così attenta alla persona del suo maestro da essere capace di cogliere messaggi da ogni parte del suo corpo, perfino dalle ginocchia. Gli è succeduta nel 1982, poco più
che ventenne.
I veri guru si somigliano tra loro poiché vivono tutti in un costante stato di realizzazione di
sé, ma ciascuno si distingue dagli altri nelle caratteristiche esteriori. Le differenze tra la mia
guru e il suo maestro sono profonde - lei è una donna perspicace, laureata e poliglotta, consapevole della sua professionalità; lui era un vecchio leone dell’india del sud, capriccioso e regale insieme. Per una brava ragazza del New England come me, è facile essere una seguace
della mia maestra, prima di tutto perché è viva, poi perché ha una proprietà di modi rassicurante, e infine perché è il tipo di guru che porteresti a casa a conoscere mamma e papà...
Swamiji, invece, era uno fuori del coro, e fin da quando ho visto per la prima volta le sue fotografie e ho sentito parlare di lui, mi sono detta: «Sarà meglio tenersi alla larga da questo signore. Troppo grande. Troppo inquietante».
Ma adesso che sono in India, nell' ashram che era la sua casa, capisco di volere solo
Swamiji. L’unica persona alla quale parlo nelle mie preghiere e meditazioni è Swamiji. Il
canale di Swamiji trasmette per me ventiquattro ore su ventiquattro. Qui sono nella fornace di
Swamiji e posso sentirlo lavorare su di me. Anche se è morto, lo sento vicino e presente. E il
maestro di cui ho bisogno quando sto lottando, perché posso maledirlo e mostrargli tutti i miei
fallimenti e i miei difetti, e lui si limita a ridere. Ridere, e amarmi. La sua risata mi fa arrabbiare
ancora di più, e la rabbia mi spinge ad agire. E non mi è mai tanto vicino come quando sono
alle prese con la Guru Gita e con i suoi imperscrutabili versi in sanscrito. Litigo con Swamiji
nella mia testa, divento insolente, gli urlo contro: «Mi auguro che tu faccia qualcosa per me,
visto che io sto facendo questo per te! è ora che io veda qualche risultato! Spero che sia davvero “purificante”, altrimenti...!». Ieri, quando mi sono resa conto che eravamo solo al venticinquesimo verso, e io già scalpitavo e sudavo (e nemmeno come un essere umano, ma piuttosto come potrebbe sudare un formaggio), mi sono così infuriata che sono esplosa a voce
alta: «Tu mi stai prendendo in girol». Alcune donne, allarmate, si sono voltate a guardarmi,
aspettandosi di vedere la mia testa ruotare di trecentosessanta gradi sul collo, come fossi
posseduta.
In certi momenti riaffiora il ricordo di Roma, delle mattine oziose, dei cornetti con il cappuccino, della quieta lettura del giornale...
Com’era bello.
E come sembra lontano adesso.
54
Questa mattina ho dormito fino all’ora blasfema delle quattro e un quarto - che equivale a
dire che sono una vera cialtrona! Mi sono svegliata solo pochi minuti prima dell’inizio della
Guru Gita, mi sono costretta senza entusiasmo ad alzarmi dal letto, mi sono sciacquata la
faccia, mi sono vestita - infastidita, irascibile e astiosa - e stavo per lasciare la mia stanza, nel
buio pesto che precede l’alba... quando ho scoperto che la mia compagna di stanza, uscendo, mi aveva chiusa dentro a chiave.
Non so come sia successo. Non è una stanza così grande, come ha fatto a non notare
che stavo ancora dormendo nel letto accanto al suo? È una donna responsabile e pratica,
un’australiana madre di cinque figli. Non è nel suo stile. Eppure è successo. Mi ha chiusa
nella stanza - con tanto di lucchetto!
Il mio primo pensiero è stato: «Se cercavo una scusa per non andare alla Guru Gita,
questa è davvero perfetta». Il secondo pensiero... Be’, più che un pensiero, è stata un’azione:
sono saltata giù dalla finestra.
A voler essere precisa, ho scavalcato la ringhiera, tenendomi aggrappata con le mani sudate, sono rimasta appesa nel buio, a due piani di altezza, e solo allora mi sono posta la ragionevole domanda: «Perché stai saltando giù da questo edificio?». Con fredda e orgogliosa
determinazione mi sono risposta: devo arrivare alla Guru Gita, Ho lasciato la presa e con un
volo di cinque metri nell’oscurità sono finita sul marciapiede di cemento sotto di me; nella
caduta ho urtato qualcosa che mi ha strappato una lunga striscia di pelle sullo stinco destro,
ma non me ne importava niente. Mi sono rialzata e sono corsa al tempio, scalza, con il cuore
che mi pulsava nelle orecchie. Ho trovato un posto, ho aperto il libro proprio mentre il canto
incominciava e, con il sangue che mi colava dalla ferita lungo la gamba, mi sono messa a
cantare.
Ho ripreso fiato dopo qualche verso e solo a quel punto si è fatto vivo il mio consueto pensiero mattutino: «Non voglio stare qui». Swamiji è scoppiato a ridere nella mia testa e ha
detto: «è buffo che tu lo pensi, quando hai fatto di tutto per venirci...».
«Hai vinto» gli ho risposto.
Sono rimasta seduta, cantando, sanguinando e pensando che era arrivata l’ora di cambiare il mio atteggiamento. La Guru Gita è un inno d’amore, e così va inteso, ma finora qualcosa mi aveva impedito di offrire sinceramente quell’amore. Ho capito che avevo bisogno di
trovare qualcosa - o qualcuno - cui dedicare il mio canto, per trovare il punto dove si nascondeva in me l’amore puro. Al ventesimo verso l’ho trovato, ed era Nick.
Nick è il mio nipotino, un bambino di otto anni magrolino paurosamente intelligente,
spaventosamente acuto, sensibile e complicato. Quando è nato era l’unico bambino che non
piangeva, ma si guardava intorno con un’espressione da adulto saggia e preoccupata, come
se avesse vissuto l’esperienza altre volte e non fosse sicuro di volerci riprovare. Per Nick la
vita non è mai semplice, lui sente, vede e percepisce ogni cosa con straordinaria intensità, e
qualche volta può essere sopraffatto dalle emozioni al punto da comportarsi in un modo che
ci esaspera tutti. Voglio un bene profondo a Nick, e provo per lui un forte senso di protezione.
Mi sono accorta - facendo il calcolo delle ore di differenza con la Pennsylvania - che quello
era il momento in cui lui di solito va a dormire, e ho cantato la Guru Gita al mio nipotino, per
aiutarlo ad addormentarsi. Qualche volta Nick non riesce a prendere sonno perché non riesce
a mettere in pace la sua mente. Gli ho dedicato quelle parole di devozione. Ho cercato di
trasferire nella mia nenia le cose che avrei voluto insegnargli sulla vita. Ho provato a rassicurarlo con il pensiero, dicendogli che se il mondo qualche volta è duro e ingiusto, lui non deve
temere perché è un bambino protetto e amato, circondato dalle anime di chi gli vuole bene e
farebbe qualsiasi cosa per aiutarlo. E gli ho detto che anche in lui ci sono le virtù della pazienza e della saggezza, solo che sono sepolte nel profondo del suo essere e si riveleranno
con il tempo, accompagnandolo in ogni prova. Sono riuscita a parlare al suo cuore grazie alle
antiche parole sanscrite, e intanto sulla faccia mi scorrevano lacrime rinfrescanti. Prima che
potessi asciugarle, la Guru Gita era finita. Un’ora e mezza. Mi sembrava che fossero passati
dieci minuti. Nick mi aveva aiutato a superare la fatica. La piccola anima che avevo voluto
soccorrere aveva in realtà soccorso me.
Sono andata al tempio e mi sono chinata fino a terra in segno di gratitudine al mio Dio, al
potere rivoluzionario dell’amore, a me stessa, alla mia guru e a mio nipote, e ho sentito
subito, in ogni mia cellula (non con l’intelletto), che non c’è differenza tra queste parole, o
queste idee, o queste persone. Poi sono entrata nella grotta della meditazione, saltando la
colazione, e vi sono rimasta per quasi due ore, immobile ma vibrante.
Inutile dire che non ho più mancato il mio appuntamento con il Guru Gita, diventata tra gli
esercizi spirituali aal' ashram. Naturalmente, Richard il texano non ha mai smesso di prendermi in giro per il salto dalla finestra, e ogni sera dopo cena mi ripeteva: «Ci vediamo alla
Gita, domani, eh? E questa volta, mi raccomando, usa le scale!». Ho telefonato a mia sorella
la settimana successiva, e lei mi ha detto che - inspiegabilmente - da qualche giorno Nick non
aveva più difficoltà ad addormentarsi. E poco tempo dopo, leggendo nella biblioteca sll'
ashram un libro sul santo indiano Sri Ramakrishna, mi sono imbattuta nella storia di una
donna che un giorno, al cospetto del maestro, aveva ammesso di avere dei dubbi sulla propria fede e sul proprio amore per Dio. Il santo le aveva chiesto: «Non c’è niente che ami?».
La donna aveva risposto di amare il nipote più di ogni altra cosa al mondo, e il santo le aveva
detto: «Ecco, lui è il tuo Krishna, il tuo diletto. Nella tua devozione a tuo nipote renderai servizio a Dio».
Ma la cosa più incredibile è successa lo stesso giorno che ho scavalcato la ringhiera del
balcone. Quel pomeriggio ho visto Delia, la mia compagna di stanza. Le ho raccontato che mi
aveva chiusa in camera con il lucchetto. Era inorridita. Ha detto: «Non capisco come ho potuto, anche perché stamattina mi sei venuta in mente diverse volte. Ieri notte ho fatto un
sogno molto vivido, in cui c’eri tu. Non sono riuscita a smettere di pensarci».
«Raccontamelo» le ho chiesto.
«Ho sognato che stavi bruciando e anche il tuo letto stava bruciando. Io mi sono avvicinata per aiutarti ma ormai tu eri solo cenere bianca».
55
è stato in quel momento che ho deciso di restare all’ashram. Non era nei miei piani.
All’inizio volevo restare giusto il tempo necessario a capire che cos’è un’esperienza trascendentale, e poi continuare a viaggiare in India... alla ricerca di Dio... Avevo portato con me
mappe, guide, scarponi da escursionista, tutto il necessario. C’erano templi, moschee e santoni che non vedevo l’ora di visitare... Insomma, è l’india! C’è così tanto da vedere e da sperimentare, qui! Avevo da percorrere tanta strada, volevo entrare nei templi famosi, andare a
dorso d’elefante e di cammello. E dovevo assolutamente vedere il Gange, il grande deserto
del Raja-sthan, le pazzesche sale cinematografiche di Mumbai, le vette del-l’Himalaya, le antiche piantagioni di tè, i risciò di Calcutta che gareggiano l’uno con l’altro come le bighe di Ben
Hur. E, in marzo, avevo persino programmato di incontrare il Dalai Lama, a nord, a Daramsala. Avevo sperato nei suoi insegnamenti su Dio.
Ma stazionare in un piccolo ashram, con vicino solo un villaggio e poi più nulla - no, non
era certo nei miei piani.
Eppure i maestri zen dicono che non puoi vedere la tua immagine riflessa nell’acqua che
scorre, ma solo nell’acqua ferma. E in effetti qualcosa mi diceva che sarebbe stato un atto di
negligenza spirituale fuggire proprio ora che, in quell’angolo raccolto dove ogni istante era
dedicato all’esplorazione di se stessi e alla pratica devozionale, mi stava succedendo qualcosa di tanto importante. Avevo davvero bisogno di prendere treni e parassiti intestinali, in
compagnia di viaggiatori con zaino e sacco a pelo? Non potevo rimandare? Incontrare il Dalai
Lama un’altra volta? E il mio passaporto non era già fitto di timbri come il corpo della Donna
Tatuata? E viaggiare mi avrebbe poi davvero avvicinata alla rivelazione del divino?
Non sapevo cosa fare. Ci ho pensato per un giorno. Come al solito, Richard il texano ha
avuto l’ultima parola. «Fermati, Liz» mi ha detto. «Hai tutta la vita per fare la turista. Il tuo
viaggio di adesso è spirituale. Non puoi fuggire quando conosci solo una parte delle tue potenzialit... Dio ti ha rivolto un invito, non rifiutarlo.»
«E le meraviglie dellTndia? Non è un peccato attraversare mezzo mondo per starsene
tutto il tempo in un piccolo ashram?»
«Bella mia, se mi prometti che per i prossimi tre mesi andrai ogni giorno a posare il tuo bianco culo di giglio nella grotta della meditazione, io ti giuro che vedrai tali meraviglie che il Taj
Mahal ti sembrerà robaccia.»
56
Questa mattina, mentre meditavo, mi sono sorpresa a pensare a quale sarà la città dove
vivrò al mio ritorno negli Stati Uniti.
Non voglio tornare a New York per riflesso condizionato. Vorrei conoscere una nuova
città, invece. Dicono che Austin sia piacevole. Chicago ha bellissimi esempi di grande architettura. E inverni orribili. Ma perché non trasferirmi all’estero? Ho sentito parlare bene di
Sidney... Se scegliessi una città meno cara di New York, potrei permettermi un appartamento
più grande, con una stanza per la meditazione! Sarebbe bello. Potrei dipingerla d’oro. O forse
di un azzurro intenso. No, oro. No, azzurro...
Sorprendendomi in questa catena di pensieri, mi sono spaventata e ho riflettuto: Ma
come? Sei in India, in un ashram che è meta di pellegrinaggio da tutto il mondo e, invece di
cercare di entrare in contatto con il divino, stai pensando a dove mediterai tra un anno, in
quale casa, in quale città. Ma sei stupida? 0 incapace?Perché non cerchi di meditare qui e
adesso, nel luogo dove ti trovi ?
Ho ripetuto tra me il mantra. Ma subito mi sono interrotta di nuovo. Non era molto
amorevole chiamarsi «stupida» e «incapace». Poi, un momento dopo, eccomi di nuovo a immaginare la mia futura stanza di meditazione tutta d’oro.
Ho aperto gli occhi e ho sospirato. Possibile che non possa fare di meglio?
La sera stessa ho tentato una strada nuova. All'ashram ho conosciuto una donna che ha
studiato la Vipassana, una tecnica di meditazione buddhista rigorosa, essenziale e intensiva.
Consiste praticamente nello stare seduti. Un corso introduttivo di Vipassana dura dieci giorni,
stai seduto in silenzio dieci ore al giorno, in sessioni che ne durano due o tre. è la trascendenza intesa come «sport estremo». Il maestro Vipassana non insegna un mantra: significherebbe barare. Bisogna invece essere puri contemplatori dell’attività della propria mente,
osservare il corso dei propri pensieri individuandone il ritmo e la cadenza, e tutto senza
muovere un muscolo.
La cosa, come immaginerete, è fisicamente estenuante. Devi sedere e ripeterti: «Non hai
motivo di muoverti per le prossime due ore». Se provi disagio, devi rifletterci sopra, osservando gli effetti del dolore fisico su di te. Se normalmente, nella vita, ci agitiamo intorno ai
problemi per cercare di sopportarne le conseguenze fisiche e psicologiche, eludendone
l’evidenza, la meditazione Vipassana ci insegna invece a capire che il dolore e il disagio sono
inevitabili, e solo stando fermi è possibile raggiungere la serena consapevolezza che con il
tempo tutto (il brutto come il bello) passa.
«Declino e morte sono le malattie del mondo, per questo il saggio, che sul mondo la sa
lunga, non prova dolore» recita un vecchio insegnamento buddhista. In altre parole: facci il
callo.
Non penso che la tecnica Vipassana sia il percorso adatto a me. è troppo austera rispetto
alla mia nozione di pratica devozionale, che normalmente riguarda la compassione e l’amore,
le farfalle e la beatitudine, e un Dio amichevole (secondo quella che il mio amico Darcey
chiama «teologia da pigiama party»). Nella meditazione Vipassana non si parla nemmeno di
«Dio», dal momento che tale nozione è considerata da alcuni buddhisti fonte di dipendenza
psicologica, al pari di una rassicurante copertina, l’ultima cosa che tiene legati alla sfera terrena sul cammino verso il distacco.
Ora, io non vado molto d’accordo con la parola «distacco», poiché ho incontrato persone
alla ricerca della spiritualità che sembravano vivere nell’assenza di qualsiasi contatto emotivo
con gli altri esseri umani, e quando parlavano della necessità del distacco mi facevano venire
voglia di urlare: «Amici, è Vultima cosa che avete bisogno di praticare!».
Tuttavia, capisco che un certo distacco intelligente, nella vita, possa tornare utile. Ho
cominciato anche a pensare a quanto tempo ho perso in passato a boccheggiare come un
grosso pesce, senza mai prendere le cose di petto o, al contrario, accorrendo dovunque si
trovasse il piacere. E mi sono domandata se non sarebbe un vantaggio per me (e per quelli
che si arrischiano ad amarmi) imparare a stare ferma e a non lasciarmi sempre trascinare
sulla strada accidentata delle circostanze.
Questi interrogativi mi sono affiorati alla mente l’altra sera, su una panchina tranquilla nei
giardini dell’ashram, ed è stato allora che ho deciso di provare per un’ora la meditazione stile
Vipassana. Nessun movimento, nessuna agitazione, neanche un mantra - solo contemplazione. Vediamo che cosa viene fuori, ho pensato. Sfortunatamente, avevo dimenticato che
cosa «viene fuori» in India al tramonto: le zanzare. Appena seduta su quella panchina,
nell’ora magnifica del crepuscolo, le ho sentite arrivare, sfiorarmi la faccia e posarsi - in un assalto di gruppo - sulla mia testa, sulle caviglie e sulle braccia. E ho sentito le loro feroci, piccole punture. Che fastidio. Ho pensato: «Non è un buon momento per la meditazione Vipassana».
D’altra parte, qual è un buon momento della giornata, o della vita, per sedersi immobili e
distaccati? Quando non c’è qualcosa che ci ronza intomo, cercando di distrarci e farci
muovere? Così ho preso una decisione (di nuovo ispirata dalle indicazioni della mia guru, che
ci esorta a diventare osservatori scientifici della nostra stessa esperienza interiore): mi sono
riproposta di restare seduta comunque, ferma per un’ora, senza scacciare gli insetti o lamentarmi... In fondo che cos’è un’ora, in una vita?
Immobile come una statua, mi sono vista divorare dalle zanzare. E se una parte di me si
domandava il senso di quell’e-sperimento masochista, l’altra sapeva che quello era il tentativo
di una principiante di esercitare il dominio su se stessa.
Se fossi riuscita a restare seduta fino alla fine, sopportando quel disagio, che in fondo non
era mortale, quali altri disagi sarei stata in grado di sostenere un giorno? E che dire degli impacci emotivi, che per me sono un problema anche più grande? Avrei imparato a tollerare la
gelosia, la rabbia, la paura, la delusione, la solitudine, la vergogna, la noia?
Il prurito all’inizio era intollerabile, ma poi è confluito in una più generale sensazione di
bruciore, che sono riuscita a trasformare in una lieve euforia. Proprio così: ho fatto in modo
che il dolore si svincolasse dalle sue associazioni tipiche e si riducesse a nient’altro che una
sensazione - né buona né cattiva, solo intensa. Quell’intensità mi ha sollevata, mi ha staccata
da me stessa, lasciandomi meditare in santa pace. Sono rimasta in quello stato per due ore.
Se un uccello si fosse posato sulla mia testa, non me ne sarei accorta.
Riconosco che non stiamo parlando di chissà quale grande atto di stoicismo, di quelli da
medaglia d’onore del Congresso. Ma è stato quasi esaltante realizzare che in trentaquattro
anni non mi era mai capitato di non tentare di uccidere una zanzara che mi stesse pungendo.
Di fronte al dolore o al piacere, grandi o piccoli che fossero, ho sempre reagito, come un
pupazzo a molla. Questa volta non avevo risposto a un impulso. Nessuna reazione. Una piccola cosa, certo, ma sempre un primo passo. Il problema, piuttosto, è: di fronte a difficoltà più
grandi, sarò in grado di ripetere l’esperienza?
Quando sono tornata nella mia stanza ho valutato il danno. Ho contato circa venti punture
di zanzara. Ma dopo mezz’ora si erano ridotte. Tutto passa. Alla fine, tutto passa.
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La ricerca di Dio comporta un capovolgimento del normale ordine delle cose del mondo: ci
allontaniamo da quello che ci attrae e ci addentriamo in quello che è difficile. Abbandoniamo
le rassicuranti abitudini quotidiane con la speranza (solo la speranza! ) che qualcosa di più
grande ci sarà offerto in cambio di quello cui abbiamo rinunciato. Ogni religione si basa su
questo presupposto: per essere un bravo discepolo devi alzarti presto e pregare il tuo Dio,
coltivare le tue virtù, essere buono con il prossimo, rispettare te stesso e gli altri, controllare i
tuoi impulsi. Tutti siamo d’accordo che sarebbe più facile continuare a dormire - e molti di noi
lo fanno - ma da millenni c’è chi la pensa diversamente e si alza prima dell’alba, si lava la faccia e va a pregare. E si sforza di rimanere fedele ai precetti del suo credo per il resto della
sua folle giornata...
Le persone veramente religiose osservano i loro riti senza chiedere in cambio la garanzia
di un risultato. Eèvero che molti testi sacri e molti sacerdoti non fanno che promettere ricompense per le nostre buone azioni (o castighi per le cattive), ma anche credere a questo scam-
bio è un atto di pura fede, perché nessuno dei giocatori sa veramente come va a finire la
partita. Le richieste della fede sono dei veri e propri «salti», perché accettare la nozione di divinit significa spiccare un grande balzo dal razionale all’imperscrutabile. Se conoscessimo in
anticipo le risposte sul senso della vita, sulla natura di Dio e sul destino delle nostre anime,
credere non sarebbe un «salto», né un coraggioso gesto di umanità; sarebbe solo... una
polizza assicurativa.
E a me il settore assicurativo non interessa. Sono stanca di essere una scettica, sono infastidita dalla prudenza spirituale e il dibattito empirico mi annoia a morte. Non potrebbe importarmene meno di prove, dimostrazioni e garanzie. Voglio solo Dio. Voglio Dio dentro di
me. Voglio che circoli liberamente nel mio sangue, come i raggi di sole penetrano nell’acqua.
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Le mie conversazioni con Dio stanno diventando più meditate e specifiche. Ho pensato
che non serve a niente mandare nell’universo preghiere sciatte, come facevo nei primi tempi
M'ashram. Una mattina, addirittura, ho avuto la faccia tosta di mormorare rivolta al mio Creatore: «Uffa, non so neanch’io di che cosa ho bisogno... Ti viene in mente niente?».
Esattamente quello che direi al mio parrucchiere.
M’immagino che Dio, di fronte a una preghiera così approssimativa, abbia alzato un
sopracciglio, non trovando di meglio che rispondere: «Mia cara, chiamami quando ti sarai decisa a fare sul serio».
è logico che Dio sappia già di che cosa ho bisogno. La questione è: io lo so? Buttarsi disperate e impotenti ai piedi di Dio va benissimo, ma è probabile che si traggano maggiori
vantaggi prendendo anche qualche iniziativa autonoma. C’è una barzelletta italiana che racconta di un povero che va in chiesa e prega la statua di un santo: «Ti prego, ti prego... fammi
vincere la lotteria!». La cosa si ripete per mesi. Alla fine la statua, esasperata, prende vita e
dice: «Figliolo, ti prego, ti prego... compra il biglietto!».
La preghiera richiede la collaborazione di due parti: a ciascuna tocca metà del lavoro. Se
voglio una trasformazione, devo almeno impegnarmi a formulare chiaramente la mia richiesta. Altrimenti i miei appelli saranno privi di consistenza, come una nebbia fredda, che fa fatica a sollevarsi. Adesso, ogni mattina, prima di pregare, rifletto sulle caratteristiche specifiche
di quello che voglio chiedere. M’inginocchio nel tempio, con la fronte sul marmo freddo, e non
me ne vado finché non riesco a formulare una preghiera sincera. Mi sforzo anche affinché le
mie preghiere non diventino stantie e ripetitive. è lo sforzo di restare vigile: solo così posso
assumermi a pieno il ruolo di tutore della mia anima.
Anche il destino, per me, va considerato come un rapporto tra due parti - un gioco di equilibrio fra grazia divina e forza di volontà. Ciascuno ha il controllo di una metà del proprio destino; quella metà è nelle sue mani, e le sue azioni avranno conseguenze misurabili. L’essere
umano non è una marionetta in mano agli dèi, né è completamente artefice del proprio destino; è un po’ le due cose insieme. Siamo come acrobati in bilico tra due cavalli che corrono
fianco a fianco - un piede sul cavallo chiamato «fato», l’altro sul cavallo chiamato «libero arbitrio». E la domanda che dobbiamo porci ogni giorno è: qual è l’uno e qual è l’altro? Di quale
cavallo devo smettere di preoccuparmi, perché comunque non è controllabile, e su quale
devo concentrarmi, per dirigermi verso la meta?
Quello che voglio dire è che, mentre molte cose del mio destino sono imperscrutabili, ce
ne sono altre sotto la mia giurisdizione. Ci sono biglietti della lotteria che posso comprare per
aumentare le possibilità di vittoria. Posso decidere come passare il tempo, con chi interagire,
con chi condividere il mio corpo, la mia vita, i miei soldi e la mia energia. Posso scegliere di
che cosa nutrirmi, che cosa leggere o studiare. Posso scegliere le parole e il tono di voce con
cui parlo con gli altri. Posso decidere come valutare le circostanze sfortunate della mia vita se vederle come maledizioni o come opportunità. E, soprattutto, posso scegliere i miei pensieri.
Quest’ultimo concetto è per me radicalmente nuovo. è tato Richard il texano a suggerirmelo quando mi sono lamentata della mia incorreggibile tendenza a rimuginare. Mi ha detto:
«Senza Fondo, devi imparare a scegliere i tuoi pensieri, proprio come ogni giorno scegli i
vestiti da mettere. è in tuo potere. Se ti piace tanto avere il dominio della tua vita, lavora sulla
mente. è l’unica cosa su cui puoi tentare di esercitare un controllo. Il resto lascialo perdere.
Se non domini i tuoi pensieri, sarai sempre nei guai».
Si direbbe un’impresa impossibile. Controllare i propri pensieri':' Invece del contrario? Non
si è mai visto. Al massimo, pensavo, puoi tentare di reprimere o negare quelli spiacevoli. Invece Richard sostiene che dobbiamo ammettere l’esistenza dei pensieri negativi, capire da
dove arrivano e perché, e poi - con magnanimità e coraggio - liquidarli. Lasciarli andare è un
sacrificio: significa rinunciare a vecchie abitudini, a rassicuranti rancori e agli altri atteggiamenti che hanno fatto di noi i protagonisti di familiari vignette. Ci vogliono tanto esercizio e
tanto impegno. Bisogna essere sempre vigili, e io voglio esserlo. Ho bisogno di farlo, per diventare più forte. Devo farmi le ossa, come si dice in italiano.
E così ho cominciato a sorvegliare la mia mente e a ripetermi almeno settecento volte al
giorno queste parole: «Io non sarò più il porto di pensieri malati». Ogni volta che le solite idee
autodenigratorie tornano a farsi vive, il mio voto mi soccorre. Io non sarò più il porto di pensieri malati. La prima volta, alla parola «porto», il mio orecchio interiore si è drizzato. Un porto
è un rifugio, un luogo dove si entra. Mi sono raffigurata il porto della mia mente - un po’ malconcio, vessato dalle tempeste, ma accogliente e in buona posizione. Il mio porto è una baia
profonda, l’unico accesso all’isola del mio Io (una giovane isola vulcanica, d’accordo, ma fertile e rigogliosa). Sull’isola è stata combattuta qualche guerra, è vero, ma adesso ci stiamo
impegnando per la pace, perché il nuovo capo del governo (cioè io) ha introdotto drastiche
misure di protezione. Adesso - e fate in modo che la voce circoli per i sette mari - il permesso
di entrare nel porto viene concesso solo in rare occasioni.
Le navi appestate cariche di pensieri offensivi, le navi negriere cariche di pensieri sottomessi, le navi da guerra cariche di pensieri esplosivi - tutte saranno respinte. E anche i pensieri che si comportano come esuli arrabbiati, o contestatori,
o ammutinati, o prostitute, o lenoni, o clandestini sediziosi -anche loro sono banditi.
Persino i missionari saranno interrogati. La loro sincerità sarà messa alla prova. Il mio è un
porto pacifico, la via d’accesso a un’isola bella e orgogliosa, che solo ora sta cominciando a
coltivare la tranquillità. Se osserverete le nuove leggi, cari pensieri, sarete benvenuti nella mia
mente - altrimenti, vi ributterò nel mare da cui venite.
E la mia missione, e lo sarà per sempre.
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Sono diventata amica di Tulsi, una ragazza indiana di diciassette anni che lava con me i
pavimenti del tempio. Ogni sera facciamo insieme una passeggiata nei giardini dell’ashram, e
parliamo di Dio e di musica hip-hop, due argomenti a lei ugualmente cari. Tulsi è la ragazza
indiana versione «topo di biblioteca» più carina che si sia mai vista, ed è ancora più carina da
quando una lente dei suoi specs (come chiama, in inglese, gli occhiali) la scorsa settimana si
è rotta in un fumettistico disegno a tela di ragno che non le ha impedito di continuare a portarli. Tulsi è per me tante cose interessanti ed esotiche tutte insieme: un’adolescente, un
ragazzaccio, una ragazza indiana, una ribelle, un’anima con una gran cotta per Dio. Parla un
delizioso, aggraziato inglese - il tipo d’inglese che puoi sentire solo in India, frammisto di esclamazioni tipiche dell’epoca coloniale, come «Splendidi» e «Nonsense!», e in grado di
produrre frasi magniloquenti come: «Arreca grande beneficio camminare sull’erba al mattino,
quando la rugiada si è già depositata, perché aiuta ad abbassare in modo naturale e piacevole la temperatura corporea». Quando una volta le ho detto che sarei andata a Mumbai per
una giornata, Tulsi mi ha avvertita: «Per favore, mantieniti prudente, perché troverai molti
autobus in corsa».
Ha esattamente la metà dei miei anni, e praticamente è la metà di me.
Durante le nostre passeggiate abbiamo parlato anche di matrimonio. Tulsi compirà presto
diciotto anni, e diventerà ufficialmente una candidata. Dovrà partecipare ai matrimoni di diverse famiglie, indossando il sari, come le donne adulte. Una gentile Amma (zia) verrà a
sedersi vicino a lei e comincerà a rivolgerle qualche domanda per conoscerla meglio: «Quanti
anni hai? Da che famiglia provieni? Che lavoro fa tuo padre? A quali università manderai la
domanda di ammissione? Che interessi hai? Quand’è il tuo compleanno?». Nella fase successiva il padre di Tulsi riceverà per posta una grande busta con la foto del nipote della
donna, studente di informatica a Delhi, il suo oroscopo e i suoi voti all’università, e l’inevitabile
domanda: «Potrebbe vostra figlia avere interesse a sposare questo ragazzo?».
Tulsi dice: «è uno schifo».
Ma per una famiglia indiana il matrimonio dei figli è molto importante. Tulsi ha una zia che
si è appena rasata la testa in segno di ringraziamento a Dio perché la figlia maggiore - alla giurassica età di ventotto anni - si è finalmente sposata. Ed era una ragazza difficile da maritare, per molti motivi. Ho domandato a Tulsi che cosa rende una ragazza indiana «difficile da
maritare». E lei mi ha risposto che le ragioni possono essere diverse: «Se ha un cattivo oroscopo... Se è troppo vecchia... Se ha la pelle troppo scura... Se è troppo istruita, e non si riesce a trovare un uomo di livello superiore al suo - problema sempre più diffuso... O se ha
avuto una relazione con qualcuno, e tutta la comunità lo sa... Ecco, questa è una delle condizioni peggiori...».
Scorro mentalmente la lista di Tulsi, cercando di capire quanto sarei «maritabile» nella societ indiana. Non so se il mio oroscopo sia buono o cattivo, ma sono decisamente troppo vecchia, e probabilmente troppo istruita, e la mia condotta morale è notoriamente pessima... Non
sono una candidata molto attraente. Però ho la pelle chiara, unico punto a mio favore.
La settimana scorsa si è sposata una cugina di Tulsi. Prima di andare al matrimonio, Tulsi
mi ha ripetuto quanto detesti queste cerimonie. Tutti quei balli e quei pettegolezzi,
l’abbigliamento formale... Tulsi preferisce stare all'ashram a meditare e a pulire pavimenti.
Nessuno nella sua famiglia la capisce; la sua devozione va oltre quello che considerano normale. «Nella mia famiglia» ha spiegato «mi hanno già messa da parte. Sono troppo diversa.
Pensano che sia di quelle che fanno sempre il contrario del loro dovere. Per di più mi arrabbio
facilmente, e non mi impegno nello studio. Anche se adesso lo farò, perché all’università potr, decidere da sola quel che mi interessa. Voglio studiare psicologia, proprio come la nostra
guru. A casa mi considerano una ragazza diffìcile perché voglio sapere le ragioni di un ordine
prima di eseguirlo. Mia madre mi capisce di più, e mi spiega le cose prima di farmele fare, ma
mio padre no. Le sue spiegazioni non mi convincono molto. Qualche volta mi domando che ci
faccio in quella famiglia, perché non somiglio a nessuno di loro...»
La cugina di Tulsi ha solo ventun anni. Dopo di lei, si sposerà sua sorella minore, che ha
vent’anni. E poi toccherà a Tulsi. Le ho domandato se ha voglia di accasarsi e lei mi ha risposto con un «Noooooooooooo...» così lungo che ha superato il tramonto e i giardini davanti
a noi.
«Voglio vagabondare!» mi ha detto. «Come te.»
«Sai, Tulsi, non ho sempre “vagabondato”, come dici tu. Una volta ero sposata.»
Mi ha guardata, attraverso gli occhiali rotti, con un’espressione contrariata e interrogativa,
come se le avessi detto che una volta ero bruna e cercasse di immaginarselo. Alla fine, ha
esclamato: «Tu, sposata? Non ci credo».
«Ma è vero.»
«Sei stata tu a porre fine al matrimonio?»
«Sì.»
«È davvero encomiabile. Adesso sembri splendidamente felice. Ma, io... Come sono arrivata qui...? Perché sono nata indiana? È abominevole! Perché sono finita in questa
famiglia? Perché devo andare a così tanti matrimoni?»
A quel punto, Tulsi si è messa a girare su se stessa e a gridare, in preda alla disperazione
e a voce molto alta per gli standard dell' ashram: «Voglio vivere alle Hawaii!!!».
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Anche Richard il texano è stato sposato. Ha avuto due figli -adesso sono adulti e vogliono
bene al padre. A volte capita che Richard nomini la ex moglie per raccontare qualche episodio della loro vita insieme, e lo fa sempre con affetto. Io sono un po’ invidiosa, penso che
Richard sia fortunato a essere ancora amico della ex moglie. è uno strano effetto collaterale
del mio terribile divorzio: ogni volta che sento parlare di coppie che si separano amichevolmente, sono gelosa. Peggio - sono arrivata a pensare che un matrimonio che finisce civilmente sia romantico! Tipo: «Oh, che dolcezza... devono essersi amati così tanto...».
Così un giorno ho detto a Richard: «Sembra che tu sia ancora affezionato alla tua ex. Siete in buoni rapporti?».
«No... Figurati...» mi ha detto allegramente. «Lei pensa che mi sia cambiato il nome in
“figlio di puttana”! Ah-ah...»
Mi ha sorpreso che Richard la prenda così alla leggera. Anche il mio ex marito crede che
io abbia cambiato nome... e a me dispiace molto. Io me ne sono andata e lui non ha voluto
perdonarmi - questa è una delle ferite più dolorose del mio divorzio.
A nulla è valso che io abbia steso scuse ai suoi piedi come tappeti
o che mi sia addossata tutte le colpe, o abbia compiuto atti concreti per compensare la
mia partenza - lui non ha mai riconosciuto le mie buone intenzioni, né mi ha mai detto: «Ehi,
sono così colpito dalla tua generosità e dalla tua onestà che voglio dirti che questo divorzio è
stato un vero piacere...». No, per lui non avevo possibilità di redenzione. E questo buco nero
era ancora dentro di me nei miei giorni all’ ashram. Anche nei momenti di felicità e di
esaltazione (specialmente nei momenti di felicità e di esaltazione) non riuscivo a dimenticarmene. Mi odia ancora, pensavo, convinta che la sensazione del suo odio mi avrebbe accompagnata per sempre, senza sollievo.
Parlo spesso di queste cose con i miei amici dell'ashram- la mia ultima conoscenza è un
idraulico della Nuova Zelanda, uno che ha sentito dire che sono una scrittrice e mi ha cercata
per dirmi che scrive anche lui. è un poeta che ha recentemente pubblicato nel suo Paese una
incredibile autobiografìa intitolata II cammino di un idraulico, in cui parla del suo viaggio spirituale. L’idraulico poeta neozelandese, Richard il texano, il produttore di latticini irlandese, la
monella indiana Tulsi e Vivian, una donna anziana con capelli bianchi sottilissimi e occhi animati da un umorismo incandescente (un tempo era suora in Sud Africa) - costituiscono il mio
circolo di amici intimi, un gruppo di personaggi pieni di vita, che non mi sarei mai aspettata
d’incontrare in un ashram in India.
Un giorno, durante il pranzo, chiacchieravamo tutti insieme del matrimonio, e l’idraulico
poeta neozelandese ha detto: «Per me il matrimonio è come un’operazione chirurgica che
cuce due persone insieme, e il divorzio è una specie di amputazione che impiega molto
tempo a guarire. Più a lungo sei stato sposato, o più cruenta è stata l’amputazione, più è difficile guarire».
Una buona spiegazione per le sensazioni spiacevoli del mio «dopo divorzio», e per la
presenza di quell’arto fantasma che va a sbattere dappertutto e fa cadere gli oggetti dagli
scaffali.
Richard il texano mi ha domandato se ho intenzione di lasciare che il mio ex marito condizioni il mio stato d’animo per il resto della mia vita. Gli ho risposto che non lo sapevo e che, a
essere sincera, stavo semplicemente aspettando il giorno in cui mi avrebbe perdonata e lasciata libera di andare per la mia strada.
Il produttore di latticini irlandese ha osservato che «stare ad aspettare che arrivi quel
giorno significa fare un uso irrazionale del proprio tempo».
«Che cosa posso dirvi, ragazzi?» ho ribattuto. «“Porto” il senso di colpa, un po’ come altre
donne portano il beige...»
L’ex suora cattolica (che deve saperla lunga sul senso di colpa) la vedeva diversamente.
«Il senso di colpa è solo un’illusione, è il tuo ego che vuole farti credere nella possibilità di un
progresso morale. Non cadere nella trappola, cara.»
«Quello che mi manda in bestia è pensare, al modo in cui il mio matrimonio è finito» riprendo. «Troppe cose sono rimaste irrisolte. è una ferita che non si rimargina.»
«Se è così che la vuoi vedere» ha detto Richard, «non voglio rovinarti la festa...»
«Uno di questi giorni le cose cambieranno» ho detto. «Voglio solo sapere come.»
Quando ci siamo alzati da tavola, l’idraulico poeta mi ha passato un biglietto. Mi chiedeva
se potevamo vederci dopo cena; voleva mostrarmi una cosa. Ci siamo visti alle grotte della
meditazione. Mi ha fatto attraversare Vashram, poi mi ha portato in un edificio in cui non ero
mai stata, ha aperto con la chiave una porta, e mi ha guidato al piano superiore.
Conosce il posto, mi sono detta, perché ha il compito di aggiustare i condizionatori d’aria,
e ce ne sono alcuni anche quassù. In cima alle scale c’era una porta chiusa di cui conoscevava la combinazione. Da lì siamo usciti sul tetto, su una bellissima terrazza rivestita di
frammenti di ceramica che brillavano nella luce del crepuscolo come uno specchio d’acqua.
Abbiamo attraversato la terrazza fino a una piccola torre - un minareto. L’idraulico poeta mi
ha mostrato un’altra scala stretta che portava in cima alla torre. Mi ha detto: «Adesso ti lascio.
Tu salirai e resterai lassù finché non sarà finito».
«Che cosa?»
L’idràulico ha sorriso e mi ha passato una torcia: «Questa è per scendere quando è finito», e mi ha dato un pezzo di carta ripiegato, poi è andato via.
Sono salita in cima alla torre. Mi trovavo nel punto più alto dell’ ashram, lo sguardo poteva
abbracciare tutta la vallata con il letto del fiume. Montagne e pascoli si estendevano a perdita
d’occhio. Forse è da lì che la mia guru guarda il calare del sole. E il sole stava tramontando
proprio allora. La brezza era tiepida. Ho spiegato il foglio che l’idraulico poeta mi aveva appena dato.
C’era scritto:
ISTRUZIONI PER ESSERE LIBERI
1. Le metafore della vita sono istruzioni di Dio.
2. Sei appena salita sulla torre. Non c’è niente tra te e l’infinito. Adesso, lascia andare...
3. Il giorno sta per finire. è tempo che ciò che è stato bello si trasformi in qualcosa di
ancora più bello. Ora, lascia andare...
4. Il tuo essere qui è la risposta di Dio alle tue preghiere. Lascia andare... e guarda
spuntare le stelle - dentro e fuori di te.
5. Con tutto il tuo cuore, chiedi la grazia, e lascia andare...
6. Con tutto il tuo cuore, perdonalo, perdona te stessa, e lascialo andare...
7. Fa’ che il tuo intento sia libertà da inutile sofferenza. Poi, lascia andare...
8. Guarda il caldo del giorno trasformarsi nel fresco della notte. Lascia andare...
9. Quando il Karma di una relazione si è esaurito, solo l’amore rimane. è un sentimento
sicuro. Lascia andare...
10. Quando finalmente il passato ti ha resa libera, lascia andare. Poi toma giù e comincia il resto della tua vita. Con gioia.
Per qualche minuto non ho potuto smettere di ridere. Vedevo la vallata oltre le chiome a
ombrello degli alberi di mango, e il vento agitava i miei capelli. Ho guardato il sole calare, e
poi mi sono distesa e ho guardato apparire le stelle. Ho detto una piccola preghiera in sanscrito, ripetendola ogni volta che vedevo spuntare una nuova stella nel cielo ormai quasi buio
- era come se invitassi le stelle a farsi avanti. Ma poi hanno cominciato a comparire troppo
rapidamente, e non sono riuscita a tenere il passo. Il cielo è diventato una sgargiante esibizione di stelle. Tra me e Dio non c’era che... il niente.
Ho chiuso gli occhi e ho detto: «Signore, ti prego, fa’ che io possa capire che cos’è davvero il perdono e che cos’è la resa».
Per molto tempo avevo desiderato di poter semplicemente parlare con il mio ex marito,
ma questo non sarebbe mai potuto succedere. Quello che volevo era una conclusione ragionata, un summit per la pace, un incontro che ci unisse nella comprensione delle ragioni
che avevano provocato il nostro divorzio. E soprattutto volevo il reciproco perdono. Ma i mesi
della psicoterapia e del consultorio erano serviti solo a dividerci di più e a farci arroccare più
saldamente sulle nostre posizioni, senza che potessimo darci tregua. Eppure una tregua era
quello di cui avevamo bisogno, ne ero sicura. Allo stesso modo, sono sicura che per avvicinarsi a Dio nella trascendenza bisogna lasciar andare qualsiasi atteggiamento accusatorio.
Come il fumo per i polmoni, così è il risentimento per l’anima - persino inalarlo per un attimo
fa male. Chi ha sempre bisogno di dare agli altri la colpa dei propri guai, e pensa di poter
pregare Dio dicendo: «Dacci oggi il nostro rancore quotidiano», può anche riagganciare e rinunciare al Signore con un bacio d’addio. Quella notte, nel punto più alto dell’ashram, ho chiesto a Dio - dato che probabilmente io e mio marito non ci saremmo più parlati nella vita reale
- di indicarmi una modalità alternativa per comunicare e perdonarci.
Sono rimasta là, in cima alla torre, al di sopra del mondo, sola. Mi sono immersa nella
meditazione e ho aspettato che mi si dicesse cosa fare. Non so quanti minuti o ore siano passati. Ho capito che la mia mente aveva preso i miei pensieri troppo alla lettera. Desideri parlare con tuo marito? E allora, parlagli. Parlagli adesso. Hai desiderato il perdono? E allora
perdona tu, per prima. Subito. Ho pensato a quante persone muoiono senza saper perdonare
o essere perdonate. Ho pensato a quanti fratelli, amici, figli o amanti scompaiono prima di essere raggiunti dalle preziose parole del perdono e dell’assoluzione. E ho pensato a chi
sopravvive, domandandomi come si può tollerare il dolore di un legame spezzato dalla morte.
Nel mio luogo di meditazione, ho trovato la risposta - sei tu che devi porre fine al legame,
dentro di te. E non solo è possibile, è addirittura essenziale.
Con mia sorpresa, durante la meditazione, sono riuscita a chiedere al mio ex marito di
raggiungermi su quel tetto indiano.
Gli ho detto che sarebbe stata l’occasione per dirci addio. Ho aspettato finché non l’ho
sentito arrivare. La sua presenza è diventata assoluta e tangibile. Lo sentivo con l’olfatto.
Gli ho detto: «Ciao, tesoro».
Mi sarei messa a piangere, ma ho capito che non dovevo. Le lacrime sono parte della vita
corporea, e l’incontro di due anime in una notte indiana non ha niente a che fare con il corpo.
Non eravamo più persone. Non avremmo parlato. Non eravamo ex coniugi, non un ostinato
cittadino del Midwest e una yankee inquieta, non un quarantenne e una trentenne, non due
esseri limitati che hanno litigato per anni su sesso, soldi e mobili - niente di tutto questo. Solo
due fredde anime azzurre che avevano finalmente capito ogni cosa. Slegate dai corpi, slegate
dalla storia della loro relazione passata, s’incontravano in cima alla torre (sopra la mia testa,
persino) e comunicavano con infinita saggezza. Le ho viste entrare l’una nel cerchio dell’altra,
fondersi, dividersi di nuovo, e contemplarsi nella loro perfezione e reciproca affinità.
Sapevano tutto. Sapevano tutto da molto tempo, e sapranno tutto sempre. Non avevano
bisogno di perdonarsi; erano nate perdonandosi.
Osservavo le loro magnifiche circonvoluzioni e imparavo una lezione di distacco. Era
come se mi dicessero: «Allontanati, Liz. La tua parte è finita. Lascia che siamo noi a sistemare le cose, mentre tu vai avanti».
Quando ho riaperto gli occhi, ho capito che era finito. Non solo il mio matrimonio e il mio
divorzio, ma la loro irrisolta, desolata, vuota tristezza... era tutto finito. Riuscivo a sentirmi libera. E non perché non avrei mai più pensato al mio ex marito, o non avrei più avuto emozioni
legate al suo ricordo, ma perché avevo finalmente trovato un posto dove collocare quei sentimenti ogni volta che li avessi riprovati in futuro. E so che li proverò sempre. E quando succeder, potrò rimandarli qui, su questa torre del ricordo, potrò affidarli alle premure di quelle
due anime fredde e azzurre, che sanno e capiscono tutto.
I rituali servono a creare uno spazio dove i nostri sentimenti complicati, la gioia e il dolore,
possano riposare, così non dobbiamo portarceli sempre dietro... Il rito è una salvaguardia. E
sono sicura che quando la fede religiosa o la tradizione a cui siamo legati non ci forniscono la
cerimonia adatta, siamo liberi di immaginarne una a nostro piacimento, servendoci magari del
fai da te di un idraulico poeta... Sarà Dio a soccorrerci con la Grazia quando si accorgerà
della nostra onestà «artigianale», per questo abbiamo sempre bisogno di Lui.
Dopo queste riflessioni, per celebrare la mia nuova idea di libertà, mi sono messa a testa
in giù, lì, sulla torre da dove la mia guru guarda il tramonto. Ho sentito il pavimento polveroso
sotto le mani. Ho percepito la mia forza e il mio senso dell’equilibrio. Ho avvertito la brezza
notturna sulle piante dei piedi nudi. Stare dritti a testa in giù non è un esercizio adatto a
un’incorporea e fredda anima azzurra, ma a un essere umano sì. Abbiamo le mani; possiamo
poggiare il peso sui palmi e sollevare in aria le gambe - è un nostro privilegio. è la gioia di un
corpo mortale. Ed è per questo che Dio ha bisogno di noi. Perché a Dio piace sentire le cose
attraverso le nostre mani.
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Richard il texano è partito oggi. è tornato ad Austin. L’ho accompagnato in auto
all’aeroporto, ed eravamo tutti e due tristi. Siamo rimasti a lungo sul marciapiede prima che
entrasse.
«Cosa farò, quando non avrò più Liz Gilbert da tormentare?» ha sospirato, e mi ha
domandato: «Allora, è stata positiva la tua esperienza all'ashram Sembri un’altra persona
rispetto a quando ti ho conosciuta, qualche mese fa. è come se avessi buttato via un po’ della
tristezza che ti portavi dietro».
«In questi giorni mi sento veramente felice, Richard.»
«Bene, allora ricordati che tutta la tua tristezza ti aspetterà all’uscita, nel caso tu volessi riprendertela quando te ne andrai di qui.»
«Non la riprenderò.»
«Brava.»
«Mi hai aiutato tanto» gli ho detto. «Per me sei come un angelo con le mani pelose e orribili unghie dei piedi.»
«Sì, le mie unghie dei piedi non sono mai guarite dopo il Vietnam, poverette.»
«Poteva andare peggio.»
«È andata peggio, per molti ragazzi. Almeno mi sono rimaste le gambe. Non c’è che dire,
bambina, la mia incarnazione, in questa vita, non è poi male. E anche la tua, non dimenticarlo
mai. Pensa, nella prossima vita potresti essere una di quelle povere donne indiane che spaccano le pietre ai bordi della strada. Apprezza sempre quello che hai ora, ok? Devi coltivare il
sentimento della gratitudine. Camperai più a lungo. E mi raccomando, Senza Fondo, va’
sempre avanti... d’accordo?»
«Sto già andando avanti.»
«Intendo dire: trova qualcuno di nuovo da amare. Promesso? Mettici quanto ti pare a riprenderti, ma alla fine non dimenticare di dividere il tuo cuore con qualcuno. Non fare della
tua vita un monumento a David o al tuo ex marito.»
«No, non lo farò» ho detto, e mentre gli rispondevo così ho capito che era vero - non
l’avrei fatto. Il dolore per l’amore perduto e gli errori passati si attenuava, lo vedevo finalmente
rimpicciolirsi grazie al famoso potere terapeutico del tempo che passa, della pazienza e della
Grazia divina.
Richard ha parlato ancora, e i miei pensieri sono ritornati bruscamente sulla Terra: «Dopo
tutto, bella, ricordati sempre che il modo migliore di passare oltre qualcuno è infilarsi sotto
qualcun altro».
Ho riso: «OK, Richard, è un’idea. Adesso puoi tornartene nel Texas».
«Direi che è arrivato il momento, mia cara Senza Fondo» ha sospirato lui e, lanciando
un’ultima occhiata al desolato parcheggio di quell’aeroporto indiano, se n’è andato per la sua
strada.
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Sono tornata all 'ashram dall’aeroporto pensando che parlo troppo. A essere sincera, ho
sempre parlato tanto, tutta la vita, ma in particolare ho parlato troppo durante il mio soggiorno
al-
V ashram. Devo rimanere qui altri due mesi, e non voglio sprecare la più grande occasione di spiritualità della mia vita facendo la chiacchierona e la socievole a tutti i costi.è incredibile pensare che, persino qui, in un ritiro spirituale, in un luogo sacro lontano mille miglia
dalla mia casa, io sia riuscita a creare intorno a me vibrazioni da cocktail party. E non è stato
soltanto con Richard che ho chiacchierato senza sosta - anche se io e lui siamo quelli che
hanno cianciato di più. Non c’è stato un giorno in cui io non abbia fatto salotto con qualcuno.
Mi sono persino trovata - in un ashram, pensate! - a prendere appuntamenti a destra e a
manca, e qualche volta ho dovuto dire: «Mi dispiace, stasera non posso cenare con te,
perché l’ho promesso a Sakshi... Forse possiamo rimandare al prossimo martedì...».
Sono fatta così. Ma sto pensando che forse è uno svantaggio dal punto di vista spirituale.
Il silenzio e la solitudine sono universalmente riconosciuti come condizioni favorevoli alla riflessione, e con ragione. Imparare a disciplinare la tua espansività è un modo per impedire
che le tue energie si disperdano, riversandosi dalla tua bocca e inondando il mondo di parole,
parole, parole, invece di riempirlo di serenità, pace e gioia.
Swamiji, il maestro della mia guru, insisteva sul silenzio, facendolo osservare severamente nell’ ashram, come pratica devozionale. Chiamava il silenzio la sola vera religione. E
ridicolo che io abbia parlato così tanto proprio nel posto dove, più che altrove, il silenzio
dovrebbe - e potrebbe - regnare.
Ho deciso che non sarò più la mascotte dell’ashram. Niente più frenesia, pettegolezzi e
scherzi. Non voglio più cercare di catturare l’attenzione degli altri, o di dominare la conversazione. Non ballerò più il tip-tap verbale per raccogliere qualche gratificante monetina. è
tempo di cambiare. Adesso che Richard è andato via, farò del mio ultimo periodo qui
un’esperienza di totale silenzio. Difficile, ma non impossibile, perché alV ashram il silenzio è rispettato e apprezzato. Al negozio di libri vendono persino delle
spillette con la scritta «Sono in Silenzio».
Ne comprerò quattro.
Mentre guidavo diretta alì’ashram, mi sono messa a fantasticare su quanto sarei diventata
silenziosa. Tanto silenziosa da conquistare la celebrità. Mi avrebbero conosciuta come «la
figlia del silenzio». Mi sarei attenuta agli orari dell’ashram, avrei mangiato in solitudine, meditato per ore, e lavato i pavimenti del tempio senza un lamento.
Interagirò con gli altri, pensavo solo con beati sorrisi, li guarderò da dentro il mio mondo
autosufficiente, pio e immobile. Gli altri domanderanno: «Ma chi è quella ragazza silenziosa,
in fondo al tempio, che lava sempre i pavimenti? Non parla mai. è così sfuggente. Così mistica. Chissà com’è il suono della sua voce. Non la si sente nemmeno camminare sul sentiero
del giardino, è più leggera della brezza. Sarà in costante comunione meditativa con Dio. È la
ragazza più silenziosa che si sia mai vista».
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La mattina dopo ero in ginocchio nel tempio e lavavo il pavimento di marmo, e mi sentivo
circonfusa di una santa e radiosa aura di silenzio, quando un ragazzo indiano è venuto a cercarmi dicendomi che dovevo presentarmi all’ufficio Seva. Seva è il termine sanscrito che indica l’esercizio spirituale del lavoro disinteressato (come per esempio lavare il pavimento di
un tempio). All’ufficio Seva assegnano un compito a ciascun discepolo dell’ashram. Ero curiosa di sapere come mai mi avessero convocata. La signora al banco mi ha domandato gentilmente: «Lei è Elizabeth Gilbert?». Ho annuito in silenzio, con un sorriso pio. La signora mi ha
detto che il mio compito era cambiato. La direzione non voleva più che facessi parte della
squadra addetta alle pulizie. Avevano in mente per me un nuovo lavoro e la qualifica di hostess coordinatrice.
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Un altro scherzo di Swamiji.
Volevi essere la ragazza silenziosa in fondo al tempio'? Eccoti servita!
All 'ashram è sempre così. Decidi come ti vuoi comportare e chi vuoi essere, e poi succede qualcosa che ti fa capire quanto poco conosci te stesso. Non so quante volte Swamiji lo
abbia detto nel corso della sua vita, e la mia guru lo abbia ripetuto, eppure sembra che io non
abbia ancora assimilato il senso di questa importante e insistita dichiarazione: «Dio abita dentro di te, essendo te».
Essendo te.
Se c’è una sacra verità nello yoga, è racchiusa in queste parole. Dio vive dentro di te essendo te stesso, esattamente come sei. A Dio non interessa guardarti mentre interpreti un
ruolo, mentre ti esibisci per adeguarti alla stramba idea che ti sei fatto di «comportamento
spirituale». Ci sembra sempre che per essere benedetti da Dio dobbiamo sforzarci di cambiare radicalmente il nostro carattere e rinunciare alla nostra individualità. Ma è un classico esempio di quello che in Oriente chiamano «pensiero sbagliato». Swamiji diceva che i rinunciatari trovano ogni giorno qualcosa di nuovo cui rinunciare, ma di solito non è la pace che raggiungono, bensì una profonda tristezza. L’austerità fine a se stessa non serve. Per conoscere
Dio si deve rinunciare solo a una cosa - alla sensazione di esserne divisi. Poi si può essere
come si è, restare nei confini del proprio carattere naturale.
E qual è il mio carattere naturale? Mi piace la vita di studio e meditazione dell’ashram, ma
l’idea di trovare la Grazia aggirandomi per questi luoghi, con un sorriso gentile ed etereo,
farebbe di me un’altra persona (forse inconsciamente stavo imitando un personaggio di qualche serie televisiva!). Sono sempre stata affascinata da anime delicate come fantasmi. Ho
sempre voluto essere una ragazza silenziosa. Probabilmente proprio perché non sono né delicata, né silenziosa. Per la stessa ragione penso che i capelli folti e neri siano belli - perché
non li ho, e non posso averli. Eppure, alla fine, bisogna essere grati e contenti di come si è,
perché se Dio mi avesse voluta timida e bruna, mi avrebbe fatta così. E io d’ora in poi voglio
essere me stessa.
Come ha detto Sesto Empirico, il filosofo pitagorico: «L’uomo saggio è sempre simile a se
stesso».
Ciò non vuol dire che non possa essere pia e devota, che non possa venire travolta
dall’amore di Dio, o mettermi al servizio deH’umanità. Né significa che non possa perfezionarmi come essere umano, coltivando le mie virtù e adoperandomi per contenere i miei vizi. Ad
esempio, anche se non sarò mai una ragazza riservata, posso cambiare in meglio alcuni aspetti della mia propensione a parlare, lavorando nei limiti della mia personalità. Posso evitare
di dire tante parolacce, e non lasciarmi andare a risate cretine, e forse non è necessario che
io sia così spesso l’argomento dei miei discorsi. Potrei perfino - idea rivoluzionaria -smettere
di interrompere gli altri. Perché, anche se cerco di considerare in modo creativo il mio vizio di
interrompere, non posso negare che sia una prevaricazione, come dire: «Il mio argomento sia
più importante del tuo», oppure: «Penso di essere più intelligente di te». è un’abitudine che
devo abbandonare.
Anche così, però, non sarò mai nota come «la figlia del silenzio». Quando la signora
dell’ufficio Seva mi ha dato il nuovo incarico di hostess coordinatrice, mi ha detto: «Sa, le
nostre hostess di solito le chiamiamo “Susanna tutta panna”, come nella pubblicità del formaggino, perché una hostess deve essere socievole, esuberante, e sempre sorridente...».
Che cosa potevo dirle?
Le ho stretto la mano, ho detto addio alle mie illusioni e le ho risposto: «Signora, sono la
persona che cercate».
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Il mio compito sarà accogliere gli ospiti di una serie di ritiri che si terranno all 'ashram in
primavera. Durante ogni ritiro, circa cento fedeli arriveranno da tutto il mondo e si fermeranno
una settimana, o dieci giorni, allo scopo di approfondire le loro tecniche di meditazione. Per
gran parte del tempo, i partecipanti al ritiro staranno in silenzio. Io sarò la loro referente cui
sarà permesso parlare se qualche cosa non va. Proprio così: sono ufficialmente incaricata di
parlare e far parlare gli altri. Ascolterò i loro problemi e cercherò delle soluzioni. Forse avranno un compagno di stanza che russa, o vorranno un dottore perché i cibi indiani possono risultare indigesti. Dovrò sapere il nome di tutti, e il luogo da cui provengono. Andrò in giro,
prendendo appunti e provvedendo a tenere ogni cosa sotto controllo. Sono Julie McCoy, la
vostra direttrice di crociera yoga.
E naturalmente avrò un cercapersone!
Fin da quando il ritiro comincia, si capisce che sono perfetta per questo lavoro. Sono seduta al «tavolo del benvenuto» con il mio distintivo Buongiorno, mi chiamo... Alle dieci di mattina, quando fuori ci sono già quasi quaranta gradi, davanti a me si affollano persone provenienti da trenta Paesi diversi, e molti di loro hanno viaggiato tutta la notte in aereo e in classe
economica. Sembra che abbiano dormito nel bagagliaio di un’automobile. Non hanno più idea
di che cosa stiano facendo qui. Se avevano aspirazioni spirituali le hanno dimenticate da un
bel po’, forse da quando il loro bagaglio è stato smarrito a Kuala Lumpur. Hanno sete, ma non
sanno ancora se possono bere l’acqua. Hanno fame, ma non sanno a che ora sia il pranzo. Il
loro abbigliamento è sbagliato, hanno indumenti sintetici e scarpe pesanti, e qui il caldo è
tropicale. C’è chi vuole sapere se qualcuno parla russo. Io un po’ di russo lo so...
Posso aiutarli. Sono equipaggiata per farlo. Il mio intuito di figlia minore ipersensibile, la
capacità di ascoltare che ho acquisito facendo la barista comprensiva e la giornalista curiosa,
l’allenamento a capire l’altro negli anni del fidanzamento e del matrimonio - tutto mi aiuta a facilitare la vita di questi pellegrini.
Mi colpisce il coraggio di queste persone che si lasciano alle spalle le loro famiglie e le
loro vite per ritirarsi a meditare in silenzio, con un gruppo di estranei, in India. Non è da tutù.
Mi piacciono, automaticamente e incondizionatamente. Mi piacciono anche quelli più rompiscatole. Capisco il loro nervosismo e riconosco la loro paura. Mi piace l’indiano che viene da
me, indignato, dicendomi che nella sua stanza ha trovato una statua del dio Ganesh senza un
piede. è furioso, pensa che sia un brutto presagio e vuole che la statua venga portata via da
un brahmano con un’appropriata cerimonia di purificazione. Ascolto la sua rabbia e lo
rassicuro, poi mando Tulsi a prendere la statua mentre l’indiano è a pranzo. Il giorno dopo gli
consegno un biglietto in cui scrivo che spero si senta meglio e gli ricordo che sono pronta ad
aiutarlo nel caso avesse bisogno di qualcosa. Lui mi premia con un gigantesco sorriso di sollievo. Aveva solo paura.
La francese che ha un attacco di panico perché soffre di un’allergia ai cereali - anche lei
ha paura. L’argentino che esige un incontro speciale con un maestro di Hatha yoga per farsi
spiegare come sedersi durante la meditazione e non avere male alla caviglia - anche lui ha
solo paura. Stanno per immergersi nel silenzio, nella profondità della loro mente e della loro
anima. Anche per un esperto della meditazione è un territorio ignoto. Saranno guidati da una
monaca di cinquant’anni, una donna eccezionale, di cui ogni gesto e ogni parola sono
l’incarnazione della pietà, ma hanno ugualmente paura perché - per quanto amorevole possa
essere la loro guida - non può accompagnarli dove devono veramente andare.
Intanto ho ricevuto una lettera da un amico americano, regista di documentari per il
«National Geographic». Mi scrive che è stato a una cena mondana al Waldorf Astoria, a New
York, in onore dei membri del Club degli Esploratori. Dice che è incredibile trovarsi in
presenza di persone così coraggiose, che hanno rischiato la vita tante volte per esplorare le
catene montuose più lontane e più alte del mondo, i canyon, i fiumi, gli abissi, le distese di
ghiaccio e i vulcani. Dice che a molti mancava qualche parte del corpo - un dito dei piedi, un
pezzo di naso - per colpa di incidenti diversi: attacchi di squali, congelamenti, o altro.
E conclude: «Non si erano mai viste così tante persone coraggiose insieme nello stesso
posto».
Ti sbagli, Mike, ho pensato.
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L’argomento del ritiro, e il suo obiettivo, è il turiya - l’elusivo quarto stato della coscienza
umana. Gli esseri umani, dicono gli yogi, sperimentano tre stati di coscienza - la veglia, il
sogno e il sonno profondo senza sogni. Ma c’è un quarto stato che si trova al di sopra degli
altri tre, ed è in grado di collegarli tutti. è la coscienza pura, la consapevolezza intelligente,
quella che per esempio, ci racconta i nostri sogni al risveglio. Ma chi è questo «osservatore»
che assiste al nostro sonno e vigila sulla nostra mente pur standone al di fuori? è Dio, dicono
gli yogi. E se sei in grado di arrivare a quello stato di consapevolezza, allora puoi essere con
Lui tutto il tempo.
Capirai di aver raggiunto il turiya quando sentirai nel tuo animo una sensazione di gioia
costante. Chi vive nel turiya non è condizionato dagli umori instabili della mente, non teme il
fuggire del tempo, o la sofferenza della perdita di qualcuno.
«Puro, vuoto, tranquillo, privo di egoismo, infinito, incorruttibile, immortale, indipendente,
vivrà (dimora in eterno) nella propria grandezza»: così le Upanishad, le antiche scritture yogiche, descrivono chi ha raggiunto il turiya. I grandi santi, i grandi guru, i grandi profeti della
Storia sono vissuti tutta la vita nel turiya. Anche tra le persone normali qualcuno l’ha provato.
La maggior parte l’ha sperimentato magari solo per due minuti, in quegli inesplicabili attimi di
completa gioia slegata da qualsiasi avvenimento mondano. Sei il solito Tizio o Caio che tira
avanti con la solita vita, e improvvisamente ti senti percorso dalla grazia, pieno di meraviglia,
traboccante di gioia. Per nessuna ragione al mondo, tutto è perfetto.
Lo stato di grazia se ne va in fretta, naturalmente. Ti mostra la tua perfezione interiore per
poi lasciarti tornare subito dopo alla triste realtà. Nella storia deU’umanità c’è sempre stato
chi ha voluto ritrovare e mantenere quella condizione di perfetta gioia interiore provandoci in
qualsiasi modo - con le droghe, il sesso, il potere, o accumulando belle cose - ma non è servito. Cerchiamo la felicità senza sapere che è a portata di mano, siamo come il mendicante
della parabola tolstojana, che passa la sua vita seduto su una pentola piena d’oro, chiedendo
l’elemosina a ogni passante... E ignoriamo che la nostra ricchezza - la nostra perfezione - è
già dentro di noi. Ma per rivendicarla, dobbiamo abbandonare l’incessante lavorio della mente
e i desideri egoistici. Il kundalini shakti- l’energia suprema del divino - ci accompagnerà nella
transizione.
è per questo che siamo tutti qui.
Secondo i mistici, la ricerca della gioia divina è l’unico fine della nostra esistenza. Per
questo decidiamo di nascere, per questo vale la pena di affrontare la sofferenza della vita terrena - solo per avere la possibilità di provare l’amore infinito. E una volta che hai trovato la divinit dentro di te, devi provare a trattenerla. Se ci riesci, sarai beato...
Nei giorni del ritiro, resto in fondo al tempio a guardare i devoti che meditano nella semioscurit. Hanno fatto voto di silenzio. Ogni giorno si inabissano sempre più, tutto l' ashram sarà.
presto saturo della loro immobilità. Per rispetto al loro voto anche noi camminiamo in punta di
piedi e consumiamo i pasti senza parlare e attenti a non far rumore. è lo stesso silenzio che
c’è nel cuore della notte, la muta assenza di tempo che si manifesta solo verso le tre del mattino, quando si è totalmente soli - eppure ci troviamo in pieno giorno, in un affollato ashram.
Guardo queste cento anime che meditano e, pur senza conoscere i loro pensieri o i loro
sentimenti, so con sicurezza qual è l’esperienza che intendono provare. Così prego Dio, in
vece loro, in una bizzarra opera di intercessione: Signore, ti prego, benedici questi tuoi
meravigliosi fedeli e da’ loro tutto il bene che avevi messo in serbo per me. Preferisco non andare a meditare quando meditano i nostri ospiti; il mio incarico prevede che badi a loro senza
curarmi, per una volta, del mio viaggio spirituale. Eppure ogni giorno vengo sollevata sulle
onde della loro devozione, come quegli uccelli spazzini che il calore emanato dalla terra solleva molto più in alto di quanto non concederebbe la loro apertura alare. Così non mi sorprendo quando, un giovedì pomeriggio, in fondo al tempio, nel pieno delle mie attività di hostess coordinatrice munita di targhetta e di tutto il resto, mi sento improvvisamente trasportata
oltre le porte dell’universo e deposta nel palmo di Dio.
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Quando nei diari spirituali dei mistici, da santa Teresa alla mia guru, mi capita di leggere
un passo sulla fusione dell’anima con l’infinito, resto sempre terribilmente delusa dalle loro
descrizioni. Uno dei momenti più frustranti è quando ricorrono all’aggettivo «indescrivibile»
per cercare, appunto, di descrìvere. Ma anche le pagine più originali ed eloquenti - come
quelle di Rumi, che ha scritto di aver smesso di sforzarsi e di essersi legato alla manica di
Dio, o di Hafiz, che ha descritto se stesso e Dio come due uomini grassi sulla stessa barca, e
«continuiamo a scontrarci, e a ridere» - persino quelle pagine mi scoraggiano. Non voglio
leggere; voglio provare anche io le stesse indicibili sensazioni. Sri Ramana Maharshi, un guru
indiano molto amato, quando parlava ai suoi discepoli dell’esperienza trascendentale, concludeva sempre dicendo: «Adesso andate e scopritelo da voi».
E io l’ho scoperto. Non dirò che era indescrivibile, anche se
lo era. Cercherò invece di spiegarmi. Per dirla con semplicità, sono stata attirata nel cunicolo dell’Assoluto, e in quella corsa precipitosa ho capito fino in fondo i meccanismi
dell’universo. Ho lasciato il mio corpo, ho lasciato l' ashram, ho lasciato il pianeta, sono passata attraverso il tempo e sono entrata nel vuoto. Ero all’interno del vuoto, ma ero anche il
vuoto, e guardavo il vuoto, tutto contemporaneamente. Il vuoto era uno spazio di pace e
saggezza illimitate. Il vuoto era conscio e intelligente. Il vuoto era Dio, il che vuol dire che io
ero dentro Dio. Ma non in senso fisico - non come se fossi stata Liz Gilbert intrappolata in un
pezzo del muscolo della coscia di Dio. Ero semplicemente parte di Dio. Oltre a essereDio.
Ero un minuscolo pezzo dell’universo ma ero grande come l’universo. («Tutti sanno che la
goccia diventa una cosa sola con l’oceano, ma pochi sanno che l’oceano diventa una cosa
sola con la goccia» ha scritto il saggio Kabir - e adesso posso dire che è vero.)
Non era una esperienza di carattere allucinatorio. Era qualcosa di primordiale. Era il paradiso, sì. Era l’amore più profondo che avessi mai provato, oltre l’immaginabile. Ma non era
euforizzante. Non era eccitante. Non c’erano più in me egoismo e passione sufficienti a rendermi eccitata o euforica. Era semplicemente ovvio. Come quando guardi un’immagine che
contiene un’illusione ottica, sforzandoti di capire qual è il trucco, poi d’un tratto riconosci il disegno nascosto: i due vasi sono in realtà due facce! E una volta che l’hai visto, non puoi più
non vederlo.
«Allora questo è Dio» ho pensato, e gli ho rivolto il saluto del sarto del villaggio: «Mi congratulo di conoscerLa».
Il posto in cui mi trovavo non si può descrivere come un qualsiasi luogo della Terra. Non
era né luminoso né buio, né grande né piccolo. Non era neanche un posto, né io ero veramente lì in piedi, né ero più «io». Avevo ancora i miei pensieri, ma erano molto ridimensionati,
quieti e contemplativi. Non solo provavo un sentimento di generale e incondizionata compassione e mi percepivo unita a tutto e a tutti, ma mi domandavo divertita come potesse chiunque sentire qualcosa di diverso da quello che sentivo io. Ed ero anche poco interessata ai
soliti, vecchi interrogativi su me stessa, i classici «Chi sono e che cosa sono?» Sono una
donna, vengo dall’America, sono chiacchierona, sono una scrittrice — molto carino e molto
obsoleto. Lo stesso che inscatolarsi in un misero riquadro autobiografico quando puoi assaporare la tua stessa infinità.
Mi sono domandata: «Perché ho continuato a inseguire la felicità, quando la vera
beatitudine è sempre stata qui?».
Non so quanto a lungo mi sono aggirata per questo magnifico etere. So solo che ben
presto ho avvertito un impellente desiderio: «Io voglio far durare per sempre queste
sensazioni». Ed è così che sono rotolata fuori. Solo quelle due piccole parole, «io voglio» - e
ho cominciato a scivolare di nuovo sulla Terra. La mia mente ha protestato: No! Non voglio
andarmene! e sono scivolata ancora più giù.
Voglio!
Non voglio!
Voglio!
Non voglio!
Al ripetersi di ognuna di queste esclamazioni disperate, mi accorgevo di cadere sempre
più in basso, rimbalzando da uno strato di illusioni all’altro. Il riaffacciarsi di un inutile desiderio mi riportava nel piccolo recinto dei miei limiti terreni. Ho visto il mio ego tornare in superficie, come quando guardi una polaroid che diventa sempre più definita - la faccia, i contorni
della bocca, le sopracciglia - sì, adesso l’immagine della normale, solita «me stessa» era
completa. Ho tremato di paura e di tristezza per quello che avevo appena perso ma, nello
stesso tempo, sentivo la presenza di una testimone, una me stessa più vecchia e saggia, che
sorrideva scuotendo dolcemente la testa: se pensavo che quella beatitudine era un dono che
qualcuno poteva togliermi, allora voleva dire che non l’avevo capita e non ero ancora pronta
ad abitarla completamente. Dovevo esercitarmi ancora. è stato in quel momento di consapevolezza che Dio mi ha lasciata andare, scivolare attraverso le sue dita con questo compassionevole, tacito messaggio:
Potrai tornare quando capirai fino in fondo che tu sei qui sempre.
Il ritiro è finito due giorni dopo. I partecipanti sono usciti dal silenzio. Molti mi hanno abbracciata e ringraziata per il mio aiuto.
«Grazie a te» continuavo a dire, delusa dall’inefficacia di quelle parole, ma era impossibile
esprimere la gratitudine che provavo verso chi mi aveva aiutata a salire tanto in alto.
Una settimana più tardi sono arrivati altri cento pellegrini alla ricerca dell’illuminazione. Gli
stessi insegnamenti, gli incoraggiamenti all’introspezione e all’autoanalisi, l’esercizio del silenzio assoluto sono stati applicati a nuove diligenti anime. Per parte mia, ho cercato di rendermi
utile, e qualche volta ho provato il turiya con loro. Non ho potuto fare a meno di ridere quando
molti dei partecipanti, dopo la meditazione, mi hanno detto che gli ero parsa «una presenza
silenziosa, leggera, eterea». Ecco che scherzo mi aveva fatto l'ashram). Dopò avermi insegnato ad accettare la mia natura chiacchierona e socievole, e avermi indotta ad abbracciare
forte la hostess coordinatrice che era in me - ecco che adesso mi permetteva di diventare «la
silenziosa ragazza in fondo al tempio»...
Verso la fine del mio soggiorno, ho cominciato a percepire all' ashram una malinconia da «ultimi giorni al campo estivo». Ogni mattina, vedevo qualcuno che caricava i bagagli sull’autobus e partiva. Non c’erano nuovi arrivi. Era quasi maggio,
l’inizio della stagione più calda in India, e anche l’attività dell’ash ram avrebbe subito un rallentamento. Non erano previsti altri periodi di ritiro, così sono stata trasferita all’Ufficio iscriz-
ioni, dove avevo il compito dolceamaro di «congedare» formalmente i miei amici, cancellando
i loro nomi dal computer quando se ne andavano.
Dividevo l’ufficio con una simpatica ragazza che aveva fatto la parrucchiera in un negozio
di Madison Avenue. Recitavamo le preghiere mattutine da sole, cantando il nostro inno a Dio.
In questi ultimi giorni ho molto tempo per stare da sola nella grotta della meditazione. Ci
resto per ore di fila, a mio agio in presenza di me stessa, indisturbata dalla mia esistenza sul
pianeta. Qualche volta la mia meditazione è un’esperienza fisica, che mi lascia spossata e
delirante. Altre volte provo una dolce, tranquilla soddisfazione. Le frasi continuano a formarsi
nella mia mente, e i miei pensieri danzano per richiamare la mia attenzione, ma adesso conosco bene i loro meccanismi e non mi danno più fastidio. Sono diventati come vecchi vicini di
casa, un po’ molesti, ma in fondo affettuosi - il Signore e la Signora Impiccioni e i loro tre figli
tonti, Bla, Blabla e Blablabla. Ma non creano scompiglio nella mia casa. Nel vicinato c’è posto
per tutti.
Riguardo ad eventuali altri cambiamenti che si possono essere verificati in me negli ultimi
mesi, non sono ancora in grado di percepirli. I miei amici che hanno studiato a lungo lo yo-ga
dicono che non avverti l’effetto che l' ashram ha avuto su di te finché non te ne vai e torni alla
vita normale. «Solo allora» mi ha detto la ex suora sudafricana «ti accorgerai che i tuoi ripostigli interiori sono stati riordinati.» Naturalmente, adesso non so ancora che cosa sia la
mia vita normale. Ma se è vero che i cambiamenti si manifesteranno solo tra qualche tempo,
potrei ben presto scoprire che le mie eterne ossessioni sono finite, e che quei detestabili circoli viziosi si sono finalmente spezzati. Piccole zone di irritabilità che una volta mi facevano
impazzire potrebbero non essere più un problema, mentre sofferenze antiche che sopportavo
per abitudine d’ora in poi non verranno tollerate nemmeno per cinque minuti. Sì, sarà così.
Legami velenosi e malati si paleseranno per quello che sono e verranno sciolti per sempre, e
solo persone luminose e benefiche saranno accolte nel mio mondo.
La scorsa notte non sono riuscita a dormire. Non perché fossi ansiosa, ma perché l’attesa
mi eccitava. Mi sono vestita e sono uscita a passeggiare nei giardini. La luna era matura e
piena, e stava sopra di me, riversando intorno una luce di peltro. L’aria aveva la fragranza del
gelsomino e di quella pianta profumatissima che cresce da queste parti e fiorisce solo di
notte. L’umidità e il calore del giorno si erano solo un po’ attenuati.
L’aria calda si muoveva intorno a me. «Sono in India!» ho pensato, come se me ne
rendessi conto per la prima volta.
Ho i sandali ai piedi, e sono in India!
Mi sono messa a correre giù per il prato, attraversando quel mare d’erba illuminato dalla
luna. Il mio corpo si sentiva vivo e sano come non mai, dopo quei mesi di yoga, dieta vegetariana e sonni regolari. I miei sandali, sull’erba morbida e bagnata di rugiada, squittivano un
po’, e quello era l’unico suono in tutta la vallata. Mi sentivo così esultante che mi sono lanciata verso gli enormi eucalipti in mezzo al parco (dove si dice che una volta ci fosse un tempio
dedicato al dio Ganesh, il dio che elimina gli ostacoli), ho gettato le braccia intorno a un albero, ancora tiepido del calore del giorno, e l’ho baciato con passione. Mi è venuto in mente
solo dopo che quello dev’essere il peggiore incubo di ogni genitore americano con una figlia
in ritiro spirituale in India - che se la spassi in orge con gli alberi al chiaro di luna.
Ma era puro, l’amore che provavo. Puro come Dio. Ho guardato la buia vallata intorno e
non ho visto niente che non fosse Dio. Ho pensato: «Qualunque cosa sia, è la cosa che
pregavo di avere. Ed è anche quella a cui rivolgevo le mie preghiere».
69
A proposito, ho trovato la mia parola.
E da quel topo di biblioteca che sono, è proprio lì, in mezzo ai libri, che sono riuscita a trovarla. Avevo continuato a pensarci da quel pomeriggio a Roma, quando il mio amico Giulio mi
aveva detto che la parola di Roma è sesso, e mi aveva chiesto quale fosse la mia. Allora non
lo sapevo, ma ero sicura che prima o poi sarebbe saltata fuori.
Ho incontrato la mia parola durante l’ultima settimana all'’ ashram. Leggevo un vecchio testo di yoga e ho trovato la descrizione di alcuni antichi
«cercatori» dello spirito. Nel paragrafo figurava una parola in sanscrito: antevasin, o «colui
che vive sul confine». Nei tempi antichi, era una descrizione letterale. Indicava una persona
che aveva lasciato la frenesia della vita mondana per andare a vivere ai margini della foresta,
dove abitavano i maestri spirituali. L' antevasin non era più un abitante del villaggio - non
aveva una casa e una vita regolare. Ma non era ancora un trascendente, uno di quei saggi
che vivono nel folto di boschi inesplorati, nella piena realizzazione della vita spirituale.
L'antevasin stava dunque sul confine: poteva vedere tutti e due i mondi, ma guardava verso
l’ignoto. Ed era uno studioso. Quando ho letto il significato della parola, mi sono entusiasmata
e mi sono lasciata sfuggire un’esclamazione di gioia. è la mia parola, ragazzi! Anch’io vivo su
quel limitare, sul confine sfuggente tra il mio vecchio modo di pensare e il mio nuovo modo di
comprendere, continuando senza sosta a imparare. è un confine che si sposta in continuazione - anche se tu avanzi nei tuoi studi e nelle tue realizzazioni, la misteriosa foresta
dell’ignoto rimane sempre a qualche metro da te. E devi viaggiare molto leggero per continuare a seguirla. Devi essere mobile, flessibile, addirittura scivoloso. E pensare che proprio il
giorno prima l’idraulico poeta neozelandese, in partenza dall 'ashram, mi aveva regalato una
piccola poesia di addio che diceva:
Elizabeth sempre in viaggio,
dall'Italia all'india a Bali,
veloce come una trottola
scivolosa come un pesce...
Ho passato così tanto tempo, negli ultimi anni, a domandarmi che cosa dovevo essere.
Una moglie? Una madre? Un’amante? Una zitella? Un’italiana? Una golosa? Una viaggiatrice? Un’artista? Una yogi? Adesso so di non essere nessuna di queste cose, almeno non
completamente. E non sono neanche Zia Liz la Pazza. Sono solo un 'antevasin - né questo
né quello - una cercatrice sul confine sempre in movimento della magnifica, temibile foresta
del nuovo.
Credo che tutte le religioni del mondo necessitino di una metafora centrale in grado di
trascinare i fedeli. Quando cerchi la comunione con Dio, tenti di spostarti dalla vita terrena a
quella divina (dal villaggio alla foresta, si potrebbe dire, ricorrendo all’immagine
dell'antevasin) e hai bisogno di un’idea magnifica che ti dia la forza di farlo. Dev’essere una
metafora grande, magica e potente, perché la distanza da superare è immensa.
I rituali religiosi nascono spesso dalle esperienze dei mistici. Qualche coraggioso esploratore si avventura alla ricerca di un nuovo sentiero verso il divino, vive un’esperienza trascendente e torna a casa come un profeta. Racconta alla comunità storie sul paradiso, e disegna mappe per raggiungerlo. In seguito, altri ripetono le parole, i gesti, le preghiere, o le
azioni del profeta per valicare come lui il confine tra terreno e divino. Qualche volta con successo - la stessa, familiare combinazione di preghiere ed esercizi spirituali ripetuti di generazione in generazione può traghettare molti individui verso la comunione con Dio. Ma altre
volte non si riesce. Anche le idee più originali si induriscono e diventano dogmi.
Un apologo indiano racconta di un santo che, nel suo ashram, meditava su Dio insieme ai
fedeli, per molte ore al giorno. Ma il santo aveva un gattino, una bestiolina molesta che si aggirava nel tempio miagolando, facendo le fusa e disturbando la meditazione. Così, dimostrando senso pratico e saggezza, il santo aveva ordinato di legare il gatto a un palo fuori
del tempio, soltanto nelle ore della meditazione, in modo che non disturbasse. Legare il gatto
al palo e poi mettersi a meditare su Dio era diventata un’abitudine e, con il passare degli anni,
un vero rituale religioso. Nessuno poteva meditare se il gatto non veniva legato al palo. Così,
alla morte dell’animale,
i seguaci del santo erano stati presi dal panico. Come avrebbero potuto meditare adesso?
Come sarebbero arrivati a Dio? Per loro, il gatto era diventato il mezzo per raggiungere Dio.
L’apologo insegna al fedele a non diventare ossessivo nella ripetizione di un rituale fine a se
stesso. Specialmente in questo mondo diviso, in cui seguaci di religioni diverse si fanno
guerra per stabilire chi ha il brevetto della scoperta chiamata «Dio», può essere utile ricordare
che legare un gatto a un pa
lo non è il sistema per arrivare alla trascendenza. L’unico vero modo è l’inesauribile desiderio di un «cercatore» che voglia provare l’eterna e divina pietà. La flessibilità è tanto essenziale in questo percorso quanto la disciplina.
Bisogna quindi continuare a cercare metafore, riti e insegnanti che ci aiutino ad avvicinarci
a Dio. Le scritture yogiche dicono che Dio risponde alle preghiere e agli sforzi degli esseri
umani in qualsiasi forma i mortali scelgano di rendergli grazia - basta che la loro devozione
sia sincera. Come suggerisce una frase delle Upanishad: «Le persone seguono cammini diversi, rettilinei o tortuosi, a seconda del loro temperamento e della loro volontà - ma tutti raggiungono Te, proprio come tutti i fiumi sfociano nell’oceano».
Con la religione si cerca anche di dare un senso al nostro mondo caotico e spiegare le
cose inspiegabili che vediamo succedere: la sofferenza degli innocenti, il trionfo dei malvagi.
La tradizione occidentale dice: «Tutti verranno giudicati dopo la morte, e andranno in paradiso o all’inferno». (La giustizia sarà dispensata da quello che James Joyce chiama il «Dio
Boia» - una figura di Padre che dal terribile trono del giudizio punisce i cattivi e premia i
buoni.) Ma le Upanishad disdegnano ogni tentativo di comprendere il caos del mondo. Non
mostrano nemmeno di considerarlo caotico, ma suggeriscono l’idea che a noi possa sembrare tale a causa della nostra limitatezza. Le scritture yogiche non promettono giustizia o
vendetta per nessuno, anche se affermano che ogni azione ha le sue conseguenze e che
bisogna sapere come comportarsi. Anche se i risultati potrebbero arrivare dopo molto tempo,
perché lo yoga guarda sempre lontano. Le Upanishad dicono che forse il caos ha una funzione divina, anche se impossibile da individuare al momento in cui si manifesta: «Gli dèi
amano le cose nascoste e non amano le cose evidenti». Il meglio che possiamo fare, allora,
per reagire all’incomprensibilità e alla pericolosità del mondo, è esercitarci a mantenere il nostro equilibrio interiore- non importa se là fuori tutto sembra folle.
Sean, il mio mistico produttore di latticini irlandese, me lo ha spiegato così: «Se immagini
che l’universo sia la ruota di un grande motore che gira» ha detto, «capisci subito che devi
stare vicino al centro - proprio sul mozzo della ruota - e non sul bordo, dove il movimento è
frenetico e puoi esaurire le forze e diventare pazzo. Il centro è calma - il centro è il tuo cuore.
è lì che Dio vive. Smetti di cercare risposte nel mondo. Continua a tornare al centro, e troverai
la pace».
Spiritualmente parlando, nessuna risposta ai miei interrogativi mi è mai parsa più logica e
funzionale.
Ho molti amici a New York che non sono religiosi. La maggior parte, direi. Qualcuno si è
allontanato dagli insegnamenti spirituali ricevuti in gioventù, altri non sono mai stati educati
nella fede. Naturalmente, sono quasi tutti sorpresi o addirittura sconvolti dai miei tentativi di
raggiungere la santità. Alcuni mi prendono un po’ in giro. Una volta il mio amico Bobby,
mentre tentava di aiutarmi a far funzionare il computer, mi ha detto: «Senza offesa per la tua
aura, ma sei ancora un disastro con il download dei software...». Io sto agli scherzi. Mi divertono. Eppure, adesso che cominciano a invecchiare, riconosco anche nei miei amici il desiderio di avere qualcosa in cui credere. Un desiderio che incontra ingombranti ostacoli, come il
loro raziocinio e il loro senso comune, e che però si riaccende con l’esperienza del mondo instabile, scosso e devastato che li circonda e che la loro ragione non riesce più a rendere
sicuro. Nella vita tutti affrontiamo grandi prove, gioie e dolori, e queste «megaesperienze» ci
fanno sentire il bisogno di un contesto spirituale nel quale poter esternare la nostra sofferta
protesta o la nostra gratitudine, o anche solo cercare comprensione. Il problema è - che cosa
adorare, chi pregare?
Ho un caro amico la cui moglie è morta subito dopo la nascita del loro primo bambino. Il
miracolo della nuova vita e la tragedia della perdita, così coincidenti, avevano fatto sentire al
mio amico il desiderio di trovare un luogo sacro dove rifugiarsi, o un rituale da seguire, per
riuscire a illuminare la sua confusione emotiva. Era stato educato nella religione cattolica, ma
non tollerava l’idea di tornare a quella Chiesa da adulto. («Non posso più fare mia quella
fede» mi ha detto «adesso che so tante cose.») Naturalmente, si sarebbe sentito a disagio
nel diventare indù o buddhista, o qualcosa di così strano. Che cosa poteva fare? Mi ha detto:
«Non si pescano le religioni da un cesto come le ciliegie».
è un sentimento che rispetto completamente, peccato che non sono affatto d’accordo.
Penso che tu abbia ogni diritto a pescare nel cesto delle ciliegie, quando si tratta di smuovere
il tuo spirito e trovare pace in Dio. Penso che tu sia libero di cercare qualsiasi metafora che ti
aiuti ad attraversare il confine terreno, ogni volta che hai bisogno di trasporto o di conforto.
Non c’è motivo di sentirsi imbarazzati. è la storia della umana ricerca della santità. Se
l’umanità non si fosse mai evoluta nella sua esplorazione del divino, molti di noi adorerebbero
ancora statue di gatti d’oro come nell’antico Egitto. E questa evoluzione del pensiero religioso
ci obbliga a pescare molte ciliegie. Bisogna cogliere qualsiasi occasione, ovunque e
comunque, pur di continuare il cammino verso la luce.
Gli indiani Hopi pensavano che ogni religione contenesse un filo spirituale, e che questi fili
si cercassero gli uni con gli altri per intrecciarsi. Quando tutti i fili si fossero intrecciati, con la
corda che avrebbero formato, l’umanità si sarebbe arrampicata fuori da questo oscuro ciclo
storico fino a raggiungere il regno successivo. In termini più vicini a noi, il Dalai Lama ha ripreso la stessa idea, garantendo ai suoi discepoli in Occidente che non c’è bisogno di diventare buddhisti tibetani per essere suoi seguaci. Il Dalai Lama incoraggia tutti ad accogliere
quello che piace del buddhismo tibetano, integrandolo con le proprie religioni. Anche nel
meno probabile e tradizionale dei luoghi, possiamo qualche volta trovare la prova illuminante
che Dio è più grande di quello che ci hanno insegnato le nostre limitate dottrine. Nel 1954,
papa Pio xi, proprio lui, aveva mandato una delegazione vaticana in Libia con queste istruzioni: «Non crediate di andare tra gli infedeli. Anche i musulmani raggiungono la salvezza.
Le vie della Provvidenza sono infinite».
Ma non è forse logico? Che l’infinito sia, appunto... infinito? Che persino il più santo di noi
sia in grado di vedere di volta in volta solo pezzi sparsi del quadro eterno? E che forse, se
potessimo riunire quei pezzi e confrontarli, affiorerebbe una storia di Dio capace di includerli
tutti? E l’anelito alla trascendenza di ciascuno di noi non è forse solo parte di una universale
ricerca della divinità?
Ognuno di noi ha il diritto di non smettere di cercare finché non arriverà il più vicino possibile alla fonte della meraviglia. Anche se questo può comportare un viaggio in India e una
notte in cui si abbraccia e si bacia un albero al chiaro di luna...
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Il mio aereo parte alle quattro del mattino, che non è affatto strano per l’ìndia. Decido di
non andare a dormire e di passare tutta la sera nella grotta della meditazione, pregando. Di
solito non rimango mai alzata fino a tardi, ma c’è qualcosa in me che vuole che io sia sveglia
in queste ultime ore all’ ashram. Altre volte nella vita ho passato la notte sveglia - per fare
l’amore, litigare, ballare, piangere, preoccuparmi - ma non ho mai sacrificato il sonno per una
notte di preghiera. Perché non farlo ora?
Preparo la valigia e la lascio al cancello del tempio, per essere pronta a prenderla al volo,
quando, prima dell’alba, arriverà il taxi. Poi salgo su per la collina, vado nella grotta di meditazione e mi siedo. Sono sola, mi sistemo di fronte alla grande fotografia di Swamiji, il maestro della mia guru, il fondatore di questo ashram, il leone che non c’è più ma che in qualche
modo è ancora qui. Chiudo gli occhi e lascio che il mantra arrivi. Scendo fino al mio fulcro di
immobilità. Quando arrivo, sento il mondo arrestarsi, come volevo che si arrestasse quando
avevo nove anni e avevo paura della fuga ineluttabile del tempo.
Nel mio cuore, l’orologio si ferma e le pagine del calendario cessano di volare via. Siedo
muta e stupita per tutto quello che capisco. Non sto pregando. Sono diventata una preghiera.
Posso stare seduta qui tutta la notte.
E lo faccio.
Quando è il momento di andare a prendere il taxi, dopo diverse ore di immobilità, qualcosa mi riscuote e guardo l’orologio, devo andare. Devo prendere l’aereo per l’Indonesia. è
strano e divertente. Mi alzo, mi inchino davanti alla fotografia di Swamiji - risoluto, autoritario,
meraviglioso. E poi faccio scivolare un foglio sotto il tappeto, ai piedi della sua immagine. Sul
foglio ci sono le due poesie che ho scritto durante i miei quattro mesi in India. Le prime due
vere poesie che abbia mai scritto.
Un idraulico neozelandese mi ha incoraggiata e io ho provato. La prima l’ho scritta quando
ero qui solo da un mese. L’altra, questa mattina.
Tra le due, c’è un grande spazio colmo della grazia divina.
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Due poesie da un ashram indiano:
Prima:
Tutte queste chiacchiere su nettare e gioia cominciano a seccarmi.
Non so come sia per te, amico mio,
ma il mio cammino verso Dio è tutto fuorché una dolce scia di incenso.
È un gatto libero in una piccionaia, e io sono il gatto — ma anche quelli che strepitano
come pazzi quando vengono artigliati.
Il mio cammino verso Dio è una sommossa di lavoratori, non ci sarà pace senza i sindacati.
Il loro picchettaggio fa così paura
che la Guardia Nazionale non oserà avvicinarsi.
Il mio cammino è stato battuto fino a perdere conoscenza da un piccolo uomo scuro che
non ho mai avuto occasione di vedere,
che ha inseguito Dio attraverso l’india, con i garretti affondati nel fango,
scalzo e affamato, il sangue infettato di malaria, che dormiva sulle porte, sotto i ponti, e
cercava la sua casa.
E adesso insegue me, dicendo: «Ora l’hai capito, Liz?
Che cosa significa CASA ? Che cosa vuole dire CERCARE davvero?».
Seconda:
Tuttavia.
Se mi lasciassero indossare pantaloni fatti dell’erba appena falciata di questo prato,
lo farei.
Se mi permettessero di fare l’amore con
ogni singolo eucalipto della Radura di Ganesh,
giuro, lo farei.
Ho sudato rugiada, ho stremato le mie forze, ho strofinato il mento sul tronco di un albero
scambiandolo per la gamba del mio padrone.
Non riesco ad andare in fondo quanto vorrei.
Se mi lasciassero mangiare la terra di questo posto servita sopra nidi di uccello, consumerei solo metà del mio pasto, e dormirei la notte sul resto.
Indonesia
o
«Mi sento diversa perfino nelle mutande.»
o
Trentasei capitoli sulla ricerca dell’equilibrio
In tutta la mia vita di viaggi non pianificati, non mi era mai capitato di essere così totalmente allo sbando. Il mio aereo sta atterrando e io ancora non so dove andrò a stare, che
cosa andrò a fare, non so come sia il cambio del dollaro con la moneta locale, non so come
prendere un taxi all’aeroporto -ammesso che fossi diretta in qualche posto. Nessuno mi aspetta. Non ho amici in Indonesia, e nemmeno amici di amici. E come se non bastasse, grazie
alla mia guida obsoleta (che comunque non ho letto), non mi sono resa conto che non mi
sarà permesso di rimanere in Indonesia per quattro mesi come avrei voluto. Lo scopro solo al
mio ingresso nel Paese: mi è concesso soltanto un visto turistico di trenta giorni. E io che
pensavo che il governo indonesiano potesse solo essere compiaciuto all’idea di ospitarmi per
tutto il tempo che avrei desiderato.
Mentre il simpatico funzionario dell’ufficio immigrazione timbra il mio passaporto, gli
chiedo nel mio modo più gentile se non posso fermarmi un po’ di più.
«No» mi dice lui nel suo modo più gentile. I balinesi sono famosi per la loro cordialità, ve
l’avevo detto?
«Vede, era previsto che io stessi tre o quattro mesi» insisto.
Non faccio cenno alla profezia - cioè al fatto che due anni fa mi è stato predetto, durante
una lettura della mano di dieci minuti, che avrei vissuto qui per tre o quattro mesi a casa di
uno sciamano vecchissimo e con ogni probabilità demente. Non saprei come spiegarglielo.
Ma mi ha detto proprio questo, lo sciamano, ora che ci penso? Mi ha veramente assicurato che sarei tornata a Bali e che avrei abitato qui insieme a lui per qualche mese? O voleva
solo che passassi di nuovo a fargli visita se mi fossi trovata da queste parti, per dargli un altro
biglietto da dieci dollari in cambio di una lettura della mano? E ha davvero usato l’espressione
see you later, alligatori O era la battuta di rimando, in a while, crocodileì
Non avevo più avuto nessuna notizia dello sciamano dopo quella sera. Non avrei nemmeno saputo come mettermi in contatto con lui. Che indirizzo poteva avere? Sciamano, sotto
il portico, Bali, Indonesia? Non sapevo se fosse vivo o morto. Ricordo che sembrava spropositatamente vecchio già due anni fa; da allora poteva essergli successo di tutto. Di certo
sapevo il suo nome, Ketut Liyer, e che viveva in un villaggio appena fuori dalla città di Ubud.
Ma il nome del villaggio non me lo ricordavo.
Forse avrei dovuto pensare meglio a questi piccoli dettagli prima di mettermi in viaggio.
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Ma Bali è un luogo facile da esplorare, perfino per chi, come me, non ha la più pallida idea
di come muoversi. Non è come se fossi atterrata senza carta geografica nel bel mezzo, che
so, del Sudan. Bali è un’isola che ha più o meno l’estensione del Delaware ed è una popolare
meta turistica: qui un occidentale munito di carta di credito se la cava benissimo. Da quando
due anni fa (precisamente qualche settimana dopo il mio primo viaggio in Indonesia)
l’industria del turismo è crollata per la paura degli attacchi terroristici, è ancora più facile girare da queste parti, sono tutti disperatamente desiderosi di aiutarti, e bisognosi dì lavorare.
Gran parte dei balinesi conosce l’inglese e lo parla volentieri (e questo mi fa sentire colpevolmente sollevata. Le mie connessioni sinaptiche sono così sovraccariche dopo gli sforzi per
imparare l’italiano e il sanscrito che non potrei sostenere la fatica di studiare l’indonesiano e
men che meno il balinese - che pare sia più complicato del marziano). Non è dunque un problema, per me, cambiare i soldi all’aeroporto e trovare un taxi con un autista gentile, in grado
perfino di consigliarmi un albergo carino.
Così arrivo alla città di Ubud, che mi sembra il posto adatto per dare inizio al mio soggiorno. Prendo una stanza in un piccolo e grazioso albergo sulla strada dal nome fiabesco di
via della Foresta delle Scimmie. L’albergo ha una piscina e un giardino gremito di fiori tropicali con boccioli grandi come palloni (curati da una squadra altamente organizzata di colibrì e
farfalle). Il personale è balinese, e questo vuol dire che tutti cominciano ad adorarti e a farti
complimenti sulla tua bellezza appena varchi la soglia. La stanza guarda sulle cime di alberi
lussureggianti e la prima colazione inclusa nel prezzo comprende montagne di frutti tropicali.
Insomma, è uno dei più bei posti dove mi sia mai capitato di stare e mi costa meno di dieci
dollari al giorno. Sono contenta di essere di nuovo qui.
Ubud è nel centro di Bali, sulle montagne, circondata dalle risaie a terrazza e da innumerevoli templi indù, da fiumi che solcano la giungla scavando profondi canyon e vulcani
visibili all'orizzonte. La città è da tempo considerata il centro culturale dell’isola, il luogo dove
prosperano la pittura tradizionale balinese, la danza, l’intaglio e le cerimonie religiose locali.
Non è vicina a nessuna spiaggia, così i turisti che vengono a Ubud sono scelti e sofisticati;
preferiscono assistere a una cerimonia in un tempio piuttosto che bere pina colada sulla
costa. Ubud è una specie di piccola Santa Fe del Pacifico, solo che qui ci sono scimmie che
si aggirano per le strade e si vedono intere famiglie con il costume tradizionale balinese. Ci
sono buoni ristoranti e piccole librerie accoglienti. Potrei davvero viverci, qui a Ubud, facendo
quello che le divorziate americane fanno da quando esiste la ywca, e cioè seguendo un corso
dopo l’altro: batik, percussioni, creazione di gioielli, ceramica, danza tradizionale indonesiana,
cucina... Proprio di fronte al mio albergo c’è «The meditation shop», un piccolo negozio con
un cartello che pubblicizza «sedute di meditazione a ingresso libero ogni sera dalle sei alle
sette». Che la pace regni sulla Terra, continua il cartello. Come si può non essere d’accordo?
Ho disfatto le valigie. è ancora presto, decido di fare una passeggiata per orientarmi di
nuovo in questa città che non vedo da due anni. Poi cercherò di pensare a come cominciare
la ricerca del mio sciamano. Sarà un’impresa difficile, potrebbe richiedere giorni, o addirittura
settimane. Non so da dove partire, così mi fermo alla reception dell’albergo e chiedo a Mario
se mi può aiutare.
Mario fa parte del personale. Siamo subito diventati amici, soprattutto grazie al suo nome.
Non molto tempo fa viaggiavo in un Paese pieno di uomini chiamati Mario, ma non erano
balinesi muscolosi e vitali, con un sarong di seta e un fiore dietro l’orecchio. Non ho potuto
fare a meno di chiedergli: «Lei si chiama davvero Mario? Non sembra un nome molto indonesiano...».
«Non è il mio vero nome» ha detto. «Il mio vero nome è Nyoman.»
Ah - avrei dovuto saperlo. Infatti, a Bali esistono solo quattro nomi propri, sia maschili che
femminili: Wayan, Made, Nyoman e Ketut. Questi nomi significano rispettivamente «primo»,
«secondo», «terzo» e «quarto», e servono a indicare l’ordine in cui
i figli sono nati. Se nasce un quinto figlio, si ricomincia dal principio, e il bambino si chiamer qualcosa come «Wayan numero due». E così via. Se nascono dei gemelli si chiama
Wayan quello che è stato partorito per primo. Essendoci di base solo questi quattro nomi
(soltanto le caste più alte ne usano altri) è probabile, per non dire frequente, che due Wayan
si sposino tra loro. E che il loro primogenito si chiami, com’è ovvio, Wayan.
La famiglia a Bali è molto importante, ed è importante conoscer e la collocazione di ciascuno al suo interno. Forse il sistema dei nomi propri può sembrare complicato, ma i balinesi
se la cavano. Naturalmente, però, l’uso dei soprannomi diventa quasi indispensabile. Per esempio, una delle donne d’affari di maggior successo di Ubud, Wayan, è soprannominata
«Wayan Café» perché possiede un ristorante molto frequentato che si chiama Café Wayan;
poi c’è «Made il Grasso», o «Nyo-man Autonoleggio», o «Ketut lo Stupido», che ha bruciato
la casa di suo zio. Il mio nuovo amico balinese ha risolto il problema scegliendosi come soprannome Mario.
«Perché Mario?»
«Perché mi piace tanto l’Italia.»
Quando gli ho detto di avere appena trascorso lì quattro mesi, la notizia gli è sembrata
stupefacente, fantastica; si è avvicinato a me e mi ha detto: «Vieni, siedi, parla». Sono andata, mi sono seduta, abbiamo parlato. E siamo diventati amici.
Così oggi pomeriggio decido di cominciare la ricerca del mio sciamano dicendo a Mario se
per caso non conosce un vecchio di nome Ketut Liyer.
Mario aggrotta le sopracciglia e pensa.
Mi aspetto che dica qualcosa come: «Ah, sì! Ketut Liyer! Il vecchio sciamano che è morto
proprio la settimana scorsa - è triste quando un venerabile sciamano se ne va...».
Invece mi chiede di ripetere il nome e questa volta glielo scrivo su un foglio, pensando di
averlo pronunciato scorrettamente. Infatti Mario legge e questa volta capisce. «Ketut Liyer!»
esclama.
Adesso mi aspetto che dica: «Ketut Liyer! Quel vecchio pazzo... è stato rinchiuso la settimana scorsa...».
Invece dice: «Ketut Liyer è famoso guaritore».
«Sì, è lui!»
«Lo conosco. Vado tante volte a sua casa. La settimana passata ho portato mia cugina,
perché suo bambino piangeva tutta la notte. Ketut Liyer ha guarito il bambino. Una volta ho
portato una ragazza americana come te. Voleva una magia per diventare più bella per gli
uomini. Ketut Liyer ha fatto una pittura magica, per aiutare lei a essere più bella. Io scherzo,
ogni giorno dico a lei: La pittura funziona! Guarda come sei bella! La pittura funziona!»
Pensando all'immagine che Ketut Liyer aveva disegnato per me qualche anno prima, dico
a Mario che anche io ho avuto una «pittura» dallo sciamano.
Mario si mette a ridere: «La pittura funziona anche per te!».
«La mia era per aiutarmi a trovare Dio» gli spiego.
«Non vuoi essere più bella per gli uomini?» mi domanda, disorientato.
E io: «Mario, potresti portarmi a trovare Ketut un giorno? Se non hai troppo da fare?».
«Non adesso» mi dice e, proprio mentre comincio a sentirmi delusa, aggiunge: «Forse tra
cinque minuti».
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Così, il pomeriggio stesso del mio arrivo a Bali mi trovo all’improvviso seduta su un motorino, aggrappata alla schiena del mio nuovo amico Mario, l’indonesiano-italiano che mi
porta verso la casa di Ketut Liyer, correndo lungo le risaie a terrazza. Per quanto in questi ultimi due anni abbiamo pensato al momento in cui avrei ritrovato lo sciamano, in realtà non ho
idea di che cosa gli dirò. Non ho un appuntamento, piomberò in casa sua senza preavviso.
Riconosco l’insegna all’ingresso di casa sua: Ketut Liyer - pittore. La sua abitazione fa parte
di quei tipici agglomerati di case balinesi che ospitano diverse generazioni di una stessa
famiglia e sono circondati da alte mura di pietra; all’interno della proprietà vi sono anche un
ampio cortile e un tempio. Entriamo senza bussare (la porta non c’è comunque), accolti dal riottoso disappunto di un tipico cane da guardia balinese (tutto pelle e ossa, e affamato) e nel
cortile vediamo proprio lui, Ketut Liyer, l’anziano sciamano, con il sarong e la polo a mezze
maniche, identico a com’era quando l’ho conosciuto. Mario dice qualcosa a Ketut e anche se
il mio balinese è tutt’altro che fluente capisco che si tratta di una presentazione generica, del
tipo: questa è una ragazza americana - è tutta tua.
Ketut mi rivolge il suo sorriso compassionevole e quasi completamente sdentato. Me lo ricordavo bene, è un uomo straordinario. La sua faccia è l’enciclopedia universale della gentilezza. Mi stringe la mano con una presa vivace ed energica.
«Sono felice di conoscerti» dice.
Non ha idea di chi io sia.
«Vieni, vieni» dice, e mi invita sotto il portico della sua casetta, dove i tappeti di bambù
sono l’arredamento principale. È tutto identico a com’era due anni fa. Ci sediamo. Senza esitare prende il palmo della mia mano, come è abituato a fare con i visitatori occidentali. Mi dà
una lettura veloce che, noto con sollievo, è una versione abbreviata di quella che mi ha dato
l’ultima volta. (Forse non riconosce la mia faccia, ma il mio destino al suo occhio esperto appare immutato.) Il suo inglese è migliore di quanto ricordassi e migliore anche di quello di
Mario. Ketut parla come i vecchi saggi cinesi nei film di kung fu, quelli che anche se ogni tre
parole dicessero gravemente «bancomat» non perderebbero l’aria saggia. «Ah, bancomat, tu
avere molta fortuna e buona sorte, bancomat...»
Aspetto una pausa per interromperlo e ricordargli che sono già stata da lui due anni prima.
Sembra confuso: «Non a Bali per la prima volta?».
«No, signore.»
Riflette: «Sei la ragazza della California?».
«No» rispondo e la mia sicurezza diminuisce sempre più, «sono la ragazza di New York.»
Ketut ribatte (e non so bene che cosa c’entri): «Non sono più così prestante, ho perso
molti denti. Forse un giorno andrò a dentista, a mettermi denti nuovi. Ma dentista far troppa
paura».
Apre la bocca deforestata per mostrarmi i danni subiti. Ha perso davvero molti denti sul
lato sinistro della bocca, e sul lato destro ha solo dei monconi gialli tutti rotti che fanno male a
guardarli. «Ho caduto» mi dice. E gli sono saltati via i denti.
Gli dico che mi dispiace, poi ci riprovo, parlando lentamente: «Forse non si ricorda di me,
Ketut. Sono stata qui due anni fa con un’insegnante di yoga americana che ha vissuto a Bali
per molti anni».
Sorride, infervorato: «Conosco Ann Barros!».
«Giusto. Ann Barros è il nome dell’insegnante di yoga. Ma io sono Liz. Sono venuta qui
una volta per chiederle aiuto perché volevo arrivare più vicino a Dio. Lei mi ha fatto un disegno magico».
Scrolla amabilmente le spalle, non sembra minimamente interessato. «Non mi ricordo»
dice.
Sono talmente delusa che mi viene quasi da ridere. Che cosa farò a Bali adesso? Non so
cosa mi ero immaginata da questo incontro, ma avevo sperato che sarebbe stato una specie
di ritrovarsi, commovente e superkarmico. E anche se è vero che avevo temuto che fosse
morto, non mi aveva mai sfiorato l’idea che potesse, da vivo, non ricordarsi di me. Adesso mi
sembra l’apice dell’idiozia aver pensato che il nostro primo incontro fosse stato per lui tanto
memorabile quanto lo era stato per me. Avrei dovuto davvero pianificare meglio questo
viaggio.
Gli descrivo il disegno che mi ha mostrato allora - la figura con le quattro gambe
(«saldamente poggiate a terra»), senza testa («non guarda il mondo con la mente») e la faccia nel cuore («guarda il mondo con il cuore») - e Ketut mi ascolta educatamente, sempre con
scarso interesse.
Non intendo metterlo con le spalle al muro, ma per me è troppo importante sapere, così
gli dico: «Lei mi aveva detto che sarei dovuta tornare a Bali. Mi ha detto di stare qui per tre
o quattro mesi. Mi ha detto che avrei potuto aiutarla a imparare l’inglese e lei mi avrebbe
insegnato le cose che sa». Non mi piace il suono della mia voce - al limite della disperazione.
Non accenno all’invito ad andare a vivere con la sua famiglia. Mi sembra fuori luogo, date le
circostanze.
Mi ascolta educatamente, sorridendo e scuotendo la testa, come per dire, Non sono buffe
le cose che dice la gente?
Sono sul punto di lasciar perdere, ma ho fatto tanta strada e devo compiere un ultimo
sforzo. «Sono la scrittrice» gli dico. «Ketut, sono la scrittrice di New York.»
Non so perché, ma questa è l’informazione giusta. La sua faccia diventa luminosa per la
gioia, il suo sguardo puro e trasparente. Il fuoco del riconoscimento prende vita dentro di lui e
manda scintille, «tu! tu! Mi ricordo, sei tu!» si sporge verso di me, mi afferra per le spalle e
comincia a scuotermi allegramente, come un bambino che a Natale scuota un pacchetto
ancora incartato per indovinare che cosa c’è dentro. «Sei tornata! Sei tornata!»
«Sono tornata! Sono tornata!»
«Tu, tu, tu!»
«Io, io, io!»
Sto piangendo, ma cerco di non darlo a vedere. La profondità del mio sollievo è difficile da
spiegare. Coglie anche me di sorpresa. è come se, in un incidente, la mia macchina fosse
volata da un ponte e precipitata sul fondo di un fiume, e io fossi uscita attraverso un finestrino
aperto e poi, scalciando come un ranocchio e nuotando all’impazzata nell’acqua verde e
fredda, fossi riuscita a intravedere la luce, quando ormai non avevo più ossigeno, le arterie
del mio collo erano gonfie, e le guance piene del mio ultimo respiro. E solo allora... gasp!
Salto fuori e inspiro enormi boccate di aria. Sono sopravvissuta. La sensazione di quel respiro
profondo, di quel ritornare alla luce è la stessa che provo quando ascolto le parole dello
sciamano indonesiano: sei tornata! Il mio sollievo è grande così. Esattamente così.
Non riesco ancora a credere che abbia funzionato.
«Sì, sono tornata» dico, «certo che sono tornata.»
«Io sono così felice!» dice Ketut. Ci teniamo le mani, adesso è addirittura esaltato. «Non ti
ho ricordato al principio! Ti ho conosciuta tanto tempo fa! Sei diversa adesso! L’altra volta tu
eri donna con faccia molto triste. Adesso così felice! Come altra persona! »
L’idea di un cambiamento simile, di una persona con un aspetto così diverso dopo un intervallo di tempo di soli due anni suscita in lui un tremito di risatine.
Rinuncio a trattenere le lacrime e le lascio sgorgare. «Sì, Ketut, ero molto triste prima, ma
la vita sta andando meglio, ora.»
«L’altra volta tu avevi cattivo divorzio. No buono.»
«No buono» confermo.
«L’altra volta tu avevi troppe preoccupazioni, troppo dolore. L’altra volta sembri donna
vecchia e triste. Adesso sembri giovane ragazza, l’altra volta eri brutta, adesso bella!»
Mario applaude estatico ed esclama vittoriosamente: «Vedi? La pittura funziona!».
«Vuoi ancora che ti aiuti con l’inglese, Ketut?» gli chiedo.
Mi risponde che posso cominciare ad aiutarlo subito e si alza con un balzo, piccolo come
uno gnomo. Entra di corsa nella sua casetta e ne esce subito dopo con un fascio di lettere
che ha ricevuto dall’estero negli ultimi due anni (quindi ce l’ha un indirizzo!). Mi chiede di leggergliele a voce alta, capisce l’inglese ma non riesce a leggere bene. E così eccomi diventata
la sua segretaria. Sono la segretaria di uno sciamano! E favoloso. Le lettere sono di
collezionisti d’arte d’oltreoceano, che sono riusciti in modi diversi ad acquistare o ottenere i
suoi famosi disegni e dipinti magici. Un collezionista australiano loda Ketut per il suo talento
di pittore e chiede: «Come fa ad avere la conoscenza della vita necessaria a dipingere con
così tanti dettagli?». Ketut risponde a voce alta, come se stesse dettando: «Perché mi sono
esercitato per tanti e tanti anni».
Quando le lettere sono finite, mi aggiorna sulla sua vita negli ultimi anni. Ci sono stati dei
cambiamenti. Per esempio adesso ha una moglie. Indica attraverso il cortile una donna massiccia che finora è rimasta nell’ombra sulla soglia della cucina, guardandomi come indecisa
se spararmi subito o avvelenarmi prima e spararmi poi. L’altra volta, Ketut mi aveva
tristemente mostrato le fotografie di sua moglie, morta poco prima, una bellissima vecchia
balinese, luminosa come una bambina. Agito la mano in segno di saluto alla nuova consorte,
che arretra in cucina.
«Una brava donna» dice Ketut guardando verso la cucina buia. «Davvero una brava
donna.»
Prosegue raccontandomi di essersi dedicato molto ai pazienti balinesi... Sempre molto da
fare, molte magie per i neonati, cure per i malati, cerimonie per i defunti e per gli sposi.
Dice che la prossima volta che andrà a un matrimonio baline-se mi porterà con sé: «Sì,
verrai con me!». L’unico problema è che non ci sono più molti occidentali che vengono a fargli
visita. Nessuno viene più a Bali a causa del terrorismo. Questo fa sentire Ketut «molto confuso nella testa» e anche «molto vuoto nella banca». Mi chiede: «Adesso verrai tutti i giorni a
mia casa a farmi pratica di inglese?». Annuisco festosamente e lui mi dice: «Ti insegnerò
meditazione balinese, ok?».
«OK» rispondo.
«Penso che bastano tre mesi per meditazione balinese, troverai Dio per te in questo
modo» dice. «Forse quattro mesi. Ti piace Bali?»
«Mi piace moltissimo.»
«Ti cerchi un marito a Bali?»
«Non ancora.»
«Penso che forse succederà presto. Torni domani?»
Prometto di tornare. Non accenna alla possibilità che io mi trasferisca da lui, e quindi io
non dico niente, ma rubo un’ultima occhiata alla sua pericolosissima moglie, ancora nascosta
in cucina. Me ne starò nel mio dolce alberghetto. In fondo è più comodo. E funzionale - a
partire dall’impianto idraulico. Mi serve soltanto una bicicletta per fare visita a Ketut tutti i
giorni.
è venuto il momento di andarsene.
«Sono molto felice di conoscerti» mi dice Ketut, stringendomi la mano.
Eccomi pronta a impartirgli la prima lezione di inglese: gli insegno la differenza tra le espressioni «felice di conoscerti» e «felice di vederti». Gli spiego che si dice «felice di conoscerti» solo la prima volta che si incontra una persona. Da quel momento si dice «felice di
vederti». Perché ci si conosce solo una volta. E poi ci si vede, tante volte...
Gli piace questo concetto. Me lo esemplifica subito: «è bel
lo vederti! Sono felice di vederti! Io ti vedo! Non sono sordo!».
Ci mettiamo tutti a ridere, anche Mario. Ci stringiamo la mano e ci accordiamo per vederci
l’indomani pomeriggio. «Intanto» dice Ketut, «seeyou later, alligator.»
E io: «In a while, crocodile».
«La tua coscienza è la tua guida. Se hai amico occidentale che viene a Bali, mandalo da
me per lettura della mano, sono molto vuoto nella banca perché è scoppiata bomba. Sono
autodidatta. Sono molto felice di vederti, Liss!»
«Anch’io sono molto felice di vederti, Ketut.»
76
Bali è una minuscola isola indù nel mezzo dell’arcipelago indonesiano, che invece
costituisce la più popolosa nazione musulmana sulla Terra. Bali è quindi un luogo strano e
meraviglioso - non dovrebbe nemmeno esistere. L’induismo è stato importato sull’isola
dall’india, attraverso Giava. è andata così: nel rv secolo a.C. i mercanti indiani portarono la
loro religione verso est, i re giavanesi si convertirono, e fondarono una potente dinastia indù,
di cui oggi rimane poco se si eccettuano le magnifiche rovine del tempio di Borobudur. Nel xvi
secolo una violenta rivolta islamica dilagò nella regione, e la famiglia reale adoratrice di Shiva
fu costretta a scappare da Giava e a riparare a Bali. La fuga è nota come «l’esodo di Majapahit». I fuggitivi, accompagnati da membri della più alta casta della società giavanese, portarono con sé artisti e sacerdoti, quindi non è esagerato dire che tutti a Bali discendono da un
re, da un sacerdote o da un artista, ed è per questo che il balinese ha tanto orgoglio e
splendore.
I coloni giavanesi hanno portato a Bali il loro sistema di caste, che però qui non è mai
stato imposto brutalmente come in India. Tuttavia il balinese riconosce una gerarchia sociale
complessa (ci sono cinque divisioni soltanto tra i brahmani) e per quello che mi riguarda
penso che avrei più fortuna a decodificare il genoma umano che a cercare di capire i diversi
legami dell’intricato sistema di clan che tuttora prospera nell’isola. Lo scrittore Fred B. Eiseman, nei suoi interessanti saggi sulla cultura balinese, spiega nei dettagli le sottigliezze di
questi rapporti sociali, ed è dalla sua ricerca che io ho tratto la maggior parte delle informazioni che ho messo in questo libro. Per farla breve, comunque, vi dirò che a Bali tutti fanno
parte di un clan, ciascuno sa di quale clan fa parte e di quale clan fanno parte gli altri - e, se ti
hanno cacciato dal tuo clan per qualche grave disobbedienza, puoi anche buttarti in un vulcano perché è come se fossi già morto.
La cultura balinese è un magnifico alveare di compiti, ruoli e cerimonie religiose. Ogni
balinese ha il proprio posto all’interno di un elaborato reticolo di usanze, che è il risultato
dell’imposizione dei sontuosi riti induisti su una società fondamentalmente agricola, in cui
domina la faticosa coltivazione del riso. Le risaie a terrazza richiedono l’impegno dell’intera
società, che è quindi basata sullo spirito di cooperazione dei suoi membri. Ogni villaggio
balinese ha un banjar, un’assemblea di cittadini che con il consenso di tutti prende le decisioni religiose, politiche ed economiche che riguardano la comunità. A Bali la collettività è
decisamente più importante dell’individuo, altrimenti non mangia nessuno.
Le cerimonie religiose sono di fondamentale importanza (non bisogna dimenticare che a
Bali ci sono ben sette vulcani imprevedibili: fidatevi, qui preghereste anche voi). è stato calcolato che una donna balinese trascorre un terzo delle sue ore di veglia preparandosi per una
cerimonia o partecipando a una cerimonia o pulendo la casa dopo una cerimonia. La vita qui
è un ciclo perenne di offerte e rituali. Bisogna celebrarli tutti nell’ordine giusto e con la giusta
intenzione, o l’intero universo perderà equilibrio. Margaret Mead, a proposito dei balinesi, ha
parlato di «incredibile attivismo», ed è vero - è raro un momento di ozio in un cortile di Bali. Ci
sono cerimonie che vanno celebrate cinque volte al giorno e altre che vanno celebrate una
sola volta, altre che hanno luogo una volta alla settimana, una volta al mese, una volta
all’anno, una volta ogni dieci anni, una volta ogni cento anni, una volta ogni mille anni. A
tenere il filo di tutte queste ricorrenze ci pensano sacerdoti e santoni, che seguono un sistema bizantino di tre calendari separati.
A Bali la vita umana è scandita da tredici riti di passaggio, ciascuno contrassegnato da
una cerimonia diversa. Elaborate cerimonie di pacificazione spirituale sono inscenate lungo
tutto il corso di un’esistenza, per proteggere l’anima da centootto vizi (centootto, di nuovo
questo numero), che includono grandi forze distruttive come la violenza, il furto, la pigrizia e la
menzogna. Ogni bambino balinese deve passare attraverso il fonda-mentale rito della pubert, durante il quale i denti canini, o «zanne», vengono limati fino a diventare uguali agli altri.
Infatti la cosa peggiore per un balinese è essere rozzo e animalesco. E quelle zanne sono
considerate un residuo della nostra natura più selvaggia, quindi devono perdere le loro caratteristiche. In una cultura con rapporti interpersonali così stretti e intricati la brutalità è un lusso
che non ci si può permettere. L’intera rete di cooperazione di un villaggio potrebbe essere distrutta dalle intenzioni criminose di una sola persona. Quindi la miglior cosa che si possa essere a Bali è alus, che significa «raffinato» o addirittura «abbellito». La bellezza è importante
a Bali sia per le donne sia per gli uomini. La bellezza è riverita. Bellezza significa salvezza. Ai
bambini si insegna ad affrontare ogni difficoltà o disagio con una faccia splendente, un
grande sorriso.
Alla base del sistema di vita e di valori che caratterizza l’isola di Bali c’è l’idea della griglia,
una estesa, invisibile mappa-tura spirituale di usanze, riti, percorsi. Ogni balinese sa esattamente qual è il suo luogo di appartenenza e si orienta in questa grande mappa immaginaria
(basti pensare ai quattro nomi propri diffusi quasi ovunque a Bali - Primo, Secondo, Terzo e
Quarto). Mario mi ha detto che lui è felice solo quando si sente mentalmente e spiritualmente
nel punto di intersezione tra una linea verticale e una orizzontale della griglia, in uno stato di
perfetto equilibrio. Per riuscirci deve sempre sapere esattamente dove si trova, sia nei suoi
rapporti con il divino sia in quelli con la sua famiglia sulla Terra. Se dovesse perdere
l’equilibrio, perderebbe la forza.
Non è quindi azzardato pensare ai balinesi come ai maestri universali dell'equilibrio, il
popolo per cui mantenere l’equilibrio perfetto è un’arte, una scienza e una religione. Per
quanto mi riguarda, avevo sperato di imparare qui come si fa a mantenersi saldi in un mondo
caotico. Ma più conosco questa cultura, più mi rendo conto di quanto lontano dalla griglia
dell’equilibrio io mi trovi. La mia abitudine di vagare per il mondo ignara della mia posizione,
la mia decisione di uscire dalla rete contenitiva del matrimonio e della famiglia mi rendono nell’ottica di un balinese - qualcosa di simile a un fantasma. A me non dispiace vivere così,
ma capisco che sia una vita da incubo per chi aspira a essere un membro rispettato della societ di Bali. Se non sai dove ti trovi o a quale clan appartieni, come puoi trovare un equilibrio?
Non so come potrò integrare la mia visione del mondo con quella dei balinesi, poiché al
momento mi attengo a una più moderna e occidentale definizione del termine equilibrium (che
per me significa «equilibrata libertà di scegliere», ovvero la possibilità di finire da qualsiasi
parte, in qualsiasi momento, in relazione a come... diciamo... vanno le cose). Il balinese non
aspetta di sapere il modo in cui «vanno le cose». Morirebbe di paura. I balinesi organizzano
«come vanno le cose» così da impedire loro di disperdersi e distruggersi.
Quando cammini per la strada a Bali, e ti imbatti in uno sconosciuto o in una sconosciuta,
la prima cosa che ti chiederà sarà: dove stai andando? La seconda: da dove vieni? A un occidentale può sembrare un’indagine invasiva da parte di un estraneo, ma il balinese ha bisogno
di orientarsi, di trovare le tue coordinate per inserirti nella griglia ideale della società e
garantire così la sicurezza e il benessere di tutti. Se dici che non sai dove stai andando, o che
stai girando a caso, rischi di instillare un po’ di angoscia nel cuore del tuo nuovo amico
balinese. è decisamente meglio scegliere una direzione specifica - una qualsiasi - e dichiarare di avere una meta.
La terza domanda che quasi certamente ti sentirai rivolgere è: «Sei sposata?». Di nuovo
si tratta di un tentativo di collocarti nella griglia e orientarsi rispetto alla tua posizione. Per i
balinesi è davvero essenziale sapere se sei sposata, devono assicurarsi che la tua vita sia
perfettamente in ordine. Vogliono che tu dica sì.è un sollievo per loro se dici sì. Se sei single
è meglio non dirlo, almeno non così direttamente. E suggerisco vivamente di non dire mai di
aver divorziato. è una cosa che preoccupa molto i balinesi. Essere soli vuole dire essere pericolosamente fuori dalla griglia. Quindi, se sei una donna single in viaggio a Bali e qualcuno ti
chiede: «Sei sposata?», la miglior risposta possibile è: «Non ancora». è un modo educato per
dire «no», lasciando intendere che sarà tua cura rimediare il più presto possibile.
Anche se hai ottant’anni, o sei lesbica, o sei una femminista accanita, o sei una suora, oppure se sei una suora di ottant’anni lesbica e accanita femminista che mai è stata sposata e
mai si sposerà, anche in questo caso la risposta più educata è senz’altro: «Non ancora».
77
La mattina dopo, Mario mi aiuta a comprare una bicicletta. Da bravo quasi-italiano mi dice:
«Conosco un posto» e mi porta al negozio di suo cugino, dove compro una bella mountain
bike, un casco, un lucchetto e un cestino, e tutto per un po’ meno di cinquanta dollari americani. Ecco, adesso sono autonoma e mi posso muovere nella mia nuova città, Ubud. Devo
solo stare attenta quando pedalo per queste strade strette e tortuose, piene di buche e affollate di motorini, camion e autobus di turisti.
Nel pomeriggio arrivo fino al villaggio di Ketut per trascorrere con il mio sciamano il nostro
primo giorno di... di che cosa? Non lo so, ma l’importante è che staremo insieme. In effetti
non ho capito se saranno lezioni di inglese, lezioni di meditazione, o chiacchierate d’altri
tempi sotto il portico. Non so che cos’abbia in mente Ketut per me, ma sono già abbastanza
felice di essere stata invitata a far parte della sua vita.
Quando arrivo lo trovo con degli ospiti. è una piccola famiglia di contadini balinesi che
hanno bisogno dell’aiuto di Ke-tut per la loro bambina di un anno. La povera piccola sta
mettendo i denti e ha pianto per molte notti. Il papà è un uomo giovane e bello, vestito con il
sarong, ha i polpacci muscolosi come quelli delle statue degli eroi di guerra sovietici. La
mamma è graziosa e timida, mi guarda sotto le palpebre pudicamente abbassate. Hanno
portato a Ketut una modestissima offerta, duemila rupie (circa venticinque centesimi di dollaro), che gli porgono in un cestino intrecciato a mano con foglie di palma, appena più grande
del portacenere di un bar. Nel cestino, insieme ai soldi e a qualche chicco di riso, c’è il boccio
lo di un fiore. (La loro povertà crea uno stridente contrasto con il lusso sfoggiato dalla
famiglia ricca che più tardi arriva dalla capitale Denpasar: la madre porta in equilibrio sulla
testa una cesta a tre piani con fiori, frutti e un’anatra arrosto -un copricapo così sontuoso e
strabiliante che perfino Carmen Miranda si sarebbe inchinata al suo cospetto.)
Ketut è calmo e cortese con i suoi ospiti. Ascolta i genitori che spiegano i problemi della
bambina. Poi fruga in un bauletto e tira fuori un antico libro mastro coperto di minuscoli caratteri in sanscrito balinese. Lo consulta come uno studioso, cercando una combinazione di parole adatta all’occasione, continuando nello stesso tempo a parlare e a ridere con i genitori.
Poi prende un foglio bianco da un quaderno (con Ker-mit, la rana del Muppet Show, sulla
copertina) e scrive qualcosa. è una «prescrizione» per la bambina, mi spiega.
La bambina è tormentata da un piccolo demone, questa è la diagnosi. Ketut suggerisce ai
genitori di massaggiare le gengive della bambina con del succo di cipolla rossa. Per placare
il demone, devono solo fare un’offerta - devono sacrificare un pulcino e un maialino e offrirli insieme a una torta fatta di certe erbe speciali che la nonna della bambina non può non
avere nel suo orto di erbe mediche... (Il cibo non andrà sprecato, perché dopo il sacrificio, i
balinesi hanno il permesso di mangiare i loro stessi doni. Loro la vedono così: Dio prende
quel
lo che a Dio appartiene - e cioè il gesto - mentre l’uomo prende quello che all’uomo appartiene, cioè il cibo.)
Dopo aver scritto la prescrizione, Ketut ci volta le spalle, riempie d’acqua una ciotola, vi si
china sopra e con un gemito emette un mantra spettacolare, quieto e raggelante. Poi bene-
dice la bambina con l’acqua alla quale ha appena infuso il suo potere sacro. Anche se ha solo
un anno, la bambina sa come comportarsi nel momento della benedizione. La mamma la
tiene in braccio e lei tende le manine per ricevere l’acqua, ne beve un sorso, poi un altro e poi
si rovescia il resto sulla testa - un rituale perfettamente eseguito. La piccola non mostra la
minima paura di fronte al vecchio sdentato che la guarda cantilenando. Poi Ketut prende il
resto di quell’acqua santa e
lo versa in un sacchetto di plastica di quelli per conservare i panini, lo chiude con un nodo
e lo consegna ai familiari perché ripetano il rito più tardi. La madre prende il sacchetto, sembra che abbia vinto un pesce rosso alla fiera del paese, dimenticandosi il pesce e portandosi
appresso solo l’acqua.
Ketut Liyer ha dedicato a questa famiglia almeno quaranta minuti per un compenso di
circa venticinque centesimi di dollaro. Ma lo avrebbe fatto anche per meno ancora; è il suo
dovere di guaritore. Non può respingere nessuno, altrimenti rischia che gli dèi gli tolgano il
suo dono. Ketut riceve circa venti visite come questa ogni giorno, di balinesi che hanno
bisogno del suo aiuto o del suo consiglio per problemi spirituali o di salute. In giornate considerate di buon auspicio, quando tutti vogliono una benedizione speciale, può ricevere anche
più di cento visite.
«Non ti stanchi?»
«è la mia professione» mi dice. «è il mio hobby - fare lo sciamano.»
Nel pomeriggio arriva ancora qualche paziente, ma Ketut e
io riusciamo a stare anche un po’ per conto nostro sotto il portico. Mi sento a mio agio con
il vecchio sciamano, tranquilla come se fosse mio nonno. Mi dà la mia prima lezione di meditazione balinese. Mi dice che ci sono molte vie per trovare Dio, ma la maggior parte di esse è
troppo complicata da seguire per gli occidentali, per questo lui mi insegnerà un tipo di meditazione più facile. Essenzialmente bisogna fare cosi: sedersi in silenzio e sorridere. Mi piace.
Ketut ride mentre me lo insegna. Sedersi e sorridere. Perfetto.
«Tu hai studiato yoga in India, Liss?»
«Sì, Ketut!»
«Sì, puoi fare yoga, ma yoga troppo difficile.» E poi Ketut si contorce nella difficoltosa posizione del loto, con una comica smorfia che sembra dovuta a una terribile costipazione. Poi si
lascia andare, ride e mi chiede: «Perché chi fa yoga è sempre tanto serio? Se fai faccia così
seria spaventi l’energia buona. Per meditare devi solo sorridere. Sorridi con la faccia, sorridi
con la mente, e l’energia buona verrà da te e laverà via l’energia sporca. Sorridi anche con
fegato. Fai esercizio questa sera all’albergo. Non troppa fretta, non troppo sforzo. Se tu
troppo seria, diventi malata. Puoi chiamare energia buona con sorriso. Finito per oggi. See
you later, alligator. Torna domani. Sono molto felice di vederti, Liss. La tua coscienza è la tua
guida. Se hai amico occidentale che viene a Bali, portalo da me per lettura della mano. Sono
molto vuoto nella banca da quando è scoppiata la bomba».
78
Ecco la storia della vita di Ketut Liyer più o meno come me l’ha raccontata lui:
«Sono nove generazioni che mia famiglia è uno sciamano. Mio padre, mio nonno, mio bisnonno, tutti sono uno sciamano. Tutti loro vogliono che io sono uno sciamano perché vedono
che ho la luce. Vedono che io sono bello e sono intelligente. Ma io non voglio essere
sciamano. Troppo studio! Troppa informazione! E io non credo in sciamano! Io voglio essere
pittore! Voglio essere artista! Ho talento per pittura. Quando ero ancora uomo giovane, incontro uomo americano, molto ricco, forse anche lui una persona di New York come te. Lui piace
mio dipinto. Lui vuole comprare da me grande dipinto, forse grande un metro, per molto denaro. Ogni giorno io dipingere, dipingere, dipingere. Anche la notte dipingere. In quei giorni,
molto tempo fa, non ci sono lampadine elettriche come oggi, così io ho lampada. A olio,
capisci? Una lampada a pompa, devi pomparla per far venire olio. E io faccio il dipinto tutte le
notti con lampada a olio.
«Una notte la lampada è buia, così io pompare pompare pompare e lampada esplode!
Fiamme attaccano mio braccio! Vado a ospedale per un mese con braccio bruciato, fa infezione. Infezione arriva al mio cuore. Il dottore dice che vado a Singapore per tagliare mio
braccio, per fare amputazione. Non è come ciliegina su torta, per me, ma dottore dice che
devo andare assolutamente a fare operazione. Dico a dottore, prima vado a casa, in mio villaggio.
«Quella notte al villaggio faccio sogno. Padre, nonno, bisnonno vengono tutti in mio sogno
in mia casa e dicono a me come curare mio braccio bruciato. Dicono a me di fare succo con
zafferano e legno di sandalo. Mettere succo su bruciatura. Poi fare polvere con zafferano e
legno di sandalo. Strofinare bruciatura con polvere. Dicono a me se io faccio questo non
perdo mio braccio. Un sogno così vero, come avere loro con me in mia casa, tutti insieme.
«Mi sveglio. Non so cosa fare perché qualche volta sogni scherzano - capisci? Ma metto
questo succo di zafferano e legno di sandalo su braccio. Poi metto questa polvere di zafferano e legno di sandalo. Mio braccio molto infetto, molto male, diventato grande, molto gonfio.
Ma dopo messo succo e polvere, diventa molto fresco. Comincia a stare meglio. Dieci giorni e
mio braccio è a posto. Tutto guarito.
«Per questo io comincio a credere. Adesso faccio di nuovo sogno, con padre, nonno e
bisnonno. Loro dicono che adesso devo diventare sciamano. Mia anima, devo darla a Dio.
Per questo, devo fare digiuno per sei giorni, capisci? Niente cibo, niente acqua. Niente colazione. Non è facile. Ho tanta sete per digiuno, vado alle risaie nella mattina, prima del sole.
Siedo nella risaia con bocca aperta e prendo acqua da aria. Come si dice? Questa acqua in
aria, in risaia, alla mattina? Rugiada? Sì. Rugiada. Solo questa rugiada ho mangiato per sei
giorni. Niente altro cibo, so
lo rugiada. Al giorno numero cinque sono diventato inconscio. Vedo solo il colore giallo
dappertutto. No, non giallo - ORO. Vedo l’oro dappertutto, anche dentro di me. Molto felice.
Adesso capisco. L’oro è Dio, anche quello dentro di me. Quella cosa che è Dio, la stessa
cosa è dentro di me, uguale uguale.
«Così adesso devo essere sciamano. Adesso devo imparare libri medici di mio nonno.
Questi libri non sono fatti di carta, sono fatti di foglie di palma. Sono chiamati lontar. è la enciclopedia medica balinese. Devo imparare tutte le diverse piante di Bali. Non è facile. Una
per una, imparo tutte. Imparo a curare persone con molti problemi. Un problema è quando
una persona è malata nel fisico. Aiuto questo malato fisico con le erbe. Un altro problema è
quando la famiglia è malata, quando la famiglia è sempre in lite. Li aiuto con l’armonia, con
mie parole e con disegni magici speciali. Metti il disegno magico nella casa, basta litigio.
Qualche persona è malata di amore, non trova la giusta unione. Io curo i problemi di amore
con mantra e con disegno magico, e amore viene da te. Ho imparato anche la magia nera,
per aiutare le persone se la magia nera cattiva ha fatto un incantesimo su loro. Il mio disegno
magico, mettilo nella tua casa, porta a te energia buona.
«Mi piace ancora essere artista, mi piace fare dipinto quando ho tempo, vendere a galleria. Il mio dipinto sempre lo stesso: di quando Bali era il paradiso, forse mille anni fa. Dipinto di
giungle, animali, donne con - come si dice? Seno. Donne con seno. è difficile per me trovare
tempo per fare dipinto perché sono sciamano, e io devo essere sciamano. è la mia professione. Il mio hobby. Devo aiutare la gente o Dio è arrabbiato con me. Devo far nascere i
bambini qualche volta, fare cerimonia per persona morta, o fare cerimonia per limatura di
denti o per matrimonio. Qualche volta mi sveglio tre del mattino, faccio dipinto con luce di
lampadina elettrica - ho solo quel tempo per fare dipinto per me. Mi piace solo quel tempo del
giorno, va bene per fare dipinto.
«Faccio magia vera, non scherzo. Dico sempre la cosa vera, anche se è cattiva notizia.
Devo avere buona indole sempre nella mia vita, o andrò in inferno. Parlo balinese, indonesiano, un poco giapponese, un poco inglese, un poco olandese. Durante la guerra molti giapponesi erano qui. Non era cosa cattiva per me, leggo la mano per giapponesi, divento amico.
Prima della guerra molti olandesi erano qui. Adesso molti occidentali, parlano tutti inglese. Il
mio olandese è - come si dice? Qual è quella parola che mi insegni ieri? Arrugginito? Sì - arrugginito. Il mio olandese è arrugginito. Ah!
«Sono della quarta casta di Bali, una casta molto bassa, come un contadino. Ma vedo
molte persone della prima casta non intelligenti come me. Il mio nome è Ketut Liyer. Liyer è il
nome che mio nonno mi ha dato quando ero un piccolo ragazzo. Vuole dire luce chiara.
Questo sono io».
79
Sono così libera qui a Bali che è quasi ridicolo. L’unico impegno è andare a trovare Ketut
Liyer per qualche ora ogni pomeriggio, e di tutti i lavoretti saltuari che uno può fare, questo è
decisamente tra i meno gravosi. Al resto del giorno penso senza grande preoccupazione.
Medito per un’ora ogni mattina usando le tecniche yoga della mia guru, e medito ogni sera
con gli esercizi che mi ha insegnato Ketut (sedersi e sorridere). Nel lungo intervallo tra questi
due momenti me ne vado in giro a piedi o in bicicletta, qualche volta parlo con qualcuno o
vado a pranzo da qualche parte. Ho trovato una piccola biblioteca circolante in città, mi sono
iscritta, e adesso consumo gustosi momenti della mia giornata in giardino a leggere. Dopo
l’intensa attività nell' ashram, e dopo il mio decadente scorrazzare per tutta l’Italia assaggiando qualsiasi cosa commestibile mi capitasse sottomano, questo stile di vita mi sembra
nuovo, tranquillo e pacifico. Ho così tanto tempo libero che potrei misurarlo in tonnellate.
Ogni volta che mi allontano dall’albergo, Mario e i suoi colleghi mi domandano dove vado,
e quando torno mi domandano dove sono stata. Non mi stupirei se tenessero in un cassetto
minuscole mappe per ciascuno dei loro cari, con indicati i luoghi dove ognuno di loro si trova
nei diversi momenti della giornata, solo per essere sicuri che tutto l’alveare sia sotto controllo.
La sera mi arrampico in bicicletta sulle colline a nord di Ubud, attraverso ettari di risaie in
mezzo a splendidi e verdi paesaggi. Posso vedere le nuvole rosa riflesse nell’acqua stagnante delle risaie, come se ci fossero due cieli - uno in alto, in paradiso, per gli dèi, e uno qui
giù, nel fango, per noi mortali. Qualche giorno fa ho pedalato fino al Santuario dell’Ai-rone,
con la sua riluttante insegna di benvenuto («Va bene, potete vedere gli aironi»), ma quella
sera non c’erano aironi, solo anatre, così ho guardato le anatre per un po’, poi ho raggiunto il
villaggio vicino. Lungo la strada ho incontrato donne e uomini, bambini, galline e cani, e tutti a loro modo - stavano lavorando, ma nessuno era così occupato da non potersi fermare a
salutarmi.
Una sera, poco tempo fa, in cima a un bel declivio coperto di alberi, ho visto un cartello:
«Casa d’artista affìttasi, con cucina». Poiché l’universo è generoso, sono passati solo tre
giorni ed eccomi sistemata lì. Mario mi ha aiutata a trasferire le mie cose e tutti i miei amici
che lavorano all’albergo mi hanno accompagnata per un commosso addio.
La mia nuova casa dà su una stradina tranquilla, ed è circondata in tutte le direzioni da
risaie. è una specie di piccolo cottage in mezzo a un cortile recintato da un muro coperto di
edera. La proprietaria è un’inglese che ora è partita per l’Inghilterra lasciando a me questo
luogo miracoloso. C’è una cucina di un rosso brillante, uno stagno pieno di pesciolini, una terrazza di marmo, una doccia esterna rivestita di lucenti mosaici; mentre mi lavo i capelli vedo
gli aironi che fanno il nido sulle palme. Sentieri segreti guidano il visitatore in un giardino in-
cantato pieno di fiori. La cura del giardino è compresa nel prezzo dell’affitto, così l’unica cosa
che devo fare è ammirarne la bellezza. Non conosco i nomi di nessuna di queste straordinarie piante equatoriali, così me li invento. Perché no? Non è forse questo il mio Eden? In poco
tempo ho dato un nomignolo a ogni albero e a ogni fiore: albero dell’asfodelo, palma da cavolo, giunco in abito da sera, spirale vanagloriosa, bocciolo in punta di piedi, viticcio della malinconia, e prima stretta di mano del bebé, che è il nome con cui ho battezzato una spettacolare orchidea rosa. La rigogliosa profusione di pura bellezza che mi circonda è difficile da immaginare,
0 da credere possibile. Dai rami fuori dalla finestra della mia. camera da letto posso raccogliere papaye e banane. C’è anche un gatto che si dimostra affezionatissimo a me quando
gli do da mangiare, e poi si lamenta per tutto il resto del giorno come se avesse gli incubi di
un reduce del Vietnam. è strano, ma non mi infastidisce. Non c’è niente che mi infastidisca o
mi dispiaccia in questi giorni, non riesco nemmeno a ricordare che cosa sia la scontentezza.
E pensare che l’affitto di questa casa è inferiore alla somma che a New York spendevo ogni
mese so
lo per i taxi.
Anche l’universo sonoro di questo posto è magnifico. La sera c’è un’orchestra di grilli, con
le rane che fanno i bassi, a notte fonda i cani ululano al cielo la loro disperazione («Perché
siamo sempre fraintesi?»). Prima dell’alba i galli inneggiano all’eccitante privilegio di essere
galli («Siamo galli!» strillano. «E solo a noi è dato essere galli.»). Ogni mattina, prima che il
sole si alzi, c’è una gara di canto tra tutte le specie di uccelli tropicali. Finisce sempre con una
vittoria ex aequo di almeno dieci concorrenti, tutti ammessi alle finali. Quando il sole appare,
ogni cosa si quieta e le farfalle fanno capolino tra
1 fiori. La casa è coperta di rampicanti; sembra che da un giorno all’altro possa sparire
nel fogliame - e sparirò anch’io, diventerò un fiore tropicale.
A proposito, lo sapevate che la parola «paradiso» (che deriva dal persiano) significa letteralmente giardino circondato da mura?
Detto questo, confesso che mi sono bastati tre giorni di ricerca nella biblioteca locale per
capire che la mia visione di Bali come paradiso terrestre era leggermente falsata. Ho sempre
affermato, dopo il mio primo viaggio in Indonesia, che questa piccola isola era l’unica vera
utopia rimasta nel mondo, un luogo che aveva sempre conosciuto solo pace, armonia ed
equilibrio, un Eden mai travagliato da violenze o spargimenti di sangue. Non so bene come
mi fossi fatta questa idea, ma da allora l’avevo sostenuta con profonda convinzione.
«Perfino i poliziotti, qui, hanno un fiore tra i capelli» mi capitava di dire come se fosse un
dettaglio probante.
In realtà ho scoperto che Bali - tanto quanto ogni altro luogo sulla Terra mai abitato
dall’uomo - ha avuto una storia sanguinosa, di violenza e oppressione. Quando i re di Giava
sono immigrati qui nel xvi secolo, hanno fondato una colonia feudale regolata da un severo
sistema di caste che - come tutti i sistemi di caste che si rispettino - non aveva nessuna considerazione per chi ne occupava gli ultimi gradini. L’economia dell’antica Bali si fondava su un
redditizio commercio di schiavi (Bali ha avviato questo tipo di traffico molto prima che lo facesse l’Europa ed è stata l’ultima a porvi fine). All’interno, l’isola era costantemente in guerra,
poiché i suoi re, rivali fra loro, sferravano continui attacchi ai reciproci eserciti (con tanto di
stupri di massa e omicidi). Fino al tardo xix secolo, i balinesi avevano tra i mercanti e i navigatori una reputazione di malvagi combattenti (era famosa la loro tecnica di combattimento che
consisteva nello scatenarsi selvaggiamente e all’im-prowiso contro i propri nemici, in un corpo
a corpo sanguinoso e suicida che aveva sugli europei un effetto terrorizzante). Con un esercito disciplinato di trentamila soldati, i balinesi hanno sconfitto gli invasori olandesi nel 1848,
poi nel 1849, e per sicurezza anche nel 1850. Sono crollati sotto la dominazione olandese
solo quando i re rivali dell’isola si sono traditi l’uno con l’altro, nel tentativo di prendersi tutto il
potere, venendo a patti con il nemico e promettendogli in cambio buoni affari. E così ho capito
che avvolgere nella garza di un sogno paradisiaco la storia di quest’isola è un po’ ingiusto nei
confronti della realtà; è chiaro che i balinesi non hanno trascorso l’ultimo millennio seduti a
sorridere e a cantare inni di gioia.
Ma negli anni Venti e Trenta, quando un’élite di viaggiatori occidentali ha scoperto Bali, ci
si è dimenticati del sangue versato. I nuovi arrivati volevano credere che quella fosse «l’isola
degli dèi», dove sono tutti artisti e l’umanità vive in un inalterabile stato di beatitudine. La fede
in questo sogno si è protratta nel tempo; molti (inclusa me ai tempi del mio primo viaggio) ci
credono ancora. «Ero furente con Dio perché non mi aveva fatto nascere a Bali» ha detto il
fotografo tedesco Gregor Krouse, dopo aver visitato l’isola nel 1930. Attratti da questi racconti
sulla sua bellezza e serenità ultraterrene, alcuni illustri turisti hanno cominciato a venirci con
grande frequenza: artisti come Walter Spies, scrittori come Noel Coward, ballerine come
Claire Holt, attori come Charlie Chaplin, studiosi come Margaret Mead (che a dispetto di tutti i
seni nudi che si vedono in giro, ha saggiamente definito la civiltà balinese una società ingessata almeno quanto l’Inghilterra vittoriana: «neanche l’ombra di libertà per la libido»).
La festa è finita con il 1940, quando il mondo è entrato in guerra. I giapponesi hanno invaso l’Indonesia, e i felici espatriati nei giardini balinesi con i loro aggraziati servitori sono stati
costretti a fuggire. Nella lotta per l’indipendenza dell’Indonesia, seguita alla guerra, Bali è diventata una terra divisa e violenta come tutto il resto dell’arcipelago, e negli anni Cinquanta
(come si dice nel saggio intitolato Bali: Paradise Inven-ted), a un occidentale che osasse visitare Bali veniva consigliato di dormire con una pistola sotto il cuscino. Negli anni Sessanta la
lotta per il potere ha trasformato l’Indonesia in un campo di battaglia che vedeva schierati
nazionalisti da un lato e comunisti dall’altro. Dopo il colpo di Stato a Giacarta nel 1965, i soldati nazionalisti si diressero a Bali con i nomi dei ba-linesi sospettati di comuniSmo. In una settimana, aiutati dalla polizia locale e dalle autorità dei villaggi, le forze nazionaliste percorsero
tutta l’isola uccidendo e massacrando. Quando la furia omicida si fu esaurita, quasi centomila
cadaveri riempivano i meravigliosi fiumi di Bali.
La rinascita del sogno di un Eden balinese si è avuta alla fine degli anni Sessanta, quando
il governo indonesiano ha lanciato una campagna per riconquistare l’interesse del turismo internazionale, proponendo nuovamente Bali come «l’isola degli dèi». I turisti che vennero a
Bali costituivano comunque un’élite dai gusti raffinati, e la loro attenzione si rivolgeva soprattutto alla bellezza artistica e religiosa dell’isola. Gli avvenimenti storici più oscuri vennero dimenticati. E da allora è stato sempre così.
Le notizie che ho appreso durante i miei pomeriggi di lettura nella biblioteca cittadina mi
hanno un po’ confusa. Perché sono tornata a Bali? Per cercare l’equilibrio tra piacere
mondano e devozione spirituale? Ma è questo l’ambiente giusto per una simile ricerca? Davvero i balinesi conoscono l’equilibrio spirituale più di qualunque altro popolo nel mondo? Intendo dire che hanno l’aria di essere equilibrati, con i loro balli e le preghiere, le feste, la
bellezza e i sorrisi, ma io non so che cosa c’è sotto, in realtà... I poliziotti portano davvero dei
fiori dietro le orecchie, ma c’è corruzione dappertutto, come nel resto dell’Indonesia (l’ho
scoperto in prima persona l’altro giorno, quando ho dato qualche centinaio di dollari sottobanco a un uomo in uniforme per prolungare illegalmente di tre mesi il mio permesso di soggiorno). Si dice che i balinesi siano il popolo più pacifico, devoto e artisticamente espressivo
del mondo, e loro quasi letteralmente vivono di questa immagine, ma quanto c’è di vero e
quanto dipende da un calcolo economico? E può uno straniero come me capire le tensioni
che allignano dietro le «facce luminose» di questa gente? è sempre così: guardi il quadro
troppo da vicino e tutte le linee si fondono in una massa indistinta di pennellate.
Per adesso quello che posso dire è che adoro la mia nuova casa e che i balinesi sono
stati tutti garbati con me, senza eccezioni. Ho trovato la loro arte e le loro cerimonie belle e rigeneranti, e mi sembra che anche per loro sia così. è solo la mia esperienza diretta di un
mondo probabilmente molto più complesso di quanto io riuscirò mai a immaginare, ma qualsiasi cosa abbiano bisogno di fare i balinesi per poter mantenere il loro equilibrio (e guadagnarsi da vivere) è affar loro. Io sono qui per lavorare sul mio equilibrio e l’atmosfera di
quest’isola è ancora - almeno per adesso - la più adatta a incoraggiarmi nell’impresa.
81
Non so quanti anni possa avere il mio sciamano. Gliel’ho domandato, ma non ne ha idea.
Mi sembra di ricordare che quando mi trovavo qui due anni fa il traduttore avesse detto che
aveva ottant’anni, ma l’altro giorno gliel’ha chiesto anche Mario e Ketut ha risposto:
«Sessantacinque, ma non sono sicuro». Quando gli ho domandato in che anno fosse nato, lo
sciamano mi ha detto di non ricordarsi di essere nato. So che era già adulto quando i giapponesi hanno occupato Bali nella Seconda guerra mondiale, e quindi potrebbe avere circa ottant’anni adesso. Ma quando mi ha raccontato la storia di come da giovane si è bruciato il
braccio, gli ho domandato in che anno fosse successo e lui mi ha risposto: «Non lo so. Può
essere successo nel 1920?». Quindi se aveva più o meno vent’anni nel 1920, quanti
dovrebbe averne adesso? Centocin-que? Insomma, possiamo dire che Ketut ha tra i sessanta e i centocinque anni.
Ho notato poi che il suo concetto di età varia da un giorno all’altro, a seconda di come si
sente. Quando è molto stanco, sospira e dice: «Forse ne ho ottantacinque», ma quando si
sente più energico dice: «Devo averne sessanta». Mi sembra un ottimo sistema per valutare
l’età delle persone. Che cosa conta in realtà se non il modo in cui ci sentiamo? Eppure
contìnuo a cercare di immaginare quanti anni possa avere il mio sciamano. Un pomeriggio
provo con un’altra strada, e gli domando: «Ketut, quand’è il tuo compleanno?».
«Giovedì» mi risponde.
«Questo giovedì?»
«No. Non questo. Un giovedì.»
Un buon inizio... Ma un giovedì di che mese? Di che anno? Niente. Comunque il giorno
della settimana in cui sei nato, a Bali, è più importante dell’anno, ecco perché, anche se non
sa quanti anni ha, Ketut è in grado di dirmi che il dio che protegge i bambini nati di giovedì è
Shiva il Distruttore, e che a quel giorno sono assegnati due animali come spiriti guida - il leone e la tigre. L’albero considerato ufficialmente sacro per i bambini nati di giovedì è il baniano. L’uccello è il pavone. Una persona nata di giovedì parla sempre per prima, interrompendo gli altri, può essere considerata leggermente aggressiva, di solito è fisicamente attraente (un playboy o una playgirl nelle parole di Ketut), e in genere ha un buon carattere,
un’ottima memoria e il desiderio di aiutare il prossimo.
Quando i pazienti balinesi arrivano da Ketut con problemi seri di salute, di denaro o di
relazione, lui domanda sempre in quale giorno della settimana siano nati, per poter pensare
alle preghiere giuste per loro, e alle medicine più adatte. Perché qualche volta, dice Ketut, «le
persone sono malate nel compleanno» e hanno bisogno di un piccolo aggiustamento astrologico per essere riportate in equilibrio. Una famiglia del posto ha fatto visitare da Ketut il figlio
minore. Il bambino aveva forse quattro anni. Gli ho domandato quale fosse il problema e Ketut mi ha spiegato che la famiglia era preoccupata perché «bambino molto aggressivo. Non
prende ordini. Si comporta male. Non sta attento. Tutti in casa sono stanchi per colpa di
bambino. E poi questo bambino qualche volta è troppo stordito».
Ketut ha chiesto ai genitori se poteva tenerlo in braccio per un momento. I genitori hanno
porto a Ketut il bambino, che si è appoggiato con la schiena al petto dello sciamano, calmo e
senza paura. Ketut, tenendolo in grembo teneramente, gli ha messo la mano sulla fronte, e
ha chiuso gli occhi. Poi gli ha posato i palmi sulla pancia e di nuovo ha chiuso gli occhi.
Mentre compiva questi gesti sorrideva e parlava con calma al piccolo. La visita è finita presto.
Ketut ha riconsegnato il bambino ai genitori e tutta la famiglia se n’è andata dopo poco con
una prescrizione e dell’acqua santa. Ketut mi ha raccontato di aver domandato ai genitori,
prima della visita, quali erano state le circostanze della nascita del figlio e così aveva
scoperto che il bambino era nato sotto una cattiva stella, e di sabato - chi nasce di sabato è
potenzialmente soggetto all’influenza di spiriti cattivi, come lo spirito del corvo, lo spirito del
gufo, lo spirito del gallo (era proprio lo spirito del gallo a rendere quel bambino così
battagliero) e lo spirito del fantoccio (che invece lo rendeva «stordito»). Ma non c’erano solo
cattive notizie. Nel corpo dei bambini nati di sabato ci sono anche gli spiriti dell’arcobaleno e
della farfalla, che possono essere rafforzati. Con una serie di offerte, la famiglia avrebbe
aiutato il bambino a ritrovare il giusto equilibrio.
«Perché gli hai messo la mano sulla fronte e sullo stomaco?» ho domandato a Ketut.
«Controllavi che non avesse la febbre?»
«Controllavo suo cervello, per vedere se sua mente è abitata da spiriti malvagi.»
«Che tipo di spiriti malvagi?»
«Liss, io sono balinese. Io credo in magia nera. Io credo in spiriti malvagi che escono dai
fiumi e fanno male alle persone.»
«E il bambino aveva spiriti malvagi?»
«No, ha solo il compleanno malato. Sua famiglia farà sacrificio. Andrà ok. E tu, Liss? Fai
esercizio di meditazione balinese tutte le sere? Tua mente e tuo cuore puliti?»
«Tutte le sere» lo rassicuro.
«Impari a sorridere anche con fegato?»
«Anche col fegato, Ketut. Il mio fegato fa grandi sorrisi.»
«Bene. Questo sorriso farà diventare te una donna bellissima. Ti darà potere di essere
molto graziosa. Lo puoi usare questo potere - il potere grazioso! - per ottenere quello che tu
vuoi.»
«Il potere grazioso!» ripeto questa definizione che mi piace tanto. Sono come una Barbie
meditatrice. «A me, a me il potere grazioso!»
«Tu fai anche meditazione indiana?»
«Ogni mattina.»
«Bene. Non dimenticare tuo yoga. è benefico per te. è cosa buona per te praticare le due
meditazioni - la balinese e l’indiana. Diverse ma buone tutte è due. Uguali-uguali. Io penso a
religione, tutte religioni uguali-uguali.»
«Non tutti la pensano così, Ketut. A molti piace litigare su Dio.»
«Non è necessario. Io ho una idea buona: se incontri qualche persona di diversa religione
che vuole fare litigio su Dio, tu ascolta tutto quello che lei dice di Dio. Non litigare mai su Dio.
Cosa migliore da dire è: “Sono d’accordo con te”. Poi vai a casa e preghi come vuoi tu.
Questa è mia idea per dare alla gente la pace nella religione.»
Ho notato che Ketut tiene sempre il mento in alto e la testa leggermente all’indietro, un atteggiamento a metà tra il beffardo e l’elegante. Come uno strano, vecchio re, osserva tutto il
mondo dall’alto in basso. Ha la pelle lucente, bruno-dorata. È quasi completamente calvo, ma
compensa con sopracciglia lunghissime e soffici come nuvole. A parte la mancanza di molti
denti e le cicatrici delle ustioni sul braccio destro, sembra in perfetta salute. Mi ha raccontato
di essere stato in gioventù un ragazzo bellissimo e di aver fatto il danzatore nelle cerimonie al
tempio. Gli credo. Consuma un solo pasto al giorno - un semplice piatto balinese composto di
riso mescolato a carne di anatra o di pesce. Gli piace bere ogni giorno una tazza di caffè zuccherato, soprattutto per festeggiare il privilegio di potersela permettere. Non è difficile vivere
fino a centocinque anni con questa dieta. Ketut mi ha detto che mantiene forte il suo corpo
meditando ogni notte prima di addormentarsi e facendo entrare dentro di sé l’energia salutare
dell’universo. Dice che il corpo umano è fatto dei cinque elementi della creazione (niente di
più e niente di meno) - acqua (apa), fuoco ( tejo), vento (bayu), cielo (akasa) e terra (pri-tiwi) e che, se ci concentriamo su di essi durante la meditazione, riceveremo energia da tutte
queste sorgenti e così manterremo forti i nostri corpi. Poi lo sciamano aggiunge: «Il microcosmo diventa il macrocosmo. Tu, microcosmo, diventi la stessa cosa dell’universo - macrocosmo».
Oggi Ketut era molto impegnato, la sua casa era affollata di pazienti balinesi, ammucchiati
nel cortile come casse da imballaggio, con in grembo bambini o doni. C’erano contadini e
uomini d’affari, padri e nonne. C’erano genitori con figli che non riuscivano a trattenere il cibo,
e vecchi perseguitati dalle maledizioni della magia nera. C’erano giovani uomini agitati dagli
impulsi dell’aggressività e del desiderio e giovani donne in cerca del giusto compagno.
Bambini malati si lamentavano delle loro eruzioni cutanee. Tutti erano nervosi, tutti avevano
bisogno di ristabilire il proprio equilibrio.
L’atmosfera nel cortile della casa di Ketut è sempre pervasa da un’assoluta calma. Qualche volta i pazienti devono aspettare anche tre ore prima che Ketut possa parlare con loro,
ma non capita mai di vederli pestare i piedi, o alzare gli occhi con aria esasperata. E
straordinario vedere come sanno aspettare i bambini, appoggiati alle bellissime madri,
giocando con i loro ditini per passare il tempo. Mi diverte sempre scoprire che magari quegli
stessi bambini sono stati portati a casa di Ketut perché i loro genitori li ritengono «troppo
monelli» e bisognosi di una cura. Quella bambina? La bambinetta di tre anni, seduta in silenzio sotto il sole per quattro ore di seguito, senza un giocattolo o qualcosa da mangiare?
Quella che non si è mai lamentata una volta? Sarebbe lei la monella? Vorrei poter dire: venite
negli Stati Uniti - vi farò vedere io i bambini monelli, quelli che fanno credere nell’utilità del
Ritalin. Ma qui c’è una diversa concezione di quello che deve essere il comportamento di un
bambino.
Ketut si rivolge ai suoi pazienti con sollecitudine, li ascolta tutti, uno dopo l’altro, apparentemente incurante del passare del tempo, accordando a ciascuno l’attenzione necessaria.
Era così indaffarato oggi che non ha nemmeno consumato il suo pasto all’ora di pranzo. è rimasto sotto il portico per ore, obbligato dal suo rispetto per Dio e per i propri antenati a non
muoversi, e a curare tutti quelli che glielo chiedevano. Alla sera aveva gli occhi stanchi come
quelli di un chirurgo da campo durante la guerra civile. Il suo ultimo paziente è stato un
balinese di mezza età che si lamentava di non aver dormito per settimane: era perseguitato,
diceva, da un incubo in cui «annegava contemporaneamente in due fiumi».
Fino a stasera non avevo ancora capito quale fosse il mio ruolo nella vita di Ketut Liyer.
Gli ho domandato spesso se era certo di volermi lì e lui ha sempre insistito che dovevo tornare anche il giorno dopo. Mi sentivo in colpa pensando a quanto tempo portavo via alla sua
giornata, ma lui sembrava sempre dispiaciuto quando me ne andavo. Non gli sto insegnando
l’inglese, non sul serio. L’inglese che ha imparato, molti decenni fa, si è così cementato nella
sua mente da non lasciare molto spazio per correzioni o per nuovi vocaboli.
Stasera, quando l’ultimo paziente se n’è andato e Ketut era esausto, invecchiato dalla fatica della giornata, gli ho domandato se dovevo andarmene anch’io, per lasciarlo riposare un
po’, e lui ha risposto: «Ho sempre tempo per te». Poi mi ha chiesto di raccontargli qualche
storia dell’india, deH’America, dell’Italia, della mia famiglia. è stato in quel momento che mi
sono resa conto di non essere l’insegnante di inglese di Ketut, né una studentessa - almeno
non fino in fondo - ma piuttosto la più semplice e pura fonte di intrattenimento di questo vecchio sciamano. Gli faccio compagnia. Sono qualcuno con cui può parlare e da cui può ascoltare le cose del mondo, non avendo avuto molte occasioni di vederle.
Finora, nelle nostre ore di conversazione sotto il portico, Ketut mi ha rivolto domande su
qualsiasi argomento, per esempio mi ha domandato quanto possono costare le automobili in
Messico e che cosa provoca l’AIDS (ho cercato di affrontare entrambi gli argomenti, anche se
sono certa che i relativi esperti avrebbero risposto in modo molto più completo). Ketut non si
è mai allontanato da Bali, non è mai stato da nes-sun’altra parte. In realtà sono poche anche
le volte in cui si è allontanato dal suo portico. Una volta è andato in pellegrinaggio sul Monte
Agung, il più alto vulcano di Bali e uno dei luoghi più sacri dell’isola, ma ha detto che l’energia
lì è così forte che non ha potuto meditare a lungo per paura di essere consumato dal fuoco
sacro. Visita i templi per le cerimonie importanti e viene invitato a casa dai suoi vicini per celebrare matrimoni o rituali di iniziazione, ma il più delle volte lo si può trovare qui, a gambe incrociate, su questo tappetino di bambù, circondato dall’enciclopedia medica scritta su foglie di
palma, appartenuta al suo bisnonno, mentre presta le sue cure alle persone, placa i demoni e
qualche volta si concede il piacere di una tazza di caffè zuccherato.
«Ho avuto un sogno di te la passata notte» mi ha detto oggi. «Ho avuto un sogno di te che
vai in bicicletta in tutti i posti.»
è rimasto in silenzio per un attimo e io ho approfittato per una correzione. «Intendi dire
che vado in bicicletta dovunque?»
«Sì! Sogno la passata notte di te che vai in bicicletta in tutti
i posti e dovunque. Sei così felice nel mio sogno! In tutto il mondo vai in bicicletta. E io ti
seguo!»
Forse gli piacerebbe poterlo fare...
«Un giorno potresti venirmi a trovare in America, Ketut» gli ho detto.
«Non posso, Liss» ha scosso la testa, gioiosamente rassegnato al proprio destino. «Non
ho abbastanza denti per viaggiare in aeroplano.»
82
È dovuto passare un po’ di tempo perché io riuscissi ad andare d’accordo con la moglie di
Ketut. Nyomo, come la chiama lui, è grossa e grassa, con un’andatura zoppicante e denti
macchiati di rosso dalle foglie di noce di betel che mastica in continuazione. Ha le dita dei
piedi penosamente contorte daU’artrite, e
lo sguardo astuto. Mi ha fatto paura dal primo momento in cui l’ho vista. Mi dava l’idea di
una vecchia signora feroce, un po’ come le vedove italiane o le marna nere, moraliste e bigotte e sempre pronte a farti la pelle per la più lieve delle colpe. All’inizio non si è minimamente
preoccupata di nascondere la sua diffidenza nei miei confronti - chi è questo fenicottero che si
intrufola in casa mia ogni giorno? Mi scrutava dalla profondità buia e fuligginosa della sua cucina, e si capiva che non era certa del mio diritto a esistere. Le sorridevo e lei continuava a
fissarmi, forse meditava di cacciarmi con una scopa.
Ma poi qualcosa è cambiato. è stato dopo la storia delle fotocopie.
Ketut Liyer ha pile e pile di vecchi quaderni a righe e registri, riempiti con la sua grafia fitta
e minuta, che raccolgono in sanscrito balinese i misteri della guarigione. Ha ricopiato quegli
appunti negli anni Quaranta e Cinquanta, dopo la morte di suo nonno, per tenere insieme
tutte le informazioni mediche necessarie alla sua attività di guaritore. Sono pagine di inestimabile valore. Vi sono raccolte notizie su alberi rari, foglie e piante, e su tutte le loro proprietà
curative. Ci sono almeno sessanta pagine di diagrammi per la lettura della mano e quaderni
interi dedicati all'astrologia, ai mantra, agli incantesimi e alle cure. Il problema è che questi
quaderni hanno subito per anni le aggressioni della muffa e dei topi e ormai sono ridotti a
brandelli. Ingialliti, sbriciolati, macchiati, sembrano mucchi di foglie morte. Ogni volta che Ketut volta una pagina, la pagina si strappa.
«Ketut» gli ho detto la settimana scorsa, tenendo in mano una di queste reliquie, «non
sono un dottore come te, ma ho l’impressione che questo quaderno stia per morire.»
Ha riso. «Pensi che morirà?»
«Signore» ho detto in tono grave, «ho il dovere di informarla che il paziente non ha che
sei mesi di vita.»
Ho chiesto a Ketut se potevo portare il quaderno in città e fotocopiarlo prima che morisse.
Gli ho dovuto spiegare che cosa vuol dire «fotocopiare» e gli ho garantito che non avrei tenuto il prezioso oggetto con me per più di ventiquattr’ore e che non gli avrei fatto del male...
Alla fine ha acconsentito a lasciarmi portare il quaderno fuori dal perimetro del portico con la
promessa che avrei preservato da ogni pericolo l’antica saggezza del padre di suo padre. Ho
pedalato fino a un Internet Café dotato di fotocopiatrici, e con la massima cautela ho proceduto a duplicare ogni pagina. Ho fatto rilegare le copie nuove e pulite con una copertina di
plastica. La mattina seguente, prima di mezzogiorno, ho riportato a Ketut l’originale e la
nuova versione. Ketut era stupefatto e contentissimo. Mi ha detto che aveva quel quaderno
«da cinquant’anni» e cinquantanni per Ketut poteva voler dire «molto tempo» oppure cinquant’anni davvero.
Gli ho chiesto se potevo copiare anche gli altri quaderni per mettere al sicuro tutto quel
sapere. Me ne ha porto lui stesso un altro, anche questo strappato e malridotto, coperto di
parole in sanscrito balinese e di complicati disegni.
«Un altro paziente!» mi ha detto.
«Lo guarirò» ho risposto.
Un altro successo. Entro la fine della settimana ne avevo salvati parecchi. Ogni giorno Ketut chiamava Nyomo a vedere le nuove copie, al colmo della felicità. L’espressione della
moglie non cambiava, ma la donna esaminava attentamente le prove del mio operato.
Il lunedì successivo, quando sono arrivata da Ketut, Nyomo mi ha portato del caffè caldo
servito in un vasetto di quelli per la gelatina. L’ho guardata mentre attraversava zoppicando il
lungo tratto di cortile tra la cucina e il portico, con il caffè su un piattino di porcellana. Ho
pensato che il caffè fosse per Ketut, ma a lui l’aveva già portato. Era per me. L’aveva preparato per me. Ho cercato di ringraziarla, ma lei sembrava infastidita dalle mie parole, pareva
che volesse cacciarmi come fa con il gallo che cerca sempre di salire sul tavolo della cucina
quando lei prepara il pranzo. Ma il giorno dopo Nyomo mi ha portato un bicchiere di caffè con
una ciotola di zucchero accanto. E il giorno dopo ancora è arrivata con un bicchiere di caffè,
una ciotola di zucchero e pure una patata bollita fredda. Ogni volta ha aggiunto qualcosa,
come nelle filastrocche che si cantano da piccoli nei lunghi viaggi in automobile.
Ieri ero nel cortile e mi congedavo da Ketut; Nyomo si è avvicinata strascicando i piedi.
Aveva la scopa in mano e spazzava, fingendosi distratta. Io avevo le mani incrociate dietro la
schiena, lei è arrivata alle mie spalle e ha afferrato la mia mano con le sue. Ha frugato tra le
mie dita come se cercasse di scoprire la combinazione di un lucchetto finché non ha trovato
l’indice. Poi ha chiuso il suo grande, duro pugno intorno al mio dito e l’ha stretto a lungo. Potevo sentire il suo affetto pulsare in quella energica stretta fino al braccio e giù fino alle viscere. Ha lasciato andare la mia mano e si è allontanata zoppicando penosamente, senza dire
una parola, continuando a spazzare come se niente fosse accaduto. Io sono rimasta lì, ad annegare contemporaneamente e serenamente in due fiumi di felicità.
83
Ho un nuovo amico. Si chiama Yudhi, è indonesiano, originario di Giava. L’ho conosciuto
perché lavora per la proprietaria della mia casa, la signora inglese. Sorveglia la proprietà
mentre lei è a Londra per l’estate. Ha ventisette anni, è tarchiato e parla come un surfer della
California del sud. Mi chiama du-de, come si chiamano tra loro i ragazzi americani. Ha un sorriso che potrebbe fermare per sempre la criminalità, e la storia della sua vita è lunga e complicata, soprattutto se si pensa che è così giovane.
E nato a Giacarta, sua madre era una casalinga, suo padre un fan indonesiano di Elvis, e
proprietario di una piccola ditta di condizionatori. Erano cristiani - un’eccezione in questa
parte del mondo. Yudhi mi racconta storie divertenti sui ragazzini musulmani del vicinato che
lo prendevano in giro: «Tu mangi il maiale», «Tu ami Gesù». Lui non si arrabbiava per questi
scherzi - d’altra parte lui non si arrabbia mai. Sua madre però non lo lasciava andare in giro
con i ragazzini musulmani, perché, diceva, erano sempre scalzi. A Yudhi sarebbe piaciuto
correre senza scarpe con loro, ma la mamma pensava che non fosse igienico e aveva proposto al figlio un’alternativa; o si metteva le scarpe e andava a giocare in strada, o stava
scalzo, ma in casa. Yudhi ha scelto i piedi nudi e ha passato l’infanzia e l’adolescenza nella
sua camera da letto a suonare la chitarra, senza scarpe.
Ha un orecchio eccezionale, non avevo mai sentito nessuno suonare così. Non ha mai
avuto un maestro, ma capisce la melodia e l’armonia come se fossero sue sorelle. La sua
musica mescola Oriente e Occidente, associa le ninnananne indonesiane al groove reggae e
a un funk alla Stevie Wonder dei primi tempi. Meriterebbe di essere famoso. Non conosco
nessuno che l’abbia sentito suonare e non lo pensi.
Ha sempre desiderato vivere in America e lavorare nel mondo dello spettacolo. Un sogno
condiviso da molti giovani in tutto il mondo. Quando era ancora poco più che adolescente è
riuscito a farsi assumere, non si sa bene come (allora non parlava quasi l’inglese), su una
nave della Carnivai Cruise Lines, e in un attimo è stato catapultato dalla sua periferica Gi-
acarta nel grande, vasto mondo. Sulla nave doveva fare uno di quei faticosissimi lavori riservati agli emigranti. Lui e i suoi compagni vivevano sotto il ponte di coperta e lavoravano dódici
ore al giorno, con un solo giorno di riposo al mese (Yudhi era tra quelli addetti alle pulizie).
Erano tutti filippini o indonesiani. Dormivano e mangiavano in aree separate (non vorrete
mescolare cristiani e musulmani, spero!), ma Yudhi era amico di tutti, secondo il suo stile, ed
era diventato una specie di messaggero tra i due gruppi. Vedeva più somiglianze che diversit tra questi guardiani, lavapiatti e cameriere, impegnati a lavorare ore e ore per mandare
cento dollari al mese alle loro famiglie.
La prima volta che la nave da crociera è entrata nel porto di New York, Yudhi è stato sveglio tutta la notte, affacciato al ponte più alto a guardare il profilo della città che si stagliava
all’orizzonte, e aveva il cuore che batteva per l’eccitazione. Qualche ora dopo era già sceso
dalla nave e aveva fermato un taxi proprio come fanno nei film. Quando il giovane tassista
africano, immigrato da poco in America, gli ha chiesto dove volesse andare, Yudhi gli ha risposto: «Ovunque, amico, basta che mi porti in giro. Voglio vedere tutto». Alcuni mesi dopo la
nave ha nuovamente ormeggiato a New York, e questa volta Yudhi è sbarcato definitivamente: il suo contratto con la Carnivai era scaduto e lui voleva vivere in America.
Tra tutti i posti dove poteva andare, è finito in un sobborgo del Newjersey dove ha vissuto
per un po’ con un compatriota conosciuto sulla nave. Ha trovato lavoro nel bar di un centro
commerciale - di nuovo dalle dieci alle dodici ore al giorno, di nuovo un lavoro da immigrato,
questa volta con ragazzi messicani. In quei primi due mesi ha imparato meglio lo spagnolo
dell’inglese. Nei rari momenti liberi saliva su un autobus e andava a Manhattan, girava per le
strade, infatuato della città - una città che, nelle sue parole, è «il luogo più pieno d’amore di
tutto il mondo». Forse grazie al suo meraviglioso sorriso, è riuscito a fare amicizia a New York
con un gruppo di giovani e appassionati musicisti provenienti da ogni angolo del pianeta, e ha
cominciato a suonare la chitarra con loro durante lunghe notti di musica e divertimento... A
uno di questi ritrovi ha incontrato Ann - una bionda del Connecticut, molto carina, che
suonava il basso. Si sono innamorati. Si sono sposati. Hanno trovato un appartamento a
Brooklyn e hanno vissuto circondati da amici intelligenti e pieni di vita, e insieme a loro sono
partiti per un viaggio attraverso il sud degli Stati Uniti, fino a Florida Keys. La vita allora era
straordinariamente bella. Il suo inglese era diventato impeccabile e Yudhi cominciava a
pensare di iscriversi all’università.
L’undici settembre Yudhi ha visto le torri crollare dal tetto della sua casa di Brooklyn.
Come tutti ha provato disperazione e stupore - come si può pensare di infliggere un simile, atroce dolore alla città più piena d’amore del mondo? Non so cosa abbia pensato Yudhi quando
il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il Patriot Act in risposta alla minaccia terroristica forse non si è reso conto che quello era un insieme di provvedimenti severissimi per regola-
mentare l’immigrazione, molti dei quali diretti contro le nazioni di religione islamica come
l’Indonesia. Uno di questi provvedimenti imponeva a tutti i cittadini indonesiani residenti negli
Stati Uniti di iscriversi al Dipartimento di Sicurezza Nazionale. Yudhi e i suoi amici indonesiani
hanno cominciato a domandarsi che cosa fosse meglio fare - molti di loro avevano il visto
scaduto e temevano che, una volta iscritti, sarebbero stati costretti ad andarsene. D’altro
canto avevano paura che non iscriversi volesse dire comportarsi da criminali. è probabile che
i fondamentalisti islamici e i terroristi a zonzo per gli Stati Uniti abbiano ignorato questa legge,
ma Yudhi no, lui ha deciso di registrarsi. Essendo sposato con un’americana, voleva aggiornare la sua situazione e chiedere la cittadinanza. Non voleva vivere nascondendosi.
Yudhi e Ann hanno consultato ogni genere di avvocati, ma nessuno si è mostrato in grado
di dar loro il consiglio giusto. Prima dell’undici settembre non ci sarebbero stati problemi Yudhi si sarebbe potuto limitare ad andare all'ufficio immigrazione, aggiornare il visto e avviare le pratiche per la cittadinanza. Ma adesso? Chi poteva sapere? «Le leggi non sono
ancora state collaudate» gli dicevano gli avvocati, specialisti in immigrazione, «verranno collaudate con voi.» Così Yudhi e la moglie hanno preso un appuntamento con un funzionario
dell’ufficio immigrazione e hanno raccontato la loro storia. A Yudhi è stato detto di ritornare
più tardi, lo stesso pomeriggio, per «un secondo colloquio». Avrebbero dovuto stare attenti in
quel momento: a Yudhi è stato severamente imposto di tornare senza la moglie, senza un
avvocato e senza niente in tasca. Continuando a sperare in una soluzione al suo problema,
Yudhi è ritornato nel pomeriggio ed è stato arrestato.
Lo hanno portato in un centro di detenzione a Elizabeth, nel New Jersey, dove è rimasto
per settimane insieme a una grande folla di immigrati, tutti arrestati in quei giorni in base
all’Homeland Security Act. Molti avevano vissuto e lavorato negli Stati Uniti per anni, molti
non parlavano inglese. Alcuni di loro non erano nemmeno riusciti ad avvertire le famiglie al
momento dell’arresto. Una volta chiusi in quel centro, non erano più identificabili. Nessuno
sapeva della loro esistenza. Ann, quasi impazzita dalla disperazione, ha impiegato giorni per
scoprire dove era stato portato il marito. Di quel periodo, Yudhi ricorda con maggior vivezza il
gruppo di dieci o dodici ragazzi nigeriani, «neri come il carbone», magri e terrorizzati, che
erano stati trovati in una nave da carico dentro un container d’acciaio. Per cercare di arrivare
in America, o da qualsiasi altra parte, erano rimasti nascosti in quel cassone in fondo alla
nave per almeno un mese prima di essere scoperti. Adesso non avevano idea di dove si
trovassero. Avevano gli occhi così grandi, mi ha detto Yudhi, che sembravano ancora accecati dai riflettori.
Dopo un periodo di reclusione, il governo degli Stati Uniti ha rimandato in Indonesia il cristiano Yudhi - sospettato di essere un terrorista islamico. E successo l’anno scorso. Non so se
gli sarà mai più permesso di avvicinarsi aH’America. Yudhi e sua moglie stanno ancora cer-
cando di capire che cosa possono fare delle loro vite; non era il loro sogno vivere in Indonesia.
Incapace di riabituarsi a Giacarta, Yudhi è arrivato a Bali per cercare lavoro, nonostante
abbia qualche problema a essere accettato non essendo balinese. Lui è nato a Giava e i
balinesi non amano i giavanesi, pensano che siano tutti ladri o mendicanti. Così Yudhi incontra più pregiudizi qui - nella sua Indonesia - di quanti ne abbia incontrati in passato a New
York. Non sa che cosa fare. Forse sua moglie potrebbe raggiungerlo. Oppure no. Che cosa
farebbe qui? Il loro giovane matrimonio, vissuto ormai solo attraverso la posta elettronica, sta
andando alla deriva. Yudhi è a disagio in Asia, è disorientato.
Si sente americano; lui e io usiamo lo stesso slang, parliamo dei nostri ristoranti preferiti a
New York e amiamo gli stessi film. Viene da me la sera, gli offro una birra e lui mi suona con
la chitarra canzoni meravigliose. Vorrei che fosse famoso. Se ci fosse giustizia al mondo
sarebbe famoso.
Lui sa a cosa sto pensando e mi dice: «Ehi, dude, perché la vita è così assurda?».
84
«Ketut, perché la vita è così assurda?» ho domandato al mio sciamano.
«Bhuta ia, dewa ia.»
«Che significa?»
«L’uomo è un demone, l’uomo è un dio. Tutte e due le cose sono vere.»
Un concetto a me familiare. Molto indiano. Molto yogico. Gli esseri umani sono nati, come
la mia guru ha spiegato tante volte, con eguale possibilità di contrarsi o di espandersi. Gli ingredienti dell’oscurità e della luce sono presenti allo stesso modo in ciascuno di noi e dipende
dall’individuo (o dalla famiglia, o dalla società) decidere se si vorrà sviluppare la virtù
o il male. La follia del nostro pianeta è in gran parte il prodotto delle difficoltà che l’essere
umano incontra nella ricerca di un sano equilibrio con se stesso. La pazzia (tanto individuale
quanto collettiva) è il risultato di questi insuccessi.
«Ma che cosa possiamo fare contro la follia del mondo?»
«Niente» Ketut ha riso della mia domanda, ma con una nota di gentilezza. «Così è natura
del mondo. Devi preoccuparti solo di tua follia - comincia a cercare la pace in te.»
«E come la trovo?»
«Con la meditazione. Meditazione ha scopo di trovare la pace e la felicità - è molto facile.
Oggi ti insegnerò nuova meditazione, ti farà diventare una persona ancora migliore. E
chiamata meditazione dei quattro fratelli.»
Ketut mi ha spiegato che i balinesi credono che ciascuno di noi alla nascita sia accompagnato da quattro fratelli invisibili che vengono al mondo insieme a noi e ci seguono e ci proteggono per tutta la vita. Quando il bambino è nel grembo materno, i suoi quattro fratelli sono
già lì con lui - sono rappresentati dalla placenta, dal liquido amniotico, dal cordone ombelicale
e dalla sostanza gialla e grassa che protegge la pelle del bambino prima che nasca. Quando
il bambino nasce, i genitori raccolgono quanto più possono di queste sostanze estranee, le
mettono nel guscio di una noce di cocco e le seppelliscono davanti alla porta di casa.
Secondo i balinesi questa noce di cocco sepolta è il sacro luogo del riposo dei quattro fratelli
non nati, da venerare per sempre come un tempio.
Al bambino, appena ha coscienza, viene detto che ha quattro fratelli che lo seguono nel
mondo, ovunque vada, e che lo proteggeranno sempre. I fratelli incarnano le quattro virtù di
cui l’uomo ha bisogno per essere felice: l’intelligenza, l’amicizia, la forza e (questa mi piace)
la poesia. I fratelli possono essere invocati in qualsiasi momento e sono in grado di portare
salvezza e assistenza in ogni situazione. Al momento della morte, i tuoi quattro fratelli invisibili prendono la tua anima e la portano in paradiso.
Oggi Ketut mi ha detto di non aver ancora mai insegnato a un occidentale la meditazione
dei quattro fratelli, ma pensa che io sia pronta. Per prima cosa mi ha indicato i nomi dei miei
quattro protettori, Ango Patih, Maragio Patih, Banus Pa-tih, e Banus Patih Ragio. Mi ha detto
di impararli e di pronunciarli ogni volta che ho bisogno di aiuto. Dei miei fratelli non devo
avere soggezione, perché loro «sono la tua famiglia!». Ketut mi suggerisce di invocarli al mattino, prima dei pasti (in modo da includerli nel godimento del cibo) e soprattutto prima di andare a dormire, perché mi facciano da scudo nella notte, proteggendomi dai demoni e dagli
incubi.
«Questo mi fa piacere» rivelo a Ketut, «perché gli incubi sono un mio problema.»
«Quali incubi?»
Spiego allo sciamano che fin da quando ero bambina ho un incubo ricorrente, e cioè
sogno un uomo con un coltello in piedi vicino al mio letto. L’incubo è così vivido, l’uomo così
reale, che mi è capitato di svegliarmi urlando dalla paura (cosa tra l’altro imbarazzante per
quelli a cui è capitato di dividere il letto con me...).
Ketut mi risponde che da anni sto dando al mio sogno l’interpretazione sbagliata. L’uomo
con il coltello accanto al mio letto non è un nemico, è semplicemente uno dei miei quattro fratelli. è quello che incarna la forza. Non è lì per aggredirmi, ma per proteggermi mentre dormo.
Probabilmente mi sveglio perché avverto l’emozione del mio fratello-spirito mentre combatte
contro qualche demone che cerca di farmi del male. Quello che ha in mano non è un coltello,
ma un kris - un piccolo, affilato stiletto. Non devo avere paura. Posso rimettermi a dormire
sapendo di essere protetta.
«Sei fortunata» ha detto Ketut. «Fortunata perché puoi vedere lui. Qualche volta io vedo
miei fratelli durante la meditazione, ma è molto raro per persona normale vederli così. Sono
sicuro che tu hai un grande potere spirituale. Forse un giorno diventerai sciamana.»
«Benissimo» rispondo ridendo, «ma solo se posso avere una serie televisiva tutta su di
me.»
Ha riso con me senza capire lo scherzo, ma contento all’idea che alle persone piaccia
scherzare. Ketut mi ha spiegato che se dovessi parlare con i miei fratelli-spiriti, devo usare il
soprannome segreto che hanno scelto per me, così loro mi possono riconoscere. Devo dire:
«Sono Lagoh Prano».
Lagoh Prano vuole dire «corpo felice».
Sono tornata a casa in bicicletta, esercitando il mio corpo felice in salita, nel sole del tardo
pomeriggio. Mentre attraversavo un bosco, una grossa scimmia maschio è scesa da un albero e mi si è fermata davanti scoprendo i denti. Non ho battuto ciglio e ho detto: «Fatti in là,
bello, tu non sai che io ho quattro bei ragazzoni che mi proteggono» e sono andata per la mia
strada.
Il giorno dopo, però (nonostante i quattro fratelli) sono stata investita da un autobus. Era
una specie di piccolo pulmino, ma è riuscito a farmi cadere dalla bicicletta mentre pedalavo
per una strada senza alcuna protezione ai lati. Sono andata a finire in un canale di irrigazione
di cemento. Almeno trenta balinesi che avevano visto l’incidente hanno fermato i loro motorini
per venire ad aiutarmi (il pulmino si era allontanato da un pezzo) e c’è stato chi mi ha invitata
a casa sua per un tè
o ha insistito per accompagnarmi all’ospedale. Tutti si sentivano a disagio per quello che
era successo. Ma non è stato così grave. La bicicletta è rimasta intatta, il cestino si è piegato,
il casco si è spaccato. Il danno peggiore è un taglio profondo sul ginocchio, che si è subito
sporcato di terra e sassolini e, nell’aria umida dei tropici, in pochi giorni è diventato una brutta
ferita infetta.
Non volevo spaventare Ketut, ma alla fine mi sono arrotolata la gamba dei pantaloni, ho
tolto la benda ingiallita e gli ho mostrato la ferita. Lui l’ha osservata, preoccupato.
«Infezione» ha dichiarato. «Male.»
«Sì.»
«Devi andare dal dottore.»
Ero sorpresa. Non era lui il dottore? Ma non c’è stato niente da fare. Non so per quale ragione, Ketut non voleva curarmi e io non ho insistito. Forse non dispensa le sue cure e le sue
medicazioni agli occidentali, ho pensato. O forse Ketut aveva un piano segreto, perché è
stato il mio ginocchio bendato a farmi conoscere Wayan. E dopo quell’incontro, tutto quello
che doveva succedere... è successo.
86
Wayan Nuriyasih è come Ketut Liyer, un guaritore balinese. Tuttavia ci sono alcune differenze tra loro: Ketut è anziano ed è un uomo; Wayan è una donna, non ancora quarantenne.
Ketut è una figura sacerdotale, mistica, mentre Wayan è un dottore che prepara le sue
medicazioni e i suoi composti di erbe nell’ambulatorio dove cura i suoi pazienti. L’ambulatorio
è piccolo ma ha l’ingresso sulla strada, nel cuore di Ubud. Si chiama «Centro di cura balinese
tradizionale». Ci ero passata davanti varie volte in bicicletta andando da Ketut, l’avevo notato
per la quantità di vasi di piante che ha davanti alla vetrina e per la curiosa pubblicità di un
menu speciale multivita-minico scritta a mano su una lavagna. Solo quando Ketut mi ha detto
di andare a cercare un dottore, mi sono ricordata di quel posto e sono entrata sperando di trovare qualcuno in grado di guarire l’infezione.
L’ambulatorio di Wayan è una piccola clinica, una casa e un ristorante nello stesso tempo.
Al pianterreno ci sono una cucina minuscola e una sala da pranzo aperta al pubblico, anche
quella di modeste dimensioni, con tre tavoli e poche sedie. Al primo piano c’è un locale riservato ai trattamenti e ai massaggi. Sul retro c’è una stanza da letto, buia.
Sono entrata zoppicando, con il mio ginocchio dolorante, e mi sono presentata alla guaritrice Wayan - una donna balinese sorprendentemente bella con un largo sorriso e capelli lucenti lunghi fino alla vita. C’erano due bambine timide che si nascondevano dietro di lei nella
cucina e che hanno sorriso quando le ho salutate con la mano, e poi sono scomparse. Ho
mostrato la ferita a Wayan e le ho chiesto se poteva fare qualcosa. Wayan ha subito messo a
bollire una pentola d’acqua con delle erbe e poi mi ha fatto bere lo jamu - un composto fatto
in casa. Ha messo delle foglie verdi calde sul mio ginocchio e subito la ferita ha cominciato a
farmi meno male.
Ci siamo messe a parlare. Il suo inglese era perfetto. Poiché è balinese mi ha subito
rivolto le solite tre domande di esordio - dove vai oggi? Da dove vieni? Sei sposata?
Quando le ho detto che non ero sposata (non ancora!) mi è sembrata costernata.
«Non sei mai stata sposata?» mi ha chiesto.
«No» ho mentito.
«Dawero non sei mai stata sposata?» mi ha chiesto di nuovo, e questa volta mi ha guardato molto incuriosita.
«Davvero» ho continuato a mentire, «non sono mai stata sposata.»
«Sicura?»
La situazione stava diventando paradossale.
«Sicurissima.»
«Nemmeno una volta?»
Evidentemente mi leggeva nel pensiero.
«Be’, sì, c’è stata una volta...»
Il suo viso si è rischiarato, come se avesse voluto dire: Sì, l’avevo pensato. Mi ha
domandato: «Divorziata?».
«Sì» ho risposto, ormai vergognandomi. «Sono divorziata.»
«L’avevo capito.»
«Non è molto comune il divorzio qui, vero?»
«Anche io» ha detto Wayan, cogliendomi assolutamente di sorpresa, «anche io sono
divorziata.»
« Tu}»
«Ho fatto tutto quello che ho potuto» ha detto. «Ho provato di tutto prima di divorziare, ho
pregato ogni giorno. Ma dovevo andare via da lui.»
I suoi occhi si sono riempiti di lacrime è, per quanto assurdo potesse sembrare, mi sono
ritrovata a tenere la mano alla prima balinese divorziata che avessi mai incontrato, e intanto
le dicevo: «Sono sicura che hai fatto tutto quello che potevi, cara, che ci hai provato in ogni
modo».
«Il divorzio è una cosa tristissima.»
Ero d’accordo.
Sono rimasta da Wayan per altre cinque ore, parlando con la mia nuova migliore amica
del suo doloroso passato. Lei puliva l’infezione del mio ginocchio mentre io ascoltavo la sua
storia. Il marito balinese di Wayan era un uomo che «beveva sempre, giocava d’azzardo, perdeva tutti i nostri soldi, mi picchiava quando non volevo dargliene altri». Wayan mi ha confidato: «Quando mi picchiava, spesso dovevo andare all’ospedale». Ha scostato qualche ciocca
di capelli, mi ha fatto vedere le cicatrici che aveva sulla testa e mi ha detto: «Queste me le ha
fatte con il casco del motorino. Mi picchiava sempre con quel casco quando beveva, o
quando io non guadagnavo. Mi picchiava così tanto che svenivo, mi ronzava la testa, non vedevo più. è una fortuna che io sia una guaritrice. Nella mia famiglia sono tutti guaritori. Così io
sapevo come curarmi. Se non fossi stata una guaritrice avrei perso le orecchie, capisci? Sarei
diventata sorda. O mi si sarebbero danneggiati gli occhi e sarei diventata cieca. L’ho lasciato
quando mi ha picchiata così forte che ho perso il mio secondo bambino, quello che era nella
mia pancia». Dopo questa disgrazia la loro figlia, una ragazzina intelligente con il soprannome di Tutti, le ha detto: «è meglio se divorzi, mamma, ogni volta che vai all’ospedale lasci
troppo lavoro in casa per me».
Tutti aveva quattro anni quando ha detto queste cose alla sua mamma.
Disertare un matrimonio, a Bali, lascia una persona talmente sola e indifesa che un occidentale fa fatica a immaginarselo. A Bali la famiglia, intesa come gruppo di consanguinei
composto di più nuclei e racchiuso in un unico agglomerato di case cintato da mura, vuol dire
semplicemente tutto -quattro generazioni di fratelli, cugini, genitori, nonni e bambini che
vivono insieme in tanti piccoli bungalow intorno al tempio di famiglia, accudendosi gli uni con
gli altri dalla nascita alla morte. L’agglomerato familiare è la fonte della forza, della sicurezza
finanziaria, della salute, dell’istruzione, e ciò che più conta per i balinesi - dei legami spirituali.
L’agglomerato è un’entità così vitale che i balinesi lo considerano come un unico essere
vivente. La popolazione di un villaggio balinese di solito non viene calcolata sulla base del numero degli individui, ma del numero di agglomerati. L’agglomerato è un universo autosufficiente. Per questo i suoi membri non sono portati ad abbandonarlo (a parte le donne, naturalmente, che si trasferiscono una volta sola per passare dall’agglomerato del padre a quello del
marito). Quando questo sistema funziona - e in questa società awiene quasi sempre -produce
gli esseri umani più positivi, protetti, calmi, felici ed equilibrati al mondo. Ma quando non funziona? Come nel caso della mia amica Wayan? I reietti sono lanciati in un’orbita vuota e dimenticata. Wayan poteva scegliere se restare nell’ambito protetto della famiglia con un marito
che continuava a mandarla in ospedale, o salvare la sua vita e trovarsi da sola e senza niente.
Be’, non proprio niente. Ha portato con sé un’intera enciclopedia di conoscenze mediche,
la sua bontà, il valore etico del suo lavoro, e la sua Tutti, per cui ha dovuto lottare molto. Bali
è una società patriarcale fino in fondo. Nel caso raro di un divorzio, i figli automaticamente
sono assegnati al padre. Per avere Tutti, Wayan si è dovuta procurare un avvocato, e gli ha
dato tutto quello che aveva, e quando dico tutto intendo tutto. Ha venduto non solo i suoi mobili e i suoi gioielli, ma anche i cucchiai e le forchette, le calze e le scarpe, il suo vecchio
guanto di spugna e le candele consumate a metà - tutto per pagare l’avvocato. Ma è riuscita
a riavere la sua bambina, dopo una battaglia di due anni. Wayan è stata fortunata, se avesse
avuto un maschio invece di una femmina non l’avrebbe mai più rivisto. I maschi valgono di
più, qui.
Negli ultimi anni Wayan e Tutti hanno vissuto per conto loro, da sole, nell’alveare di Bali.
Si sono trasferite molte volte, a intervalli di pochi mesi - perché il denaro va e viene - sempre
senza riuscire a dormire per la preoccupazione, senza sapere quale sarebbe stata la tappa
successiva. Ogni volta che Wayan si trasferisce, i suoi pazienti (anche loro, come molti altri
balinesi di questi tempi, spesso in difficoltà economiche) fanno fatica a ritrovarla. Per di più a
ogni trasloco Tutti deve cambiare scuola. Tutti era sempre stata la prima della classe, ma adesso, dall’ultimo trasferimento, è diventata la ventesima su cinquanta bambini.
A metà del racconto di Wayan è proprio Tutti a entrare di corsa nel negozio, di ritorno da
scuola. Ha otto anni e si vede subito che la sua personalità è pirotecnica e carismatica.
Un piccolo fuoco del bengala con i codini, magrolina e vivace, mi ha chiesto in un fantasioso inglese se volessi il pranzo, così Wayan ha detto: «L’ho dimenticato! Devi avere appetito». Madre e figlia sono corse in cucina e insieme alle due ragazzine timide che avevo intravisto nella cucina mi hanno preparato le cose più buone che avessi mai assaggiato fino ad
allora a Bali.
La piccola Tutti mi ha servito ogni pietanza annunciando con voce squillante il nome e gli
ingredienti, sempre con un sorriso smagliante da majorette che fa ruotare il bastone.
«Succo di turmerico per mantenere i reni puliti!»
«Alghe per il calcio!»
«Insalata di pomodori per la vitamina d!»
«Erbe miste per non prendere la malaria! »
Alla fine le ho chiesto: «Tutti, dove hai imparato così bene l’inglese?».
«L’ho imparato da un libro!» ha proclamato.
«Sei una bambina molto, molto intelligente.»
«Grazie» mi ha detto, con un balletto spontaneo e felice, «sei molto intelligente anche tu.»
I bambini balinesi non si comportano così, di solito. Sono tranquilli ed educati, si nascondono dietro le gonne delle mamme. Ma Tutti no. Lei si esibiva in un continuo spettacolo di
danza e chiacchiere.
«Ti faccio vedere i miei libri» ha trillato ed è salita come un fulmine al piano di sopra.
«Vuole diventare un dottore degli animali» mi ha detto Wayan, «come si dice in inglese?»
«Veterinario?»
«Sì, vuole diventare un veterinario, fa molte domande sugli animali ma io non so rispondere. Per esempio mi domanda: “Mamma, se qualcuno mi porta una tigre ammalata, devo
bendarle prima i denti così non mi mangia? Se un serpente si ammala e ha bisogno di medicine, dov’è la sua bocca?”. Non so come mai le vengono in mente queste cose... Spero di poterla mandare all’università.»
Tutti è corsa giù, piegata sotto il peso dei libri che mi stava portando, e come una freccia è
andata direttamente a sedersi in braccio a sua madre. Wayan ha riso e l’ha baciata, tutta la
tristezza evocata dai racconti sul divorzio era sparita dalla sua faccia. Le ho guardate e ho
pensato che le figlie che danno il coraggio di vivere alle loro madri da grandi diventano donne
forti. Un pomeriggio mi era bastato a capire che adoravo quella bambina. Ho rivolto a Dio una
preghiera spontanea: Signore, fa’ che Tutti possa un giorno bendare i denti di mille tigri bianche!
Mi piaceva anche la madre, ma ormai erano ore che mi trovavo nel suo ambulatorio e ho
pensato che dovevo andare. Qualche altro turista era entrato a curiosare, forse sperando di
trovare qualcosa da mettere sotto i denti.
«Tornerò domani» ho promesso a Wayan, «e spero di poter provare di nuovo il pranzo
multivitaminico.»
«Il tuo ginocchio va molto meglio ora» ha detto Wayan. «Migliorerà in fretta. Non c’è più
infezione.»
Ha pulito il liquido appiccicoso che era rimasto sul ginocchio dopo l’impacco di erbe, poi
ha cominciato a muovere su e giù e di lato la rotula cercando di sentire qualcosa. Ha provato
con l’altro ginocchio a occhi chiusi. Li ha riaperti, ha sorriso e ha detto: «Dalle tue ginocchia
mi pare di capire che non hai fatto molto spesso l’amore negli ultimi tempi».
Ho detto: «Perché, le trovi troppo vicine l’una all’altra?».
Ha riso: «No, è per le cartilagini. Sono secche. Gli ormoni del sesso lubrificano le giunture.
Quanto tempo è passato?».
«Circa un anno e mezzo.»
«Hai bisogno di un brav’uomo. Lo troverò io per te. Pregherò al tempio per te, perché adesso tu sei mia sorella. E se verrai domani ti farò un bel lavaggio ai reni.»
«Un brav’uomo e i reni puliti. Sembra un ottimo affare.»
«Non avevo parlato a nessuno del mio divorzio. La mia vita è pesante, troppo triste,
troppo difficile, non capisco perché la vita dev’essere così difficile.»
Sentendola parlare così, ho provato uno strano impulso. Ho preso nelle mie le mani della
guaritrice e ho detto con energica convinzione: «La parte più difficile della tua vita è ormai alle
tue spalle, Wayan».
Me ne sono andata tremando. Non sapevo perché, ma ero tutta pervasa dalla forza di
un’intuizione che non sapevo ancora identificare o razionalizzare.
87
Le mie giornate, adesso, si dividono in tre parti. Trascorro le mattine con Wayan nel suo
ambulatorio-ristorante, ridendo e assaggiando le sue specialità; i pomeriggi li passo con Ketut, parlando e bevendo caffè. Di sera invece resto nel mio bel giardino da sola senza fare niente, oppure leggo un libro, o chiacchiero con Yudhi che viene da me a suonare la chitarra.
Ogni mattina mi esercito nella meditazione mentre il sole sorge sui campi di riso, e prima di
andare a letto parlo con i miei quattro fratelli-spiriti e chiedo di essere protetta e difesa mentre
dormo.
Sono qui solo da poche settimane e ho già la sensazione di aver compiuto una missione.
Lo scopo del mio viaggio in Indonesia era quello di cercare un equilibrio, e adesso mi sembra
di averlo trovato. Non è che io stia diventando balinese (non più di quanto sia diventata italiana o indiana), è solo che riesco a percepire la mia pace, e mi piace l’alternarsi nelle mie
giornate di tranquilli esercizi devozionali, godimento di magnifici paesaggi, buoni amici e ottime pietanze. Ho pregato molto negli ultimi tempi, serenamente. Spesso mi accorgo di avere
voglia di pregare quando sono in bicicletta, mentre pedalo verso casa, di ritorno dai miei pomeriggi con Ketut, attraverso la foresta delle scimmie e i terrazzamenti di risaie, nella penombra del tardo pomeriggio. Nelle mie preghiere in bicicletta non chiedo di non essere investita
da un autobus, o assalita da una scimmia o morsicata da un cane. Sarebbe superfluo. Le mie
preghiere sono soprattutto espressioni di immensa gratitudine per la perfezione della mia
contentezza. Non mi sono mai sentita meno prigioniera di me stessa o del mondo.
Continuo a ricordare uno degli insegnamenti della mia guru a proposito della felicità. Lei
dice che la felicità è universalmente considerata un colpo di fortuna, qualcosa che può arrivare dall’alto come una bella giornata di sole. Ma il suo vero meccanismo è un altro. La felicit è il risultato di uno sforzo individuale. Si combatte per ottenerla, si lotta per lei, la si difende
e qualche volta si parte per un viaggio intorno al mondo per cercarla. Bisogna partecipare
senza sosta alle manifestazioni della propria beatitudine. E quando si è raggiunta la felicità,
non si deve mai perdere la volontà di mantenerla, si deve compiere un potente sforzo per
continuare a nuotare sulla cresta della sua onda. Altrimenti si vedrà la gioia sfumare. è facile
pregare quando si è angosciati, è più diffìcile continuare a farlo quando la crisi è passata, e
aiutare la propria anima a tenere stretti i buoni risultati ottenuti.
Penso a questi insegnamenti mentre pedalo libera nel tramonto di Bali, continuo a formulare preghiere che sono in realtà voti, mostro a Dio la mia armonia dicendogli: «Mi piacerebbe
conservarla sempre. Ti prego, aiutami a imprimere nella mia mente questo sentimento di contentezza e a fare di tutto per non perderlo». è come se mettessi questa felicità in banca - un
deposito assicurato e custodito dai miei quattro fratelli-spiriti, una garanzia contro le prove del
futuro. La chiamo la mia «gioia diligente». Quando mi concentro sulla gioia diligente, mi viene
sempre in mente una cosa che ha detto il mio amico Darcey: che tutti i problemi e le sofferenze di questo mondo sono causati da persone infelici. E questo non riguarda solo personaggi
come Hitler o Stalin, ma anche la nostra piccola sfera personale. Potrei individuare nella mia
vita molti episodi che hanno portato sofferenza o angoscia o (come minimo) disagio alle persone intorno a me. La ricerca della contentezza è quindi non solo un atto che si compie per il
proprio bene, ma è anche un dono al mondo. Spazzare via l’infelicità ti aiuta a non seccare gli
altri. A non essere di ostacolo né a te stesso né al tuo prossimo. Solo così sei libera di aiutare
chi ha bisogno di te e di godere della vicinanza delle persone amiche.
Adesso la persona che mi dà più gioia è Ketut. Il vecchio -davvero uno degli esseri umani
più felici che io abbia mai incontrato - mi dà pieno accesso alla sua anima, e mi sento libera di
rivolgergli qualsiasi domanda sul concetto di divinità e sulla natura umana. Mi piacciono i diversi tipi di meditazione che mi ha insegnato, la buffa semplicità del precetto «sorridi nel tuo
fegato» e la presenza rassicurante dei quattro fratelli-spiriti. Qualche giorno fa lo sciamano mi
ha detto che conosce sedici differenti tecniche di meditazione, e molti mantra diversi. Alcuni
hanno lo scopo di portare la pace e la felicità, altri portano la salute, altri sono puramente
mistici e lo trasportano in altri regni della coscienza. Per esempio, mi ha detto di conoscere
un tipo di meditazione che lo porta «verso su».
«Verso su?» gli ho chiesto. «Che cosa vuol dire?»
«Sette piani più su» ha detto. «In paradiso.»
Sentendogli usare la nota espressione dei «sette piani» gli ho domandato se intendeva
dire che la sua meditazione lo porta attraverso i sette chakra del corpo studiati dallo yoga.
«Non sono chakra. Sono posti. Questa meditazione mi porta in sette posti dell’universo.
Su e su. L’ultimo posto è il paradiso.»
«Sei stato in paradiso, Ketut?»
Ha sorriso. Certo che c’è stato, mi ha detto. è facile andare in paradiso.
«Com’è?»
«Bellissimo. Tutte le cose belle sono lì. Tutte le persone belle sono lì. Tutte le cose buone
da mangiare sono lì. Tutto è amore lì. Il paradiso è amore.»
Ketut poi mi ha detto che conosce un altro tipo di meditazione, quella «verso giù», che lo
porta sette piani sotto al mondo. È più pericolosa dell’altra. Non è per principianti, la può
praticare solo un maestro.
Gli ho domandato: «Quindi se sali in paradiso con la prima meditazione, con la seconda
devi scendere a...».
«All'inferno» ha concluso Ketut.
L’ho trovato molto interessante. L’induismo non tratta spesso i temi dell’inferno e del paradiso. Gli indù vedono l’universo come regolato dalla nozione di Karma, un processo di circolazione costante, vale a dire che tu non «finisci» da nessuna parte alla fine della tua vita, ma
vieni riciclato sulla Terra in una nuova forma, allo scopo di concludere qualsiasi legame lasciato in sospeso o di riparare a qualsiasi torto commesso nella vita precedente. Quando hai finalmente raggiunto la perfezione, puoi lasciare la vita terrena per fonderti nel Vuoto. Secondo
la nozione di Karma, inferno e paradiso sono da ricercarsi solo qui sulla Terra, dove abbiamo
la capacità di crearli, facendo il male o il bene.
Il Karma è un concetto che mi è sempre piaciuto. Non tanto letteralmente, e non necessariamente perché credo di essere stata, in un’altra vita, l’armadietto dei liquori di Cleopatra.
Mi piace l’idea che sta alla base della filosofia karmica. La constatazione, cioè, che anche nel
tempo di una sola vita siamo portati a ripetere con una frequenza impressionante gli stessi errori, battendo la testa contro le stesse vecchie dipendenze e pulsioni, provocando le stesse
disgraziatissime conseguenze, finché non riusciamo alla fine a fermarci e a guarire. Questa è
la lezione fondamentale del Karma (e d’altra parte anche della psicologia occidentale): affronta i problemi ora, altrimenti dovrai soffrire in futuro quando ripeterai gli stessi sbagli. Ed è
il perpetuarsi della sofferenza che si chiama «inferno». Lasciare il meccanismo della ripetizione all’infinito per un nuovo livello di comprensione significa aver trovato il paradiso.
Ma Ketut stava parlando di paradiso e inferno in un altro modo, per lui era come se
fossero luoghi reali dell’universo, che lui aveva potuto visitare davvero.
Per cercare di capire meglio, gli ho domandato: «Ketut, sei stato all’inferno?».
Ha sorriso. Ovvio che c’era stato.
«Com’è l’inferno?»
«Come il paradiso.»
Ha capito di avermi disorientata e ha cercato di spiegarmi: «L’universo è un circolo, Liss».
Non ero ancora convinta.
Ha detto: «Se vai su o se vai giù, è lo stesso».
Mi sono ricordata in quel momento di un antico concetto della mistica cristiana: Come
sopra così sotto. Gli ho chiesto: «Ma allora come si fa a distinguere il paradiso daH’inferno?».
«Li distingui da come tu arrivi lì: in paradiso vai su, attraverso sette luoghi felici. All’inferno
vai giù, attraverso sette luoghi tristi. Per questo è meglio che vai su, Liss» e ha riso.
«Mi stai dicendo che paradiso e inferno sono la stessa cosa?»
«Uguali-uguali» ha detto «e se destinazione è uguale, meglio scegliere il viaggio più bello,
no?»
«Quindi se il paradiso è amore, l’inferno è...»
«Anche inferno è amore.»
Mi sono seduta in silenzio cercando di capire, di risolvere l’equazione.
Ketut ha riso, dandomi un affettuoso colpetto sul ginocchio.
«E sempre troppo difficile da capire per giovani!»
88
E così, questa mattina, eccomi di nuovo da Wayan, che sta cercando un modo per far
crescere i miei capelli più in fretta e più folti. I suoi sono magnifici, lucidi e lunghi fino al fondo
schiena, e le dispiace che io abbia questa zazzerina bionda. Come guaritrice, naturalmente,
possiede un rimedio per aiutarmi, ma il procedimento non è facile. Prima devo trovare un banano e abbatterlo con le mie mani. Poi devo «tagliare via la cima e scavare nel tronco un
buco grande e profondo come una piscina», senza staccare le radici ancora conficcate in
terra. Infine devo coprire tutto con un’asse di legno perché non entrino l’acqua piovana e la
rugiada. Dopo qualche giorno, la «piscina» sarà piena del ricco e nutriente liquido colato dalle
radici, io lo raccoglierò in varie bottiglie e lo porterò a Wayan.
Lei lo benedirà per me, al tempio, e poi me lo strofinerà sulla testa ogni giorno. Entro pochi mesi avrò, come Wayan, i capelli folti, lucenti e lunghi fino alle natiche.
«Funzionerebbe anche se tu fossi calva» mi ha assicurato.
Mentre parliamo, la piccola Tutti, appena arrivata da scuola, sta seduta in terra e disegna
una casa. In questo periodo non disegna altro. Muore dalla voglia di avere una casa tutta per
sé. C’è sempre un arcobaleno sullo sfondo dei suoi disegni, e una famiglia sorridente, completa di padre e di tutti i parenti.
Questo è ciò che facciamo ogni giorno da Wayan. Noi due stiamo sedute a parlare, e Tutti
disegna. Io e Wayan spettegoliamo e ci prendiamo in giro. La mia amica ha un senso
dell’umorismo piuttosto sfacciato, parla sempre di sesso, ride perché sono single e fa commenti piccanti su tutti gli uomini che entrano nel suo ristorante. Continua a dirmi che va ogni
sera al tempio a pregare perché un bell’uomo faccia il suo ingresso nella mia vita e diventi il
mio amante.
Le ho ripetuto: «Non pregare, Wayan, non ne ho bisogno. Troppe volte mi si è spezzato il
cuore».
«Conosco una cura per i cuori spezzati» ha ribattuto lei e, con aria autorevole e professionale, ha contato sulle dita i sei elementi del suo Infallibile Trattamento di Guarigione per i
Cuori Infranti: «Vitamina E, molto sonno, molta acqua, viaggi in luoghi molto lontani dalla persona amata, meditazione e assimilazione del concetto che tanto era destino».
«Ho fatto tutto, tranne la vitamina E.»
«Allora adesso sei guarita. E hai bisogno di un uomo nuovo. Te ne procurerò uno con la
preghiera.»
«Grazie, ma io non sto pregando per un uomo nuovo, Wayan. L’unica cosa per cui sto
pregando, in questo periodo, è di essere in pace con me stessa.»
Wayan ha alzato gli occhi al cielo, come per dire, Quanta pazienza ci vuole con te, grande
aliena bianca, e mi ha spiegato: «Tu hai un grave problema di memoria. Non ti ricordi più che
il sesso è bello. Anch’io avevo un problema di memoria quando ero sposata, ma era un po’
diverso dal tuo: ogni volta che vedevo un bell’uomo per strada, mi dimenticavo di avere a
casa un marito!».
è scoppiata a ridere. «Tutti hanno bisogno di sesso, Liz.»
In quell’istante è entrata nel negozio una donna bellissima. Splendeva come la luce di un
faro. Tutù è saltata in piedi ed è corsa ad abbracciarla, gridando: «Armenia! Armenia! Armenia!». è un’affascinante signora brasiliana, di età indeterminata, elegante e vivace, ma
soprattutto sexy, insistentemente sexy.
Armenia fa parte degli amici di Wayan che vengono da lei a pranzo o per sottoporsi a
qualche trattamento di bellezza. Si è messa a sedere e ha chiacchierato con noi per circa
un’ora, inserendosi senza difficoltà nel nostro piccolo, pettegolo circolo femminile. Rimarrà a
Bali solo per un’altra settimana, prima di volare in Africa, o forse in Thailandia, per lavoro.
Una donna seducente che, in realtà, dedica ben poco tempo alla seduzione. Lavora per l’Alta
Commissione per i Rifugiati delle Nazioni Unite. Negli anni Ottanta è stata inviata a E1 Salvador e in Nicaragua, al culmine della guerra, come negozia-trice di pace, e per portare a ter-
mine la sua missione ha usato la bellezza, il fascino e l’intelligenza. Potenza delle donne! La
visita a Bali fa parte di un’operazione di marketing multinazionale da lei diretta, che sostiene
gli artisti poveri di tutto
il mondo vendendo le loro opere via internet. Parla sette o otto lingue e porta il più favoloso paio di scarpe che abbia mai visto in vita mia.
Guardandoci, Wayan ha detto: «Liz - perché non cerchi di apparire sexy come Armenia?
Sei così carina, hai il capitale di una bella faccia, un bel corpo, un bel sorriso, ma ti vesti
sempre con la stessa vecchia maglietta e gli stessi vecchi jeans. Non vuoi essere sexy come
lei?».
«Wayan» le ho risposto, «Armenia è brasiliana. Siamo completamente diverse.»
«In che senso diverse?»
«Armenia» ho risposto, rivolta alla mia nuova amica, «puoi spiegare a Wayan cosa significa essere una donna brasiliana?»
Armenia ha riso, ma poi è parsa considerare sul serio la mia richiesta. «Ecco, ho sempre
cercato di apparire carina e femminile, anche in zone di guerra e nei campi profughi dell’America Centrale» ha detto. «Anche nelle tragedie e nei momenti di crisi, non c’è ragione di
aggiungere alla tristezza generale il proprio aspetto triste. è la mia filosofia. Per questo sono
sempre truccata e mi metto qualche gioiello per andare nella giungla, niente di troppo
prezioso, magari solo un brac-cialettino d’oro e un paio di orecchini, un po’ di rossetto, un
buon profumo. Per rispetto di me stessa.»
In qualche modo, Armenia mi ricorda quelle grandi viaggiatrici inglesi dell’età vittoriana,
per le quali non c’era motivo di non indossare in Africa vestiti che sarebbero stati adatti a un
salotto inglese. È una farfalla, Armenia. Non ha potuto fermarsi a lungo da Wayan, perché
aveva un impegno di lavoro, ma questo non le ha impedito di invitarmi a una festa questa
sera. Conosce un espatriato brasiliano a Ubud, mi ha detto, che stasera offre una cena in un
bel ristorante, per un’occasione speciale. Cucinerà lui stesso una feijoada, un piatto tipico
brasiliano, che consiste in enormi mucchi di carne di maiale e fagioli neri. Ci saranno anche
cocktail brasiliani. Sono invitati moltissimi suoi compatrioti che vivono a Bali. Mi farebbe piacere partecipare? Poi si potrebbe andare tutti a ballare. Non sa se mi piacciono le feste,
ma...
Cocktail? Balli? Mucchi di carne di maiale?
Certo che verrò.
89
Non ricordo quando è stata l’ultima volta che mi sono vestita per una festa, ma stasera ho
ripescato dal fondo dello zaino uno dei miei abiti a spalline sottili come spaghetti
(naturalmente, un abito italiano) e me lo sono infilato. Mi sono messa perfino il rossetto. Non
mi ricordo nemmeno l’ultima volta che mi sono messa il rossetto, ma di sicuro è stato prima
dell’india. Mi sono fermata a casa di Armenia, e lei mi ha addobbata con qualcuno dei suoi
bei gioielli, mi ha spruzzato addosso un po’ del suo buon profumo e mi ha detto di lasciare la
bicicletta in cortile: dovevo arrivare alla festa sulla sua bella macchina, come ogni normale
donna adulta.
La cena con gli espatriati è stata uno spasso, e mi sono trovata a rivisitare tutti quegli aspetti della mia personalità che da molto tempo erano assopiti. Mi sono anche un po’ ubriacata, e non è cosa da poco dopo l’austerità dei miei ultimi mesi di preghiera a\\'ashram e le
tazze di tè tra i fiori del mio giardino balinese. Ho anche flirtato un po’! Non lo facevo da
secoli. Ultimamente avevo frequentato solo monaci e sciamani, ma adesso eccomi pronta a
resuscitare la mia vecchia sessualità, anche se non sapevo bene a chi dedicare la mia civetteria. Mi sentivo attratta dal brillante ex giornalista australiano seduto vicino a me? («Qui
siamo tutti ubriachi» mi ha detto. «Si offrono consulenze ad altri ubriachi.») O forse dal silenzioso intellettuale tedesco seduto all’altro capo del tavolo? (Ha promesso di prestarmi qualche romanzo della sua biblioteca personale.) O dal bel brasiliano non più giovane, che aveva
cucinato quel banchetto gigantesco per tutti noi? (Mi piacevano i suoi occhi scuri e gentili e il
suo accento. E la sua cucina, naturalmente. Gli ho detto qualcosa di molto provocante, a proposito di niente. Lui si stava prendendo in giro, diceva: «Come brasiliano sono una catastrofe:
non so ballare, non so giocare a calcio e non so suonare nessuno strumento». Non so per
quale ragione, gli ho risposto: «Forse. Ma secondo me, lei potrebbe essere uno straordinario
Casanova». Il tempo si è fermato per un lungo, lungo istante, mentre ci guardavamo con una
franchezza che diceva: Questa è un’idea interessante da mettere in tavola. L’audacia della
mia dichiarazione aleggiava nell’aria intorno a noi come un profumo. Lui non mi ha contraddetta. Io ho distolto per prima lo sguardo, sentendo che arrossivo.)
In ogni caso, la sua feijoada è incredibile. Decadente, piccante, e ricca - tutto quello che
normalmente non trovi nel cibo balinese. Ne ho mangiato un piatto dopo l’altro, e ho deciso di
affermare ufficialmente che non potrò mai essere vegetariana, non se al mondo esiste un piatto come questo. Poi siamo andati a ballare in un night, se si può chiamare cosi un capanno
da spiaggia alla moda, senza la spiaggia. C’era un gruppo di ragazzi balinesi che suonava dal
vivo un buon reg-gae, il pubblico era un misto di festaioli di ogni età e nazionalità, turisti e residenti, splendidi ragazzi e ragazze balinesi, e tutti ballavano liberamente, senza timidezza. Armenia non era venuta, perché il giorno dopo doveva lavorare, e io ero insieme al bel brasiliano maturo. Non era poi un così cattivo ballerino. Probabilmente sapeva anche giocare a calcio. Mi piaceva averlo vicino, mi faceva passare per prima, mi riempiva di complimenti e mi
chiamava «cara». Poi mi sono accorta che chiamava tutti «caro», perfino il villoso barman.
Ma ricevere qualche attenzione è stato bello...
Da tanto tempo non andavo a ballare. In Italia non c’ero mai andata, e neanche durante
gli anni con David. Forse per ricordarmi qual era stata l’ultima volta dovevo risalire ai tempi in
cui ero sposata... ai tempi in cui ero felicemente sposata, adesso che ci penso. Dio, sono
passati secoli. Sulla pista mi sono imbattuta nella mia amica Stefania, una vivace ragazza
italiana che ho conosciuto in una classe di meditazione a Ubud, e abbiamo ballato insieme,
con i capelli che volavano da tutte le parti, i miei biondi e i suoi scuri, volteggiando allegramente. Verso mezzanotte il gruppo ha smesso di suonare e la gente si è dispersa per la sala.
è stato allora che ho incontrato un tipo che si chiama Ian. Oh, mi è piaciuto subito! Era
molto bello, una specie di fratello minore di Ralph Fiennes con un tocco di Sting. Era gallese,
per questo aveva quella voce adorabile. Era disinvolto, intelligente, faceva domande, si rivolgeva alla mia amica Stefania nello stesso italiano infantile che usavo io. Dopo un po’ ho
capito che era il batterista del gruppo reggae, suonava il bongo. Così, tanto per scherzare, gli
ho detto che era un «bongo-liere», come quelli di Venezia, ma con le percussioni invece della
gondola, e così abbiamo rotto il ghiaccio e ci siamo messi a parlare e scherzare.
Poi è arrivato Felipe. Così si chiama il brasiliano. Felipe.
Ci ha invitati tutti in un ristorante da sballo, di proprietà di europei, un posto dove tutto era
permesso, ci ha assicurato, e birra e stronzate venivano servite a tutte le ore. Mi sono ritrovata a sbirciare la faccia di Ian (voleva andarci?) e quando lui ha detto di sì, ho detto di sì
anch’io.
Così siamo andati tutti al ristorante, io mi sono seduta vicino a Ian, abbiamo chiacchierato
e riso tutta la notte, e, insomma, Ian mi piaceva sul serio. Era il primo uomo da un sacco di
tempo a questa parte che mi piacesse davvero, proprio in quel senso lì... Aveva qualche anno
più di me e una vita interessante, e tutti i particolari che venivano fuori a poco a poco erano
quelli giusd (gli piacevano I Simpson, aveva viaggiato in tutto il mondo, aveva vissuto in un
ashram, citava Tolstoj, sembrava avere un lavoro e così via). Aveva cominciato la carriera
come esperto in una squadra di artificieri dell’esercito inglese nell’Irlanda del Nord, poi aveva
fatto il rilevatore di mine per un’organizzazione intemazionale, e infine aveva costruito campi
profughi in Bosnia. Ora si era concesso un periodo di riposo a Bali, per dedicarsi alla musica... Insomma, aveva fatto cose a dir poco affascinanti.
Non potevo credere di essere ancora alzata alle tre e mezzo del mattino, e per di più di
aver saltato la meditazione! Ero fuori di casa in piena notte, indossavo un vestito elegante,
stavo parlando con un uomo che mi piaceva. Un mutamento radicale.
Alla fine della serata, Ian e io ci siamo detti l’un l’altro com’era stato bello esserci conosciuti. Mi ha chiesto se avevo un numero di telefono, e gli ho detto che avevo solo un’e-mail.
Lui ha obiettato: «Sì, ma l’e-mail è così... insomma...», perciò, alla fine, non ci siamo scambiati altro che un abbraccio. «Ci rivedremo ancora quando loro» ha indicato gli dèi su nel cielo
«lo decideranno.»
Poco prima dell’alba, Felipe, il bel brasiliano maturo, mi ha offerto un passaggio a casa. In
automobile, su per le stradine secondarie piene di curve, mi ha detto: «Cara, hai parlato per
tutta la notte con il più gran coglione di Ubud».
Mi si è stretto il cuore.
«Ian? Davvero?» ho domandato. «Meglio sapere la verità subito e risparmiarmi la fatica in
seguito.»
Felipe ha riso. «Non parlo di Ian, cara! Ian è un tipo serio. è un bravo ragazzo. Parlo di
me. Sono io il più gran coglione di Ubud.»
Siamo rimasti per un po’ in silenzio.
«Ti sto solo provocando» ha aggiunto Felipe.
Dopo un altro lungo silenzio, mi ha domandato: «Ti piace Ian, vero?».
«Non lo so» ho risposto. Non avevo le idee chiare, avevo bevuto troppi cocktail brasiliani.
«è bello, intelligente. Ma è passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno mi è
“piaciuto”...»
«Passerai dei mesi splendidi, qui a Bali. Vedrai.»
«Ma dubito di poter avere una vita di società, Felipe. Ho un vestito solo. La gente comincer ad accorgersene.»
«Sei giovane e bella, cara. Un solo vestito ti basta.»
90
Sono giovane e bella?
Pensavo di essere vecchia e divorziata.
Stanotte non ho potuto dormire, sono poco abituata a fare le ore piccole, la musica mi
ronza ancora nelle orecchie, i capelli sanno di sigarette, lo stomaco protesta perché ho
bevuto troppo alcol. E così stamattina non sono riposata, non sono in pace, e non sono certo
in condizione di meditare. Perché sono così agitata? Ho passato una bella serata, no? Ho
conosciuto gente interessante, mi sono vestita da sera e ho ballato e flirtato con un bel po’ di
uomini.
UOMINI.
A quella parola 1.’agitazione si fa più acuta, diventa un piccolo attacco di panico. Non so
più come si fa. Una volta, a vent’anni o anche da adolescente, ero la più spavalda e la più
sfacciata di tutte. Allora mi divertiva incontrare un tipo, attirarlo con velati inviti e piccole
provocazioni, mettendo da parte tutta la prudenza e lasciando che le conseguenze sgorgassero a fiotti come da una botte.
Adesso provo solo incertezza e panico. Comincio a dare alla serata di ieri un’importanza
eccessiva, m’immagino coinvolta in qualcosa di serio con questo gallese, che non mi ha dato
neanche un indirizzo e-mail. Già mi vedo il nostro futuro insieme, inclusi i litigi sul suo vizio di
fumare. Mi chiedo se legarmi di nuovo a un uomo non rovinerà il mio viaggio/la mia scrittura/la mia vita, ecc.
D’altra parte avere una storia sarebbe carino. Ho attraversato un lungo periodo di siccità.
(Mi ricordo che Richard il texano mi aveva dato spassionati consigli sulla mia vita sentimentale: «Hai bisogno di qualcuno che metta fine alla siccità, bambina. Devi trovarti un mago
della pioggia».) Provo a immaginare Ian che si fionda qui in moto, con il suo bel torace da
squadra rilevamento-mine, per fare l’amore con me in giardino. Sarebbe bello. Ma subito
questo pensiero mi stride nelle orecchie, come un’orribile frenata: non voglio impegnare di
nuovo il mio cuore. Comincio a sentire la mancanza di David più di quanto non sia avvenuto
in mesi, e penso: Forse dovrei chiamarlo e vedere se vuole che proviamo a rimetterci insieme... (Al che, istantaneamente, mi risuona nella testa la voce del mio amico Richard: Oh,
che colpo di genio! Ti hanno fatto una lobotomia ieri sera, in aggiunta alla sbronza?) Come se
non bastasse, è sempre brevissimo il passo da David al pensiero ossessivo del divorzio, e
così, inevitabilmente, finisco a rimuginare (proprio come ai vecchi tempi) sul mio ex marito e
sul fallimento del nostro matrimonio
Pensavo che avessimo finito con questa storia, Senza Fondo...
E poi penso a Felipe, il bel brasiliano maturo. è simpatico. Felipe. Dice che sono giovane
e bella, e che qui a Bali mi troverò meravigliosamente bene. Ha ragione, sì o no? Dovrei stare
tranquilla e divertirmi, giusto? Ma questa mattinata non ha niente di divertente.
Non so più come si fa.
«Che cos’è la vita? Tu la capisci? Io no.»
Era Wayan che parlava.
Mi trovavo nel suo ristorante a mangiare il delizioso e nutriente pranzo multivitaminico,
sperando che mi aiutasse ad alleviare il cerchio alla testa e l’ansia. C’era anche Armenia,
che, come sempre, sembrava fosse appena passata dall’istituto di bellezza, dopo un weekend alle terme. La piccola Tutti era seduta sul pavimento, e disegnava case, come al solito.
Wayan aveva appena saputo che il contratto con il proprietario del suo locale sarebbe
scaduto alla fine di agosto -cioè tra soli tre mesi - e che l’affìtto sarebbe aumentato. Avrebbe
dovuto traslocare di nuovo, perché non poteva permettersi di spendere di più, ma aveva solo
cinquanta dollari in banca e non sapeva dove andare. Il trasloco significava togliere Tutti da
scuola. Avevano bisogno di una casa, una vera casa.
«Perché la sofferenza non finisce mai?» mi ha domandato Wayan. Non stava piangendo,
ma ponendo una semplice, stanca domanda. «Perché ogni cosa deve ripetersi, ripetersi e
non finire mai? Un giorno ti affatichi a lavorare, ma il giorno dopo devi lavorare ancora. Mangi,
ma il giorno dopo hai di nuovo fame. Trovi l’amore, e poi l’amore se ne va. Sei nato senza ni-
ente - senza orologio, senza maglietta. Lavori tutta la vita e quando muori sei ancora senza
niente - né orologio, né maglietta. Sei giovane, poi diventi vecchio. Non importa quanto lavori,
non puoi fare a meno d’invecchiare.»
«Armenia no» ho detto, scherzando, «lei non invecchia.»
Wayan ha detto: «Perché Armenia è brasiliana» dimostrando così di aver capito come va
il mondo. Abbiamo riso, ma era un umorismo da patibolo, perché non c’è niente di divertente
nella situazione di Wayan. Ecco i fatti: ragazza madre con figlia sensibile e precoce, un lavoro
che rende solo lo stretto indispensabile, povertà incombente, rischio di restare senza un tetto
sulla testa. Dove andrà? Non può vivere con la famiglia
dell’ex marito, ovviamente, e la sua famiglia d’origine è composta da coltivatori di riso,
povera gente che abita lontano, nelle campagne. Se andasse a vivere con loro, sarebbe la
fine del suo lavoro di guaritrice, perché i paziend non sarebbero in grado di raggiungerla; inoltre, Tutti non riceverebbe l’istruzione necessaria a frequentare un giorno l’Università per
Medici di Animali.
Ma c’è dell’altro. Quelle due ragazzine timide che avevo visto il primo giorno nascondersi
nel retro della cucina sono una coppia di orfane che Wayan ha adottato. Si chiamano entrambe Ketut (tanto per fare ancora un po’ di confusione in questo libro), ma possiamo
chiamarle la Grande Ketut e la Piccola Ketut. Wayan ha trovato le due Ketut alcuni mesi fa
mentre, affamate, mendicavano al mercato. Erano state abbandonate lì da una donna, forse
una parente, che avrebbe potuto essere un perfetto personaggio dickensiano: una reclutatrice
di piccoli orfani da spedire nei vari mercati di Bali a elemosinare. La sera passa a caricarli tutti
su un furgone, porta via loro i soldi che hanno raccolto, e li mette a dormire in una baracca.
Quando Wayan ha trovato le due Ketut, non mangiavano da giorni, avevano pidocchi, parassiti, e così via. La minore ha circa dieci anni, l’altra potrebbe averne tredici, ma non conoscono la loro data di nascita (la Piccola Ketut sa solo di essere nata nell’anno del «maiale
grasso») e non sanno nem- meno come si chiamano di cognome. Wayan le ha prese con sé
e se ne occupa con lo stesso affetto che ha per Tutti. Le tre bambine dormono insieme su un
grande materasso dietro il ristorante.
Come possa una donna sola che rischia lo sfratto trovare posto nel suo cuore per due
bambine in più oltre alla sua è qualcosa che va oltre il mio concetto di pietà umana.
Voglio aiutarle.
Tutto chiaro. Ecco che cos’era quel turbamento profondo che avevo provato dopo aver incontrato Wayan per la prima volta. Volevo aiutarla. Volevo vedere lei e le sue bambine sistemate in una vita migliore, ma non sapevo come fare per
renderlo possibile. Oggi, mentre Wayan, Armenia e io eravamo a tavola a chiacchierare
saltando da un argomento all’altro ma sempre in un clima di generale empatia, ho guardato
Tutti, e ho visto che faceva qualcosa di strano: teneva un quadratino di ceramica blu cobalto
sul palmo delle mani protese verso l’alto, e se ne andava in giro per la stanza salmodiando.
L’ho guardata per un po’, solo per vedere cosa avesse intenzione di fare. Giocava con la piastrella, la lanciava in aria, la riprendeva, le bisbigliava qualche parola, cantava, poi a un
tratto l’ha messa per terra e ha cominciato a spingerla come se fosse un’automobilina. Dopo
si è seduta in un angolo con gli occhi chiusi, cantando tra sé, immersa in un’atmosfera mistica
solo sua.
Ho domandato a Wayan che cosa stava succedendo e lei mi ha spiegato che Tutti aveva
trovato quella piastrella nel cantiere di un palazzo in costruzione, destinato a diventare un
grande albergo, e se l’era messa in tasca. Da quel giorno non aveva fatto che ripeterle: «Se
avremo una casa, scegliamo un bel pavimento blu, come questo». Ormai Wayan la vede
spesso mentre, appollaiata su quella piccola piastrella, chiude gli occhi e immagina per ore di
essere a casa sua.
Che dire? Quando ho sentito quella storia e ho guardato quella bambina assorta nella
meditazione sulla sua piastrella mi sono detta: «Basta, ho deciso».
Ho salutato le mie amiche e sono andata a occuparmi di questa intollerabile situazione,
una volta per tutte.
92
Wayan mi ha detto che spesso lei, quando cura i suoi pazienti, diventa una sorta di acquedotto che trasporta il flusso incessante dell’amore di Dio. Il suo intelletto si ferma, e tutto
ciò che Wayan deve fare è permettere alla sua essenza divina di fluire attraverso di lei. Dice:
«E come se venisse un vento e mi prendesse per mano».
Lo stesso vento, forse, è quello che mi ha spinto quel giorno fuori dal locale di Wayan,
fuori dall’ansia ossessiva che mi faceva chiedere continuamente se sarei riuscita a vedermi
con un altro uomo, e mi ha guidata, invece, all’Internet Café di Ubud, dove mi sono seduta e
ho scritto di getto a tutti i miei amici e familiari intorno al mondo un’e-mail per raccogliere
fondi.
Ho detto a tutti che presto, in luglio, avrei compiuto tren-tacinque anni e che non c’era niente al mondo di cui avessi bisogno o che desiderassi, e che non ero mai stata più felice di
così in vita mia. Ho detto che, se fossi stata a casa, a New York, avrei organizzato una
grande, stupida festa di compleanno, li avrei invitati tutti e loro avrebbero dovuto comprarmi
regali e bottiglie di vino. Avremmo speso tutti un sacco di soldi. Quindi mi permettevo di suggerire a familiari e amici un modo più economico e simpatico di celebrare questo compleanno: una donazione per aiutare una donna di nome Wayan Nuriyasih a comprare una casa in
Indonesia per sé e le sue figlie.
Poi ho raccontato la storia di Wayan, di Tutti, e delle due bambine adottate. Ho promesso
che per ogni donazione avrei aggiunto al totale una somma equivalente. Ero consapevole, ho
scritto, che questo è un mondo pieno di guerre e di sofferenze e che tutti hanno bisogno di
tutto, ma per il momento che altro potevamo fare? Quel piccolo gruppo di persone a Bali era
diventato la mia famiglia, ed è un dovere occuparsi della propria famiglia, ovunque si trovi.
Terminato l’appello collettivo, mi sono ricordata di una cosa che mi aveva detto la mia amica
Susan alla vigilia della mia partenza per questo viaggio intorno al mondo, nove mesi prima.
«Ti conosco, Liz» mi aveva detto, «incontrerai qualcuno, t’innamorerai, e finirai per comprare
una casa a Bali.»
Una perfetta Nostradamus, quella Susan.
La mattina dopo, quando ho aperto la mia posta, erano già arrivati settecento dollari. Il
giorno successivo, la cifra era così alta che non potevo più mantenere la promessa di aggiungere altrettanto.
Non racconterò tutti gli awenimenti di quella settimana, non cercherò di spiegare che cosa
provavo nell'aprire ogni giorno quelle e-mail che arrivavano da tutto il mondo e dicevano:
«Conta su di me!». Tutti hanno mandato un contributo. Persone che sapevo essere indebitate
o senza soldi hanno partecipato senza esitazione. Una delle prime risposte è arrivata da un
amico della fidanzata del mio parrucchiere, a cui era stata inoltrata l’e-mail: voleva dare quindici dollari. Il mio saccente amico John non mi ha risparmiato, naturalmente, un commento
sarcastico sulla lunghezza di quella mia richiesta traboccante di sentimento: «Se vuoi piangere sul latte versato, bada prima che sia condensato», ma i soldi li ha mandati lo stesso. Il
nuovo fidanzato della mia amica Annie (un banchiere di Wall Street che non avevo mai visto)
si è offerto di raddoppiare la somma definitiva, qualunque fosse. Poi quella e-mail è rimbalzata in giro per il mondo e ho cominciato a ricevere soldi da perfetti sconosciuti. Una generosit globale quasi soffocante.
Per farla breve, dopo solo sette giorni da quando era iniziata la questua, tra i miei amici, la
mia famiglia e un gruppo di sconosciuti di tutto il mondo, sono riuscita a mettere insieme
quasi diciottomila dollari per comprare a Wayan Nuriyasih una casa tutta sua. Sapevo che era
stata Tutti a compiere questo miracolo, con la forza delle sue preghiere, facendo in modo che
quella sua piccola piastrella blu le crescesse intorno -come uno dei fagioli magici di Jack trasformandosi in una vera casa che avrebbe protetto per sempre lei, sua madre e le due orfanelle.
Un’ultima cosa. Mi vergogno di ammettere che è stato il mio amico Bob ad accorgersi per
primo che «Tutti» è anche una parola italiana. Come mai io non me n’ero accorta? Ho dovuto
aspettare che me lo dicesse Bob, la settimana scorsa, dallo Utah, nella sua e-mail con il contributo per la nuova casa: «E così, questa è la lezione finale, vero? Quando vai in giro per il
mondo per aiutare te stessa, finisci inevitabilmente per aiutare... Tutti».
Non voglio dirlo a Wayan prima di aver in mano il denaro raccolto.
è difficile mantenere un segreto grande come questo, specialmente vedendola così preoccupata per il futuro, ma non voglio darle illusioni finché non sarò sicura di quello che posso
garantirle. Così, per tutta la settimana, tengo la bocca chiusa sui miei progetti, e vado a cena
quasi ogni sera con Felipe il brasiliano, cui non sembra importare che io possieda un unico
vestito da sera.
Credo di essermi presa una sbandata. Dopo qualche cena ne ho quasi la certezza. Non è
quello che dice di essere, il «maestro di stronzate» che conosce tutti a Ubud, ed è l’anima di
ogni festa. Ho parlato di lui con Armenia. Per un po’ di tempo sono stati buoni amici. Le ho
detto: «Quel Felipe non è un superficiale come gli altri, vero? Ha qualcosa in più, mi sembra».
«Oh, sì» mi ha risposto. «è buono, gentile, ma è reduce da un brutto divorzio. Penso che sia
venuto a Bali per riprendersi».
Ah, è un argomento di cui non so niente.
Ha cinquantadue anni, e questo mi dà da pensare. Ho davvero raggiunto l’età in cui un
uomo di cinquantadue anni può essere tranquillamente un candidato per una relazione? Non
lo so, ma mi piace. Ha i capelli d’argento, è stempiato in modo che oserei definire picassiano. Ha gli occhi scuri e dolci, una faccia gentile e un buon odore. E poi è un vero adulto. Un
maschio adulto della specie umana, un esemplare raro nella mia esperienza.
Vive a Bali da ormai cinque anni, lavora con degli argentieri balinesi che creano gioielli
con pietre preziose brasiliane da esportare in America. Mi piace l’idea che sia stato sposato,
e fedele, per quasi vent’anni, prima che il suo matrimonio andasse a finir male per tutta una
multisfaccettata serie di ragioni. Mi piace che abbia educato bene i suoi figli, che gli sono
molto affezionati. Mi piace che sia rimasto a casa quando erano piccoli, mentre la moglie australiana inseguiva la sua carriera. (Un bravo marito femminista. «Ho voluto essere dalla parte
giusta della storia» dice.) Mi piace che abbia una naturale, brasiliana, eccessiva esibizione di
affetti. (Quando suo figlio ha compiuto quattordici anni, gli ha detto: «Papà, adesso che ho
quattordici anni, forse non dovresti più baciarmi sulla bocca quando mi lasci davanti a
scuola».) Mi piace che parli quattro lingue, o forse di più. (Continua a dichiarare che non conosce l’indonesiano, ma glielo sento parlare tutto
il giorno.) Mi piace che nella sua vita abbia visitato più di cinquanta Paesi, e veda il mondo
come uno spazio piuttosto piccolo in cui è facile orientarsi. Mi piace come mi ascolta, protendendosi in avanti, aprendo bocca solo quando io m’interrompo per domandargli se lo sto
annoiando e sentirmi rispondere, invariabilmente: «Per te ho tutto il tempo del mondo, mia
adorabile piccola cara». Mi piace essere chiamata «adorabile piccola cara» (anche se la
cameriera quéste parole le capisce benissimo).
L’altra sera, mi ha detto: «Perché non ti prendi un amante, mentre sei a Bali, Liz?».
A suo merito, devo dire che non alludeva a se stesso, anche se penso che non gli
sarebbe dispiaciuto ricoprire l’incarico. Mi ha assicurato che Ian sarebbe stato adatto a me,
ma che c’erano anche altri possibili candidati. C’è uno chef di New York, un tipo «massiccio,
muscoloso e sicuro di sé», che potrebbe piacermi. In realtà, svariati tipi di uomini si aggirano
per Ubud, espatriati provenienti da tutte le parti del mondo che si nascondono in questa
comunità volatile di «senza casa né chiesa», e molti, mi assicura Felipe, sarebbero felici di
provare, «mia adorabile piccola cara, a farti passare una splendida estate».
«Non penso di essere pronta» gli ho detto. «Non me la sento di affrontare di nuovo tutte le
fatiche di una storia d’amore, capisci? Non ho voglia di dovermi depilare le gambe ogni
giorno, o di mostrare il mio corpo a un nuovo amante. E non ho voglia di raccontare ancora la
storia della mia vita, o di occuparmi del controllo delle nascite. E comunque, non sono
neanche sicura di sapere ancora come si fa. Forse avevo più sicurezza in materia di sesso e
amore quando avevo sedici anni.»
«è naturale» ha detto Felipe. «Allora eri giovane e stupida. So
lo i giovani e gli stupidi si sentono sicuri quando si tratta di sesso e amore. Credi che ci si
possa amare senza complicazioni? Dovresti vedere che cosa succede a Bali, cara. Tutti
questi uomini occidentali che vengono qui dopo aver distrutto la loro vita in patria decidono
che ne hanno abbastanza delle donne occidentali e sposano una dolce, minuscola, obbediente adolescente balinese. Pensano che quella graziosa ragazzina li farà felici, gli renderà
tutto facile. Buona fortuna, sono tentato di dirgli, ma non dimenticate che ciascuno di voi è un
uomo che ha davanti a sé una donna, siete pur sempre due persone che cercheranno di andare d’accordo e le complicazioni saranno inevitabili. La verità è che gli esseri umani devono
cercare di amarsi, cara, anche se qualche volta gli si spezza il cuore. Ma avere il cuore
spezzato è un buon segno, significa essersi messi in gioco.»
«L’ultima volta» gli ho detto «il mio si è spezzato con tanta violenza che mi fa ancora
male. Non è pazzesco avere ancora
il cuore infranto dopo quasi due anni?»
«Cara, sono un brasiliano del sud. Potrei trascinarmi dieci anni con il cuore infranto per
una donna che non ho mai baciato.»
Abbiamo parlato dei nostri matrimoni, dei nostri divorzi. Senza rancore, solo per dolerci
della condizione umana. Abbiamo messo a confronto le abissali profondità della depressione
in cui entrambi siamo caduti in seguito al divorzio. Abbiamo mangiato, abbiamo bevuto il vino
e ci siamo raccontati le storie più carine che siamo riusciti a ricordarci sui rispettivi ex coniugi,
per alleggerire quella conversazione su ciò che avevamo perduto. Poi lui mi ha chiesto se
avevo voglia di andare da qualche parte con lui nel finesettimana. E mi sono scoperta a dire
di sì, che sarebbe stato bello. Perché sarebbe stato bello.
Per due volte, seduti in automobile di fronte a casa mia, nel-l’augurarmi la buona notte Felipe mi si era avvicinato per darmi un bacio, e per due volte io gli avevo permesso di attirarmi
a sé, ma poi avevo girato la testa all'ultimo momento e avevo appoggiato la guancia sul suo
petto. Questa sera ho lasciato che mi abbracciasse un po’ più a lungo di quanto richieda una
semplice amicizia. Posso sentirlo premere la faccia nei miei capelli, mentre la mia preme sulle
sue spalle. Sento l’odore della sua morbida camicia di lino. è un odore che mi fa impazzire.
Felipe ha braccia muscolose, un torace ampio. Un tempo, in Brasile, era un campione di atletica leggera. Certo, non è stato proprio di recente: era il 1969, l’anno in cui sono nata io, oltretutto, ma che importa. Il suo corpo dà una struggente sensazione di forza.
La mia abitudine di abbassare la testa ogni volta che si avvicina è un modo di nascondermi per evitare il bacio della buonanotte. Ma è anche un non nascondersi. è anche un modo
per non perdere, alla fine della serata, quei lunghi, silenziosi momenti in cui mi lascio abbracciare.
Non accadeva da tanto tempo.
94
Ho domandato a Ketut, il mio vecchio sciamano: «Che cosa sai sulle relazioni amorose?».
«Che cosa sono queste “relazioni amorose”?»
«Niente, lascia perdere.»
«No, tu spiega.»
Ho cercato di spiegarmi. «è quando un uomo e una donna sono innamorati. O due donne.
O due uomini. Baci, sesso e qualche volta il matrimonio. Cose così.»
«Io non ho sesso con persone diverse, Liss. Solo con mia moglie.»
«Certo, e va benissimo così. Ma ti riferisci alla tua prima moglie o alla seconda?»
«Ho avuto una sola moglie, Liss. Adesso è morta.»
«E Nyomo?»
«Nyomo non è mia moglie, Liss. E moglie di mio fratello.» Ha visto che non capivo e ha
aggiunto: «A Bali succede così». Poi ha cercato di spiegarmi.
Il suo fratello maggiore è un coltivatore di riso, vive accanto a lui ed è sposato con Nyomo.
Hanno tre figli. Ketut e sua moglie, che non avevano figli, hanno adottato uno dei figli del fratello, per avere un erede. Quando la moglie di Ketut è morta, Nyomo ha cominciato a vivere
con entrambe le famiglie, dividendo il suo tempo tra le due case, occupandosi sia di suo
marito sia di Ketut. Per Ketut è una moglie a tutti gli effetti, secondo le usanze di Bali (fa da
mangiare, pulisce la casa, si occupa delle cerimonie e dei riti domestici), ma non hanno rapporti sessuali.
«Perché no?» ho domandato.
«Troppo vecchio!» mi ha risposto. Poi ha chiamato Nyomo e le ha detto che l’americana
voleva sapere perché loro due non avevano rapporti sessuali. Nyomo è quasi morta dal
ridere, mi si è avvicinata e mi ha dato un pugno sul braccio.
«Ho avuto una sola moglie» ha ripetuto Ketut. «E adesso è morta.»
«Senti la sua mancanza?»
«Era venuto per lei il momento di morire» mi ha risposto con un sorriso triste. «Adesso ti
dico come ho sposato mia moglie. A ventisette anni ho incontrato una ragazza e l’ho amata.»
«Che anno era?» ho domandato, sperando di riuscire a capire quanti anni ha.
«Non lo so» ha detto. «Forse il 1920.»
(Vorrebbe dire che adesso ha circa centododici anni. Forse ci sono vicina...)
«Amavo una ragazza, Liss. Era molto bella, ma non aveva un buon carattere. Voleva solo
soldi. Correva dietro altri ragazzi. Non diceva mai la verità. Lei ha smesso di amarmi, è andata via con altro ragazzo. Io ero molto triste. Con cuore a pezzi. Pregavo e pregavo gli spiriti
di miei quattro fratelli, chiedevo: perché non mi ama più? Poi lo spirito di un fratello mi ha
detto la verità: “Quella non è adatta a te. Sii paziente”. Allora sono stato paziente, e ho trovato
mia moglie. Bella donna, buona. Sempre dolce con me. Non una volta abbiamo litigato, siamo
sempre stati in armonia nella casa, sempre sorridenti. Anche quando non c’erano soldi, lei
sorrideva. Quando è morta è scesa una grande tristezza nella mia mente.»
«Hai pianto?»
«Solo un po’, dentro gli occhi. Ma faccio meditazione, per ripulire il corpo dal dolore.
Medito per la sua anima. Sono molto triste, ma anche felice. Ogni giorno faccio visita a lei
mentre medito, la bacio. Lei è unica donna con cui ho fatto l’amore. Così non so... qual è
quella espressione che hai usato?»
«Relazioni amorose?»
«Sì, relazioni amorose. Non le conosco, Liss.»
«Allora, questo non è un argomento di tua competenza, è così?»
«Che cos’è questo, competenza? Che cosa vuol dire questa parola?»
95
Un giorno mi sono seduta con Wayan, e le ho detto finalmente che avevo trovato i soldi
per la sua casa. Le ho spiegato che
li avevo chiesti per il mio compleanno, le ho mostrato l’elenco dei miei amici, e le ho detto
quanto avevo raccolto in tutto: diciottomila dollari americani. All’inizio è rimasta così sorpresa
che la sua faccia sembrava una maschera di dolore. è strano, ma talvolta le emozioni forti
possono causare una reazione opposta a quella che sembrerebbe logica. La notizia che
avevo appena annunciato a Wayan era troppo grande per lei, al punto che ne è rimasta
scioccata. Ho passato qualche ora accanto alla mia amica, ripetendole l’intera storia e
mostrandole più volte le cifre, finché la realtà non ha cominciato a farsi strada nella sua
mente. La sua prima risposta articolata (prima che scoppiasse in lacrime all’idea che le
sarebbe stato possibile avere anche un giardino) è stata questa, un torrente di parole agitate
e smozzicate: «Spiega ai tuoi amici che questa non sarà la casa di Wayan, sarà la casa di
tutti quelli che hanno aiutato Wayan. Se qualcuna di queste persone verrà a Bali, non dovrà
mai stare in un albergo, d’accordo? Devono venire a stare nella mia casa, ok? Me lo prometti? La chiameremo La Casa Comune... La Casa per Tutti».
Poi ha pensato al giardino, e giù i lacrimoni. Se avrà una casa, potrà avere anche una piccola biblioteca per i suoi libri di medicina! E una farmacia per i suoi rimedi tradizionali! E un
ristorante decente, con vere sedie e veri tavoli (visto che aveva dovuto vendere tutte le sedie
e i tavoli per pagare l’avvocato del divorzio) ; se avrà una casa, potrà essere inserita nella
guida Lonely Planet dell’Indonesia, che insiste per menzionare la sua attività, ma non può,
perché lei non ha mai un indirizzo permanente da poter stampare. Se avrà una casa, Tutti potr avere un giorno la sua festa di compleanno.
Poi è diventata di nuovo molto seria. «Come posso ringraziarti, Liz? Ti darei qualsiasi
cosa. Se avessi un marito che amo, e tu avessi bisogno di un uomo, ti darei mio marito.»
«Tieniti tuo marito,Wayan. Fa’ solo in modo che Tutti vada all’università.»
«Che cosa avrei fatto, se tu non fossi mai venuta qui?»
Ma io ci sarei venuta comunque. Ho pensato a una delle poesie sufi che preferisco, dov’è
scritto che Dio un tempo ha tracciato un cerchio nella sabbia esattamente intorno al punto in
cui ciascuno di noi si troverà. Non potevo non venire qui. Ci sarei venuta comunque. «Dove
intendi costruire la tua nuova casa, Wayan?» le ho domandato.
Come un bambino appassionato di baseball che abbia messo gli occhi da secoli gli occhi
su un bel guantone nella vetrina di un negozio, o come una ragazza romantica che abbia continuato a immaginarsi il suo vestito da sposa da quando aveva tredici anni, è risultato che
Wayan sapeva già esattamente quale pezzo di terra le sarebbe piaciuto comprare. è nel
centro di un villaggio vicino, collegato all’acqua e all’elettricità municipale e con una buona
scuola per Tutti nelle vicinanze. Lì i suoi pazienti avrebbero potuto raggiungerla facilmente. I
suoi fratelli l’avrebbero aiutata a costruire la casa, mi ha detto. Aveva già scelto le tonalità di
colore per la camera da letto principale.
Così siamo andate insieme a trovare un simpatico espatriato francese, consulente finanziario e agente immobiliare, che ci ha consigliato il modo migliore di trasferire i soldi. Il suo suggerimento era che io, semplicemente, trasferissi il denaro dal mio conto in banca a quello di
Wayan. Finché non avessi spedito somme superiori ai diecimila dollari per volta, I’irs e la cia
non mi avrebbero sospettato di riciclare denaro sporco. Poi siamo andate alla piccola banca
di Wayan, e abbiamo chiesto al direttore le modalità di un trasferimento di denaro. Per concludere, il direttore ha detto: «Allora, Wayan, questo trasferimento sarà eseguito rapidamente.
In pochi giorni, avrai sul tuo conto centottanta milioni di rupie».
Wayan e io ci siamo guardate e siamo esplose in un’assurda, irrefrenabile risata. Una
somma enorme! Cercavamo di controllarci, anche perché eravamo nel bell’ufficio di un dirigente di banca, ma non riuscivamo a smettere di ridere. Siamo uscite come due ubriache,
sorreggendoci l’una con l’altra per non cadere.
Wayan ha detto: «Non ho mai visto un miracolo di questa portata verificarsi così in fretta!
Io pregavo Dio di aiutare Wayan. E Dio pregava Liz di aiutare Wayan!».
«E intanto Liz» ho aggiunto «pregava anche i suoi amici di aiutare Wayan!»
Siamo tornate al locale. Tutti era appena arrivata da scuola. Wayan si è inginocchiata, ha
abbracciato stretta la sua bambina e le ha detto: «Una casa! Una casa! Abbiamo una casa!».
Tutti allora si è esibita in un favoloso svenimento, crollando a terra come un personaggio di
un cartone animato.
Mentre tutte ridevamo, ho visto le due orfane nel retro della cucina che mi guardavano
con un’espressione che mi è parsa di... paura. Mentre Wayan e Tutti piroettavano in preda
alla gioia, mi sono domandata cosa stessero pensando quelle due bambine. Di cosa avevano
paura? Di essere abbandonate? O forse ero io che facevo paura, perché avevo rimediato
tanti soldi dal nulla? (Una impensabile somma di denaro può non essere legata alla magia
nera?) O forse, semplicemente, quando si ha una vita precaria come queste bambine, ogni
cambiamento provoca terrore.
Quando i festeggiamenti si sono placati un momento, ho domandato a Wayan, tanto per
essere sicura: «Che ne sarà di Grande Ketut e Piccola Ketut?è una buona notìzia anche per
loro, vero?».
Wayan ha guardato le bambine in cucina, e deve aver visto la stessa inquietudine che
avevo visto io, perché è corsa da loro, le ha prese tra le braccia e, china sulle loro teste, ha
detto le parole necessarie a tranquillizzarle. Il suo affetto le ha calmate, ma quando è suonato
il telefono, e Wayan ha cercato di allontanarsi per rispondere, le due Ketut sono rimaste aggrappate alla madre adottiva, hanno seppellito le loro teste nel suo grembo e si sono rifiutate
- con una forza che non avevo mai visto in loro - di lasciarla andare.
Così al telefono ho risposto io.
«“Centro di cura balinese tradizionale”» ho detto. «Venite oggi per la nostra gigantesca
svendita di chiusura e trasferimento di esercizio.»
96
Sono uscita ancora due volte con il brasiliano Felipe, durante il week-end. Sabato l’ho
portato a conoscere Wayan e le bambine. Tutti ha fatto per lui dei disegni di case, mentre
Wayan ammiccava maliziosa alle sue spalle e muoveva la bocca per chiedermi in silenzio:
«Fidanzato?». Io scuotevo la testa «No, no, no.» (Anche se, lo confesso, non penso più al bel
gallese). Poi ho portato Felipe a conoscere il mio sciamano. Ketut gli ha letto la mano e lo ha
definito, non meno di sette volte, un mio amico (e intanto mi fissava con uno sguardo penetrante), un brav’uomo, molto buono, molto molto buono. Non è cattivo, Liss, è un brav’uomo.
Poi, domenica, Felipe mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto passare una giornata in
spiaggia.
Mi sono resa conto che vivevo già da due mesi a Bali, e non avevo ancora visto la
spiaggia, mi sono sentita un’idiota e ho detto di sì, che sarei andata volentieri. Mi è venuto a
prendere a casa con la sua jeep e, dopo un’ora, siamo arrivati a Pe-dangbai, dove c’è una
piccola spiaggia nascosta poco frequentata dai turisti. Mi è parsa la più bella imitazione del
paradiso che avessi mai visto, acqua azzurra, sabbia bianca, e l’ombra delle palme. Abbiamo
parlato tutto il giorno, interrompendoci solo per nuotare, riposare e leggere, qualche volta a
voce alta. In un capanno dietro la spiaggia c’erano delle donne balinesi che ci hanno cotto del
pesce fresco alla griglia, e abbiamo comprato birre fredde e frutta gelata. In mezzo alle onde,
ci siamo detti tutti i particolari che ancora mancavano alle storie della nostra vita, piccole cose
che avevamo trascurato nelle sere passate insieme.
Gli piace il mio corpo, così mi ha detto dopo avermi vista per la prima volta in costume da
bagno. Mi ha spiegato che i brasiliani usano un’espressione particolare per definire le donne
che hanno un corpo come il mio, le chiamano false magre, cioè donne che sembrano magre
ma in realtà sono provviste di quelle rotondità che piacciono ai brasiliani. Dio li benedica.
Mentre parlavamo sdraiati sui nostri asciugamani, lui qualche volta mi si è avvicinato per togliermi la sabbia dalla punta del naso, o un ciuffo di capelli dalla faccia. Siamo rimasti lì tutto il
giorno. Poi, quando è venuto il buio, abbiamo raccolto le nostre cose e siamo andati a
passeggiare sulla strada principale, sterrata e non molto illuminata, di questo vecchio villaggio
di pescatori. Abbiamo camminato allacciati sotto le stelle. È stato allora che Felipe mi ha chiesto, nel modo più naturale e tranquillo (quasi come se mi proponesse di andare a cena) :
«Perché non cominciamo una storia, io e te, Liz? Che cosa ne pensi?».
Mi piaceva il modo in cui stava accadendo. Non con un gesto, con il tentativo di un bacio,
ma con una domanda esplicita. E anche giusta. Mi sono ricordata che oltre un anno fa, prima
di partire, avevo detto alla mia psicoterapeuta che non avrei voluto avere storie d’amore per
tutta la durata del viaggio, ma non sapevo se ci sarei riuscita. «Che cosa farò se incontrerò
qualcuno che mi piace veramente? Dovrò rinunciare ai miei propositi? Manterrò la mia autonomia?» Lei mi aveva risposto con un sorriso indulgente. «Secondo me, Liz, ti conviene
ripensarci quando si presenterà l’occasione.»
Ora, gli elementi c’erano tutti: tempo, luogo, azione, personaggio. Ne abbiamo discusso a
braccetto, durante la passeggiata in riva all’oceano. Ho detto: «In circostanze normali, probabilmente ti direi di sì, Felipe. Anche se non so bene quali siano le circostanze normali...».
Abbiamo riso tutti e due, ma poi gli ho espresso le mie perplessità. Mi sarebbe piaciuto
sentire sul cuore e sul corpo le mani esperte di un amante, ma avevo l’esigenza di donare
questo anno di viaggio interamente a me stessa. Una fonda-mentale trasformazione si stava
verificando nella mia vita e aveva bisogno di tempo e spazio per completare indisturbata il
suo processo. Tutto si può ridurre a un esempio essenziale: la torta che è appena uscita dal
forno ha bisogno di un po’ di tempo per raffreddarsi, prima che la si possa glassare. Non
voglio concludere in modo ambiguo questo periodo prezioso. Non voglio di nuovo perdere il
controllo della mia vita.
Naturalmente Felipe mi ha assicurato che capiva benissimo, che avrei dovuto fare quello
che era meglio per me e che sperava, soprattutto, di essere perdonato per avere posto quella
domanda. («Ma doveva venire, prima o poi, il momento in cui l’avrei fatta, mia adorabile piccola cara.») Mi ha detto che, indipendentemente dalla mia decisione, avremmo dovuto continuare a essere amici, dal momento che il tempo passato insieme sembrava fare bene a tutti
e due.
«Ora, però» aveva aggiunto «devi lasciare che ti esponga il mio pensiero.»
«Più che giusto.»
«Se ho capito bene, tu hai dedicato tutto quest’anno alla ricerca di un equilibrio tra devozione e piacere. So che hai seguito molte pratiche devozionali, ma non sono certo che tu
ne abbia ricavato alcun piacere, almeno finora.»
«In Italia ho mangiato montagne di pasta.»
«Pasta, Liz? Pastai»
«Ok, basta così.»
«D’accordo. C’è un’altra cosa: io penso di sapere che cosa ti preoccupa. Tu hai paura che
un uomo entri nella tua vita, e ti porti di nuovo via tutto. Anch’io sono stato solo per molto
tempo e ho dato e perso tanto in amore, proprio come te. Io non voglio farti questo, cara, non
voglio che ci togliamo qualcosa a vicenda. è solo che non sono mai stato così bene in compagnia di una donna, e non vorrei perderti. Non temere, non ho intenzione di correrti dietro a
New York quando partirai, a settembre. E, a proposito di tutte quelle ragioni che mi hai esposto alcune settimane fa e che ti fanno passare la voglia di avere un amante... mettiamola
così: non m’importa se non ti depili le gambe ogni giorno, il tuo corpo mi piace, mi hai già raccontato tutta la storia della tua vita e non devi preoccuparti per la contraccezione, perché ho
fatto la vasectomia.»
«Felipe» ho detto, «questa è la proposta più attraente e romantica che un uomo mi abbia
mai fatto.»
E lo era. Ma ho detto di no.
Mi ha accompagnato a casa. In macchina ci siamo scambiati molti dolci, salati, sabbiosi
baci. Una delizia. Certo che era una delizia. Ma di nuovo ho detto di no.
«Va bene, cara» ha detto, «ma domani sera vieni da me a cena. Ti farò una bistecca.»
Poi è ripartito e sono andata a letto da sola.
Per tradizione, prendo decisioni molto rapide riguardo agli uomini. Mi sono sempre innamorata in fretta e senza calcolare i rischi. Non solo, in tutti vedo il meglio, e penso che ciascuno
sia in grado di raggiungere il massimo del proprio potenziale emotivo. Mi sono innamorata più
spesso di questa prospettiva che dell’uomo che me la faceva intravedere e ho sempre aspettato fiduciosamente che si realizzasse. E la maggior parte delle volte sono stata vittima del
mio ottimismo.
Mi sono sposata giovane e in fretta, piena di amore e di speranza, senza pensare più di
tanto agli aspetti concreti del matrimonio. Nessuno mi ha dato consigli. I miei genitori mi hanno educata a essere indipendente, a provvedere a me stessa e a decidere da sola. Quando
ho raggiunto l’età di venti-quattro anni, tutti hanno pensato che fossi in grado di fare le mie
scelte autonomamente. Il mondo oggi è fatto così. Se fossi nata qualche secolo fa, in epoca
patriarcale, sarei stata considerata proprietà di mio padre, finché non mi avesse ceduta al
marito da lui prescelto. Oppure, se un uomo mi avesse chiesta in moglie, mio padre lo
avrebbe invitato a rispondere a un lungo elenco di domande prima di decidere se accettare la
proposta. Avrebbe domandato: «Come prowederai a mia figlia? Che reputazione hai in
questa comunità? Qual è il tuo stato di salute? Hai debiti? Quali sono le tue proprietà? Dove
porterai a vivere la sposa? Quali sono i punti forti del tuo carattere?». Ma quando ho deciso di
sposarmi, mio padre, in perfetto accordo con l’epoca in cui viviamo, non si è sentito affatto
coinvolto. Non avrebbe mai interferito in quella decisione, così come non mi avrebbe mai consigliato in che modo tagliarmi i capelli.
Non ho alcuna nostalgia per il patriarcato, credetemi. E so
lo che, dopo la sua giusta e necessaria abolizione, è venuta meno qualsiasi forma di protezione contro i rischi dell’amore. Io, per esempio, non ho mai pensato di rivolgere a un fidanzato le stesse insidiose domande che i padri un tempo ponevano ai pretendenti delle figlie. Mi
sono data per amore tante volte, solo per l’amore in sé. E talvolta, nel corso degli eventi, ci ho
rimesso tutto, persino i soldi. A quanto pare, dunque, se voglio essere una donna autonoma,
non mi resta che assumere il ruolo di guardiana di me stessa. Gloria Steinem ha consigliato
alle donne di combattere strenuamente per diventare come gli uomini che avrebbero voluto
sposare. Personalmente mi sono resa conto solo da poco che non solo sono diventata il
marito di me stessa, ma devo anche farmi da padre. Ed è per questo che quella sera sono
andata a letto da sola. Perché ho deciso che per me non era ancora arrivato il momento di
accogliere un gentile pretendente.
Detto questo, mi sono svegliata alle due del mattino, con un pesante sospiro, e una fame
così profonda che non sapevo come placarla. Il gatto pazzo che vive in casa mia stava per
qualche ragione facendo dei lugubri miagolii, e io gli ho detto: «So esattamente come ti
senti». Dovevo fare qualcosa. Mi sono alzata, sono andata in cucina in camicia da notte, ho
sbucciato mezzo chilo di patate, le ho fatte bollire, le ho affettate, le ho fritte nel burro, le ho
cosparse generosamente di sale e le ho mangiate fino all’ultimo pezzetto, chiedendo al mio
corpo di accettare per cortesia mezzo chilo di patate fritte in sostituzione dell’appagamento
amoroso.
Il mio corpo, dopo aver mangiato tutto, ha risposto: «Niente da fare, baby».
Così sono tornata a letto, ho sospirato, annoiata, e ho cominciato a...
Bene. Una parola sulla masturbazione, se mi è permesso. Qualche volta può essere
l’unico mezzo a portata di... mano (chiedo scusa), ma altre volte diventa così acutamente insoddisfacente che alla fine ti fa stare solo peggio. Dopo un anno e mezzo di zitellaggio, dopo
un anno e mezzo di Liz da sola nel suo letto singolo, l’esercizio cominciava ad annoiarmi. Ma
quella notte, nella mia inquietudine, che altro potevo fare?
Le patate non avevano funzionato. Così mi sono data da fare con me stessa, ancora una
volta. Come al solito, ho lasciato vagare la mente attraverso la varietà del mio schedario erotico, cercando la fantasia giusta o il ricordo che mi avrebbe aiutata a concludere velocemente
il lavoro. Ma quella notte niente funzionava davvero; non i pompieri, non la vecchia aberrante
scenetta di riserva che aveva come protagonista Bill Clinton e di solito sortiva il suo effetto, e
nemmeno i gentiluomini vittoriani, nel loro salotto, con una squadra di giovani damigelle vergini. Alla fine ho dovuto accettare a fatica l’idea di pensare al mio buon amico brasiliano a
letto con me...
Poi ho dormito. Mi sono svegliata con il cielo azzurro e silenzioso, e la camera ancora più
silenziosa. Ero agitata, a disagio, ho lasciato che la mattinata si prolungasse, ho cantato tutti i
centottantadue versi in sanscrito della Guru Gita, il grande, fondamentale inno purificatore del
mio ashram in India. Poi ho meditato per un’ora, con le ossa doloranti per l’immobilità forzata,
finché non ho sentito di nuovo quella mia speciale felicità, chiara come il cielo, non legata a
niente, inamovibile, senza nome, immutabile e perfetta. Quella felicità che supera qualsiasi altra felicità io abbia mai provato su questa Terra, compresi i burrosi baci salati e le patate
ancora più salate e burrose.
Ero molto contenta di aver deciso di stare da sola.
97
È stata, in un certo senso, una sorpresa, la sera successiva - dopo che lui mi aveva preparato la cena a casa sua; dopo che, sdraiati sul divano, avevamo chiacchierato per diverse
ore; dopo che, inaspettatamente, lui si era appoggiato su di me, e aveva affondato la faccia
nella mia ascella, dichiarando che era delizioso quel mio magnifico odore di sporcizia - è stata
una sorpresa, dicevo, sentirgli dire, mentre posava il palmo della mano sulla mia guancia:
«Basta così, cara. Adesso vieni nel mio letto». E io ci sono andata.
Sì, sono proprio andata nel suo letto, insieme a lui, in quella stanza con le grandi finestre
aperte sulle risaie balinesi immerse nel silenzio e nel buio. Lui ha aperto una zanzariera a baldacchino e mi ha fatta entrare. Poi mi ha aiutata a togliermi il vestito con la tenera sapienza di
un uomo che ha passato molti anni felici a preparare i suoi figli per fare il bagno e mi ha esposto il suo programma: da me non avrebbe preteso assolutamente niente, tranne il permesso di adorarmi, per quanto tempo io avessi voluto. Ritenevo quei termini accettabili?
Avevo perso la voce durante il percorso dal divano al letto e ho potuto rispondere di sì
solo con la testa. Non c’era altro da dire. Era stata una lunga e austera stagione di solitudine.
Avevo fatto del bene a me stessa. Ma Felipe aveva ragione: basta così.
«Bene» ha detto sorridendo, mentre toglieva di torno i cuscini e faceva scivolare il mio
corpo sotto il suo. «Organizziamoci.»
Un’espressione divertente poiché quel momento ha segnato la fine di tutti i miei tentativi di
organizzazione.
Più tardi, Felipe mi ha detto come gli ero apparsa quella notte. Gli ero sembrata così
giovane, per niente simile a quella donna sicura di sé che aveva conosciuto alla luce del
giorno. Giovane, ha detto, ma anche aperta, emozionata, contenta di essere finalmente se
stessa dopo tanti sforzi di mostrarsi coraggiosa. Ha detto che era chiaro che nessun uomo mi
toccava da molto tempo. Gli era parso che ne avessi bisogno, e che fossi grata di aver potuto
esprimere quel bisogno. Non posso dire di ricordarmi tutto questo, ma ci credo, perché mi ero
sentita circondata da tutta la sua attenzione.
La cosa che ricordo meglio di quella notte è la zanzariera, bianca e fluttuante. Era il
paracadute che mi portava fuori da quel solido, disciplinato aeroplano sul quale avevo volato
negli ultimi anni per abbandonare finalmente Un Periodo Molto Difficile della Mia Vita. Adesso
la mia robusta macchina volante era diventata aH’improwiso obsoleta, e io ero uscita da
quell’aereo e avevo lasciato che il paracadute mi portasse giù, fino a farmi atterrare sana e
salva su una piccola isola a forma di letto. Un’isola abitata da un bel naufrago brasiliano che,
rimasto solo troppo a lungo anche lui, era stato così felice e sorpreso di vedermi arrivare da
aver dimenticato improvvisamente tutto il suo inglese. Ormai riusciva solo a ripetere la stessa
parola ogni volta che mi guardava in faccia: «Bellissima, bellissima, bellissima, bellissima e
bellissima».
Non abbiamo dormito neanche un po’, è logico. Poi, per quanto possa apparire ridicolo,
sono dovuta andar via... Avevo un appuntamento la mattina presto con il mio amico Yudhi.
Da tempo avevamo progettato di partire insieme, proprio quella settimana, per un lungo
viaggio in automobile attraverso Bali. L’idea ci era venuta una sera a casa mia, quando Yudhi
aveva detto che, a parte sua moglie e Manhattan, la cosa che più gli mancava deH’America
era mettersi al volante e partire con gli amici all’avventura, attraverso quei grandi spazi, su
quelle stupende autostrade interstatali. Gli avevo detto: «ok, andiamo a fare un viaggio in
macchina all’americana».
Un progetto irresistibilmente comico, visto che non c’è nessuna possibilità di fare un
viaggio in automobile a Bali come si fa in America. Non ci sono grandi distanze su un’isola
che ha le dimensioni del Delaware. E le strade sono orribili, rese pericolose al di là di ogni immaginazione dalla fitta, folle prevalenza della versione balinese dei minivan familiari americani: piccoli motocicli su cui stanno ammassate fino a cinque persone, il padre che guida con
una mano, mentre nell’altra tiene un neonato, la mamma che, seduta di traverso dietro di lui,
stretta nel sarong, con un cesto in bilico sulla testa, grida ai gemelli di stare attenti a non cadere. Tutto, probabilmente, sulla corsia sbagliata e senza fari.
Nessuno mette mai il casco, ma molti, non ne ho mai scoperto la ragione, lo portano con
sé, come una borsa. Per avere un’idea delle strade di Bali basta pensare a una moltitudine di
questi motocicli sovraccarichi, oscillanti, lanciati a grande velocità, che si scansano l’un l’altro
in una specie di pazza, motorizzata danza balinese.
Ma Yudhi e io avevamo comunque deciso di partire per una settimana con un’automobile
a nolo e viaggiare su questa piccola isola, fingendo di essere in America, liberi tutti e due.
L’idea mi aveva affascinata, quando ci era venuta in mente il mese scorso, ma dal letto di Felipe, mentre lui mi baciava le punte delle dita, le braccia, le spalle, e mi diceva di non andar
via, mi è apparsa purtroppo poco felice. Ma dovevo andare. E in un certo senso, ci volevo andare. Non solo per passare una settimana con il mio amico Yudhi, ma anche per riposarmi
dopo la calda notte con Felipe e rendermi conto che, come dicono nei romanzi, avevo un
amante.
Così Felipe mi ha accompagnata a casa, con un ultimo abbraccio appassionato, e ho
avuto solo il tempo per fare una doccia e riprendermi un po’, prima che Yudhi arrivasse con la
nostra macchina a nolo. Mi ha dato un’occhiata, e ha detto: «Dude, a che ora sei tornata a
casa stanotte?».
Gli ho risposto: «Dude, non sono tornata a casa stanotte».
Lui ha cominciato a ridere. «A-ha!» ha esclamato, perché si ricordava che, solo due settimane prima, avevo seriamente asserito che probabilmente avrei ignorato il sesso per il resto
della mia vita. «Allora hai ceduto, eh?» mi ha domandato.
«Yudhi» ho risposto, «voglio raccontarti una storia. L’estate scorsa, poco prima di lasciare
gli Stati Uniti, sono andata a trovare i miei nonni, vicino a New York. La seconda moglie di
mio nonno è una donna veramente simpatica, si chiama Gale e adesso ha ottant’anni. Ha tirato fuori un vecchio album di fotografie, e me ne ha fatte vedere alcune degli anni Trenta,
quando aveva diciotto anni ed era andata a fare un lungo viaggio in Europa. Mi ha mostrato
delle incredibili fotografie dell’Italia. Poi è comparsa l’immagine di un uomo, un italiano
giovane e molto bello, a Venezia. Le ho domandato: “Gale, chi è questa bellezza?”. Lei mi ha
risposto: “è il figlio dei padroni dell’albergo dove stavo, a Venezia. Era il mio fidanzato”. “Il tuo
fidanzato?” La dolce moglie di mio nonno mi ha guardata, maliziosa, e il suo sguardo è diventato molto sexy, come quello di Bette Davis: “Ero stanca di guardare chiese, Liz”, ha concluso.»
Yudhi mi dà un colpetto sulla spalla. «Andiamo, dude.»
Partiamo per il nostro finto viaggio in automobile in giro per Bali, io e questo sveglio,
giovane, geniale interprete di musica indonesiana in esilio. Il sedile posteriore dell’automobile
è pieno di birre, chitarre e dell’equivalente del cibo americano da viaggio in macchina, croccantini di riso fritti e caramelle balinesi dagli aromi orribili. I particolari del viaggio non me li ricordo più, distratta come sono dal pensiero di Felipe e da quel generale stato di confusione
che accompagna di solito gli spostamenti senza una meta precisa. Quello che ricordo è che
Yudhi e io abbiamo parlato americano per tutto il tempo, come non mi capitava da secoli. Ho
parlato molto inglese durante quest’anno, naturalmente, ma non americano, e certamente
non il tipo di americano hip-hop che piace a Yudhi. Così ci siamo lasciati andare, come due
adolescenti che guardano Mtv, chiamandoci dude e man, e qualche volta, con grande
tenerezza, «homo». Le nostre chiacchiere hanno contemplato anche alcuni affettuosi insulti
alle nostre madri.
«Man, cosa ne hai fatto della carta stradale?»
«Chiedilo a tua madre.»
«Inutile, dude, è sorda.»
E così via.
Non andiamo nell’entroterra di Bali, viaggiamo solo lungo la costa, che è fatta di spiagge,
spiagge, spiagge che non finiscono mai. Qualche volta prendiamo una barchetta di pescatori
e andiamo su un’isola. A Bali ci sono tanti tipi di spiagge. Seguiamo una esaltante, lunga riva
di sabbia bianca, come quella di Kuta, nel sud della California, saliamo fino a vedere da vicino
la sinistra bellezza delle rocce nere della costa occidentale, oltrepassiamo quella invisibile linea oltre la quale i normali turisti non vanno mai, ci fermiamo sulle spiagge selvagge della
costa settentrionale, dove solo i surfisti osano avventurarsi (e anche i pazzi, a quanto pare), ci
sediamo sulla spiaggia a guardare le onde infide e le figure sottili, chiare e scure dei surfisti
che tagliano di traverso l’acqua, come se aprissero una cerniera nell’azzurro vestito di gala
dell’oceano. Li guardiamo rovesciarsi con audacia da rompicollo contro i banchi di corallo e le
rocce, so
lo per poi tornare al largo, a cavalcare un’altra onda e, senza fiato in gola, commentiamo:
«Sono tutti fuori di testa».
Proprio come volevamo, ci dimentichiamo per ore (tanto meglio per Yudhi) di essere in Indonesia, e andiamo in giro con questa macchina noleggiata, ingurgitando robaccia, cantando
canzoni americane e mangiando pizza in qualsiasi posto riusciamo a trovarne. Quando
l’ambiente che ci circonda diventa troppo balinese, fingiamo di essere in America. Io
domando: «Qual è la via migliore per oltrepassare questo vulcano?». E Yudhi risponde:
«Dobbiamo prendere la Interstatale 95». E io: «Ma allora dovremo attraversare Boston,
proprio all’ora di punta...». è solo un gioco, ma serve.
Ci capita, a volte, di scoprire dei tratti di oceano calmo e azzurro, e allora nuotiamo tutto il
giorno, concedendoci di cominciare a bere birra alle dieci del mattino (dude, è terapeutico) .
Facciamo amicizia con tutti quelli che incontriamo. Yudhi è il tipo che quando cammina lungo
la spiaggia e vede un uomo che sta costruendo una barca, si ferma e dice: «Ehi, costruisci
una barca?». E la sua curiosità è così accattivante, che, un attimo dopo, siamo invitati a
vivere per un anno a casa dell’uomo che costruisce la barca.
Di sera succedono cose strane. Scopriamo misteriosi riti che si svolgono in un tempio in
mezzo al nulla e ci lasciamo ipnotizzare dal coro di voci, tamburi e gamelan. In un villaggio
sul mare, gli abitanti sono riuniti in una strada buia per una cerimonia di compleanno; Yudhi e
io, in quanto stranieri, siamo invitati a ballare con la ragazza più carina del villaggio. (è tutta
oro, gioielli e incenso e ha un trucco in stile egiziano; non può avere più di tredici anni, ma
muove i fianchi con l’armoniosa, sensuale sicurezza di una creatura che sa di potere sedurre
anche un dio.) Il giorno dopo troviamo, nello stesso villaggio, uno strano ristorante a gestione
familiare. Il proprietario balinese si autodefinisce un grande chef, esperto in cibi thailandesi.
Non è vero, ma passiamo comunque lì tutto il giorno, bevendo Coca gelata, mangiando dei
tagliolini molto unti e facendo qualche gioco di società con l’elegante e femmineo figlio del
proprietario. (Solo più tardi ci balena il dubbio che questo grazioso adolescente potrebbe benissimo avere interpretato il ruolo della bella danzatrice la notte prima; i balinesi sono maestri
nei travestimenti.)
Ogni giorno chiamo Felipe da qualunque remoto telefono riesca a trovare, e lui mi dice:
«Quanti sonni ancora, prima che torni da me?». Oppure: «Mi piace essere innamorato di te,
cara. Sembra così naturale, una cosa che può succedere ogni momento, e invece non ho
provato niente di simile per nessuna donna da almeno trent’anni».
Io non ci sono ancora arrivata, non mi sono ancora addentrata in quella regione dove ci si
innamora in caduta libera, mi esprimo con esitanti, piccoli mormorii, lancio timide avvisaglie
sulla mia partenza, che avverrà tra pochi mesi. Felipe non ci bada. Dice: «Forse questa è
solo una romantica, stupida idea sudamericana, ma voglio che tu capisca, cara, che per te
sono disposto anche a soffrire. Qualunque dolore ci accada in futuro, lo accetto, solo per il piacere di stare con te adesso. Godiamoci questo momento. è meraviglioso».
«è strano» rispondo, «ma prima di incontrarti pensavo che sarei potuta restare sola per
sempre. E dedicarmi alla vita contemplativa.»
«Ora, invece, hai quest’altra prospettiva...» e Felipe mi descrive minuziosamente la prima,
la seconda, la terza, la quarta e la quinta cosa che ha intenzione di fare con il mio corpo
quando mi avrà di nuovo nel suo letto. Mi allontano, confusa dalla telefonata; mi tremano un
po’ le ginocchia, sono divertita e stordita da tutta questa passione.
L’ultimo giorno del nostro viaggio, Yudhi e io passiamo ore e ore su una spiaggia e, come
spesso ci accade, ricominciamo a parlare di New York, di com’è bella e di quanto le vogliamo
bene. Yudhi ne ha nostalgia, quasi quanta ne ha della moglie, è come se New York fosse una
persona, un parente perduto.
Mentre parliamo, Yudhi spiana un tratto di sabbia bianca tra i nostri due asciugamani, e
disegna una mappa di Manhattan.
Dice: «Cerchiamo di riempirla con tutto ciò che riusciamo a ricordare». Con la punta delle
dita disegniamo le strade, gli incroci principali, Broadway che rovina tutto, appoggiata tutta
storta sull’isola di Manhattan, i fiumi, il Village, Central Park. Scegliamo una graziosa
conchiglia sottile per rappresentare l’Empire State Building, un’altra conchiglia è il Chrysler.
Rispettosamente, prendiamo due piccoli pezzi di legno e rimettiamo le Twin Towers al loro
posto.
Usiamo questa mappa di sabbia per mostrarci a vicenda i posti che preferiamo di New
York. Qui Yudhi ha comprato gli occhiali da sole che porta in questo momento; qui è dove ho
comprato i sandali che ho ai piedi. Qui ho cenato la prima volta con il mio ex marito, qui Yudhi
ha conosciuto sua moglie. Qui c’è il miglior ristorante vietnamita della città, qui i panini
migliori; questo è il posto ideale per i tagliolini (niente da fare, amico, il paradiso dei tagliolini è
questo). Traccio uno schizzo del mio vecchio quartiere di Hell’s Kitchen, e Yudhi dice:
«Conosco un buon ristorante, lì».
«Il Tick-Tock, il Cheyenne, o lo Starlight?»
«Il Tick-Tock, dude.»
«Mai provato latte e soda al Tick-Tock?»
Yudhi geme. «Oh, mio Dio, sì, è squisito...»
Sento così profondamente la sua nostalgia di New York, che per un momento la confondo
con la mia. La sua nostalgia mi contagia al punto che per un istante dimentico che, al contrario di lui, io sono libera di tornare a Manhattan, un giorno o l’altro. Yudhi giocherella per un
po’ con i due legnetti delle Twin Towers, li affonda più solidamente nella sabbia, poi guarda
l’oceano azzurro e silenzioso, e dice: «So che qui è bellissimo... ma pensi che rivedrò mai
l’America?».
Che cosa posso rispondergli?
Scivoliamo nel silenzio. Poi si tira fuori di bocca la schifosa caramella indonesiana che
continua a succhiare da un’ora, e dice: «Dude, questa caramella sa di culo. Dove l’hai
presa?».
«Da tua madre, dude» gli dico. «Da tua madre.»
99
Quando torniamo a Ubud, vado dritta filata a casa di Felipe, e non esco dalla sua camera
da letto per circa un mese. Sto scherzando, ma non tanto. Non sono mai stata amata, adorata così, prima d’ora, mai con tanta gioia e tanta deliberata concentrazione. Non sono mai
stata così sgusciata, dispiegata, srotolata, riempita da quell’evento speciale che è fare
l’amore.
Una cosa la so: ci sono leggi naturali che governano l’esperienza sessuale di due persone, e queste leggi non possono essere cambiate, come non si può venire a patti con la
forza di gravità. Sentirsi a proprio agio con il corpo di un altro non è una questione di buona
volontà; i pensieri, le parole e perfino l’aspetto fisico non contano molto. Tutto sta in un misterioso magnete nascosto da qualche parte in profondità dietro lo sterno, o c’è o non c’è.
Quando non c’è (come ho appreso in passato, con straziante chiarezza) non puoi farci niente.
Come un chirurgo non può forzare il corpo di un paziente ad accettare un rene dal donatore
sbagliato. Secondo la mia amica An-nie tutto si riduce a una semplice domanda: «Vuoi sentire la tua pancia compressa per sempre contro quella di questa persona, o no?».
Felipe e io abbiamo scoperto con somma delizia che il nostro è un pancia a pancia ben
riuscito, basato su un coordinamento perfetto e su un’impeccabile compatibilità genetica. Non
c’è parte del nostro corpo che sia in alcun modo allergica al corpo dell’altro. Niente è pericoloso, niente è difficile, niente viene rifiutato. Tutto nell’universo dei nostri sensi è semplicemente e perfettamente complementare.
«Guardati» dice Felipe. Mi porta davanti allo specchio dopo che abbiamo fatto l’amore di
nuovo, mi mostra il mio corpo nudo, i miei capelli, che sembrano usciti da una prova di forza
centrifuga durante un addestramento alla nasa. «Guarda come sei bella... le linee del tuo
corpo hanno curve armoniose come dune di sabbia...» (E veramente il mio corpo non si è mai
sentito così bene, almeno non da quando avevo sei mesi e mia madre mi fotografava, come
l’immagine stessa della felicità, distesa su un asciugamano sul bancone della cucina, dopo un
bel bagno nel lavandino.) Poi Felipe mi riporta a letto, dicendomi in portoghese: « Verri,
gostosa».
Vieni, delizia.
Felipe è un maestro nel rendersi gradito. A letto adesso mi adora in portoghese, non sono
più la sua «adorabile piccola cara», ma la sua queridinha, che letteralmente vuol dire adorabile piccola cara. Qui a Bali, sono stata troppo pigra per imparare l’indonesiano o il balinese
ma, improvvisamente, il portoghese mi viene facile. Non sto solo imparando il frasario da
letto, ma un raffinato uso della lingua. «Non ne potrai più di me» dice Felipe. «Non faccio che
toccarti e dirti che sei bella, sono sicuro che ti annoierai.»
Mettimi alla prova, capo.
Sto perdendo il conto dei giorni, scompaio sotto le lenzuola di Felipe, sotto le sue mani. Mi
piace non sapere che giorno è. La mia agenda bene organizzata è stata spazzata via dal
vento. Infine mi sono decisa a uscire, e un pomeriggio sono andata a trovare il mio sciamano,
dopo tanto tempo. Ketut mi ha letto la verità in faccia, prima che io dicessi una parola.
«Hai trovato fidanzato a Bali.»
«Sì, Ketut.»
«Bene. Attenta a non restare incinta.»
«Starò attenta.»
«è un uomo buono?»
«Dimmelo tu, Ketut. Gli hai letto la mano. Mi hai ripetuto sette volte che era buono.»
«Io? Quando?»
«In giugno. Era quel brasiliano, più vecchio di me. Mi hai detto che ti piaceva.»
«Non l’ho mai detto» ha insistito Ketut e non sono riuscita a convincerlo del contrario.
Qualche volta a Ketut sfuggono delle cose dalla memoria, come accade a chiunque abbia tra
i sessantacinque e i centododici anni di età. è quasi sempre lucido e presente a se stesso,
ma talvolta ho l’impressione che sia immerso in un altro livello di consapevolezza, in un altro
universo. (Una settimana fa mi ha detto, all’improvviso: «Tu sei una mia buona amica, Liss.
Una mia cara amica». Poi, con un sospiro, lo sguardo nel vuoto, ha aggiunto malinconicamente: «Non come Sharon». Chi diavolo è Sharon} Che cosa gli ha fatto? Quando ho cercato
di domandarglielo, non mi ha risposto, si è comportato come se neanche sapesse di chi stavo
parlando. Come se fossi stata io per prima a nominare la sciagurata Sharon.)
«Perché non porti qui tuo fidanzato?» mi ha chiesto.
«Te l’ho portato, Ketut. Davvero. E tu mi hai detto che ti piaceva.»
«Non ricordo. è ricco?»
«No, Ketut. Non è ricco. Ma i soldi che ha gli bastano.»
«Né ricco né povero?» Lo sciamano voleva un quadro economico dettagliato.
«Te l’ho detto, ha quello che gli occorre.»
Mi è parso che la mia risposta lo irritasse. «Se chiedi a lui i soldi, te li dà?»
«Ketut, non voglio soldi da lui. Non ho mai preso soldi da un uomo.»
«Passi tutte le notti con lui?»
«Sì.»
«Bene. Lui vizia te?»
«Molto.»
«Bene. Mediti ancora?»
Sì, medito ogni giorno della settimana, sgattaiolando fuori dal letto di Felipe per andare sul
divano, dove posso sedere in silenzio e rendere grazie per tutto quello che ricevo. Davanti al
portico di Ketut, le oche starnazzano, si dirigono verso le risaie, dondolanti sulle zampe,
spettegolando e schizzando acqua dappertutto. (Felipe dice che questi stormi di indaffarate
oche balinesi gli ricordano le statuarie donne brasiliane che incedono sulle spiagge di Rio,
chiacchierando a voce alta, interrompendosi a vicenda e facendo ondeggiare con orgoglio il
sedere.) Adesso sono così tranquilla che scivolo nella meditazione come se fosse un bagno
preparato dal mio amante. Nuda nel sole del mattino, con nient’altro che una coperta leggera
sulle spalle, scompaio nello stato di grazia, sono sospesa nel vuoto come una piccola
conchiglia in bilico su un cucchiaino.
Perché la vita sembra sempre difficile?
Un giorno telefonerò alla mia amica Susan a New York, e lei mi confiderà, con il sottofondo delle sirene della polizia municipale, i particolari della sua ultima storia spezzacuore. La
mia voce avrà il tono distaccato, elegante di un dj di jazz notturno alla radio, e le dirò di lasciar perdere, perché, ragazza mia, è già tutto perfetto così com’è, perché l’universo provvede,
baby, perché là tutto è pace e armonia...
Mi pare di sentirla mentre, tra i fischi delle sirene, dice: «Parli come una donna che oggi
ha già avuto quattro orgasmi».
100
Ma dopo poche settimane, gli spassi e i giochi mi hanno presentato il conto. Dopo tutte
quelle notti insonni e quelle giornate piene d’amore, il mio corpo si è vendicato e mi è venuta
una fastidiosa infezione alla vescica. E un male tipico di ehi fa troppo sesso, e colpisce
soprattutto chi ne aveva persa l’abitudine. E arrivato di colpo, come ogni tragedia. Una mattina ero in città a sbrigare delle commissioni, quando all’improvviso sono stata assalita da
bruciore e febbre. Avevo già avuto questo tipo di infezione durante la mia dissoluta giovinezza, quindi sapevo che cos’era. Per un attimo sono piombata nel panico - è una malattia
odiosa - ma poi ho pensato: «Grazie al Cielo, la mia migliore amica a Bali è una guaritrice» e
sono corsa da Wayan.
«Sto male!»
Mi ha dato un’occhiata e ha detto: «Stai male perché hai fatto troppo sesso, Liz».
Mi sono nascosta la faccia tra le mani.
Lei ha riso. «Non puoi avere segreti con Wayan.»
Avevo un dolore spaventoso. Chiunque abbia avuto questa infezione, sa come ci si sente,
e per chi non l’avesse avuta valga qualsiasi metafora che contenga la parola «attizzatoio».
Wayan, come un veterano del corpo dei pompieri o un chirurgo del pronto soccorso, non
si muove mai in fretta. Ha cominciato a tagliare lentamente delle erbe e a bollire delle radici,
ed è andata avanti e indietro portandomi dalla cucina, uno dopo l’altro, degli intrugli marroni,
caldi, dal sapore venefico. «Bevi, tesoro...» diceva.
Mentre aspettava che bollissero sempre nuovi infusi, si sedeva di fronte a me, mi dava occhiate maliziose e indecenti e approfittava della possibilità di ficcare il naso.
«Sei stata attenta a non restare incinta, Liz?»
«Non corro nessun rischio. Felipe ha fatto la vasectomia.»
«Felipe ha fatto la vasectomia?» ha detto, rispettosa e ammirata, come se avesse detto:
«Felipe ha una villa in Toscana}». (Veramente anche su di me quella parola produce lo
stesso effetto.)
A Bali è molto difficile che un uomo si sottoponga a un intervento del genere. La contraccezione è sempre un problema della donna. Ma recentemente in Indonesia si è verificato un
calo delle nascite grazie a un brillante intervento del governo, che ha promesso un nuovo motociclo a tutti gli uomini che si fossero sottoposti volontariamente alla vasectomia.
«Il sesso è strano» ha osservato Wayan mentre io, tra smorfie di dolore, bevevo le sue
medicine fatte in casa.
«Sì, Wayan. è comico.»
«No» ha insistito lei, «il sesso è strano. A tutti succede la stessa cosa: all’inizio si vuole
troppa felicità, troppo piacere, e poi si sta male. Anche per me è così, all’inizio di una storia
d’amore perdo l’equilibrio.»
«Mi imbarazzi» ho detto.
«Ma no» ha ribattuto e, secondo la perfetta logica balinese, ha aggiunto: «Qualche volta
perdere l’equilibrio per amore fa parte di una vita ben equilibrata».
Mi è venuto in mente che a casa ho degli antibiotici, una scorta di emergenza che porto
sempre in viaggio. Ho già avuto di queste infezioni e so che possono peggiorare fino ad attaccare i reni. Non voglio correre quel rischio, soprattutto in Indonesia. Così ho telefonato a Felipe, gli ho raccontato che cos’era successo e, anche se l’ho sentito un po’ mortificato, gli ho
chiesto
di andarmi a prendere l’antibiotico. Non è che non mi fidassi dell’abilità taumaturgica di
Wayan, ma stavo troppo male.
Lei mi ha detto: «Non hai bisogno di medicine occidentali».
«Ma forse è meglio, tanto per andare sul sicuro...»
«Fa’ passare due ore. Se non sarò riuscita a farti star meglio, prenderai le tue pillole.»
Senza entusiasmo, ho acconsentito. Sapevo per esperienza che queste infezioni ci
mettono più di un giorno ad andarsene, anche quando sono curate con gli antibiotici, ma non
volevo offendere Wayan.
Tutti era poco lontana e ogni tanto mi portava dei disegni di case per rallegrarmi, accarezzandomi una mano con la pietà di una bambina di otto anni. «Mamma Elizabeth, sei
ammalata?» Perlomeno non sapeva qual era la causa della mia malattia.
«Allora, hai comprato la casa, Wayan?»
«Non ancora, tesoro. Non c’è fretta.»
«E quel posto che ti piaceva? Pensavo che avresti comprato quello.»
«Ho scoperto che non è in vendita. E poi era troppo caro.»
«Hai in mente qualcos’altro?»
«Adesso non preoccuparti per la casa, Liz. Pensa a guarire presto.»
Felipe è arrivato con la mia medicina e un’espressione piena di rimorso, scusandosi sia
con me sia con Wayan per avermi inflitto questo dolore - così la vedeva lui.
«Niente di grave» ha detto Wayan. «Non preoccuparti. Presto starà meglio.»
E andata in cucina ed è tornata con un enorme bacile di vetro pieno di foglie, radici, bacche, e in più un rizoma di curcuma, o almeno così mi è parso - una sterpaglia lanosa con in
mezzo qualcosa che sembrava l’occhio di una salamandra, il tutto galleggiante in almeno
quattro litri di un brodo marrone. Puzzava di cadavere.
«Bevilo, tesoro» mi ha detto Wayan. «Bevilo tutto.»
Era rivoltante, ma l’ho bevuto tutto. E in meno di due ore... Be’, ormai non è difficile capire
com’è finita questa storia. In
meno di due ore mi è passato tutto. Sono guarita. Un’infezione che in Occidente avrebbe
richiesto giorni di antibiotici, era sparita in un batter d’occhio. Ho tentato di pagare Wayan per
le sue cure, ma lei si è messa a ridere. «Mia sorella non ha bisogno di pagare!» Poi si è
rivolta a Felipe, con una finta aria severa: «Questa notte puoi dormire con lei, ma non devi
neanche sfiorarla!».
«Non t’imbarazza curare problemi di sesso?» ho domandato a Wayan.
«Liz, sono una guaritrice» mi ha risposto. «Risolvo tutti i problemi, quelli delle vagine delle
donne, e quelli delle banane degli uomini. Qualche volta, per le donne, creo anche dei peni
finti, per fare sesso da sole.»
«Peni artificiali?» ho domandato, perché mi sembrava di non aver capito bene.
«Non tutte hanno un fidanzato brasiliano, Liz» mi ha ricordato lei. Poi ha guardato Felipe,
e ha detto allegramente: «Se avrai bisogno di un aiuto per indurirti la banana, ti darò una
medicina».
Cominciavo già a darmi da fare per garantire a Wayan che Felipe non aveva il minimo
bisogno di aiuto per la sua banana, quando lui, con il suo spirito imprenditoriale, mi ha interrotta per chiedere a Wayan se quella sua medicina per indurire la banana si poteva imbottigliare e mettere sul mercato. «Ne ricaveremmo una fortuna» ha concluso. Ma lei gli ha spiegato
che tutte le sue medicine, per essere efficaci, devono essere fresche, preparate il giorno
stesso in cui vengono som-ministrate. E vanno sempre accompagnate dalle preghiere.
Comunque, Wayan può rinvigorire la banana di un uomo non solo con la medicina, ma, udite
udite, anche con il massaggio. Mentre noi l’ascoltavamo perversamente affascinati, ci ha
descritto la sua tecnica: afferra l’oggetto alla base e lo muove in circolo per almeno un’ora al
fine di stimolare il flusso sanguigno, e nel frattempo intona speciali preghiere.
«Ma Wayan» le ho domandato, «che cosa succede se il paziente torna ogni giorno e dice:
“Non sono ancora guarito, dottoressa! Ho bisogno di un altro massaggio”?»
Lei ha riso di questa ipotesi licenziosa e ha ammesso che, sì, deve stare attenta a non
passare troppo tempo a sistemare le banane dei suoi pazienti, per evitare un turbamento
emotivo che potrebbe indebolire la sua energia guaritrice. E può capitare che, sì, gli uomini
perdano il controllo. (Sfido chiunque a restare indifferente se, dopo anni di impotenza, trova
una bella donna dalla pelle di mogano con lunghi e setosi capelli neri che riesce a fargli ripartire il motore.) Wayan ci ha raccontato di essere stata inseguita una volta per tutta la
stanza, durante una cura, al grido di: «Wayan! Wayan! Ho bisogno di Wayan!».
Ma non finiscono qui le doti di Wayan. Spesso, ci ha detto, viene chiamata come maestra
di sesso da coppie che stanno lottando contro l’impotenza o la frigidità, o che non riescono ad
avere un figlio. Allora disegna figure magiche sulle loro lenzuola e spiega quali sono le posizioni appropriate, secondo il periodo del mese. Dice che se un uomo vuole avere un figlio, deve avere un rapporto sessuale con sua moglie «molto, molto intenso», e «spararle acqua
dalla sua banana con forza e molto, molto velocemente». Qualche volta, Wayan resta nella
stanza con la coppia copulante e sovrintende al loro sforzo.
«E l’uomo» le ho domandato «riesce a sparare acqua dalla sua banana con forza e velocit mentre la dottoressa Wayan sta lì a guardare?»
Felipe imita Wayan che guarda la coppia: «Più forte! Più in fretta! Lo volete o no questo
bambino?».
Wayan dice che è una follia, lo sa, ma questo è il lavoro della guaritrice. Le occorrono infinite cerimonie di purificazione, prima e dopo questo genere di trattamento, per mantenere
intatto il suo spirito sacro, e infatti cerca di evitarlo, perché la fa sentire strana. Ma se è necessario che un bambino venga concepito, non dice di no.
«E tutte queste coppie hanno figli adesso?» ho domandato.
«Eccome se ce li hanno!» mi ha confermato con orgoglio.
Poi Wayan ha aggiunto qualcosa di estremamente interessante. Ha detto che se una coppia, nonostante tutto, non ha fortuna e il figlio non nasce, lei esamina sia l’uomo sia la donna,
per vedere, come si dice, di chi è la colpa. Se è colpa della donna, non ci sono difficoltà. Lei
può intervenire con antiche tecniche di cura. Ma se è l’uomo, la situazione diventa delicata,
nel patriarcato di Bali. In quel caso Wayan può fare ben poco, perché comunicare a un uomo
balinese che è sterile significa mettere a rischio la sicurezza propria e altrui. Gli uomini sono
uomini. Se non arriva un figlio, la colpa è della donna. E se il tempo passa sono guai,
l’aspettano le botte, il disonore, il divorzio.
«Allora, che cosa fai in una situazione del genere?» Mi sembra straordinario che una
donna che chiama il seme «acqua di banana» possa diagnosticare una infertilità maschile.
Wayan ci ha spiegato tutto. Se un uomo è sterile, gli dice che è sterile sua moglie e che
ha bisogno di sottoporsi ogni giorno a «sedute curative». Quando la moglie va da lei, Wayan
convoca dal villaggio uno stallone qualsiasi e si mette fiduciosa ad aspettare il risultato.
Felipe è inorridito: «Wayan! No!».
Ma Wayan non si è scomposta: «Sì. è l’unico sistema possibile. Se la moglie è sana, avrà
un figlio e saranno tutti felici».
«Chi ingaggi per questo lavoro?» ha voluto sapere Felipe, dal momento che vive in questa
città.
«Gli autisti» ha risposto Wayan.
Ci siamo messi a ridere tutti, perché Ubud pullula di questi giovani «autisti» che, seduti a
ogni angolo di strada, infastidiscono i turisti con l’eterno appello: «Trasporto? Trasporto?» per
guadagnare un dollaro portandoli fuori città, ai vulcani, alle spiagge o ai templi. Di solito sono
piuttosto belli, con la pelle abbronzata, il corpo muscoloso e i capelli lunghi e lucenti. Ci si potrebbe fare un discreto gruzzolo in America, organizzando una «clinica della fertilità» con uno
staff di bellissimi ragazzi balinesi. Wayan sostiene che uno degli aspetti positivi del suo trattamento contro la sterilità è che gli autisti molto spesso non chiedono neanche di essere
pagati per il loro servizio di «trasporto sessuale», soprattutto, naturalmente, se la sposa è
carina. Felipe e io concordiamo che questa disponibilità da parte dei ragazzi è un atto generoso e rispettoso delle esigenze della comunità. Nove mesi dopo nasce un bel bambino, e
sono tutti contenti. «Perché, che bisogno c’è di distruggere un matrimonio?». Tutti sappiamo
che è orribile distruggere un matrimonio, specialmente a Bali.
«Mio Dio, che imbecilli siamo noi uomini!» ha esclamato Felipe.
Ma Wayan ha una spiegazione per tutto: «Questo trucco è necessario solo perché non è
possibile dire a un uomo balinese che è sterile senza rischiare che lui vada a casa e faccia
del male alla moglie. Se gli uomini di Bali non fossero così, ci sarebbe un modo per curare la
loro sterilità, ma questa è la realtà della nostra cultura, e non c’è niente da fare». Lei non accusa in proposito il minimo problema di coscienza, pensa semplicemente di essere una guaritrice creativa, e ha aggiunto che qualche volta dev’essere anche piacevole per una moglie
passare un po’ di tempo con uno di quei begli autisti, perché a Bali la maggior parte dei mariti
non sa fare l’amore con una donna.
«Quasi tutti i mariti sono galli, o caproni.»
«Forse» ho suggerito «dovresti tenere dei corsi di educazione sessuale, Wayan. Perché
non insegnare agli uomini quello che piace alle donne? Allora anche le mogli si sentirebbero
incoraggiate. Perché, se un uomo ti tocca con gentilezza, ti accarezza la pelle, ti dice delle
cose affettuose, ti bacia dappertutto, non è frettoloso... il sesso può essere bello.»
Improvvisamente l’ho vista arrossire. Wayan Nuriyasih, questa massaggiatrice di banane,
curatrice di infezioni alla vescica, venditrice di peni artificiali, questa mezzana di piccolo calibro, è arrossita sul serio.
«Mi fai sentire strana, quando mi parli così» ha detto lei. «Mi fai sentire... diversa. Mi sento
diversa perfino nelle mutande! Adesso andate a casa, tutti e due. Basta con questi discorsi
sul sesso. Andate a casa, andate a letto, ma solo per dormire, ok? Solo per dormire!»
Lungo la strada, Felipe mi ha domandato: «Ha comprato la casa?».
«Non ancora, ma dice che la sta cercando.»
«è già passato più di un mese da quando le hai dato i soldi, vero?»
«Sì, ma il posto che voleva non era in vendita...»
«Sta’ attenta, cara» ha detto Felipe. «Non lasciare che la questione si trascini troppo a
lungo. Non lasciarti prendere dalla maniera balinese.»
«Che cosa vuol dire?»
«Non sto cercando di intromettermi, ma vivo da cinque anni in questo Paese, e so che c’è
una tendenza a creare certe complicazioni... Spesso è difficile capire che cosa sta accadendo
realmente.»
«Che cosa stai cercando di dirmi, Felipe?» ho domandato e, quando non mi ha risposto,
gli ho ripetuto una delle sue frasi preferite: «Se me lo dici piano, capisco più in fretta».
«Quello che sto tentando di dirti, Liz, è che i tuoi amici hanno raccolto per questa donna
una quantità mostruosa di soldi che, in questo momento, sono fermi nel suo conto in banca.
Assicurati che li adoperi per comprare veramente una casa.»
102
Verso la fine di luglio è arrivato il mio trentacinquesimo compleanno. Wayan ha dato per
me, nel suo ristorante, una festa diversa da qualsiasi altra cui abbia mai partecipato. Mi aveva
vestita con un tradizionale abito balinese da compleanno: sa-rongviola acceso, corpetto
senza spalline e un lungo drappo d’oro avvolto così stretto al busto che respiravo a malapena
e quasi non riuscivo a mangiare la mia fetta di torta. Mentre mi stava mummificando in
queirincantevole costume nella minuscola e buia camera da letto dove vive con altri tre piccoli
esseri umani, mi aveva domandato, senza guardarmi e mostrandosi intenta solo a modellare
qualche piegolina aggraziata sulla stoffa intorno alle mie costole: «Sposerai Felipe?».
«No» le ho risposto. «Non abbiamo intenzione di sposarci.
Io non voglio altri mariti, Wayan, e credo che Felipe non voglia altre mogli. Ma mi piace
stare con lui.»
«Un uomo bello fuori è facile da trovare, ma bello fuori e bello dentro non è da tutti. Felipe
è così.»
Ero d’accordo con lei.
Ha sorriso. «E chi ti ha procurato quest’uomo speciale, Liz? Chi ha pregato ogni giorno
per farti incontrare quest’uomo?»
Le ho dato un bacio. «Grazie, Wayan. Hai fatto un ottimo lavoro.»
è cominciata la festa. Wayan e le bambine avevano decorato la stanza con palloncini,
fronde di palma e striscioni di carta con complicati, interminabili messaggi scritti a mano,
come «felice compleanno a un cuore dolce e gentile, a te, nostra carissima sorella, alla nostra
adorata Lady Elizabeth, buon compleanno, che tu sia sempre in pace, e ancora buon compleanno». I figli e le figlie del fratello di Wayan sono bravissimi piccoli danzatori, chiamati a
esibirsi nei templi durante le cerimonie religiose, e stavolta sono venuti a danzare per me.
Hanno messo in scena uno splendido e indimenticabile spettacolo, come quelli che vengono
allestiti per onorare i sacerdoti. Erano tutti vestiti d’oro, con imponenti copricapi decorati e
avevano un trucco molto vistoso, come piccole drag queen. Battevano forte i piedi e
muovevano le mani con grazia femminea.
Le feste balinesi, normalmente, consistono nel mettersi in ghingheri, sedersi in circolo e
passare il tempo a fissarsi a vicenda. Più o meno come a New York. «Mio Dio, cara» si era
lamentato Felipe, quando gli avevo detto che Wayan si preparava a celebrare il mio compleanno, «sarà una noia...»
Ma non è stata una festa noiosa, solo silenziosa. E diversa. Prima la vestizione, poi lo
spettacolo di danza, e infine quello stare seduti in circolo a guardarsi, che non era poi così
sgradevole. Tutti erano molto carini. I parenti di Wayan erano intervenuti al completo e continuavano a sorridermi e a salutarmi con la mano, da un metro di distanza. Anch’io sorridevo
e salutavo con la mano.
Ho soffiato sulle candeline della torta insieme a Piccola Ketut, il cui compleanno, avevo
deciso qualche settimana prima, da quel momento in poi sarebbe stato festeggiato il 18 luglio,
insieme al mio, visto che date precise non ce n’erano. Dopo la cerimonia delle candeline, Felipe ha regalato a Piccola Ketut una Barbie. Lei ha aperto il pacchetto, sbalordita, e ha guardato la bambola come se fosse un biglietto per un viaggio su un razzo spaziale fino a Giove,
qualcosa che neanche in sette miliardi di anni luce avrebbe immaginato di ricevere.
Ogni particolare di questa festa è stato strano e divertente grazie anche alla eccentrica
partecipazione internazionale e intergenerazionale dei miei amici, della famiglia di Wayan, e
di alcuni suoi clienti e pazienti che non avevo mai visto prima.
Yudhi mi ha portato una confezione da sei birre e ho ricevuto lo stesso regalo anche da
Adam, un giovane sceneggiato-re di Los Angeles. Io e Felipe lo avevamo conosciuto in un
bar la sera prima, e lo avevamo invitato. Adam e Yudhi hanno parlato per tutta la festa con
John, un ragazzetto figlio di una stilista tedesca che vive a Bali, ed è una paziente di Wayan,
e di un americano. John ha sette anni e si definisce una specie di americano per via di suo
padre, ma in America non è mai stato e parla tedesco con sua madre e indonesiano con le
figlie di Wayan. Era affascinato da Adam, perché aveva scoperto che veniva dalla California
ed era un esperto di surf.
«Qual è il tuo animale preferito, signore?» gli ha domandato, e Adam ha risposto: «Il pellicano».
«Che cos’è un pellicano?» ha chiesto John, e Yudhi è intervenuto a rispondere. «Dude»
gli ha detto ,«non sai cos’è un pellicano? Devi andare a casa e domandarlo al tuo papà. I pellicani sono fichissimi, dude.»
Poi John si è voltato per dire qualcosa in indonesiano alla piccola Tutti (probabilmente per
domandarle com’era veramente un pellicano), mentre lei, seduta sulle ginocchia di Felipe,
cercava di leggere i miei biglietti di compleanno, e Felipe parlava in uno splendido francese
con un signore elegante, ormai in pensione, che viveva a Parigi ed era venuto a Bali per farsi
curare i reni da Wayan. Nel frattempo, Wayan aveva acceso la radio. Kenny Rogers cantava
Coward of thè County, e tre ragazze giapponesi vagavano in giro per il locale, per vedere se
potevano farsi fare massaggi terapeutici. Mentre cercavo di convincere le tre giapponesi ad
accettare invece una fetta di torta, Grande Ketut e Piccola Ketut mi ornavano i capelli con le
gigantesche mollette a lustrini che mi avevano regalato, spendendo tutti i loro risparmi. Le nipoti e i nipoti di Wayan, i bambini danzatori del tempio, stavano seduti immobili, con gli occhi
fissi sul pavimento, vestiti d’oro come divinità in miniatura, diffondendo per la stanza una
strana aura soprannaturale. Fuori, i galli si erano messi a cantare, anche se non era ancora
sera e neanche il tramonto. Il mio costume tradizionale balinese mi strizzava come un ar-
dente abbraccio, e avevo l’impressione che questa fosse, in assoluto, la più bizzarra - ma
forse la più felice - festa di compleanno di tutta la mia vita.
103
Ma a Wayan serve una casa, e cominciava a preoccuparmi l’idea che non l’avesse ancora
comprata. Non capivo perché non riuscisse a decidersi. Felipe e io, infine, siamo intervenuti.
Abbiamo trovato un agente immobiliare che ci ha portati tutti e tre a vedere delle proprietà,
ma Wayan non ha visto niente che le piacesse.
Continuo a dirle: «Wayan, è importante che compriamo qualcosa. Io parto in settembre, e
devo far sapere ai miei amici, prima di partire, che i loro soldi sono stati veramente usati per
la tua casa. E tu hai bisogno di un tetto sopra la testa, prima di venire sfrattata».
«Non è così semplice comprare un terreno a Bali» mi risponde. «Non è come andare in
un bar e farti dare una birra. Può richiedere molto tempo.»
«Non abbiamo molto tempo, Wayan.»
Lei alza le spalle, e io ripenso al concetto balinese di «tempo di gomma», ovvero di un
tempo molto relativo ed... elastico. «Quattro settimane» non sono per Wayan quello che sono
per me. Un giorno per Wayan non è necessariamente composto da ventiquattro ore; qualche
volta è più lungo, qualche volta è più corto, dipende dalla natura spirituale di quella giornata.
Come succede con gli anni del mio sciamano, anche i giorni qualche volta si contano e qualche volta si pesano.
Nel frattempo scopriamo che io ho sottovalutato il prezzo delle proprietà a Bali. Poiché
tutto qui costa così poco, si è portati a credere che anche la terra valga meno che altrove, ma
non è così. Comprare un terreno a Bali, e soprattutto a Ubud, può costare quasi come comprarlo nella Westchester County, a Tokyo o sulla Rodeo Drive. È fuori da ogni logica, perché
un terreno non renderà mai nella giusta proporzione rispetto al denaro speso per acquistarlo.
Paghi venticinquemila dollari per un aro di terra (un aro corrisponde pressappoco allo spazio
necessario a parcheggiare un suv) e poi ci costruisci un nego-zietto di sarong che ti rende
quanto? Un dollaro al giorno?
Ma i balinesi valutano la loro terra con una passione che va oltre i limiti del calcolo economico. Dal momento che la proprietà terriera è tradizionalmente l’unica ricchezza legittima
per i balinesi, viene stimata allo stesso modo in cui i Masai valutano il bestiame, e mia nipote
di cinque anni valuta il luci-dalabbra: vuol dire che non ne hai mai abbastanza, che una volta
ottenuta non devi più perderla, e che è solo tua e ti appartiene di diritto.
Inoltre - lo scopro adesso, in agosto, in questa mia odissea nell’intrico del diritto immobiliare indonesiano - è quasi impossibile sapere se un terreno è libero o no. I balinesi che
vendono la terra non vogliono che si sappia. Niente pubblicità. Se sei un agricoltore e vendi la
tua terra, vuol dire che hai un disperato bisogno di soldi, e questa è una condizione umiliante.
E se i vicini e la tua famiglia scoprono che la terra l’hai venduta davvero, pensano che adesso
i soldi li hai e ti chiedono un prestito. Per questo un terreno viene messo in vendita so
lo tramite il passaparola, e le transazioni sono sempre coperte dalla segretezza e, a volte,
dall’inganno.
Gli espatriati occidentali, sentendo che sto cercando un terreno per Wayan, cominciano a
mettermi in guardia con i racconti delle loro esperienze da incubo. Mi avvertono che da
queste parti, in materia di proprietà immobiliari, non si può essere certi di niente. La terra che
stai comprando potrebbe in realtà non appartenere alla persona che te la sta vendendo. Il tipo
che ti ha mostrato il terreno potrebbe non essere il proprietario, ma solo il nipote del proprietario, che cerca di fare un dispetto allo zio per vendicarsi di qualche vecchia offesa. I confini
della proprietà che vuoi comprare non sono chiari, e non lo saranno mai. Il terreno dove vuoi
costruire la casa dei tuoi sogni potrebbe essere dichiarato «troppo vicino a un tempio» e
quindi non edificabilc (ed è difficile, in questo piccolo Paese di circa ventimila templi, trovare
un terreno che non sia troppo vicino a uno di essi).
Un altro elemento da prendere in considerazione è che siamo sulle pendici di un vulcano,
e che ci si potrebbe anche ritrovare letteralmente seduti su un cratere. Questioni geologiche a
parte, infatti, per quanto sembri il paradiso e le menti sagge ritengano che lo sia, Bali è pur
sempre Indonesia - la più grande nazione islamica della Terra, instabile nella sua essenza,
corrotta a partire dalle più alte cariche politiche fino al ragazzo che ti mette la benzina
nell’auto e finge di riempire il serbatoio fino al bordo. Non c’è genere di rivoluzione che non
possa scoppiare qui da un istante all’altro, e il partito vincitore potrebbe, come se niente
fosse, procedere alla confisca dei beni dei cittadini. Magari con il fucile puntato.
Non mi sembra di avere alcuna qualifica per trattare una questione così spinosa. Sono
passata attraverso le procedure di un divorzio nello Stato di New York, ma questa è un’altra
storia, sebbene altrettanto kafkiana. Nel frattempo, i diciotto-mila dollari giacciono nel conto in
banca di Wayan, cambiati in rupie indonesiane, una valuta che ha una lunga storia di crolli
senza preavviso: non escludo quindi che le rupie di Wayan possano trasformarsi un bel
giorno in carta straccia. E intanto lei sarà sfrattata in settembre, più o meno quando io partirò.
Cioè fra tre settimane.
Capisco che è quasi impossibile per Wayan trovare un pezzo di terra che ritenga adatto
alla sua futura casa. Anche perché, messe da parte tutte le considerazioni pratiche, la poveretta deve esaminare il taksu, lo spirito, di ogni terreno. Trattandosi di una guaritrice, la sua
percezione del taksu, anche per i criteri balinesi, è estremamente acuta. Avevo visto una propriet che mi sembrava perfetta, ma lei ha detto che era abitata da demoni adirati. Ne ha rifiutata un’altra perché troppo vicina a un fiume, che, come tutti sanno, è il luogo ideale per i
fantasmi. (La notte successiva, Wayan ha sognato una donna bellissima in lacrime e con i
vestiti strappati: era un avvertimento, quello vicino al fiume era un terreno da scartare.)
Avevamo scoperto una graziosissima casetta poco fuori dalla città, con un bel cortile, ma
sorgeva su un angolo, ed è risaputo che solo chi vuole andare in bancarotta e morire giovane
va a vivere in una casa su un angolo.
«Non provare a convincerla» mi ha consigliato Felipe. «Credimi, cara, non bisogna intromettersi tra i balinesi e il loro taksu.»
La settimana scorsa, però, è stato lui a consigliare a Wayan un bel terreno che sembrava
avere tutti i requisiti necessari: piccolo, in una strada silenziosa facilmente raggiungibile dal
centro di Ubud, vicino a una risaia, con lo spazio per un giardino, e un prezzo che rientrava
nelle nostre possibilità. Quando ho chiesto a Wayan: «Lo compriamo?», lei ha risposto: «Non
lo so, Liz. Non si può prendere in fretta una decisione come questa. Devo prima parlare con
un sacerdote».
Mi ha spiegato che doveva consultarlo per trovare il giorno propizio in cui comprare il terreno, qualora decidesse dawe-ro di acquistarlo. A Bali niente di significativo può essere fatto
senza aver scelto il giorno propizio. Wayan, però, non può parlare con il sacerdote finché non
ha preso una decisione. E si rifiuta di prenderne una finché non avrà fatto un sogno di buon
auspicio. Intanto io vedo calare il numero dei giorni che mi restano da passare qui e per
questo le chiedo, da brava newyorkese: «Quando pensi di poter fare un sogno favorevole?».
Da brava balinese mi ha risposto che non ci si deve lasciar prendere dalla fretta, anche se
potrebbe essere d’aiuto fare un’offerta in uno dei maggiori templi di Bali, e pregare gli dèi di
dare un segno...
«ok» ho detto. «Domani Felipe ti accompagnerà al tempio in automobile, così potrai fare
un’offerta, e chiedere agli dèi che, per piacere, diano un segno.»
Wayan mi ha risposto che le piacerebbe tanto. L’idea è ottima. C’è solo un problema: lei
non può entrare in un tempio per tutta la settimana.
Ha le mestruazioni.
104
Non so se sono riuscita a farvi capire quanto sia strano e divertente per me tutto questo.
O forse è solo che questo è un momento surreale della mia vita, perché mi sto innamorando,
e quando ci si innamora si attribuisce al mondo uno splendore speciale, per quanto pazzesca
possa essere la realtà in cui viviamo.
Felipe mi è sempre piaciuto. Ma la sua partecipazione alla Saga della Casa di Wayan ci fa
sentire più vicini, come una vera coppia. A Felipe è sempre stata estranea questa allucinata
sciamana balinese, lui è un uomo d’affari, è vissuto a Bali per cinque anni senza mai farsi
coinvolgere nelle vite personali e nei riti complicati dei balinesi, ma ora è qui che attraversa
con me le risaie fangose, in cerca di un sacerdote che dia a Wayan una data propizia...
«Ero perfettamente felice nella mia vita noiosa, prima che arrivassi tu» dice sempre.
è vero che si annoiava, a Bali. Passava il tempo in un languore ozioso come un personaggio di un romanzo di Graham Greene. Quell'indolenza si è interrotta nel momento in cui ci
siamo conosciuti. Adesso che stiamo insieme, ho avuto la sua versione del nostro primo incontro, che mi diverto a fargli ripetere: mi ha visto di spalle, di notte e, prima che voltassi la
testa, senza neanche guardarmi in faccia, ha pensato: quella è la mia donna. Farò qualunque
cosa per averla accanto a me. «Ed è stato facile averti» aggiunge. «Mi è bastato pregare e
implorare per settimane.»
«Non hai né pregato né implorato.»
«Non ti sei accorta che pregavo e imploravo?»
Mi ricorda che quando siamo andati a ballare, quella notte, lui mi guardava, vedeva che
mi piaceva quel giovane gallese così carino e si sentiva sprofondare il cuore. Io mi do da fare
per tentare di sedurla, pensava, e quell’uomo giovane e bello me la porterà via e magari le
darà anche dei dispiaceri. Se so
lo sapesse quanto amore potrei offrirle!
Ed è così, infatti. Lui è per natura uno che dà affetto. Mi fa diventare l’ago della sua bussola, gli piace calarsi nel ruolo di cavalier servente. Felipe è il tipo d’uomo che ha bisogno di
una donna nella sua vita, non banalmente per non restare so
lo, ma per avere qualcuno cui dedicarsi. Dopo la fine del suo matrimonio si era trovato alla
deriva e ora riorganizzava la sua vita intorno a me. è bello essere importanti per qualcuno,
ma spaventa anche. Qualche volta lo sento che mi prepara la cena, mentre io sono di sopra a
leggere. Smette di fischiettare qualche allegra samba brasiliana, e mi chiama: «Tesoro, vuoi
un altro bicchiere di vino?». Mi domando se sono in grado di essere il sole di qualcuno, il tutto
di qualcuno. Mi basta l’equilibrio che ho raggiunto per essere il centro della vita di un altro?
Quando una notte ho affrontato con lui questo argomento, mi ha detto: «Ma io non te l’ho chiesto, vero, tesoro? Non ti ho chiesto di essere il centro della mia vita». Improwi-samente mi
sono vergognata di me stessa, della mia vanità, dell’aver dato per scontato che mi volesse
tenere con sé per sempre, e soddisfare i miei capricci all’infinito.
«Scusami» ho detto. «Sono presuntuosa.»
«Un po’» ha ammesso, poi mi ha baciato un orecchio. «Ma non sei lontana dalla verità,
perché sono pazzo d’amore per te.» Devo essere impallidita, perché ridendo, ha cercato di
rassicurarmi: «Si fa per dire, naturalmente». Ma poi, molto serio, mi ha detto: «Ascolta, ho
cinquantadue anni, so come va il mondo. Mi accorgo che tu non mi ami ancora come ti amo
io, ma la verità è che in fondo non m’importa. Per qualche ragione che non capisco, provo per
te quello che provavo per i miei figli quando erano piccoli, capivo che non era compito loro
amarmi, ma compito mio amare loro. Tu puoi decidere di sentire quello che ti pare, ma io ti
amo e ti amerò sempre. Anche se non ci dovessimo vedere mai più, tu mi hai fatto rinascere,
e te ne sono grato. Naturalmente, mi piacerebbe passare la mia vita con te, anche se non so
bene che tipo di vita potrei offrirti a Bali».
è una preoccupazione che ho avuto anch’io. Ho osservato la società degli espatriati a
Ubud, e ho capito che restare qui non fa per me. Dappertutto s’incontrano occidentali così
maltrattati e logorati dalla loro stessa esistenza che hanno smesso di combattere e hanno deciso di accamparsi per sempre a Ba
li, dove vivono in una casa splendida con duecento dollari al mese, a volte in compagnia
di una ragazza o di un ragazzo balinese; dove bevono prima di mezzogiorno senza venire
criticati; dove riescono a fare un po’ di soldi esportando qualche oggetto prezioso ogni tanto.
Ma, in generale, la loro vita qui consiste nel fare in modo che mai più gli venga richiesto qualcosa di serio. Non sono rifiuti della società, attenzione. Sono persone di grande cultura, dotate di intelligenza e talento, ma l’impressione è che tutti abbiano avuto una volta qualche
cosa, una famiglia, una professione, e che adesso siano uniti dall’assenza di quello che
avevano ma cui sembra abbiano voluto rinunciare; l’ambizione, forse. Inutile dirlo, tutti bevono
molto.
Naturalmente, l’adorabile città balinese di Ubud non è poi un brutto posto per buttare via
la propria vita ignorando il passare dei giorni. Immagino che sia lo stesso a Key West, in Florida, o a Oaxaca, in Messico. Quando si chiede a uno di loro da quanto tempo è a Ubud,
spesso non lo sa esattamente. è come se alcuni non fossero neanche sicuri di vivere realmente qui. Non appartengono a nessun posto, sono disancorati. Forse preferiscono immaginare di essere qui solo temporaneamente, con il motore in folle, aspettando che il semaforo diventi verde. Gli anni passano e viene da domandarsi: ma qualcuno va mai via?
D’altra parte, la loro pigra compagnia può anche essere molto gradevole in certe lunghe
domeniche che cominciano con il brunch e finiscono con lo champagne, tra chiacchiere sul
niente. Ma quando sono con loro, mi sento come Dorothy nei campi di papaveri di Oz. Sta ’
attenta! Non addormentarti in questo prato narcotizzante, o finirai con il dormire per il resto
della tua vita!
E allora, che ne sarà di me e Felipe? Mi ha detto, non molto tempo fa: «Qualche volta vorrei che tu fossi una bambina che si è persa, e io potessi prenderti in braccio e dirti: “Adesso
vieni a vivere con me, lascia che mi occupi di te per sempre”. Ma tu non sei una bambina
smarrita, sei una donna con una carriera, delle ambizioni. Sei una lumaca perfetta: ti porti la
casa sulle spalle. Devi conservare la tua libertà il più a lungo possibile. Ma ti dico solo una
cosa: se vuoi questo brasiliano, puoi averlo. è già tuo».
Non sono sicura di quello che voglio. So bene che c’è una parte di me che ha sempre desiderato sentirsi dire da un uomo: «Lascia che mi prenda cura di te per sempre», e finora non
me lo aveva mai detto nessuno. Negli ultimi anni, ho smesso di cercare, e ho imparato a
dirmela da sola questa frase rincuorante. Ma adesso, sentirla da qualcun altro, da qualcuno
che parla sinceramente...
Stavo pensando a tutto questo la notte scorsa, rannicchiata accanto a Felipe addormentato. Quali sono i futuri possibili, mi domandavo. C’è il problema geografico - dove
dovremmo vivere? Poi bisogna considerare la differenza di età. Ma, quando l’altro giorno ho
chiamato mia madre per dirle che ho incontrato un uomo veramente simpatico, ma - tieniti
pronta, mamma! - ha cinquantadue anni, lei non è rimasta minimamente turbata. Ha detto
soltanto: «Bene, ho una notizia per te, Liz. Tu hai trentacinque anni». (Eccellente considerazione, mamma. Sono contenta di poter trovare ancora qualcuno che mi ama, a questa età
veneranda.) In verità, non importa molto neanche a me della differenza di età, anzi sono contenta che Felipe sia molto più vecchio. Penso che sia una situazione sexy. Mi fa sentire vagamente... francese.
Allora, che sarà di noi?
E, comunque, perché me ne preoccupo?
Non ho ancora imparato com’è inutile preoccuparsi?
Così, dopo un po’, ho smesso di pensarci e ho tenuto Felipe abbracciato mentre dormiva.
Mi sto innamorando di lui.
Poi mi sono addormentata e ho fatto due sogni memorabili.
Riguardavano tutti e due la mia guru. Nel primo sogno, lei mi diceva che voleva chiudere i
suoi ashram, e che non avrebbe più parlato, insegnato o pubblicato libri. Aveva fatto un discorso di congedo ai suoi studenti: «Avete ricevuto parecchi insegnamenti», aveva detto,
«avete avuto tutto ciò che vi è necessario per essere liberi. è tempo che andiate fuori nel
mondo e abbiate una vita felice».
Il secondo sogno era ancora più chiaro. Ero a cena in un fantastico ristorante a New York,
con Felipe. Splendide costolette di agnello, asparagi e buon vino, e noi che parlavamo e
ridevamo felici. Mi sono guardata in giro nella sala e ho visto Swamiji, il maestro della mia
guru, morto nel 1982. Ma quella notte era vivo, era proprio lì in un ristorante alla moda di New
York. I nostri occhi si sono incrociati attraverso la sala, Swamiji mi ha sorriso e ha alzato il
bicchiere di vino per brindare.
E allora quel piccolo guru indiano che durante la sua vita non aveva quasi mai parlato
inglese, ha pronunciato una parola che è risuonata attraverso la stanza con estrema
chiarezza:
Divertiti!
È da tanto che non vedo Ketut Liyer. Tra il tempo che passo con Felipe e quello che dedico alla lotta per assicurare una casa a Wayan, sono finiti i lunghi pomeriggi passati sotto il
portico della casa dello sciamano, a discorrere senza fine sulla vita dello spirito. Sono passata di lì qualche volta, solo per salutare e portare della frutta in regalo a sua moglie, ma dal
mese di giugno non abbiamo trascorso insieme che poche ore. Ogni volta che tento di scusarmi con Ketut per la mia assenza, lui ride come un uomo che abbia già avuto le risposte a
tutti i quesiti dell’universo, e dice: «Tutto va a perfezione».
Ma Ketut mi manca, e così questa mattina gli ho fatto visita per stare un po’ con lui. Mi ha
sorriso, come al solito, e ha detto: «Sono molto felice di conoscerti!». (Non sono mai riuscita a
correggerlo.)
«Anch’io sono felice di vederti, Ketut.»
«Partirai presto, Liss?»
«Sì, Ketut. Tra meno di due settimane. è per questo che sono venuta a trovarti. Voglio
ringraziarti per tutto quello che mi hai dato. Se non fosse stato per te, non sarei mai tornata a
Bali.»
«Saresti comunque tornata a Bali» dice senza incertezze e senza enfasi. «Mediti ancora
con i tuoi quattro fratelli, come
io insegno?»
«Sì.»
«Mediti ancora come tua guru in India t’insegna?»
«Sì.»
«Fai ancora brutti sogni?»
«No.»
«Adesso sei felice con Dio?»
«Molto.»
«Ami tuo nuovo fidanzato?»
«Credo di sì. Sì.»
«E allora vizia lui! E lui vizia te.»
«Lo prometto.»
«Tu sei mia buona amica. Meglio che un’amica. Tu sei come figlia» mi ha detto. (Non
come Sharon...) «Quando morirò devi tornare a Bali per mia cremazione. La cremazione
balinese è molto divertente. Ti piacerà.»
«Va bene» ho promesso di nuovo, con la gola stretta dalla commozione.
«La coscienza è la tua guida. Se hai amico occidentale che viene a Bali, mandalo da me
per lettura della mano, sono molto vuoto nella banca perché è scoppiata la bomba. Vuoi
venire con me oggi a una festa per una bambina?»
è stato così che ho partecipato alla benedizione di una bambina che aveva raggiunto l’età
di sei mesi ed era quindi pronta a toccare il suolo per la prima volta. I balinesi, infatti, non per-
mettono che i loro figli vengano posati a terra per i primi sei mesi di vita, perché si pensa che i
neonati siano creature divine mandate dal Cielo, e un dio non deve sfiorare il pavimento, con
tutti i residui di unghie tagliate e mozziconi di sigaretta che potrebbero esserci. I bambini
balinesi, perciò, vengono portati in braccio per i primi mesi di vita e riveriti come divinità
minori. Se un neonato muore, riceve il tributo di una cremazione speciale e le sue ceneri non
vengono collocate in un cimitero tra quelle di altri esseri umani, perché lui sarà per sempre un
dio. Ma quando un bambino raggiunge l’età di sei mesi, gli si fanno posare i piedi per terra e,
durante una favolosa cerimonia, lo si accoglie nel genere umano.
La cerimonia cui sono stata invitata si è svolta in casa di un vicino di Ketut. La neonata in
questione viene chiamata con il nomignolo di Putu. I suoi genitori sono due adolescenti bellissimi. Lui è nipote di un cugino di Ketut, o qualcosa del genere. Ketut ha indossato i suoi abiti
migliori - un sarong di raso bianco bordato d’oro, e una giacca con le maniche lunghe, i bottoni d’oro e un colletto alla Nehru, che lo faceva sembrare il fattorino di un grande albergo.
Aveva la testa coperta da un turbante bianco e le mani, che mi ha mostrato con orgoglio, ornate di enormi anelli d’oro incastonati di pietre magiche. Sette anelli, e tutti con poteri sacri.
Ha portato con sé la scintillante campana di ottone di suo nonno per evocare gli spiriti, e mi
ha chiesto di fargli molte fotografie.
Siamo andati a piedi fino a casa del vicino. Era a una considerevole distanza e abbiamo
camminato per un po’ lungo la strada principale, piena di traffico. Vivo qui da quasi quattro
mesi, e non avevo mai visto Ketut lasciare casa sua prima d’ora. Era sconcertante vederlo
camminare in mezzo alle automobili in corsa e agli infernali motocicli balinesi. Sembrava, in
quel contesto, minuscolo, vulnerabile, fuori posto. Mi faceva venire voglia di piangere, non
capivo perché ma mi sentivo più incline del solito alla commozione.
A casa del vicino, quando siamo arrivati, c’era già una quarantina di ospiti e l’altare di
famiglia era carico di offerte: fiori, incenso, cesti di foglie di palma colmi di riso, maiali arrostiti,
polli e oche, noci di cocco e banconote che svolazzavano qua e là. Tutti i convenuti erano
bardati con sete e pizzi. Io avevo un aspetto del tutto inadeguato, avevo fatto una corsa in bicicletta per andare da Ketut, indossavo una vecchia maglietta rovinata. Mi vergognavo come
una ladra. Eppure tutti mi hanno accolta con gentilezza, sorridendomi, per poi dimenticarsi di
me (non chiedevo di meglio) e dedicarsi a quella parte della festa in cui si sta seduti in circolo
ad ammirare il vestito di chi si ha di fronte.
La cerimonia, celebrata da Ketut, è durata due ore. Solo un antropologo con una squadra
di interpreti potrebbe descriverla in tutti i particolari, ma io sono riuscita a seguire una parte
dei riti basandomi sugli insegnamenti di Ketut e cercando di ricordarmi qualcuna delle mie
letture. Durante il primo ciclo di benedizioni, il padre aveva in braccio la bambina e la madre
teneva in grembo una noce di cocco avvolta in una specie di veste, come se fosse un
neonato. La noce di cocco è stata benedetta esattamente come la bambina e poi posata a
terra prima della piccola Putu, al fine di ingannare i demoni che così avrebbero assalito il
fantoccio e lasciato in pace la bambina.
Ma ci sono state ore di invocazioni prima che Putu a sua volta toccasse terra. Ketut
suonava la sua campana e cantava i suoi mantra senza un attimo di sosta, mentre i giovani
genitori sorridevano di gioia e di orgoglio. Gli ospiti andavano e venivano, si fermavano a
scambiarsi qualche parola o qualche pettegolezzo, offrivano i loro doni, seguivano per un po’
la cerimonia e poi se ne andavano. Nonostante la solennità, tutto sembrava avvenire liberamente, come per caso, come a un picnic in cortile. I mantra cantati da Ketut erano dolci, delicati, tra il tenero e il sacro. Poi Ketut ha esibito di fronte alla neonata, ora in braccio alla madre,
una profusione di frutti, fiori, acqua, campane, poi un’ala di pollo arrosto, un pezzetto di maiale, una noce di cocco spaccata... e a ogni dono intonava una strofa diversa. La bambina
rideva e batteva le mani; anche Ketut rideva e continuava a cantare.
Mi sono inventata una traduzione delle sue parole: «Ohhhh, bambina... questo è un pollo
arrosto! Un giorno ti piacerà il pollo arrosto, speriamo che tu ne possa mangiare tanto! Ohhhh, bambina, questo è riso cotto, speriamo che tu possa essere inondata di riso per sempre.
Ohhh, bambina, questa è una noce di cocco, guarda com’è strana, un giorno mangerai un
mucchio di noci di cocco! Ohhhhh... bambina, questa è la tua famiglia, la tua famiglia ti adora,
lo vedi? Ohhhhh... bambina, tu sei un dono prezioso per tutto l’universo! Sei la prima fra tutte!
Sei il nostro bellissimo coniglietto! Sei una streghetta! Ohhhhh... bambina, sei tutto...».
Gli ospiti sono stati ripetutamente benedetti con petali di fiori bagnati nell’acqua santa.
Tutta la famiglia, a turno, ha portato in giro Putu, vezzeggiandola, mentre Ketut seguitava a
cantare gli antichi mantra. Mi hanno perfino lasciato tenere per un attimo la bambina, nonostante i miei jeans, e io le ho bisbigliato la mia benedizione mentre gli altri cantavano. «Buona
fortuna» le ho detto, «sii coraggiosa.» Si moriva dal caldo, perfino all’ombra. La giovane
madre, vestita con un corpetto sexy sotto la camicia di pizzo trasparente, era tutta sudata. Il
giovane padre, che non sembrava conoscere altra espressione che non fosse uh ampio, orgoglioso sorriso, era in un bagno di sudore anche lui. Le nonne si facevano aria con il
ventaglio, si sedevano, si alzavano, davano una controllata ai maiali arrosto, scacciavano i
cani. Ciascuno era, di volta in volta, interessato o indifferente, stanco o animato, commosso o
allegro. Ma Ketut e la bambina sembravano racchiusi nella loro esperienza, completamente
concentrati in se stessi. Putu non ha distolto gli occhi dal vecchio sciamano per tutta la durata
della cerimonia. Dove si è mai vista una neonata di sei mesi che per quattro ore di fila, in una
giornata di sole cocente, non pianga, non faccia una smorfia, non si agiti, non si addormenti,
ma guardi attentamente sempre e solo la stessa persona?
Intensamente consapevole di vivere un momento di transizione dallo stato divino allo stato
umano, la piccola si destreggiava meravigliosamente con le proprie responsabilità, da brava
bambina balinese, prestando fin da ora fede al credo religioso della famiglia, e già rispettosa
delle esigenze della sua cultura.
Finiti i canti e le invocazioni, è stata avvolta in un lungo lenzuolo candido che pendeva
molto oltre le sue piccole gambe e la faceva sembrare alta e regale, un’autentica debuttante.
Ketut ha tracciato il disegno delle quattro direzioni dell’universo sul fondo di un recipiente di
coccio, lo ha riempito di acqua benedetta e lo ha messo a terra. Questa bussola rudimentale
doveva segnare il punto sacro dove i piedi della neonata si sarebbero posati per la prima
volta.
Poi l’intera famiglia si è radunata presso la bambina, come se tutti, contemporaneamente,
la tenessero in braccio, e - ecco.' ci siamo! - hanno intinto leggermente i suoi piedini
nell’acqua del recipiente, proprio sopra il disegno magico che comprendeva l’intero universo,
poi li hanno appoggiati con la pianta a terra per la prima volta. Quando l’hanno risollevata in
aria, le sue minuscole impronte erano lì a segnare il suo orientamento nella grande griglia
balinese, per stabilire chi era in base al luogo in cui si trovava. Tutti hanno applaudito, deliziati. La bambina era diventata una di noi. Un essere umano. Con tutti i rischi e le emozioni che
quella stupefacente incarnazione avrebbe implicato.
Lei si è guardata intorno e ha sorriso. Non era più una divinità, ma la cosa non sembrava
dispiacerle. Non era affatto impaurita. Sembrava completamente soddisfatta della decisione
presa.
106
L’affare con Wayan è fallito. La proprietà che Felipe le aveva trovato, non si sa perché,
non è più disponibile. Quando domando a Wayan che cosa è successo, mi risponde confusa-mente, accennando a un documento che si è perso; non credo che mi abbia mai raccontato la verità. Quello che conta è che l’affare non è andato in porto. E io comincio a provare
una certa angoscia. Cerco di spiegarle: «Wayan - devo lasciare Bali tra meno di due settimane per tornare in America. Non posso presentarmi ai miei amici, che mi hanno dato tutti quei
soldi, e dire che non hai ancora una casa».
«Ma Liz, se un posto non ha un buon taksu...»
Ognuno ha un diverso concetto dell’urgenza, in questa vita.
Pochi giorni dopo Wayan chiama a casa di Felipe, agitatissima. Ha trovato un altro terreno
che le piace veramente. Una risaia color smeraldo lungo una strada tranquilla, vicina alla
città. Emana un buon taksu. Wayan ci dice che la terra appartiene a un agricoltore, un amico
di suo padre che ha un disperato bisogno di contanti. Ha sette aro da vendere, ma (poiché ha
necessità di realizzare subito un guadagno) acconsentirebbe a venderle solo i due aro che lei
può permettersi. Il terreno le piace molto. A me piace molto. A Felipe piace molto. A Tutti che corre in cerchio sull’erba a braccia spalancate, come una piccola Julie Andrews balinese
- piace molto.
«Compralo» dico a Wayan.
Ma passano alcuni giorni, e lei continua a tergiversare. «Ti piacerebbe vivere lì, o no?»
continuo a domandare. Ancora qualche tentennamento e poi Wayan racconta una nuova
storia. L’agricoltore l’ha chiamata, mi dice, per avvertirla che non è più sicuro di poterle
vendere i due aro-, vorrebbe vendere l’intero lotto... il problema è sua moglie... L’agricoltore
deve ancora parlarle per capire se acconsente a suddividere la terra...
Wayan dice: «Forse, se avessi più soldi...».
Santo Cielo, vorrebbe che trovassi i soldi per comprare l’intero appezzamento di terra!
Anche se già sto pensando a come potrei raccogliere l’esorbitante somma di ventiduemila
dollari da aggiungere a quella che le ho dato, le dico: «Wayan, non posso farlo, non ho i soldi.
Non puoi trovare un accordo con l’agricoltore?».
Allora Wayan, che non mi guarda più negli occhi, mi propina una storia ancora più complicata. Mi dice che l’altro giorno ha fatto visita a un mistico, e il mistico è andato in trance, e
ha detto che Wayan ha assolutamente bisogno di comprare l’intero lotto da sette aro, per
farne un buon centro di guarigione... che questo è il destino, e, a proposito, il mistico ha
anche detto che se Wayan potesse avere tutto l’appezzamento, forse un giorno potrebbe
costruire un bell’albergo...
Un bell’albergo?
Ah.
è a quel punto che divento sorda, e gli uccelli smettono di cantare, e posso vedere la
bocca di Wayan muoversi, ma non la sto ascoltando, perché un pensiero mi si è appena
stampato nella mente: ti sta prendendo per il culo, cara senza
FONDO.
Mi alzo, saluto Wayan, torno a casa e chiedo a Felipe la sua opinione: «Secondo te, mi
sta prendendo per il culo?». Lui non ha mai fatto commenti su questa storia con Wayan, non
una volta. «Cara» dice gentilmente, «certo che ti sta prendendo per il culo.»
Il cuore mi cade nella pancia con un tonfo.
«Ma non intenzionalmente» aggiunge in fretta. «Devi capire il modo di pensare di Bali.
Loro vivono cercando di ricavare più denaro possibile dagli stranieri. è una questione di soprawivenza. Per questo adesso Wayan inventa delle storie sull’agricoltore. Ma tu credi possibile che un marito balinese debba parlare con sua moglie prima di concludere un affare?
Ascolta, lui vuole disperatamente venderle un pezzo di terra; ha già detto che è pronto a farlo.
Ma lei la vuole tutta. E vuole che tu gliela compri.»
Il discorso mi infastidisce per due motivi. Prima di tutto, mi dispiace pensare che Wayan
sia veramente così. Secondo, non sono d’accordo sulle implicazioni culturali sottintese nelle
parole di Felipe, l’atteggiamento da colonialista in pensione, la paternalistica giustificazione
del «qui la gente è così». Ma Felipe non è un colonialista; è un brasiliano e mi spiega: «Io
sono cresciuto da ragazzo povero in Sud America. Credi che non capisca la cultura della
povertà? Tu hai dato a Wayan più soldi di quanti ne abbia mai visti, e lei è impazzita. Dal suo
punto di vista, sei una benefattrice miracolosa, il tuo aiuto potrebbe essere l’ultima occasione
della sua vita e vuole ricavarne il massimo prima che tu parta. Pensa a come deve essere
sconvolta, povera donna: quattro mesi fa non aveva abbastanza soldi per dare da mangiare
alla sua bambina, e adesso vuole un albergo... Ti rendi conto?».
«Che cosa dovrei fare?»
«Non arrabbiarti, qualunque cosa succeda. Se ti arrabbi, la perderai, e sarebbe un peccato, perché è una persona meravigliosa che ti vuole bene. Accetta il suo comportamento
come una strategia di sopravvivenza, e basta. Non devi pensare che non sia una brava persona, o che lei e le sue bambine non abbiano onestamente bisogno del tuo aiuto. Ma non
permettere che approfitti di te. Cara, è un problema che ho visto ripetersi tante volte. Gli occidentali che vivono qui per molto tempo di solito finiscono per dividersi tra i due estremi: alcuni
continuano ad avere l’atteggiamento dei turisti che dicono: “Oh, questi adorabili balinesi, così
dolci, così gentili”, e finiscono per farsi turlupinare allegramente; altri sono così delusi dal continuo raggiro, che cominciano a odiare la popolazione locale. Ed è un peccato, perché perdono amici stupendi.»
«Ma io, che cosa dovrei fare?»
«Devi riprendere il controllo della situazione. Raccontale un po’ di storie, come fa lei con
te. Spingila ad agire con qualche minaccia. Le farai un favore; lei ha bisogno di una casa.»
«Non voglio inventare storie, Felipe.»
Mi dà un bacio sulla testa. «Allora non puoi vivere a Bali, tesoro.»
La mattina dopo, comincio ad architettare il mio piano. Non ci posso credere - dopo aver
studiato per un anno le virtù del
lo spirito, dopo aver lottato per trovare la strada verso una vita buona, eccomi qui in
procinto di inventarmi un’enorme bugia. Sto per mentire alla persona che più mi piace in tutta
Bali, a una specie di sorella, alla donna che ha ripulito i miei reni...
Santo Dio, sto per mentire alla mamma di Tutti!
Vado in città, mi presento nel ristorante di Wayan. Wayan fa per abbracciarmi. Io mi
scosto, fingendomi arrabbiata.
«Wayan» dico «dobbiamo parlare. Ho un problema.»
«Con Felipe?»
«No. Con te.»
Sembra sul punto di svenire.
«Wayan, i miei amici americani sono molto arrabbiati con te.»
«Con me? Perché, tesoro?»
«Perché quattro mesi fa ti hanno dato un mucchio di soldi per comprare una casa, e tu
non l’hai ancora comprata. Ogni giorno mi mandano delle e-mail, chiedendomi: “Dov’è la casa
di Wayan? Dove sono i miei soldi?”. Pensano che tu abbia rubato i loro soldi.»
«Non ho rubato!»
«Wayan, i miei amici in America pensano che tu sia... un bul-Ishit, una contapalle.»
Ha un singulto, come se avesse preso un pugno sulla carotide.
Sembra così ferita che esito un attimo e sto per stringerla in un abbraccio rassicurante e
dirle: «No, no, non è vero! Mi sto inventando tutto!». Ma no, devo concludere. Lei è sconvolta.
Bullshit è la parola inglese che i balinesi hanno emotivamente assimilato meglio. è considerata uno degli insulti peggiori. In
questa cultura, dove pare che la gente si prenda in giro in continuazione raccontandosi
bullshit, stronzate, almeno dieci volte prima di colazione, dove la presa per il culo è uno sport,
un’arte, una consuetudine, una disperata tattica di sopravvivenza, far notare a qualcuno che
ci sta sottoponendo a questo trattamento è una offesa spaventosa. è quello che nella vecchia
Europa avrebbe provocato la sfida a duello.
«Tesoro» mi dice Wayan, con le lacrime agli occhi, «io non sono una contapalle.»
«Lo so, Wayan. Ecco perché sono così arrabbiata. Sto tentando di farlo capire ai miei
amici in America, ma non mi credono.»
Lei appoggia la sua mano sulla mia: «Mi dispiace metterti in difficoltà».
«Wayan, è una cosa molto seria. I miei amici dicono che tu devi comprare un terreno
prima che io torni in America. Mi hanno detto che se non lo fai entro la prossima settimana,
allora devo... riprendermi i soldi.»
Adesso non sembra più sul punto di svenire, sembra sul punto di morire. Mi sento la
sorella minore della più grande carogna della storia a raccontare questa frottola gigantesca a
una povera donna, che - fra le altre cose - non si rende conto che io ho altrettante possibilità
di ritirare i soldi dal suo conto in banca di quante ne avrei di revocarle la cittadinanza indonesiana. Ma come può sapere queste cose lei, che mi ha vista far apparire magicamente i soldi
sul suo libretto bancario? Non potrei altrettanto facilmente farli sparire?
«Liz» mi dice, «credimi, adesso trovo il terreno, non preoccuparti, trovo il terreno al più
presto. Per favore, non preoccuparti... forse entro tre giorni, prometto.»
«Devi trovarlo, Wayan» le raccomando con una serietà non del tutto simulata. Perché in
effetti lei deve trovare il terreno al più presto. Le sue bambine hanno bisogno di una casa. Sta
per essere sfrattata. Non è il momento di fare scherzi.
La saluto, aggiungendo: «Torno a casa, da Felipe. Chiamami quando hai comprato qualcosa».
Mi allontano - so che mi sta guardando, ma non intendo voltarmi. Tornando a casa,
rivolgo a Dio una preghiera un po’ assurda: «Signore, fa’ che mi stesse prendendo in giro per
davvero». Perché, se non stava facendo la furba, se davvero non è in grado di trovarsi un
posto dove vivere, nonostante un’iniezione di diciottomila dollari, allora siamo veramente nei
guai, e non so come potrà mai cavarsela. Ma se mi stava prendendo in giro, allora c’è un filo
di speranza. Vuol dire che sa essere astuta, e che potrà sopravvivere in questo mondo insidioso...
Arrivo da Felipe e mi sento ancora una persona orribile. «Se solo Wayan sapesse come
ho tramato alle sue spalle...» gli dico.
«... hai tramato per la sua felicità e il suo successo» Felipe finisce la frase per me.
Quattro ore dopo - solo quattro ore! - il telefono suona. è Wayan. è senza fiato. Vuol dirmi
che l’affare è concluso. Ha appena comprato i due aro dall’agricoltore (la cui moglie pare essersi mostrata improvvisamente favorevole alla vendita parziale). Non c’era alcun bisogno di
sogni magici, o dell’intervento di un sacerdote, né di un test sulle radiazioni taksu. Wayan
aveva già in mano il certificato di proprietà! Già firmato dal notaio. Ha ordinato i materiali per
la costruzione della casa e i muratori cominceranno a costruire prima che io parta. Così potrò
vedere l’avvio del progetto. Spera che io non sia arrabbiata con lei. Vuole che io sappia che
mi ama più di quanto ami il suo stesso corpo, più della sua stessa vita, più di quanto ami il
mondo intero.
Le dico che anch’io le voglio bene. E che non vedo l’ora di essere, un giorno, ospite nella
sua bellissima nuova casa. E che vorrei una fotocopia di quel certificato di proprietà.
Quando concludo la telefonata, Felipe dice: «Brava ragazza».
Non so se si riferisca a lei o a me. Ma apre una bottiglia di vino, e facciamo un brindisi alla
nostra cara amica Wayan, proprietaria terriera balinese.
Poi Felipe dice: «E adesso, possiamo andare in vacanza, per favore?».
Andiamo in vacanza in un’isoletta chiamata Gili Meno, al largo della costa di Lombok, che
si trova subito dopo Bali, in direzione est, nel grande, esteso arcipelago indonesiano. Ero già
stata a Gili Meno, e volevo mostrarla a Felipe, che non la conosceva.
L’isola di Gili Meno è per me uno dei posti più importanti del mondo. Sono venuta qui da
sola due anni fa, quando ero a Bali per la prima volta, inviata da un giornale. Finito il lavoro
per il mio servizio sulle vacanze yoga, avevo deciso di cercarmi un posto lontano e isolato
dove concedermi un ritiro di dieci giorni di solitudine e silenzio assoluti.
Quando mi volto indietro a guardare i quattro anni che separano il momento in cui il mio
matrimonio ha cominciato ad andare in pezzi dal giorno in cui ero finalmente divorziata e libera, vedo scorrere i dettagli di una cronaca di dolore.
Il periodo in cui sono partita per quest’isoletta, tutta sola, è stato il peggiore in assoluto di
quel lungo viaggio buio. La mia mente era un campo di battaglia, pieno di dèmoni in conflitto.
Ricordo che, prendendo la decisione di passare dieci giorni da sola e in silenzio, in mezzo al
nulla, ho detto alle forze che lottavano in me e mi facevano sentire divisa: «Adesso siamo qui
insieme, non c’è nessun altro. Dobbiamo trovare una soluzione, un punto di accordo, o prima
o poi moriremo tutti».
Forse a qualcuno la mia decisione sarebbe potuta sembrare
il gesto di una persona forte e sicura, invece ricordo di non essermi mai sentita così terrorizzata in vita mia come durante il mio solitario viaggio in barca verso quell’isola silenziosa.
Non avevo neanche portato un libro da leggere, niente che potesse distrarmi. Eravamo sole
io e la mia mente, in procinto di affrontarci in un campo vuoto. Ricordo che le gambe mi
tremavano. Come in altre occasioni, mi sono ripetuta una delle frasi della mia guru che
preferisco: «La paura - e a chi importa?», e sono sbarcata tutta sola.
Ho affittato un capanno sulla spiaggia, per pochi dollari al giorno, e ho chiuso la bocca, giurando che non l’avrei riaperta finché qualcosa in me non fosse cambiato. L’isola di Gili Meno era la mia ultima possibilità di verità e riconciliazione. Avevo scelto il posto giusto almeno quello era chiaro. L’isola è minuscola, immacolata, con sabbia, acqua azzurra e
palme. è un cerchio perfetto, con un singolo sentiero che vi gira intorno, e si può percorrere
interamente in circa un’ora. è situata quasi esattamente sull’equatore, e quindi le giornate qui
si succedono davvero senza variazioni. Il sole sorge su un lato dell’isola alle sei e mezza
circa del mattino e tramonta dall’altra parte alle sei e mezza circa della sera, ogni giorno
dell’anno.
Gili Meno è popolata da un piccolo gruppo di pescatori musulmani e dalle loro famiglie.
Non c’è un punto su quest’isola in cui non si possa sentire l’oceano. Non ci sono veicoli a
motore. L’elettricità è prodotta da un generatore, che viene messo in funzione solo poche ore
la sera. è il posto più silenzioso in cui sia mai stata.
Ogni mattina percorrevo la circonferenza dell’isola al sorgere del sole, e la ripercorrevo al
tramonto. Il resto del tempo, restavo seduta a osservare. Osservavo i miei pensieri, osservavo le mie emozioni, osservavo i pescatori. I saggi yogi dicono che tutto il dolore della vita
umana è causato dalle parole, così come tutta la gioia. Creiamo parole per definire la nostra
esperienza, e quelle parole portano emozioni ausiliarie, che ci tirano a destra e a sinistra,
come cani al guinzaglio. Rimaniamo sedotti dai nostri stessi mantra. (Sono un fallimento...
Sono sola... Sono un fallimento... Sono sola...) Io ero un esempio perfetto di questa sottomissione alle parole. Smettere di parlare per un periodo significa cercare di togliere il potere alle
parole, smettere di lasciarci soffocare da loro, liberarci dai nostri opprimenti mantra.
Mi ci è voluto un po’ a entrare nel vero silenzio. Dopo aver smesso di parlare, ho scoperto
che il linguaggio vibrava ancora dentro di me. Gli organi e i muscoli deputati all’emissione
della parola - il cervello, la gola, il petto - vibravano degli effetti residui del parlare, molto dopo
che avevo smesso di produrre suoni. La mia testa risuonava in un’eco di parole, come una
piscina coperta sembra incessantemente risuonare dell’eco di suoni e grida, anche quando i
bambini se ne sono andati. Ci è voluto un tempo sorprendentemente lungo prima che il turbine dei rumori nella mia testa si placasse. Forse tre giorni.
Poi tutto ha preso risalto. In quello stato di silenzio, ogni cosa detestabile, ogni cosa
temibile, aveva lo spazio per correre attraverso la mia mente vuota. Mi sentivo come un
drogato che si stia disintossicando. Ho pianto molto. Ho pregato molto. Era difficile e spaventoso, ma sapevo che non desideravo essere altrove e non volevo nessuno con me. Sapevo di
avere bisogno di quella solitudine.
I soli turisti sull’isola erano coppie in vacanza romantica. (Gili Meno è troppo deliziosa e
troppo lontana perché qualcuno, tranne un pazzo, ci venga da solo.) Osservavo quelle coppie
e provavo un po’ di invidia per le storie d’amore che immaginavo, ma sapevo che per me
quello non era il momento. Il mio scopo lì era diverso. Mi sono tenuta lontana da tutti. La
gente sull’isola mi lasciava in pace. Forse emanavo una vibrazione inquietante. Avevo sofferto tutto l’anno precedente. Non si può perdere sonno e peso e piangere tanto senza assumere alla fine l’aria di una psicotica. Per questo, credo, nessuno parlava con me.
In realtà, non è vero. Una persona parlava con me, ogni giorno. Era un bambino che correva su e giù per le spiagge insieme ai compagni vendendo frutti freschi ai turisti. Aveva forse
nove anni, e sembrava il capo della banda di piccoli venditori. Era duro, pugnace, e lo avrei
definito un ragazzaccio di strada, se la sua isola avesse avuto delle strade. Era un ragazzaccio di spiaggia, ecco. Non so come, ma aveva imparato l’inglese, probabilmente importunando i turisti che prendevano
il sole. Mi seguiva dappertutto. Nessuno mi domandava chi fossi, nessuno mi seccava,
ma lui, implacabile, veniva a sedersi vicino a me sulla spiaggia e mi chiedeva: «Perché non
parli mai? Perché sei così strana? Non fingere di non sentirmi - so che mi senti. Perché sei
sempre da sola? Perché non vai mai a nuotare? Dov’è il tuo fidanzato? Perché non hai un
marito? Cosa c’è che non va con te?».
Io avrei voluto dire: Sparisci, bambino! Che cosa sei - la brutta copia dei miei pensieri peggiori?
Ogni giorno cercavo di sorridergli gentilmente, e di mandarlo via con un gesto educato,
ma non smetteva finché non perdevo la pazienza. E, inevitabilmente, la perdevo. Una volta,
mi ricordo di essere esplosa: «Non parlo perché questo è il mio stramaledetto viaggio spirituale, piccolo delinquente - e adesso vai via!».
è corso via ridendo. Ogni giorno, dopo essere riuscito a farmi rispondere, correva via
ridendo. Anch’io di solito finivo per ridere, quando lui non era più in vista. Era fastidioso e lo
temevo, ma nello stesso tempo aspettavo con ansia la sua comparsa. Era una pausa buffa in
un percorso duro e faticosissimo.
Sant’Antonio, eremita nel deserto, ha raccontato di essere stato assalito da visioni di tutti i
tipi: diavoli e angeli. Ogni tanto incontrava diavoli che sembravano angeli, e altre volte angeli
che sembravano diavoli. Quando gli hanno domandato come faceva a distinguerli, ha detto
che l’unico modo è giudicare come ci si sente una volta che l’ambigua creatura ci ha lasciati.
Se si è inorriditi, vuol dire che è stato il diavolo a farci visita. Se ci si sente illuminati nello
spirito, allora è stato un angelo. Per questo credo di sapere che tipo di creatura fosse quel
piccolo delinquente che mi faceva sempre ridere.
La sera del mio nono giorno di silenzio sono andata a meditare sulla spiaggia, al calare
del sole, e non mi sono rialzata fino a dopo mezzanotte. Ricordo di aver pensato: «Ci siamo,
Liz, questa è la tua opportunità. Mostrami la causa del tuo dolore. Fammi vedere tutto. Non
tenere nascosto niente». Uno per uno, i pensieri e i ricordi tristi hanno alzato la mano, per
presentarsi. Ho guardato in faccia ogni pensiero, ogni «unità» di tristezza, ne ho riconosciuto
l’esistenza e ho provato (senza tentare di eluderlo) il suo carico di dolore. E poi a ciascuno ho
detto: «Va bene. Ti amo. Ti accetto. Adesso vieni nel mio cuore. è finita». Sentivo veramente
il dolore (come fosse una cosa vivente) entrare nel mio cuore (come fosse una stanza accogliente). Poi dicevo: «Avanti il prossimo» e il dolore successivo si faceva avanti. Lo guardavo, lo provavo, lo benedicevo, e
lo invitavo nel mio cuore. L’ho fatto con ogni pensiero doloroso che avevo - andando indietro con la memoria per molti anni - finché non è rimasto più niente.
Poi ho detto alla mia mente: «Adesso mostrami la tua rabbia». Uno per uno, ogni motivo
di rabbia della mia vita è apparso davanti a me e si è fatto riconoscere. Ogni ingiustizia, ogni
tradimento, ogni perdita. Li ho visti tutti, uno per uno, e ne ho ammesso l’esistenza. Ho sentito
ogni accesso della mia rabbia, come se si verificasse in quel momento per la prima volta, e
poi ho detto: «Adesso vieni nel mio cuore. Potrai riposare. Adesso è un posto sicuro. è finita.
Ti amo». Sono andata avanti così per ore, ho oscillato tra due poli opposti - la rabbia che fa
tremare le ossa e la freddezza che provavo quando entrava nel mio cuore e vi si adagiava,
accoccolandosi accanto ai suoi fratelli, cessando di combattere.
A quel punto è cominciata la parte più difficile. «Mostrami i tuoi motivi di vergogna» ho chiesto alla mia mente. Dio mio, non si possono immaginare gli orrori che ho visto. Una patetica
sfilata di tutte le mie mancanze, le mie bugie, il mio egoismo, la mia gelosia, la mia arroganza. Ma per nessuno di questi dimostranti ho battuto ciglio. «Mostrami il peggio di te» ho insistito. Quando ho tentato di invitare i deplorevoli motivi di vergogna nel mio cuore, hanno esitato sulla soglia: «No - non crediamo che tu ci voglia lì dentro... non sai cosa abbiamo fatto».
E io dicevo: «Io vi voglio. Persino voi. Vi voglio. Anche voi siete benvenuti. Va tutto bene, siete perdonati. Siete parte di me. Adesso potete riposare. è finita».
Ero svuotata. Non c’erano più battaglie nella mia mente. Ho guardato nel mio cuore, dove
c’è la mia bontà, e ho visto la sua ampiezza. E non era nemmeno lontanamente pieno,
neanche dopo avere accolto ed essersi preso cura di tutti quegli infausti folletti fatti di dolore,
rabbia e vergogna; avrebbe facilmente potuto perdonare anche di più. Il suo amore era infinito.
Così ho capito che questo è il modo con cui Dio ama tutti noi e ci accoglie, e che in questo
universo non esiste il luogo chiamato inferno, se non forse nelle nostre menti terrorizzate.
Perché, se un essere umano, distrutto e limitato, dimostra di essere capace, anche solo per
una volta, di perdonare e accettare il proprio io, allora proviamo solo a immaginare quante
cose possa perdonare e accettare Dio, con la sua eterna pietà.
Nello stesso tempo sapevo che quello era solo di un intervallo di pace. Sapevo che avevo
appena cominciato, che la mia rabbia, la mia tristezza e la mia vergogna sarebbero tornate,
scappando furtive dal mio cuore, e andando ancora a occupare la mia mente. Sapevo che
avrei dovuto discutere di nuovo con questi pensieri, finché non avessi, gradualmente e con
determinazione, cambiato tutta la mia vita. E che sarebbe stato difficile ed estenuante. Ma il
mio cuore ha detto alla mia mente, nel silenzio buio della spiaggia: «Ti amo, non ti abbandoner mai, avrò sempre cura di te». Ho afferrato con la bocca quella promessa venuta a galla
dagli abissi del cuore e l’ho assaporata, mentre lasciavo la spiaggia e tornavo al capanno
dove abitavo. Ho trovato un quaderno intonso, l’ho aperto alla prima pagina - e solo allora ho
aperto la bocca, e ho pronunciato quelle parole lasciandole libere, nell’aria. Ho lasciato che
rompessero il mio silenzio, poi ho permesso alla mia penna di trascrivere la loro importantissima dichiarazione:
«Ti amo, non ti abbandonerò mai, avrò sempre cura di te.»
Sono state le prime parole che ho scritto in quel quaderno segreto, che da allora ho
portato con me, e al quale mi sono rivolta spesso nei due anni successivi, sempre per
chiedere aiuto - trovandolo sempre, anche quando ero mortalmente triste o impaurita. E quel
quaderno, nato da una speciale promessa d’amore, è stato da solo il motivo per cui sono riuscita a sopravvivere negli anni successivi della mia vita.
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E adesso ritorno a Gili Meno in circostanze molto diverse.
Dall’ultima volta che sono stata qui, ho fatto il giro del mondo, ho concluso il mio divorzio,
sono sopravvissuta alla separazione da David, ho eliminato dal mio organismo tutti i medicinali che alterano l’umore, ho imparato una nuova lingua, mi sono seduta nella mano di Dio in
India per alcuni indimenticabili momenti, ho studiato al cospetto di uno sciamano indonesiano,
e ho comprato una casa per una famiglia con un disperato bisogno di un posto dove vivere.
Sono felice, sana ed equilibrata. E, sì, non posso fare a meno di aggiungere che sto navigando verso questa incantevole isola tropicale con il mio amante brasiliano. Lo ammetto - è un
finale quasi ridicolo per la mia storia, un lieto fine da fiaba, una pagina che sembra presa dal
sogno di una casalinga (o da un sogno mio di qualche anno fa). Ma quello che mi preserva
dalla completa dissoluzione nel luccichio delle fiabe è un’innegabile verità: io non sono stata
salvata da un principe; sono stata io stessa l’artefice del mio salvataggio.
Mi torna in mente una riflessione del buddhismo zen che avevo letto tanto tempo fa. I
buddhisti zen dicono che una quercia viene creata contemporaneamente da due forze. La
ghianda, che è la forza dalla quale tutto comincia, il seme, con tutte le sue promesse e il suo
potenziale, che diventa un albero. L’altra forza creatrice è l’albero futuro, che ha un desiderio
così forte di esistere da spingere la ghianda a svilupparsi, a uscire dal vuoto, guidando la sua
evoluzione dal nulla alla maturità. è l’albero della quercia, dicono i buddhisti zen, che crea la
ghianda dalla quale nascerà.
Penso alla donna che sono diventata, alla vita che sto vivendo, e a quanto ho sempre voluto essere questa persona e vivere questa vita, libera dall’obbligo di fingere di essere
un’altra.
Penso a quello che ho sofferto, e mi chiedo se sono stata io -intendo questa io felice ed
equilibrata, che sonnecchia sul ponte di un piccolo peschereccio indonesiano - che ha attirato
fin qui l’altra, più immatura, più confusa e più combattuta. La più giovane era la ghianda con
le sue potenziali qualità, la più vecchia era la quercia, che continuava a dire: «Sì, cresci!
Cambia! Evolviti! Vieni qui, dove io già esisto nella mia interezza e maturità. Ho bisogno che
tu cresca fino a diventare me!» E forse era la donna realizzata di adesso che quattro anni fa
aleggiava sopra la giovane ragazza sposata, singhiozzante sul pavimento del bagno, e le
mormorava amorevolmente nel: l’orecchio: «Torna a letto, Liz...», sapendo che tutto sarebbe
andato bene, che la vita ci avrebbe alla fine portate qui insieme. Proprio qui, dove da sempre
la aspettavo, nella pace e nella serenità, perché si unisse a me.
Felipe si sveglia. Abbiamo dormito, coscienti e no, per tutto
il pomeriggio, rannicchiati l’uno nelle braccia dell’altro sul ponte di una barca a vela di pescatori. L’oceano ci dondola, il sole splende. Ho la testa appoggiata sul suo petto come su un
cuscino, Felipe dice che ha una bella idea: «Sai, io devo continuare a vivere a Bali perché il
mio lavoro si svolge lì e perché è vicina all’Australia, dove vivono i miei figli. Ho anche
bisogno di andare spesso in Brasile, perché lì ci sono le gemme e la mia famiglia. Tu hai
bisogno di stare negli Stati Uniti perché hai il tuo lavoro, e ci sono la tua famiglia e i tuoi amici.
Allora pensavo... potremmo tentare di costruire la nostra vita insieme dividendoci tra America,
Australia, Brasile e Bali».
Non posso far altro che ridere - in fondo, perché no? è tanto pazzesco che potrebbe funzionare. Una vita così può sembrare assolutamente folle, una totale idiozia, ma assomiglia
molto al mio modo di essere. è ovvio che dobbiamo fare così. Mi sembra già familiare.
E poi suona bene: America, Australia, Brasile e Bali, A, A, B, B, come una poesia classica, come un paio di rime baciate.
Il piccolo peschereccio getta l’ancora appena al largo di Gi
li Meno. Non ci sono moli dove attraccare. Devi arrotolarti i pantaloni, saltare dalla barca e
procedere attraverso le onde con le tue forze. Non c’è modo di farlo senza bagnarsi, o
persino senza essere sbattuti contro le barriere di corallo, ma ne vale la pena, perché qui la
spiaggia è bellissima e speciale. Così io e il mio amante ci togliamo le scarpe, ci mettiamo
sulla testa le borse con la nostra roba, e ci prepariamo a saltare insieme, dal bordo della
barca, in mare.
Sapete, è divertente: l’unica lingua romanza che Felipe non parla è l’italiano. Ma io glielo
dico comunque, mentre stiamo per saltare.
Gli dico: <<Attraversiamo».
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