Comments
Transcript
Poi, quando il bar chiude, torno a casa. A volte
Poi, quando il bar chiude, torno a casa. A volte devo saltellare tra le pozzanghere, perché qui piove spesso, ed è un bel problema mantenermi in equilibrio e non cadere lungo disteso. Però è bello. E’ bello l’asfalto lucido, con le insegne che si specchiano e prendono altre forme, e i fari delle macchine che argentano la pioggia e il fruscio fresco dell’acqua e tutto il resto. Forse invece non è davvero così, così bello intendo, ma a dir la verità sono quasi sempre mezzo ubriaco e con un po’ di alcol in corpo le cose sembrano sempre migliori, più luminose e più allegre, come se fossero ubriache anche loro. Comunque forse è per questo che sono ingrassato così tanto. Per il bere. Ma forse sarebbe capitato lo stesso. Succede anche agli atleti quando smettono l’attività, ai pugili ad esempio, che il corpo si gonfi e che i muscoli si sfascino nel grasso. Forse è un modo come un altro per allontanare quello che è stato, un patetico modo per dimenticare. Poi a casa trovo il gatto. Si precipita verso di me non appena apro la porta e serpeggia tra le mie gambe, fa le fusa, si struscia, mi guarda fisso con i suoi incredibili occhi gialli e chissà a cosa diavolo pensa. Lui sa tutto. La mia storia gliel’avrò raccontata mille volte, poveretto, ma è difficile capire che idea si sia fatta di me. Il suo lontano sguardo di metallo non lascia mai trasparire nulla. Mi guarda. Mi guarda e basta. Agli altri invece non racconto più nulla da un mucchio di anni. D’altronde non mi ha mai creduto nessuno. Deliri di un alcolizzato, ecco quello che pensavano. Mi ascoltavano imbarazzati e prima o poi spuntava un sorriso di compatimento e si allontanavano svelti. Finivo sempre per restare solo, il bicchiere in una mano e un insopportabile senso di vuoto nella testa. Poi, di solito, mangio qualcosa. Mi piace mangiare di notte, Mi fa sentire meno solo. Intanto guardo la televisione, il gatto acciambellato di fianco a me sul divano che dorme di un sonno così beato e profondo da provarne invidia. A volte, poi, mi affaccio alla finestra e osservo il cielo. Mi piace guardare il cielo, e le stelle quando ci sono, ma spero sempre di non vedere la luce di un aereo e se succede che appaia veramente trattengo il fiato finchè non scompare dalla mia visuale. Che cosa farei, ora, se la luce si inclinasse e puntasse pericolosamente verso il basso? Una volta era un attimo. Il tempo di un respiro ed ero già là, le braccia tese a sostenere quella grande freccia d’acciaio persa nel vento, il mantello gonfio e l’inebriante senso di volare…. Volare. Tra tutte è forse la cosa che mi manca di più. Vincere la gravità che ora mi inchioda sulla terra e che mi fa capire, ogni volta che guardo in alto, che non esiste più una vera via di fuga in tutto il mondo. Poi, quando la notte si scolora nel grigio lasciando spazio al giorno, vado a dormire. Faccio sempre un mucchio di sogni e spesso ho paura perché mi trovo in mezzo a luci bianche, troppo forti, oppure in fondo al mare con questi stupidi polmoni che non servono a niente laggiù e poi fa tanto freddo oppure sono dentro a un grande sole e tutto arde intorno a me e anch’io brucio, ma mai abbastanza in fretta, e a volte ci sono mostri che mi straziano la pelle o meteore infuocate o pianeti che vogliono inghiottirmi nel loro morto pallore o anche labirintiche foreste di cristallo tagliente da cui non so più uscire o gelidi vortici di vento oppure la terra mi frana sotto i piedi e tutto crolla e precipito e una gran polvere ruvida e rossa si solleva intorno e c’è un rumore insopportabile, un boato, ed è come essere dentro un’enorme campana, un terribile fragore di metallo che mi attraversa come una spada, che mi scava la testa e che non smette… Poi mi sveglio. Se il gatto mi guarda con aria spaventata e difensiva, capisco che ho urlato. In quei momenti sudo, ma ho anche tanto freddo e paura e cerco con ansia un po’ di calore negli occhi gialli del gatto dentro il buio violaceo e assorbente della stanza. A volte accendo una sigaretta e la fumo con brevi boccate nervose mentre il terrore mi paralizza ancora. Allora penso che sarebbe stato meglio se quel maledetto minerale verde mi avesse ucciso in un momento solo e non piano piano, privandomi di tutti i fantastici doni che possedevo e consegnandomi beffardamente alla condizione umana. Ma allo stesso tempo penso anche che forse hanno ragione gli altri, che sono soltanto un alcolizzato delirante che si è inventato un passato mai esistito, un ridicolo mucchio di ricordi fasulli e che la verità è tutta qua, piccola piccola, chiusa tra l’odore polveroso della stanza, gli occhi gialli del gatto, il sapore amaro di fumo sulla lingua e il sudore che mi si rapprende freddo sulla pelle. Poi arriva il giorno e la luce quasi mi sbalordisce. Ci metto un po’ a capire dove sono, mentre il gatto salta allegro sul letto, gioca con le mie mani, le graffia appena, dolcemente, senza lasciare segni. E’ il suo modo di salutarmi e io gli afferro il muso, gli gratto la schiena, sorrido, gioco con lui. Poi c’è il profumo forte del caffè, il suo tepore dentro il corpo e la quotidiana, confortante ripetizione degli stessi gesti. E’ bello essere lì, con la tazza tra le mani e il gatto che mi guarda da lontano, con aria pacifica e assonnata, e chissà a cosa pensa. Però in me c’è sempre una punta di malinconia, il senso preciso di una mancanza, un doloroso segno di rimpianto che non so proprio allontanare. Il caffè non si è ancora raffreddato e ho già voglia di bere. Lo farò appena più tardi. Le mani già mi tremano, però. Che cosa cambia in fondo, forse lo farò soltanto tra un minuto. D’altronde, lo so, la malinconia si farà via via più aguzza e cattiva. Diventerà feroce e insopportabile. Il fatto è che non posso pensare di essermi davvero inventato tutto. Non è proprio possibile che me lo sia semplicemente sognato. Almeno voi credetemi. Una volta quest’uomo stanco e alla deriva sapeva fare mille e mille cose meravigliose, anche scagliarsi nel vuoto, teso e lucido come una freccia, e poi volare. “KRIPTONITE” – Gabriele Contardi