Quella sensazione di esser nel mondo che ci danno i romanzi
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Quella sensazione di esser nel mondo che ci danno i romanzi
ANNO XVII NUMERO 60 - PAG 2 Lettere rubate Finalmente l’8 marzo è passato e si può confessare che non siamo per niente buddiste Quand’è che il femminismo ha iniziato a essere scambiato per buddismo? Perché devo essere gentile e carina con tutti solo perché sono nata donna? E perché le donne, oltre a tutDA ANNALENA to quello che ci tocca fare, devono essere sempre “adorabili” e “pronte a dare sostegno agli altri”? Confesso che considero questa idea di sorellanza assolutamente illogica. Non credo di essere tenuta a versare un bonus del venti per cento per “affinità genitali” quando incontro qualcuno che porta un reggiseno. Se una persona è deficiente, è deficiente, punto e basta, a prescindere dal fatto di trovarci entrambe nella coda più lunga davanti ai bagni. Caitlin Moran, “How To Be A Woman” Adesso che l’otto marzo è passato, e fino all’anno prossimo nessuno, si spera, ci farà più pat pat sulla testa promettendoci un luminoso futuro in cui avremo l’obbligo di dividere il congedo di maternità con i mariti (non significa dare anche ai padri qualche giorno di paternità, ma toglierli alle madri in nome delle pari opportunità), si può confortare Caitlin Moran: non siamo per niente buddiste. Il fatto di dover fare sempre la fila più lunga ai bagni (anche a voler risparmiare tempo, quelli degli uomini sono infrequentabili) ha minato per sempre la nostra natura generosa e superiore, depositando anche nelle più sincere femministe un po’ di velenosità da pollaio. Ci basta l’orlo scucito di una altrui gonna, lo smalto nero un po’ mangiato, e non parliamo dei tatuaggi, della civetteria e delle labbra gonfie per scatenare l’impetuosa sindrome del ma-l’hai-vista-quella? Del resto, mentre si fa la fila per il bagno, ci si guarda intorno. Quindi, o si decide di moltiplicare i bagni delle donne, o si accettano i pettegolezzi. E’ pur sempre un modo di volerci bene, di interessarci le une alle altre. Siamo così tanto interessate che vogliamo anche proteggere la vita sentimentale delle nostre simili, e quindi decidere quando devono lasciare un marito stronzo. Ora, è piuttosto difficile rivestire Dominique Strauss-Kahn dei panni del principe azzurro (ieri il Monde lo citava nell’editoriale intitolato “Per l’abolizione dell’8 marzo” come simbolo rivelatore del sessismo francese), ma ha ragione Anne Sinclair, sua moglie o quel che ne resta, dopo tutto quel che è successo (comprese le amiche che rilasciavano interviste sulla brutalità erotica di DSK), nel pretendere che non le vengano fatte lezioni moraliste su come si comporterebbe una perfetta femminista al posto suo (probabilmente introducendo nella legislazione un pacchetto di torture ad personam, ma questo è un sogno e deve rimanere tale). “Il femminismo è nato come difesa delle libertà e dell’eguaglianza di diritti, alcune donne vogliono farne invece una battaglia contro gli uomini. Ma non spetta alle femministe dire: ecco come dovete condurre la vostra vita”, ha detto Anne Sinclair ad Anais Ginori, sulla Repubblica. E poiché davvero non spetta a noi dirle se e quanti calci deve dare a suo marito, accontentiamoci, se la incontriamo in fila al bagno, di invidiarle gli zigomi sporgenti, dovuti a quasi un anno di pene alberghiere. PICCOLA POSTA di Adriano Sofri La televisione, cattiva maestra, colpisce soprattutto i più indifesi, i piccoli, quelli che vivono magari fuori dalle grandi città e sognano che la vera vita sia quella che vedono sullo schermo e finiscono per provare rancore per chi li ha tirati su con amore e fatica. Ora Brina e Brillo, da quando hanno visto Monkey fare la civetta a “Radio Londra”, mi tengono il muso. PREGHIERA di Camillo Langone Perché i libri non contano più niente? Perché Silvio Pellico con “Le mie prigioni” danneggiò l’Austria più di una battaglia perduta, come ammise Metternich, e invece i libri di Edoardo Nesi a Monti non fanno nemmeno il solletico? Eppure l’autore pratese non è l’ultimo arrivato: ha vinto uno Strega, vende molte copie, scrive sul Corriere. Niente da fare. “Le nostre vite senza ieri” (Bompiani) è un pamphlet scagliato contro “i Professori imbevuti della stessa ideologia economica che questa crisi ha prima allevato e poi sguinzagliato per il mondo”, contro la manovra “che si dirige esattamente nel senso contrario rispetto a ciò che servirebbe alla crescita dell’economia reale”. E’ l’atto di accusa di un industrialista che conosce la materia di cui sono fatti i boom: “Diceva mio zio Gino del cibo che veniva messo in tavola: per bastare, deve avanzare. Bisogna stare attenti a parlar male dello spreco, perché lo spreco è il linguaggio e l’uso della giovinezza. Lo spreco è vita, pura vita”. E’ un dizionario della verità che svela le false accezioni della retorica politica: “La crescita, se solo smettessero di invocarla a vanvera ogni giorno, i Professori, che ne sanno della crescita, loro? La crescita è un germogliare: un fenomeno miracoloso, il combattimento vittorioso che la vita ingaggia contro l’entropia”. Io sogno Nesi ministro dell’Economia o al limite allo Spielberg, dove almeno diventerebbe un eroe. Invece me lo trovo nelle pagine culturali. IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 10 MARZO 2012 Quella sensazione di esser nel mondo che ci danno i romanzi I MIGLIORI LIBRI SECONDO UNO SCRITTORE CHE SI CHIEDE PERCHÉ NON RIESCE A NON COMPRARLI E, SOPRATTUTTO, A BUTTARLI Q ualche mese fa mi hanno chiesto di scrivere un pezzetto sul mio libro preferito da mettere in una antologia di cento scrittori che avrebbero raccontato ciascuno il proprio libro preferito; solo che poi, pochi giorni fa, mi hanno telefonato e mi hanno detto che c’erano dei motivi per cui il mio pezzetto non sarebbe entrato nel libro, e i motivi sono anche interessanti e meriterebbero, forse, un raccontino a parte, ma non adesso. Adesso ho pensato che mi sarebbe piaciuto pubblicare quel pezzetto che avevo scritto sul mio libro preferito qui, sul Foglio, e cominciare, con quel pezzetto, la mia collaborazione con il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara, che è un signore che fino a qualche anno fa io quando pensavo a lui pensavo Diomemama, e invece l’altro giorno, quando mi ha telefonato per dirmi che nel pezzetto che gli avevo mandato (questo che state leggendo non è il primo pezzetto che pubblico sul Foglio, è il secondo, ma è il primo che pubblico con l’intenzione di scriverne poi anche degli altri), l’altro giorno, dicevo, quando Ferrara mi ha telefonato per dirmi che avevo sbagliato il nome di Goncarov, avevo scritto Aleksandr invece di Ivan, io quando ho sentito la voce di Giuliano Ferrara nel mio telefono ho pensato “Ma pensa”, e mi sono trovato a esser contento. E poi ho pensato: “Ma sei deficiente, a esser contento che ti ha telefonato Giuliano Ferrara?”. E poi mi son fermato e mi son chiesto: “Ma sei deficiente, a chiederti se sei deficiente?” E poi non mi sono risposto e quindi è inutile che la tiro tanto alla lunga. * * * Il primo vero libro che ho letto, il primo libro da grandi, è stato “Il buio oltre la siepe”, di Harper Lee, che io per trent’anni son stato convinto che fosse uno scrittore americano, uomo, cinque o sei anni fa ho scoperto che era una scrittrice americana, donna. “Il buio oltre la siepe”, di Harper Lee, io l’ho letto che avevo forse undici anni, e mi ricordo benissimo la meraviglia di trovare, dentro un libro senza figure e con così tante pagine apparentemente uguali e monotone, tante di quelle storie che a disegnarle Io mi ricordo tutto di quando ho letto “Il buio oltre la siepe”, mi ricordo dov’ero, mi ricordo il cantar di mia nonna dalla cucina tutte uno non ci sarebbe riuscito nella sua vita, e di quei momenti, quando avevo forse undici anni, io mi ricordo tutto, mi ricordo dov’ero, sotto il portico di casa nostra in campagna, mi ricordo il cantar di mia nonna dalla cucina, mi ricordo che passava mio babbo con dei secchi di calce, mi ricordo la sedia arancione dove ero seduto, mi ricordo la polvere che c’era nell’aria e la sensazione stranissima dovuta al fatto che io, incantato dal libro, non ero per questo incanto estraniato dal mondo ero dentro, nel mondo. E questa sensazione di esser nel mondo l’ho poi riprovata ogni volta che ho incontrato, mi viene da dire, la letteratura: “Delitto e castigo”, di Dostoevskij, sdraiato nel letto singolo della mia stanzetta minuscola di Basilicanova, le “Poesie” di Chlebnikov, da in piedi, appoggiato allo scaffale dei russi della Biblioteca Guanda di Parma, “Anna Karenina”, che l’ultima volta l’ho letto ad andare e venire tra Parma e Bologna su degli interregionali affollati di gente che andava o tornava da lavorare, “Europeana”, di Ourednik, su dei fogli A4 dentro una stanza anche quella minuscola che mi serviva da studio quando abitavo in centro a Bologna, e questa sensazione di esser nel mondo io la riprovo poi ogni volta che mi trovo di fronte alla letteratura, anche solo tre versi: “Le ragazze, quelle che camminano, con stivali di occhi neri, sui fiori del mio cuore”. E da quel momento lì, dal momento che ho letto “Il buio oltre la siepe”, di Harper Lee, io ho cominciato a ripetere quella cosa lì, di prendere in mano dei libri e di leggerli, con un movimento anche automatico, non riflessivo, da cane di Pavlov, una pulsione a ripetere quell’esperienza di incanto che non sempre ha però avuto un corrispettivo, anzi, a volte, molte volte, i libri che ho preso in mano poi mi sono trovato a chiedermi cosa ci facevo con quei libri lì tra le mani. Qualche anno fa ho anche fatto un elenco che si intitolava “Libri” che ho comprato solo per il titolo, elenco che comprendeva, tra gli altri, quei libri qua: Anna Filiputti, “Ipnosi a mappe cerebrali. Le vie di accesso alle forze della mente” (non letto) Corrado Alvaro, “L’uomo è forte” (cominciato) Joachim Fest, “Hitler. Una biografia” (cominciato) Ludovico De Cesari, “Dizionario degli errori e dei dubbi grammaticali” (mai consultato) David Cooper, “La morte della famiglia. Il nucleo familiare nella società capitalistica” (cominciato) Fabrizio Fagiolo, “L’operaio americano” (cominciato) Aleksj Slapovskij, “Kniga dlja tech, kto ne ljubit ãitat’ (Libro per quelli che non gli piace leggere)” (arrivato a pagina 324) Pablo Tusset, “Il meglio che possa capitare a una brioche” (letto) Sasha Sokolov, “Shkola dlja durakov (Scuola per deficienti)” (lette più volte le prime tre pagine) Adreï Amalrik, “L’Union Soviétique survivra-t-elle en 1984? (L’Unione Sovietica esisterà ancora nel 1984?)” (arrivato a pagina 121) Karel âapek, “Racconti da una tasca” (letto) Jean Vautrin, “Diciotto tentativi per diventare un santo” (letto) Juz Aleskovsky, “Nikolaj Nikolaeviã: il donatore di sperma (viaggio illuminato all’interno dell’oscuro letamaio della biologia sovietica)” (letto) Alexandre Zinoviev, “Homo sovieticus” (letto) Jaroslav Hasek, “La vera storia e il programma originale del Partito del Progresso Moderato nei Limiti della Legge” (letto) Karel Capek, “Racconti dall’altra tasca” (letto) Philip K. Dick, “Vita breve e felice di uno scrittore di fantascienza” (letto qua e là) “Poesie dei popoli dell’Urss, I siberiani” (letto) John Fante, “Aspetta primavera, Bandini!” (comperato nel 1990, non conoscevo Fante, avevo una morosa che si chiamava Francesca Bandini) Joseph O’Connor, “Il maschio irlandese in patria e all’estero” (arrivato a pagina 41) Ecco. Io non riesco a spiegarmi come mai ho comperato “Ipnosi a mappe cerebrali. Le vie di accesso alle forze della mente”. Non lo so, eppure l’ho comprato, e ce l’ho ancora. Come mai? mi viene da chiedermi, e mi vien da rispondermi che il fatto che ce l’ho ancora, adesso ce l’ho in cantina, da un anno, fino a un anno fa ce l’avevo in casa, il fatto che ce l’ho ancora dipende dal fatto che io, buttare via un libro, non ce la faccio, non lo so perché, cioè io i libri, anche quei libri che te vai a leggere nei posti e te li regalano, quei libri fotografici, pesantissimi, non so, io ho “Il grande libro della città di Sassuolo”, in quadricromia, carta patinata, dimensioni 32 per 24, che è dentro una specie di portalibro in cartone, un libro che peserà due chili e mezzo e che io ero convinto che non avrei mai usato nella mai vita e invece dopo l’ho usato, mi hanno chiesto di scrivere una cosa su Sassuolo, ho usato “Il grande libro della città di Sassuolo”, che la scrivevo poi lo stesso, eh?, cioè non era indispensabile, nella mia libreria, “Il grande libro della città di Sassuolo”, solo che, buttarlo via, oh, a me mi dispiace, adesso magari lo porto in cantina, tiene un sacco di posto, ma buttarlo via, non ce la faccio. Solo che, adesso quello me l’han regalato, son stati gentili, se non me lo regalavano era poi lo stesso, perché poi son pesanti, quei libri lì fotografici, e li devi portare a casa, che va be’, lì ero a Sassuolo, ero vicino, ma delle volte gli devi far fare dei seicento chilometri, poi son dei libri costosi, sono cari come il chinino, come dicono a Parma, e li pagano i comuni, con i soldi di tutti, e per cosa?, per darsi dell’importanza, per spender dei soldi, per far veder che son belli, va be’, lasciamo perdere, va be’, comunque lì, quel libro lì, io non ho mica colpa, me l’han regalato, quell’altro, invece, “Ipnosi a mappe cerebrali. Le vie di accesso alle forze della mente”, chissà cosa avevo in testa, quello è un caso singolare mentre invece i romanzi, i romanzi che compero, buona parte dei romanzi che compero, a me quella cosa là che mi è successa con “Il buio oltre la siepe”, ecco, anche quello è un caso singolare, quella è una cosa che succede una volta ogni cento. Non è la regola, è l’eccezione. Che, a pensarci, è normale, perché uno, l’ho detto prima, cioè quello lì è un incanto, è una specie di miracolo, che tu sei concentrato con la testa, con gli occhi, con la bocca, con le orecchie sopra una cosa, e il fatto di esser concentrato sopra quella cosa non determina il fatto che il mondo sparisce, il mondo diventa più mondo, si illumina, e quando hai finito, non so come dire, hai voglia di mondo, hai voglia di parlar con la gente, hai voglia di Una volta ogni cento romanzi succede una specie di miracolo, hai voglia di mondo, di parlare con la gente, di muovere i piedi camminare, hai voglia di muovere i piedi, son quei momenti che ti viene in mente che i piedi son fatti per camminare, non per essere coperti con delle scarpe, per camminare, per farti stare in piedi, e dopo che hai finito un libro che vale la pena, non so come dire, stai in piedi, solo che, c’è una cosa, che mi vien da pensare, che il bisogno dei libri è un po’ un brutto segno, in un certo senso, perché quell’incanto, quell’attrazione per il mondo, noi ci veniamo al mondo insieme, con quell’attrazione lì, e poi piano piano, man mano che diventiam grandi, quell’incanto, forse, sparisce, e abbiamo bisogno di qualcosa che ci aiuti a vedere, a sentire, e allora, per me, quella cosa lì sono i libri, che sono come delle lenti che mi aiutano a vedere meglio le cose, e degli eccitanti che mi aiutano a non dormir tutto il tempo, ma quando ero piccolo, secondo me, non ne avevo bisogno, quando ero piccolo mi svegliavo al mattino che ero contento, e le mie gambe, quando ero piccolo, forse mi sbaglio, ma io ho come un ricordo che lo sapevan da sole, che le gambe son fatte per camminare, e per correre, potevo anche star senza libri, quando ero piccolo, adesso invece, star senza libri, non saprei cosa fare, che vuol dire, anche, che questo incanto dei libri disegna un percorso irreversibile, tu ormai sei entrato per una porta dalla quale non si può uscire, come quando uno si abitua a bere il caffè senza zucchero, prova a berlo, poi, con lo zucchero, se sei capace. Paolo Nori Caro Citati, il successo dei buoni scrittori non è un problema di prezzo S ul Corriere di venerdì 9 Pietro Citati avanza tre considerazioni sull’editoria italiana, tutte illuminanti nonostante una sia vera e due discutibili. La prima è che in Italia non è calato il livello degli autori (in originale o traduzione) ma quello dei lettori: il declino degli scrittori è anzi una conseguenza del declino dei lettori e dipende dalla scarsa propensione all’azzardo di una massa critica di editori che preferisce inseguire i gusti del pubblico anziché dirigerli. Il risultato, scrive Citati, è “una specie di orgia” in cui trionfano “la volgarità dell’immaginazione, la banalità della trama e la mediocrità dello stile”: trinità di cui ravvisa l’ipostasi in Dan Brown, Faletti e Coelho. Questo è il sintomo del nostro mal di libri. Le successive considerazioni, in cui Citati indica diagnosi e cura, reggono meno e sembrano contraddire i presupposti del suo ragionamento. Citati sostiene infatti che i lettori d’Italia peggiorino perché si legge poco, tanto meno i classici, e che si legga poco e male perché i libri costano troppo. La classifica dei più venduti (fonte Tuttolibri del 3 marzo) mostra però fra i primi posti il solito Ruiz Zafón a 21 euro, “La dieta Dukan illustrata” a 19 e 90, “La voce invisibile del vento” a 17 e 60; non c’è traccia di Stendhal o Dickens o Tolstoj che pure sono bravini e si possono acquistare a 6 o 7 euro. Peggio ancora: il più venduto in assoluto costa sì 10 euro ma è “Amore, zucchero e cannella”, non già l’“Ulisse” di Joyce che lo stesso editore vende a 9 e 90. Di qui si deducono tre corollari: il prezzo non corrisponde al valore di un autore; è sempre più rara la figura di chi vuole leggere ma non ha i soldi per comprare (tant’è vero che le biblioteche, gratuite, sono spesso deserte); un autore di valore a poco prezzo vende meno di un autore di più scarso valore a prezzo più elevato. Di conseguenza, i lettori d’Italia non sono costretti dall’indigenza a guastarsi il palato letterario ma sono piuttosto degli spendaccioni che amano rovinarsi con le proprie mani. Terzo punto: per curare i lettori Citati auspica “la diminuzione del prezzo dei libri” ma suggerisce un percorso tortuoso. Secondo lui, bisogna abolire il provvedimento del 2010 in cui il governo Berlusconi calmierava al 15 per cento il tetto massimo dello sconto per volume. Che c’entra? Se oggi un nuovo romanzo (bello o brutto) costa sui 20 euro, non sarà lo sconto natalizio a renderlo economico ma l’abbassamento a priori del prezzo di copertina; anche in questo caso la matematica è un’opinione, perché poi l’edizione paperback dello stesso romanzo, a 10 eu- ro un anno dopo, non vende il doppio dell’edizione hardback nonostante che possa raggiungere più tasche. Inoltre bisogna considerare che di solito una piccola libreria indipendente ottiene dalla casa editrice un libro con uno sconto inferiore rispetto a una catena di librerie: se il prezzo pieno è 10, la libreria indipendente lo compra a 7 e la catena magari a 5,50. Quindi la piccola libreria può imporre uno sconto massimo del 15 per cento onde ottenere un minimo ricavo mentre la catena, con uno sconto del 20, ci guadagna eccome. Finisce che tutti si precipitano dove un libro costa meno, la piccola libreria perde clienti e chiude mentre ai lettori d’Italia resta a disposizione la grande catena. E lì la prima cosa che si nota qual è? Torreggianti pile di Dan Brown, Faletti e Coelho, mica di Stendhal, Dickens e Tolstoj. Antonio Gurrado Elio Pagliarani Barattare il mare con le operaie è troppo, ma portava il farfallino e non era il poeta della Fiom E lio Pagliarani non era certo Lucio Dalla ma anche lui, come poeta, ha avuto una certa importanza. Almeno fra gli addetti ai lavori che sono poi gli unici che lo abbiano letto: forse meritava un pubblico più vasto ma avrebbe dovuto rendersi più avvicinabile, invece di andare ai convegni del Gruppo 63, invece di scrivere su rivistine settarie come il Menabò e Nuova Corrente. I suoi quasi coetanei e quasi conterranei Pasolini e Roversi, anch’essi autori di poesie sempre sull’orlo della prosa, almeno in alcune fasi riuscirono a essere elitari e popolari, trasferendo la propria intensità il primo al cinema, il secondo alla canzone. Lui no, lui popolare non è stato mai, anche se esattamente come Pasolini e Roversi di popolo parlava. Piaceva ai poeti della neo-avanguardia e a quelli della neo-neo-avanguardia, piaceva anche ai poeti successivi che non hanno il coraggio di aggiungersi un altro neo ma sempre avanguardisti sono (sto pensando a Francesco Targhetta il cui recentissimo “Perciò veniamo bene nelle fotografie” deve molto se non moltissimo alla “Ragazza Carla”). “Elio Pagliarani ci lascia parole di ferro e di acciaio” scrive su Repubblica un altro pagliaraniano tardo, Giorgio Falco. E’ chiaro, vogliono fargli fare la figura del poeta siderurgico, dell’operaista tutto d’un pezzo. Mentre invece, a rileggerla ora, non è poi così meccanica l’epocale “Ragazza”. Non ricordavo che il finale del poemetto si ammorbidisse in una sequenza di endecasillabi, l’ultimo dei quali recita commosso “pietà di noi e orgoglio con dolore”. Queste non sono le parole di carne e di pianto che piacerebbero a me, però nemmeno un comunicato della Fiom. La protagonista è una diciassettenne di periferia, Carla Dondi, che nella Milano del Dopoguerra a forza di scuole serali riesce a diventare dattilografa e a trovare lavoro alla Transocean Limited. Una storia volutamente non entusiasmante che può far tornare alla memoria certi antichi film di Olmi, certe remote angosce di Bianciardi, certi perduti scenari di Testori (lui però avrebbe pestato molto sul pedale del patetico). O perfino certe poco meno vecchie canzoni di Jannacci, tipo “Vincenzina e la fabbrica”. E’ indispensabile infliggersi così massicce dosi di tristezza, per giunta tristezza datata? Non credo proprio e per questo non consiglierei Pagliarani a nessuno. Se dovessi rievocare il 1962 (anno in cui la “Ragazza” uscì in volume) metterei su “Saint-Tropez Twist” di Peppino Di Capri, certo non inizierei a declamare “Sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa / sopra tutti i tranvieri ai capolinea”. Che poi io non lo capisco come possa venire in mente, Sesto, a un romagnolo di Viserba. Forse ai suoi tempi la frazione riminese non era ancora così turistica, forse non disponeva ancora di quella fila di alberghi vista mare che in alta stagione si riempiono di famigliole e in bassa di ciellini (il Meeting è a due passi). Di sicuro non avevano ancora costruito l’Italia in miniatura, il parco dei divertimenti immortalato in un film di Ligabue. Se proprio Rimini gli stava stretta poteva andarsene a Bologna, la capitale esterna (ma neanche troppo) della Romagna. Ci voleva davvero tanta ambizione letteraria per barattare il mare con la Bovisa, e trasferirsi nella Milano delle case editrici e delle mafiette delle rivistine. Non ho mai cercato di conoscerlo perché era pur sempre un amico di Nanni Balestrini, adesso però scopro che fumava la pipa e portava il farfallino quindi tanto malvagio non poteva essere. Il funerale religioso, stamattina nella chiesa romana di Santa Maria in Vallicella, è un indizio ulteriore, una nota metafisica al termine di una bibliografia che non sembrava contemplare simili aperture. Camillo Langone Borsellino e la trattativa proprio non c’azzeccano. Lo dicono le date Al direttore - E così, ancora una volta, la strage di via d’Amelio prende un’altra strada dopo quella sbagliata suggerita dal pentito Scarantino e che portò in carcere sei innocenti. Il nuovo movente della strage, secondo gli inquirenti di oggi, è da ricercare nella opposizione di Paolo Borsellino a una presunta trattativa tra stato e mafia attivata, sul piano operativo, dai Ros del generale Subranni e del colonnello Mori. Noi riteniamo questa ipotesi del tutto campata in aria per i seguenti motivi: a) Paolo Borsellino fu ucciso, insieme alla sua scorta, il 19 luglio 1992, due mesi dopo la strage di Capaci nella quale saltò in aria Giovanni Falcone. b) Se Borsellino era l’ostacolo per la trattativa, una volta eliminato, perché governo e Parlamento approvarono il 4 agosto 1992, e cioè a quindici giorni di distanza, il 41 bis, il carcere duro per mafiosi in vigore per i terroristi? c) Se Borsellino era l’ostacolo, una volta eliminato, perché nei mesi successivi non vennero prese misure che andavano incontro alle richieste dei mafiosi nel famoso papello? d) Se Borsellino era l’ostacolo, una volta eliminato, perché i mafiosi misero le bombe a Roma e a Firenze nel periodo maggioottobre 1993, cioè un anno dopo la sua morte, per ottenere benefici sino allora negati? Queste domande dimostrano per tabulas che o la trattativa non c’è mai stata o Borsellino non ne sapeva niente o comunque non ne era l’ostacolo. Ma c’è di più. Dal maggio 1992 (strage di Capaci) i Ros dei ca- rabinieri avvicinano Vito Ciancimino per indurlo a parlare e a collaborare con la giustizia. E infatti il 26 ottobre 1992 Ciancimino scrive a Violante, presidente dell’Antimafia, dichiarandosi disponibile a parlare davanti alla commissione rinunciando alla primitiva richiesta di avere anche la diretta televisiva durante l’audizione. Violante comunicò alla commissione le audizioni di alcuni mafiosi compreso Vito Ciancimino che ne aveva fatto puntuale richiesta. Guarda caso, però, pochi giorni dopo, e prima dell’audizione, Ciancimino fu di nuovo arrestato e tolto dalle mani dei carabinieri del Ros. Nonostante l’Antimafia potesse interrogarlo anche se detenuto, non lo farà mai. Violante non ha mai spiegato il perché di quella mancata audizione nonostante Ciancimino, con riferimento al delitto Lima, scriveva “sono convinto che que- sto delitto faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose. Molte altre cose”. Anni dopo gli inquirenti si sono sbizzarriti a sentire Ciancimino junior, non avendo mai l’Antimafia voluto sentire il padre. E veniamo alla presunta trattativa. Noi non sappiamo se davvero c’è stata ma non v’è dubbio che dopo le bombe di Roma e Firenze (maggio - ottobre 1993) avvennero due cose: 1) Il ministro Conso tolse oltre 300 mafiosi dal 41 bis nel novembre del 1993. 2) Dalla fine del ’93 iniziarono a funzionare a pieno regime i programmi di protezione che in 15 anni consentiranno a circa 4.000 mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti’, di uscire con una nuova identità e un po’ di soldi per rifarsi una vita. Tra questi anche la maggior parte degli assassini di Fal- cone e Borsellino, liberi, ormai, da molti anni. Questi due fatti erano, sostanzialmente, il cuore delle richieste dei mafiosi descritte in quel documento anonimo inviato a tutte le autorità ai primi di luglio 1992 e che il senatore Lucio Libertini inserì in un’interrogazione in maniera tale da lasciarlo agli atti del Senato. Questi due provvedimenti in favore dei mafiosi furono avviati dal governo Ciampi con alla giustizia il ministro Conso. Se trattativa c’è stata, dunque, non poteva che essere avallata da un lato da questo governo e dalla sua colonna portante (il vecchio Pci e in particolare Violante) e dall’altro dai procuratori della Repubblica e da quella specifica commissione presso il ministero degli Interni che erano gli unici soggetti capaci di avviare i mafiosi nei programmi di protezione e la loro successiva uscita dal carcere. Nessun altro aveva poteri analoghi. Questi i fatti incontrovertibili. Restiamo davvero allibiti quando vediamo, invece, che viene indagato una possibile vittima, Calogero Mannino, che era nel mirino dei mafiosi e non quanti hanno adottato quei provvedimenti che i mafiosi chiedevano a suon di bombe un anno dopo la morte di Borsellino. La sua fine va ricercata altrove e cioè nelle carte di Falcone e nel suo viaggio in Germania e non invece inventandosi una sua opposizione a una trattativa che se ci fu avvenne un anno dopo, gestita dai soggetti richiamati. E’ tempo che non si commettano ulteriori errori e omissioni. Paolo Cirino Pomicino (vedi editoriale a pagina tre) Il piccolo principe di Pierluigi Diaco “Eppure proclamarsi qualcosa è sempre parlare dietro sollecitazione di un Altro vendicatore, entrare nel suo discorso, discutere con lui, chiedergli un frammento d’identità: ‘Lei è… – Sì, io sono…’. In fondo, l’attributo non è importante; quello che la società non tollererebbe è che io sia… niente, oppure, per essere più precisi, che il qualcosa che io sono sia apertamente presentato come passeggero, revocabile, insignificante, inessenziale, in una parola: impertinente. Basta dire ‘Io sono’ e si è socialmente salvo”. Lucio non era. Io non sono. Nessuno dovrebbe illudersi di essere solo la sua gola.