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Napoli che mai non vide Vandali, vide i garibaldini.

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Napoli che mai non vide Vandali, vide i garibaldini.
3° INCONTRO
Dall’arrivo a Napoli (7 settembre) alla farsa del Plebiscito(21 ottobre)
Garibaldi, appena arrivato a Napoli, si proclamò dittatore del Regno delle due Sicilie
e nello stesso giorno, alle 19 di sera, con un decreto passò tutta la flotta borbonica a
Vittorio Emanuele II affidandola all’ammiraglio Pellion Carlo, conte di Persano,
grande amico del Cavour. Il Persano subito mandò ad occupare l’arsenale cacciando i
militari borbonici e sistemando la sua gente. Nel frattempo fece salpare da Genova la
fregata “Costituzione” che, con un altro Reggimento, il 12 occupò la “Gran Guardia”.
Ripeto una parte dell’articolo di De Sivo nascosto per anni e che fa parte dei
documenti ufficiali:
“Con Garibaldi erano arrivati a Napoli stranieri di linguaggi e costumi, diversi
di voglie e pensieri, ignoti l’uno all’altro, biechi, famelici, disordinati, male
armati, peggio coperti, e tali stranissimi vincitori comparvero nella nobile
Napoli. Per essi tutto fu lecito: occuparono castelli, reggie, arsenali ; erano delle
persone prezzolate già delinquenti, masnadieri, galeotti, calpestatori di ogni
diritto, bestemmiatori d’ogni Dio, ignoranti di ogni legge. Si spandono nei
palazzi, nelle ville, spesso devastandole, derubano ogni arnese, stuprano e
uccidono donne e suore, mamme e bambine, minacciano ogni vita, sfregiano
ogni monumento, insultano ad ogni grandezza.
Napoli che mai non vide Vandali, vide i garibaldini.
Erano assetati di sangue. Ogni giorno centinaia di atti di sangue. Un
garibaldino, nella chiesa di Monserrato, s’avventa su un sacerdote sull’altare, lo
trascina per il collare a terra, calpesta le ostie e uccide il sacerdote; un altro a
Montecalvario uccide col fucile una madre col bambino al collo; un altro con la
spada taglia l’arteria a un gentiluomo, padre di tre figli; ancora un garibaldino,
a Caserta, brucia con la pistola il cranio ad un garzone della bettola che gli
aveva chiesto tre grani, prezzo dell’acquavite che gli aveva dato; uccisero due
oneste fanciulle a S. Giovanni, dopo averle stuprate;” ecc.
I morti furono tanti: questa è stata la libertà garibaldina, quella piemontese sarà
ancora peggio.
Vediamo adesso i primi atti di Garibaldi.
Il giorno del suo arrivo a Napoli, in treno, il 7 settembre, di sera, promulgò un decreto
con il quale cedeva generosamente al re Vittorio Emanuele l’intera flotta napoletana,
che passò sotto l’ammiraglio Persano il quale vedendosi al comando di tante navi
militari e mercantili, né ordinò il trasferimento in Sardegna volendo mettere al sicuro
le più importanti prede belliche. E poi ci chiamiamo “fratelli d’Italia”? Ma, gli
equipaggi abbandonarono in massa le navi ed allora il Persano promise un ingaggio
di venti ducati per un anno e vitto a bordo ma solo in pochi si presentarono.
Garibaldi il giorno 10 invitò una batteria di militari piemontesi e un battaglione di
bersaglieri, all’ancora nel porto, di scendere a terra ed a presidiare la città. Alcuni
allievi del collegio militare fuggirono per recarsi a Gaeta dove furono accolti e
promossi alfieri; il colonnello De Liguoro col 9° di linea seppe tenere unita la sua
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truppa e attraversò le vie di Napoli a bandiera spiegata e tamburi battenti, dirigendosi
in perfetto ordine alla volta di Capua; lo stesso fecero otto compagnie del 6° di linea
che agli ordini del ten.col. Perrone lasciarono i forti e partirono per il Volturno; il
reggimento di marina, che era all’arsenale, si ammutinò e si disciolse, non pochi
ufficiali e gregari partirono per Gaeta. Il maggiore Livrea con 145 soldati non volle
cedere il forte di Baia e resistette impavido ad ogni pressione. Questa lealtà
dell’esercito borbonico, molto forte fra i soldati, mandò a vuoto i calcoli di Garibaldi
e di Cavour che speravano in una rivoluzione del popolo napoletano a loro favore.
Vi dirò ora alcuni atti governativi per le province napoletane, firmati da Garibaldi,
che testimoniano con quale spirito da conquistatori, da predoni, iniziarono i
garibaldini prima e i piemontesi dopo a saccheggiare e a distruggere l’economia del
Sud: e tutto in nome dei fratelli d’Italia…….
Il 9 settembre decreta che tutti gli atti della Pubblica Autorità e dell’amministrazione
vengano emanati in nome di sua maestà Vittorio Emanuele II.
Il 14 settembre decreta che lo statuto albertino sia esteso al Regno delle due Sicilie e,
nello stesso decreto, dichiara disertori, con tutte le conseguenze che ne possono
derivare, i militari borbonici, specializzati nell’arte dei trasporti, che non aderiscono
alla causa garibaldina. Bell’esempio di libertà!!!
Il 17 settembre elogia i militari ungheresi distintisi in alcune azioni di guerra contro
le truppe borboniche e li decora al valor militare.
Apriamo una parentesi a questi decreti per vedere nel frattempo cosa succede (dal
libro di Stato Maggior dell’Esercito e dagli scritti di Angelo Mangone):
“Sin dal giorno 14 (settembre 1860) i garibaldini si fecero vivi a Capua, ma si
accorsero subito che tutto era cambiato in quella strana guerra che li aveva visti
spesso prevalere in maniera inspiegabile, come aiutati da una potenza invisibile ed
inarrestabile. La resistenza dei fanti del 9° Puglia ed il tiro preciso delle artglierie
fecero retrocedere in disordine le camicie rosse, pari esito ebbero i tentativi del 16 a
Capua e sul Volturno, alla scafa di Gradillo, e così un ennesimo attacco agli
avamposti di Capua il 17 settembre; le perdite degli attaccanti furono notevoli, molto
superiori a quelle dei napoletani. Ma Garibaldi sicuro di proseguire la serie degli
incredibili successi di Sicilia e di Calabria (ottenuti solo con la corruzione ) decise
un’azione offensiva violenta e su più punti del fronte, diede disposizione al Sirtori, ed
il giorno 16, sicuro del successo, se ne andò in Sicilia.
Il Sirtori articolò l’azione, fissata per il 19 settembre, su un deciso attacco frontale a
Capua, coordinato con un’azione del Sacchi da San Leucio verso il Volturno a Nord
della piazza, con una puntata a Caiazzo per avvolgere le posizioni avversarie ed
infine su di un raid in profondità, con l’ungherese Csudàfy,nelle retrovie avversarie,
per tagliare le comunicazioni fra Capua e Gaeta.
Le batterie sugli spalti di Capua e quelle esterne, al comando del col. Matteo Negri,
iniziano a fulminare i garibaldini: molti cadono e altri, in preda al terrore, si
disorientano e si rifugiano nella cappella di San Lazzaro e nei fabbricati della
stazione ferroviaria; allora escono dalla fortezza i Fanti, i Cacciatori e Lancieri con
a comando il maresciallo settantacinquenne Cesare Rosaroll e respingono i
garibaldini per 3 Km. fino alla fattoria Virilasci. Garibaldi manda avanti la brigata
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Puppi che però è travolta ed il comandante Puppi viene preso prigioniero. Alle 11,30
le trombe di Rostow suonano la ritirata dei garibaldini che lasciano sul campo 354
morti. Anche per il Sacchi le cose non andarono bene, il suo assalto si era infranto al
Gradillo e mentre si ritiravano nuclei di Cacciatori fecero oltre cento prigionieri.
Alle 2 p.m. il Rustow ci ritenta e arriva nella spianata di Capua ma il tiro dei
cannoni della fortezza fa sì che si ritirano nuovamente. Alla fine i garibaldini
contano circa 600 morti e 400 prigionieri. Frattanto l’ungherese Csudàfy con 300
uomini aveva superato il Volturno ma vistosi attaccato da tutti compreso i contadini
si ritirò ripassando il Volturno e lasciando sul terreno 100 uomini”.
Il 21 settembre ci fu la battaglia di Caiazzo, descritta magistralmente da Antonio
Sacchi nel libro “Napoli borbonica” , con un’altra vittoria altosonante dei borbonici.
Erano state catturate due bandiere al nemico e “ Bravo Totonno, si sente dire sul
campo. Ed il sergente Antonio Santacroce del 6° cacciatori è contento: era stato uno
dei protagonisti della battaglia, aveva conquistato una delle due bandiere. Ma al suo
tenente mormorò : - meglio si acchiappavo Caribaldo!-. Caiazzo era dei borbonici.
Condotti al fuoco una seconda volta con decisione, spronati dalla presenza del
generale in capo Della Rocca e dei fratelli del re, si erano lanciati nella mischia
senza timore. Dando la dimostrazione di quel che avrebbero potuto fare a Palermo
se fossero stati guidati con altrettanta decisione. In quel 21 settembre avevano i
soldati borbonici dimostrato di “saperci fare”, vincendo. L’onore è salvo!”
Come si vede,dopo l’ingresso a Napoli i garibaldini ebbero una dura sconfitta il 19
settembre a Capua che li fece indietreggiare di 3 Km. lasciando sul campo oltre 600
morti e dopo due giorni a Caiazzo. I borbonici erano spronati dai fratelli del Re e
avrebbero annientato i garibaldini nonostante l’aggiunta di migliaia di soldati
provenienti da tutti i paesi europei, comprati da Cavour. Questo dimostra sempre di
più che senza i traditori mai i Piemontesi potevano raggiungere Napoli.
Il 25 settembre Garibaldi autorizza l’arruolamento di Ungheresi per la causa italiana,
tanto è che questi militari, più feroci degli altri, sorpresero 28 giovani insieme a
Montemilone, li presero e 19 li uccisero tagliuzzandoli, 2 li fecero prigionieri per
fucilarli a Venosa mentre altri 7 riuscirono a fuggire e…divennero briganti.
L’8 ottobre decreta la soppressione delle rappresentanze diplomatiche del Regno
delle due Sicilie pregando il governo di S.M.Vittorio Emanuele a rappresentare gli
interessi di quel regno.
L’11 ottobre inizia la colonizzazione vera e propria infatti Garibaldi concesse ad una
società livornese l’appalto di tutte le strade ferrate meridionali.
Nello stesso giorno, con un decreto, concesse la pensione ad alcuni personaggi poco
raccomandabili che avevano sposato la causa garibaldina e la concesse anche ai
familiari di Agesilao Milano che aveva attentato alla vita di Ferdinando II; inoltre
concesse l’indennizzo alla società di navigazione Rubattino per la perdita dei battelli
impiegati nella spedizione dei Mille e nella spedizione di Carlo Pisacane (tutto questo
prelevando i soldi dalle casse napoletane).
Uno degli episodi più infamanti è quello che vide i piemontesi allearsi con i
camorristi, sempre combattuti dai Borboni. Essi se ne servirono e la persona più
infamante fu Liborio Romano, ultimo ministro dell’interno e di polizia di Francesco
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II. Il Romano si alleò con la mafia e la camorra per preparare il terreno ai piemontesi.
A questo punto la camorra, alleata di Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele,
comincia una lunga serie di assassinii impuniti, di rapine premiate, di immoralità e
irreligione lodate e pagate. Liborio Romano ordinò ai suoi soldati di non usare le armi
e permise che camorristi e puttane con coltelli, pistole e fucili corressero per le vie
gridando “Italia! Vittorio! Garibaldi! Cavour!”. Tutto l’operato di Liborio Romano è
stato infamante ed attualmente c’è ancora qualche via, in alcuni paesi del Sud,
intestata a lui.
Voglio ancora ricordare il grande traditore Franceso Landi che tradì per la cospicua
somma di 14.000 ducati che non ebbe mai, infatti quando nel marzo del 1861 andò a
cambiare la polizza al Banco di Napoli, e gli impiegati gli dissero che era falsa ed
alterata e, dopo che fu costretto a confessare di averla avuta da Garibaldi, per dolore
fu colto da un colpo apoplettico.
E Torino, fortemente indebitata con un solo uomo ricco, Cavour, che aveva
guadagnato tanto dalla vendita di Nizza e della Savoia, non avendo più nulla da
mangiare, venne a mangiare Napoli.
Il 9 ottobre Vittorio Emanuele passava il Tronto con 20.000 soldati regolari che
venivano ad unirsi ai 25.000 volontari, mentre altri 5.000 regolari andavano a Napoli
via mare. Cavour ed i suoi lecchini continuavano a corrompere i generali duosiciliani
ed a mostrarsi generosi con la camorra. Invasero così il Regno delle due Sicilie
costringendo Francesco II ad asserragliarsi nella fortezza di Gaeta dove i soldati
napoletani, senza i capi traditori, scrissero una fulgida pagina di gloria riscattando le
infamie ed i tradimenti di cui si erano macchiati i loro superiori. Qui si distinse anche
l’affascinante e giovanissima regina Maria Sofia di Baviera, sorella della famosa
Sissi, che volle condividere fino all’ultimo il destino della bandiera del Regno delle
due Sicilie.
Molti borbonici, specialmente i soldati, dopo l’ingresso di Garibaldi a Napoli,
cercarono di organizzarsi poiché il Piemonte aveva clamorosamente violato il diritto
internazionale. La cattiveria del regno sabaudo, che prometteva lacrime e sangue, lo
si nota dai vari dispacci arrivati finalmente a noi; come quello del generale
piemontese Enrico Cialdini, il più spietato, che il 20 ottobre, prima del referendum,
scrisse al governatore di Campobasso “ Faccia pubblicare che fucilo tutti i paesani
armati, che piglio e dò quartiere soltanto alle truppe. Oggi ho incominciato” e al
generale borbonico Giosuè Ritucci inviava il seguente messaggio: “ Laddove fosse
torto un solo capello ai garibaldini, si useranno rappresaglie sul generale Scotti e
sugli altri prigionieri presi al reale esercito”. Intanto il Ciardini invitava il generale
Salzano ad un colloquio che si svolse alla Taverna Catena, presso Caianiello il 26
ottobre. Tentò di convincere il Salzano di passare con le sue truppe ai Savoia, di
tradire insomma. La risposta del Salzano fu negativa ma, mentre si svolgeva questo
colloquio, il drappello napoletano di scorta venne fatto prigioniero da un reparto di
cavalleria garibaldina e, nonostante le proteste del Salzano, non fu rilasciato. Questi
erano i militari piemontesi. Che vergogna! Facevano prigionieri le scorte di ufficiali
nemici che essi stessi avevano invitato per parlamentare.
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L’1 e il 2 ottobre abbiamo la famosa battaglia del Volturno dove Garibaldi perse
6000 uomini mentre i napoletani 206 morti e 860 feriti. Dopo questa battaglia i
piemontesi erano sicuri che i napoletani, tornando a Napoli, avrebbero riconquistato
facilmente la città avendo l’esercito garibaldino assoldato perso la fiducia ed il
coraggio.Tanto è che il colonnello piemontese Santarosa, in un’intervista, il 6
novembre 1860, si meravigliava del perché la sera del 1° ottobre la truppa napoletana
non aveva marciato verso Napoli aggiungendo : “Non avrebbe trovato alcuna
opposizione poiché l’esercito garibaldino era interamente sperperato a causa delle
immense perdite che aveva sofferto, le quali finirono collo scuotere il coraggio dei
superstiti; ed io avevo già principiato l’imbarco del mio reggimento, arrivato in
Napoli per la via di mare, per ultimarlo appena avrei saputo l’approssimarsi della
truppa napoletana. Nessuno sperava il regalo che ci hanno fatto, ve ne siete restati
inoperosi, al di là del Volturno, dopo l’azione di quel giorno”
Ma a Napoli c’erano molti traditori che aspettavano il re Vittorio Emanuele che, con
oltre 50000 uomini, la maggior parte proveniente dall’estero e pagata
profumatamente, stava per attraversare l’Italia . Intanto Francesco II a Gaeta disse:
“Ero e sono solo a lottare con tutte le forze della rivoluzione europea. Questa
rivoluzione si è presentata con un potere che non le si era mai conosciuto. La causa
che io difendo a Napoli non è solamente la mia causa, è la causa di tutti i sovrani e di
tutti gli Stati indipendenti”.
Il 21 ottobre ci fu il famoso plebiscito che sancì definitivamente la fine della secolare
indipendenza del Regno delle due Sicilie. Nel 1707, anno in cui ci fu l’unione del Sud
e del Nord dell’Inghilterra, l’unità della Gran Bretagna risultò perfetta: non ci furono
morti, non ci furono invasioni ma tutti ne discussero sedendosi attorno ad un tavolo
rotondo. Questo non accadde in Italia. Il Sud fu invaso e l’unità d’Italia ottenuta,
manu militari, è da condannare ed ancora di più è da condannare l’ipocrisia, la falsità
adoperata in seguito, fino ai nostri giorni, per sminuire agli occhi del mondo e
cancellare nella memoria delle generazioni future, il valore ed i principi per cui si
batterono quei valorosi soldati duosiciliani pur trovandosi traditi dai loro superiori.
A parte tutto si volle il plebiscito per salvare le apparenze davanti all’opinione
pubblica mondiale.
Vediamo adesso quale era la situazione generale il 21 ottobre:
1. Il governo borbonico era ancora riconosciuto ufficialmente dalla maggior parte
degli stati di allora.
2. Le forze armate piemontesi avevano invaso il territorio del Regno delle due Sicilie
sin dal 12 ottobre.
3. Vittorio Emanuele II il 9 ottobre aveva lanciato il famoso proclama ai meridionali
(lo vedremo un altro giorno)
4. Garibaldi, proclamatosi dittatore delle due Sicilie con decreto del 15 ottobre 1860,
aveva dichiarato che il Regno delle due Sicilie era annesso ufficialmente e parte
integrante del territorio di S.M. Vittorio Emanuele II.
5. I camorristi spadroneggiavano in tutto il territorio con tacito consenso delle forze
di occupazione garibaldine.
6. Le carceri duosiciliane erano stracolme di oppositori politici al nuovo regime.
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7. A Napoli, prima della votazione, furono affissi manifesti che dichiaravano nemico
della patria chi avesse dato il voto contrario.
Il suffragio era universale cioè dovevavo votare solo coloro che avevano la
cittadinanza del Regno delle due Sicilie. In ogni seggio furono poste due urne
separate: una per il Si ed una per il No. Il voto quindi era palese,in disprezzo dei più
elementari principi di democrazia. L’elettore presentava il certificato elettorale e,
davanti agli occhi di tutti, ritirava, a sua discrezione, la scheda per il Si o quella per il
No.
Il primo a votare fu Garibaldi, che non ne aveva alcun diritto, e dietro di lui tutti i
garibaldini compresi gli stranieri che vestivano quella uniforme.
Visto la scarsissima affluenza elettorale, che non presagiva nulla di buono, il trio
Cavour, Garibaldi e V.E. invogliarono a fare abusi e brogli di ogni genere. Dopo le
prime ore, non ci fu più controllo né di certificati elettorali, né delle persone tanto è
che alcuni garibaldini, pur non avendone diritto, votarono in vari seggi ed anche in
città diverse. Come ad esempio a Caserta, lo Stato maggiore dei garibaldini, formato
da 51 ufficiali e presenti il 21 ottobre solo in 18, diedero alla fine 167 voti.
Nei paesi i contadini furono convinti ad andare a votare dicendo loro che solo
votando Si Francesco II sarebbe ritornato a Napoli.
Nei paesi dove non erano presenti le truppe di occupazione non si votò.
A Barra ed in altre zone, chi chiedeva la scheda del No, veniva accoltellato dai
camorristi e furono pochi quelli che si salvarono venendo cacciati dai seggi.
In molti paesi non si potè votare perché la popolazione si ribellò come a Caramanico,
nel Chietino, a Cinquefronti, a Maropati, a Giffone, a S.Marco in Lamis, a Carbonara
ecc.
Ci furono degli osservatori portati dai Piemontesi come l’ambasciatore inglese a
Napoli, sir Henry Elliot, che così scriveva al suo governo: “I risultati delle votazioni
in Napoli e Sicilia rappresentano appena i diciannove tra cento votanti designati e ciò
ad onta di tutti gli artifizi e violenze usate”
Alcuni giorni dopo per i Piemontesi risultò che aveva votato il 40% degli aventi
diritto con il seguente risultato: Sulla terraferma 1.302.064 Si e 10312 No; in Sicilia
432.053 Si e 667 No.
In questo modo venne formalizzata ufficialmente la fine del Regno delle due Sicilie e
fu detto che era per volontà popolare.
Il 26 ottobre, dopo la farsa del plebiscito,Cavour soppresse i sussidi previsti da
governo borbonico a favore degli studenti meritevoli e bisognosi. Continua la
colonizzazione piemontese.
Poi ci fu l’assedio di Gaeta, dove si era rifugiato Francesco II, che durò dal 9
novembre 1860 al 13 febbraio 1861, giorno in cui ebbe inizio la cosiddetta questione
meridionale.
Francesco II e Sofia, dopo la resa della fortezza di Gaeta, si rifugiarono nello Stato
Vaticano ospiti di Pio IX e rimasero al Quirinale fino al 20 settembre 1870 (breccia di
Porta Pia). Da qui partirono e andarono in giro per l’Europa, sempre ospiti di parenti
perché non avevano risorse finanziarie. Francesco II morì il 27 dicembre 1894 ad
Arco di Trento, territorio austriaco mentre Sofia il 18 gennaio 1925 a Monaco di
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Baviera e le loro salme solo nel 1984 trovarono riposo a Napoli nella Basilica di
Santa Chiara.
Il 13 febbraio 1861 inizia il periodo più buio della gloriosa millenaria storia del Sud
d’Italia e, come dicevo, nasce la famosa questione meridionale, tuttora irrisolta, e si
sviluppa l’emigrazione, parola fino allora sconosciuta alle genti del Sud d’Italia.
Leggiamo adesso la lettera che il ministro della guerra, Salvatore Pannell, nominato il
15 luglio 1860, altro grande traditore, scrisse agli inizi di marzo 1861 a Cavour. E’ un
documento eloquentissimo della miseria morale di molti napoletani. Questo Pannell
era detto il “terrorista” per la sua usanza di far percuotere i soldati; da 50 a 100
legnate sul tergo a seconda della mancanza. Egli sapeva di essersi comportato da
traditore ma non sopportava di sentirselo dire. E, pur essendo passato al servizio del
nemico di quel re , che lo aveva scelto come ministro della guerra, pretendeva che il
suo comportamento fosse considerato candido e immacolato. Infatti egli aveva
recitato la scenata della fedeltà incondizionata mentre la forma del suo tradimento
era mascherata ed era la peggiore perché ipocrita, subdola, ammantata di
un’apparente fedeltà al re. Ed ecco un episodio significativo. Il generale Bartolo
Marra, comandante la brigata di stanza a Reggio Calabria, alla fine di luglio del 1860,
sapendo dell’arrivo dei garibaldini, scrve a Pianell il seguente telegramma: “Vedendo
compromesso il mio onore, se più rimanessi al comando di questa brigata, la interesso
spedire chi deve rimpiazzarmi, se non vuole che passi la firma al colonnello più
anziano. Nessuna delle fattemi promesse è stata attuata. Mancano le istruzioni sul da
farsi; i Commissari di Guerra; gli ufficiali dello Stato Maggiore; manca il denaro pel
Genio e l’Artiglieria; il pane dei soldati; il vestiario; la gente adatta a far fronte al
servizio che si presta, ed in più “manca la buona fede”, onde mi decido al passo di
chiedere l’esonerazione di un sì lusinghiero comando!”. Il generale Marra fu
richiamato a Napoli e messo agli arresti di rigore nel Forte di Sant’Elmo.Il 4 agosto il
Pianell chiese al re Francesco una licenza di sei mesi. Ci sono ancora tante cose da
dire ma vediamo la lettera che lo stesso Pianell scrisse a Cavour:
Io qui sottoscritto Giuseppe Salvatore Pianell espongo alla E.V. quanto appresso.
Nato a Palermo ai 9 novembre 1818, fin dall’età di nove anni nominato Capitano di
Fanteria. Ammesso nel Regio Collegio militare della Nunziatella, vi compii l’intero
corso di studi e ne uscii dopo aver dato l’esame di concorso finale. Allora intrapresi
il mio regolare servizio nell’arma di Fanteria………(continua a scivere tante cose) .
Dopo gli ultimi avvenimenti in Sicilia , il 14 luglio il re Francesco II mi nominò
Ministro della Guerra e vi rimasi fino al 1° settembre quando ebbi un permesso di sei
mesi che sono spirati il 1° marzo corrente. Come militare e come ministro ho sempre
sostenuto l’ordine legale, ed adempiuto fedelmente ai miei doveri. Appartiene ormai
alla storia di spiegare per quali ragioni la Dinastia borbonica sia decaduta, e
l’Esercito napoletano si sia sciolto. A me basta dichiarare a V.E. che, dal canto mio,
nella sfera limitata delle mie attribuzioni, feci ognora il possibile per sostenere la
prima, e spingere il secondo nelle vie dell’onore, sino al punto in cui la forza fatale
degli avvenimenti mi costrinse ad allontanarmi dal regno. Ora però che la Dinastia
borbonica è caduta, l’Esercito napoletano più non esiste, e il Regno di Napoli ha
deciso circa le sue sorti, e con solenne plebiscito ha dichiarato la sua annessione al
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Piemonte, io mi considero sciolto da ogni antico vincolo,e libero di servire la mia
patria nell’ordine legale recentemente proclamato e riconosciuto.
In conseguenza di che,intendo con la presente fare atto di piena adesione al Governo
di S.M. il re Vittorio Emanuele ed impetro dall’E.V.,a titolo di militare probo e leale,
che per garantia del suo avvenire, si appella ad un passato onorevole, in cui non ha
mai declinato lo scrupoloso adempimento d’ogni suo dovere, di essere ammesso
nell’esercito italiano.
Tanto oso domandare, e spero di ottenere in forza del Decreto del 6 novembre 1860,
e perché V.E. possa giudicare di quanto mi concerne: Le rassegno qui annesso il mio
stato di servizio:
Generale Pianell
(dalla memorie scritte da Eleonora Pianell)
A questo punto volevo fermarmi ma è giusto che ci rendiamo conto del tradimento di
Liborio Romano, ministro dell’interno del governo del Regno delle due Sicilie, che,
dopo la partenza dei mille, s’era venduto a Cavour, dopo un incontro avuto con lui a
Torino (N.B. Cavour non ha mai visto Napoli!). Liborio Romano, personaggio
ambiguo e losco, principe dei voltagabbana, messo da parte dagli stessi uomini del
risorgimento, diviene il perno principale della scomparsa del Regno delle due Sicilie.
Infatti il 27 e 28 giugno a Napoli si verificano dei tumulti di estrema gravità e don
Liborio, anche Prefetto di Polizia, riuscì a sedarli con l’esercito borbonico ma subito
sostituì la polizia borbonica con malavitosi promossi “servitori dello stato preposti al
mantenimento dell’ordine pubblico” aprendo le porte della guardia cittadina a
camorristi ed a loschi figuri senza scrupoli. Così l’ordine pubblico passa in gestione
alla malavita e viene “garantito” da bande armate formate da uomini abituati a far
camorra. Senza continuare le varie vicende, ecco la lettera scritta il 20 agosto 1860 al
re Francesco II:
“Sire,
Le circostanze straordinarie nelle quali si trova il paese, la situazione estremamente
grave, fatta tale dai segreti disegni della Provvidenza, sia pei rapporti all’estero, che
nell’interno, impongono a noi in faccia di V.M. i più santi e i più gravi doveri; i quali
ci comandano di indirizzarvi libere e rispettose parole, quale solenne attestato della
devozione nostra ed alla causa del trono e del paese. Noi dichiariamo la situazione
estremamente grave. Eccone le prove:
Per concorso di cause deplorabili, su cui noi preferiamo tirare un velo, la dinastia
gloriosa fondata dal magnanimo Carlo III, si continuò per 126 anni fino alla M.V. il
cui cuore è asili dei più bei fiori di morali e religiose virtù. Or questa stessa dinastia
oggi la vediamo condotta da una fatalità dei tempi e dalla malvagità degli uomini a
tale punto, che ormai rende non solo difficile, ma impossibile ogni ritorno, ogni
scambio di fiducia tra popolo e principe. Noi ci limitiamo a costatare un fatto sociale
il cui giudizio appartiene alla storia ed alla posterità. Ma perché vi siamo, ecco ciò
che noi stimiamo dover nostro di proporre e consigliare a Vostra Maestà.
Che V.M. si allontani per qualche tempo dalla terra e dal palazzo de’ suoi Avi. Che
V.M. investa d’una Reggenza temporanea un Ministro che ispiri tutta la fiducia (N.B.
egli era ministro dell’interno). Noi siamo costretti a riconoscerne l’esistenza, e non
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sarebbe possibile a noi ministri della Corona, né ad altri modificare o cambiare il
pubblico sentimento. A noi non resta che la necessità dolorosa di rivelerlo a V.M. in
termini franchi e mesti.
Potremo noi non tener alcun conto di quella espressione universale di pubblica
sfiducia che nella nostra società trabocca da tutt’i pori e che disgraziatamente
s’infiltra nelle masse, e quel che più grave, si è, in una parte dell’armata di terra e di
mare, in ciò che fu e sarà per sempre la guarentigia dei troni e dell’ordine. Noi
siamo fermamente convinti, Sire, che non è in poter nostro né di modificare né di
disprezzare il pubblico sentimento, ed infatti ne’ tempi che corrono, la forza brutale
deve rimanere nulla, inefficace, se l’opinione pubblica non la fiancheggia, e non la
corrobora. Ma non è tutto. Agl’inestricabili imbarazzi del di dentro si aggiunge la
gravità delle circostanze del di fuori. Noi ci troviamo a fronte dell’Italia che si è
gettata nelle vie della rivoluzione, con lo stendardo di Savoia in pugno, vale a dire
appoggiata di cuore e di braccio da un governo assai più ordinato e rappresentato
dalla più antica dinastia italiana. Ecco i pericoli, ecco la minaccia che fatalmente
pesano sul governo di V.M.
D’altra parte il Piemonte non cammina più isolato e senz’appoggio. Le due grandi
potenze occidentali, cioè la Francia ed Inghilterra, stendono la mano, benchè con
vario scopo, protettrice sul Piemonte. Garibaldi non è evidentemente che lo
strumento di questa politica oggi fatta potentissima.
Stabilite queste condizioni, esaminiamo qual via possa condurre a salvamento
l’onore, la dignità, e lo avvenire della Augusta Dinastia che la M.V. rappresenta.
Ammettiamo l’ipotesi delle resistenza ad oltranza. Noi confesseremo in primo luogo
a V.M. che gli elementi di resistenza indeboliti, vacillanti, dubbii ci paiono. Che può
contare ora il governo sulla reale marina, e dirlo dobbiamo francamente, e piena di
dissoluzione? Una fiducia maggiore non si potrà riporre nell’esercito. Esso ogni
legame di disciplina e gerarchia ha infranto. Quale dei capi dell’esercito
assumerebbe la responsabilità? E questo nocciolo di soldati stranieri niuna fiducia
può ispirare più dell’armata della nazione. Quello agglomeramento di uomini
armati, spogli di ogni sentimento di militare onore, veruno attaccamento alla M.V.
non farebbe che provocare i sospetti dei soldati del paese, degli onesti cittadini, e
sarebbe una minaccia che nulla assicurerebbe.
Chi adunque fra i consiglieri probi della corona ardirebbe approvare la resistenza e
la lotta senz’altro appoggio che questi sì deboli ed incerti elementi? La lotta, è vero,
farebbe scorrere a fiumi il sangue.
Ammettiamo pure una vittoria momentanea dell’esercito, e del governo. Questa
vittoria, o Sire, sarebbe una di quelle vittorie malaugurate, peggiore di mille disfatte,
vittoria acquistata a prezzo di sangue, di uccisioni e di rovine; vittoria che
solleverebbe la coscienza universale in Europa, che farebbe gioire tutti i nemici della
Vostra augusta dinastia, e che forse aprirebbe un abisso tra essa ed i popoli affidati
dalla Provvidenza al vostro cuore paterno. Ma dopo aver rigettato, secondo che ci
ispira l’onestà della coscienza, il partito della resistenza, del conflitto e della guerra
civile, quale sarà il partito saggio, onesto, umano e degno del discendente di Enrico?
(N.B. Francesco II infatti discende da Enrico IV, re di Francia dal 1589 al 1610, figlio
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di Antonio di Borbone, che, diviene capo della Casa di Borbone nel 1562 a seguito
della morte del padre n.d.r.)
Ecco il solo che noi stimiamo essere nostro dovere di proporre e di consigliare a
V.M. Che V.M. si allontani per qualche tempo dalla terra e dal palazzo dei suoi avi.
Che V.M. investa d’una reggenza temporanea un ministero che ispiri tutta la fiducia,
ed onesto.
Che V.M. ponga a capo di questo ministero non un principe della famiglia reale, la
cui presenza per motivi che non vogliamo ricercare oltre, impedirebbe il
ristabilimento della fiducia pubblica, né sarebbe guarentigia sicura degli interessi
dinastici, ma bensì, un nome conosciuto da tutti, un nome onorato, meritante la
pubblica fiducia, e quella di V.M.
Che V.M. allontanandosi dal suo popolo gli diriga franche e magnanime parole, le
quali attestano il suo paterno cuore, e la risoluzione generosa di risparmiare al
paese gli orrori della guerra civile. Chè V.M. invochi a giudice l’Europa, ed attenda
dal tempo e dalla giustizia di Dio il ritorno della fiducia, ed il trionfo dei suoi diritti
legittimi. Ecco ,o Sire, il partito che noi dobbiamo e possiamo consigliare a V.M. con
la franchezza di una coscienza onesta.
Noi abbiamo fiducia che V.M. non isdegnerà consigli rispettosi e sinceri, tendenti a
garantire l’onore e la dignità della dinastia in pari tempo e l’ordine pubblico
pericolante. Che se per isventura V.M. nella sua alta saggezza non istimasse di
dovere accoglierli, a noi non rimarrebbe altro partito a prendere che rassegnare le
funzioni elevate di cui ci onorò V.M. riconoscendo che noi non godiamo della
sovrana fiducia.
Napoli, 20 agosto 1860
Liborio Romano
Francesco II , giovane e senza esperienza, ascoltando il consiglio dal traditore dei
traditori, Liborio Romano,ministro dell’Interno e della Polizia, e colluso con la
malavita, lasciò Napoli lasciando nella reggia tutti i suoi tesori (quadri, ori, gioielli ed
altri beni) E la Pellicciari scrive: “Da chi è tradito Francesco II? Innanzi tutto dal re di
Sardegna, suo cugino, poi dal ministro dell’interno Liborio Romano che lo convince
a lasciare la capitale senza opporre resistenza.” Con la lettera che vi ho letto egli fa
appello al cuore di Francesco, al suo attaccamento alla città, all’amore per il suo
popolo e per la religione cattolica.
Ed ecco ,in breve, ma se serve tutta la porterò, la lettera di Liborio Romano a Cavour.
Onorevolissimo Signor Conte,
…… Io parlerò liberamente, francamente, e nel solo scopo di giovare, come so e
posso, la causa della patria, che è stata, è, e sarà sempre in cima dei miei pensieri.
Ella conosce assai meglio di me che nelle mutazioni di Stato a due cose bisogna sopra
tutto intendere:
1. Adoperare in modo che si ami il presente, e si abborrisca (ndr. nell’originale è
scritta con due b) il passato.
2. Garentire egualmente d’ogni forza bruta tanto i principi e gli interessi del passato
che cadono vinti dal progresso sociale, quanto quelli dell’avvenire, che deggiono
imperare in nome di un diritto novello
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I quali due fini possono solo raggiungere la mercè di una politica franca, leale,
fidente nella intelligenza della Nazione………….. Sotto i rispetti dinastici nulla
havvi a fare o a desiderare nelle provincie meridionali; perciocchè cordialmente esse
amano, come il migliore dei re, Vittorio Emanuele II e aborriscono il Borbone, come
il peggiore dei tiranni…………………. Ora quali le cause di codesto scontento nelle
meridionali province d’Italia? Io credo poterne segnalar dieci, che chiamerò le dieci
piaghe delle due Sicilie.
1. Diversità di caratteri ……………………………………………………………
2. Istituzione delle luogotenenze……………………………………………….
3. Modo di governare…………………………………………………………..
4. Importazioni delle leggi piemontesi nelle provincie meridionali………………
5. Scioglimento degli eserciti napoletano e meridionale non che della marina
napoletana………………………………………………………………..
6. Finanza “le condizioni della finanza napoletana sono bene infelici”……………
7. Opere pubbliche…………………………………………..
8. Guardia nazionale……………………………………………
9. Moralizzazione delle amministrazioni……………………………….
10.Personale governativo……………………………………………
N.B. Questo documento è stato pubblicato nel 1936 a Firenze.
Dobbiamo ancora ricordare altri decreti di Garibaldi emessi dopo poche settimane
dall’insediamento a Napoli e prima del referendum.
Assegnava alla camorra, sempre con decreto, un contributo di settentacinquemila
ducati da distribuire ai più disagiati e attribuiva una pensione vitalizia di dodici ducati
al mese (corrispondenti a 2700 degli attuali euro. N.B. gli economisti hanno valutato
che un ducato rispetto agli euro vale 225 cioè 1 ducato=225 euro) a Marianna De
Crescenzo, sorella del capo della camorra e a tutte le donne più in vista della rete
mafiosa.
Elargì, sempre con decreti, concessioni pubbliche come ricompensa ad amici e
sostenitori, a prescindere da effettive capacità e competenze ( oggi si nominano
ministri o si sfornano leggi).
Di Agostino Bertani dal cui nipote presi lo spunto per iniziare queste mie ricerche,
da poco ho saputo che come medico diventò un ufficiale di sanità a Genova facendo
visite per il modico compenso di un franco e trenta centesimi. Nel 1861 era
colonnello di stato maggiore e già la sua fortuna era valutata di quattordici milioni di
euro attuali dei quali solo di quattro milioni si conosce l’origine: era la mancia che
Bertani aveva preteso dal banchiere Adami per la concessione dell’appalto sulle
ferrovie.
Per ultimo, escono sempre cose nuove, vi dico che lo scrittore Alexandre Dumas
venne nominato responsabile di Pompei ed Ercolano e percepì una rimunerazione
enorme per sovrintendere a un progetto di scavi creato su misura per lui con decreto
del 12 settembre 1960. I costi del progetto finirono a carico del ministero della
Pubblica Istruzione e Dumas, con la sua amante adolescente Emile, prese dimora a
palazzo reale, dove trascorse un lungo gaudente soggiorno tra lussuose feste e lauti
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banchetti. Alla fine del suo impegno, al fianco dei mille, consegnò al governo
piemontese una nota spese di 83.690 lire già percepite ed un’ulteriore somma di
7.743. Sperperò tutto compreso gli ingenti stipendi che riceveva. Alla fine propose di
scrivere un libro sul malgoverno dei Borboni chiedendo un anticipo di quattromila
ducati. A questo punto una folla immensa si radunò sotto le sue finestre al grido
“fuori lo straniero!” E lo scrittore si lamentò per l’ingratitudine dimostrata dal
popolo.
Antonio Orazzo
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