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Menzione speciale
Menzione speciale Sezione saggi Tematica: Strategie di sopravvivenza di animali e piante Un enigma in atmosfera noir Gli artropodi sono animali molto diversi da noi e questo è il motivo per cui proviamo, nei loro confronti, paura, ribrezzo, e qualche volta orrore. E’ una faccenda che ha origini profonde nella nostra cultura, essendo la maggior parte di noi, fin da bambini, letteralmente addestrata a coltivare un’avversione pervicace nei confronti di ragni, insetti e rettili, con l’aggravante che molte informazioni non veritiere ricevute in giovane età si trasformano in persistenti e indelebili misconcetti pseudocientifici, difficilissimi da eradicare nell’età adulta. Non è un caso che i più terribili mostri della fantascienza abbiano spesso le sembianze di insetti. Per quanto possano volare le fantasie di romanzieri e sceneggiatori, il mostro di turno è quasi sempre un artropode (con l’opzionale aggiunta di tentacoli da piovra e viscidume schifoso, tanto per impressionare), che conserva sempre una vaga familiarità terrestre, una certa aria di casa. Per esempio il famosissimo Alien (dal film di Ridley Scott) mostra un capo con una strana mandibola estroflettibile in tutto e per tutto simile a quello delle larve di libellula. Micidiale, preciso, crudele e spietato né più né meno di una larva di Anax imperator. Senonché la natura umana è varia e imprevedibile e le nostre reazioni emotive verso gli invertebrati sono ampiamente mediate dalla cultura. Ogni volta che alla sera, coricato sul letto, vedo aggirarsi sul muro uno di quei centopiedi chiamati galere, oppure fortune, a seconda delle zone d’Italia (ma più correttamente denominati dagli anglosassoni house centipede, centopiedi delle case) mi ritrovo a pensare che se nessuno ci avesse inculcato, fin dalla più tenera infanzia, l’idea che si tratti di animali brutti, sporchi e cattivi (e, va da sé, pericolosi), forse l’umanità ci giocherebbe, come fa con le coccinelle, facendoli correre sulle braccia. Ma, allo stato attuale delle cose, nessuno è disposto a guardare con benevolenza alla innocua (per l’uomo, s’intende) Scutigera coleoptrata (classe Chilopodi), ospite abbastanza frequente di una certa tipologia di abitazione (case 1 vecchie, o di campagna, oppure case dove la pulizia maniacale di ogni anfratto non è all’ordine del giorno). La scutigera è troppo grossa, ha troppe zampe, è troppo veloce, troppo furtiva per riuscire simpatica a qualcuno. La vediamo uscire di notte da insospettabili nascondigli e correre rapidissima sui muri o lungo i bordi del pavimento, magari infilandosi dietro un armadio, o sotto un letto e sparire istantaneamente dalla nostra vista (dove sarà? Raggiungerà il nostro letto? Ci cadrà addosso dal soffitto? Ci morderà nel sonno?). Il suo regno incontrastato è la cantina, il ripostiglio umido, il solaio, capitando rarissimamente di sorprenderla al di fuori delle abitazioni umane. Se abbiamo la ventura di osservarla un po’ da vicino possiamo notare i piccoli occhi scuri, che sembrano presagire propositi malvagi. Troppo diversa anche dagli insetti per riscuotere un minimo di comprensione. Basta fare una breve ricerca in rete su quel che si dice circa il centopiedi delle case, per rendersi conto della carica di odio popolare che questo animale si è attirato. Soprattutto negli Stati Uniti, dove Scutigera è stata probabilmente importata accidentalmente (l’area di origine è quella mediterranea), la presenza di questo artropode all’interno delle abitazioni è vista come un’autentica calamità. Lo voglio ammettere: anche il sottoscritto, che dovrebbe avere sentimenti perlomeno neutrali (non fosse altro che per un’ottica professionale) non è stato esente da questa diffidenza. Tutte le volte che ho potuto, ho defenestrato senza tanti complimenti le intruse, catturandole in un barattolo (e anche in questo frangente emerge il loro carattere demoniaco: non si rassegnano neanche un po’ a quella momentanea prigionia, tentando in ogni modo la fuga da vere esperte di evasione). Per molto tempo, oltre al desiderio di levarmele dai piedi, non ho provato altro interesse nei loro confronti, nessuna simpatia, nessuna complicità. Tra me e la scutigera sembrava delinearsi un futuro di incomprensione e di indifferenza, se non proprio di ostilità. Eppure, come certi amori possono nascere improvvisamente e farci guardare il mondo da altra angolazione, mi sono sorpreso, steso sul letto, a osservare a lungo le mosse di una di queste bestie. Una vecchia conoscenza della mia stanza: un esemplare di dimensioni ragguardevoli, di certo con diversi anni di vita sulle spalle, probabilmente la madre di tutte le scutigere (almeno di quelle presenti in casa mia). Mi chiedevo se avessero 2 un residuo di libero arbitrio, una qualche forma embrionale di libertà. Che cosa la spinge a girovagare per la stanza, a decidere da quale parte muoversi? Da quali sensi o stimoli è guidata? Come fa a trovare le sue prede? A un certo punto l’idea folgorante: non si capisce qual è il davanti e quale il dietro. Una cosa alla quale non avevo mai pensato. In effetti, vista da una certa distanza, si fatica a riconoscere dove ha la testa e dove la parte posteriore. Quando un fatto ci incuriosisce e si prova a cercarne una spiegazione, è facile cadere in equivoci scientificamente poco dignitosi. Difatti, ho preso da subito a pensare a questa conformazione della scutigera (parte anteriore e posteriore poco distinguibili) come a un fenomeno mimetico: la parte posteriore del corpo del casalingo centopiedi, ho pensato, imita la parte anteriore in un clamoroso caso di automimetismo. In un accesso di mitomania, che considero un retaggio infantile (mai superato) della mia idea di scienziato, prefiguravo già il titolo della ricerca sulla copertina di Nature: Automimicry in house centipede. Come il Galilei della vulgata scopre i segreti del pendolo osservando un lampadario mentre oscilla dal soffitto di una chiesa, un biologo ci svela un mistero della natura osservando un centopiedi muoversi sul muro della propria stanza da letto. Figuriamoci. Dal mio comodo osservatorio iniziai a pensare a come lavorare al problema, seguendo il metodo di Fabre: anzitutto è necessario procurarci un esemplare vivo di Scutigera e, molto semplicemente, osservarlo. La prima cosa che si nota è il caratteristico assetto delle zampe, la cui lunghezza aumenta progressivamente dal primo paio all’ultimo, il quindicesimo, che è lunghissimo. Difatti, l’apparente simmetria antero-posteriore dell’animale è dovuta alla anomala lunghezza dell’ultimo paio di zampe le quali risultano essere addirittura più lunghe delle antenne poste sul capo. Perché le zampe non hanno tutte la stessa lunghezza? Il mio manuale di anatomia comparata degli invertebrati spiega che il progressivo allungamento delle zampe dal primo all’ultimo paio è una soluzione anatomica che permette alle zampe posteriori di non interferire con quelle anteriori durante la locomozione, muovendosi al loro esterno. Le zampe della Scutigera sono utensili multiuso. Ciascuna di loro è mossa da almeno trentaquattro muscoli separati (gli altri chilopodi ne hanno soltanto due) che conferiscono una 3 straordinaria potenza motoria. Sono dotate di spazzole per la pulizia, frequente e accurata, di occhi e antenne; i tarsi sono provvisti di una chela terminale. Inoltre, speciali setole garantiscono una potente presa sul substrato. Con quindici zampe motrici a grande presa, questi animaletti riescono con facilità ad arrampicarsi su superfici impossibili, come le pareti di un barattolo di plastica, purché dotato di qualche appiglio o rientranza. L’unica trappola mortale per una scutigera è la vasca da bagno con le pareti lisce e perfettamente pulite. Se la lunghezza differenziale delle zampe ha un significato nel conferire un’adeguata deambulazione e una corsa veloce, rimane però da spiegare il significato dello smisurato sviluppo delle ultime zampe. L’impressione è quella di un arto cresciuto fuori misura: fino alla quattordicesima zampa, gli arti si allungano con un incremento modesto ma costante (la differenza in lunghezza tra il primo e il penultimo paio è del 60%), mentre l’ultimo paio ha una lunghezza doppia rispetto al penultimo. L’allungamento delle zampe sembra dovuta, in larga misura, all’accrescimento dell’ultimo articolo, il tarso, che nel quindicesimo paio misura tre volte di più rispetto al precedente. Per quale motivo le zampe terminali sono così smisuratamente lunghe? Il manuale di anatomia degli invertebrati non dice nulla in proposito. Anziché prendere atto con il dovuto disappunto della clamorosa lacuna, la accolgo come un buon segno. Che si tratti di un enigma irrisolto, di un particolare incredibilmente sfuggito all’attenzione di zoologi ben più esperti di me? E ora passiamo all’osservazione decisiva. Osservando una scutigera di lato, si nota che, anche durante la deambulazione, il quindicesimo paio di zampe è tenuto sollevato, con la tibia ad angolo ottuso rispetto al lunghissimo tarso, che risulta in tal modo parallelo al piano di appoggio. L’arto è, con tutta evidenza, svincolato dalla funzione locomotoria. A che cosa serve allora, e perché si è sviluppato in questo modo? Forte di questa osservazione, che per un po’ di tempo ho avuto l’ardire di considerare originale, per settimane ho continuato ad accarezzare l’idea che il domestico centopiedi avesse imboccato la strada dell’inganno mimetico, simulando due finte antenne nella parte posteriore come strategia di difesa verso i predatori. I precedenti, in effetti, non mancherebbero. Per esempio, alcuni ragni salticidi che assomigliano a formiche (perciò detti 4 mirmecofili) accrescono l’effetto mimetico tenendo le zampe anteriori sollevate e muovendole a mo’ di antenne. La conoscenza scientifica però, non procede attraverso la ricerca di facili analogie, ma grazie alla progettazione di esperimenti. Occorre mettere alla prova le ipotesi, verificandole o falsificandole. In che modo si potrebbe, per esempio, sondare una simile idea (l’ultimo paio di zampe è stato trasformato in finte antenne a scopo diversivo) se non attraverso un esperimento? Jean Henri Fabre sosteneva, un po’ eccentricamente, che il lavoro del naturalista, per essere proficuo, deve ignorare il più possibile il lavoro altrui. Non me la sento di seguirlo su questa strada e faccio una ricerca del materiale disponibile in letteratura. Come c’era da aspettarsi, in un interessante lavoro di rewiew, si apprende che il problema è già stato affrontato. Nella Scutigera l'ultimo paio di zampe, diretto posteriormente, ha perduto la sua funzione locomotoria ma può servire a guisa di antenne posteriori le quali sono usate come vere e proprie sonde per monitorare l’ambiente circostante. Toccare o sfiorare l’ultimo paio di zampe provoca, infatti, una fuga velocissima dell’animale. Si tratta di un bell’esempio di artigianato evolutivo, ovvero l’arte di arrangiarsi creando uno strumento a partire da un altro cambiando semplicemente la sua funzione (un esempio di ciò che il biologo Stephen Jay Gould definì con un neologismo: exaptation). E’ noto che le zampe di Scutigera hanno un qualche ruolo nell’individuare le prede grazie alla presenza di specifici sensori: vi è quindi una funzione sensoriale che si somma a quella locomotoria. In una situazione di questo tipo risulta allora particolarmente facile trasformare evolutivamente un arto in un’antenna. Si tratta semplicemente di un cambiamento di uso o, meglio, della specializzazione di una struttura ottenuta attraverso il rafforzamento di una delle diverse funzioni già presenti (e alla contemporanea perdita delle altre). E’ ciò che probabilmente è accaduto al nostro centopiedi. La grande ombra di Charles Darwin aleggia sulla plasticità evolutiva delle appendici degli artropodi: il centopiedi Scutigera coleoptrata è uno dei tanti testimoni del bricolage dell’evoluzione. Se, anche dopo averlo conosciuto, non è proprio possibile amarlo, cerchiamo almeno di portargli il 5 rispetto biologico che merita, magari smettendo di considerare un sofisticato ed elegante predatore come un repellente intruso. 6