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aldo capitini, profeta della nonviolenza
ALDO CAPITINI, PROFETA DELLA NONVIOLENZA
di Andrea Coppi∗
La conflittualità del mondo contemporaneo, che nell’attuale fase storica
sembra ricevere ulteriore impulso dalla spirale di violenza innescata dal
binomio terrorismo-guerra, impone l’esigenza di approntare strumenti
adeguati non solo alla risoluzione dei conflitti, ma anche alla loro
prevenzione. Torna dunque d’attualità la nonviolenza come strategia
politica, che ha trovato in Aldo Capitini un deciso sostenitore. Il presente
contributo ripercorre le fasi salienti della sua esperienza, orientata alla
diffusione della dottrina nonviolenta in Italia, e ne evidenzia l’impegno
volto ad approfondire le questioni teoriche connesse al metodo nonviolento
e ad aggiornare le tecniche di lotta sperimentate da Gandhi. È un
messaggio di pace, che costituisce ancora un valido antidoto alla barbarie.
Introduzione
Aldo Capitini, pioniere della nonviolenza in Italia, può essere annoverato tra le figure più autorevoli nel
contesto del panorama nonviolento italiano ed europeo. La sua attività ed il metodo nonviolento, che
egli elabora nel corso della sua esperienza, non possono essere affrontati senza la descrizione del
modello di lotta ideato da Gandhi, al quale Capitini e tutti i fautori della nonviolenza si ispirano. È un
metodo che ha trovato applicazione nelle campagne di resistenza organizzate in India contro il dominio
britannico e prima ancora, in Sudafrica, dove Gandhi intraprese la lotta contro alcuni provvedimenti
discriminatori nei confronti degli immigrati indiani.
Il modello gandhiano
Il metodo di lotta elaborato da Gandhi deriva da un’attenta riflessione attorno al concetto di
nonviolenza. Il leader indiano, rifiutando l’accostamento tra nonviolenza e pura passività, distingue tre
situazioni riconducibili ad un approccio nonviolento: il primo, tipico del “codardo”, si risolve nella
rinuncia all’uso della forza per vigliaccheria o per motivi puramente egoistici; la “nonviolenza del
debole” è la posizione di coloro che rifiutano di esercitare la forza, non per calcolo, ma perché non
∗
Laureato in Scienze politiche, ha conseguito il Master in “Educazione alla pace: cooperazione
internazionale, diritti umani e politiche dell’Unione europea”, con una tesi su “Nonviolenza e
pacifismo: aspetti teorici e strategie di pace”. Attualmente è dottorando di ricerca in “Storia dell’Italia
contemporanea” e segretario di redazione della rivista “Rinnovare la scuola”. Collabora inoltre alle
attività del Ce.Co.Pax. - Centro di cooperazione per la pace, presso la Provincia di Roma.
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dispongono dei mezzi necessari per condurre una lotta violenta. In questo secondo caso Gandhi
include coloro che praticano la “resistenza passiva”, ma nel frattempo si armano e si organizzano in
prospettiva di adottare il metodo violento.
Da ultimo, la “nonviolenza del forte o del coraggioso” fa riferimento a coloro che, pur disponendo dei
requisiti necessari per fare uso della forza (coraggio, spirito di abnegazione, volontà di resistere ecc.),
tuttavia preferiscono lottare per una giusta causa rifiutandosi di ricorrere a tale metodo per ragioni di
ordine morale o in quanto ritengono di poter condurre la lotta in modo efficace con tecniche diverse.
Qui si innesta il discorso che Gandhi sviluppa sulla violenza ed il Satyagraha (termine coniato dallo
stesso Gandhi, traducibile approssimativamente con “Forza della verità”), un metodo che, in base alla
sintesi predisposta da Giuliano Pontara1, può essere articolato in 6 principi fondamentali. Il rifiuto che
egli oppone alla violenza non riguarda solo l’impiego della forza armata, ma comprende qualsiasi forma
di uccisione o di inflizione di sofferenze, fisiche o psichiche, per commissione o per omissione, contro
la volontà della vittima. Poiché, intesa in senso così lato, la violenza non è del tutto eliminabile dalla
nostra vita, la norma che soggiace alla dottrina gandhiana non è quella che prescrive di astenersi dalla
violenza, quanto piuttosto quella che prescrive di agire in modo tale che l’azione porti alla maggior
riduzione possibile della violenza a lungo termine e in tutte le sue forme nel mondo.
Questa conclusione implica che non si possa escludere a priori il ricorso alla violenza armata, sebbene lo
stesso Gandhi ritenga che esso, oltre che corrompere ogni fine buono perseguito con la forza, non
faccia altro che aumentare, anziché diminuire, la violenza nel mondo, adducendo come prova la storia
dell’umanità che, se da un lato può essere interpretata come un lungo processo d’emancipazione dalla
violenza, dall’altro può essere vista come un’escalation della violenza armata che, con il massacro atomico
di Hiroshima e Nagasaki, ha raggiunto – secondo la definizione gandhiana – «il punto di saturazione
della violenza».
Da qui la necessità di adoperare modalità di lotta ispirate al Satyagraha, la cui efficacia è stata
sperimentata nelle campagne di lotta condotte in Sud Africa ed in India, che hanno consentito di
dimostrare le seguenti ipotesi: innanzi tutto che, con la dovuta preparazione ed un’adeguata
organizzazione è possibile coinvolgere vaste masse in forme di lotta che soddisfano i requisiti del
Satyagraha; in secondo luogo che, queste modalità di lotta costituiscono una concreta ed efficace
alternativa alla violenza armata per una giusta causa; infine, che il metodo nonviolento tende a bloccare
la reazione violenta dell’oppositore, ad innestare spirali di fiducia, a trasformare i conflitti conducendo a
G. Pontara, Gandhismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, UTET, Torino 2004, pp.
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soluzioni accettate e costruttive di essi e, di conseguenza, ad una riduzione massima della violenza nel
mondo.
Aldo Capitini. Un profilo biografico
Nato a Perugia nel 1899, Aldo Capitini vive indirettamente il dramma della Grande guerra, dapprima
partecipando all’entusiasmo patriottico, da cui discende la delusione per essere stato riformato, e
successivamente, dopo aver valutato gli effetti della carneficina bellica, allargando i suoi orizzonti
culturali (fino ad allora limitati alla passione giovanile del futurismo). Una volta liberatosi da ogni
avanzo di nazionalismo, abbraccia il pacifismo ed il socialismo integrandoli in un complesso sistema di
pensiero, forgiato nella fede cattolica ed ostile ad ogni forma di autoritarismo, che sarà destinato ad
arricchirsi ulteriormente attraverso una laurea in filosofia e la conoscenza della lotta di Gandhi contro
gli inglesi per l’indipendenza dell’India.
L’opposizione al fascismo e la rottura con la Chiesa, maturata in seguito ai Patti Lateranensi del 1929,
rafforzano la sua tendenza all’isolamento, frenata in parte dalla vita universitaria: alla Normale di Pisa,
dove era stato chiamato da Gentile, che poi l’avrebbe allontanato per aver rifiutato di aderire al Partito
fascista, Capitini conosce Guido Calogero con il quale fonda il movimento liberal-socialista che,
rispetto al socialismo liberale di Carlo Rosselli, più moderato ed intriso di elementi liberisti, è
caratterizzato dalla nonviolenza e da una visione integrale del socialismo, che superi il comunismo
sovietico apportando a quel sistema il valore della libertà. Ciò spiega sia la sua posizione defilata durante
la Resistenza, considerata incompatibile con il suo metodo di lotta, sia la decisione di non entrare in
alcuna formazione politica, nemmeno nel Partito d’Azione che, ispirato dalle idee di Rosselli,
raccoglieva la parte laica dell’intellettualità e della classe politica antifascista non-comunista.
Arrestato dal regime fascista e liberato dopo la caduta di Mussolini, Capitini vive in clandestinità fino
alla liberazione di Perugia, nell’estate del ’44, quando fonda i COS (“Centri di orientamento sociale”),
che diventano la struttura organizzativa del suo movimento. Dopo la Liberazione organizza decine di
convegni sui temi della nonviolenza, della disobbedienza civile e della religione, tanto da fondare i COR
(“Centri di orientamento religioso”), che diventano luoghi importanti di dibattito e di organizzazione.
Nel 1948 incontra Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza italiano (all’epoca, dunque, renitente alla
leva), il quale, dopo aver scontato in carcere la sua pena, diventa il principale collaboratore di Capitini
con cui fonda il “Movimento Nonviolento”. L’impegno di quest’ultimo culmina nella marcia PerugiaAssisi, nel 1961, che si ispira al modello delle marce pacifiste guidate da Bertrand Russell in Inghilterra.
L’iniziativa, che viene realizzata in un periodo di altissima tensione internazionale, determinata dal
tentato colpo di stato americano a Cuba e dalla costruzione del Muro di Berlino, segna la ripresa del
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pacifismo dopo la scomparsa dei “Partigiani della pace” e fornisce a Capitini una tribuna formidabile
che gode dell’appoggio di alcuni partiti (comunisti, socialisti, sinistra cristiana), garantendo una cassa di
risonanza al suo pacifismo equidistante, contrario sia alle guerre russe che a quelle americane, ostile ad
ogni ipotesi di riarmo, favorevole al disarmo, anche unilaterale: posizioni che, vent’anni più tardi,
saranno riprese dal nuovo movimento pacifista in lotta contro gli euromissili.
La dottrina nonviolenta
La nonviolenza non è mai stata una componente maggioritaria nel pensiero europeo del XX secolo,
nonostante il comandamento cristiano del “non uccidere”, il precedente di Tolstoj, l’esempio di Gandhi
ed il fenomeno dell’obiezione di coscienza2. Capitini è, forse, l’unico personaggio italiano che abbia
teorizzato la nonviolenza e riflettuto sui metodi nonviolenti, in anni, però, in cui queste tematiche erano
molto soffocate: prima, a causa della contrapposizione tra democrazie borghesi, dittatura fascista e
stalinismo, poi, dalla polarizzazione postbellica tra capitalismo e comunismo che, in Italia, ha provocato
un duro scontro tra mondo cattolico e mondo comunista. Di fronte ai due maggiori orientamenti
culturali, Capitini si è sempre trovato in una posizione scomoda, inviso sia agli uni che agli altri per la
sua “religione aperta” ed il suo dichiararsi “libero religioso”, benché in fondo la parte marxista ne
apprezzasse la polemica antiecclesiastica, non escludendo la possibilità di usarlo come “compagno di
strada”.
D’altra parte, Capitini vedeva nel comunismo una fase indispensabile da raggiungere e superare,
mantenendo una posizione critica nei confronti del sistema sovietico, giudicato una nuova forma di
dominio da parte di un partito che soffoca la libertà dell’individuo ed impone l’ideologia dello “Stato
etico”. Il giudizio sull’Unione Sovietica, ritenuta l’“assoluto del potere”, era speculare a quello
pronunciato nei confronti degli Stati Uniti, considerati l’“assoluto del benessere” per la tendenza di
quella società a cercare nel solo benessere la liberazione dell’individuo, con la conseguente esaltazione
dell’egoismo come valore.
Un altro obiettivo polemico di Capitini era il pacifismo, che nell’Italia dell’epoca era una forma di
difesa, limitato ad offrire una risposta passiva e non attiva, mentre ciò che Capitini predicava era
l’impegno in direzione di un cambiamento e non del mantenimento dello status quo: il suo obiettivo non
era il pacifismo, ma la pace, da perseguire mediante l’adozione di metodi nonviolenti.
Il sistema di pensiero elaborato da Capitini è incentrato, infatti, sul concetto fondamentale di
nonviolenza, interpretato soprattutto come rifiuto del potere e come via per una riforma, non solo
G. Fofi, Aldo Capitini e la non-violenza, in M. Reberschak (a cura di), Non-violenza e pacifismo, Franco Angeli, Milano
1988, p. 113
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politica, ma anche spirituale, che approdi ad un sistema politico originale, definito omnicrazia. Il termine,
che significa “potere di tutti”, delinea un traguardo ambizioso che presuppone l’affermarsi di una
dottrina di nonviolenza attiva, intendendo la nonviolenza non solo come tecnica di lotta, ma come
valore e metodo di organizzazione sociale. La contiguità tra potere e violenza, teorizzata da Capitini, lo
spinge a formulare una critica anche verso la democrazia, perché la nonviolenza impone di sostituire
ogni forma di potere, anche quello fondato sul principio di maggioranza, con il governo di tutti
(l’omnicrazia, appunto), immaginato come una forma di democrazia diretta dove la persuasione conta più
delle regole formali.
Nonviolenza, quindi, come tecnica di lotta, valore, metodo di organizzazione sociale e fine in sé, capace
di permeare ogni aspetto della vita associata secondo un’idea attiva e rivoluzionaria, che persegua la
realizzazione non di una pace tradizionale, ma di una pace concepita come il punto di arrivo di un
percorso volto a modificare gli assetti di potere. In altri termini, Capitini non tollera che si possa parlare
di pace in un mondo popolato da dittature e solcato da squilibri sempre maggiori tra paesi ricchi e paesi
poveri; per questo motivo ritiene giusto ribellarsi, e per farlo reputa necessario elaborare metodi che
spezzino il circolo vizioso che rinnova la violenza all’infinito.
Così avviene il passaggio dalla “dottrina politica” alla “militanza”, cioè all’attuazione pratica delle idee
elaborate seguendo l’esempio di Gandhi, alla nonviolenza intesa come strategia d’azione che si concreta
in un repertorio di tecniche, raccolte da Capitini in un prezioso volumetto3.
Le tecniche della nonviolenza
Come forma di lotta, la nonviolenza non è stata inventata da Gandhi, ma fa parte di un bagaglio di
metodi ai quali gli oppressi hanno fatto da sempre ricorso, essendo state la resistenza passiva e la noncollaborazione spesso le uniche vie di azione cui era possibile ricorrere. Capitini si inserisce in un filone
che comprende maestri della nonviolenza, quali Thoreau, Mazzini, Gandhi, che hanno arricchito il
“catalogo” delle tecniche nonviolente, cercando di passare da un uso tattico di queste forme di lotta ad
una visione strategica, complessiva della nonviolenza.
Distingueremo, pertanto, le tecniche individuali da quelle collettive per poi soffermarci su una parte del
metodo nonviolento, che si colloca tra teoria e pratica e consiste nell’addestramento alla nonviolenza.
Nel presentare il repertorio di forme di lotta, Capitini premette che la strategia della nonviolenza, rara
nel passato, è diventata molto più frequente nel XX secolo, dapprima per l’ingresso nella storia di
grandi moltitudini e, dopo Hiroshima, per l’urgenza di elaborare una strategia di pace di fronte alla
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A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano 1967
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possibilità della distruzione atomica. Per quanto sia difficile stabilire una linea di confine tra tecniche
individuali e collettive, si può dire che le seconde presuppongono le prime in quanto ciò che fa un
individuo può essere fatto da un altro individuo al suo fianco, da un altro ancora e così via; inoltre,
un’azione di massa non può prescindere dall’impegno del singolo e da una capacità di iniziativa e di
slancio generata dalla consapevolezza individuale.
a) Le tecniche individuali
La prima tecnica individuale considerata da Capitini è quella del tu, del rivolgersi ad un singolo
individuo in modo da “interiorizzarlo”, cioè da sentirlo come se stesso. L’atto del tu si presenta come
un orientamento dell’animo che deve guidare tutte le altre tecniche del metodo nonviolento, una sorta
di opzione preliminare che ispira un approccio da estendere progressivamente a tutti, persino agli
animali.
Il passo successivo consiste nel superamento della vendetta e del risentimento: questa tecnica trova
illustri predecessori da Socrate a Tolstoj, a Gandhi, passando per Gesù e S. Francesco, che il Nostro
non manca di ricordare operando un richiamo ad un saggio di Richard Gregg4, il quale sosteneva
l’efficacia dell’azione nonviolenta che tende a disorientare l’avversario privandolo dell’appoggio morale
che una resistenza violenta gli garantisce e costringendolo al confronto con un nuovo mondo di valori,
incarnato da chi si oppone senza usare la forza, ma facendo leva sulla saggezza.
L’efficacia della nonviolenza può essere dispiegata anche mediante la capacità oratoria. Capitini elenca
alcune tecniche che fanno ricorso alla parola, distinguendo la persuasione indiretta, che è quella
esercitata attraverso preghiere, atti di culto, persino formule magiche, che mirano ad influenzare la
volontà altrui, e la persuasione diretta che, invece di affidarsi alla mediazione divina, agisce direttamente
sui sentimenti dell’interlocutore. Tale capacità non deve essere confusa con l’oratoria sofistica,
condannata da Socrate e considerata da Calogero5 una forma di violenza illecita perché espressione di
una volontà prevaricatrice, ma deve essere uno strumento utile ad impostare il dialogo come una mutua
collaborazione, in cui ciascuno partecipa liberamente all’indagine, sforzandosi di capire e di farsi capire.
Il dialogo, quindi, è una delle tecniche della nonviolenza se si traduce in un autentico scambio di
opinioni, in cui ognuno è disposto a presentare gli elementi oggettivi di una questione senza escluderne
alcuno per astuzia, e a lasciarsi convincere dall’interlocutore se questi ci riesce. Questa definizione
implica il divieto della menzogna e del ricorso ai mezzi di una persuasione occulta, volta a sedurre un
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R. Gregg, The power of non-violence, Routledge, London 1936
G. Calogero, Etica, Giuridica, Politica, Einaudi, Torino 1946, p. 255
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individuo per fini commerciali o elettorali, inoltre esclude la tortura e la pena di morte come strumenti
per estorcere informazioni o per dissuadere le persone dal commettere reati.
Accanto alla parola, esistono altre tecniche dotate di una certa efficacia persuasiva, riconducibili alla
categoria dell’esempio o del sacrificio: tra queste, quella più spettacolare ed efficace è senz’altro il digiuno
poiché permette di richiamare l’attenzione su casi particolari, coinvolgendo le istituzioni e preparando il
terreno per un’azione collettiva. Si tratta di una forma di protesta ampiamente utilizzata da Gandhi, che
pure la riteneva un’arma pericolosa, da usare con parsimonia visti gli effetti dannosi che può provocare,
mentre in Italia è degno di nota l’esempio di Danilo Dolci, che nella Sicilia occidentale degli anni ’50
promosse indimenticabili lotte nonviolente contro la mafia ed il sottosviluppo, per i diritti, il lavoro e la
dignità.
Nell’ambito delle tecniche individuali, Capitini assegna un posto particolare a quelle che derivano dal
principio di non-collaborazione e che segnano il passaggio dall’impegno individuale a quello collettivo. La
non-collaborazione esclude di dare il proprio aiuto all’attuazione di una cosa che non si accetta, ma non
implica l’interruzione del rapporto di amicizia con la persona che realizza la cosa giudicata inaccettabile:
in tal modo, la non-collaborazione diventa una sorta di sollecitazione dell’altro perché lo invita a
riflettere su ciò che sta facendo fornendogli un punto di vista alternativo. Per questo motivo, siffatta
tecnica non può ridursi alla mera astensione, ma deve essere accompagnata dall’iniziativa di informare
l’altra parte, l’opinione pubblica e le autorità, affinché l’espressione del proprio dissenso possa diventare
l’estremo tentativo per persuadere l’altro della bontà della propria causa.
L’obiezione di coscienza, infine, è una delle tecniche più note annoverate tra quelle individuali. In senso
lato, essa può essere intesa come sinonimo di non-collaborazione poiché si concreta in un rifiuto
mediante il quale la coscienza obietta, cioè fa opposizione; in un’accezione più ristretta, che corrisponde
al significato comune del termine, l’obiezione di coscienza è un atto di disobbedienza opposto
all’obbligo del servizio militare che si traduce nel rifiuto di riconoscere allo Stato il diritto di costringere
un individuo ad agire contro la propria coscienza.
b) Le tecniche collettive
Prima di passare in rassegna le diverse forme di azione collettiva, Capitini si sofferma sulla comunità
nonviolenta che costituisce una sorta di prius logico alle modalità di lotta collettiva. Per comunità
nonviolenta si intende una collettività nella quale gli appartenenti si impegnano a rispettare alcune
regole di vita mediante un addestramento spirituale e psicologico, che li renda capaci non solo di essere
autenticamente nonviolenti con i compagni, ma anche di esserlo il più possibile con tutti gli altri, al di
fuori della comunità.
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Le comunità francescane rappresentano, secondo Capitini, l’archetipo della comunità nonviolenta,
quelle che storicamente hanno attuato, almeno nell’ambito del Cristianesimo, i principi nonviolenti
traducendoli in un corpus di regole scritte che prescrivono, tra l’altro, il divieto di portare armi e l’obbligo
di fare la pace con i nemici.
Fatta questa premessa, possiamo ora concentrarci sull’elenco di tecniche collettive che, come è stato
anticipato, presuppongono l’esistenza di tecniche individuali e, come queste, sono create da singoli
individui, ma in vista dell’associarsi di molti altri. Nel “manuale” di Capitini sono presentate secondo
questo ordine: marcia, sciopero, boicottaggio, sabotaggio, disobbedienza civile.
La marcia è una manifestazione antichissima, che affonda le sue radici nella forma religiosa del corteo o
della processione: è definita come «una manifestazione dal basso, al livello minimo, che tende a
comprendere tutti, è assolutamente nonviolenta, cioè priva di armi e opposta perciò alla sfilata militare,
tende ad essere antiautoritaria […] è il simbolo della moltitudine povera»6. Il fascino di questa forma di
protesta va rintracciato nella sua capacità di unire persone di diverso orientamento e nel fatto che si
traduce in un esercizio fisico rilassante senza prevedere un coinvolgimento intellettuale, come lo stesso
Capitini sperimentò in occasione della prima Marcia della pace, promossa nel 1961 dal “Centro per la
nonviolenza” di Perugia.
Il buon esito di una marcia prevede il rispetto di alcune norme essenziali, quali: la scelta di un
“capomarcia” e di alcuni “capifila” affinché la manifestazione possa svolgersi ordinatamente; il divieto
di gridare slogan o conversare poiché sono comportamenti che possono generare confusione, mentre è
preferibile dare l’impressione di unità marciando in silenzio o cantando in coro.
Lo sciopero, tra le più note e diffuse tecniche nonviolente di tipo collettivo, è prima di tutto una forma di
non-collaborazione, che solitamente riguarda i lavoratori che sospendono il lavoro per ragioni salariali7.
Essendo un diritto legalmente riconosciuto, Capitini sostiene che la società deve essere in grado di
pagarne il costo, ricevendo in cambio l’evoluzione delle lotte da modi violenti a modi nonviolenti e
l’ascesa di classi che si trovano in condizioni inferiori. Capitini fornisce un’interessante articolazione di
questa modalità di lotta distinguendo: lo “sciopero della fame”, che abbiamo annoverato tra le tecniche
individuali parlando del digiuno; lo “sciopero a rovescio”, che consiste in un lavoro volontario non
pagato e che fu attuato da Danilo Dolci a metà degli anni ’50, quando guidò un gruppo di disoccupati di
Partinico, in Sicilia, a ripristinare una vecchia strada abbandonata; lo “sciopero di zelo”, che si traduce
in una pedantesca osservanza dei regolamenti; lo “sciopero a singhiozzo”, che alterna periodi di lavoro
a brusche interruzioni; lo “sciopero a scacchiera”, che interessa, in tempi successivi, diversi settori
dell’azienda; lo “sciopero bianco”, nel quale i lavoratori rimangono nella fabbrica, ai posti di lavoro, ma
“a braccia incrociate”; lo “sciopero simbolico”, che è la sospensione concertata del lavoro per un
A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, op. cit., p. 103
L’etimologia stessa del termine “sciopero” deriva dal latino “ex operare”, che ha il significato di aver finito di
lavorare o di abbandonare il lavoro deliberatamente.
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minuto. Lo sciopero, infine, diventa “hartal” quando non soltanto viene abbandonata la fabbrica, ma
anche le strade ed i luoghi di ritrovo, e gli scioperanti restano nelle proprie case (particolarmente
apprezzato da Gandhi, perché consentiva di evitare incidenti e, al tempo stesso, di dedicarsi alla
meditazione domestica).
Anche il boicottaggio8 rientra nelle tecniche che si richiamano al principio della non-collaborazione:
mentre lo sciopero consiste nel non collaborare mediante il proprio lavoro, il boicottaggio significa non
collaborare economicamente, ovvero interrompere i rapporti commerciali con certi gruppi o certe
nazioni che vendono determinate merci. Tale forma di protesta può essere attuata, ad esempio, non
frequentando alcuni esercizi commerciali o non servendosi dei trasporti pubblici. Un elemento
importante della campagna di Gandhi in India fu proprio il rifiuto di acquistare i tessuti fabbricati in
Inghilterra con il cotone indiano e poi venduti sul mercato indiano. Un altro esempio di boicottaggio è
quello praticato da Martin Luther King, che invitò i neri americani a protestare contro le
discriminazioni sui mezzi pubblici disertando in massa tali servizi.
Mentre il boicottaggio rimane comunque nell’ambito della legalità, il sabotaggio9 è «assalto al
funzionamento di un servizio, di un’industria, di un’impresa pubblica o privata, con danno o
distruzione, e quindi oltre il limite della legalità»10. Questa definizione induce Capitini ad interrogarsi
sulla natura nonviolenta di questa tecnica di lotta. In effetti, si tratta di una misura di carattere estremo,
che è opportuno adottare solo quando non vi è alcun rischio per l’esistenza di esseri viventi,
particolarmente umani. Per esempio, un sabotaggio nelle ferrovie non deve mai produrre un disastro
con la morte di persone; alla stessa stregua, in virtù del principio della non-menzogna, è preferibile
astenersi dal lavoro piuttosto che sabotare la produzione con il cattivo lavoro, in modo da mantenere
sempre un comportamento leale.
Prima di affrontare la disobbedienza civile, una tecnica collettiva che si distingue da quelle fin qui
esaminate, è bene ricordare che la cifra comune a tutte le modalità di lotta su elencate è costituita dalla
necessità di dare adeguata pubblicità alle diverse iniziative. Capitini ricava questa esigenza dal principio,
che risale a Kant, secondo il quale ognuno ha il dovere di collaborare alla formazione dell’opinione
pubblica; dal punto di vista della nonviolenza, informare l’opinione pubblica è un servizio e, al
contempo, una tecnica che deve far parte di qualsiasi campagna pubblica nonviolenta. Anche in questo
caso l’esperienza di Gandhi fornisce un modello da imitare: prima di cominciare una campagna di lotta,
il leader indiano era solito avvertire l’autorità inglese per informare delle richieste presentate e per
chiarire le ragioni che giustificavano l’iniziativa. Inoltre, è opportuno avvalersi di ogni mezzo di
diffusione per creare una cassa di risonanza ed un alone di simpatia attorno al movimento nonviolento
Il termine deriva dal nome di un irlandese, il signor Boycott
parola deriva dal francese “sabots” o “sable”, ovvero gli zoccoli che le filatrici francesi lanciavano o la sabbia
che versavano nelle macchine agli inizi della rivoluzione industriale.
10 A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, op. cit., p. 111
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affinché in tal modo, a prescindere dal fine raggiunto, si operi un tentativo di risvegliare le coscienze e,
di conseguenza, si determini un progresso di vita nonviolenta nella società circostante.
La disobbedienza civile, infine, si distingue dalle altre modalità di lotta perché non rientra nel principio
della non-collaborazione ed infrange la legalità senza, tuttavia, attentare alla vita o all’onore delle
persone. Capitini distingue tra disobbedienza civile “difensiva”, rivolta contro leggi ingiuste, e quella “di
attacco”, che si traduce in una rivolta contro lo Stato oppressore.
A margine di questo variegato repertorio di tecniche di lotta, è opportuno ricordare che la strategia
nonviolenta richiede il coordinamento di un gruppo ben preparato e disciplinato: una lotta nonviolenta,
come sosteneva lo stesso Gandhi, poggia non tanto sulla quantità, quanto sulla qualità, sulla forza
dell’anima, sulla padronanza di sé, sullo spirito di sacrificio, insomma sul valore morale di ciascun
attivista.
c) Principi di addestramento alla nonviolenza
Capitini, a conclusione del suo “manuale” sulle tecniche della nonviolenza, inserisce un capitolo
dedicato ad una parte del metodo nonviolento, che consiste nell’addestramento a tali modalità di lotta e
fa da ponte tra la teoria e l’azione. Le ragioni che rendono necessaria questa digressione vanno ricercate
nella difficoltà di attuare la nonviolenza, che prevede campagne di lotta condotte senza armi, di lunga
durata, foriere di sofferenze e di sacrifici, e portate avanti da pochi individui. Come il soldato è istruito
per combattere, così il militante nonviolento deve essere formato per realizzare una strategia di pace, la
quale, rispetto all’opposta strategia della guerra, ha lo svantaggio di essere stata elaborata in tempi più
recenti, sebbene prima di Gandhi si possano contare alcune testimonianze che hanno fornito
indicazioni preziose in questo campo, come le prime comunità cristiane, i frati francescani, i monaci
buddisti.
L’addestramento si compone di diversi elementi di varia natura, che coinvolgono aspetti storici,
ideologici, psicologi e sociali.
Gli elementi storici fanno riferimento alla necessità di prendere coscienza della situazione storica che si
sta vivendo, per comprenderne le storture contro le quali battersi e per individuare le modalità più
adatte a condurre la lotta.
Sugli elementi ideologici gli avvertimenti di Capitini presentano una maggiore articolazione: curare
questi aspetti significa, da un lato, studiare le teorie della nonviolenza, conoscere i grandi episodi e le
grandi campagne, informarsi su quanto è stato realizzato mediante l’impiego di tecniche nonviolente,
avviare discussioni con gruppi nonviolenti e con chi è estraneo alla nonviolenza; dall’altro, significa
rendersi conto che uno stile di vita nonviolento comporta la rinuncia alla concezione della vita intesa
come “amministrazione tranquilla del benessere”, perché in una società sbagliata l’essere nonviolenti
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equivale a trovarsi in una posizione scomoda, di opposizione. Da qui nasce l’esigenza di abituarsi alla
nuova situazione, praticando alcuni esercizi diretti a temprare il militante nonviolento: uno consiste nel
meditare, anche in gruppo, su eventi storici che hanno visto l’affermazione del metodo nonviolento
(l’arresto di Gesù, la marcia del sale effettuata da Gandhi, la visita di S. Francesco al Sultano); un altro
esercizio, più difficile da mettere in pratica, consiste nel creare una specie di scuola di nonviolenza nella
quale simulare azioni offensive (parolacce, lancio di oggetti, arresto ecc.) per abituarsi a ricevere odio,
ingiurie, colpi.
Gli elementi psicologici operano direttamente sulle motivazioni: il nonviolento deve convincersi che
l’obiettivo principale non è vincere gli altri, ma comportarsi secondo i dettami della nonviolenza,
rispettando l’avversario e considerandolo un compagno di viaggio. In secondo luogo, il nonviolento
deve agire con tenacia ed ostinazione, consapevole che l’obiettivo da perseguire richiede un impegno di
lungo periodo e che la pressione nonviolenta agisce lentamente; per realizzare i propri fini, dunque,
occorre una forza interiore che deve essere accresciuta mediante atti che incidono sulla psiche
fortificando lo spirito, come voti, rinunce, digiuni e tutto ciò che dà il senso di una tensione elevata.
Anche in questo caso sono previsti, se non esercizi veri e propri, determinati comportamenti, che
vanno dal mantenere un atteggiamento gentile e leale verso tutti alla cura della pulizia personale e del
vestiario, al buon umore, al mantenersi in buona salute.
Gli elementi sociali, infine, ai quali Capitini assegna un ruolo decisivo, comprendono: la non-menzogna;
assemblee periodiche per discutere dei problemi locali e generali e per esercitare il controllo dal basso
su tutte le amministrazioni pubbliche; un’attività continua di aiuto sociale nel mondo circostante, che
può realizzarsi associandosi nei Pronto Soccorsi o organizzando iniziative di visita ai malati e ai
carcerati, di educazione dei giovani e degli adulti, di cura degli anziani; l’organizzazione di feste e di
momenti di aggregazione sociale; l’educazione alla conoscenza delle leggi per saper affrontare le forze
dell’ordine in caso di arresti, processi, prigionia.
Conclusioni
L’esperienza di Aldo Capitini, da considerarsi esemplare nel quadro di una storia della teoria e della
pratica della nonviolenza, conferisce al militante umbro una posizione di indiscusso primato nell’ambito
delle lotte nonviolente condotte in Italia, benché il contesto italiano sia particolarmente ricco di figure
prestigiose che hanno dato un enorme contributo alla causa della pace e della nonviolenza, quali Don
Primo Mazzolari, Padre Ernesto Balducci, Pietro Pinna, Danilo Dolci ed altri ancora.
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Come si evince da questo breve elaborato, Capitini ha indirizzato il suo impegno non solamente alla
pratica nonviolenta, tradottasi in manifestazioni, creazione di centri culturali, attività pubblicistica, ma
ha sentito la necessità di costituire una piattaforma teorica che servisse ad educare alla nonviolenza,
procedendo lungo il sentiero intrapreso da Gandhi. Le tecniche di lotta da lui descritte sostanziano un
metodo che, in un periodo di incertezza e di violenza crescente come quello presente, torna
prepotentemente d’attualità, e si inseriscono in una riflessione di ampio respiro che spazia dalla
religione alla politica, fornendo spunti particolarmente suggestivi, come l’idea di omnicrazia, il rispetto
della vita in tutte le sue forme e la concezione della nonviolenza come rivoluzione permanente.
Per concludere si può affermare, come ha osservato Fofi, che il filo conduttore che tiene uniti i mille
rivoli in cui si articola il pensiero di Capitini, è un’idea di liberazione intesa come valore aggiunto, che
contempla una complessità di elementi individuali e collettivi e che, al contempo, dovrebbe investire di
sé la politica fino a trasformarla radicalmente, secondo la prospettiva tracciata dall’utopia del “potere di
tutti”11.
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11
G. Fofi, Aldo Capitini e la non-violenza, in M. Reberschak (a cura di), Non-violenza e pacifismo, op. cit., pp. 124-125
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