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diario alpino
Notiziario CAI n. 2 Estate 2008. Semestrale. Poste Italiane Spa. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DR PD del C.A.I. Padova 2 • 2008 100 anni del CAI Padova 1 90 8 IL NOTIZIARIO n Ce 08 19 t ’anni C AI PAD 200 A OV 8 sommario sommario CLUBALPINOITALIANO SEZIONE DI PADOVA 2 • 2008 4• Cronache Il Cai Padova compie 100 anni Il nuovo Consiglio Direttivo Le Chimere 5° Concorso fotografico “Festa della Montagna” 18• Diario Alpino Viaggio in Islanda, Gruppo Terranova di Elena Turchetti Canada Ice&Snow Tour 2008 di Barry Bona Il giro dei Tre Castelli di Rosanna Rosin 34• Itinerari Alpini Col de l’Agnello di Marco di Tommaso Moiazza Sud - Via Annamaria di Leri Zilio 42• Dialoghi Free Tibet Tutto già visto di Manuel Lugli Il Tibet e le cronache dall’Everest incatenato di Manuel Lugli Ghiaccio e fuoco di Marco De Zuani 53• La nostra storia Gastone Scalco di Leri Zilio Antonio Berti di Leri Zilio 58• Canti di guerra di Pier Giuseppe Trentin 65• Alpinismo Giovanile Ma chi ce lo fa fare di Silvia Giordano 68• Scuola di Alpinismo Campo Base 70• Ricordiamo A Bruno Detassis... re del Brenta di Lucio De Franceschi Andrea Minca Burlin Iolanda Mazzonetto SEMESTRALE SEGRETERIA REDAZIONALE c/o Sezione CAI 35121 Padova - Gall. S. Bernardino, 5/10 Tel. 049 8750842 - www.caipadova.it - [email protected] Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DR PD Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 401 del 5.5.06 DIRETTORE RESPONSABILE: Giovanni Piva VICE-DIRETTORE: Lucio De Franceschi COMITATO DI REDAZIONE: Francesco Cappellari, Leri Zilio IMPAGINAZIONE GRAFICA e STAMPA: Officina Creativa IN COPERTINA Foto in alto: Gita sociale a Torreglia (27 aprile 1913) Foto a sinistra: Gita sociale in Adamello (2 agosto 1909) Foto a destra: Prima pagina del primo Registro Gite Sociali del Cai Padova 3 cronache cronache cronache Il Cai Padova compie 100 anni Era il 1908 quando un gruppo di nobili e uomini di cultura padovani fondarono, sulla scia di altre città, la sezione di Padova del Club Alpino Italiano. I soci fondatori si posero subito come obiettivo la diffusione della pratica della montagna mettendo a disposizione anche delle classi meno abbienti la possibilità di frequentare e conoscere l’ambiente alpino. Dopo le prime “spedizioni”, dapprima sulle Prealpi e poi in Dolomiti, notevoli sono stati i progressi compiuti nel corso degli anni. Dalla costituzione della Scuola di Alpinismo alla capillare organizzazione che consente ai giorni nostri di effettuare innumerevoli attività: dall’escursionismo all’alpinismo giovanile, dalla speleologia al soccorso alpino, dal coro all’attività del gruppo veterani. Nell’ambito della ricorrenza il Cai Padova, in collaborazione con il Comune di Padova ed altri enti, organizza nel 2008 una serie di eventi ed iniziative atta a far conoscere la propria realtà a tutti i cittadini padovani e non solo. La Redazione del Notiziario ha così pensato di fare cosa utile e gradita per i Soci nel pubblicare all’interno del presente numero un inserto contenente tutti gli appuntamenti che si succederanno nel corso dell’anno, nonché tutte le iniziative di cui i Soci e non Soci potranno usufruire. Il nuovo Consiglio Direttivo Nel corso dell’ultima Assemblea Sezionale tenutasi il 29 marzo scorso si è svolta la consueta elezione dei nuovi Consiglieri in sostituzione di quelli scaduti. Da allora il Consiglio della Sezione è così composto: PRESIDENTE: Ragana Armando VICEPRESIDENTE: Ferro Oddo SEGRETARIO: Sartorati Luigina TESORIERE: Soravia Angelo 1 90 8 CONSIGLIERI: Baliello Giampaolo Beriotto Renato Carpesio Sergio De Franceschi Lucio Edifizi Stefano Feltrin Antonio Guglielmi Maurizio Magro Paolo Montecchio Gianni Stefani Mario Tognon Tonino Tosato Antonio Venturato Raffaello Zecchini Giorgio REVISORI DEI CONTI: Carretta Lucio Luzzato Valeria Munari Gianfranco 08 19 t ’anni n Ce 4 C AI PAD A OV 200 8 DELEGATI: Ragana Armando Carrari Luciano Fantin Stefano Mastellaro Antonio Sartorati Luigina Tosato Antonio Zecchini Giorgio 5 cronache cronache LE CHI ME RE A Padova un nuovo gruppo alpinistico. Un gruppo di giovani con le migliori intenzioni. Un movimento in seno al Cai Padova. 6 “Le Chimere” sono una nuova realtà all’interno della sezione del C.A.I. di Padova. Già, perché era da un po’ che in testa ci frullava l’idea di creare un gruppo di alpinisti per rimettere in discussione il nostro alpinismo; avevamo iniziato a pensarci ancora 2 anni fa ma si sa che queste cose richiedono tempo e convinzione. Una sera d’agosto dell’anno scorso ci siamo trovati davanti ad una birra in sette ragazzi (tutti tra i 22 e i 28 anni) e abbiamo buttato le basi per questa nuova iniziativa. Ma cerchiamo di spiegare di cosa si tratta. La volontà di fondare “Le Chimere” è nata dal desiderio di non accontentarsi delle nostre conoscenze e del proprio modo di vedere le cose, ma di scommettere sulla forza del gruppo, per raggiungere in compagnia quegli obiettivi preclusi ai singoli. Un altro aspetto importante è la volontà di ritornare a parlare di montagna con la sua storia e l’etica, cose che purtroppo negli ultimi anni vengono spesso posti in secondo piano rispetto al gesto atletico. Siamo partiti da queste idee per fondare un gruppo autonomo all’interno della Sezione del C.A.I. di Padova, per fare un’attività diversa da quella degli altri gruppi. Ad esempio la scuola di alpinismo F.Piovan ha come obiettivo l’insegnamento, gli istruttori investono il loro entusiasmo per avvicinare in sicurezza degli appassionati alla montagna mentre le Chimere concentrano tutti gli sforzi sul gruppo stesso. Altro aspetto, il nome: la Chimera è questo mostro mitologico “Lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco ... (Iliade, VI, 223-225 trad. V. Monti) Il leone simboleggia la forza, il calore e quindi l’estate; il serpente e’ la terra, l’oscurita’ e quindi l’inverno; la capra e’ il passaggio, la transizione e quindi autunno e primavera. Ci trasmetteva forza e al tempo stesso versatilità e capacità di adattarsi alle diverse situazioni. Inoltre inseguire una Chimera è un sogno, giustamente direte irrealizzabile; ma è proprio quello che ci attira, accettiamo la sfida, perché sognare e fantasticare non costa nulla e il futuro è subordinato alla nostra forza ed al nostro entusiasmo. L’obiettivo è proprio quello dell’approfondimento, per passare da una condizione di inadeguatezza, alla capacità di affrontare ogni situazione. Sembra scontato ma il primo sentimento che unisce noi, come tante altre persone, è l’amore incondizionato per la montagna…le parole del Tod (Andrea Todesco ndr) lo descrivono così bene: “È da quando sono piccolo che guardo le montagne, che mi faccio trasportare da questo ambiente selvaggio e ma- 7 cronache estoso. Mia madre e mio padre mi portavano a camminare su e giù per i sentieri e io lasciavo che la montagna mi travolgesse, la sua immagine occupava interamente lo spazio visivo e non solo. Sulla sua massa hanno cominciato a riflettersi aspetti ed emozioni, fin che, un giorno, la sua presenza è diventata irrinunciabile, destinataria di ogni mio sguardo; è entrata a far parte della mia vita, la montagna ha cominciato a vivere con me!” È un amore istintivo che porta a curiosare tra le valli, attraverso i boschi e le rocce fino alla base delle pareti, iniziando a sognarne le vette; è una voglia di andare a vedere cosa c’è dietro, cosa c’è oltre, cosa c’è un po’ più su… Siamo a caccia di incertezza, attirati dalle pareti nascoste, dove i fattori di controllo sono ridotti al minimo e chi si vuole spingere al limite può farlo contando solo sulle proprie capacità. Non importa che si tratti di arrampicata libera o artificiale, su roccia o ghiaccio, che si stia salendo o scendendo, ciò che conta è il fattore della scoperta, dell’andare “a-vista” se vogliamo, di affrontare la montagna con genuino senso dell’avventura. Questo è lo spirito delle Chimere. Matte (Luca Matteraglia ndr): “Proviamo grande rispetto per la montagna e ci muoviamo sempre con umiltà e prudenza, ma non senza coraggio. Il nostro scopo è crescere ed imparar condividendo grandi e piccole avventure, parlando con un vecchio o con un bambino, guardando una foto o leggendo un libro e, come piace molto a noi, lasciandosi dietro ancora una volta l’ultimo chiodo.” Checco (Francesco Marra ndr): “Ci piace quando il nostro stare in montagna ci fa tornare senza forze, sfiniti, ma carichi di esperienze nuove. L’avventura è quando non si possono fare programmi precisi, quando bisogna trovare la propria soluzione, quando a guidarci è ancora l’istinto, e l’esperienza. Forse non potremo mai vivere completamente l’avventura, ma di sicuro la vogliamo inseguire.” Il gruppo prossimamente si amplierà: cercheremo di mettere a confronto le vecchie e nuove generazioni dell’alpinismo Patavino perché, per evolvere, è importante sentire voci ed esperienze diverse e come dice Alessio (Roverato ndr): “Cerco di condividere il più possibile queste esperienze con persone che hanno gli stessi miei obbiettivi e modi diversi di interpretare l’alpinismo”. 8 L’idea è di sviluppare un discorso storico: Alessandro Baù: “Una volta andavo in montagna scegliendo l’intinerario di salita solo in base alla lunghezza, difficoltà e esposizione della via. Con il libro (Via e vicende in cronache Dolomiti) di Orietta e Ivo, ho scoperto l’aspetto storico di una parete e ora, quando scalo, penso a cosa debba aver provato Cassin mentre apriva sulla Torre Trieste, Comici quando volava con la corda di canapa, Miotto mentre si alzava tra le tegolette del Col Nudo, il “Feo” in uno dei suoi innumerevoli bivacchi allietati dall’armonica, Mittersteiner a spingersi in apertura con quelle difficoltà solo a chiodi. Insomma, cerco di contestualizzare una salita e vi garantisco che vivo la scalata con un sapore più intenso.” Per questo, le Chimere organizzeranno degli incontri per parlare e discutere di alpinismo, approfondire aspetti tecnici e storici; inoltre abbiamo pensato di portare avanti delle ricerche personali su un alpinista o su un lugo che ci attrae particolarmente, su cui poi verranno organizzati degli incontri per condividere le conoscenze. Importante sarebbe riuscire a trasmettere alle nuove generazioni non solo l’aspetto atletico/sportivo dell’arrampicata, ma anche quello romantico legato all’etica, all’avventura e all’ormai superata “lotta con l’alpe”. Ma ora, bando alle ciance, è ora di chiudere il portatile e andare a scalare, perché star troppo seduti alla scrivania fa male. Vi terremo aggiornati sulle future evoluzioni del gruppo, intanto buone avventure verticali. Ciao Ale Baù Le Chimere: Alessandro Baù, Alessio Roverato, Andrea Todesco, Daniele Geremia, Francesco Marra, Luca Matteraglia, Marco Spazzini Invito al rinnovo Si invitano i soci che non hanno ancora rinnovato la quota 2008 di provvedere entro e non oltre il 31 luglio 2008. Importante La scadenza per la presentazione degli articoli da inserire nel prossimo Notiziario è il 20 settembre 2008. Onde evitare spiacevoli equivoci il materiale deve essere depositato presso la sezione nell’apposita cartellina preferibilmente su CD accompagnato da una stampa. Si prega di fornire testi in “word” e foto a parte. Si può anche spedire via mail all’indirizzo: [email protected] 9 cronache cronache Statuto delle Chimere Il seguente statuto si basa sul regolamento della sezione di Padova del Club Alpino Italiano approvato dall’assemblea straordinaria dei soci del 14-1-1980 e ratificato dal consiglio centrale nella seduta del 29-11-1980. Lo statuto in oggetto ha lo scopo di ampliare e precisare alcuni aspetti riguardanti lo spirito, l’attività e l’organizzazione del gruppo, ispirandosi in particolare ai punti c) e i) dell’articolo 2. 10 1 1.1 1.2 1.3 • • • • • • • 1.4 • • Nome e scopi Con il nome “Le Chimere” il 27/08/2007 si è co- stituito un gruppo, con sede a Padova, di alpini- sti e rocciatori iscritti al C.A.I., professionisti e non. I fondatori del gruppo sono: Alessandro Baù (Istruttore I.A.L) Alessio Roverato Andrea Todesco (Istruttore Sezionale) Daniele Geremia Luca Matteraglia (Istruttore Sezionale) Francesco Marra Marco Spazzini (Aspirante Guida Alpina) Gli scopi del gruppo sono: riunire persone, di ambo i sessi, che condivida- no passioni e progetti alpinistici per conseguire in gruppo quei traguardi preclusi ai singoli; promuovere l’alpinismo esplorativo consideran- do l’approfondimento storico come punto di partenza; promuovere lo sviluppo tecnico e storico/cultu- rale dei componenti mediante l’organizzazione di aggiornamenti con alpinisti esperti all’avan- guardia nelle singole attività che possano esse- re fonte di ispirazione; organizzare progetti alpinistici e spedizioni; migliorare ed aumentare la conoscenza e il ri- spetto verso l’ambiente instaurare un legame tra le vecchie e nuove ge- nerazioni dell’alpinismo patavino; fare dell’attività che porti prestigio alla Scuola “F. Piovan”, finalizzata alla continua crescita del corpo istruttori e al richiamo di potenziali allievi, in particolare dei giovani. Il gruppo in oggetto vuole essere una realtà aperta e dinamica, che considera le varie sfac- cettature dell’attività alpinistica. Per questo po- trà entrare a far parte delle “Chimere” chiunque sia fortemente motivato e presenti: conoscenze tecniche e/o conoscenze culturali • e/o abbia un curriculum prestigioso tale da po- ter essere fonte di arricchimento per il gruppo. 2 2.5 2.6 • • • • 2.7 2.8 2.9 2.10 3 3.1 3.2 Organizzazione L’organizzazione del gruppo è curata da un co- mitato che è composto da un coordinatore, un segretario e tre membri. I membri di comitato sono confermati ogni anno durante l’Assemblea dei componenti del gruppo. L’Assemblea ha le seguenti competenze: l’approvazione e la modifica degli statuti e dei regolamenti la nomina dei membri di comitato: un coordina tore, un segretario e tre membri le ammissioni, le espulsioni e le dimissioni dei soci decidere lo scioglimento del gruppo. Il gruppo è convocato ogni anno nel mese di novembre o dicembre. La convocazione, con l’ordine del giorno, precede di almeno 20 giorni la data dell’Assemblea. A seconda delle esigenze nell’arco dell’anno sono convocate altre Assemblee straordinarie, tramite l’invio di email a tutti i componenti, con l’ordine del giorno. L’assemblea può deliberare sulle questioni all’or dine del giorno, con un minimo del 50 percento dei componenti presenti. In caso di votazione l’accettazione è subordinata all’approvazione della maggioranza relativa dei presenti. Questo non è valido per il punto 3.2. relativo alla nomina dei membri. Il comitato cura il rispetto dello Statuto. Il gruppo è validamente obbligato nei confronti di terzi con la firma collettiva del coordinatore e di un membro del comitato. I componenti La proposta per l’inserimento di un nuovo ele- mento all’interno del gruppo parte dal gruppo stesso. Due membri del gruppo possono proporre la candidatura di un nuovo componente delle “Chimere” dopo aver accertato la volontà del candidato di farne parte. Le candidature devono pervenire per iscritto al presidente 15 giorni prima dell’assemblea. Ogni candidatura deve essere firmata dai proponen- ti e dal candidato, inoltre deve contenere le motivazioni per la richiesta di appartenenza al gruppo, il curriculum delle attività svolte in am- bito alpinistico e il bagaglio tecnico/culturale. 11 cronache 3.3 3.4 3.5 3.6 • • • Il candidato sarà ammesso al gruppo se l’As- semblea ritiene che egli dimostra uno spirito adeguato, consono agli scopi prefissi dal gruppo e intende portare il suo contributo personale alle attività delle Chimere. La sua nomina deve essere accettata da alme- no 70 percento dei presenti nel corso dell’As- semblea ordinaria. I componenti sono tenuti a partecipare attiva mente alle attivita e\o riunioni mensili delle Chi- mere. Possono far parte del gruppo anche i non resi- denti nella provincia di Padova purché possano garantire la partecipazione all’attività prevista. La qualifica di membro si perde per: dimissioni volontarie, inoltrate per iscritto, al co ordinatore espulsione per decisione dell’Assemblea se non si è più iscritti al C.A.I. 4 Mezzi finanziari 4.7 Il gruppo si finanzia attraverso donazioni e/o sponsor. 5 Scioglimento del gruppo 5.1 Il gruppo sarà sciolto per votazione dei 2/3 dei componenti dell’assemblea. In caso di sciogli- mento del gruppo, l’attivo netto sarà messo a disposizione di un’ente di beneficenza. Il presente Statuto approvato dal Consiglio Direttivo in data 15/04/08 Il coordinatore: Alessandro Baù 12 13 cronache 5° Concorso fotografico “Festa della Montagna” Verbale della Giuria composta da: Paolo Bettella e Giovanni Segato (componenti del Fotoclub “L’Immagine” di Cadoneghe). 28 ottobre 2007 cronache 2° premio: Nebbie Autore: Elena Crivellaro Indovinata situazione atmosferica su un paesaggio classico di montagna invernale, esaltata dalla magica cornice naturale creata dalla nebbia. Nella valutazione delle opere partecipanti al concorso, considerato che come da regolamento il soggetto è la Montagna in tutti i suoi aspetti, la giuria ha cercato di evitare le riprese fotografiche che richiamassero l’idea di cartolina per concentrarsi su situazioni che rappresentassero una ricerca fotografica con l’inserimento di caratterizzanti elementi o soggetti umani, animali, atmosferici. Sezione colore 1° premio: Sulla neve insieme Autore: Fernarndo Menorello Equilibrata composizione fotografica con interessante figura in “silhouette”, dal netto controluce e dal marcato contorno luminoso. 3° premio: Magia di un incontro Autore: Gabriella Rossignoli Solo un contesto lontano dalla città permette di creare un armonico incontro tra l’essere umano, l’animale e la natura. 14 15 cronache 1° premio Giuria popolare Autore: Rosanna Rosin 16 diariodiario alpino alpino Viaggio in Islanda di Elena Turchetti Gruppo Terranova Notturno sul fiordo delle balene ad Husavik Finalmente dall’aereo si scorge il profilo dell’isola. Sembra di atterrare su suolo alieno: il mare lambisce coste formate da millenarie colate laviche, non un albero, un arbusto, un corso d’acqua. La lava ha formato disegni che ricordano fiumi prosciugati da secoli, ci sono piccoli e grandi crateri, un deserto dove sembra che la vita non possa trovare ospitalità. Il colore rossiccio della sera ci fa sentire come astronauti in arrivo su Marte. Poi in lontananza si vedono le case, Reykjavik. Il nostro viaggio comincia sbarcando dall’aereo in una sera che non conosce il tramonto, arrivando in un piccolo ed accogliente ostello, lambendo per poche ore le strade della capitale per poi tuffarci nella sconfinata naturale bellezza dell’Islanda. Ore ed ore in auto vedendo scorrere dai finestrini paesaggi di incredibile bellezza, dalle colline di diario alpino un verde intensissimo che si perde nel blu scuro del mare, fino alle zone del deserto lavico. Il cielo terso é sempre luminoso e riflette i colori di una terra ora verde smeraldo, ora nera, o rossa o gialla come zolfo. Ci affascina la potenza dei geyser, l’immensità delle cascate, la maestosità dei grandi ghiacciai. L’Islanda ha 280.000 abitanti (circa quanto la popolazione di Padova) con una densità di 2,7 abitanti per kmq, ma con più della metà della popolazione che risiede nella zona della capitale. Per gran parte del suo territorio quindi non si incontrano segni del passaggio umano, ma si seguono le piste non asfaltate che conducono a sperduti villaggi o piccoli rifugi. La nostra guida ha scelto un’itinerario circolare in senso orario che ci ha portato a conoscere i vasti spazi desertici e le formazioni laviche dell’interno, per poi arrivare alle coste, ai fiordi ed all’immenso ghiacciaio Vatnajokul, il più grande d’Europa, dove abbiamo affrontato una breve escursione. Per molti di noi questa è stata la prima esperienza sul ghiaccio, abbiamo indossato i ramponi e ci siamo goffamente incamminati sulle orme della nostra guida locale. Pochi minuti e l’entusiasmo ci ha portato a superare i primi disagi, in breve tempo ci siamo ritrovati a risalire la lingua del ghiacciaio, ad ammirare increduli i crepacci, le cavità, i mulinelli, i fantastici disegni che l’acqua intarsiava scorrendo lungo le gelide pareti di ghiaccio. Ancora mi stupisce l’emozione provata nel trattenere tra le mani un gelido blocco di ghiaccio millenario, limpido e trasparente, ma così denso da sembrare roccia. Subito la memoria corre, per contrasto, ai luoghi dove invece il calore emanato dal sottosuolo ancora attivo, risaliva attraverso la suola dei nostri scarponi da trekking per arrivare forte e minaccioso alla pianta del piede. Tra le molte escursioni effettuate durante il nostro percorso ricordo con particolare emozione la salita al cratere del Hverfjall, un ampio cono fatto di roccia eruttiva color cenere. La salita sul lato nord ci impegna per circa mezz’ora, Sopra: Passeggiata nell’enorme cratere dell’Askia Sotto: Escursione sul ghiacciaio 19 diario alpino diario alpino Dimmuborgir, passeggiamo tra formazioni rocciose nere e contorte, in un silenzio spettrale, con il freddo vento che risuona tra le rocce e le foglie degli alberi. Giunti sul versante opposto si può salire su di uno sperone roccioso, da cui si ammira il labirinto millenario creato dalla forza della natura. La fine pioggerellina ed il freddo vento della sera, accompagnati dal silenzio della natura, contrastano fortemente con l’inferno di fuoco e lava che ha dato origine a tutto questo. Ed è proprio questo contrasto tra fuoco e ghiaccio che ci accompagna per tutto il viaggio. Eruzioni vulcaniche devastanti e ghiacciai immensi che rendono questo luogo per gran parte inospitale e desertico, ma di una rara e preziosa bellezza incontaminata. Cascate Godafoss 20 ci muoviamo in fila lungo un sentiero dritto che affronta il cratere con tenacia costante e forte pendenza. Arrivati in cima, riprendiamo fiato ed energie ammirando l’enorme caldera. Lo sguardo spazia dalle fumanti zone giallo zolfo verso l’altopiano del vulcano Krafla, fino al lago Myvatn. Pochi minuti per ammirare la zona: il vento freddo ed il cielo grigio ci spingono a dirigerci verso la discesa sul lato ovest del cratere. Da qui si apre la vista aerea sul Dimmuborgir, un’area circolare, ai piedi del Hverfjall formata da strane torri di lava, erose e contorte, circondate da betulle e coperte da vegetazione. Un tempo era un lago di lava, la cui crosta si è poi solidificata. Quando però il muro lavico che lo conteneva è crollato, consentendo alla lava ancora liquida di fuoriuscire, è rimasta una distesa irregolare di rocce con formazioni simili a pilastri costituiti da rocce eruttive più antiche. Da qui il nome “castelli oscuri”. Scendiamo correndo lungo il fianco del cratere, ripido e formato da fine ghiaia lavica, sollevando una sottile polvere che ci copre i vestiti. Ed eccoci all’interno del circolo del Giunti sulla costa sud dell’isola non possiamo non avventurarci lungo uno dei percorsi di trekking più conosciuti al mondo: la zona del Landmannalaugar. Si tratta di una zona interamente lavica, con scarsissima vegetazione, costituita per lo più da rioliti. Ed è proprio la roccia che rende questo luogo incantevole, i colori variano dal giallo, al porpora, al rosso, al verde, fino al nero. Il sole illumina paesaggi lunari, montagne sulfuree incorniciate dai vapori delle fumarole e lambite da ripidi torrenti di acqua cristallina. Enormi spazi coperti da antiche colate laviche, dove si distinguono maestose le cime dei crateri. Il percorso classico si effettua in quattro giorni partendo dal rifugio di Landmannalaugar per raggiungere Thorsmork (il bosco di Thor), a questi spesso si aggiungono altri due giorni di marcia per raggiungere la costa. Giunti a Landmannalaugar, ci siamo subito ambientati e siamo partiti per raggiungere i 900 mt del Blahnukur, una delle maggiori vette della zona. La salita è stata veloce e faticosa a causa della forte pendenza del cono vulcanico. Giunti in cima, una densa nebbia ci ha privato di ogni panorama, ma non della soddisfazione incredibile di avercela fatta! Poi, come per una strana magia, in pochi minuti il cielo si è schiarito, ci sono apparsi monti, valli, colate laviche, coni vulcanici, fumarole...a perdita d’occhio. Ripidi pendii color Sopra: Landmannalaugar dalla cima del Blahnukur Sotto: Il sentiero del Landmannalaugar 21 diario alpino cronache giallo, fini sabbie nere, rocce taglienti come il vetro e sfumature rosse che bordavano ghiaie verdi come smeraldi. La discesa è stata una lunga corsa a perdifiato lungo le pareti del vulcano per arrivare al fiume e poi al rifugio dove una cioccolata calda servita nei furgoncini anni ‘60, che ora fungono da ristoro, è stata l’occasione per riunire il gruppo e festeggiare. Purtroppo il nostro itinerario non ci ha consentito di proseguire lungo il sentiero, ma ci ha condotto verso le scogliere ed infine verso la capitale. Dai finestrini dell’aereo, durante il volo che ci riporta a casa, il profilo dell’Islanda non ci è più alieno. I suoi colori, i profumi, la vastità dei paesaggi, la forza dirompente della natura, risvegliano in noi la sensazione di profonda compartecipazione allo scorrere del tempo e della vita su questo pianeta. Elena Turchetti Sopra: Foto di Gruppo (foto di Bruno Mazzoni) In mezzo: Panorama di Landmannalaugar Sotto: La spiaggia nera di Dyrholaey 23 diario alpino CANADA TOUR 2008 24 27 febbraio, Aeroporto di Calgary, ore 10. Ci eravamo immaginati un Canada dalle distese e dalle distanze immense, dai silenzi sospesi nella natura selvaggia. Abbiamo per mesi sognato tutti la stessa cosa, bramata al punto da poterla quasi sentire addosso. E invece, tutto ciò che fino ad ora ci è rimasto veramente impresso, sono questi caotici corridoi dell’aeroporto, che di gelo e “wilderness” hanno ben poco. Da due giorni, ormai, osserviamo gente sempre nuova transitare a destra e a manca, tutti con destinazioni e provenienze diverse, tutti con un vago atteggiamento di indifferenza e menefreghismo verso il prossimo, tutti con il loro bagaglio. Viene da ridere, infatti, pensare di avere le Canadian Rockies, con tutto il loro ben di Dio di ghiaccio e powder raffinata, là fuori a poche centinaia di chilometri e non possedere i mezzi per poter esercitare la nostra passione. Come aver un regalo sotto l’albero da scartare e dover per forza aspettare il giorno di natale. Le nostre amate sacche, ben 45 kg ciascuno di materiale da alpinismo, sono disperse chissà dove, i funzionari dell’aeroporto smanettano con i computer davanti a visi tipicamente italiani che chiedono giustizia. C’è chi si agita e chi sa destreggiarsi con la lingua, a far fronte al problema, chi invece crolla nel torpore dovuto al jet leg. Ma tra tutti, quello che sembra più pressato dallo stress è Francesco. Mani appiccicate alla faccia, come a voler trattenere i neuroni all’interno, schiena piegata in modo grottesco. La sua rispettabile figura di accademico del CAI e di organizzatore del Canada Ice&snowtour 2008 è abbattuta dal carico di responsabilità. Da tempo non ha più la volontà ironizzare ed il suo umorismo ha ora lasciato posto alla sofferenza. Ma ecco che improvvisamente la situazione sembra prendere un tono più allegro! I bagagli iniziano a spuntare alla spicciolata da ogni angolo del terminal, come fossero funghi. Poco importa dove sono stati fino ad ora, non c’è proprio spazio per pensare al tempo perso, le auto vengono caricate fino all’ultimo angolo vuoto e dirette verso i ghiacci, imitando i vecchi carri che un tempo viaggiavano nel West in cerca d’oro. Il nostro “oro bianco” inizia a far capolino appena si increspano le Rockies: Il Trophy Wall, con la spettrale Terminator, accende il fuoco dell’entusiasmo che ribolle dentro di noi e l’auto sussulta, ma il nastro d’asfalto è largo e sempre dritto, come una pista di rullaggio. Il primo assaggio del “ghiaccio canadese” lo cogliamo a Lake Louise, crocevia tra la civiltà industrializzata verso sud; la naturale prosecuzione della linea “Trans-Canada” Highway, che si insinua in una valle sconfinata verso ovest, e la “Strada dei Ghiacci”, ovvero la celebre Icefields Parkway, che conduce, attraverso paesaggi mozzafiato e tanta, tanta natura rigogliosa, a Jasper. Ed è proprio lungo quella strada che si possono ammirare le cascate più di Barry Bona ICE&SNOW diario alpino 25 diario alpino diario alpino grandi e famose, Polar Circus, Weeping Wall, Ice Nine e Slipstream, nomi che ci fanno sognare da anni, ma che dovremo coltivare ancora per qualche giorno. Prima ci aspetta qualche giorno di ambientamento. Nel frattempo, ci scrolliamo lo stress di dosso salendo la Louise Falls, sulle rive del lago omonimo. Decisamente divertente, sicuramente poco intimidatoria e molto simile alle nostre strutture gelate “di casa”, tuttavia la cascata ci fa conoscere meglio tra di noi e cominciamo ad assaporare il sapore della vacanza. 26 TOKIO HOTEL E LA POWDER CANADESE Il viaggio lungo le grandi arterie di comunicazione, che percorrono il fondo di ampie vallate, ci presenta la condizione demografica di questa terra, che sembra esser appena stata scoperta di recente. Solitamente, tra un insediamento e l’altro, c’è un’assoluta assenza di civiltà e presenza umana e ciò può andar bene in quanto siamo abituati alle nostre vallate invase da edifici e paesi. Tuttavia, l’occhio è sempre alla ricerca di un lumicino nella selva oscura che emani un aiuto morale e sconfigga il senso di isolamento… se il serbatoio si esaurisce e non troviamo una pompa della benzina, con che cosa lo riempiamo? Ormai a notte fatta, ecco balenare le luci di Rogers Pass e l’albergo dove alloggeremo fare capolino dietro un cumulo di neve alto come una casa. Parte del nostro gruppo ha già trascorso una notte ed una giornata qui e ci dà il benvenuto. Finalmente ci ritroviamo tutti quanti riuniti a cena, dopo le disavventure aeroportuali che ci avevano diviso. Ora a portare allegria sono anche i simpatici gestori dell’hotel, tutti cinesi o giapponesi che si aggirano lesti come topi per le stanze. La dieta orientale però non fa al caso nostro, che l’indomani ci aspetta una sci-alpinistica in mezzo alla bufera. La “powder” non è tutta rosa e fiori, quando non si dispone di un Ecureil bi-turbina per la risalita. Stefano Ferro e la compagna Roberta, entrambi istruttori di sci-alpinismo e telemark, ieri si sono fatti un’idea di cosa si può fare da queste parti, di certo non è il caso di osare, il Ranger è perentorio sulle condizioni: il pericolo di valanghe, in questi giorni di burrasca, è piuttosto alto. Ci riesce un’uscita tuttavia divertente che soddisfa anche per un breve tratto gli amanti della discesa. Gli sci non li vedi mai, scorrono sotto ad un metro di neve farinosa che ti entra fino alle narici. Peccato che raggiunto il Balu Pass la vista sia ostacolata da dense nubi. Il territorio della Columbia Britannica, per tutti e due i giorni di permanenza a Rogers Pass non si svelerà in tutto il suo splendore, per quanto comunque il nostro spirito non si è mai abbattuto ma bensì ha sempre trovato sfogo nell’ironia. In partico- La powder canadese è come farina che entra nel naso e non ti fa respirare e ti entra negli occhi e non ti fa vedere. 27 diario alpino diario alpino lare, trovare riparo al bivacco Asulkan, dopo una risalita con le pelli di foca tramutate in trampoli per lo zoccolo di neve e mentre infuriava inesorabile la bufera, è stato il momento più intenso. Del resto è questo che conta, riunire l’esuberanza dei giovani che vogliono “tirare” fino alla perseveranza dei nostri settantenni inossidabili Alfredo, Vittoria e Giancarlo e ritrovarsi a condividere la gioia della festa in un rifugio fuori dal mondo. Una navicella sospesa sui vapori di una terra lontana da casa. Il programma battuto dal Coach Cappellari per i prossimi giorni, consiste nel trasferimento a Field, quindi si ritorna indietro verso la civiltà. In generale, siamo tutti felici di lasciare le minestrine dei “Tokio Hotel”, come abbiamo soprannominato i “musi gialli” di Rogers Pass, e ritornare alle nostre amate pastasciutte. FIELD E LE BIRRE GHIACCIATE Renato Casarotto, nel suo libro Venti del Nord, descrisse il paese di Field come un luogo di frontiera, “…sembra che tutti debbano partire da un momento all’altro”. Un fatto che abbiamo constatato anche noi è che la gente che ci abita è molto cordiale con gli stranieri. “C’è sempre qualcuno che ti saluta”. Non lontano dalle abitazioni sorgono le cascate di ghiaccio, come unica attrazione degna di far apparire il luogo più interessante di quello che in realtà è. Riportano tutte i nomi delle birre, da Pilsner Pillar a Carlsberg Column a Guinnes Gully. In due giorni tutto il gruppo di ice-climber riesce a salire le strutture più meritevoli, mentre gli sci-alpinisti godono la powder con il bel tempo, presso Lake Louise. Una sera, a Field, c’è la festa dello sci club locale e tra noi c’è qualcuno con buone intenzioni di partecipare. Non si sa precisamente per quali motivi validi, ma ad un certo punto la banda degli “Italiani svitati” sale sul palco mentre si disputa una lotteria ed intona il canto popolare “Uva Fogarina”. Sicuramente il motto è stato: “Non importa per quale motivo ci troviamo qui, ma l’importante è lasciare il segno”. 28 LA LINGUA Dobbiamo tutti essere grati ai “Quattro Moschettieri”, ovvero a Fabrizio, Bruno, Ivo e Francesco Rubbiani, se la storia dei bagagli perduti fu risolta di pugno, alla seconda notte di permanenza a Calgary. E’ molto importante, in certi casi, non solo essere scaltri e cocciuti nell’imporsi, ma anche di padroneggiare l’inglese, in quanto qui in nord America la pronuncia è molto stretta. Capita, ad esempio, che al primo rifornimento di carburante sorga qualche dubbio sul da farsi ed il trio di bellunesi è il primo a cadere nel tranello. Si va per logica, non avendo esperienza, e se la pompa è gialla come il tappo dell’auto è logico che funziona così. Il tubo risulta più grosso del buco del serbatoio, ma 15 dollari vengo- no incamerati ugualmente. Quindi, ecco i primi sintomi: si odono degli insoliti gorgoglii provenienti dall’iniettore, il cambio automatico sembra avere dei sussulti. Poi un segnale eloquente che la frittata è stata fatta: fumata bianca del tubo di scappamento! I bellunesi se la ridono di gusto, perché in fondo nulla è andato perduto e l’auto, dopo aver provveduto a caricarla di gazoline - che sta a significare benzina e non “gazolio”, come invece avevamo pensato che volesse dire – riparte pure meglio di prima. Del resto i problemi si sono verificati anche all’aeroporto. Confondendo “Food” con “Foot”, ho dato il mio numero di scarpe all’agente del check-in. Mi sono rifatto immediatamente sfoderando un “I want to climb Polar Circus”, preparato per l’appunto con il dizionario a casa. Ma mai avremo immaginato che proprio i “moschettieri” sarebbero caduti in trappola pure loro. La sera all’ostello di Field, tutti aspettiamo Bruno, Ivo e Francesco Rubbiani che sono scesi a Banff per scalare Professor Falls. Alle 20 l’attesa si trasforma in apprensione. Ma ecco Fabrizio scoprire un SMS inviato da Banff: “Siamo a piedi… con l’auto colma di gasolio!” Dura, scaricare quaranta litri di carburante in un pozzetto servendosi della cannuccia del Camel-bag! Meglio non commettere atti impuri e così i nostri impavidi salgono al volo su un bus diretto a Field. L’auto verrà sostituita il giorno seguente. Valli ampie, laghi ghiacciati ed una strada che ti immerge nell’atmosfera del Grande Nord 29 diario alpino LE PERLE GHIACCIATE DELL’ICEFIELDS PARKWAY Dopo queste simpatiche sventure, è ora di cambiare aria e di volgere l’attenzione verso la valle dei sogni. Mentre l’arzilla compagnia dei settantenni ripone gli sci nelle sacche e riparte verso l’Italia, noi ice-climbers voltiamo a nord, bramosi di constatare di persona i luoghi del mito. Eccoli infatti scorrere di seguito: l’evanescente Reality Bath di Mark Twight, Ice Nine e Happy Days e poi sua maestà Polar Circus e Weeping Wall. Quindi per il giorno seguente tutti hanno fatto il loro programmino, i quattro moschettieri andranno sul Weeping Pillar, i bellunesi inseguiranno il nastro di Polar Circus ed il Coach con la Daniela deve ancora decidere. C’è ancora una cosa da fare, infatti, e cioè sistemarsi a Rampart Creek con tutta la roba. Ma scopriamo il piccolo villaggio tutto chiuso, il custode non c’è e mentre giunge il crepuscolo, sorge angoscioso il dubbio di dove dormiremo questa notte. Per farla breve, il primo problema viene risolto dormendo in un ostello a Lake Louise, con il custode di Rampart c’è stato un problema nella prenotazione via e-mail. Il piccolo contrattempo non crea gravi problemi, se non un po’ di ritardo per chi salirà il Weeping Pillar e Polar Circus rimandata di un giorno per noi bellunesi. La sera comunque ci ritroviamo con le gam- Nei tiri finali nel fiume di ghiaccio di Polar Circus 30 diario alpino be sotto il tavolo imbandito per la cena a Rampart Creek e i discorsi girano sulle impressioni avute vivendo a contatto con la vera identità del ghiaccio canadese. L’esposizione e la qualità del ghiaccio cotto dal sole sul Weeping Pillar, l’instabilità e i rumori sinistri sul “candelone” di Ice Nine e il gioco di luci sul ghiaccio di Murchison Falls. I due giorni seguenti saranno all’insegna del grande viaggio sul Polar Circus. Dapprima a noi bellunesi con Daniele Pigato di Val d’Astico, toccherà il privilegio di calcare al primo turno quell’angolo ghiacciato pieno di storia, che ci farà ubriacare di soddisfazione e appagamento, non appena usciamo al sole dalla profonda gola di questa montagna che un po’ ci ricorda il Piz Ciavazes. L’indomani la cascata vedrà la presenza di ben tre cordate italiane, cioè il resto del gruppo, incluso il Coach, Francesco, al quale l’anno scorso era sfuggita l’occasione di includere Polar nel suo prestigioso curriculum di salite, per il pericolo di valanghe che allora lo respinse dalla valle intera. Ora che tutti siamo entrati nel vivo delle Canadian Rockies, vantando le salite più rilevanti, chissà perché sembra che questo luogo ci appartenga un po’, le casette del villaggio di Rampart Creek, dopo quattro giorni di soggiorno, hanno perso quel loro iniziale aspetto trasandato e poco conveniente. La toilette esterna, con la sua botola angusta è diventata un ideale luogo appartato per la riflessione e la cucina con il salotto accanto, preferibile di gran lunga ai lussuosi alberghi di Calgary. Ne deriva un amaro senso di malinconia, al momento della partenza verso casa, durante la penosa fase del caricare la roba in macchina. Riporre le nostre armi nel fodero, dopo averle consacrate nel tempio del “cascatismo” mette un certo orgoglio, la certezza che il biglietto per il Grande Nord si è ripagato con due settimane da leoni ci ha rinvigoriti come pannelli foto-voltaici. I partecipanti: Fabrizio Anselmi (Schio) Vittoria Bianchi (Padova) Barry Bona (Tambre d’Alpago) Ettore Bona (Tambre d’Alpago) Alfredo Bonaiti (Padova) Oreste Bortoluzzi (Tambre d’Alpago) Francesco Cappellari (Padova) Bruno Castegnaro (Lonigo) Roberta De Lorenzo (Venezia) Stefano Ferro (Venezia) Daniela Grigoletto (Padova) Ivo Maistrello (Schio) Giancarlo Mason (Dolo) Daniele Pigato (Arsiero) Francesco Rubbiani (Modena) La schiera di vette imbiancate come denti di squalo si profila nell’orizzonte verso nord, mentre l’aereo dà il gas per il decollo ed il boato delle turbine contribuisce a molestare ancor più la mente, rimasta incollata ai ricordi più entusiasmanti che questo angolo di mondo ci ha regalato. Si osservano, con sguardo ipnotizzato, le lande del continente americano che scorrono migliaia di metri sotto di noi e ognuno pensa per conto suo. Forse anche a: “…ma nella fotocamera ci sarà stata o no la pellicola…..? 31 diario alpino il giro dei Tre Castelli di Rosanna Rosin Ricordo di una gita di “Pasquetta” di un anno fa a Borgovalsugana 32 Per motivi tecnici ci è dispiaciuto non aver potuto raccontare una bellissima escursione fatta a Pasquetta dell’anno scorso. Pensiamo che questo nostro desiderio di salutare e ringraziare dopo un anno di distanza i Carissimi Amici dell’Amministrazione del Comune di Telve di Sopra Sara e Gianluca che hanno accolto il nostro gruppo con grandissima simpatia e affetto (e che ricordiamo durante le nostre escursioni quando pensiamo alle cose belle!) riesca a rendere palese i sentimenti che abbiamo unito a quella giornata immagazzinata ormai tra i ricordi più belli. Grazie Sara e Giancarlo un carissimo saluto da Alberto, Antonio e dai tantissimi componenti del gruppo del CAI Padova. L’escursione di quel giorno dell’anno scorso la rivivremo spesso quando penseremo ai nostri incontri più belli. “Quale emozione mi prese al sapere che l’escursione si faceva: “il Giro dei Castelli”. Già cominciavo a sognare. Io ero la castellana del castello. Partiamo: una comitiva del CAI di Padova, le guide Alberto Veronese e Antonio Di Chiara, esemplari e sempre attente che tutto funzioni. Salutiamo l’autista Valerio e buona giornata. Ci avviamo e saliamo una scalinata storica chiamata “Scala Telvana”. Piano piano ci incamminiamo su di un sentiero un po’ sterrato. Dopo un po’ ci soffermiamo a guardare il panorama e tutta la vallata. A fianco una chiesa del seicento con vicino il Convento delle Clarisse, suore di clausura. Riprendiamo il cammino. Una ripida salita ci aspetta, con varie trincee, segni lasciati dalla guerra. Finalmente troviamo uno spiazzo per ristorarci e raggrupparci. Di fronte a noi con sorpresa una grande torre. Lungo il cammino troviamo diversi terrazzamenti dove una volta coltivavano “a ortaggi”. Piu’ avanti troviamo i resti di un altro castello, Castel San Pietro, ma non possiamo con tristezza che alzare gli occhi e vedere non cime ma antenne! Mi sorprende la Via Crucis, molto curata, e sosto un momento. Quel momento ricordato, pochi giorni prima. diario alpino Scendo lentamente, mi soffermo, guardo con ammirazione la fioritura: primule, erba Trinità, narcisi, la polmonaria e vari frutteti in fiore, questa è la primavera. Nei vari sprazzi si possono notare varie cime: Cima Dodici, l’Ortigara, il Monte Lefre. Ci incamminiamo in un sentiero che porta in salita, e lì troviamo i castagni secolari e le conifere. Ci incontriamo con due amici, Sara assessore di Telve di Sopra e la guida Giancarlo che ci illustra la storia del castello Castellalto. Scorre l’anno 1500. Si può notare sulla facciata un Crocifisso. Mi sorprendono le bellissime arcate. È molto distrutto ma i resti ti emozionano e ti incanti a guardare, sembra che aprino le bracce al cielo e dicano “siamo ancora qui”. Ogni pietra è una storia. Non potrei fare la castellana nel vuoto, scendiamo lentamente giù fin sulla strada che conduce a Passo Manghen. Lì troviamo la leggenda dei “due secchi di vino”, restano ancora i segni. Ci incamminiamo in paese, Telve di Sopra, da lì un belvedere: sotto la Valsugana e sopra tutte le cime innevate. A sorpresa veniamo ospitati con un grande buffet dagli stessi amici che prima avevamo incontrato. Non manca nulla anche i “marroni” e gli scambi di doni ! Un Gran Saluto. Ci avviamo al ritorno piu’ “carichi” che mai. Passiamo il paese Masi Fratte e arriviamo a Borgovalsugana dove ci aspetta l’autista valerio. Ma non finisce. All’arrivo un ultimo banchetto. Ringraziando le nostre guide Alberto e Antonio un’arrivederci alla prossima.” Rosanna Rosin 33 itinerari alpini itinerari alpini COL DE L’AGNELLO di Marco Di Tommaso I ROMANTICI PRATI PENSILI DI AURONZO 34 Tra le crode e le cime che da Auronzo di Cadore sembrano quasi toccare il cielo, si possono scorgere dei prati inclinati che, con le prime luci del giorno, sembrano brillare di un verde intensissimo: sono i prati del Col de l’Agnello. Anche se sembrano essere vicini, essi non sono di facile accesso e i pochi escursionisti che affrontano la Val Gravasecca, per il passaggio dal Biv. De Toni al Rif. Carducci, hanno ben altri pensieri che voltarsi ad ammirarli. L’itinerario proposto (segnato in rosso sulla cartina) consente di visitare i suddetti prati e di concludere eventualmente l’escursione con una selvaggia traversata a Forc. del Col de Giralba. DIFFICOLTA’ Il precorso non supera mai come difficoltà passaggi di I°; occorre tuttavia prestare attenzione ai tratti friabili. Richiesto passo sicuro e l’uso del caschetto. ACCESSO Poco dopo essere usciti da centro abitato di Auronzo, in direzione di Misurina, sulla destra si incontra il bivio per la Val Marzon. Lasciare la SS48 e salire per questra valle per un paio di chilometri, fino ad arrivare ad un tornante 1127m dal quale sulla destra parte il sentiero 106 per il Biv. De Toni. SALITA AL COL DE L’AGNELLO (ore 4,30) Lasciata l’auto, ci si incammina per il sentiero 106 che sale su a zig-zag lungo una vecchia mulattiera. Nella parte alta in cui si esce dalla vegetazione, il sentiero prosegue su diritto per le ghiaie della Val del Marden fino ad arrivare a raggiungere il sentiero 107 (ore 3,00). Dal bivio appena raggiunto, alzare lo sguardo verso la Punta de l’Agnello 2736m. Alla sua sinistra si possono vedere le ghiaie che salgono al Biv. De Toni 2578m; mentre alla sua destra vi sono delle ghiaie che salgono alla spalla nord-ovest e, ancora più a ridosso delle pareti, si intuisce una rampa rocciosa. Puntare a questa e raggiungere così una traccia di sentiero segnato con ometti e vecchissimi bolli rossi. Il sentiero sale ora su terreno friabile passando vicino anche ad una piccola cascatella (rara tra questi posti). Sul culmine della salita, il sentierino esce sulla spalla ovest e l’ambiente ora qui si fa completamente aperto itinerari alpini (ore 0,40 - ore 3,40 terreno friabile). Da qui si comincia a scendere obliquando verso sinistra fino a raggiungere al cresta che divide la Punta dal Colle de l’Agnello. Stando un po’ nel versante ovest, si scende alla sella (ore 0,25 ore 0,45). Se a ovest le pareti corrono giù velocemente, a est verdi prati scendono giù dolcemente. La cima del Col de l’Agnello 2415m è una costola rocciosa con qualche passaggio di I°. Per salirvi in cima, dalla sella costeggiare il versante est fino ad intravedere dei prati che salgono su ripidi ad una forcelletta. Per questi prati e per le facili e brevi roccette sommitali di I° si arriva in cima (ore 0,10 ore 4,15, vedi foto). Per accedere alla sommità meridionale di poco più bassa, occorre tornare alla forcelletta poco sotto la cima e seguire la cengia erbosa a ovest. Questa porta alla forcelletta tra le due sommità e, per facili rocce (I°), in breve in cima (ore 4,30). I prati del Col de l’Agnello 35 itinerari alpini TRAVERSATA A FORC. DEL COL DE GIRALBA (ore 4,30) Se si è soddisfatti dell’itinerario fino qui giunti, il percorso più semplice per tornare giù è quello di fare a ritroso il percorso di salita. Se invece si ha ancora tempo, le condizioni metereologiche sono favorevoli e soprattutto si ha la possibilità di avere a disposizione una seconda auto, è possibile scendere a Giralba passando per la Forc. del Col de Giralba 2093m. Molti anni fa, era stato tracciato un sentiero che collegava il Col de l’Agnello al sentiero 107 che attraversa la Val Gravasecca. Smottamenti, frane e altro provenienti da Forc. de l’Agnello devono aver spazzato via questo sentiero. Occorre allora risalire e attraversare le ghiaie puntando al sentiero 107. Dalla sella a cui si era pervenuti con il sentierino dalla itinerari alpini Val del Marden, cominciare a scendere obliquamente i pendii erbosi mirando al bordo meridionale Questo itinerario permete così anche di visitare gran parte dei prati e di aggirare i salti rocciosi sottostanti la sella. Raggiunti i prati inferiori si devia completamente a sinistra verso le ghiaie che scendono da Punta de l’Agnello. Le si attraversano cercando di non perdere quota, fino a raggiungere quelle che scendono da Forc. de l’Agnello. Per prendere il sentiero 107, che è completamente a ridosso delle pareti della Croda dei Toni, occorre risalire un po’ il canale per le facili ghiaie di sinistra e poi attraversare in modo deciso il vasto canale. Fare attenzione che qui il fondo del canale è duro e a ghiaie sottili. Preso il sentiero 107, lo si segue in direzione Rif. Carducci fino al culmine inferiore prima di cominciare a salire a Forc. Maria (ore 1,20). Da qui si scende mirando ad una larga sella erbosa sulla quale vi è un ometto. Da questa parte un sentierino con qualche vecchio bollo rosso, che attraversa i pendii tenendosi nei pressi delle pareti soprastanti. Si viaggia in quota in un ambiente con rarissimi segni di passaggio, ma con panorami molto selvaggi. Giunti alla Forc. del Col de Giralba (ore 0,45 - ore 2,25, vedi foto), si addandona la Val Gravasecca e ci si inoltra nel bacino della Val Giralba. Sotto a noi vi è il lungo canale che scende a Pian de le Salere 1365m e nel quale vi è la continuazione del sentierino. Lo si comincia a discendere facendo attenzione a non perderlo. Purtoppo in alcuni tratti il sentiero scompare per poi ritrovarlo più in basso. Nel momento in cui la valle si apre per congiungersi alla Val Giralba, il sentiero si tiene sulla sinistra e, uscendo dal canale, prosegue nel bosco. I segni rossi ormai quasi insesistenti, sono sostituiti dai segni dei tagli di arbusti e mughi. Il sentiero raggiunge quello 103 della Val Giralba all’altezza di un capanno a Pian de le Salere (ore 1,30 - ore 3,35). Da qui le difficoltà sono finite e sarà sufficiente schendere lungo il comodo sentiero 103 per raggiungere la località Giralba 905m (ore 4,30). Tempo di percorrenza: ore 9,00 Dislivello: 1500m c. Difficoltà: tratti friabili, senso dell’orientamento; (I°- solo per giungere in cima al colle). La forcella del Col de Giralba 36 37 38 39 itinerari alpini itinerari alpini Moiazza Sud Parete sud - Via Annamaria Stefano Santomaso, Leri Zilio 21.09.2007 Metri 1100 - ore 9 Accesso: da Malga Framont o dal rifugio Carestiato si raggiunge, seguendo il sentiero dell’Alta Via n. 1, il Van dei Cantoi. Si raggiunge quindi l’attacco della salita attraverso il sentiero di ritorno della ferrata Costantini che scende dal Van delle Nevere. Attacco: nei pressi delle rocce basali della Maioazza sud si abbandona il sentiero e piegando verso destra (faccia rivolta alla parete) si salgono dei prati andando a costeggiare le rocce ai piedi del II Torrione dei Cantoi. In fondo a destra, dove l’accenno di cengia tende a morire, si trova la rampa di attacco verso sinistra (ometto). Discesa: per un veloce rientro si consiglia: dalla cima ci si dirige verso ovest e si raggiunge il bivacco Ghedini situato in prossimità della forcella che separa il Van delle Nevere a nord dal Val dei Cantoi. Da qui si scende lungo la ferrata Costantini verso sud ed in circa un’ora e mezza si è alla base della parete. Seconda parte Prima parte 41 dialoghi dialoghi dialoghi FREE TIBET Nell’anno delle grandiose Olimpiadi cinesi si è riproposto all’attenzione della Comunità Internazionale l’annoso e mai risolto problema del Tibet. Questa regione, abitata da un popolo tra i più pacifici al mondo, ha conosciuto circa 60 anni fa l’occupazione da parte di uno delle attuali potenze economiche più forti, la Cina. Nel marzo scorso violente proteste da parte di tibetani contro il governo cinese hanno messo in luce ancora una volta le violente intenzioni del dominatore. Il Club Alpino Italiano, contrariamente per esempio a quello francese, non ha praticamente assunto nessuna presa di posizione e anche gli alpinisti presenti nelle zone himalayane, troppo concentrati nel voler salire le cime di Everest e altri colossi, non hanno instaurato nessuna azione di protesta. La Redazione del Notiziario, con l’intenzione nel suo piccolo di non far sopire il problema propone ai propri lettori due articoli comparsi sul sito Planetmountain, scritti da Manuel Lugli, titolare dell’agenzia “Il Nodo Infinito” e profondo conoscitore e amante del Tibet e della sua gente. A Zaghmo Tutto già visto Tutto già visto, purtroppo, fin dall’invasione del 1949, la dura repressione del 1959 e le proteste del 1988 e 1989. Le devastazioni, il genocidio culturale e “fisico”, gli arresti, le torture, le violenze; la disinformazione pilotata, l’isolamento e la repressione, l’infiltrazione di agenti provocatori, le delazioni, il silenzio e l’indifferenza dell’occidente impegnato a far sempre più affari con la Cina; la non violenza del Dalai Lama e la sua pluridecennale ricerca di un dialogo con Pechino. Ma ci sono due elementi nuovi in quest’ondata di ribellione dei tibetani così intensa e repentina – e forse persino inaspettata dai cinesi stessi, a giudicare dal ritardo con cui è partita la reazione ai primi disordini. Lhasa: sul Barkhor Uno eclatante, noto a tutti ed irripetibile: le Olimpiadi ormai prossime, occasione importante per i tibetani per riportare in evidenza, in tutta la sua complessità e tragicità, la questione tibetana. Soprattutto dopo la decisione lucidamente folle del governo cinese di blindare l’Everest prima, e poi il Tibet tutto, per consentire alla propria spedizione “alpinolimpica” di compiere la Grande Impresa della Fiaccola Ardente senza troppi occhi tra i piedi. Purtroppo però, che ai cinesi piaccia o meno, il mondo conosce da anni la politica repressiva che Pechino ha sempre usato nei confronti del Tibet e non saranno certo le Olimpiadi, per quanto sfarzose e blindate, a cambiare la percezione dei fatti e a far identificare la Cina come un grande, luminoso faro di civiltà. Così come non lo possono i soliti, lugubri comunicati sulle responsabilità della “cricca del Dalai Lama”, motore, secondo Pechino, di ogni azione anti-cinese. 42 Sono parole che sanno di decrepito, di ammuffito, parole che rivelano tutto il vecchiume e l’arroganza di un partito-governo che continua ad usare il linguaggio marcito della propaganda 43 dialoghi maoista da una parte, per perseguire il più bieco e spietato capitalismo dall’altra. E proprio su quest’ultimo terreno è piantata e si nutre la prudenza mirata della quasi totalità dei paesi occidentali, Italia inclusa. I quali paesi, negli ultimi dieci anni, hanno contribuito in maniera decisiva a portare la Cina ad essere la seconda potenza economica del mondo dopo (per ora) gli Stati Uniti. Personalmente, non molto tempo fa, sono stato a Pechino per due volte a distanza di un anno. Mentre mi avvicinavo alla città dall’aeroporto la seconda volta, stentavo a riconoscere quella selva di grattacieli che solo un anno prima era campagna. dialoghi dialogo ad oltranza, di attesa di un segnale distensivo, di una buona volontà che da Pechino, purtroppo, non è mai arrivata. Non è una novità assoluta; una certa quota di dissidenti tibetani ha sempre considerato la lotta, lo scontro diretto con i cinesi – l’insurrezione – l’unica possibilità di liberazione dall’oppressione cinese, in deciso contrasto con il leader spirituale. Ma in questi giorni, a guardare la violenza e l’estensione della protesta, che ha coinvolto non solo Lhasa, ma anche provincie vicine, come il Sichuan o il Gansu (con morti e feriti), provincie che hanno una forte presenza di tibetani, è sembrato di cogliere un segnale più forte, di totale esasperazione. Certo sua Santità mantiene la sua posizione storica: “la gazzella non batte il leone”, dice, occorre dialogo e pazienza, la violenza genera solo altra violenza. E non è certo un caso che il Dalai Lama stesso abbia minacciato le sue “dimissioni”, se la situazione dovesse degenerare, per la violenza dei cinesi, ma anche dei suoi stessi tibetani. Cosa voglia dire per questi ultimi “perdere” ufficialmente il loro leader spirituale non si sa bene, ma potrebbe essere la scintilla che accende qualcosa di molto più serio di quanto finora accaduto. I tibetani non hanno avuto finora un leader, un uomo carismatico interno al Tibet che potesse catalizzare la protesta verso forme più organizzate ed è stata da una parte una debolezza, ma dall’altra – come faceva notare la rivista Limes – una piccola forza, dovendo in questo modo le forze militari e di polizia cercare di reprimere focolai di protesta più spontanei e diffusi e quindi meno controllabili di un vero e proprio “esercito di liberazione”. L’Everest dal Tibet Allo stesso modo ho faticato a riconoscere la periferia di Lhasa lo scorso anno, dopo essere stato un paio di stagioni senza andarci. Il modello di sviluppo è lo stesso: una crescita metastatica di edifici-strade-piazze applicata ad un territorio, il Tibet, che è l’esatto opposto, perché fatto di grandi spazi, per popolazioni nomadi. Ed è la velocità di questa crescita a stupire di più, a Pechino come a Lhasa. 44 L’altro elemento che, mi pare, sia emerso, è un certo grado – crescente - di insofferenza nei confronti della politica del Dalai Lama sulla questione tibetana: una ricerca di Certo è difficile pensare che gruppi spontanei di resistenti tibetani possano tenere testa a migliaia di militari cinesi armati – che pare stiano convergendo sulla capitale del Tibet. Anzi, i rastrellamenti casa per casa delle ultime ore e gli arresti di massa, hanno già dimostrato quale piega stia prendendo la protesta dei tibetani. Ma in questi giorni sono per lo meno riusciti nell’intento di suscitare proteste e solidarietà in tutto il mondo, sono riusciti in qualche modo a graffiare quella patina di “civiltà” che con le Olimpiadi la Cina cercava di stendere sulla propria immagine. Chiunque di noi guarderà i Giochi Olimpici il prossimo agosto, non potrà fare a meno di pensare a ciò che è successo in questi giorni. Boicottare o non boicottare? È questo il dilemma. A parte che non è certo un dilemma perché nessun paese lo farà, non credo sia tanto una questione di boicottaggio, per quanto personalmente lo riterrei un atto coraggioso ed 45 dialoghi dialoghi auspicabile. Le Olimpiadi 2008 semplicemente non andavano affidate alla Cina, in quanto paese che sistematicamente vìola i diritti civili. E non solo per quel che riguarda il Tibet. Il fatto è doppiamente vergognoso se si pensa che la scelta è palesemente legata alla volontà delle nazionai occidentali di assecondare i desideri di legittimazione di un partner economico tra i più potenti. Ho pensato seriamente in questi giorni difficili e convulsi, come professionista che lavora in Tibet con gruppi di alpinisti e viaggiatori, se non fosse il caso di smettere di andare in Tibet; smettere di sostenere in qualche modo, con il nostro lavoro ed i nostri soldi, un sistema che reprime un popolo. Boicottare l’alpinismo in Tibet come le Olimpiadi? Sarò sincero, non ho una risposta certa. L’istinto mi farebbe scegliere di chiudere. Ma siamo davvero sicuri che non sarebbe una fuga? L’abbandono di un popolo che, ora più che mai ha bisogno di non essere dimenticato, che ha necessità che la gente veda come vive e come viene trattato? Ho cominciato ad andare in Tibet nei primi anni novanta, pochi anni dopo l’apertura della regione al turismo, avvenuta nel 1987. Ho continuato ad andarci, prima da viaggiatore e poi da organizzatore e non ho mai smesso di amarlo. Né i suoi spazi, nè la sua gente. Forse rinunciare al Tibet potrebbe essere una temporanea scelta di protesta, non credo possa essere una scelta definitiva. Per ora i cinesi hanno scelto per me, per tutti. Il Tibet è chiuso, sia da terra che dal cielo. Niente Everest, niente Cho Oyu e, dopo gli scontri di Lhasa, niente Shisha Pangma. Hanno persino ottenuto una temporanea chiusura dell’Everest sul versante nepalese: la globalizzazione dell’imbecillità. Più realisticamente centinaia di migliaia di dollari nelle casse del governo di Kathmandu, giusto per il disturbo. Dal 1° al 10 maggio, dunque, giù dalla montagna tutti gli alpinisti: a bere birra a Lobuche o Pheriche, in attesa che un qualche Piccolo Timoniere ramponato guidi la fiaccola sulla vetta del Qomolongma, la Dea Madre della Terra. Povera Madre, forse rimpiangerrà il giorno in cui ha partorito. Manuel Lugli 46 Il Tibet e le cronache dall’Everest incatenato Salgo, arranco, bestemmio, sbuffo. Passo ancora un crepaccio nero su una traballante scaletta di alluminio fissata (?) da un paio di precarie viti da ghiaccio agli estremi. Mi fermo, respiro, sospiro, guardo in alto. Sono quasi fuori dall’immenso labirinto del ghiacciaio. Mordo il ghiaccio con le punte dei ramponi ed infine mi siedo sul labbro superiore dell’Icefall. Prendo fiato, mi rialzo, vedo le tende del campo 1 e riparto. Quando alzo gli occhi vicino alle tende, non mi aspetta un compagno, non uno sherpa, ma un soldato. Armato. Che mi dice che non posso salire oltre. Almeno fino al 10 maggio. Bestemmio, sputo, sbuffo. Lo mando a cagare – anche se non c’entra niente il povero ragazzetto nepalese - e stramaledico i cinesi – che invece c’entrano moltissimo. Brandelli di cronaca possibile, anzi quasi certa, che arriva dall’Everest. La situazione sarebbe quasi comica se non ci fosse un filo rosso tragico che lega il tutto: i morti, gli arresti e gli oppressi del Tibet. Al campo 1 dell’Everest pare davvero che gli alpinisti trovino militari armati a fermarli, per evitare ogni possibile “dissidenza” anti-cinese sulla montagna. Quel che è certo è che il governo nepalese ha dispiegato forze in abbondanza in tutta la valle del Khumbu per controllare la situazione dell’Everest. Verso l’Island Peak I controlli iniziano già a Lukla sui materiali delle spedizioni e continuano alla porta del Parco del Sagarmatha a Monjo, dove militari e polizia perquisiscono tutti gli zaini di trekkers ed alpinisti alla ricerca di telefoni satellitari, sistemi di trasmissione dati e soprattutto bandiere del Tibet, striscioni di protesta ed ogni altro supporto anti-cinese. Questo non impedisce a noi, in trek verso il Renjo La, lungo la valle di Thame e del Cho Oyu che porta verso il Tibet, di regalare ad alcuni commercianti di Namche Bazaar – quasi tutti di origine tibetana - tre-quattro bandiere del Tibet appositamente portate allo scopo. Ma noi siamo entrati abbastanza presto e per di più lungo la valle del Cho Oyu, poco frequentata. Più la stagione entra nel vivo e più i militari, ed i controlli, aumentano in tutti i principali centri della valle dell’Everest. 47 dialoghi Quando poi gli alpinisti arrivano al campo base, i militari perquisiscono ancora e chiedono la consegna di ogni sistema di comunicazione satellitare (telefoni ed antenne satellitari per connesioni con la rete) e delle videocamere digitali. I telefoni vengono messi a disposizione dei legittimi proprietari per le loro comunicazioni dalle 13 alle 15. Fine. Ogni altra soluzione è fuorilegge. Qualcuno tenta di sfuggire e non dichiara il telefono; altri nascondono qualche striscione pro-Tibet. La pena per tutti è la stessa: sequestro di ogni cosa e cancellazione del permesso di salita. Come dire 15.000 € buttati nel cesso. Che vuoi farci, è la guerra, baby. 48 Al campo base ci sono anche alcuni cinesi. Un giorno, verso la fine del nostro trek, li vediamo sbarcare da un elicottero militare a Lukla, in compagnia di alti ufficiali nepalesi che li hanno scortati al campo base per controllare che tutto fosse tranquillo. Veniamo anche a sapere che i cinesi avevano fatto richiesta di un permesso di salita ufficiale per il versante nepalese, così da controllare direttamente sulla montagna che nessuno li contestasse. Poi la cosa è rientrata; evidentemente anche il governo nepalese ha un minimo di senso del pudore. Certo l’indignazione per una resa così incondizionata dei governanti nepalesi alle richieste cinesi rimane, ma d’altronde chissà quali poderose leve economiche avrà mosso il governo di Pechino nei confronti del povero, traballante Nepal… dialoghi Noi continuiamo il nostro trek verso l’Island Peak, 6.189 metri, ciliegina sulla torta del nostro viaggio. Nessuno controlla la valle che va verso Chukung e quindi ci permettiamo di continuare la nostra minuscola, personale campagna pro-Tibet esponendo una bandiera tibetana al campo base dell’Island Peak e poi di nuovo a 6.000 metri, poco sotto la cima dell’Island Peak. In cima no, perché questa primavera la cima dell’Island Peak non c’è, o meglio, c’è ma è larga non più di due metri quadri ed in piedi non ci si sta (anche per il vento). Siamo di fronte all’immensa parete sud del Lhotse, con una giornata che più bella e tersa non si può. Se qualcuno fosse già in cima al Lhotse vedrebbe la nostra minuscola macchietta colorata quaggiù. Ad un certo punto sentiamo rombare in distanza un elicottero: azz! ci hanno beccati, ora ci intimeranno di arrenderci e consegnarci senza fare resistenza. Ci vediamo già in ceppi, in un campo di rieducazione del Guandong a studiare il pensiero del Grande Timoniere. Ma l’elicottero prosegue con decisione verso il Makalu. Sapremo poi che si dirigeva a soccorrere un altro elicottero che schiantatosi al campo base del Makalu – per fortuna senza vittime. Scendiamo al campo base soddisfatti per la salita e le foto. E, sempre ammirando la parete sud del Lhotse, che dal basso è ancora più impressionante, pensiamo con un brivido a quel che accadrà il 10 maggio, quando finalmente scadrà la “moratoria” dell’Everest. Quando quattro-cinquecento alpinisti e sherpa (ci sono 47 spedizioni al campo base) incazzati, stanchi di scendere a Gorak Shep e Tengboche per far passare il tempo, col sacro fuoco della salita al culo più ardente che mai, si fionderanno tutti insieme – o quasi – verso l’alto, ad occupare campi, corde, pendii e creste. Nelle risicate “finestre” climatiche che classicamente contraddistinguono le salite all’Everest e che raramente sono più di due. Pieni di cose da fare: salire, montare i campi sopra il 2, finire l’acclimatamento alto, filmare, fotografare, comunicare, aggiornare siti, telefonare. Tutto in tre settimane circa. Solo gli spiriti dell’aria e dell’altitudine possono sapere. Tutti gli altri possono solo incrociare le dita e sperare che il tempo sia clemente e non s’inventi una di quelle tempeste perfette che ogni tanto rasano i pendii del Sagarmatha. Ed innalzare un pensiero triste alla sola cosa che ancora una volta sia riuscita ad innalzarsi vertiginosamente sopra la magnificenza delle alture himalayane: la stupefacente stupidità dell’uomo. Manuel Lugli 43 dialoghi di Marco De Zuani Ghiaccio e Fuoco 50 L’Italia brucia e non solo…intere nazioni interessate da vasti incendi, vittime del fuoco, siccità…notizie entrate spesso nelle nostre case durante l’estate appena trascorsa. E l’inverno?...minimi storici di precipitazioni, record di temperature nel nord d’Europa. C’è un evoluzione in corso o va veramente di moda, nel mondo giornalistico, parlare di clima? Probabilmente entrambe le ipotesi sono veritiere, non è una novità infatti che questi argomenti facciano ormai presa sul grande pubblico, tanto più se le notizie sono catastrofiche. Qualcosa però sta realmente succedendo, ma ne stiamo davvero comprendendo cause ed effetti? Capire le dinamiche meteo-climatiche è un impresa molto difficile e se, alle già molte variabili presenti, aggiungiamo anche quella del famigerato effetto antropico, districarsi diventa quantomeno complesso. Delle tante dette, una cosa sembra mettere d’accordo i maggiori esperti in fatto di clima: il nostro pianeta sta diventando più caldo, lo sta facendo più velocemente rispetto al passato e a quello che molti si aspettavano. In tutto questo ingarbugliarsi di notizie, allarmismi, errate certezze e dati di fatto, seduti a tavolino a pianificare una salita, nell’indecisione di preferire un itinerario o l’altro per ragioni di sicurezza, a ben pochi alpinisti sarà venuto in mente il particolare e curioso nesso esistente tra ghiaccio e fuoco. Un legame tra freddo e caldo? Ma ghiaccio e fuoco non sono agli antipodi? Ma se al posto delle fiamme pensiamo al grande calore naturale presente all’interno del nostro pianeta e se immaginiamo le due realtà come conseguenza l’una dell’altra, il vincolo non apparirà più così azzardato. Ebbene si! Il connubio pare proprio esistere e arriva addirittura dalle viscere della Terra! Ma per comprendere meglio come possa esistere questo legame dobbiamo fare un po’ di chiarezza. Dagli strati interni della Terra (Mantello e Nucleo) arrivano in superficie ondate di materiale parzialmente fuso che si raccoglie in particolari serbatoi, le camere magmatiche. Periodicamente queste tasche di roccia fusa diventano instabili, si fratturano ed il materiale trova una via d’uscita verso l’alto… nascono così vigorose eruzioni vulcaniche. Alcune di queste, quelle con i magmi più ricchi in silice e gas, danno origine a violente esplosioni che proiettano nell’atmosfera migliaia di tonnellate di ceneri e polveri. Spinte a svariati chilometri di altezza, queste particelle rimangono in sospensione a lungo e, trasportate dai venti, possono viaggiare da un luogo all’altro del nostro pianeta. Se emessi in grandi quantità, i materiali qui descritti dialoghi possono costituire una sorta di schermo riflettente, che respinge nello spazio parte dei raggi solari. Conseguenza? Meno energia riesce a raggiungere le parti basse dell’atmosfera, il che significa temperature medie più basse. Per cercare conferma a quanto affermato possiamo pensare ai ghiacciai delle nostre Alpi e allo loro ultima fase di ragguardevole espansione. Dati scientifici, dipinti e documenti storici ci riportano subito a quella che viene comunemente chiamata la “Piccola Età Glaciale” (14001850). Pensiamo ora alle maggiori eruzioni vulcaniche storicamente documentate: krakatoa, Pelèe, Tambora, Laki, Askia, Katmai, Hekla….tutte tra il 1400 e l’inizio del 1900. Una certa correlazione sembra proprio esserci, nonostante l’idea si presenti quanto meno bizzarra. Ovviamente i grandi cambiamenti climatici non dipendono solo dai vulcani, per una vera glaciazione occorrono mutamenti a più vasta scala, spesso collegabili alle dinamiche astrali e alla deriva dei continenti, eventi difficilmente apprezzabili in tempi umani. Per molti alpinisti ed appassionati di montagna però sarebbe già entusiasmante ritornate ai lunghi inverni nevosi e alle pareti incrostate di ghiaccio di pochi secoli fa, quando fantasia ed audacia potevano trovare infinite vie verso il cielo. Etna, crateri sommitali in un periodo di relativa quiescenza 51 dialoghi la nostra storia Gastone Scalco (05/09/1920 – 26/01/1998) 52 Detto ciò, dovremmo forse aspettare per nuove grandi eruzioni? Forse, ma ci sono altre molteplici variabili e possibili combinazioni, in un pianeta incredibilmente dinamico e in continua evoluzione. Ciò che lo studioso, il geologo, l’alpinista e il viaggiatore possono oggi affermare con sicurezza è che la Terra è caratterizzata da sistemi ambientali di difficile lettura, fondati su delicati equilibri. I mutamenti possono essere drastici, duraturi ed, in alcuni casi, addirittura permanenti. La certezza che in questi ultimi decenni sembra emergere è la sempre più studiata interazione tra le attività umane e i processi ambientali. Ma non conoscendo in modo completo né effetti né meccanismi di tali fenomeni, cosa può fare ognuno di noi? La risposta a questo complesso quesito, paradossalmente, appare oggi abbastanza intuitiva: diminuire il nostro impatto, utilizzare meno energia di origine fossile (petrolio e derivati), svilupparsi in modo eco-sostenibile. Tutto questo, nel 3° millennio, è possibile sulla carta, ma ancora di non facile realizzazione, richiedendo notevoli sforzi educativi e tecnologici. Le innovazioni socio-culturali necessarie a queste profonde svolte politico-economiche sono oggi, più che mai, necessarie per prospettare alle nuove generazioni il privilegio di poter godere a lungo delle incredibili risorse del pianeta che ci ospita. E chissà…un nostro futuro nipote si troverà a rivivere la prossima “piccola età glaciale”, quando l’alpinismo sarà forse superato e si leggerà sui libri di storia di un passato recente, dove l’inverno sembrava perduto e gli uomini del tempo cercavano una connessione tra “ghiaccio e fuoco”. Marco De Zuani Geologo - Guida Naturalistico-Ambientale Aveva solo vent’anni, Gastone, quando il 3 agosto 1941 si legò in cordata con Toni Bettella ed attaccò la spaventosa muraglia sud ovest dell’Antelao. Cinque terribili giorni sferzati dal maltempo, cinque freddissimi bivacchi, ed una determinazione quasi inumana. Una caparbietà stoica e feroce, ed un unico obiettivo, la cima, e ancora e solo la cima per una via totalmente nuova. Mille metri di quinto e sesto grado, una montagna mitica, ed un’impresa che farà scalpore suscitando stupore ed ammirazione. Le foto ci mostrano un ragazzo quasi imberbe accanto al mastodontico e più maturo compagno. Ma Gastone ha spalle larghe e stoffa da vendere e non gli difettano né il carattere, né la forza. Per questa impresa “il Duce, su proposta del Presidente del Coni” conferisce la medaglia d’oro al valore atletico ad Antonio Bettella in qualità di capocordata e la medaglia di Leri Zilio Ghiacciaio del Mandrone (Adamello) il più vasto apparato del versante italiano delle Alpi. Le frecce indicano le morene laterali della colata durante la Piccola Età Glaciale, quando la lingua scendeva copiosa in Val Genova, per arrestarsi poco a monte del rifugio Bedole (1600m) Bettella e Scalco all’attacco della via sulla parete sud ovest dell’Antelao il 3 agosto 1941 53 la nostra storia Gastone Scalco con Guerrino Barbiero. Quest’ultimo sarà protagonista, ancora a ssieme a Toni Bettella, di un’altra importante impresa sulla sud ovest dell’Antelao Gastone, assieme ad alcuni amici, con l’inconfondibile cappello degli alpini all’inaugurazione del bivacco Cosi all’Antelao 54 d’argento a Gastone Scalco come valido secondo. Un’onorificenza che non verrà loro mai consegnata. Un’ingiustizia bella e buona a cui il Coni non volle porre rimedio neanche quarant’anni dopo nonostante le sollecitazioni di Armando Ragana. Il nostro presidente allora, stanco di aspettare e perorare inutilmente e d’accordo con il consiglio direttivo della sezione, farà coniare le medaglie sulla stessa falsariga di quelle originali d’epoca. Il 9 maggio 1999, con una breve e toccante cerimonia, le consegnerà alla vedova di Scalco ed al figlio di Bettella. Purtroppo entrambi se ne erano già andati, Bettella per un tragico incidente in parete nel lontano 1944, e Gastone nel gennaio del 1998, dopo una breve malattia. La signora Wally sorride con tristezza raccontandomi queste cose e mi dice di come il suo Gastone si sarebbe schermito ad una cerimonia di tal fatta. Modesto e ruvido com’era evitava le onorificenze, anche se poi la sua professionalità e la sua rettitudine morale facevano sì che le meritasse e gliele conferissero. Ecco allora il Cavalierato per particolari benemerenze nel 1992 e l’onorificenza argentina, il Condor, dopo l’impresa del Tupungato (1980). E la vittoriosa impresa in Sudamerica, con Scalco capo spedizione, ci riporta all’alpinismo ed al Cai, ma soprattutto alla Scuola di Alpinismo. Scuola con l’iniziale maiuscola, Scuola che aveva fondato con Bianchini, Bettella, Sandi ed altri nel 1937 e che nacque ufficialmente con il 1° Corso di Roccia nel 1938. Si sviluppava in maniera organica ed ufficiale l’embrione dei “mati delle corde”, quei simpatici scavezzacollo che imperversavano dalla parti di Rocca Pendice, tracciando sempre nuovi e più arditi itinerari. Partivano da Padova in bicicletta alle prime luci dell’alba e poi, mai domi, mai stanchi, eccoli tracciare la “Direttissima” della parete est (6 ottobre 1940) e ancora vie sulla parete ovest (1942), sul Monte Pirio (1939). La Scuola occuperà un posto fondamentale nella vita di Scalco, egli ne farà sempre parte in maniera attiva ed energica e la dirigerà per ben quattordici anni dal 1967 al 1980. Armando Ragana lo ricorda come un uomo di rettitudine ed onestà eccezionali, schietto e sanguigno, focoso ed appassionato nel sostenere le proprie idee. Una persona animata sempre e comunque da una passione smisurata per la Scuola, con gli ideali ed i compiti che essa si proponeva di perseguire. È vivo in Armando il ricordo di quel 29 agosto 1973 all’inaugurazione del bivacco Brunetta, ai piedi dell’Antelao. Mentre alla base della parete si svolgeva la cerimonia, Armando con Nino Portolan saliva la Phillimore, e l’amico Scalco, il “vecio” Scalco, lo seguiva trepidante con il binocolo. Gli sembra di udire ancora la sua voce che durante i la nostra storia contatti radio lo ammoniva ad essere sì veloce per uscire in giornata, perché bivaccare sull’Antelao non è mai piacevole, ma comunque prudente, di tenere gli occhi bene aperti, perché il “Colosso” poteva sempre combinare qualche brutto scherzo. Come a lui in quel lontano 1941. Anno fatidico perché in ottobre, solo pochi mesi dopo la grande impresa, egli parte per la Scuola Militare Alpina di Aosta. Inizia per lui l’avventura della guerra che lo vedrà prestare servizio su vari fronti e che per un puro caso non lo vedrà coinvolto nella tragica spedizione in terra di Russia. Si congederà sergente e per tutta la vita sarà legato agli alpini e ai valori che essi rappresentano. Sarà per molti anni vicepresidente della Sezione Ana di Padova e trasmetterà ai due figli e ai nipoti, tutti alpini, la stessa passione per il sodalizio. Anche noi alpinisti amiamo ricordarlo col classico cappello piumato, figura romantica di un tempo che fu, il tempo dei nostri padri, dei nostri nonni, cartoline color seppia che profumano di cose buone e semplici, ormai irrimediabilmente lontane. Leri Zilio Sopra: Gastone Scalco con Toni Gianese Sotto: Gastone in età avanzata con la moglie Wally 55 la nostra storia Antonio Berti Co-fondatore del Cai Padova Antonio Berti a diciassette anni 56 Quest’anno ricorre il centenario della nascita della nostra sezione del CAI. Il 4 febbraio del lontano 1908 un gruppo di intellettuali, con a capo il Conte Avvocato Antonio Cattaneo, si riunì “all’ombra del Bò” e diede vita a quello che sarà uno dei sodalizi più importanti d’Italia. Fra gli “illuminati” c’era l’allora studente di medicina Antonio Berti, che proprio tentando la scalata alla Est di Rocca Pendice con altri amici, pensò alla costituzione della sezione patavina. Tutti conosciamo l’epia scalata svoltasi nel marzo del 1909 con la coppia dei Carugati, Rossi ed appunto il nostro Berti, che anche in quel caso riuscì a lasciare la sua firma partecipando all’apertura di un itinerario che dovrà iniziare all’epoca alpinistica a Rocca Pendice. Il 1908 è anche l’anno in cui Antonio Berti dà alle stampe, sotto gli auspici della sezione veneziana del CAI, il volumetto “Le Dolomiti del Cadore - guida alpinistica”. È la prima guida alpinistica organica italiana che viene pubblicata sulle Dolomiti. Prima di allora su questo tutto speciale settore delle Alpi esistevano dei validi lavori solo in lingua straniera. Una guida italiana era quindi molto attesa e il volume fu accolto molto favorevolmente. Antonio Berti nacque a Venezia i 17 gennaio 1882 e si trasferì a Padova per frequentare l’università e conseguire la laurea in medicina e chirurgia. Visse a lungo dedicandosi all’insegnamento e alla carriera scientifica presso l’Università conseguendo la docenza in fisiologia umana, Patologia speciale medica e Chimica medica. Si avvicinò all’alpinismo alla fine dell’800 e per tutta la vita coltivò questa passione con un impegno straordinario sia sul campo dell’attività sportiva vera e propria, sia sul campo culturale e divulgativo. Il “papà degli alpinisti veneti”, come fu definito dal giurista e alpinista veneziano Alberto Musatti, fu sicuramente la figura di maggior rilievo nell’alpinismo dolomitico dei primi decenni del secolo scorso. Alpinista fra i primi, pioniere nei gruppi meno conosciuti, appassionato studioso e ricercatore di ogni avvenimento riguardante le sue montagne, coordinatore e riferimento per gli alpinisti. La sua “Dolomiti Orientali”, edita nel 1928, fu forse il primo e tipico esempio di guida completa ed esaustiva di un comprensorio alpino. Su di essa è stata poi impostata la prestigiosa collana “Guida Monti d’Italia”. Questo manuale non si concluse con l’edizione del ‘28 ma fu curato ed aggiornato nei decenni successivi anche con la collaborazione del figlio Camillo. Antonio Berti scrisse alcuni libri sulla guerra in Cadore (fu la nostra storia ufficiale medico degli Alpini), libri che sono riconosciuti quali opere di grande valore storico-militare. Alla sua morte, avvenuta a Padova l’8 dicembre 1956, gli alpinisti triveneti e la famiglia hanno dato vita a una “Fondazione” a lui dedicata. Questo per ricordare la sua memoria e non disperdere il suo eccezionale archivio di libri, foto, documenti, corrispondenza, testimonianza di una personalità eclettica, intelligente ed appassionata. Leri Zilio Bibliografia: Antonio Berti, Cantore delle crode a cura della Fondazione Antonio Berti Nuovi Sentieri Editore - Belluno Sopra: Antonio Berti di ritorno dalla sua prima conquista alla Croda da Lago Sotto: il gruppo della Croda da Lago in un tipico disegno pubblicato sulla guida Dolomiti Orientali 57 canti di guerra canti di guerra di Pier Giuseppe Trentin Pubblichiamo, in queste pagine, la seconda parte dell’importante ricerca storica del nostro socio e componente del Coro Sezionale sui principali canti della Grande Guerra. La Redazione si riserva di proporre la terza e ultima parte dello studio nel prossimo Notiziario ed invita il socio Piero Trentin di proseguire in questo importante lavoro. LA TRADOTTA Coro del CAI di Padova – armonizzazione Teo Usuelli Siam partiti in ventinove Solo in sette siam tornati qua e gli altri ventidue son sepolti tutti a San Donà. Cara suora son ferito a domani non ci arrivo più, se non c’è qui la mia mamma un bel fiore me porti tu! A Nervesa c’è una croce mio fratello è sepolto là: io ci ho scritto su Ninetto che la mamma lo ritroverà. La tradotta che parte da Milano A Verona non si ferma più ma la va diretta al Piave cimitero della gioventù. 58 Canto derivato da un antico modello in uso tra i minatori del Bresciano nel 1872-1880, quando fu scavato il traforo ferroviario del San Gottardo che collega, con doppi binari per circa 15 km, la stazione di Airolo con quella svizzera di Gòschenen. Fu adattato e diffuso tra i nostri soldati durante la guerra 1915\1918. Il canto si ispira ai fatti connessi all’offensiva austro-tedesca sferrata su tutto il fronte dall’Astico al mare il 15 giugno 1918. I combattimenti sul Piave furono definiti giganteschi; alle Grave di Papadopoli le truppe d’assalto austriache fecero uso di proiettili a gas tossici e di cortine fumogene, attraversarono il Piave e si attestarono sul Montello, tentando di puntare sulla zona Ponte di Piave – San Donà, minacciando direttamente Treviso. A Nervesa, ora Nervesa della Battaglia, si svolsero feroci combattimenti fra italiani e austriaci, con altissime perdite da entrambe le parti. canti di guerra Nervesa , ridotta ad un cumulo di rovine rimase in mani austriache, fino a quando iniziò la controffensiva italiana, poi rimase in nostre mani. Trascriviamo la versione dei minatori del Gottardo. ERAVAMO IN VENTINOVE Eravamo in ventinove solo in sete siam tornà e li altri ventidue soto i colpi sono restà. Farem fare d’un cimitero quatrocento metri quadrà per quei poveri minatori soto i colpi sono restà. E le povere vedovele le và ‘n ciesa per pregar per la perdita del marito la pensione le g’ha ciapà. Maledet si-à ‘l Gotardo gli ingegneri che l’han progetà per quei poveri minatori soto i colpi sono restà. Un’altra versione della Tradotta – treni di guerra – dove i vagoni bestiame (cavalli 8, uomini 40), si alternavano a vetture di prima e seconda classe, treni che lentamente attraversavano valli e monti, portando tanta bella gioventù verso il fronte. Suona suona l’adunata suona ch’e giunta l’ora che la tradotta parte; deve partir l’amante mio più caro per il fronte e mai più lo rivedrò! È la tradotta che parte da Milano a Bassano non si ferma più, ma la va diretta a Valsugana dov’è il macello della bella gioventù Rammento sempre quelle belle sere che passavo con il mio bell’alpino: piangeva sempre quand’era a me vicino, ed il motivo non lo posso mai saper! 59 canti di guerra LA TRADOTTA CHE PARTE DA NOVARA La tradotta che parte da Novara e va diretta al Monte Santo e va diretta al Monte Santo il cimitero della gioventù. Sulle montagne fa molto freddo ed i miei piedi si son gelati ed i miei piedi si son gelati e all’ospedale mi tocca andar. Appena giunto all’ospedale Il professore mi ha visitato o figlio mio sei rovinato e i tuoi piedi li dobbiam tagliar. E i miei piedi mi hanno tagliato due stampelle mi hanno dato due stampelle mi hanno dato e a casa mia lor mi han mandà. Appena giunto a casa mia fratelli e madre compiangenti e tra i singhiozzi e i lamenti o figlio caro tu sei rovinà. Mi hanno assegnato una pensione di una lira e cinquantotto mi tocca fare il galeotto per potermi ben disfamar. E infine una versione raccolta nel Bresciano nel 1998. ALLE CINQUE DEL MATTINO (La tradotta) Alle cinque del mattino minatori che van lavorar apena giunti in esercisio una mina gh’è scupiat. Eravamo in ventinove Solo in sette ci siam salvat e gli altri ventinove son cascati giù nel mar. E ‘ste povere vedovelle sempre piangere sospirar la passion dei suoi mariti je cascati giù nel mar ……………………………….. ………………………………. E ‘ste povere vedovelle l’nvà in chiesa a pregar se ghe capita l’amante le se turna a maridà. Ho girato tutti i paesi e tutti quanti ne hanno compassione ma quei vigliacchi di quei signori nemmeno un soldo lor mi hanno dà. 60 Questa versione ispirata dal canto militare , è entrata nel primo dopo guerra nel repertorio delle mondine. Probabilmente deriva da un cosidetto “foglio volante“, usati dai cantastorie che giravano di paese in paese, e che davano agli spettatori per far capire meglio il loro canto. (cfr. I Dischi del Sole – Milano – DS 119\2). Chiaramente le ultime strofe contengono motivi di contestazione contro la guerra e contro quei signori (ministri?) che l’hanno voluta. 61 canti di guerra Il Coro del CAi di Padova – Disco Durium “Canti degli Alpini“ IL TESTAMENTO DEL CAPITANO (armonizzazione Gianni Malatesta) El capitan de la compagnia e l’è ferito e sta per morir, e ‘l manda a dire ai suoi Alpini, perché lo vengano a ritrovar. I suoi Alpini ghe manda a dire che non han scarpe per camminar, o con le scarpe o senza scarpe i miei Alpini li voglio qua. Cosa comandalo siòr capitano, che noi adesso semo arrivà? E io comando che il mio corpo In cinque pezzi sia taglià. Il primo pezzo alla Bandiera, secondo pezzo al battaglion, il terzo pezzo alla mia mamma che si ricordi del suo figlio alpin. Il quarto pezzo alla mia bella che si ricordi del suo primo amor, l’ultimo pezzo alle montagne che lo fioriscano di rose e fior. Canti della Grande Guerra – vol. 2 – a cura di Savona e Straniero Una delle versioni del “Testamento del capitano“ nata nella seconda guerra mondiale, è quella dedicata da un gruppo di Alpini del 7° reggimento al loro comandante colonnello Rodolfo Pesaro, caduto in Albania l’ 8 dicembre 1940. La melodia è la stessa del testamento, ma il testo è totalmente modificato. Trascriviamo le prime tre strofe delle undici pubblicate. canti di guerra IL COLONNELLO FA L’ADUNATA Il Colonnello fa l’adunata negli occhi tutti el ne g’ha vardà e poi ha detto ai veci Alpini di tener duro n’ha comandà. I suoi Alpini ghe fa risposta Sior colonnello se tegnarà e scarpinando sulle montagne in prima linea i s’ha portà. E per do mesi i ha tegnù duro In mezzo al freddo da far giassar scoltando sempre le sue parole: “Sacrificarsi ma non mollar“. “Canti popolari Trentini“ raccolti da Silvio Pedrotti SIOR CAPITANO DELLA SALUTE Sior Capitano della salute che s’è malato a far l’amor ghe manda a dire ai suoi soldati che i lo vegna a ritrovar. Li suoi soldati i ghe manda a dire che no gh’è barca da imbarcar . Ghe sia barca, no ghe sia barca li miei soldati li voglio qua. Alla mattina ben a bonora li suoi soldati i era là. Cosa ‘l comanda , sior Capitano che ‘l n’à mandati a richiamar? Ve raccomando questa mia vita che in quattro parti la sia taglià. La prima parte al re di Francia e la seconda al battaglion. E po la terza a Margheritina che la se recorda dell’amor. E po la quarta a la mia mama che la se recorda del so figliol. 62 63 canti di guerra Se mi scampassi anca cent’anni mai più l’amore coi militar. Pinzolo, settembre 1886. Pubblicata da N. Bolognini in “XIII Annuario S.A.T.“ Francesco A. Ugolini in “La poesia provenzale e l’Italia“ nel commento al compianto di morte di ser Blacas di Bordello (XIII secolo), ricorda l’antico motivo popolaresco del “Testamento del Capitano“. Pablo Neruda, famoso poeta cileno (1904 – 1973), nelle sue memorie “Confesso che vissuto scrive: “C’è un vecchio tema della poesia folkloristica che si ripete in tutti i nostri paesi. Si tratta del “cuerpo repartido“. Il cantore popolare immagina di avere i piedi in un posto, il cuore in un altro, e descrive tutto il suo organismo che ha lasciato sparso per i campi e città. Io in quei giorni mi sentivo così“. Queste note sono riportate da Silvio Pedrotti nella sopracitata raccolta “Canti popolari Trentini“. Ma chi ce lo fa fare Ma chi ce lo fa fare, di alzarci presto la mattina, dopo una stressante settimana di scuola, per poi tornare a casa ancora più distrutti? Il motivo è molto semplice, perché durante il giorno ci divertiamo tantissimo! di Silvia Giordano Margheritina l’è sulla porta la casca ‘n terra dal gran dolor. Leva sù, leva su Margheritina che l’è ‘qua ‘l tuo primo amor. alpinismo giovanile alpinismo giovanile Ciò che sto per raccontarvi, ha dei personaggi nonché i nostri accompagnatori, che adesso elenchiamo, così quando leggerete capirete meglio: Nicola: re Davide: regina Nicolas: lady oscar Pietro: cavallo di andrè Sandro: cavallo di lady oscar Elena: spada1 Valeria: spada2 Gianni: papà di lady oscar Tutto incominciò una calda mattina d’estate. Dovevamo trovarci al piazzale Azzurri d’Italia, alle 6.30, per partire alla volta del lago Fedaia; in pullman, tutti sonnecchiavano almeno per la prima mezz’ora di viaggio poi… è iniziato il caos! Appena arrivati, abbiamo mangiato qualcosa, e subito dopo è iniziata la salita per la via del Pan, 400m di dislivello, che fatica! Ma alla fine, ognuno con il suo passo è arrivato fino al rifugio Fredarola. Eravamo tutti morti, bisogna dire però che il panorama era davvero incantevole; abbiamo pranzato e fatto un po’ di pausa. Intanto il re ci ha diviso in due gruppi per il giorno seguente: il primo sarebbe partito alle otto di mattina e avrebbe fatto tutta la salita del Piz Boè a piedi, mentre il secondo avrebbe preso la funivia del passo Pordoi e dal rifugio Maria avrebbe continuato fino alla cima. 64 Successivamente abbiamo ripreso il cammino, fino ad arrivare (con nostra grande gioia) all’hotel che ci avrebbe ospitato per la notte. Il pullman era già lì, abbiamo preso le nostre cose, ci hanno diviso per stanze e poi finalmente abbiamo avuto un po’ di tempo libero. La sera dopo aver 65 alpinismo giovanile mangiato ci siamo ritrovati nella hall, per passare la serata. Un po’ di ragazzi si sono messi a guardare la tv, mentre gli altri, insieme agli istruttori, hanno fatto i nodi 8 (evitiamo di parlarne!); in seguito abbiamo giocato, con dei giochi che c’erano nell’hotel, poi ci siamo diretti a letto. Il giorno dopo, ci siamo alzati alle sette (noi non eravamo tanto d’accordo!), abbiamo fatto colazione e in seguito il primo gruppo con il re, il cavallo di lady oscar, la spada2 e il papà di lady oscar, si è incamminato per il ghiaione del Piz Boè, mentre il secondo gruppo con lady oscar, la regina la spada1, e il cavallo di andrè, ha aspettato fino all’apertura della funivia, per poi arrivare al rifugio Maria (2950m), dopodiché sono scesi e hanno raggiunto il rifugio forcella Pordoi (2829m). Nel frattempo il primo gruppo li stava quasi raggiungendo. Dopo esserci riuniti, siamo saliti insieme, fino al rifugio capanna Fassa (3152m), dove abbiamo mangiato. Il panorama era bellissimo, meraviglioso… fatto tutte le foto possibili e dopo esserci ripresi, abbiamo iniziato la discesa, fino ad arrivare al rifugio Boè (2873m), dove lady oscar, si è rimpinzato; la discesa per il ghiaione, per alcuni di noi, non è stata molto semplice, fra scivoli, e quasi cadute, alla fine siamo arrivati a valle. Non ne potevamo più… siamo saliti in pullman e abbiamo dormito… non per tutto il viaggio!!! Ora che questa avventura è finita, vogliamo ringraziare tutti gli accompagnatori, per averci sempre aiutato quando ne avevamo bisogno, per averci sopportato anche quando superavamo i limiti, per averci tirato su il morale quando era a terra, per esser sempre loro stessi, per questo l’unica cosa che possiamo dire è: GRAZIE!!!!!!!!!!!!!! SILVIA GIORDANO 67 alpinismo alpinismo Campo Base Inizia, con il ritrovo in via Natisone, il viaggio di 20 persone, estranee l’una all’altra, che hanno deciso di incrociare i loro destini per iniziare un cammino. Questo li avrebbe portati dove mai avrebbero pensato di arrivare. Quel che segue è il diario (semiserio) di quel viaggio dal quale sarebbero tornati “migliori” di come erano partiti. CAMPO BASE: diario di bordo 14 luglio 2007 ore 06.00 A.M. via Natisone, si punta verso la prima cima indicata dal vice direttore: la pasticceria di Alleghe. Dimostrando subito disciplina, senso dell’orientamento e spirito di gruppo gli allievi del 40° Corso di alpinismo si fermano ad Agordo… Le paste, comunque, erano buone. Ore 10.00 A.M. si arriva al campo base (cielo terso, temperatura gradevole, bevande annacquate…). Scaricati i 100 e più kg a testa si punta arditamente verso la “città dei sassi”; comincia così la nostra avventura alpinistica. Entro sera si torna al nostro C.B. altresì “Centro di Formazione B. Crepaz” (il nome suscita più di una perplessità…). Il corso è proseguito sul piano alimentare con una dieta severa che niente aveva da invidiare a quella “eroica” servita nella Tenda Rossa di storica memoria. 15 luglio 2007 ore… tanto presto. Raggiunto campo 1 situato in un punto indefinito del ghiacciaio della Marmolada (la lezione di orientamento sarebbe sopraggiunta solo dopo tre giorni) per assistere al balletto di Giovanni sul passo a croce e ai tuffi di Paolo che poco prima aveva ridotto severamente al silenzio le voci dissenzienti degli altri Istruttori. Fine giornata: recuperato zaino ed effetti personali di tale Sergio Carpesio… alpinismo 19 luglio 2007, campo 4, la Marmolada: i più fortunati raggiungono Punta Penia, quelli un pelino meno Punta Rocca. Si vocifera di ritiri a mezza costa. 20 luglio 2007, campo 5, salita lungo la ferrata Tridentina. Armati di tutto punto ci siamo “liquidator” la salita in tempo utile per assistere al bagnetto di Anitona Ekberg nel fortunato laghetto Pisciadù. 21 luglio 2007, il ritorno… in città per molti, alla città dei sassi per i più nostalgici, che nel pomeriggio hanno ritrovato il meritato riposo nella, mai dimenticata, pasticceria di Alleghe, mentre un mesto diabolico coupè procedeva senza aria condizionata verso il forno della pianura padana. Epilogo: Queste esperienze, sulle quali abbiamo scherzato, sono state per noi occasione di crescita e soprattutto hanno visto nascere un gruppo di amici che, è speranza di chi scrive, faranno di questo campo base la prima tappa di una lunga salita insieme. Ringraziamenti: a Paolo Bassanese e Nazareno Cavinato, direttori in pectore e vera spina dorsale di questo corso, a papà Sergio Carpesio anima e tutore di tutti gli allievi. E agli istruttori tutti che con perizia, pazienza e dedizione ci hanno iniziati alla grande avventura chiamata Alpinismo. Gli Allievi del 40° Corso Alpinismo del CAI Padova 16 luglio 2007 poco dopo l’alba. Campo 2 Le Due Torri (del Sella). Alcuni le raggiungono altri, i gradualisti, si fermano tre metri sotto la cima e altri ancora, leggasi un istruttore, tornano indietro a recuperare la corda dimenticata severamente in auto. 17 luglio 2007, campo 3. Cima del sasso Piatto lungo la via Schuster: la truppa si divide in due, i bersaglieri davanti e gli alpini dietro. I primi raggiungono la vetta con gli scarponi che fumano, mentre i secondi arrivano fumati. 18 luglio 2007, riposo. Al centro meteo di Arabba il Vice Direttore la lezione se l’è sognata. 68 69 ricordiamo A Bruno Detassis…. Re del Brenta 70 Un’altra fetta di storia dell’alpinismo se n’è volata via…l’8 maggio, alla veneranda età di 97 anni, Bruno Detassis ci ha lasciato; ci ha lasciato uno dei maggiori protagonisti dell’alpinismo di inizio secolo lasciando dietro di sé delle tracce indelebili che difficilmente qualcuno riuscirà a ripercorrere interamente. La figura di Bruno mi è particolarmente cara perché oltre che un alpinista “d’altri tempi” era una persona con la quale si dialogava volentieri di alpinismo e di filosofia dell’alpinismo, di salite ma anche di errori, di montagna e di vita in montagna. Quando all’inizio della mia attività alpinistica bazzicavo frequentemente il Rif. Brentei mi piaceva al pomeriggio, dopo aver fatto un’ascensione, sedermi e parlare con lui che immancabilmente si trovava seduto sulla panca appoggiata al muro, fuori dal rifugio ad ammirare le sue montagne e così commentavamo i vari itinerari, mi consigliava salite, mi istruiva su particolari passaggi, mi spiegava discese che a me parevano complicate. Allora le cose erano ben diverse da adesso; salire il Crozzon di Brenta e scendere prima del buio era già una gran soddisfazione e ancora più soddisfatti si era quando dal burbero Bruno, sotto la sua lunga barba si riceveva qualche sussurrato complimento. A guardarlo in faccia incuteva un po’ di soggezione, pensando poi a quello che aveva fatto e con chi aveva arrampicato il rispetto cresceva in modo esponenziale, ma a conoscerlo era una persona affabile e sempre pronto a parlare e ascoltare noi “allora giovani”, che pensavamo di stravolgere l’alpinismo e l’andare in montagna. Custode per moltissimi anni del Rif. Brentei continuò a salire ogni estate anche quando la gestione passò nelle mani del figlio ma a lui piaceva essere là, guardare con il suo binocolo gli alpinisti impegnati nelle varie vie, commentare su quel che facevano e ciondolare la testa se qualcosa non andava. Verso la metà degli anni ’80 mi trovavo al rifugio con altri amici di Padova e durante la settimana una nota marca di scarpe aveva organizzato uno stage di arrampicata e tra gli altri erano presenti anche Patrick Edlinger e Gaston Rebuffat. Oltre a osservare ad arrampicare quei “mostri sacri”, mi sono trovato ad assistere dopo qualche salita alle loro discussioni; Bruno dolomitista, Gaston occidentalista e Patrick simbolo delle nuove generazioni di arrampicatori “free”. Fino a tarda sera, di fronte a molteplici brindisi con del buon vino è stato interessante assistere a queste “discussioni” che mettevano in luce la pacatezza e la capacità di mediare di Bruno il quale con poche ma misurate parole portava la sua esperienza di alpinista di ricerca e salitore di numerosi nuovi itinerari in tutte le Dolomiti. ricordiamo E Bruno Detassis l’ho ritrovato molti anni dopo, non più seduto sulla panca del Rif. Brentei ma scartabellando riviste, guide, resoconti e scritti nel corso della stesura delle Guide CAI TCI delle Pale di S. Martino. Mi sono così imbattuto nuovamente in questo personaggio e nella sua formidabile attività svolta in questo gruppo assieme, nella maggior parte dei casi, ad un’altra icona dell’alpinismo di quei tempi: Ettore Castiglioni. Per chi conosce a fondo le Pale è superfluo ricordare che tutte le vie tracciate dall’eccezionale coppia costituiscono ancora oggi a distanza di 70 anni delle gran classiche ripetute ogni anno da decine di alpinisti i quali ne traggono sempre uguali soddisfazioni. Basti pensare al Sass Maòr con il suo spigolo SE, la Pala del Rifugio con lo spigolo NW, la parete E del Campanile Pradidali, lo spigolo SW della Cima Wilma, la Pala Canali con la sua difficile parete S, la Cima d’Oltro e il suo spigolo NW e per finire lo spigolo SW del solitario, appartato e poco visitato Campanile d’Ostio. Allora negli anni ’30 in Val Canali si poteva parlare di alpinismo di ricerca e Bruno di ricerca ne ha fatta molta, dappertutto anche se le sue montagna preferite erano quelle del Gruppo del Brenta e dovunque è passato ci ha regalato degli itinerari che rimarranno scolpiti dentro ogni alpinista, che rappresenteranno per sempre dei paragoni con altre salite e degli itinerari cui indirizzare l’alpinista neofita con la certezza che riporterà le stesse soddisfazioni provate da noi sia che si tratti di facili percorsi che di salite estreme. Mi viene in mente di una “leggenda” che circolava al Rif. Brentei; certe volte Bruno spariva, non lo si trovava più, ma verso il tramonto eccolo arrivare per sedersi sulla panca oppure finché poteva, spaccare un po’ di legna e allora la “leggenda” vuole che quando c’era tanta o troppa gente, Bruno si dileguava e si ritirava salendo su una cengia che solo lui conosceva per ridiscendere quando il rifugio tornava tranquillo. Ecco Bruno, voglio immaginarti tranquillamente seduto su quella cengia a tutti noi sconosciuta, con la tua pipa in bocca nel gustarti una serena fumata assaporando il meritato riposo dopo aver compiuto quest’ultima salita, l’unica a non aver problemi per la discesa. Lucio De Franceschi 72 ricordiamo Andrea Minca Burlin Lunedì 16 Giugno 2008 Andrea ha lasciato i suoi cari e tutti noi per vagabondare nuovamente solitario. Solo la malattia lo ha staccato dalla sua nuova vetta che era la famiglia. Andrea ha iniziato come tutti noi, prima escursionista poi alpinista. Ha avuto un periodo intenso dove la montagna era in assoluto al centro della sua vita. Il suo andare in montagna era stato solitario in certi momenti, ma soprattutto in compagnia di tanti amici che è sempre riuscito a coinvolgere. Ora anche se qualcuno non può più frequentare la montagna ci si ritrova anche per suo merito. Ad un certo punto della sua vita ha conosciuto Lorena e in quel momento lei è diventata la sua unica e grande passione. Non ha più abbandonato neanche per un istante la sua famiglia che aveva tanto bisogno di lui. Andrea ha sempre dato molto a tutti noi.Ora tutti noi lo ricordiamo. Addio Andrea, continua il tuo cammino con i tuoi amici, Luca e Andrea, che ti hanno preceduto. Iolanda Mazzonetto Iolanda se n’è andata come ha sempre desiderato: alla chetichella, senza clamore, senza disturbare, in punta di piedi, forse anche senza soffrire. Aveva sempre detto che quando sarebbe giunta la sua ora avrebbe voluto non dar fastidio a nessuno. Il buon Dio ha assecondato il suo desiderio, ha accolto la sua preghiera. A noi sembra che sia partita per uno dei soliti, mitici viaggi in giro per il mondo. Ci avvisava che partiva quasi all’ultimo momento, quando era certa dell’evento. Quindi abituati a queste repentine decisioni, siamo ancora increduli che non possa più tornare. Questa volta ha intrapreso un viaggio senza ritorno, ma siamo sicuri che sarà il più bello perché la porterà ad incontrare tutti i suoi cari che ha amato, tutte le persone che l’hanno preceduta, soprattutto i molti amici del Cai con i quali ha condiviso momenti felici e gite indimenticabili. Gli amici della montagna l’avranno senz’altro già accolta con gioia e con loro si sarà già accordata per nuove avventure fra le celestiali vette del paradiso. Mancava solo lei per ricomporre con Vasco, Babe, Zeffiro il fantastico “poker” del mercoledì, con coloro che hanno iniziato la grande avventura settimanale dei veterani del Cai fra le amate montagne. Ora anche di lei ci rimane solo il ricordo. Ci dispiace non essere riusciti a dirle ciao un’ultima volta. L’improvvisa e rapida malattia ci ha separato della sua persona in modo brusco e crudele senza permetterci un ultimo abbraccio, un ringraziamento per la generosità, per la disponibilità, per l’amicizia che ha sempre elargito a tutti in modo genuino. Ricorderemo la cara Iolanda come l’amica con la quale ci si poteva consigliare, si poteva ridere e scherzare soprattutto quando indossava i suoi originali, buffi cappellini che sapeva scegliere accuratamente per ogni occasione. Ciao cara, vecchia, simpatica “brontolona”. Lino Marescotti 73 cronache 74