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Doron Rabinovici - Altrove

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Doron Rabinovici - Altrove
Alba Letteraria in occasione de L’Altra metà del libro 2015
presenta
Altrove di Doron Rabinovici
Il libro narra la crisi d’identità di un ebreo moderno (Ethan Rosen), laico peraltro,
studioso di fama che vive a Vienna ma è nato in Israele (in questo assomiglia
all’autore). Un uomo che non vuole o non può riconoscersi nei cliché storici o
religiosi che accomunano una popolazione notoriamente dispersa in giro per il
mondo.
A pag. 31 si legge ad esempio:
“Come mai, chiese Lydia, se un israeliano faceva una certa esternazione veniva
considerato uno di sinistra, ma se un austriaco sosteneva la stessa cosa passava per un
nazista? […] Ethan sorrise e scrollò le spalle. Michael osservò come la stessa parola
detta in ebraico e in Israele suonasse diversa se detta in tedesco e in Austria.”
Il protagonista arriva al punto di dubitare o stravolgere le proprie origini, a mettere
in discussione shoah, memoria e credo religioso. A un certo punto non saprà più chi
sia il padre, la madre, il fratello, persino lui stesso. Per rendere la vicenda più
divertente l’autore ricorre a una narrazione che si rifà chiaramente alla ben nota
commedia degli equivoci.
Il romanzo è pieno di personaggi stravaganti: già dal primo capitolo si punta il
dito contro l’ortodossia un po’ grossolana degli ebrei mistici. Durante il suo viaggio
di ritorno a Vienna in aereo, dopo aver assistito al funerale del vecchio amico-padrino
Dov Zedek, la flemma di Ethan Rosen viene messa a dura prova da un chassid, un
ebreo ortodosso appunto, dai tratti coloriti, che crea scompiglio tra i passeggeri e le
hostess. A complicare la vita del protagonista, costretto a nascondersi sotto falso
nome, concorrono anche gli altri strambi viaggiatori: per sviare l’attenzione Ethan
Rosen dichiara di essere Johann Rossauer ma viene scambiato per Danni Löwenthal.
Lo scambio d’identità che sembra quasi un vezzo ebraico o la necessità di
nascondersi da parte di un popolo eternamente oppresso, diventa una delle chiavi di
lettura del libro.
Altrettanto pittoreschi sono i familiari che si incontrano via via lungo il racconto.
Uno su tutti, il moribondo padre Felix che spicca per le stravaganze paradossali
durante la degenza in un letto d’ospedale, raffigurato con una forte vena tragicomica.
Il romanzo è pressoché uno spaccato dell’odierna società (plurinazionale) di
origini ebraiche. Ovviamente le vicende risentono delle tradizioni rivisitate in chiave
moderna. L’impostazione è ironica e sarcastica. Le critiche sono comunque velate.
Sono vivi i ricordi della shoah. Divertente è la terminologia yiddish che accompagna
la narrazione.
È curioso come gli israeliani (almeno nel libro) tendano a tacciare chiunque di
antisemitismo, di sionismo o addirittura di nazismo. Il protagonista Ethan Rosen
polemizza su un necrologio per l’amico-padrino (coetaneo del padre) Dov Zedek:
sottilmente si discute sull’accusa di antisemitismo, che Ethan esprime senza dirlo.
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Ethan Rosen lascia il lavoro e si reca a Tel Aviv al capezzale del padre ma il suo
rientro in patria nasconde il forte bisogno di un ritorno alle origini (in qualche modo
una ricerca di se stesso). Rudi Klausinger (è l’autore del necrologio contestato) si
rivela figlio illegittimo di Felix, e fratellastro di Ethan e assume la connotazione di
suo alter ego: le meditazioni dei due fratelli, via via, tendono ad assomigliarsi (a volte
astiose, un po’ paranoiche). Per quanto divergano i due personaggi sembrano due
facce della stessa medaglia.
Un altro personaggio caratteristico, l’esuberante rabbino Bercovich, fa delle
strabilianti rivelazioni. Ipotizza l’avvento del Messia. Il DNA viene inteso come
scrittura della Torà e si pensa alla genetica per clonare il Messia mai nato. L’autore
gioca con le credenze religiose.
Dopo alcune rivelazioni che stravolgono la famiglia, Rudi Klausinger torna a
Vienna. Muore il padre Felix. Ne consegue un funerale movimentato cui partecipano
gli animosi familiari. Il finale è aperto come lo è d’altronde la questione ebraica.
A tratti Rabinovici mostra una prosa dalla cadenza cinematografica. Il libro ha
proprio un ritmo incalzante ed è sorprendente come l'autore riesca a ribaltare certe
situazioni drammatiche in modo da rovesciarne il contenuto.
Anche se l’umorismo di Rabinovici appare diverso dal nostro o da quello inglese
ben più noto, si percepisce però un netto risvolto sarcastico, seppure velato, oserei
dire, raffinato.
L’autore sembra interrogarsi su una questione di mera identità ebraica.
Apparentemente non dà soluzioni o risposte ma si limita a registrare l’evidente
contraddittorietà dei suoi personaggi.
Brani dal libro
L’incipit
(Legge ELFRIDA)
L’autore ci fornisce una bella immagine di Tel Aviv dall’alto e introduce il
protagonista del libro.
L’aereo si staccò da terra. Sentì la spinta contro il sedile mentre il velivolo saliva
dritto in cielo e virava. Noncurante del passeggero accanto, guardò fuori. Lontana, in
basso, gli apparve la città: i tetti piatti, bianchi come la calce o neri come la pece;
sopra i tetti, i serbatoi d’acqua con specchi solari, scintille in controluce. Il groviglio
di antenne e di elettrodotti. Il profilo dei grattacieli, la Borsa dei Diamanti, la
sinagoga greca a forma di conchiglia, piazza Rabin davanti al Municipio, i viali
alberati con gli edifici Bauhaus e poi, giusto nel mezzo, un resto di città antica con il
minareto e la Torre dell’Orologio, quel cuneo millenario che si erge sul mare. Tel
Aviv, Giaffa, la spiaggia, e dopo soltanto acqua. E il bambino che egli era stato
allungò con lui il collo verso quella terra che papà e mamma gli avevano mostrato
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molti anni addietro quando, all’età di quattro anni, era partito da lì per la prima volta
con l’aereo.
Nostalgia o febbre della partenza, che cosa lo aveva preso? L’altitudine gli dava
alla testa: tra mamma e papà siede il bimbo di allora, rintanato adesso nel signor
Ethan Rosen, docente all’Istituto di Sociologia di Vienna. Ethanusch, Tuschtusch,
Ethanni, come usava chiamarlo sua madre, o il piccolo Etepetete, [impertinente]
come diceva per scherzo suo padre, è lì seduto a osservare il teatrino inscenato dalle
hostess. Un balletto da ripetere in caso di emergenza. Le gonne corte, il cappellino sui
capelli appuntati, i collant scuri, e il piccolo Ethanni fissa, all’eccitante altezza delle
gambe velate di nylon, quell’esotica danza del tempio accompagnata dalla dolce
litania di una voce femminile. Decollati. (pag. 7-8)
Compagni di viaggio
(Legge GIUSEPPINA)
Accanto a lui, a sinistra, una donna sui settantacinque anni, il viso bianco di cipria,
una lucertola con la borsetta di pelle di coccodrillo e i capelli biondo platino. Alla
mano destra un anello di brillanti che faceva da pendant con la collana. Portava un
tailleur di damasco rosso carminio con bottoni in oro opaco e con sgargianti ghirlande
di fiori ricamate nella seta. A Ethan Rosen ricordarono i motivi cinesi della
tappezzeria di Versailles. Sembrava la segreta mame ebreo-polacca del Re Sole Luigi
XIV, la madre di tutti i poteri assolutisti. Ethan le diede un’occhiata e lei,
intercettando il suo sguardo, gli fece cenno col capo come se lo conoscesse.
Alla sua destra un ortodosso grasso. Chinatosi su una borsa, tirò fuori il suo
astuccio di velluto con dentro il libro di preghiere e i tefillìn, i filattéri.
Perché doveva sedere proprio a fianco di un essere talmente sgradevole, pensò
Ethan, una specie di ruminante della Bibbia che, con i suoi riccioli laterali, i suoi
capelli lanosi e la barba lunga, assomigliava a una pecora. Uno così sarebbe stato
tutto il tempo a pregare e a oscillare avanti e indietro. Come sarebbe riuscito lui a
lavorare? Anche la settimana prima, nel volo Vienna-Tel Aviv, gli era capitato di
viaggiare accanto a uno di questi ortodossi senza essere tuttavia minimamente
infastidito dal suo cerimoniale. Anzi. Entrambi si erano immersi nel proprio mondo.
Che cosa distingueva questo ebreo da quello? Nel volo di andata era rimasto a
osservare quel tipo strano perfino con un certo interesse, pronto a difenderlo da chi
avesse osato guardarlo di traverso o avesse arricciato il naso per il suo caffettano nero
e il suo cappello a tesa larga. Ora invece, viaggiando nella direzione opposta, da est a
ovest, percepiva l’odore dolciastro e stantio di quest’uomo che gli era seduto accanto
e portava abiti troppo pesanti; la sua puzza gli rievocò non solo il cimitero ma anche
il rabbino e il cantore che aveva incontrato alla tomba di Dov, le loro preghiere e le
loro lamentazioni. Adesso non erano gli altri ma lui stesso a osservare con sospetto il
religioso, lo fissava mentre si avvolgeva le sue cinghie di cuoio logore e unte attorno
al braccio sinistro e al capo. Osservava il suo modo di sfogliare le pagine, di
bofonchiare, il suo goffo tentativo di piegarsi su e giù, di dondolarsi, nonostante il
poco spazio. Il suo corpo sembrava bloccato dalla pinguedine e a Ethan ricordò un
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gigantesco bruco che non voleva uscire dal bozzolo né mutarsi in farfalla finché non
gli fosse apparso il Messia. (pag. 11-12)
Scambio d’identità
(Legge RENATO)
Per arrivare al suo sedile doveva svegliare la signora con il tailleur di damasco. La
scosse leggermente pregandola di lasciarlo passare. Assonnata e confusa, la donna
ribatté seccata: «Niente affatto, qui siede già qualcuno».
«Ma come, non mi riconosce? Sono io. Questa è la mia giacca e questo il mio
computer».
«Idiozie», e si volse verso l’israeliano con la testa rasata. «La prego, glielo dica lei
che il posto è già occupato».
L’uomo esitò e, solo dopo aver fissato a lungo Ethan in volto, si ricordò di quella
faccia che aveva visto davanti alla toilette, del suo pallore, dei suoi capelli brunastri,
si rammentò che aveva i ciuffi più chiari pettinati all’indietro e portava un maglione a
collo alto. Ora sembrava mascherato, aveva cambiato abiti e aveva un’altra
acconciatura.
«Mi scusi,» intervenne una hostess «è lei il signor Rossauer?».
Stava per rispondere di no ma poi pensò [a come si era presentato] a Noa. «Sì».
«Ha dimenticato il suo orologio». Fissava la coda dell’aereo quando l’israeliano
pelato commentò: «Rossauer. Rossauer? You are right. That is not our neighbour
[Ha ragione. Non è il nostro vicino di posto]», e la donna incalzò: «Io l’avevo detto».
La hostess chiese a Ethan di poter vedere il suo biglietto, ma appena egli tese il
braccio per pescare i documenti dalla sua giacca l’anziana tuonò: «Quella giacca non
è sua. Appartiene a Danni Löwenthal!».
«Mi ha scambiato per un’altra persona. Fin dall’inizio. Io sono Ethan Rosen».
«Non dica scemenze. So bene chi c’era seduto al mio fianco. Danni Löwenthal.
Conosco sia lui che i suoi genitori da quando era piccolo. Danni Löwenthal».
Avrebbe tanto voluto gridare alla signora con il tailleur di damasco che era
completamente meshughe, matta, e dirle che avrebbe fatto meglio a prendere, al posto
delle pillole per il cuore, quelle per la testa. Avrebbe tanto voluto anche inveire
contro l’israeliano ma la stanchezza si faceva sentire, batteva, e, poiché gli girava la
testa, chiuse gli occhi temendo di cadere per terra. In quel mentre notò che il silenzio
parlava contro di lui, che era ora di proferire qualcosa se non voleva apparire sul serio
sospetto.
Con voce rauca disse piano: «Ascolti, io sono Ethan e quello è il mio posto.
Poniamo pure che io assomigli a questo Danni Löwenthal e che – ma cosa sarà mai?
– mi sia fatto chiamare Johann Rossauer… Il mio nome però è e resta Ethan Rosen.
Mi capisce? Io, Ethan Rosen, lavoro a Vienna e sono andato a Gerusalemme perché lì
è stato sepolto il mio vecchio amico Dov Zedek. Dov è morto. Mi capisce? Non c’è
più». E pronunciando queste ultime parole si rese conto di avere le lacrime agli occhi,
proprio lui che, per tutto il funerale, era rimasto così impassibile.
«Mi scusi, prego» si levò una voce alle sue spalle. Era il religioso che si era alzato
per andare a dondolarsi: «Io non so se il signore qui si chiami Rosen, Rossauer o
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Löwenthal, certo è che oggi i tefillìn non se li è messi. E lei sa perché?». Sogghignò e
si guardò intorno con aria trionfante: «Perché non ha alcuna simpatia per il cuoio!».
E a un tratto nessuno più ebbe dubbi su chi egli fosse, né la signora con il tailleur,
né l’israeliano pelato, né la hostess. Tutti si ricordarono di lui come se avessero eletto
l’ortodosso a massima autorità, in grado non solo di non farsi ingannare dal suo
aspetto esteriore ma anche di riconoscerlo in ogni momento tra mille. (pag. 19-20)
Credenze popolari sugli ebrei
(Legge MARCO)
Una volta, negli anni settanta, andai con degli amici a Segovia. Un pomeriggio,
passeggiando per la città vecchia, chiedemmo alle persone del posto se qualcuno
avesse ancora notizie degli ebrei che, circa mezzo millennio prima, avevano abitato
proprio in quei vicoli. Una donna chiamò la sua abuela, la nonna, che arrivò poco
dopo zoppicando col suo bastone, una donna piena di rughe che disse: «Io
personalmente non ne ho più visti. Gli ebrei sono facili da riconoscere – dal piede
varo e dalla coda». La lasciammo parlare finché, con il gaudio degli altri, le gridai
all’orecchio: «Allora io fortunatamente non sono uno di loro?». Lei scrutò più volte
le mie gambe e il mio sedere e poi scosse decisa la testa. (pag. 48)
L’amore di Noa
(Legge LUCIA)
Sull’aereo il protagonista Ethan Rosen, presentandosi come Johann Rossauer,
conosce Noa Levy con cui in seguito instaurerà una relazione amorosa.
Lasciarono la festa assieme. Sotto la giacca di Ethan, una bottiglia di vino.
L’accompagnò a casa in automobile. Quando Noa aprì la porta del suo appartamento,
chiese con un sorriso schietto e malizioso: «Sai intonare lo jodel, Johann Rossauer?».
«Naturalmente» rispose, ma quando stava per fare il primo vocalizzo la sua voce
tracollò e lui scoppiò a ridere sommessamente, e anche Noa soffocò a stento la sua
risata, e senza sapere il perché Ethan perse il controllo, l’uno trascinò in un crescendo
l’altra; come in un volo da un’altezza elevata, lui si lasciò cadere all’impazzata e ciò
che giaceva in fondo e dentro di lui riemerse di colpo, e vide se stesso prima con Dov
e poi da solo al cimitero. E come fosse appeso a una fune di gomma, come se si fosse
lanciato giù finché, raggiunta la massima estensione, la fune si fosse riavvolta
tirandolo su vorticosamente fino all’apice del movimento, e da capo egli cascasse,
salisse e ricadesse, su e giù come uno yo-yo, tutto in lui venne precipitosamente a
galla e le lacrime inondarono i suoi occhi.
E fu così che nelle ore seguenti lui le raccontò di Dov e del funerale, del padre e
dei suoi reni malati. E fu così che lei gli confessò che lo aveva riconosciuto già in
aereo. Non ci era cascata perché, qualche mese prima, aveva assistito a una delle sue
conferenze. E fu così che si ascoltarono reciprocamente e dopo si addormentarono
finché, l’indomani mattina, lei lo svegliò con un bacio al quale si aggiunse molto
altro. (pag. 33-34)
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La cassetta registrata di Dov Zedek: le rivelazioni del morto (Legge MARIO)
L’amico-padrino lascia un messaggio registrato per Ethan da leggersi dopo la
sua morte. “Per me non sarà necessario recitare il Kaddish” sembra una frase
emblematica: denota un certo agnosticismo, poi però diventa cantilena. È la
confessione di un sopravvissuto ma anche il suo intimo/ultimo sfogo.
Per me non sarà necessario recitare il Kaddìsh. Mi senti, Ethan? Katharina dorme
ancora. Io sono qui seduto nello studio. Ho sonno ma non riesco a dormire. Per le
strade di Gerusalemme si sentono circolare i primi autobus. Davanti a me il vecchio
registratore che ti diverte sempre così tanto. Chissà perché. Ascoltami bene, Ethan.
Per me non sarà necessario recitare il Kaddìsh. Non serviranno preghiere né
orazioni funebri. Usciranno dei necrologi, verrà scoperta una lapide commemorativa
o verrà intitolata a mio nome la saletta d’aspetto di una stazione dell’autobus. In giro
non si fa che leggere chi ha donato questa panchina del parco, chi quella poltrona del
cinema, chi quell’aiola di fiori. Presto ogni pisciatoio di Gerusalemme celebrerà un
qualche Moishe Pisher di New York. Orinatoi contro l’oblio. Gabinetti pubblici della
Memoria. Posticini comodi contro il silenzio della storia.
Eppure cinque anni fa eri nel torto con quel tuo articolo. Intendo la polemica sulle
gite scolastiche ad Auschwitz. Io ero là. Migliaia di giovani, non solo da Israele ma
da tutta Europa, dagli Shtetl Uniti d’America, credenti, di sinistra, di destra,
apolitici… Al centro i sopravvissuti. Alcuni di loro ogni anno impallidiscono quando
varcano i cancelli del campo. Altri si rianimano non appena si ritrovano là, tutti
insieme. Quando li vado a trovare a Tel Aviv, a Los Angeles o a Buenos Aires, hanno
l’aria persa, angosciata, come se un giorno potessero risvegliarsi nelle baracche del
lager, poi però, una volta dentro, sembrano di nuovo liberi, a casa.
Ci sono quelli che vagano nel campo ripetendo sempre le stesse cose, abbarbicati
alle solite frasi. Irremovibili. Sembrano dei registratori. Segnati dal destino, si
trasformano in promemoria viventi, in audioguide, come quelle che ti mettono al
collo quando visiti un museo. Digiti un tasto del display e parte la spiegazione. Dopo
essere stati messi da parte, ora eccedono. Fanno vedere il loro numero… il tatuaggio
sempre a portata di mano. (pag. 35-36)
Il parco giochi della memoria
(Legge PAOLA)
Nel tuo articolo parlavi di una Disneyland dello sterminio. Ti chiedevi come dei
teenager potessero affrontare esperienze simili. Se non avrebbero scambiato la storia
per un film dell’orrore. Ricordo ancora le tue parole. Un tempo, da ragazzini,
andavamo al Prater. Venite, signore e signori! Nel treno dei fantasmi! A quel tempo
pagavamo ancora per avere paura. Questi giovani che si incontrano oggi nel lager
hanno l’età che noi avevamo allora. Si schierano in fila. Issano le bandiere. Vivono il
passato come una caccia al tesoro. Il campo di sterminio come un campo estivo. Che
cosa posso dirti, Ethan? Durante una visita uno di loro aveva gli auricolari.
Camminava per le baracche ascoltando musica. «Spegni,» gli aveva gridato un
compagno un po’ più grande «e metti via quell’affare! Altrimenti non puoi entrare
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nella camera a gas». Quasi si trattasse di un tempio giavanese, di un luogo sacro, di
un sancta sanctorum. Ma il più giovane aveva replicato: «Non vorrai mica impedirmi
di entrare nella camera a gas, tu nazista?». Così disse: «Non vorrai mica impedirmi di
entrare, tu nazista?». (pag. 36)
Un curioso rabbino
(Legge GIOVANNA)
Rav Bercovich se ne stava lì seduto assorto. Un uomo minuto il cui corpo non
avrebbe potuto essere più filiforme. La barba candida gli scendeva sul petto
sfoltendosi in una rada peluria che terminava sotto la cintura. Aveva insistito per
sedersi in quel caffè dell’ospedale. Alla parete un attestato con la firma del rabbinato
certificava che nel locale si servivano solo pietanze e bevande rigorosamente kashèr.
Sollevò la tazza e assaporò un po’ di schiuma. «Professor Rosen, lei crede nel
destino? Pensa sia stato un caso che, in aereo, lei fosse seduto accanto a quell’ebreo
ortodosso? Che io sentissi parlare di lei?».
Ethan capì di avere davanti a sé un oscurantista. Il sorriso indefesso. La sicurezza
con cui parlava. Non era certo la fede ad avere sconfitto il dubbio ma il fervore a non
ammetterne alcuno. Indifferente alla quotidianità intorno a lui, quest’uomo si
comportava come se avesse messo le cose in chiaro con se stesso. Tuttavia non
riusciva nemmeno a tenere pulito il suo caffettano di seta grigio blu che aveva appena
macchiato di caffè. Una trasandatezza, questa, che pareva quasi intenzionale, che non
dava l’idea di essere semplice sciatteria ma piuttosto il tratto distintivo di una mente
originale. E proprio perché rav Bercovich non dava il minimo valore al suo aspetto
esteriore riusciva a persuadere la gente a concentrarsi solo sull’essenziale, sul
trascendentale. Tra i tanti religiosi egli si distingueva per la sua sapienza rabbinica se
non altro perché gran parte di quello che predicava e annunciava risultava
incomprensibile. Aveva anche il pregio di essere un sommo esegeta del Talmud. Un
erudito, nessuno lo metteva in dubbio. (pag. 120-121)
[Il rabbino] sussurrò: «Si celano dei segreti dietro le lettere e tra le righe».
Poiché Ethan conosceva abbastanza i giochi numerici dei mistici e i loro trucchi
cabalistici, gli prestò ascolto come se a parlare fosse uno stregone africano, un
rabdomante tirolese o uno spiritista gallese. Personaggi simili lo eccitavano. Pur non
credendo nella loro magia, non dubitava che fossero dotati di forze straordinarie.
Erano maestri della suggestione e della manipolazione. Veri illusionisti. (pag. 124)
Le ipotesi strampalate del rabbino
(Legge FABIO)
Introducendo una teoria paradossale, usa la genetica (ovvero la scienza) per
spiegare la natura messianica.
«Mi dica, rabbino, lei avrebbe già calcolato quando il Messia comparirà sulla
terra?» chiese Ethan, e sorrise compiaciuto reclinando il capo di lato. Questa voleva
godersela fino in fondo.
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Il rabbino mangiò un boccone di torta. «Non serve che si controlli, professore! Mi
prenda tranquillamente in giro! Ammettiamo pure che io sia in grado di dirlo e che
riesca a dimostrare che nei libri sacri si nasconde il momento preciso in cui Lui verrà.
Diverse autorità spirituali hanno riconosciuto la validità del mio metodo, ma solo
finché non ho spiegato loro quello che avevo scoperto».
[…]
Il rabbino continuava a parlare, concitato. Agitando il pugno. «Cosa ci sarebbe di
strano, mi chiedo, se il Messia fosse stato concepito da un ebreo e un’ebrea nella
Polonia dei primi anni ’40, un uomo e una donna, la cui discendenza e origine, la cui
vita e sofferenza sono stato in grado di ricostruire… Cosa ci sarebbe di strano se tutte
le profezie delle Scritture si fossero avverate…» e, battendo la mano sul tavolo al
ritmo delle parole, aggiunse: «ho qui le prove, gliele posso mostrare, caro
professore».
Frugò in una borsa e ne trasse una cartella piena di documenti, appunti e foglietti.
«Ho confrontato fatti storici, alberi genealogici, schedari di comunità e sentenze
rabbiniche con gli indizi che sono riuscito a decifrare dai vari testi sacri. Devo
ammettere: tutto corrisponde. Tutto è registrato. Siamo stati tutti rigorosamente
censiti, caro professore, e – che abbiamo o no simpatia per i tefillìn –, siamo tutti
quanti troppo leggeri. Non siamo nulla, meno di zero. Così sta scritto, caro
professore. Milioni e milioni di niente. Capisce?».
Per la prima volta dall’inizio della conversazione a Ethan parve, malgrado le sue
convinzioni, che dietro le parole del rabbino si celasse un pensiero elevato. Una realtà
profonda. Non capiva ancora dove egli volesse andare a parare, ma sentiva la
disperazione che doveva aver spinto quest’uomo pio a compiere i suoi studi e le sue
ricerche. (pag. 124-126)
Un funerale movimentato
(Legge ENRICA)
Era come se Felix non fosse morto in seguito a una malattia ma su un campo di
battaglia. Se Felix fosse stato lì tra loro, continuò Yossef, avrebbe ribadito che era
valsa la pena di sacrificare la propria vita per quella lotta. «Degli ortodossi non gliene
importava niente» sottolineò Yossef. «Per lui i rabbini e i coloni erano razzisti,
fascisti, khomeinisti».
La frase successiva non riuscì nemmeno a cominciarla. «Eretico!» l’apostrofò il
giovane chassid grasso. «Moishe, come osi! Taci!» lo brontolò rav Bercovich. Lui,
tuttavia, s’infilò tra gli astanti per spingere Yossef giù dal pulpito. Lo zio Yossef si
scansò, al che qualcuno urlò: «Ma guardate quest’aberrante palla di matzot, questa
tumefazione visionaria e farneticante!».
«Antisemita!» strillò il giovane, e lo zio Yossef replicò: «Mutante! Degenerato!».
«Ebreo nazista» s’intromise Efrat, ma Shmuel, suo cugino, ribatté: «Sì, ora osate
insultarci e darci dei nazisti, poi però siamo noi a dover difendere voi e i vostri
insediamenti!».
«Fumati la tua erba che ti calma!» gli suggerì Efrat.
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Alcuni provarono a sedare i litiganti ma non fecero che fomentare gli animi.
«Lascia perdere! Meglio non entrare in certe cose!» gridò il marito di Efrat a Moishe,
mentre Nimrod diceva allo zio Yossef: «Che cosa ti aspettavi? Quelli vengono
direttamente dal Medioevo». Al che uno disse rivolto al giovane chassid: «Non
lasciarti provocare. Quello non è neppure un eretico, è solo un povero ignorante».
Gli uomini d’affari arrivati dall’estero non capivano una parola d’ebraico,
figuriamoci ora che l’uno inveiva contro l’altro! Erano venuti fin là per rendere
l’estremo omaggio a Felix Rosen. Si erano preparati ad assistere a un funerale
ebraico. Si erano studiati tutta la cerimonia. Non si ricordavano però di aver letto nei
manuali o nell’enciclopedia di una scenata simile attorno alla salma. Uno di loro
chiese a Katharina: «Questo è il rito quando si discute dell’eredità?». Lei lo guardò
come avesse fatto un’osservazione antisemita. (pag. 209-210)
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