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Relazione dott. De Roberto del 05.11.2015 SSM

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Relazione dott. De Roberto del 05.11.2015 SSM
I PUNTI DI MAGGIORE CRITICITA' NEL SISTEMA PENALE
(SOSTANZIALE E PROCESSUALE)
DEL GIUDICE DI PACE
relazione di Leonardo De Roberto
Sommario: 1. Cenni sui principi generali. - 2. Cenni su competenza per materia; connessione e riunione. - 3. Cenni su indagini
preliminari; funzione GIP. - 4. Cenni sulle citazioni e giudizi. - 5. Le "criticità": a) l'annosa questione sulla tacita remissione di
querela; b) irreperibilità di fatto della persona offesa in sede di sua deposizione testimoniale. Istanza di acquisizione al fascicolo
del dibattimento, ai fini della sua utilizzabilità, dell'atto di querela; c) l'applicazione degli istituti di cui agli artt. 34 e 35 del decreto
legislativo, brevi considerazioni; d) sui riti previsti dagli artt. 20 bis e 20 ter del decreto legislativo, brevi considerazioni; e) sulla
redazione del verbale d'udienza e delle dichiarazioni testimoniali durante l'istruttoria dibattimentale; breve riflessione.
1 - CENNI SUI PRINCIPI GENERALI
[A) la speciale disciplina dei procedimenti davanti al giudice di pace, comunque ancorata alle
norme del c.p.p. ex art. 2, nel corso degli anni si è rivelata quale utile connubio tra garanzie
fondamentali delle parti nel giusto processo, celerità della sua definizione, anche alla luce dei suoi
innovativi istituti deflattivi, risultando un efficacie strumento del servizio Giustizia;
(B) il modello, tenuto conto della inevitabile necessità di porre rimedio ai carichi del Tribunale
Monocratico, potrebbe, con lievi modifiche, risultare efficace anche nella prospettiva legislativa di
rivedere la competenza per materia e funzionale del giudice di pace].
2 - COMPETENZA PER MATERIA - CONNESSIONE E RIUNIONE
[A) pur nel rispetto dei limitati casi di connessione, è sentita l'esigenza (e l'utilità) di applicare in
modo ampio la norma di chiusura prevista dall'art. 9, atteso che, in moltissimi casi, si iscrivono
autonomi procedimenti promossi in contesti di reciprocità della promozione dell'azione penale (atti di
querela e ricorsi immediati), utilità, quindi, del simultaneus processus (tenuto conto, altresì, della
necessità della funzione del Coordinatore dell'Ufficio, con bacino di media e grande utenza di
coniugare la concentrazione e celerità dei procedimenti, rispetto ai diritti delle parti in gioco, con
l'efficacia funzionalità dell'ufficio, evitando contrastanti orientamenti e decisioni della/e sezione/i;
B) appare utile il riferimento ai due contrapposti orientamenti della Suprema Corte in merito
all'ordinanza emessa per connessione con un procedimento pendente dinanzi al Tribunale (Cass. Pen.
18.11.2007 n. 44353; Cass. Pen. Sez. 5, Ordinanza n. 3919 del 17.11.2011, per le quali l'ordinanza non
sarebbe abonorme e ricorribile per cassazione, oltre che non determinante una stasi processuale; di
contrario avviso Cass. Pen. 23.09.2010 n. 39197, per la quale l'atto è da considerarsi abnorme,
determinando, così, una stasi del procedimento);
C) un accenno deve esser fatto alla competenza per territorio qualora oggetto dell'accertamento
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del processo sono i reati previsti dagli artt. 10 bis e 14, comma 5 ter e quater, del D. Lgs. n. 286/98.
L'art. 5 del decreto legislativo prevede che è competente per il giudizio il giudice del luogo in
cui il reato è stato consumato (in questa fase, considerata la soppressione di molti uffici per
disposizione del D. Lgs. n. 156/2012, in attuazione della delega conferita con L. n. 148/2011, il giudice
in organico presso l'ufficio "accorpante" è ex lege competente, non dovendo, così, considerare che il
reato si sia consumato, anche in pendenza del procedimento, in un luogo di competenza del precedente
ufficio).
Anche se la norma prevede quale unico criterio quello del locus commissi delicti, atteso l'esplicito
richiamo dell'art. 2 del decreto legislativo alle norme del codice di rito, devono ritenersi applicabili tutti
gli altri criteri stabiliti dall'art. 8, comma 3 e 4, c.p.p., che nel nostro caso riguardano anche il reato
permanente (oltre che il tentativo).
La contravvenzione prevista dall'art. 10 bis del D. Lgs. n. 286 del 1998 non punisce la mera
condizione di straniero irregolare, ma incrimina due specifici comportamenti, lesivi dell'interesse
statale al controllo e alla gestione dei flussi migratori secondo un determinato assetto normativo, ossia
il "fare ingresso nel territorio dello Stato" (condotta attiva istantanea) ed il "trattenersi" nel territorio
medesimo (condotta omissiva permanente). Sul tema vedi anche Corte Cost. n. 250 del 2010 (Cass. Pen.
Sez. 1, 19.09.2013, n. 43472).
In considerazione della duplice natura dei reati, qualora sia stato accertato un ingresso illegale
(condotta di carattere istantaneo), seguito dalla condotta (omissiva) di non lasciare autonomamente il
territorio dello Stato, se resta ignoto il luogo della prima condotta, la competenza, ai sensi dell'art. 9,
comma 3, c.p.p. dovrebbe spettare al giudice in cui ha sede l'ufficio del Pubblico Ministero che ha
iscritto per primo la notitia criminis (Cass. Pen., Sez. 1, Ordinanza 24.06.2013, n. 32858).
Il criterio rileva nel caso di eccezione sollevata dalla difesa in prima udienza, che documenta la
pendenza di altro procedimento (non ancora definito) per lo stesso fatto, considerata la necessità di non
determinare, in mancanza di un precedente giudicato, una sorta di duplicazione del processo per uno
stesso reato, anche se la condotta (omissiva) permanente non è cessata nel momento in cui si inizia a
celebrare il proprio processo.
Al contempo, però, occorre ricordare che in tema di reato permanente, il divieto di un secondo
giudizio riguarda la condotta delineata nell'imputazione ed accertata con sentenza, di condanna o di
assoluzione, divenuta irrevocabile e non anche la prosecuzione della stessa condotta o la sua ripresa in
epoca successiva, giacché si tratta di "fatto storico" diverso non coperto dal giudicato e per il quale non
vi è impedimento alcuno a procedere (Cass. Pen., Sez. 6, 05.03.2015, n. 20315). In tale caso, il giudice
può procedere con la celebrazione del suo secondo processo, valutando, se ne ricorrano i presupposti,
di decidere sulla continuazione della condotta].
3 - INDAGINI PRELIMINARI - FUNZIONE GIP
[A) chiusura delle indagini preliminari. Tenuto conto della modesta formulazione giuridica e
del contesto dei fatti delittuosi da riportare nella citazione a giudizio (almeno nella maggior parte dei
casi), è utile ricordare che l'art. 50, comma 1, lett. b) del Decreto Legislativo consente di delegare le
determinazioni inerenti l'esercizio dell'azione penale ai VPO. Ciò consentirebbe di garantire due
importanti questioni da non sottovalutare: 1) l'attività di P.G. resterebbe circoscritta nell'ambito della
relazione ex art. 11 (potendo, così, dedicare maggior tempo ai reati di competenza del Tribunale
monocratico e collegiale); 2) la redazione della citazione a giudizio da parte del delegato VPO (tenuto
conto delle criticità rilevate nel corso degli anni in sede di questioni preliminari) comporterebbe il
superamento di facili eccezioni su questioni di nullità (assolute ovvero relative) da parte della difesa,
afferenti l'atto della vocatio in ius, con conseguente risparmio di risorse nell'ottica della celerità del
processo. L'utilità è data anche dal fatto che il VPO, preposto alla rappresentazione della pubblica
accusa sino alla definizione del processo, sin dalla prima fase "procedimentale" può calibrare ogni
aspetto tecnico utile al caso di specie, atteso, altresì, il suo prioritario compito professionale di seguire i
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costanti e specifici aggiornamenti legislativi e giurisprudenziali degli istituti giuridici;
B) la premessa del punto A) giova sotto l'aspetto del primo attento esame del caso, sia ai fini di
una richiesta di archiviazione (per infondatezza della notizia di reato ovvero per i casi di cui agli artt.
411 c.p.p. e 125 disp. att. c.p.p.), sia per la corretta ed ineccepibile redazione della citazione a giudizio
(spesso capita di riscontrare che l'atto redatto dalla P.G. non riporti una chiara e completa formulazione
del capo d'imputazione, ovvero risulti incompleto nella parte relativa alle fonti prova: un classico es. è
la mancata indicazione della PO quale teste primario della tesi accusatoria, ovvero l'errata
qualificazione di un 582 aggravato dall'uso di un'arma (magari impropria) in lesione personale di
competenza del giudice di pace, ovvero, ancora, l'inutile duplicazione di contestazioni di una stessa
condotta che, in un evidente unico disegno criminoso, oppure che assorbe gli elementi costitutivi di
altri reati: es. l'evidente unica lesione che assorbe la percossa o la diffamazione che, effettuata non in
presenza della PO, assorbe l'ingiuria ecc., ben potrebbe essere formulata in un unico e corretto capo
d'imputazione.
Ulteriore esempio, rilevato nella quotidianità delle udienze, è la poca attenzione rivolta alla fase
d'impulso dell'azione penale in ordine alle contravvenzioni del D. Lgs. n. 286/98, per le quali la
specialità del rito (artt. 20 bis e 20 ter), unitamente alla sua celerità (ed alla comprensibile celerità di
sottoscrizione da parte del Pubblico Ministero dell'autorizzazione alla presentazione immediata o alla
citazione per l'udienza contestuale dinanzi al giudice di pace, atteso il noto e gravoso carico di lavoro
che investe le Procure per reati di ben maggiore lesività), seppur comporta che sia il VPO a formulare in
udienza la contestazione dell'addebito (quindi, il capo d'imputazione), di fatto, comporta non solo la
richiesta prontezza di analisi degli atti del fascicolo da parte del VPO, bensì la questione di non poco
conto se il vizio degli atti prodromici possano comportare nullità sanabili o meno, ovvero compressioni
del diritto di difesa. Sul punto mi soffermerò in seguito, analizzando proprio le criticità di detti riti e
reati.
C) l'omesso avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa, che ne abbia fatto
richiesta, è causa di nullità del provvedimento ai sensi degli artt. 127, comma 5, c.p.p. e 17, comma 2,
del D. Lgs. n. 274/2000 (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 9295 del 02/12/2014). E' pacifico che il decreto di
archiviazione non è censurabile in sede di legittimità in ordine alla congruenza della motivazione
(Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 18861 del 13/03/2014), dovendo, comunque, tener conto delle ragioni
dell'opponente anche ai fini della dichiarazione di inammissibilità, pena la nullità del decreto per
violazione del principio del contraddittorio (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 35504 del 20/06/2013);
D) questione particolare è quella relativa all'assunzione di prove non rinviabili da parte del GdP
ai sensi dell'art. 18 del decreto legislativo, atteso che sul tema nasce la logica valutazione tra i
procedimenti promossi con rito ordinario rispetto a quelli promossi con ricorso immediato. Nel primo
caso, infatti, l'applicazione letterale del termine "parti" della norma parrebbe limitare la richiesta
formulata dalla persona offesa, la quale, comunque, deve essere avvisata del giorno, ora e luogo del
compimento dell'atto.
La dottrina, nell'ambito del procedimento ordinario, esclude la legittimazione della persona
offesa e del danneggiato dal reato non risultando norme attributive di un tale potere.
Di converso, se il procedimento è stato promosso con ricorso immediato, la persona offesa
(nonché parte civile) ha il diritto di richiedere detta assunzione per la stessa specialità del rito (tenuto
conto che nello stesso ricorso deve indicare le fonti di prova di cui ne chiede l'ammissione). La
questione non è superflua se si pensa ai principi di parità delle posizioni dei soggetti nell'ambito del
contraddittorio delle parti. E' ovvio che, formalizzato l'atto di denuncia querela, se il difensore della
persona offesa è già a conoscenza di una tale urgente esigenza, non potrà che optare per il rito speciale,
anche in considerazione della sua maggiore celerità.
Ulteriore possibilità (ad es. per il difensore che assuma l'incarico di assistere la PO dopo la
formalizzazione dell'atto di querela) non può che essere quella di presentare una specifica istanza al
Pubblico Ministero, che, se riterrà la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 18, ne formulerà richiesta
al giudice. Sul punto, a titolo esemplificativo, occorre non sottovalutare il reato di cui all'art. 590 c.p.,
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qualora la PO (che magari ha subito una invalidità permanente irreversibile a vita), priva per qualsiasi
motivo di un'assistenza tecnica professionale, abbia tutto l'interesse a vedere svolta con urgenza una
perizia non rinviabile (magari perché l'esatta localizzazione dei danni su un veicolo, da lì a poco in
prevedibile rottamazione, può consentire un utile ausilio sulla esatta ricostruzione della dinamica e
della responsabilità, esclusiva o concorsuale che si voglia;
E) un tema di estrema attualità (considerato il deposito delle motivazioni della sentenza emessa
dalle Sezioni Unite della Cassazione sull'applicabilità dell'istituto dell'art. 34, seppur relativamente ai
reati procedibili a querela e, così, in merito alla mancata partecipazione della PO al dibattimento
nonostante l'avventa regolare notifica della citazione a giudizio sulla congrua valutazione della tenuità
del fatto: Cass., Sez. Un., u.p. 16 luglio 2015, Pres. Santacroce, Rel. Conti, Ric. P.G. in proc.
Steger) è quello della possibile applicazione da parte del GIP dell'istituto dell'art. 34 sulle
contravvenzioni previste dal D. Lgs. n. 286/98, seppur si è in attesa dell'ultimo passaggio legislativo
sulla depenalizzazione del reato di cui al citato art. 10 bis e tenuto conto della recente sentenza della
Suprema Corte sul tema (Cass. Pen., Sez. 1, 19.09.2014, n. 44977), che limita all'attualità, giustamente,
una decisione di favor per l'imputato, chiarendo che la sola delega legislativa non comporta alcuna
depenalizzazione della contravvenzione.
Restano, comunque, da valutarsi le ulteriori contravvenzioni previste dall'art. 14, comma 5 ter e
quater, del D. Lgs. n. 286/98 in relazione all'istituto di cui all'art. 34 del decreto legislativo, tenuto conto,
a titolo esemplificativo, dei principi di cui all'art. 30 dello stesso T.U. e di quelli sanciti negli artt. 29, 30
e 31 della Costituzione.
4 - CENNI SULLE CITAZIONI ED I GIUDIZI
In considerazione degli interventi degli autorevoli relatori che mi hanno preceduto, sul tema
tenterò di individuare alcune "criticità", ossia possibili questioni di maggior interesse (anche ai fini di
un continuo scambio sulle applicazioni della legge ai casi concreti e, così, di un continuo arricchimento
giurisprudenziale (di primo grado) di un processo che reputo di sicura continua ascesa
nell'ordinamento. Del resto, gli ultimi interventi legislativi, l'introduzione dell'art. 131 bis del c.p., e
quelli in itinere sulla risarcibilità del danno derivante da reati di minore lesività, me ne danno atto).
A) E' del tutto pacifico ritenere il termine "contumacia" (riportato ancora negli artt. del Capo III
del decreto legislativo) ininfluente ai fini della validità dell'atto costituente la vocatio in ius, atteso che
l'art. 9, comma 1, della Legge 28.04.2014 n. 67 ha abrogato detto istituto. L'attuale discrasia legislativa
può ritenersi superata dalla modifica della modulistica degli uffici.
E' noto, però, che la relativa norma transitoria (art. 1 della Legge 11 agosto 2014 n. 118, che nel
capo III della Legge 28 aprile 2014 n. 67 ha aggiunto l'art. 15 bis) prevede, ai sensi del secondo comma
dello stesso art. 15 bis, che le disposizioni vigenti prima della data di entrata in vigore della presente
legge continuano ad applicarsi ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente
legge quando l'imputato è stato dichiarato contumace e non è stato emesso il decreto di irreperibilità;
B) sulla notifica delle citazioni a giudizio, presentazioni dell'imputato, convocazioni delle parti,
ovvero sulla loro rinnovazione da parte del giudice, così come sulle comunicazioni di decreti (artt. 29,
comma 3, 31 comma 3, del decreto legislativo), al di là della specifica questione di fatto sottesa, mi
permetto di richiamare la recente Sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite del 26 giugno 2015
(dep. 22 luglio 2015), n. 32243, Pres. Santacroce, Rel. Fumo, ric. Nedzvetskyi, così come le precedenti e
conformi statuizioni dalla stessa richiamate, per poter sintetizzare che la trasmissione via PEC di detti
atti è finalmente la preziosa soluzione fornita dalla celere tecnologia informatica alle passate criticità
delle innumerevoli notifiche per il tramite dell'ufficiale giudiziario.
Siamo a conoscenza dell'annoso e grave problema delle carenze di organico del personale
amministrativo e, pertanto, il poter compiere un fondamentale passaggio processuale con un semplice
uso di un computer non può che giovare alla celerità del processo, tenuto conto che tale tecnologia
garantisce il diritto alla corretta e sicura ricezione dell'atto da parte del destinatario e, così, del diritto di
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difesa. Detta modalità di notifica e di comunicazione, infatti, è effettuabile anche ai soggetti diversi
dall'imputato ai sensi degli artt. 148, comma 2 bis, 149, 150 e 151, comma, comma 2, del c.p.p., ricordo
applicabili grazie all'espresso richiamo fatto dall'art. 2 del decreto legislativo.
Per l'importanza del tema, vale la pena rileggere un passo della Suprema Corte "Orbene, non
v'è ragione di ritenere che tra i "mezzi tecnici idonei" non possano essere ricompresi gli strumenti atti
alla trasmissione telematica, se essi siano in grado di fornire prova della trasmissione stessa e della
avvenuta ricezione, garanzie che il sistema della P.E.C. è certo in grado di assicurare".
Il susseguente periodo ho il piacere di leggerlo perché il suo giusto ragionamento (su quello che
ci è stato insegnato quale c.d. "diritto vivente") mi è speculare per altri temi (quale l'istituto del 34 in
relazione ai reati in materia di immigrazione). La Corte, quindi, aggiunge "D'altra parte, la
giurisprudenza della Corte di cassazione non ha mai dubitato che, ad esempio, espressioni ben più
ampie che caratterizzano talune "norme aperte" (anche norme incriminatrici) possano essere lette nel
senso di includere nella previsione del legislatore gli strumenti telematici, anche se non esplicitamente
indicati dalla littera legis. Si pensi ad esempio al riferimento a «qualsiasi altro mezzo di pubblicità»
di cui al comma 3 dell'art. 595 cod. pen., che ha consentito di ritenere aggravata la diffamazione
consumata tramite internet..........si pensi allo stesso dettato costituzionale, che, all'art. 21, accanto
alla parola e allo scritto (e in particolare alla stampa), prevede «ogni altro mezzo di diffusione».
Invero, saggiamente, tanto il Costituente, quanto il legislatore non hanno ritenuto opportuno elencare
"i mezzi tecnici idonei" alla trasmissione di notizie (ma anche di opinioni, concetti e critiche),
vincolando l'interprete nel recinto di un numerus clausus, ma, in considerazione della imprevedibilità
(e della celerità) del progresso tecnologico, hanno preferito elaborare categorie generali (quale appunto
quella dei "mezzi tecnici idonei" del comma 2-bis dell'art. 148 cod. proc. pen. e gli altri sopra
ricordati), lasciando all'interprete il compito di verificare se, alla luce delle nuove e continue
innovazioni tecniche e alla immissione sul mercato di nuovi strumenti comunicativi, la fattispecie
concreta possa essere ricondotta a quella astratta prevista dalla norma". Sul tema penso possa bastare
questo stupendo passo di Alta Giurisprudenza;
C) il precedente punto mi permette di inserire quella che ritengo una delle storiche "criticità"
che ha posto una sorta di "freno" alla celerità del processo del giudice di pace (oggi, comunque, in parte
superabile grazie alla citata recente sentenza delle Sezioni Unite sulle modalità di applicabilità
dell'istituto previsto dall'art. 34 del decreto legislativo): ossia, in sintesi, la irreperibilità di fatto e, così,
la sua mancata partecipazione al processo, del querelante - persona offesa - teste primario della tesi
accusatoria.
L'altissima conflittualità che connota le relazioni sociali del nostro paese (e che, purtroppo, gli
ultimi studi sociologici registrano in aumento, per una concomitanza di fattori che in questa sede non
possiamo trattare, ma che nel corso delle quotidiane udienze se ne tasta ogni causa e deriva), e mi
permetto di aggiungere l'ormai storico fattore della c.d. "prossimità" della figura del Giudice di pace,
determinano un'altissima percentuale di processi senza che la persona offesa ne diventi parte
processuale e che, per svariati motivi, risulta irreperibile nel successivo momento della sua inevitabile
deposizione testimoniale.
Non sarà sicuramente l'unica causa predominante, ma l'esperienza sul campo mi conforta
sempre più sulla logica convinzione che, in questi casi, il prioritario interesse della PO resta circoscritto
al momento della formalizzazione dell'atto di denuncia querela, perché in una vasta gamma di minori o
tenui "conflitti" la medesima avverte una certa tutela in quel momento (anche perché, magari, alla
denuncia succede un intervento dei carabinieri della locale stazione, se non dalla polizia municipale o
dalla polizia di Stato, su una minore controversa problematica di vicinato, condominiale o per un
incidente stradale privo di seri riflessi sulle integrità delle persone coinvolte) e, poi, in seguito, (tenuto
conto, altresì, dei considerevoli carichi di affari che registrano e gestiscono le Procure, che può
determinare la formalizzazione della citazione a giudizio anche anni dopo l'accadimento dei fatti) al
momento dell'inizio del processo quell'interesse è già fortemente scemato, se non del tutto svanito.
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5 - LE CRITICITA'
Le "criticità" (in questo caso intese quali dispendio di risorse a discapito di procedimenti
obbiettivamente prioritari, anche ai fini delle statuizioni civili, e di non "scontate" applicazioni ed
interpretazioni di combinate disposizioni normative anche comunitarie) possono così riassumersi:
a. L'ANNOSA QUESTIONE SULLA TACITA REMISSIONE DI QUERELA.
In sintesi si richiama la massima dell'ultimo arresto della Suprema Corte, che nel richiamare
l'esame svolto sul tema dalle Sezioni Unite con la nota sentenza N. 46088 del 2008, evidenzia che "....
la mancata comparizione del querelante - pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata
ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela - non costituisce fatto
incompatibile con la volontà di persistere nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai sensi
dell'art. 152, comma secondo, cod. pen. Né, a tal fine, rileva il principio di ragionevole durata del
processo, il quale non può tradursi nelle previsione di oneri processuali, a carico delle parti, non
ancorati a specifiche disposizioni di legge" (Cass. Pen., Sez. 4, 28.03.2013, n. 18187).
Come anticipato, sono state depositate le motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite del 16
luglio 2015, Pres. Santacroce, Rel. Conti, Ric. P.G. in proc. Steger, che concludono con il principio per
cui dopo l'esercizio dell'azione penale, la mancata comparizione in udienza della persona offesa,
regolarmente citata o irreperibile, non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di improcedibilità
dell'azione penale per la particolare tenuità del fatto, sussistendone i presupposti.
Questo ulteriore passaggio, a mio modesto avviso, di ulteriore evidenza della prioritaria e
sottesa funzione conciliativa-deflativa dello speciale processo penale dinanzi al Giudice di pace potrà
porre agli operatori del diritto la seguente considerazione:
a) posto che la maggior parte dei reati attribuiti alla competenza del G.d.P. sono
procedibili a querela;
b) che l'intero impianto processuale speciale parte dal principio generale sancito nell'art.
2 del decreto legislativo del favor conciliativo tra le parti (mi permetto di evidenziare, ovviamente, che il
termine parti non può intendersi solo in senso tecnico, poiché, al di là del rappresentante della Pubblica
accusa, sottende quelle "parti" [direi proprio attore e convenuto se leggiamo attentamente la disciplina
prevista dagli artt. 21 e ss. del decreto legislativo], che sono cittadini, in percentuale massima,
incensurati e che rivestono, di volta in volta, se non spesso in reciproca concomitanza, le qualità di
imputato e di persona offesa;
c) che le statuizioni di "non doversi procedere" per applicazione della particolare
tenuità del fatto ovvero per intervenuta (anche tacita) remissione di querela, seppur graduabili
nell'ambito delle corrette formule date da una causa di non procedibilità e da un'altra di estinzione del
reato, al contempo, tenuto conto del primario interesse (rectius diritto) sotteso, non privano
assolutamente la persona offesa - danneggiata - di trovare la sua giusta risposta di attrice in un giudizio
civile per responsabilità da fatto illecito (ai sensi degli artt. 2043 e ss. del cod. civ.), atteso che la sua
mancata partecipazione come parte civile nel processo penale in molti casi duplicherà i tempi delle sue
giuste aspettative;
d) che la giusta osservazione delle Sezioni Unite sul diritto-principio della semplice PO
alla condizione di promozione dell'azione penale ed alla seguente definizione del processo (qualora
l'interesse è di mero principio: es. una persona rimasta in gravi condizioni di inabilità oppure vessata
da tempo dal querelato, qualora le ingiurie e minacce semplici sottendono una futura potenziale e
maggiore lesività in crescendo: si pensi al reato di stalking ovvero ai maltrattamenti in famiglia, per
non dimenticare assolutamente i c.d. "primi campanelli di allarme" di reati di grande attualità e
riportati all'attenzione della collettività con la definizione di "femminicidio" o di "omofobia") costituisce
già un dovere del Giudice di pace di effettuare un'attenta analisi del caso concreto, per il quale è
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pienamente consapevole dell'utilità di una propria e celere decisione, al fine di porre un primo segnale
di arresto o, comunque, di giudiziaria "stigmatizzazione" delle predette condotte delittuose, evitando,
così, facili ed inutili pronunce di non doversi procedere (a nulla rilevando la sua funzione onoraria
nello svolgimento dell'unico principio costituzionale dell'autonomia della funzione);
e) che il considerevole carico dei ruoli (soprattutto negli uffici di medie e grandi
dimensioni) ed il principio della ragionevole durata del processo sono fattori che non devono essere
considerati in astratto, ovvero valutando il solo semplice caso di minima lesività, bensì alla luce del
fatto che la molteplicità delle celebrazioni di casi minori (nei quali, appunto, la PO deserta sin dalla
prima udienza il procedimento rendendosi di fatto irreperibile oppure, in alcuni casi, costringendo il
giudice a disporne l'accompagnamento coattivo (con ulteriori e gravose dispersioni di preziose risorse)
nuoce, comunque, alla celerità di quei processi con reati di rilevante lesività per i predetti fattori,
laddove, ad esempio, la PC è rimasta inabile a vita (590 c.p.), oppure è vittima di percosse, ingiurie e
minacce semplici, magari in un contesto familiare o di convivenza (che non sempre nel primo atto di
querela si configura quale reato ex art. 572 o 610 o 612 bis c.p.)
Le superiori considerazioni non possono costituire un commento organico sul tema, ma
sono spunti di riflessione in parte sottesi ai precedenti orientamenti delle Sezioni della Suprema Corte
sull'ulteriore tema della particolare tenuità del fatto prevista dall'art. 34 del decreto legislativo, quindi,
attendiamo fiduciosi la prossima decisione nomofilattica della Suprema Corte.
B) IRREPERIBILITÀ DI FATTO DELLA PERSONA OFFESA IN SEDE DI SUA DEPOSIZIONE TESTIMONIALE. ISTANZA DI
ACQUISIZIONE AL FASCICOLO DEL DIBATTIMENTO, AI FINI DELLA SUA UTILIZZABILITÀ, DELL'ATTO DI QUERELA.
L'applicazione del dettato degli artt. 512 e 512 bis c.p.p. deve tener conto se il giudizio di
responsabilità possa essere fondato esclusivamente sulle dichiarazioni accusatorie in contrasto con il
dettato dell'art. 6, par. 1, CEDU, delle statuizioni della Suprema Corte, dei dettati di cui agli artt. 111,
comma 5, della Costituzione, 6, comma 3, lett. d) della CEDU e dell'art. 526, comma 1 bis, c.p.p..
Seppur in questa sede il tempo assegnato non permette di svolgere una relazione completa sul
tema, è opportuno ricordare che l'introduzione tra i principi costituzionali del c.d. "giusto processo" ed,
in particolar modo, del dettato dell'art. 111, comma 4, (secondo cui: "Il processo penale è regolato dal
principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può
essere provata sulla base delle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente
sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore"), ancorché sintetizzi un
principio sul quale le interpretazioni possono essere contrastanti, a seconda che si ritenga, o meno, di
valorizzare e per quale portata nel dibattimento le dichiarazioni rese dal teste nella fase delle indagini
preliminari (nel nostro caso, per lo più, le dichiarazioni trasfuse nell'atto di querela), il principio,
comunque, costituisce un enunciato di sicura rilevanza sul piano della civiltà giuridica.
Considerata l'apertura del primo comma e la premessa generale del secondo comma della
norma, è conforme pensare che senza "contraddittorio" (eccetto i casi previsti dalla legge, richiamati dal
successivo comma 5) non esiste una decisione che possa ritenersi giusta nel rispetto della stessa
Costituzione.
Allo stesso tempo, secondo il metodo epistemologico, detti principi riflettono l'obiettivo di
conseguire l'accertamento dei fatti e delle correlate responsabilità sulla base del confronto delle diverse
prospettive date dalle tesi (ossia, dalle dichiarazioni) delle parti, al fine, altresì, di apprendere e valutare
i fatti, comprendendone il significato sociale (quante volte i processi davanti al Giudice di pace si
definiscono sulla base delle sole dichiarazioni del querelante (PO o PC) e del querelato (imputato),
perché nessun soggetto terzo ha assistito, ovvero è a conoscenza dei fatti ? Sicuramente in molti casi).
In sintesi, come è stato affermato da autorevole dottrina, verità e giustizia sono aspetti
intrecciati e presupposti dal principio costituzionale, atteso che "...la decisione giusta, in cui si riflette
l'ideale di giustizia, è solo quella che contiene la ricostruzione della verità giudiziale basata su prove
ottenute attraverso il rispetto del principio del contraddittorio" (Mazza Il garantismo al tempo del giusto
7
processo, Milano, 2011).
Le fattispecie derogatorie al predetto principio (del contraddittorio) sono quelle indicate nel
comma quinto della stessa norma, ossia il consenso dell'imputato, l'accertata impossibilità di natura
oggettiva o la provata condotta illecita.
Si tralasciano l'esame della prima fattispecie (che è rimessa alla libera disponibilità del diritto
dell'imputato anche mediante il proprio difensore) e della terza (che non può che essere determinata da
un fattore illecito esterno; la Corte Costituzionale, infatti, ha chiarito che "la provata condotta illecita" è
una formula nella quale è da escludere che rientrino oltre alle condotte illecite poste in essere sul
dichiarante - quali la violenza, la minaccia o la subornazione - quelle realizzate dal medesimo
dichiarante - quale, in primis, la falsa testimonianza, anche nella forma della reticenza - perché la
"condotta illecita" reca impedimento all'esplicazione del contraddittorio, inteso come metodo di
formazione della prova, mentre l'autonoma scelta del teste di dichiarare il falso in dibattimento (come
pure di tacere) non incide, di per sé, sulla lineare esplicazione di esso (cfr. Corte Costituzionale,
Ordinanza 12.11.2002, n. 453).
Resta, invece, di specifico interesse la seconda fattispecie derogatoria dell'accertata impossibilità
di natura oggettiva, cosicché la lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione ex art. 512
c.p.p. deve esaminarsi ponendo un "accento" sulla parte finale del primo comma: "....quando, per fatti o
circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione". Per quanto premesso, farò riferimento alla
questione afferente la lettura dell'atto di querela qualora la persona offesa sia, di fatto, irreperibile.
Si deve premettere che la lettura degli atti ex art. 512 c.p.p., senza l'impulso di parte, non può
essere disposta d'ufficio ex art. 507 c.p.p., perché non può confondersi la lettura con l'assunzione di
nuove prove (Cass. Pen., Sez. 6, 14.04.2003, n. 23807).
Seppur l'atto di querela non costituisce propriamente un atto formato dalla P.G., bensì integra il
supporto documentale di una narrazione (dichiarazione) che ad essa è semplicemente destinato, la
stessa citata sentenza della Suprema Corte ha chiarito che, quando per fatti o circostanze imprevedibili
risulti impossibile l'esame della persona offesa che abbia presentato querela nei confronti dell'imputato,
deve trovare applicazione l'art. 512 c.p.p., che consente la lettura, a richiesta di parte, degli atti assunti
dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero e dal giudice nel corso dell'udienza preliminare,
laddove per atti "assunti" devono intendersi non soltanto gli atti formati a seguito di attività diretta
delle predette autorità, ma anche gli atti semplicemente ricevuti dalle stesse, quale è appunto la
dichiarazione di querela.
Se gli eventi morte ed infermità non costituiscono evenienze pregiudicanti la lettura, i maggiori
interrogativi sorgono per l'ipotesi dell'irreperibilità del dichiarante.
Un risalente orientamento riteneva la sopravvenuta impossibilità di rintracciare il testimone,
qualora fosse ricollegabile a fatti o circostanze imprevedibili, presupposto della lettura in dibattimento
dell'atto assunto in precedenza, precisando che l'impossibilità non dovesse essere assoluta e che,
comunque, fosse liberamente apprezzabile dal giudice di merito, al quale competeva soltanto l'obbligo
di motivare le sue decisioni (Cass. Pen. 15.05.1996, n. 5495; Cass. pen. 21.05.1998, n. 7231).
Di recente, però, la Suprema Corte ha adottato un indirizzo interpretativo maggiormente
conforme alle tutele dei principi del processo accusatorio, evidenziando che l'acquisizione in
dibattimento dei verbali di dichiarazioni per sopravvenuta impossibilità di ripetizione è, comunque,
subordinata al rigoroso accertamento dell'irreperibilità del teste, irreperibilità che potrà ritenersi
integrata soltanto previe accurate ricerche.
E non solo!! La Suprema Corte precisa che:
1) "le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio,
ancorché legittimamente acquisite, non possono - conformemente ai principi affermati dalla
giurisprudenza europea, in applicazione dell'art. 6 della CEDU - fondare in modo esclusivo o
significativo l'affermazione della responsabilità penale" (Cass. Pen., Sez. Unite, 25.11.2010, n. 2791);
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2) "Ai fini dell'operatività del divieto di provare la colpevolezza dell'imputato
sulla base, unicamente o in misura determinante, di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è
sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore (art. 526,
comma primo bis, cod. proc. pen.), non è necessaria la prova di una specifica volontà di sottrarsi al
contraddittorio, ma è sufficiente - in conformità ai principi convenzionali (art. 6 CEDU) - la
volontarietà della assenza del teste, determinata da una qualsiasi libera scelta, non inficiata da
elementi esterni" (Cass. Pen., Sez. 2, 22.12.2014, n. 1945).
Per concludere sul tema, aggiungo una personale considerazione, che pone in evidenza un
ulteriore riflesso sulla particolarità del processo penale dinanzi al Giudice di pace.
Date per compiute le dovute ricerche, ritengo che l'assenza del querelante (persona offesa e
primario teste della Pubblica accusa) possa essere valutata come sua libera scelta (ovviamente in
mancanza di elementi esterni di carattere ostativo e tenuto conto di ogni aspetto del caso specifico)
sulla base della seguente considerazione:
a) nel periodo intercorrente tra la formalizzazione dell'atto di querela e la celebrazione del
processo, il medesimo, se avesse voluto, (ovvero se avesse avuto anche un interesse, anche di principio,
alla prosecuzione del processo) ben avrebbe potuto comunicare alle competenti Autorità un suo nuovo
domicilio, ovvero informarsi sullo stato del procedimento, atteso che è ormai fatto notorio quello per
cui, dato impulso all'azione penale (soprattutto per un reato procedibile a querela e di competenza di
questo Ufficio), il relativo e successivo incombente quale utente del servizio giustizia sarà quello di
comparire in sede testimoniale.
La rapida evoluzione sociale della comunicazione ed informazione anche tramite le nuove
tecnologie (internet, grazie al quale anche lo stesso sito ministeriale del GdP offre ogni utile imput
anche di approfondimento) non può che sottendere una maggiore consapevolezza dei propri diritti
rispetto, magari, a quando gli stessi processi venivano celebrati da altro encomiabile e storico Giudice
"di prossimità territoriale", ossia il Pretore.
b) Inoltre, non può che evidenziarsi, altresì, che il processo penale davanti al giudice di pace,
per alcuni innovativi aspetti di natura speciale rispetto a quello ordinario del Tribunale, sottende nei
suoi principi generali una chiara funzione conciliativa e deflativa, prevedendo gli istituti disciplinati
dagli artt. 34 e 35 del D. Lgs. n. 274/2000 (senza considerare che il secondo istituto, afferente
l'estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, ulteriore giusto diritto devoluto dal legislatore
in favore dell'imputato, in ogni caso, ha necessità della concreta partecipazione (ovviamente, anche non
nel senso tecnico di comparizione durante il processo, atteso che le restituzioni o il risarcimento del
danno sottendono la prova di un'offerta reale) della persona offesa ai fini della sua celere applicabilità,
mentre sul primo, afferente la tenuità del fatto, allo stato abbiamo l'importante svolta nomofilattica
delle Sezioni Unite della Suprema Corte, la cui applicazione, sempre da valutarsi nel caso in cui non
risulti provata la colpevolezza dell'imputato, è comunque correlata alle determinazioni della persona
offesa (la non opposizione o, quantomeno, l'essere destinataria della regolare notifica della citazione a
giudizio).
Ne deriva, pertanto, che la libera scelta della persona offesa di non partecipare al processo, dalla
medesima azionato, non solo determina, in primis, la valutazione sulla legittimità dell'acquisizione al
fascicolo del dibattimento, ai fini della sua utilizzabilità, dell'atto di querela, ed, in caso favorevole in
ogni caso, l'attento esame del giudicante sull'attendibilità, in molti casi, dell'unico elemento del contesto
accusatorio, ma, aprioristicamente, delimita e comprime, comunque, di fatto il diritto di difesa
dell'imputato anche in ordine alla sua libera scelta di optare per un istituto alternativo al procedimento.
Lancio del sasso nello stagno: un legislatore attento avrebbe potuto pensare, oppure potrebbe
valutarlo anche adesso dopo le pronunce delle Sezioni Unite, di inserire nel contesto del quadro
normativo del D. Lgs. n. 274/2000 l'avviso alla persona offesa (magari, anche sin dall'assunzione
dell'atto di querela da parte della P.G.) dei possibili effetti processuali e sostanziali ex artt. 34 e 35
del futuro processo, al quale la medesima ha dato impulso, nell'ipotesi in cui, per qualsiasi sua ragione, in
seguito decidesse di non parteciparvi con alcuna qualità processuale.
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Considerate le c.d. "buone pratiche", che da anni coadiuvano in modo efficiente le poche risorse
della Giustizia, il "lancio del sasso" è ovviamente indirizzato ai presenti rappresentanti delle Procure.
C) L'APPLICAZIONE DEGLI ISTITUTI DI CUI AGLI ARTT.
34
E
35
DEL DECRETO LEGISLATIVO, BREVI
CONSIDERAZIONI.
Considerato che gli istituti sono stati esaminati anche alla luce delle recentissime sentenze della
Suprema Corte a Sezioni Unite, quanto segue vuole rappresentare un modesto contributo riflessivo su
alcuni aspetti interpretativi ed applicativi.
Sul 35 del decreto legislativo la Suprema Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 33864/2015,
formula il principio di diritto, per il quale: "In tema di reati di competenza del giudice di pace non
sussiste l'interesse per la parte civile ad impugnare la sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato ai
sensi dell'art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000".
La formulazione del principio è frutto di un percorso logico valutativo di rilevante interesse,
atteso che la Corte pone in evidenza cruciali aspetti dell'istituto e, di riflesso, della innovativa funzione
giudiziaria del Giudice di pace, che in questi anni (mio modesto parere) si è rivelato primo "pioniere"
degli obiettivi di prevenzione generale e speciale che caratterizzano l'ordinamento penale.
E' utile, quindi, sintetizzare i punti fondamentali della motivazione della Corte.
a) Gli istituti di definizione alternativa del procedimento di cui agli artt. 34 e 35 del decreto
legislativo costituiscono una delle principali innovazioni introdotte dalla normativa istitutiva della
figura del giudice di pace, con la premessa fondamentale che il 35, unitamente a quelli deflativi e
conciliativi, trova la sua ratio nell'esigenza di configurare un sistema che vuole porsi come mezzo di
tutela sostanziale dei beni giuridici lesi, più che come astratto ed indefettibile meccanismo retributivo
conseguente alla commissione del reato.
b) L'istituto del 35 viene qualificato (in conformità alla prevalente dottrina e giurisprudenza)
come causa di estinzione del reato, con le note conseguenze processualistiche che tale causa estintiva
può essere dichiarata immediatamente, sia prima, sia dopo l'esercizio dell'azione penale, in qualsiasi
stato e grado del procedimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p.. Del resto la stessa formulazione letterale
della norma è che il giudice pronuncia la sentenza di estinzione del reato, solo se ritiene le attività
risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e di quelle di
prevenzione.
c) Sulla valutazione del giudice in merito ai predetti presupposti della causa di estinzione del
reato, la Corte evidenzia che debba essere espressa una motivata valutazione di congruità dell'offerta
proveniente su impulso dell'imputato, "con riferimento alla soddisfazione tanto delle esigenze
strettamente compensative, in ordine al risarcimento dei danni civili cagionati dal reato, quanto di
quelle retributive e preventive di natura strettamente penalistica". Ossia, giusta comparazione tra le
attività poste in essere dall'imputato e la gravità del fatto, "per evitare che la mancata applicazione della
pena abbia ripercussioni negative sulla tenuta general-preventiva del sistema, e cercando
contemporaneamente di ricomporre il conflitto attraverso la compensazione dell'offesa, in modo
coerente con gli obiettivi di prevenzione generale e speciale che caratterizzano l'ordinamento penale.
La Corte chiarisce, poi, che la corretta decisione è, quindi, condizionata dalla prova concreta
della ricerca del risultato riparatorio, in relazione ai parametri del concreto ravvedimento ricavabile
dall'offerta e, soprattutto, dell'efficacia dell'attività riparatoria posta in essere nell'ottica della
prevenzione di ulteriori reati.
Inoltre, ultimo percorso logico valutativo per giungere al principio di diritto finale è quello sulla
“qualità” della valutazione del giudice in ordine alla sufficienza ed esaustività della condotta
riparatoria posta in essere dall’imputato. Sul tema ricordo unicamente il passaggio di interpretazione
costituzionalmente garantita, in virtù della quale, in conformità al principio sancito dall’art. 3 della
Costituzione, l’istituto può trovare applicazione anche nel caso in cui l’imputato versi in condizioni
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economiche disagiate e per tale motivo non sia in grado di procedere all’integrale risarcimento del
danno cagionato, pur avendo fatto tutto il possibile in tal senso. Questo è l’orientamento accolto dalle
Sezioni Unite, che, dopo un attento esame dei principi afferenti la natura della pronuncia disposta ai
sensi dell’art. 35 del decreto legislativo e di quelli afferenti l’impugnazione della sentenza su impulso
della parte civile, conclude per il mancato interesse di concretezza dell’impugnazione di quest’ultima
(eccetto i tassativi casi di cui all’art. 652 c.p.p.), tenuto conto che la sentenza emessa ai sensi dell’art. 35,
nel limitarsi ad accertare la congruità del risarcimento offerto ai soli fini dell’estinzione del reato, con
valutazione operata allo stato degli atti, senza alcuna istruttoria e con sentenza predibattimentale, non
riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per l’eventuale ristoro integrale delle restituzioni o del
risarcimento del danno, non producendo, così, alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte
civile, alla luce, altresì, del favor separationis dei due procedimenti ed azioni.
In considerazione delle superiori argomentazioni valutative della Suprema Corte, formulo delle
considerazioni che potranno determinare una sorta di sviluppo applicativo (come dei “centri
concentrici giuridici”) nello svolgimento quotidiano della funzione.
I chiarificatori richiami alla natura della statuizione (causa di estinzione del reato), alla
soddisfazione tanto delle esigenze strettamente compensative, in ordine al risarcimento dei danni civili
cagionati dal reato, quanto di quelle retributive e preventive di natura strettamente penalistica, con
ricomposizione del conflitto attraverso la compensazione dell'offesa, in modo coerente con gli obiettivi
di prevenzione generale e speciale che caratterizzano l'ordinamento penale ed alla “qualità” della
valutazione del giudice in modo costituzionalmente garantita, invitano il Giudice di pace alle seguenti
possibilità.
1. Discernere preventivamente (quindi, già in sede di prima udienza) ogni singolo caso, non
tanto sulla base della sola norma penale contestata nel capo d’imputazione (sia che l’impulso
dell’azione provenga ex art. 20 che ex art. 21 del decreto legislativo) e della letterale formulazione dello
stesso, poiché, in tesi, anche una ipotesi di lesioni personali colpose gravi, previa dimostrazione ed
offerta da parte dell’imputato, anche tramite la rappresentanza del suo difensore e procuratore speciale,
dei predetti presupposti evidenziati dalla Suprema Corte, potrebbe definirsi con sentenza
predibattimentale, allo stato degli atti ovvero previa minima istruttoria dibattimentale, con l’effetto di
una quadruplice “utilità” in un simultaneus processus: celerità di definizione (in conformità al principio
della ragionevole durata del processo); raggiungimento degli interessi pubblicistici dati dalla compiuta
verifica della realizzazione di quelle attività tese a garantire le esigenze di riprovazione e prevenzione
di natura penalistica (nuova funzione rieducativa della statuizione, posta in parallelo a quella
rieducativa della pena); celerità anche per le esigenze dell’imputato (che nella maggioranza dei casi è,
comunque, un cittadino non certo incline al crimine); primo e celere ristoro risarcitorio (anche
nell’ambito più privato della lesa dignità) in favore della persona offesa o parte civile, alla quale,
comunque, se ritenuto opportuno, non resta assolutamente pregiudicato il diritto di promuovere la
domanda davanti al giudice civile.
Utili sviluppi processuali.
1.1. L’istituto, per alcuni aspetti, potrebbe funzionare nella sua massima utilità processualistica
(sempre che l’imputato ne ravvisi l’opportunità) qualora ogni operatore del diritto ne colga una vaga
similitudine (sottolineo per i soli aspetti di concordare tempi e modalità delle condotte riparatorie
nell’ambito della prevista funzione conciliativa e deflativa) con i primi due procedimenti speciali del
Libro VI del c.p.p. (giudizio abbreviato ed applicazione della pena su richiesta). Traducendo il
considerando in termini pratici si potrebbe avere che:
a) anteriormente alla prima udienza di comparizione delle parti, l’imputato potrebbe presentare
una specifica istanza-memoria difensiva, con allegata eventuale documentazione (magari comunicata
in copia alla persona offesa, parte civile o parte ricorrente ed al Pubblico Ministero), con la quale
prospettare i concreti motivi a sostegno dell’invocata pronuncia ai sensi dell’art. 35 del decreto
legislativo;
b) se ritenuto opportuno alla propria posizione giuridica, l’imputato, depositando la predetta
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istanza-memoria, in prima udienza potrebbe prestare il consenso all’acquisizione al fascicolo del
dibattimento, ai fini della loro utilizzabilità, degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero.
Tale ipotesi, ovviamente, sottende la mancata costituzione di parte civile, oppure l’aver
preventivamente concordato con il difensore della medesima detto intento definitorio.
Utili sviluppi decisionali.
2. Ferma la valutazione del giudice, ritenuti insussistenti, ovvero insufficienti, i presupposti
sottesi alla sentenza di estinzione del reato ai sensi dell’art. 35, previa completezza del quadro
probatorio, ritenuta di rilevante lesività la condotta delittuosa e sussistente la responsabilità
dell’imputato, optare, a contrario rispetto alla portata della sentenza della Suprema Corte esaminata, per
una risposta integrale sulle statuizioni civili. L’ipotesi concreta potrebbe sorgere, ad esempio, in un caso
ex art. 590 c.p., ove il risarcimento del danno non patrimoniale (tenuto conto dell’insegnamento della
Suprema Corte sul tema da Cass. Civ. Sez. Un., 11.11.2008, n. 26972 a Cass. Civ., Sez. 3, 09.06.2015, n.
11851) può liquidarsi mediante i criteri previsti dagli artt. 138 e 139 del D. lgs. n. 209/2005.
La sentenza in questo caso potrebbe evitare un secondo procedimento in sede civile (con
deflazione dei carichi in detta sede), ma non può che sottendere una libera e professionale scelta del
giudice penale, che, ovviamente, non ne ha alcun obbligo normativo.
2.1. La stessa ipotesi appare ancor più agevole se si pensa a quei reati di rilevante lesività del
bene giuridico tutelato, ma di non particolare complessità nella determinazione dell'integrale quantum
risarcitorio, atteso che il danno è non patrimoniale e morale - Cass. Civ. cit. n. 11851/2015 - (e per i
quali, però, l'imputato non ha optato per le condotte riparatorie, né ovviamente può applicarsi una
"qualitativa" pronuncia ex art 34), (a mero titolo esemplificativo, consideriamo una ipotesi di gravose
minacce e lesioni, magari anche reiterate, in un contesto di pregresso coniugio o convivenza o danno di
un minore oppure in cui si disvela un incontrollato sentimento di disprezzo razziale). In questi casi,
l'attento esame del caso e senza alcuna superficiale istruttoria, ben può condurre ad un significativo
recupero di legalità e giustizia, grazie non tanto alla tipologia di pena prevista, quanto, invece, alla
significativa ed integrale decisione sulle statuizioni civili.
Utile considerazione per il GIP.
3. Tenuto conto delle superiori considerazioni valutative della Suprema Corte, altra possibilità
aperta alle determinazioni del Pubblico Ministero ed al Giudice di pace, in funzione di G.I.P., è
l'eventuale richiesta di archiviazione del procedimento ai sensi del combinato disposto di cui agli artt.
411 c.p.p. e 17 del D. Lgs. n. 274/2000, allorché i concreti presupposti di cui all'art. 35 del decreto
legislativo sussistano al termine delle indagini preliminari (magari per la celere e professionale attività
del difensore dell'imputato si dalla fase procedimentale di formalizzazione del verbale d'identificazione
da parte della P.G. a carico del proprio assistito indagato), attesa la chiara qualificazione applicativa
dell'istituto come causa di estinzione del reato.
*****
Sul 34 del decreto legislativo la Suprema Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 43264/2015,
formula il principio di diritto, per il quale: "Nel procedimento davanti al giudice di pace, dopo
l'esercizio dell'azione penale, la mancata comparizione in udienza della persona offesa, regolarmente
citata o irreperibile, non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di improcedibilità dell'azione penale
per la particolare tenuità del fatto in presenza dei presupposti di cui all'art. 34, comma 1, d.lgs. 28
agosto 2000, n. 274".
E' doveroso premettere che la Sentenza della Suprema Corte, tanto attesa, pone finalmente un
chiaro confine, nonché un giusto equilibrio, tra le complessive e primarie esigenze pubblicistiche del
sistema penalistico ed i diritti della persona offesa, anticipando quella che sarebbe stata (anche in
alternativa) una consona pronuncia sul tema da parte della Corte Costituzionale, poiché, così come
evidenziato dalle Sezioni Unite, anche l'ultimo intervento legislativo con l'introduzione nel cod. pen.
dell'art. 131 bis e nel codice di rito il comma 1 bis dell'art. 469 (afferente ovviamente reati di ben
maggiore lesività del bene tutelato rispetto a quelli devoluti alla competenza del Giudice di pace)
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poneva un chiaro squilibrio applicativo dei due istituti, in primis, alla luce dei principi degli artt. 3 e 111
della stessa Costituzione.
Sinteticamente, appare utile citare alcuni passaggi motivazionali per l'utilità applicativa
dell'istituto che ne deriverà nel corso delle quotidiane udienze, anche se, sommessamente, mi permetto
di evidenziare che, già da tempo, sono state innumerevoli le ordinanze dei Giudici di pace che,
sopperendo alla regolarità della mancata vocatio in ius della persona offesa, sino alla residuale notifica
ex art. 154, comma 1, c.p.p., avevano determinato una sorta di prassi comunicativa in favore del
querelante sui possibili esiti del procedimento, da questi azionato, nel caso in cui fosse rimasto assente.
Grazie alla funzione nomofilattica della Suprema Corte, oggi, la particolare tenuità del fatto nel
processo del Giudice di pace presuppone:
a) la regolarità della notifica della vocatio in ius della persona offesa secondo le graduali forme
previste dagli articoli del codice di rito e, così, sino alla formalizzazione ai sensi dell'art. 154, comma 1,
c.p.p. per sua irreperibilità, ovviamente su disposizione d'ufficio del giudice ai sensi dell'art. 29, comma
3, del D. Lgs. n. 274/2000;
b) il dettato normativo "...può essere dichiarata con sentenza solo se l'imputato e la persona offesa non
si oppongono" non va interpretato nel senso di accertare un'adesione - implicita o esplicita - della
persona offesa o dell'imputato, atteso che l'"opposizione", essendo un atto personalissimo che incide
sulla procedibilità dell'azione penale e, così, idoneo a determinare il contenuto della pronuncia (di
N.D.P.), deve essere necessariamente espressa, personalmente dalla parte ovvero dal suo procuratore
speciale (ancora una volta, mi permetto, per analogia processualistica, di richiamare l'attenzione alle
esigenze sottese alle procure speciali rilasciate per la costituzione di parte civile ovvero per la richiesta
dei procedimenti speciali previsti nel rito ordinario dal Libro VI del c.p.p.);
c) la volontà di opposizione può essere espressa mediante una memoria difensiva, deve
ritenersi ovviamente implicitamente data dall'atto di costituzione di parte civile con la formulazione
della richiesta di risarcimento dei danni e può intervenire solo dopo l'esercizio dell'azione penale,
essendo inidonea una espressione di opposizione formulata "ora per allora" prima di tale cadenza
processuale (restano, quindi, irrilevanti le varie formule di stile riportate nell'atto di querela, così come
già accadeva anche per l'opposizione alla definizione del procedimento con il decreto penale di
condanna).
L'ulteriore chiaro inciso motivazionale della Corte mi permette di escludere tra gli ulteriori
temi, che inizialmente pensavo di trattare, quello del rapporto tra le tenuità del fatto dell'art. 131 bis c.p.
e 34 del decreto legislativo, atteso che le prime prospettive dottrinali sul tema, del resto come è ovvio
che fosse, sono superate, poiché non è sovrapponibile la disciplina generale di cui all'art. 131 bis c.p. su
quella particolare dell'art. 34 del decreto legislativo (lex spacialis derogat generali, senza considerare, poi,
che il primo istituto è una causa di non punibilità, mentre il secondo è causa di esclusione della
procedibilità, che l'intero impianto normativo del D. Lgs. n. 274/2000 disciplina un processo speciale
rispetto a quello ordinario del Tribunale e che, in ogni caso, un attento legislatore, previa risoluzione
delle precedenti questioni processuali, avrebbe, comunque, dovuto prevedere l'abrogazione dell'art. 34
del decreto legislativo.
Concludo sul breve esame dell'istituto evidenziando una sua applicazione, sia in sede G.I.P. che
dibattimentale, in ordine ai reati previsti dal D. Lgs. n. 286/98 (ossia, dal 10 bis, 13, comma 5.2
penultimo periodo, 14, comma 1 bis, comma 5 ter e comma 5 quater), con una specifica simulazione in
merito alla contravvenzione di cui all'art. 10 bis.
Occorre premettere sulla verifica della contrarietà della previsione di una sanzione penale per la
condotta d’illecito trattenimento nel territorio dello Stato con la direttiva 2008/115/CE, che il reato, di
cui all’art. 10 bis D. Lgs. n. 286/98, non si pone in contrasto con i principi della predetta direttiva, atteso
che lo stesso “…non viola la direttiva Commissione CEE 16 dicembre 2008, n. 115, in materia di rimpatri come affermato dalla Corte di giustizia dell'UE nella sentenza del 6 dicembre 2012, in causa C-430/11 -, in
quanto non osta alla sua finalità primaria di agevolare ed assecondare l'uscita dal territorio nazionale degli
stranieri extracomunitari privi di valido titolo di permanenza, e non si pone in contrasto con l'art. 7, par. 1, della
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medesima norma sovranazionale che, nel porre un termine compreso tra i 7 e i 30 giorni per la partenza
volontaria del cittadino di paese terzo, non per questo trasforma da irregolare a regolare la permanenza dello
straniero nel territorio dello Stato” (Cass. Pen., Sez. Sez. 1, 22.05.2013, n. 22693).
Inoltre, la contravvenzione prevista dall'art. 10 bis del D. Lgs. n. 286/98 non può ritenersi
abrogata per effetto diretto della legge 28 aprile 2014 n. 67, posto che tale atto normativo ha conferito al
Governo una delega, implicante la necessità del suo esercizio, per la depenalizzazione di tale fattispecie
e che, pertanto, quest'ultima, fino alla emanazione dei decreti delegati, non potrà essere considerata
violazione amministrativa (Cass. Pen., Sez. Sez. 1, 19.09.2014, n. 44977).
Giova, poi, ricordare che la predetta direttiva comunitaria non esclude la possibilità per gli Stati
membri di comminare una sanzione penale per la violazione delle norme in materia di ingresso e di
soggiorno nel territorio dello Stato (Corte di Giustizia UE, I Sezione, Sent. 6 dicembre 2012, Sagor
(causa C-430/11).
A seguito della scadenza del termine del 24.12.2008 per il recepimento della direttiva, essendo
questa direttamente applicabile, ha comportato per il giudice nazionale l’obbligo d’interpretazione
conforme della normativa nazionale ed, in caso d’impossibilità di procedere in tal senso, di
disapplicazione della stessa, in qualità di giudice comunitario, vincolato all’obbligo di leale
cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, commi 2 e 3 del Trattato sull’Unione Europea.
Nel caso di specie, considerato che la previsione della conversione della pena pecuniaria in
lavoro sostitutivo e di permanenza domiciliare prevista dall’art. 55 del D. Lgs. n. 274/2000 non attiene
agli elementi costitutivi della fattispecie, bensì alla diversa fase dell’esecuzione della sanzione, alcun
rilievo avrà l’eventuale decisione di disapplicazione del giudice di pace nella sua veste di giudice
comunitario (cfr. citata Sentenza della Corte di Giustizia – causa Sagor).
Ferme le attuali suindicate premesse, è utile, però, procedere con un attento esame della
contravvenzione in relazione all'istituto di cui all'art. 34 del decreto legislativo.
In merito alla verifica della sussistenza della condotta tipicamente contestata all’imputato, ossia
l'ingresso (condotta commissiva) o il trattenersi illegittimamente nel territorio dello Stato (condotta
omissiva), il reato in esame si configura quale fattispecie contravvenzionale di pericolo astratto, per la
quale il legislatore ha inteso anticipare la soglia di punibilità, sanzionando comportamenti che si
pongono in violazione di norme amministrative di controllo sulla stessa legittimità dell’ingresso ovvero
del soggiornare nel territorio dello Stato.
In sede di accertamento dell’elemento oggettivo del reato occorrerà, così, valutare non solo la
sussistenza dell'offensività in concreto della condotta, ma anche il grado di lesività della stessa rispetto
al bene giuridico primario tutelato, costituendo così la speciale tenuità del fatto un’estrinsecazione del
principio di sussidiarietà e frammentarietà proprio del diritto penale in fase applicativa della norma
penale.
Sul punto, giova ricordare che la Suprema Corte ha evidenziato "Ed invero, "l'offesa è elemento
essenziale e costante di tutti i reati" e che anche i reati di pericolo astratto, in realtà, seppure in maniera
strumentale, afferiscono alla protezione di beni finali e, comunque, di interessi giuridicamente rilevanti, giacché i
reati - funzione ed anche quelli - ostacolo possono ledere in via indiretta beni giuridici, giacché i limiti della
determinatezza della fattispecie e dell’offensività sia pure indiretta tale da non far "perdere completamente di vista
l'evento offensivo" attengono ai principi costituzionali della tipicità e dell'offensività della fattispecie cioè alla
concezione del reato come fatto tipico lesivo di un bene” (Cass. Pen., Sez. 3, 06.11.2013; Cass. Pen., Sez, 4,
28.09.2007, n. 43383).
In considerazione della particolare natura del reato in esame, il predetto giudizio si rende
necessario.
Le ipotesi, commissive ed omissive, di cui all’art. 10 bis del D. Lgs. n. 286/98 configurano,
infatti, fattispecie di reato di pericolo astratto in cui il legislatore ha inteso anticipare la soglia di
punibilità del bene giuridico tutelato, costituito dalla sicurezza pubblica, sanzionando, di conseguenza,
condotte poste in essere in violazione di norme di controllo.
Ne deriva, così, che, per la natura del reato in esame, il rispetto delle norme amministrative,
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finalizzate al controllo dell’ingresso e del soggiorno del cittadino extracomunitario, assurge al rango di
oggettività giuridica. Le stesse norme, però, non vengono tutelate in quanto tali, non potendo il diritto
penale essere posto a tutela di funzioni amministrative, ma, in virtù del collegamento necessario con il
bene giuridico primario della sicurezza pubblica, in quanto le stesse si caratterizzano come strumentali
alla tutela di quest’ultimo.
Conforto a detta interpretazione è la stessa formulazione del dettato dell'art. 10 bis del D. Lgs. n.
286/98, che, pur aprendo la soglia di punibilità alla "..violazione delle disposizioni del presente testo unico..",
nei successivi commi 5 e 6 impone al giudice, al di là dell'intervenuta e pregressa offensività del reato
permanente di pericolo, di statuire il non luogo a procedere (così come dal complessivo impianto
normativo di settore alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata; a titolo
esemplificativo, richiamandosi le ipotesi di cui all'art. 19 dello stesso T.U.).
In tale ottica, le fattispecie di reato di pericolo astratto (o presunto), pur caratterizzandosi per
una valutazione di pericolosità della condotta già formulata dal legislatore, non per questo comporta il
venir meno del potere-dovere del giudicante di valutare, in concreto, la sussistenza dell’offensività
della condotta e, come nel caso dell’istituto della particolare tenuità del fatto, della necessità della
verifica dell’applicazione della sanzione penale nel caso concreto, tenuto conto della continua verifica
in concreto da parte del giudicante della sussistenza di un’effettiva lesione dell’interesse oggettivo
principale.
Tale verifica è resa necessaria al duplice fine, dal un lato, di applicare la norma ai soli fatti
concretamente offensivi, in conformità al principio costituzionale della necessaria offensività della
condotta (“…l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della singola condotta, anche per i reati formali
e di pericolo presunto, in ogni caso, è devoluta al sindacato del giudice penale. Conseguentemente la mancanza di
offensività in concreto, lungi dall'integrare un potenziale vizio di costituzionalità, implica una valutazione di
merito rimessa al giudice” Corte Costituzionale 18 luglio 1997, n. 247) e, dall’altro, nel rispetto del
principio di sussidiarietà, di escludere dall’operatività della norma incriminatrice quelle condotte che
presentano una offensività minima del bene primario e che non giustificano nel caso concreto
l’esercizio dell’azione penale (Cass. Pen., Sez. 4, 28.09.2007, n. 43383).
Inoltre, la condizione prevista dall’art. 34 del D. Lgs. n. 274/2000 della mancata opposizione
della persona offesa per l’applicabilità dell’istituto, che apre il Capo V dello stesso decreto legislativo),
per le predette e costanti statuizioni della Suprema Corte, non è intesa interpretabile in senso restrittivo,
atteso che la sottesa ed unica finalità è quella di accertare la volontà della persona offesa del reato in
presenza di reato perseguibile a querela di parte.
In particolare, poi, sull’applicabilità dell’istituto, di recente, si sono espresse in senso favorevole
la Corte Costituzionale e la Suprema Corte (Corte Costituzionale, Sentenza n. 250 del 2010; Cass. Pen.,
Sez. 1, 05.07.2013, n. 35742; Cass. Pen., Sez. 1, 08.03.2011, n. 13412).
Fermi i predetti principi, in ordine all’individuazione della fattispecie concreta contestata questa
deve essere individuata nella permanenza irregolare nel territorio dello Stato, che si concretizza
nell’assenza di documento idoneo ovvero della mancata richiesta di rinnovo del permesso di
soggiorno.
Nell'esame dei casi concreti si ritiene utile ponderare quelle circostanze di fatto che permettono
di statuire ai sensi dell’art. 34 del D. Lgs. n. 274/2000, soprattutto quando l’offensività della condotta
posta in essere dall’imputato lede in misura minima il bene giuridico primario della sicurezza pubblica
tutelato dalla norma (pensiamo alle comuni ipotesi di all'art. 13, comma 2, lett. a) e b) del D. Lgs. n.
286/98), poiché, in concreto, si ha una lesione non grave del bene giuridico secondario del controllo
delle frontiere, questi considerato, in una interpretazione costituzionalmente orientata, come finalizzato
alla tutela del bene primario della sicurezza pubblica nel territorio dello Stato.
Vengono, quindi, in rilievo tutte quelle fattispecie ove il cittadino non comunitario viene
fermato dalla P.G. nel corso di una ordinaria attività di controllo sul territorio, all’esito della quale non
sono emergono elementi, ovvero indizi, di ulteriori reati, se non il semplice fatto che il medesimo non
sia in possesso di un valido titolo per soggiornare nel territorio dello Stato.
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Risulta, così, incensurato e senza rilevanti precedenti di polizia (se non, magari, le classiche
identificazioni sempre ai fini delle previsioni del T.U.), ed, inoltre, con il rilievo che, durante il periodo
di soggiorno nel territorio dello Stato, non solo non ha commesso reati, ma magari ha svolto attività
lavorative in nero, ovvero vive di ininfluenti espedienti, unitamente a propri familiari (tipo lavavetri o
offrendo modesti prodotti, se non dei minimi proventi di elemosine, anche grazie agli interventi
umanitari di associazioni di volontariato), oppure, dopo anni di incensurabile vita da lavoratore, per
una qualsiasi causa del mercato resta senza lavoro per un certo periodo e, così, de plano (rectius ex lege),
c.d. "clandestino", ossia non più titolato a soggiornare legalmente nel territorio dello Stato e, magari, i
figli si esprimo con un italiano corretto, ma con un locale accento del luogo, perché continuano il loro
percorso di studi.
In tali casi la condotta omissiva posta in essere dall’imputato, può qualificarsi come avente un
minimo disvalore criminale, che non giustifica nel caso di specie l’applicazione di una sanzione penale,
oltre a quella che, in tesi, potrebbe essere comminata in sede amministrativa, ritenendosi di giustizia il
dichiarare il non doversi procedere nei confronti dell’imputato per particolare tenuità del fatto.
Aggiungo solamente che resta superfluo l'infelice mancato richiamo espresso nel sesto comma
dell'art. 10 bis delle disposizioni del Titolo IV dello stesso Testo Unico (sul Diritto all'unità familiare e
tutela dei minori) ed, in particolar modo, dell'art. 30, è di semplice evidenza (per interpretazione
costituzionalmente orientata) che la tutela del lavoro, della famiglia, della prole, così come dei minori
rientra tra i compiti primari della Repubblica italiana in virtù dei principi sanciti negli artt. 29, 30, 31 e
35 della Costituzione.
Concludendo, quindi, sul tema, richiamo un piccolissimo passo della dottrina morale di Seneca,
tratto da "La Giustizia Sociale": "Si devono correggere i colpevoli sia con l'ammonizione sia con
la forza, ora dolcemente, ora aspramente: bisogna renderli migliori tanto a sé stessi, quanto
agli altri, ma senza collera......A reprimere gli errori e le scelleraggini non è adatto un
giudice adirato; l'ira è un delitto dell'anima, e un delinquente non può correggere le colpe
altrui......Chi ha cominciato appena a peccare, con frequenti ma non gravi cadute, potrà
essere emendato con semplici ammonizioni private e pubbliche.....per un altro sarà necessario
un marchio più forte e doloroso: l'esilio; la nequizia ormai indurita richiederà rimedi più duri,
i ferri e la prigione".
D) SUI RITI PREVISTI DAGLI ARTT.
20 BIS E 20 TER DEL DECRETO LEGISLATIVO, BREVI CONSIDERAZIONI.
Premessa. Le speciali modalità di accesso al dibattimento, denominate "Presentazione immediata a
giudizio in casi particolari" e "Citazione contestuale dell'imputato in udienza in casi particolari", già criticate
dalla Dottrina e dal Consiglio Superiore della Magistratura (con il parere del 10 giugno 2009), poiché
trattasi di procedimenti particolarmente onerosi e non giustificati, sul piano della ragionevolezza, in
relazione alla ridotta gravità dei reati da celebrarsi con tali riti (così come giustamente evidenziato dal
Dott. Giovanni Ariolli, Il procedimento davanti al giudice di pace, in Procedura Penale, Teoria e pratica del
processo, a cura di Giulio Garuti, Vol. III, Utet Giuridica 2015, 786), restano ancora oggi la vera "criticità"
del processo penale davanti al giudice di pace, non tanto per le questioni processualistiche sottese
(comunque particolari, data l'infelice formulazione legislativa dei due dettati normativi), quanto, in
effetti, per il gravoso impegno e dispendio di risorse degli Uffici (dal primo intervento della P.G., alla
correlata attività della Procura ed alla continua ed immediata disponibilità degli Uffici del giudice di
pace) per definire celermente procedimenti aventi ad oggetto contravvenzioni di indubitabile modesta,
per non dire (nella maggior parte dei casi) di minima lesività del bene giuridico tutelato.
Considerato il logico accostamento dei due riti, rispettivamente, a quello del giudizio
immediato ex artt. 453 e ss .c.p.p. ed a quello del giudizio direttissimo ex artt. 449 e ss. c.p.p., è di chiara
evidenza la ragione dell'espressa critica sul principio di ragionevolezza in relazione all'esiguità del
danno, ed in particolar modo, del pericolo derivato dalle contravvenzioni accertate dal Giudice di pace,
tenuto conto, altresì, delle relative pene pecuniarie previste dal legislatore.
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Occorre ricordare, infatti, che i predetti riti, nell'altissima percentuale delle quotidiane udienze,
si applicano ai reati previsti dal D. Lgs. n. 286/98 (ossia, art. 10 bis, art. 13, comma 5.2 penultimo
periodo, art. 14, comma 1 bis, comma 5 ter e comma 5 quater), reati il cui imputato, per logiche e
plausibili ragioni sottese, difficilmente potrà assolvere il suo debito verso lo Stato, anche nella migliore
ottica di un proprio ravvedimento e riabilitazione nella prospettiva di un corretto inserimento nel
tessuto sociale. Resta, inoltre, quantomeno di dubbia efficacia la funzione costituzionale rieducativa
della pena, atteso che il complessivo impianto normativo di settore (con priorità applicativa dei principi
ribaditi dalla Corte EDU e sanciti dalla Costituzione) privilegia, giustamente, la celerità dei
procedimenti civili-amministrativi previsti per la stessa condotta commissiva ovvero omissiva, tenuto
conto che, ai sensi degli artt. 10 bis, comma 5 e 6, e 14, comma 5 septies dello stesso D. Lgs. n. 286/98, "il
giudice, acquisita la notizia dell'esecuzione dell'espulsione, pronuncia sentenza di non luogo a procedere".
Mi permetto di aggiungere, per l'ovvia corretta interpretazione del dettato normativo, che il
giudice deve emettere sentenza di non doversi procedere, ai sensi dell'art. 529 c.p.p. se si ravvisa il
venir meno di una condizione di procedibilità, ovvero, ai sensi dell'art. 531 c.p.p. se si ravvisa che la
circostanza di fatto acquisita in atti è causa di estinzione del reato.
In definitiva, con l'esecuzione dell'espulsione amministrativa o dell'intervenuta
regolarizzazione della posizione amministrativa del cittadino non comunitario, lo Stato non ha più
normativamente interesse alla prosecuzione dell'azione penale sottesa ai predetti reati, in quanto
l'interesse pubblico primario è già stato tutelato in altra sede (da una decisione per decreto di un
Questore, ad una pronuncia di un Tribunale Ordinario o per i Minorenni, all'ordinanza ex art. 13,
comma 8, del D. Lgs. n. 286/98 ed art. 18 del D. Lgs. n. 150/2011 ovvero al decreto ex artt. 13, comma 4
e 5 bis, e 14 D. Lgs. n. 286/98, questi ultimi emessi dal Giudice di pace).
Il rilievo non può che essere dovuto, quando attualmente si dibatte sui vari intenti legislativi di
riforma dei processi, degli strumenti e delle modalità delle indagini, così come (nella penombra) della
c.d. riforma della "magistratura onoraria", prestando, al contempo, poca attenzione alle sempre più
precarie "condizioni e risorse" della Giustizia, pilastro fondamentale di ogni civile ed evoluta
democrazia (basterebbe rileggere alcune opere ereditate dai Maestri del passato pensiero greco e latino,
ma di ineccepibile attualità, sino ai vari costituzionalisti della nostra unica ed inimitabile cultura
giuridica, per comprendere la necessità di un ritorno ad un nuovo intervento di politica legislativa; tra
questi mi è gradito citare Gustavo Zagrebelsky e, per un riesame di alti temi, Paolo Grossi, Ritorno al
diritto, Editori Laterza, 2015).
Un'attuale ermeneutica sui due riti speciali potrebbe condurre alla seguente conclusione: " il
giudice di pace è in possesso di un potente strumento bellico, per poi utilizzarlo contro le formiche "
(scusandomi per l'ultimo sostantivo femminile, ma che è funzionale a rappresentare e sottendere alcuni
drammatici esodi globali in atto, oltre che costituire un classico paradosso tra sproporzione e smodata
ragionevolezza dello strumento rispetto alla natura del reato).
Considerata la semplice analisi degli elementi costitutivi dei predetti reati, sui quali, seppur con
estesa divagazione sul profilo della politica legislativa, reputo superfluo ogni ulteriore rilievo (se non
richiamare l'attenzione dell'analisi valutativa del giudicante sui "giustificati motivi", che ogni caso
specifico possano sottendersi alla correlata contestazione del capo d'imputazione, analisi doverosa per
una giusta statuizione, così come le varie cause sottese alla pronuncia di non doversi procedere),
spostando, così, l'esame su un tema processuale non banale e, di sicuro, più volte affrontato da molti
colleghi nel corso dello svolgimento della funzione.
Dati per scontati i presupposti di procedibilità dei riti (ex officio, flagranza del reato o evidenza
della prova, data quest'ultima anche dalla sufficienza della fondatezza della tesi accusatoria per la
rappresentazione di una base fattuale non controversa, seppur astrattamente controvertibile, così come
le esigenze di celerità sottese alla citazione contestuale, date principalmente dalla concomitante
limitazione o privazione della libertà personale), la speciale particolarità degli stessi è la promozione
dell'azione penale, costituita da una formazione in progressione di atti che, in sintesi, ne determinano
un unicum, partendo dall'impulso dato dalla richiesta della P.G. (che, in sintesi, deve contemplare già la
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chiara formulazione dell'addebito, con alcuni elementi richiesti da un decreto di citazione a giudizio
diretto, singolarità se si pensa alla titolarità in capo al Pubblico Ministero della concreta promozione
dell'azione penale) e completandosi nell'atto finale dell'autorizzazione redatta dal Pubblico Ministero,
eccetto il caso in cui questi non ravvisi i presupposti previsti dall'art. 25, comma 2, del decreto
legislativo (inammissibilità, infondatezza, incompetenza per territorio).
Fermo il principio costituzionale (art. 112 Cost.) per il quale spetta al Pubblico Ministero
l'obbligo di esercitare l'azione penale, è ovvio, poi, che nella fase di determinazione della notitia criminis,
il medesimo possa interloquire con la P.G., al fine di verificare anche il corretto inquadramento
giuridico della fattispecie concreta. L'art. 20 bis, comma 3, del decreto legislativo, infatti, richiama
espressamente il dettato dell'art. 25, comma 2, dello stesso decreto, ove è previsto che il Pubblico
Ministero "...formula l'imputazione confermando o modificando l'addebito contenuto nel ricorso" (rectius, nella
richiesta della P.G.). Nell'ulteriore rito di cui all'art. 20 ter il problema non sussiste, atteso che, appresa
la notizia di reato, è il Pubblico Ministero che "..rinvia l'imputato direttamente dinanzi al giudice di pace con
citazione con citazione...). Come evidenziato in precedenza, in questo secondo caso la vocatio in ius è
logicamente simile a quella disposta nel giudizio direttissimo.
Le questioni più dibattute attengono al termine previsto dall'art. 20 bis (di 15 giorni) per la
formulazione dell'autorizzazione del Pubblico Ministero e, così, per la presentazione immediata
dinanzi al giudice di pace dell'imputato e la "discrasia" processuale che può sorgere da una nullità
(assoluta o relativa) della vocatio in ius rispetto al conseguente provvedimento del giudice, teso ad
impedire quei vizi che possano inficiare in modo assoluto la propria decisione.
L'impianto normativo del D. Lgs. n. 274/2000 non prevede espressamente che il ricorso ai
procedimenti speciali abbia carattere obbligatorio, così come non può ritenersi perentorio il termine dei
15 giorni per formalizzare l'autorizzazione alla presentazione immediata a giudizio dell'imputato (Cass.
Pen., Sez. 1, 27.01.2011, n. 10994; Cass. Pen., Sez. 1, 12.05.2015, 25815).
Il secondo rilievo è espresso dal redigente, ma ricavabile dalle diverse e, per alcuni temi, (quali
l'ordinanza del giudice che dispone la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero, con regressione del
procedimento) contrastanti motivazioni della Suprema Corte succedutesi nel tempo. Infatti, anche nella
parte motiva dell'ultima recentissima statuizione della Corte citata (ossia la sentenza n. 25815/2015) è
dato leggere "D'altro canto il DLgs. n. 286 del 1998, art. 10 bis e art. 14, comma 5-quinquies, non dice
espressamente che il ricorso ai procedimenti speciali in esame ha carattere obbligatorio. Sicché, quando il
Pubblico ministero non è in grado di assicurare la presentazione nei quindici giorni dello straniero
imputato di tali reati, deve procedere nelle forme ordinarie per la citazione a giudizio dinanzi al
giudice di pace, seguendo la via più breve (ndr. e non perentoria) ma coniugandola al rispetto delle
garanzie, ivi compresa quella concernente i termini dilatori, previsti per l'imputato (Sez. 1, n. 30504 del
15/06/2010, Balozi, Rv 248476; Sez. 1, n. 43048 del 24/10/2011, Agribi, non massimata)" (ndr. il grassetto e la
sottolineatura sono del redigente).
Il giusto principio processuale ricavabile è, quindi, quello che la ratio dei riti speciali deve,
comunque, essere rispettata, non potendo la P.G., in primis, ed il Pubblico Ministero, subito dopo,
disporre la vocatio in ius per i predetti reati a distanza anche di qualche mese rispetto all'accertamento
della notitia criminis. Questo è, del resto, il caso specifico esaminato dall'ultima citata statuizione della 1
Sezione della Suprema Corte (fatto accertato il 12.02.2012, con richiesta della P.G. del 24.03.2012,
autorizzazione ex art. 20 bis del Pubblico Ministero del 03.04.2012 e con notificazione dell'atto presso il
difensore d'ufficio domiciliatario in data 08.04.2012 rispetto, però, all'udienza fissata alla data del
10.04.2012. Quest'ultima circostanza determina obiettivamente una nullità, direi non sanabile, attesa
l'evidente violazione del diritto di difesa, tenuto conto, altresì, che tra il difensore d'ufficio ed il proprio
assistito non può certo ritenersi sussistente quell'immediato scambio comunicativo proprio del
rapporto negoziale difensivo di fiducia).
La Corte, infatti, nel caso in esame, chiarisce che lo scopo della legge sarebbe completamento
eluso, così come i diritti di difesa sarebbero del tutto ingiustificatamente compressi, se, realizzatasi
l'erosione dei tempi per la difesa, non si ritenesse di carattere tassativo il termine dei quindici giorni per
l'instaurazione del giudizio.
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In ipotesi del genere, così quando il giudice rileva la mancata prova dell'avvenuta notifica della
vocatio in ius, ovvero che la sua redazione non sia tradotta nella lingua parlata e conosciuta
dall'imputato, l'ordinanza dispositiva della restituzione degli atti al Pubblico Ministero affinché
provveda a riguardo, per un orientamento, non costituisce alcuna stasi del procedimento, mentre per
altro orientamento, la stessa ordinanza è da considerarsi atto abnorme, perché emesso in difetto di
potere (sul primo orientamento cfr. Cass. Pen., Sez. 1, 24.09.2012, n. 41099; Cass. Pen., Sez. 1, 01.12.2010,
n. 180; sul secondo orientamento cfr. Cass. Pen., Sez. 1, 10.05.2013, n. 27177).
La questione poggia, in sintesi, sulla valutazione ("criticità": "critica") se tali vizi della vocatio in
ius ne costituiscano una nullità assoluta, tale da dover comportare la regressione del procedimento o
meno.
Sulla complessità del tema, così come sull'attualità della "evoluzione" del diritto processuale
nazionale alla luce dei principi costituzionali e della CEDU (in particolar modo, sul riequilibrio tra
tassatività delle regole pubblicistiche e sottesi o correlati diritti), il naturale limite dell'intervento non
permette ovviamente di offrirne un esaustivo contributo, pur ritenendo almeno utile suggerire una
prima lettura di autorevole Dottrina (Caianiello M., Premesse per una teoria del pregiudizio effetivo nelle
invalidità processuali penali, BOLOGNA, Bononia University Press, 2012, pp. 205).
Lo sforzo espositivo sarà, quindi, quello di sintetizzare in poche battute la portata degli artt. 177
e seguenti del c.p.p. sulla relazione tra la vocatio in ius ed i principi sottesi al diritto di difesa nel giusto
processo.
Tale premessa può indurci subito a considerare che i suindicati orientamenti della stessa
Sezione della Suprema Corte (la prima), leggendo attentamente le motivazioni, rivelano non tanto un
contrasto su nette posizioni giuridiche, quanto una attenta e continua elaborazione sull'equa
ponderazione ed applicazione delle norme processuali tra la corretta instaurazione del processo e, così,
in primis della chiara formulazione dell'addebito contestato all'imputato, e la giusta garanzia dei diritti
di difesa e, così, dei principi della ragionevole durata del processo, del contraddittorio tra le parti,
tenuto conto, altresì, del princio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva.
L'intervento, l'assistenza e la rappresentazione dell'imputato al processo, espressi dall'art. 178,
comma 1, lett. c) del c.p.p., ricomprendono sia il diritto ad essere presente alle attività processuali, che il
diritto ad esercitare (aggiungerei con interesse e, così, fattivamente) tutte le facoltà dalla legge attribuite
al medesimo.
A titolo esemplificativo, sul primo diritto dobbiamo sottendere: la partecipazione cosciente al
processo (che, ovviamente, ricomprende non solo le capacità cognitive proprie, bensì anche il diritto
alla traduzione degli atti), il diritto ad essere citato, quello di ricevere gli avvisi relativi allo svolgimento
di attività alle quali possa partecipare (ad es., nel nostro caso, chiedendo di poter rendere spontanee
dichiarazioni, al fine di produrre personalmente in aula, magari, una propria domanda di protezione
per asilo politico o per motivi di carattere umanitario, tenuto conto, per plausibili ragioni,
dell'impossibilità di contattare celermente il nominato difensore d'ufficio), il diritto ad essere avvisato
sui diritti che può esercitare, il complesso di tutte le attività in cui si sostanzia la difesa tecnica anche
per il tramite del difensore.
Fra questi diritti la sola compressione alla partecipazione al processo, determinata dall'omessa
citazione dell'imputato e del suo difensore, è prevista come nullità assoluta dall'art. 179 c.p.p..
Sui termini e modalità della vocatio in ius, ferme le particolarità di ogni caso in esame, ritengo
che possa rappresentare un primo punto fermo la seguente massima della Corte, alla quale possono poi
aggiungersi quegli elementi valutativi sottesi ai principi nazionali e sovranazionali suindicati.
In tema di notificazione della citazione dell'imputato, la nullità assoluta e insanabile
prevista dall'art. 179 c.p.p. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata
omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a
determinare la conoscenza effettiva dell'atto da parte dell'imputato; la medesima nullità non ricorre
invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di
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esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all'art. 184 c.p.p. (Cass. Pen.,
Sezioni Unite, 27.10.2004, n. 119).
Rilevata, comunque, una nullità non sanabile, afferente la ileggittimità della vocatio in ius,
consegue la questione sulla natura abnorme, o meno, del provvedimento del giudice che disponga, con
la trasmissione degli atti, la regressione del processo alla fase in cui è sorta la nullità.
Allo stato, secondo l'orientamento maggioritario, non è abnorme il provvedimento con cui il
giudice del dibattimento, rilevata la mancanza della notifica all'imputato del decreto di citazione a
giudizio, invece di procedere autonomamente alla rinnovazione della stessa, dispone la restituzione
degli atti al pubblico ministero affinché vi adempia, costituendo detto provvedimento espressione di
poteri riconosciuti al giudice dall'ordinamento e non determinando, comunque, la stasi del
procedimento (Cass. Pen., Sez. 4, 27.04.2015, n. 27027).
Sul punto, richiamato il principio espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 25957 del
26.03.2009, la Corte chiarisce che, indipendentemente dalla fondatezza del provvedimento del giudice
(con il quale dispone la trasmissione degli atti al P.M.), lo stesso non può considerarsi abnorme,
essendo espressione dei poteri riconosciuti al giudice dall'ordinamento e non determinando la stasi del
procedimento, poiché l'abonormità funzionale, riscontrabile nel caso di stasi del processo e di
impossibilità di proseguirlo, va limitata all'ipotesi in cui il provvedimento giudiziario imponga al
Pubblico Ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo, rilevabile nel corso del futuro del
procedimento o del processo.
Risulta utile richiamare anche la sentenza della IV Sezione della Suprema Corte, n. 3805 del
17.12.2014, che in relazione alla rilevata nullità della vocatio in ius per un rito speciale di competenza del
Tribunale, evidenzia come "l'instaurazione del giudizio immediato per reati per i quali l'esercizio
dell'azione penale deve avvenire con citazione diretta integra una ipotesi di nullità assoluta, in quanto,
oltre a precludere all'imputato il diritto a ricevere la notifica dell'avviso di conclusione delle indagini ex
art. 415-bis cod. proc. pen., determina un indebito mutamento del giudice naturale all'esito del giudizio
abbreviato".
Da tali pronunce si ricava l'anticipata necessità di ponderare le nullità ed i correlati
provvedimento in un'ottica di apertura alle prospettive date dall'opportunità di valutare le effettive
pregiudizialità, così come richieste da un'intepretazione costituzionalmente orientata dell'instaurazione
del processo e del diritto di difesa, con attenzione alla Convezione EDU.
Ossia, è giusto porsi la domanda se un atto è da considerarsi nullo in assoluto se, al contempo,
lo stesso, ovvero la sanatoria o rinnovabilità dello stesso, non abbia determinato un effettivo
pregiudizio ai predetti principi ?
Nel processo penale del giudice di pace (ed in particolar modo, con riferimento ai riti speciali in
esame) occorre ricordare:
a) è indubbio che i principi di cui all'art. 111 della Costituzione, così come quelli previsti
dall'art. 6 della Convenzione EDU, devono ritenersi applicabili, atteso che, al di là dell'espresso
richiamo fatto dall'art. 2 del decreto legislativo, il giudice di pace è un giudice comunitario;
b) fermi i superiori principi, nel processo penale del giudice di pace, così come nei riti speciali di
cui agli artt. 20 bis e 20 ter, non sono applicabili gli istituti elencati nello stesso art. 2, né quello della
sospensioen condizionale della pena;
c) anche se il combinato disposto di cui agli artt. 32 e 32 bis del decreto legislativo non richiama
espressamente la disposizione d'ufficio del giudice sulla rinnovazione della citazione a giudizio ovvero
della sua notifica, alla luce del principio conforme evidenziato dalla Suprema Corte, è, comunque,
pacifico che lo stesso impianto normativo non prevede espressamente che il ricorso ai procedimenti
speciali abbia carattere obbligatorio, con la conseguenza che l'accertamento della responsabilità penale,
o meno, per i reati a procedibilità d'ufficio, ovvero previsti dal D. Lgs. n. 286/98, può celebrarsi anche
con il rito ordinario di cui all'art. 20 del decreto legislativo;
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d) solo una nullità assoluta della vocatio in ius, che abbia compresso ovvero pregiudicato un
concreto diritto della difesa (e per la quale la prosecuzione del giudizio comporterebbe la nullità di tutti
gli atti susseguenti e, così, della sentenza) deve determinarne la rilevazione d'ufficio da parte del
giudice e può, in mancanza di validi effetti sanatori, comportare la restituzione degli atti al Pubblico
Ministero, non costituendo tale disposizione regressiva del procedimento un atto abnorme.
In definitiva, considerati i principi fondamentali del giusto processo (con equa ponderazione tra
la ragionevole durata del processo e diritto alla difesa), in materia di reati previsti dal D. Lgs. n. 286/98,
si possono formulare le seguenti considerazioni.
1) Gli Uffici della Procura devono assolvere al proprio compito afferente la corretta vocatio in ius
senza disattendere la celerità e specialità dei riti previsti dagli artt. 20 bis e 20 ter, oppure, tenuto conto
di qualsivoglia esigenza anche organizzativa dell'Ufficio, disporre la stessa vocatio in ius con rito
ordinario ai sensi dell'art. 20 dello stesso decreto legislativo.
2) Il Giudice di pace, anche quale giudice comunitario, deve farsi garante dei predetti principi
(sia di natura processuale che di natura sostanziale) e, qualora rilevasse un vizio afferente la vocatio in
ius (ovviamente, che non comporti l'assoluta mancata citazione dell'imputato o del suo difensore) di per
sé non costituente un effettivo pregiudizio al diritto di difesa (a titolo esemplificativo, notifica della
richiesta e dell'autorizzazione ex art. 20 bis all'imputato ed al difensore, entro il ventesimo giorno
dall'accertamento della notitia criminis, ma con udienza fissata a trenta giorni dopo le notifiche),
valutare la possibilità di rinnovare la vocatio, con concessione di termine a difesa e tramutamento del
rito da speciale in ordinario, tenuto conto che la formulazione del capo d'imputazione, mediante
lettura, è fatta dal Pubblico ministero in udienza (art. 32 bis, comma 4, del decreto legislativo) e che la
stessa difficilmente potrà mutare nella sua determinazione fattuale e giuridica per la sola ipotetica
conversione del rito, stante la modesta qualificazione legislativa degli stessi reati.
E' ovvio: non giudici-legislatori, bensì giudici attenti nella fase intepretativa ed applicativa del
diritto, tenuto conto sempre dei superiori principi.
Infine, sul tema, pensando ad una simulazione su un caso in cui all'imputato è contestata la
violazione di cui all'art. 10 bis del D. Lgs. n. 286/98, ma la celebrazione del processo è iniziata a
notevole distanza di tempo dall'accertamento della notitia criminis (quindi, con rito ordinario) allego un
esempio di ordinanza, alla quale (giusto per completezza d'informazione) è, poi, seguita sentenza
emessa ai sensi dell'art. 34 del decreto legislativo.
"Nel procedimento indicato a margine del verbale, promosso a carico di:
XXXXX KKKK, nato in .......... in data ............ (CUI 04NY.......), imputato del reato di cui all’art. 10 bis
D. Lgs. n. 286/98,
il giudice di pace, nella persona del Dott. ..........................., esaminati gli atti e sentite le parti, ha
pronunciato la seguente
ORDINANZA
- preso atto che la difesa ha prestato il consenso all’acquisizione ed all’utilizzabilità della relazione ex
artt. 11 e 20 bis D. Lgs. n. 274/2000, così come degli allegati, e che il Pubblico Ministero ha dichiarato
di rinunciare all’esame dei testi ed il difensore dell’imputato ha accettato la rinuncia ex art. 495,
comma 4 bis, c.p.p..
- rilevato il considerevole lasso temporale trascorso dalla data della notitia criminis alla celebrazione
del presente processo, fattore non trascurabile in ordine al possibile intervenuto mutamento del
quadro giuridico amministrativo del cittadino non comunitario;
- considerato che l’impianto normativo di settore ed, a titolo esemplificativo, le varie ipotesi richiamate
dall’art. 10 bis, commi 5 e 6, del D. Lgs. n. 286/98, possono comportare una pronuncia di natura
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vincolata, tenuto conto, altresì, che l’attualità della predetta posizione giuridica amministrativa
dell’imputato, in relazione al capo d’imputazione, non può che sottendere una interpretazione
costituzionalmente orientata di ogni singolo concreto caso in esame;
- ritenuto che l’acquisizione delle suindicate prove con il consenso delle parti, alla luce delle superiori
considerazioni rende necessario completare l’istruttoria, ai sensi degli artt. 507 c.p.p. e del combinato
disposto di cui agli artt. 32, comma 2, e 32 bis del D. Lgs. n. 274/2000, mediante l’acquisizione al
fascicolo del dibattimento di una sintetica relazione, redatta a cura dell'Ufficio Immigrazione della
Questura di Modena, in merito all'attuale posizione giuridica amministrativa dell'imputato,
DISPONE
che l'Ufficio Immigrazione della Questura di Modena trasmetta a questo Ufficio una relazione in
merito all'attuale posizione giuridica amministrativa dell'imputato, prima della udienza di seguito
indicata.
Rinvia, a tal fine, il processo all’udienza del 00.00.2015, ad ore 9:00, anche per la formulazione delle
conclusioni e per la decisione.
Manda alla cancelleria per la comunicazione della presente ordinanza all’Ufficio Immigrazione della
Questura di Modena, autorizzandone la comunicazione via fax ovvero per PEC.
Modena,
Il Giudice di Pace
E) SULLA REDAZIONE DEL VERBALE D'UDIENZA E DELLE DICHIARAZIONI TESTIMONIALI DURANTE L'ISTRUTTORIA
DIBATTIMENTALE; BREVE RIFLESSIONE.
Per scelta del legislatore, la celebrazione del processo penale non contempla lo strumento della
stenotipia, né un alternativo sistema di registrazione fedele delle dichiarazioni rese dai testi.
Il decreto legislativo, all'art. 32, comma 3, recita unicamente "Il verbale d'udienza, di regola, è
redatto solo in forma riassuntiva". Ritengo utile riportare anche il susseguente comma 4 "La motivazione
della sentenza è redatta dal giudice in forma abbreviata e depositata nel termine di quindici giorni dalla lettura del
dispositivo. Il giudice può dettare la motivazione direttamente a verbale".
Mi permetto di evidenziare che, anche in questo caso, la importante relazione tra la funzione
Giustizia ed i diritti del cittadino (non da ultimo, anche quello ad una chiara comunicazione),
unitamente al celere evolversi delle stesse relazioni sociali, economiche e tecnologiche, vede ancora una
volta il legislatore in una posizione di un "affannoso passo indietro".
E' innegabile che la maggior parte dei reati di competenza del giudice di pace siano di natura
c.d. "bagatellare", ossia, secondo un primo significato giuridico, quelli che, per la loro minima lesività,
hanno minore rilevanza sociale e possono quindi essere repressi con sanzioni contravvenzionali o
amministrative.
Nel diritto tedesco e in quello austriaco (e fino al 1929 nella Venezia Giulia e Tridentina), sono
detti processi bagatellari (dal tedesco Bagatellprozess) quei processi civili, che per il lieve valore
dell’oggetto controverso si svolgono con forme semplificate, secondo la procedura per gli affari "di
modesta entità" (Bagatellverfahren) e che si distinguono dai processi ordinari soprattutto per la
limitata impugnabilità delle sentenze.
La competenza per materia prevedeva anche qualche reato oggi di competenza del Tribunale
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Monocratico, ma ricordo (durante il mio primo momento formativo professionale) che la predetta
qualificazione la si sentiva dire anche per i processi davanti al Pretore.
Seppur qualche anno è trascorso dal momento istitutivo della funzione, al contempo,
l'immutata competenza funzionale per il reato di cui all'art. 590 c.p. (con casi concreti ove una giovane
parte civile, magari, dal dì dell'evento colposo è rimasta condannata a vita su di una sedia a rotelle) e
l'ulteriore ingresso dei reati previsti dal D. Lgs. n. 286/98 (con, addirittura, la particolare "specialità" dei
riti esaminati), ma, soprattutto, la garanzia dei principi del giusto processo e, così, anche della sua
giusta durata, costituiscono chiari indici di una irragionevole disattenzione del legislatore.
La gerarchia, o meglio, la priorità della rilevante lesività di una condotta delittuosa attiene
fondamentalmente alla sua giusta e correlata sanzione, ma, al di là dei fattori di gradualità propri di
ogni procedimento (monocratico o collegiale che sia), il processo penale, seppur connotato da
comprensibili e condivisi aspetti speciali (ossia la funzione conciliativa e deflativa), nella sua pubblica
celebrazione deve essere e restare il processo penale, così come insegnano le due recentissime sentenze
delle Sezioni Unite esaminate, afferenti gli istituti di cui agli art. 34 e 35 del decreto legislativo.
Diversamente opinando, si correrebbe il rischio di ingenerare nella convinzione collettiva una
pericolosa "sottovalutazione" della funzione giurisdizionale, che minerebbe inevitabilmente la stessa
autonomia costituzionale della Funzione.
Ritornando, quindi, al processo, la redazione in forma riassuntiva del verbale d'udienza è cosa
diversa dalla redazione di una deposizione testimoniale, che sottende l'esteso campo della formazione
della prova nel contraddittorio delle parti e, così, l'esame ed il controesame del teste, la cui sintesi
(ovviamente non nell'accezione di "riassuntiva"), conduce, unitamente alle ulteriori risultanze
probatorie, alla decisione sulla responsabilità penale, o meno, dell'imputato, che, nel rispetto dei suoi
diritti, spero in forma del tutto rara possa aver trovato una risposta motivazionale dettata dal giudice al
cancelliere a verbale.
Del resto, i fatti possono essere anche obiettivamente bagatellari (dipende dal punto di
prospettiva del soggetto interessato), ma gli istituti giuridici di diritto sostanziale e processuale non lo
saranno mai, anzi, nel tempo, grazie al variegato contributo del legislatore diventano un terreno su cui
anche la cultura giuridica trova dei suoi limiti (sul tema mi permetto, con esplicita dichiarazione di
parte, di consigliare l'ultima pubblicazione di Gianrico Carofiglio - Con parole precise - breviario di
scrittura civile. Editori Laterza 2015).
In definitiva, deve sopperire una corretta ed equa interpretazione del testo normativo e,
considerato che l'art. 32, comma 3, riporta l'inciso "di regola" posto tra il soggetto ed il predicato verbale,
lo stesso dettato può essere inteso come facoltativo, dando così la possibilità al giudice di redigere,
anche su separato foglio e con l'ausilio di un computer (con la classica formula: da ritenersi parte
integrante del presente verbale) le eccezioni e le contestazioni delle parti, così come le ordinanze ed i
decreti, tutte quelle volte che la rilevanza delle questioni giuridiche ovvero del caso in esame lo
richiedano.
Una tale semplice prassi del terzo millennio non solo facilita tutte le derivate attività delle parti
e del medesimo giudice, atteso che l'utilità di aver salvato un file, ne consente un riutilizzo, anche in
trasmissione per posta elettronica, per le richieste copie ed, al termine del processo, per poter
recuperare un dato nel momento della redazione della sentenza.
Inoltre, e credo che questa si rivelerebbe come ulteriore utilità apprezzabile, anche il giudice del
secondo grado e la Suprema Corte in sede di ultima istanza si eviterebbero, in alcuni casi, la gravosa e
dispendiosa ricerca intellettiva del significato di alcuni termini redatti da un grafia non comprensibile.
Per quanto premesso, poi, la redazione dell'esame e del controesame dei testi, dei consulenti,
dei periti, delle medesime parti ed, in particolar modo, delle dichiarazioni testimoniali (testi che, in
molti casi, ricevono gli avvisi di cui agli 197 bis, 372, comma 2, lett. b), 64, comma 3, lett. c), 210, 199
c.p.p. ed, altresì, 207 c.p.p.) non può che aversi con una redazione quanto più possibile fedele a quanto
viene espresso verbalmente e gestualmente, quindi con l'ausilio di un computer (magari,
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approfondendo le opportunità tecnologiche di registrazione in c.d. conferenza o anche a singola voce,
risolvendo, così, la necessaria abilità e celerità di battitura sulla tastiera), con gestione e controllo di
quanto verbalizzato, ovvero redatto, da parte del giudice, poiché presidente dell'udienza.
La scelta di quest'ultimo tema e degli espressi rilievi sono dovuti unicamente al fatto che,
seppur giudici di un primo modesto grado, ma, in ogni caso, giudici di una stessa Giustizia tra le più
"produttive" in Europa, in termini di definizione dei procedimenti in relazione all'altissima
conflittualità sociale del nostro paese e, così, del rilevante numero di iscrizioni di affari annui, non si
può tacere sul libero pensiero che, a fronte delle condanne imposte dalla Corte Europea per i ritardi
nelle definizioni dei processi, non può che essere, quantomeno, opportuno elidere (ad un costo, a dir
poco, irrisorio rispetto alle sanzioni inflitte annualmente) queste banali mancanze, così come altre che
affliggono da anni tutti gli Uffici giudiziari d'Italia.
Concludo ritornando su un tema, penso a noi tutto caro e, considerato un superiore richiamo
alla nascita della nostra civiltà giuridica, mi permetto di leggere un estratto di un libro di Carofiglio
ricco di significati ed utile, al di là delle personali concezioni ed appartenenze.
Nel mito platonico della generazione del mondo raccontato nel Protagora, gli dei affidano a
Prometeo e a Epimeteo il compito di assegnare opportunamente le facoltà a ciascuna stirpe mortale.
Dopo la distribuzione di Epimeteo, "che non era troppo sapiente", sotto la verifica di Prometeo, delle
facoltà agli animali (forza, velocità, abilità varie), si accorge di aver esaurito tutte le facoltà con gli stessi
e di aver lasciato l'uomo "nudo, scalzo, scoperto e inerme".
E dunque Prometeo, per offrire comunque all'uomo uno strumento di salvezza, ruba a Efesto e
ad Atena il fuoco e l'arte di servirsene: "In tal modo, l'uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la
vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus. Ciò provocò agli uomini,
nell'intento di raccogliersi e di salvarsi fondando città, continue e reciproche ingiustizie.
Zeus, pertanto, incarica Ermes di portare agli uomini Aidò e Dike: il rispetto - prossimo e
connaturato alla vergogna e la giustizia terrena, "principi ordinatori di città e legami produttori di
amicizia".
Ermes domandò a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini la giustizia e il rispetto, ossia
se la distribuzione potesse essere effettuata come le arti, per le quali uno solo che possiede l'arte medica
basta per molti che non la posseggono, e così è anche per gli altri che posseggono un'arte.
E Zeus rispose; "A tutti quanti. Che tutti quanti ne partecipino, perché non potrebbero sorgere
città, se solamente pochi uomini ne partecipassero, così come avviene per le altre arti. Anzi, poni come
legge in mio nome che chi non sa partecipare del rispetto e della giustizia venga ucciso come un male
della città".
Nel racconto platonico, l'arte politica consiste nell'esercizio del rispetto e della giustizia: essi
sono i fondamenti della civile convivenza e debbono essere posseduti da tutti i cittadini. Chi non sa
parteciparne è "un male della città".
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