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3. La ricerca morale della satira oraziana

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3. La ricerca morale della satira oraziana
3.
La ricerca morale della satira oraziana
La satira, rappresentazione comicamente forzata dei difetti degli altri, è lo strumento di
una ricerca morale empirica che è contenta di trovare nel mondo una strada
soddisfacente per sé e, tutt’al più, per il nucleo ristretto degli amici. Il che non vuol dire
certo che Orazio pensasse davvero a una circolazione tanto privata della propria poesia,
ma soltanto che egli non immaginava né voleva proporre un modello – neppure
delineato «in negativo» – di società riformata. Orazio cerca invece di definire la
maniera in cui un intellettuale prudente (nonché il gruppo selezionato che ne condivide
le scelte) potrà convivere con le storture degli altri, attraversarle e gestirle, senza mai
farsene travolgere. Gli altri saranno una guida a trovare se stessi: ma saranno anche –
certe volte soprattutto – il corpo opaco necessario perché l’immagine di sé venga
riflessa e ci si possa meglio guardare. Un quadro, questo, che non sembra inappropriato
a descrivere la situazione del circolo di poeti, letterati, uomini politici che Mecenate,
amico e ministro di Ottaviano, si sforzava di mettere assieme nella Roma disgregata
dalla crisi e dallo scontro civile.
Questo equilibrio, in cui la satira oraziana guadagna un suo provvisorio assestamento,
dà conto, mi sembra, della maniera particolare in cui l’aggressività luciliana è
rivendicata, ma al tempo stesso vistosamente riconvertita. Lucilio attaccava i primores
civitatis, i potenti suoi pari: Orazio, comunque, non avrebbe potuto: glielo negavano,
più che la mutata situazione della vita politica a Roma, la sua tanto diversa condizione
sociale.
…
La ricerca morale è dunque elemento fondamentale della satira oraziana, anche se la
sua funzione, nel complesso meccanismo di questa poesia, non rimane fissata con
rigidezza immutabile: è vero comunque che gli spostamenti di questo nucleo centrale si
ripercuotono immediatamente nelle diverse componenti del testo poetico e producono
cambiamenti vistosi della sua fisionomia complessiva. La morale oraziana rifonde
materiali filosofici di lunga tradizione, di cui è spesso ben difficile definire
l’appartenenza alle diverse scuole, stoica, epicurea, cinica, aristotelica: giacché,
soprattutto nell’ambito dell’etica, lo scambio, l’obliterazione dell’ortodossia dottrinaria,
erano largamente praticati già nella tradizione della diatriba, da cui Orazio – come il
suo maestro Lucilio – per tanta parte dipende. Ma il poeta non si contenta di ricucire
una topica più o meno consunta, rendendola magari più attraente con le lusinghe di una
rappresentazione vivace e della varietà di tono e di stile. La sua ricerca tende
costantemente a due obiettivi precisi, verso i quali organizzare le singole scelte,
atteggiamenti e parole: l’autárkeia e la metriótes. Nessuno di questi due concetti è
patrimonio esclusivo di una scuola di pensiero. Sull’autárkeia si riscontrava la più
vistosa convergenza delle varie tradizioni, preoccupate tutte di assicurare all’individuo
l’involucro protettivo dell’indipendenza dal mondo esterno: è impossibile la felicità per
chi è schiavo di beni sempre effimeri e si trova perciò indifeso dai colpi della fortuna.
Se certe forme «estreme» di indipendenza e di libertà interiore appaiono caratteristiche
della tradizione stoico-cinica, anche la morale epicurea, che pure poneva la felicità nel
piacere e nella soddisfazione dei bisogni, ritrovava poi – attraverso la limitazione dei
bisogni a quelli naturali e necessari – un terreno più che conciliabile con le esigenze
dell’autárkeia.
Neanche la morale del giusto mezzo era interamente appannaggio della scuola di
Aristotele, che pure l’aveva formulata nei termini più coerenti. La ricerca della
moderazione apparteneva infatti al patrimonio della più antica saggezza greca e poteva
essere accolta in diversi sistemi di pensiero: la sagace ricerca del piacere non può essere
esercitata, avverte Epicuro, forzando la misura e praticando gli eccessi: il saggio non
sarà né un asceta né un dissoluto. Per di più, tutti questi concetti – e Orazio si compiace
di sottolinearlo più volte – non erano estranei al patrimonio della morale romana, quel
costume di antica saggezza italica, di cui il poeta si vuole erede.
L’assetto guadagnato dalla satira oraziana nell’ambito della prima raccolta è
caratterizzato dall’equilibrio dinamico fra questi due poli d’attrazione: indipendenza
che non si traduca in aspro isolamento sociale; saper vivere nel mondo senza però
confondersi in esso, senza adeguarsi alle sue cieche follie. Questa posizione difficile,
soggetta a oscillazioni, cambiamenti e verifiche continue, è quello che comunemente
siamo abituati a intendere per morale oraziana. Da quanto s’è detto, è quasi scontato
ch’essa non può ricondursi all’ortodossia d’una scuola: si cita spesso, ma forse il
confronto è meno calzante di quel che sembra, un verso del componimento che
inaugura le Epistole, in cui il poeta dichiara di non essere obbligato alla fedeltà verso
alcun maestro (I 1, v. 14). E tuttavia non si può dire neppure che l’equilibrio
sommariamente descritto prima, che pure si giova di apporti diversi, sia equidistante da
tutte le scuole. Negare che l’epicureismo sia più importante di altre tradizioni per
individuare la direzione della ricerca oraziana – almeno nel I libro delle Satire –
sarebbe chiudere gli occhi di fronte a una serie di segnali vistosi: che si concentrano più
organicamente nella satira contro l’adulterio e, ancor più, in quella contro il rigorismo
stoico, ma non vengono certo a mancare nel resto della raccolta. Basti pensare
all’importanza che ha, nelle Satire, la descrizione e la costruzione del nucleo degli
amici, cementato da affinità intellettuale, da dedizione, indulgenza, compattezza nei
confronti del mondo esterno: è ben difficile che Orazio non abbia, in ciò, messo a
partito le riflessioni sul valore della philía, che tanta parte avevano nel sistema di
pensiero e nella pratica esistenziale dei seguaci del Giardino. E poi, se non tutte le
componenti della morale oraziana sono caratteristiche dell’epicureismo, nessuna – si è
osservato – è davvero contraddittoria con esso.
Nella elaborazione di una morale siffatta, una morale «mondana», come è stata
felicemente definita, l’atteggiamento «luciliano», l’aggressività satirica, non era
separabile dalla ricerca concreta, dall’empirismo di chi cerca la strada tracciata dagli
opposti eccessi degli altri. Il poeta si poneva nell’atteggiamento di un «Socrate
romano». Gli uomini sbagliano perché non conoscono la verità: si tratta dunque di farla
scaturire dalla confutazione puntigliosa degli errori e delle stoltezze. Solo che –
dicevano – questo procedimento tendeva nelle Satire, a spogliarsi di ogni intento
proselitistico: la conquista della saggezza non è l’obiettivo indicato a quelli che sono
colpiti con la sferza della confutazione; essa è piuttosto il dono prezioso che lo scrittore
di satire può offrire a quel nucleo ristretto, illuminato e indulgente, di cui egli si sente
partecipe, e quindi, tendenzialmente, a se stesso.
(M. Labate, «La satira di Orazio: morfologia di un genere irrequieto», in Q. Orazio Flacco, Satire,
Rizzoli, Milano 1986, pp. 12 ss.)
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