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1 ASPETTI MORALI DELLA CURA 1. PREMESSA Che cosa

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1 ASPETTI MORALI DELLA CURA 1. PREMESSA Che cosa
ASPETTI MORALI DELLA CURA
1. PREMESSA
Che cosa significa affrontare una riflessione etica sulla cura? Quali sono le domande giuste, le
“questioni”, da cui partire? Se è vero che “Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda
che non si pone” (R Niebuhr), è altrettanto vero che niente è tanto difficile quanto rispondere a una
domanda mal posta. E’ molto importante porre la domanda giusta, vera, per evitare false partenze.
IL PROBLEMA “ETICO” DELLA MEDICINA NON E’ ANZITUTTO UN PROBLEMA MORALE MA UN
PROBLEMA DI CONOSCENZA
La vera questione è una questione anzitutto, come sempre, di ragione.
Oggi è molto seguita una certa impostazione secondo la quale la filosofia morale, l’etica, quindi la
bioetica, cioè l’etica “applicata” alla medicina, si risolvono sostanzialmente in una “tecnica” o in un
insieme di tecniche decisionali e comportamentali per la gestione razionale dei dilemmi morali e dei
conflitti di valore che emergono nella medicina contemporanea, all’incrocio tra “valori umani e
possibilità tecnologiche”(E. Pellegrino): una tecnica, tra le altre, una competenza o skill - tutto è oggi
visto in termini di “competenza”, la stessa formazione, anche universitaria, viene ridotta a sistema che
dispensa e certifica competenze (G. Israel). La filosofia, quindi, come competenza, demandata agli
esperti del settore, i “bioeticisti”, finalizzata ad applicare il ragionamento morale per individuare
principi e regole morali onde guidare una tecnica - medica, infermieristica, e quant’altro - in sé neutra.
In questo consisterebbe in fondo la valenza “pratica”, l’“utilità”, della filosofia morale: nella sua
capacità di risolvere o almeno, gestire, una serie di problemi, che risultano intrattabili con i mezzi della
medicina scientifica, o, in una prospettiva più ampia, nel suo orientamento umanistico, nella sua
capacità di umanizzare o riumanizzare la medicina contemporanea, ipertecnologica e spersonalizzata.
Non so se questa sia l’esigenza reale, la domanda vera della medicina contemporanea; o meglio, ho
qualche dubbio sul fatto che, posta in questi termini, un’esigenza pur sacrosanta, riesca a formularsi
come una domanda vera, posta nel modo giusto. Sicuramente, dal punto di vista della filosofia morale,
la questione, così, è mal posta.
Un filosofo contemporaneo che si è occupato di bioetica, Richard Hare, dice una cosa molto
condivisibile: dopo aver osservato che «se il filosofo morale non riesce a dare il suo aiuto nei problemi
di etica medica, allora dovrebbe chiudere bottega», si chiede, però, qual è il tipo di aiuto, di contributo
che la filosofia morale, la filosofia in quanto tale, può offrire alla medicina e a quanti sono coinvolti nei
complessi dilemmi etici e umani che essa comporta. “Come” effettivamente, in questi casi, il filosofo
può aiutare? «Non nel modo che molti sembrano supporre. Proprio l’incapacità di offrire questo tipo di
aiuto è la ragione per cui si conclude poi che la filosofia non può mai essere di alcun aiuto. Ma non
dobbiamo andare in cerca pozioni magiche […] la relazione tra il filosofo morale e chi è assillato da una
questione di etica medica non può mai essere identificata con quella sussistente tra un medico generico
vecchio stile e il suo paziente. I filosofi non possono dare ai loro pazienti delle pillole da ingoiare.» (R.
M. HARE, Medical Ethics: Can the Moral Philosopher Help?, in S. F. Spicker – H. T. Engelhardt, Jr., ed.s,
Philosophical Medical Ethics: Its Nature and Significance, D. Reidel Publ. Co., Dordrecht-Boston 1977,
pp. 49 – 50)
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Ciò che mi preme sottolineare con queste osservazioni è che, il punto di vista della filosofia in generale,
della filosofia morale o etica, non è solamente un diverso approccio “tecnico” parziale, un diverso
tassello di un puzzle definito nel suo insieme dall’approccio oggetttivistico, e pragmatico delle
cosiddette tecnoscienze, ma implica un diverso atteggiamento conoscitivo, un diverso sguardo sulla
realtà; uno sguardo che in ultima analisi non è che un approfondimento, una intensificazione, del modo
con cui affrontiamo, o dovremmo affrontare, quotidianamente i problemi dell’esistenza: cioè una
riflessione sull’esperienza per coglierne il significato. Il problema è sempre, anzitutto, di conoscenza.
L’esigenza umana è sempre in primo luogo di conoscenza, come diceva Aristotele “al di fuori di ogni
considerazione pratica e, per così dire, più di ogni altra cosa, gli uomini amano vedere”. Vedere, capire,
cogliere il significato. Per questo il teologo americano Stanley Hauerwas, riprendendo un’espressione di
Iris Murdoch, dice che l’etica non è anzitutto una questione di regole o di principi, ma di sguardo totale,
di “visione”, una visione che ha le radici nell’esigenza umana ultima e irriducibile di significato: “le radici
dell’occhio sono nel cuore” (R. Guardini) Ogni cambiamento nell’uomo avviene anzitutto a livello della
coscienza, dello sguardo sulla realtà. Prima ancora che di un “fare” adeguato, si tratta di uno sguardo
adeguato sulla realtà, lo sguardo della ragione, non come misura o pretesa di controllo, ma come
tensione a cogliere la realtà nella sua totalità e nei nessi che la costituiscono. Questo è lo sguardo
umano, che permette di cogliere in maniera adeguata, realistica, ogni oggetto ogni esperienza, anche
l’esperienza di cura, che permette perciò di umanizzare ogni esperienza, ogni realtà, anche la medicina,
anche la cura.
La questione è anzitutto di conoscenza, di ragione, non si tratta di fare qualcosa per “umanizzare” o
“riumanizzare” la medicina : «I medici e i malati sono già uomini. Non bisogna essere preoccupati di
“farli” o di “rifarli”, ma di “capirli”, attraverso una riflessione sull’esperienza personale, che altro non è
che la condivisione di un comune destino.» (G. CESANA, Il “Ministero” della salute. Note introduttive
alla medicina, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2005, p. 7)
LA DOMANDA ETICA
In questo senso, possiamo allora chiederci qual è la provocazione, la domanda corretta, vera, dal punto
di vista della filosofia morale? Probabilmente ci si aspetta che la domanda giusta sia “che cosa devo
fare?”. Quando si presenta un dilemma o una situazione moralmente conflittuale, che cosa è giusto o
più giusto fare, perciò che cosa “devo” fare. Come applicare i principi morali a una data circostanza?
Certo gran parte dell’etica contemporanea si attesta su questa posizione, ma a ben vedere è solo
perché ha già rinunciato, o crede di aver rinunciato, a porre la vera domanda. Inoltre, non voglio
sottovalutare il fatto che nella concreta pratica medica clinica, nella pratica della cura, dell’assistenza
infermieristica si è costretti ogni giorno, anzi forse più volte al giorno, ad affrontare circostanze che
esigono decisioni tanto drammatiche quanto urgenti : che cosa è meglio fare, perciò, che cosa devo
fare? Ciononostante, vorrei sottolineare che la vera domanda dal punto di vista della filosofia morale
non è anzitutto “cosa devo fare?”, ma “chi devo essere?”. Che tipo di persona devo essere per portare
avanti un impegno morale, una iniziativa morale, cioè veramente umana, in una situazione complessa e
conflittuale, così come nella vita normale, quando non mi trovo di fronte a un dilemma? La dimensione
morale della medicina, della cura non è data solo nei dilemmi o nei conflitti (aborto sì / aborto no;
eutanasia sì/ eutanasia no; accanimento terapeutico, abbandono terapeutico), ma è intrinseca alla
pratica medico-assistenziale stessa, è coestensiva all’esperienza dei soggetti implicati in tale pratica o
esperienza. E’ nell’esperienza, in ciò che faccio, che io devo cercare il significato, che posso cogliere il
significato, le ragioni che mi permettono poi di definire, comprendere, giudicare la vera natura di una
problema, di un dilemma o conflitto e, magari, talvolta anche di risolverlo. Un’esperienza come quella
della cura, dell’assistenza ai malati cronici, terminali, in stato vegetativo persistente, ecc., ha delle
ragioni, è carica di ragioni, che forse vanno meglio esplicitate, ma ci sono e sono implicite nell’azione
stessa, cioè, nei soggetti a diverso titolo impegnati nell’azione, medici, infermieri, riabilitatori e, non
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dimentichiamolo, pazienti, ammalati. Una riflessione etica su questo tipo di esperienza e, più in
generale, sulla medicina non ha quindi l’obiettivo di trovare delle regole esterne, estrinseche, dei
principi da applicare per “rendere” morale o più morale una pratica in sé neutra. La domanda vera
verte dunque, non tanto o non in prima istanza sull’azione, ma sul soggetto dell’azione, sull’io. Che tipo
di persona devo essere, e quindi chi sono io, qual è il significato di ciò che faccio, cosa chiedo in quello
che faccio? Chi è la persona che mi trovo davanti, il paziente, ad esempio, che cosa chiede a me? Chi o
che cosa porto al malato quando rispondo al suo bisogno? Solo la mia pur necessaria e insostituibile
prestazione professionale, o me stesso, una compagnia veramente umana, una presenza “hospitale”,
che lo sostenga nel suo “viaggio nella finitudine” (Hauerwas)?
L’ILLUSIONE DEL CONTROLLO
Un’ultima notazione introduttiva: una concezione come quella cui ho accennato, la riduzione dell’etica
a competenza, tecno – etica, soluzione o gestione razionale dei conflitti, non corrisponde soltanto a una
confusione “metodologica”, a un errore di impostazione del discorso filosofico, ma deriva da un
atteggiamento molto più profondo e pervasivo nella nostra cultura e mentalità, quello che alcuni hanno
definito l’ossessione o l’illusione del controllo (la “sindrome gnostica” della cultura tecnologica,
secondo Hans Jonas). Cosa voglio dire? Mi riferisco a quell’atteggiamento per cui ogni “questione”, ogni
domanda o interrogativo, si riduce a un “problema” da analizzare e risolvere, per cui ogni limite è solo
un ostacolo da superare, per cui ci sono sempre e solo soluzioni tecniche a problemi tecnici, per cui
l’obiettivo è appunto gestire e controllare: la gestione del paziente, la gestione dei conflitti, la gestione
delle risorse, persino la gestione del processo di morte. E’ un atteggiamento che identifica “realistico”
con “pragmatico”, tende alle soluzioni concrete, alle procedure corrette ed elimina tendenzialmente la
questione del significato, elimina ciò che sfugge al controllo, ciò che non si presta a una soluzione,
come insensato, irreale, non reale. Ancora una volta, non voglio sottovalutare l’importanza di questa
dimensione “gestionale” pragmatica, dico solo che questa posizione, se assolutizzata, è riduttiva,
ideologica, perché tende a escludere, a eliminare ciò che non può essere compreso e trattato nei suoi
termini. E’ una posizione irrealistica, malgrado tutto. Anche perché, proprio in medicina, nella pratica
clinica, assistenziale, si è continuamente a confronto con l’incontrollabile, con l’irriducibile presenza di
questioni che non si lasciano ricondurre alla dimensione della gestione e del controllo: i pazienti come
persone uniche, irripetibili, con la loro sofferenza, angoscia, limiti, con la loro “umanità
ferita”(Pellegrino), con la “loro” malattia, la “loro” morte, che del nostro limite e della nostra morte,
sono un “brutale promemoria” (Pellegrino). Di fronte a questa realtà non sempre, anzi, quasi mai i conti
tornano, raramente le procedure, le soluzioni tecniche, anche più corrette, sono una risposta adeguata,
comunque la risposta adeguata. La medicina dice Hauerwas è una “professione tragica”. Tragico, in
senso proprio, non vuol dire qualcosa che finisce male, ma indica una situazione in cui anche l’azione
“giusta” non porta a una soluzione positiva, a un lieto fine, anzi sono proprio le azioni più giuste, quelle
che l’eroe tragico non può non compiere se vuole rimanere fedele a se stesso, quelle provocano il
disastro, o comunque una serie di effetti collaterali pesanti per il protagonista e per quelli che lo
circondano. Forse Hauerwas esagera, ma resta il fatto che, lo sapete meglio di me, il tentativo di
trovare sempre e comunque soluzioni tecniche radicali nella cura dei pazienti, di far quadrare i conti
sempre e comunque con il limite, la malattia e la sofferenza, può produrre esiti paradossali, ma non
inaspettati, come l’eliminazione dei sofferenti in nome dell’eliminazione della sofferenza, della pietà,
l’eutanasia, il suicidio assistito, l’abbandono terapeutico - quando “non c’è più niente da fare” - o al
contrario, l’accanimento terapeutico.
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Questi problemi o dilemmi drammatici, questi interrogativi esistenzialmente molto sentiti nella vostra
professione, soprattutto laddove emergano come domande specificamente espresse in maniera più o
meno diretta e consapevole da parte dei pazienti e dei familiari, non possono essere staccati dal
contesto più ampio in cui emergono, che non è solo il contesto dei “problemi” del paziente, come ciò
che si presta a una soluzione tecnica, ma il contesto del significato della sua e vostra esperienza, della
sua e vostra vita, del mistero della sua e vostra vita. La questione di fondo mi sembra ben espressa
ancora una volta da Stanley Hauerwas quando osserva: «E’impossibile comprendere il suicidio e
l’eutanasia [l’accanimento terapeutico, l’abbandono terapeutico ecc.] a prescindere dai nostri
atteggiamenti nei confronti della vita. Non dovremmo considerare questi problemi come casi speciali di
morte, ma come il risultato di certi atteggiamenti nei confronti della vita.» (S. HAUERWAS Memory,
Community, and the Reasons for Living: Reflections on Suicide and Euthanasia, in The Hauerwas Reader,
ed. by J. Berkman and M. Cartwright, Duke University Press, Durham and London 2001, P. 581)
2. LA DIMENSIONE MORALE DELLA CURA
Do per scontato che per “cura” sia inteso qualcosa di più della “terapia” (cure) in senso stretto, cioè del
contrasto, contenimento o eliminazione della patologia o danno biologico; la medicina e la cura hanno
a che fare non con malattie, ma con persone malate. Ovviamente questa affermazione ha molto a che
fare con il nostro tema, anzi, in un certo senso, è il nostro tema, e non è detto che sia così scontata, ma
ci porterebbe molto lontano. Quindi partiamo dalla definizione di cura come processo complesso e
unitario che comprende le dimensioni della terapia (cure) e dell’assistenza ( care) nella prospettiva di
una reintegrazione o healing che non coincide semplicemente o esclusivamente con il ristabilimento
dell’equilibrio biologico. Anche se la medicina opera sempre “con e attraverso il corpo” – ha a che fare
quindi con la dimensione corporea, biologica; il suo obiettivo realistico, nel senso di non utopico, è la
salute e non la felicità dell’uomo – il suo orizzonte ultimo è una reintegrazione o ristrutturazione
dell’intero mondo di vita del paziente, nella sua unicità e in tutte le sue dimensioni e relazioni. E’chiaro
che in questa prospettiva la cura assume una valenza che non è solo intensamente personale, ma è
anche essenzialmente relazionale, mutua, cooperativa, comunitaria: è una impresa creativa comune,
“alleanza terapeutica”. Il suo fondamento, l’origine della sua intrinseca dimensione morale e delle
obbligazioni che legano tra loro il medico/assistente sanitario e il paziente/famiglia del paziente è
l’esperienza specificamente umana della malattia, “l’umanità ferita del paziente” (Pellegrino).
Ho riportato qui alcune definizioni della natura e dei compiti della medicina che mi sembrano
particolarmente belle per una serie di motivi, ma in primo luogo perché gli autori sono dei medici, che
esprimono quindi dei “giudizi” a partire da una riflessione sulla loro esperienza professionale e umana.
Sono giudizi con i quali è possibili paragonare l’esperienza, perché ne risulti illuminata, perché diventino
più chiare le ragioni.
«Compito della medicina è […] non solo curare, ma assistere il malato tentando di comprenderlo in
tutta la sua completa, integrale, unica realtà di persona. […] L’uomo e la donna ammalati sono
strutturalmente deboli e bisognosi di aiuto, non solo per quel che concerne il perduto benessere, ma
anche, soprattutto quanto più le condizioni sono gravi, per il significato di questa esperienza.» (G.
CESANA, Il “Ministero” della salute, 53, 139).
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«Ciò di cui la persona malata ha bisogno è di essere risanata, cioè che sia recuperato ciò che è stato
“perso”, che sia ristabilito l’equilibrio che esisteva prima dell’insorgere della malattia. Questa
reintegrazione non è solo il ritorno dell’equilibrio biologico. E’ piuttosto una ristrutturazione del nostro
intero mondo di vita, con la sua storia unica, il suo insieme di relazioni e il suo ambiente sociale. In
questa reintegrazione c’è una compenetrazione della vita e dei vissuti sia del medico che del paziente. Il
risanamento (healing) si raggiunge attraverso una combinazione degli interventi biologici del medico
(farmaci, chirurgia, manipolazioni) e dei poteri di guarigione del corpo stesso del paziente.[…]
L’assistenza sanitaria non è un prodotto che il paziente consuma e il medico fornisce. […] La relazione
medica è intensamente personale. Confidenza e fiducia sono cruciali, così come una relazione stabile e
continuativa.»(E. D. PELLEGRINO, The Commodification of Medical and Health Care: The Moral
Consequences of a Paradigm Shift from a Professional to a Market Ethic, in The Philosophy of Medicine
Reborn: A Pellegrino Reader, ed. by H. T. Engelhardt, Jr., and F. Jotterand, University of Notre Dame
Press, Notre Dame, Ind., 2008, pp. 107 – 108)
«[I] quattro sensi dell’assistenza [compassione, aiuto, presa in carico, competenza] non sono veramente
separabili in una pratica clinica ottimale.[…] E’ essenziale che ogni senso dell’assistenza sia riconosciuto
per il suo contributo specifico alla relazione di cura. Ognuno di questi aspetti deve essere collocato nel
posto che gli compete in un ordine di priorità determinato dai bisogni di ogni particolare paziente.
Benché abbia quattro dimensioni, ultimamente l’assistenza è un processo unitario. La sfida per il
personale sanitario è quella di tener conto di ogni aspetto dell’assistenza e di correlare l’uno altro così
che, nel loro complesso migliorino la relazione di cura per ogni singolo paziente. In una forma ideale
della relazione medico-paziente o infermiere-paziente, ogni professionista sanitario dovrebbe tener
presente ogni dimensione dell’assistenza nella prestazione singola ad ogni paziente. Quando ciò non è
possibile – come nell’odierna assistenza sanitaria - questi quattro aspetti dell’assistenza devono essere
resi disponibili almeno da una consapevole suddivisione delle funzioni tra i membri del team medico o
assistenziale.»(E.D.PELLEGRINO – D.C.THOMASMA, The Christian Virtues in Medical Practice,
Georgetown University Press, Washington D.C. 1996, p. 95)
«La sorgente più certa di un’etica umanistica [della medicina] è l’impatto assolutamente particolare
(unique) della malattia (cioè l’impatto dell’essere malato sull’umanità della persona), perché questa è la
sorgente che da significato a tutte le attività del medico. E’il bisogno di riparare un danno specifico
causato all’umanità del paziente dalla malattia che impone certe obbligazioni ai medici. […] Questi
imperativi non possono costituire null’altro che un’etica “umanistica” perché sono legati a
un’esperienza specificamente umana, non a un ruolo sociale o storico della professione. L’essenza di
un’etica umanistica è questa: particolari caratteri della malattia diminuiscono o impediscono la capacità
del paziente di vivere un’esistenza specificamente umana nella sua pienezza. […] L’obbligazione a
reintegrare l’umanità del paziente è intrinseca nella relazione che i medici assumono quando
“professano” la medicina. […] Coloro che sono malati (cioè coloro che fanno esperienza di un evento –
un sintomo, una ferita, una disabilità – che considerano un mal-essere) subiscono un insulto alla totalità
del loro essere. Sperimentano una serie di intime offese a quegli aspetti della loro esistenza che sono
maggiormente integrali all’essere umano. A causa dell’evento della malattia questi pazienti perdono la
loro libertà di agire ; mancano della conoscenza in base alla quale possono compiere scelte razionali o
riguadagnare la libertà d’agire; devono affidarsi al potere di un altro essere umano, in qualità di
postulanti, per riguadagnare la loro umanità; la loro integrità (cioè, l’immagine di sé) è distrutta o
almeno minacciata. In breve, i pazienti che fanno esperienza di una malattia come episodio acuto o che
convivono con essa come dimensione cronica della loro vita sono privati in vario grado di quelle
caratteristiche che distinguono l’umanità da altre forme di esistenza. Una più attenta analisi di questi
deficit renderà più chiaro lo stato di “umanità ferita” e il risultante stato di ineguaglianza che
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caratterizza la relazione tra medico e paziente.» ( E. D. PELLEGRINO, Humanistic Basis of Professional
Ethics, in The Philosophy of Medicine Reborn: A Pellegrino Reader, pp. 93 – 94)
Ciò che colpisce anzitutto in queste osservazioni è il loro “realismo” e la loro “ragionevolezza”.
Realismo, ovvero capacità di uno sguardo vero, adeguato all’oggetto, rispettoso (respicio – guardo)
dell’oggetto per quello che è: se, come abbiamo detto, l’ “oggetto” della medicina non sono le
malattie, ma le persone malate, allora uno sguardo “oggettivo”, realistico, non potrà non tener conto
della realtà della persona per quello che è – completa/complessa, integrale, unica. Ragionevolezza,
ovvero capacità di cogliere una realtà nella totalità dei suoi fattori, nella sua complessità irriducibile,
secondo i motivi adeguati che sono suggeriti dall’esperienza.
Questa visione, questo sguardo integrale non si risolve in una pura esortazione morale o deontologica,
ma ha precise implicazioni conoscitive e operative, cioè, ad esempio, non implica un venir meno delle
esigenze e competenze tecniche, ma le valorizza, perché le inserisce nel loro contesto appropriato.
Questo fatto mi sembra messo bene in luce da altri due esempi o citazioni, citazioni che sono esempi o,
se volete, testimonianze.
Il dottor Maltoni, primario dell’Unità di cure palliative della ASL di Forlì in un intervento ad un convegno
qualche anno fa, osservava: «[Le cure palliative] sono cure che hanno in qualche modo la pretesa di
accogliere globalmente il paziente, in altre parole, hanno una attenzione sia ai sintomi fisici, in
particolare il dolore, i sintomi gastrointestinali, quelli respiratori, le funzioni cognitive e così via, sia alla
soggettività del paziente, cioè ai sintomi da cui è affetto nel contesto della persona presa nel suo
insieme: gli aspetti psicologici, come ansia e depressione, affrontando il problema dell’inserimento
sociale e arrivando fino ad affacciarsi sulla sofferenza esistenziale della persona malata […] Le cure
palliative […] sono comunque un mezzo, non il fine. Sono un mezzo perché possono condurre, in ultima
analisi, ad un tentativo di migliorare la condizione del paziente inguaribile esitando però in una presa di
distanza, oppure possono avere il significato di qualcosa che affronta i problemi del paziente ed esita,
almeno come tentativo personale e fatto insieme, nella condivisione della domanda profonda che il
paziente ha.» (M. MALTONI in Inguaribile cioè incurabile?, fasc. dell’incontro organizzato dal Centro
Culturale E. Piccinini e Centro Culturale J. Lejeune, Milano 29 novembre 2006, p. 5)
Nella stessa occasione, il dottor Melazzini, primario del Day – hospital oncologico della fondazione
IRCCS Maugeri di Pavia, presidente dell’AISLA e, come molti di voi forse sanno, egli stesso ammalato di
SLA, entrava ancora di più nello specifico di un problema tecnico e morale molto importante, la
comunicazione con il paziente (oggi si parla molto di competenza comunicativa): «[Prendere in carico
un paziente e la sua famiglia], perché la malattia, tutte le malattie ma in particolare determinate
malattie, sono malattie della famiglia, [significa anche comunicare, informare in modo corretto il
paziente]. Comunicare significa anche stabilire la tempistica della comunicazione, condividerla con i
familiari. […]Il grosso problema della SLA è il problema respiratorio […] A noi viene inibito per primo il
riflesso della tosse […] anche una banalissima bronchite si può trasformare in un ingombro delle vie
respiratorie […] Se uno non è informato e non sa tutte queste cose, succede che improvvisamente non
respira più e, spaventati sia il malato che la famiglia, lo portano al P. S. e qui il rianimatore di turno
piuttosto che chi è di guardia in quel momento si dice, guardata la saturazione, l’emogas va male e
tutto il resto pure … devo intubarlo! Una volta intubato il paziente di SLA difficilmente si stacca dal
tubo, quindi deve essere tracheostomizzato. Quindi si trova davanti ad una scelta che qualcuno fa per
lui senza aver saputo che ci sarebbero stati dei passi precedenti da fare. E’ importante dedicare del
tempo ad informare su quelle che potrebbero essere le problematiche del paziente e di conseguenza
anche suggerire che esistono delle soluzioni: prima la ventilazione non invasiva per cercare di
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alleggerire il lavoro muscolare del diaframma è tante altre piccole cose». (M. MELAZZINI, Inguaribile
cioè incurabile?, pp. 9 – 10)
E’ così evidente qui che il tema della comunicazione non può essere ridotto ad una questione di
“competenza comunicativa” o, peggio, a una mera procedura burocratica, il “consenso informato”, ma
viene valorizzato nella sua accezione originaria (comunicare = mettere in comune) e in tutte le sue
valenze cognitive, educative, operative: mettere in comune per giungere a un consenso, cioè a sentire
insieme, ad avere lo stesso “senso”, a camminare insieme; mettere in comune, condividere, in tutta
l’estensione del termine, partendo dai bisogni più immediati e concreti del paziente, fino alla domanda
più profonda, l’unica cosa che in fondo condividiamo realmente, perché è oggettivamente impossibile
condividere l’ esperienza, la sofferenza di una altro, ma è possibile condividere la domanda di
significato che da esse scaturisce, perché è la stessa domanda, la stessa umanità che domanda. Partire
dai sintomi fisici, come il dolore o le difficoltà gastrointestinali fino ad arrivare “ad affacciarsi sulla
sofferenza esistenziale del malato”: è molto bella questa espressione di Maltoni, affacciarsi, perché
suggerisce un rispetto, una cautela, come quando ci si affaccia, con trepidazione, in punto di piedi, nella
stanza di un malato. E’ la stessa espressione di una poesia di Eugenio Montale , Ballata scritta in una
clinica,: “Con te anch’io mi affaccio alla voce che irrompe nell’alba, all’enorme presenza dei morti e poi
l’ululo del cane di legno è il mio, muto”.
DILEMMI ETICI: ACCANIMENTO TERAPEUTICO, ABBANDONO TERAPEUTICO, AUTONOMIA,
CONSENSO, QUALITA’ DELLA VITA.
E’ impossibile, in medicina, separare l’esperienza tecnico – professionale dall’esperienza umana che si
fa, dalla domanda circa il senso di quello che si fa. (F. Achilli) Per questo la medicina è una pratica
intrinsecamente morale, prima e più ancora che per il fatto di essere orientata al bene del paziente, ad
agire per il bene del paziente (principio di beneficenza/non maleficenza). E’ anzitutto una questione di
sguardo sulla realtà della cura e delle persone in essa implicate, una questione dell’ampiezza, del
respiro di questo sguardo. Separate da questo sguardo, le stesse tecniche si depotenziano, perdono
molto della loro valenza cognitiva e operativa, iniziano a girare a vuoto e, spesso, si ingrippano.
Così, a mio avviso, è impossibile isolare le diverse questione etiche, i dilemmi, dal contesto globale della
medicina intesa come pratica intrinsecamente morale. Separate da questo contesto tali questioni si
impigliano in una serie di ambiguità e di contraddizioni dalle quali è poi molto difficile uscire, se non
con un atto arbitrario della volontà, o, sempre più spesso oggi, con una “sentenza”.
Prendiamo ad esempio alcuni termini come accanimento terapeutico, abbandono terapeutico,
consenso autonomia, e cerchiamo di capire cosa significhino veramente, cosa implichino. Il primo atto
della ragione, di un approccio ragionevole, è quello di chiarire i termini di una questione: explicatio
termino rum, la chiamavano i filosofi medievali.
E’ abbastanza noto che cosa sin intende per accanimento terapeutico, mi limito a riportare alcune
definizioni da Codice deontologico o manuale di bioetica: per a.t. si intende l’attuazione di pratiche non
proporzionate alla situazione sanitaria reale del paziente, ovvero il ricorso a mezzi e trattamenti medici
particolarmente gravosi che impongono al paziente sofferenze maggiori dei benefici che se ne possono
trarre e, quindi, nell’impiego di terapie mediche o chirurgiche, eccetto le cure ordinarie di sostegno alle
funzioni vitali, sproporzionate in rapporto ai risultati prevedibili.( Cfr. Codice di Deontologia Medica,
1998, art. 14; G. PERICO, Eutanasia e accanimento terapeutico in malati terminali, “Aggiornamenti
sociali” 1/1985, pp. 6 – 7) E ancora: l’applicazione di «un trattamento di documentata inefficacia in
relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità
per il paziente con un’ulteriore sofferenza in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente
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sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica.» (C. MANNI, Accanimento terapeutico in
rianimazione e terapia intensiva, in A. Bompiani, Bioetica in medicina, CIC Edizioni Internazionali, Roma
1996, p. 321)
L’idea di accanimento, anzi il termine stesso, richiama una terapia aggressiva o somministrata con
particolare, irragionevole, ostinazione: ostinazione nei trattamenti, da cui non si possa fondatamente
attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità di vita o, ancora, in
iniziative cliniche sproporzionate alla condizione clinica, attuate su malati terminali da sanitari che non
dispongono più di vere risorse terapeutiche. In questo senso, potremmo dire che l’accanimento non è
mai a rigore una forma di terapia, perché nell’idea di terapia è coinvolta sempre l’idea di un beneficio
per il paziente. Si può essere “accaniti”, irragionevoli, nel contrastare uno stato patologico, ma si può
realmente essere accaniti nella cura? se la terapia è concepita come parte integrante della cura, del
prendersi cura? In questo senso, vien quasi da dire che non si è mai abbastanza accaniti, ostinati, nel
senso di appassionati, perseveranti, indefettibili.
E’ anche noto che il passaggio dalla definizione di “straordinarietà” dei mezzi, alla loro “proporzionalità”
come termine di riferimento, sta a indicare l’orientamento a porre al centro della valutazione clinica la
condizione del paziente, il suo vissuto soggettivo, oltre che la considerazione di fattori oggettivamente
e quantitativamente rilevabili, fattori qualitativi – la qualità della vita, un termine così bello, così
interessante e così maltrattato, così immiserito. Il criterio della proporzionalità, con i suoi elementi
soggettivi e qualitativi, non implica però certamente una soggetivizzazione assoluta del giudizio, implica
che il giudizio clinico deve tener conto di tutti i fattori o di più fattori, deve essere aperto a un
confronto con la realtà e la volontà del paziente e dei familiari, ad esempio, ma resta sempre un
giudizio clinico.
Se volessimo affrontare il problema da un punto di vista più ampio, al di là delle questioni relative alla
specificità del giudizio clinico, allo spazio discrezionale del medico e alla sua responsabilità
professionale, tutti fattori per altro assolutamente centrali, che, direi, vanno difesi con i denti, se non si
vuole rinunciare all’idea stessa di medicina, se non si accetta di ridurre i medici a un esercito di
mediatori tecnologici, di burocrati efficienti, di esecutori testamentari, o di venditori di prodotti
farmaceutici, potremmo chiederci qual è l’aspetto moralmente inaccettabile dell’accanimento.
Accanimento e abbandono terapeutico, in fondo, sono due facce di uno stesso fenomeno, di uno stesso
atteggiamento, due modi inadeguati di trattare una persona, due modi irrispettosi, mancano di
rispetto, cioè, etimologicamente, di uno sguardo adeguato a ciò che è la persona malata o morente.
Anzi, potremmo dire che il vero problema è quello dell’abbandono terapeutico, della cessazione
dell’atto medico in quanto tale, della fine cura: l’accanimento è una forma, una sottospecie
dell’abbandono, una presa di distanza, come la chiama Maltoni. Il medico, l’assistente sanitario
abbandonano il paziente, la persona umana, a che cosa?, … alla tecnica, alla macchina che prolunga il
tempo della morte, privandolo della morte come circostanza, momento, della “sua” vita; in nome di
che cosa? … dell’illusione del controllo, per l’illusione che rispondere razionalmente sia controllare, per
l’incapacità di accettare il limite, la mortalità.
Voi mi potreste chiedere, cosa c’entra tutto questo con le questioni dell’autonomia del paziente, del
consenso informato, della qualità della vita? Sono tutte questioni collegate: che cosa significa
propriamente rispetto dell’autonomia del paziente? Significa rispetto per la sua dignità di persona
umana, razionale e libera, consapevole, responsabile, con una storia e un destino, responsabile di
fronte a questa storia e a questo destino. In termini più tecnici, significa che l’unico modo adeguato,
ragionevole e moralmente accettabile, per rapportarsi con una persona umana, con un io umano
consapevole e competente, in grado di esprimersi, è quello di passare attraverso la sua soggettività
morale, cioè attraverso il suo consenso. Da ciò deriva, tra l’altro che nessun trattamento terapeutico,
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nessun trattamento che invade la sfera più intima della soggettività umana, tranne in casi eccezionali,
può essere applicato in maniera coattiva. Quindi il paziente, ad esempio, ha il diritto di rifiutare un
trattamento. Ma ciò non implica certo che si debba accettare la volontà del paziente come un dato
insindacabile, incontestabile, di cui prendere atto come un punto d’arrivo definitivo. Non lo implica
logicamente, moralmente e nemmeno, direi, esperienzialmente. Quando mai noi agiamo così, ci
comportiamo così, nelle relazioni umane, tanto più quanto più sono significative? Quando mai ci
limitiamo a “prendere atto” della volontà di un amico, di un figlio, quando mai non parliamo,
ragioniamo, discutiamo, litighiamo anche? Quando mai decidiamo senza chiedere consiglio, cercare
aiuto, consultarci, confrontarci? La realizzazione effettiva dell’autonomia come capacita di giudizio
razionale e di scelta consapevole avviene sempre in un contesto relazionale, persino la nostra identità
personale si definisce in gran parte relazionalmente; il processo decisionale è sempre un processo
relazionale, un confronto, un paragone, sia in senso positivo, quando buone relazioni producono
autonomia, sia in senso negativo, come condizionamenti culturali, psicologici, sociali o quant’altro. In
ogni caso «di fronte al rifiuto di terapie proporzionate il medico non potrà limitarsi alla presa d’atto del
medesimo, ma dovrà pur sempre agire per la tutela della salute del paziente attraverso mezzi non
coercitivi, e dunque attraverso l’informazione, il dialogo, l’incoraggiamento, il sostegno morale e
psicologico; come pure dovrà predisporre, quando sia possibile, modalità di intervento alternative a
quelle cui il malato si oppone.» (L. EUSEBI, Dignità umana e bioetica. Sui rischi correlati all’asserito
“diritto” di morire, “Medicina e morale”, 2009/3, p. 403) La relazione terapeutica, finché sussiste, non
può essere instaurata in modo coattivo, ma non può essere orientata alla morte. Perciò, dalla non
coattività del intervento, dal rispetto dell’autonomia, non è desumibile, né moralmente, né
giuridicamente,« la legittimità della richiesta del medico di attivarsi per interrompere l’operatività di un
presidio che assicuri una condizione in atto di tutela della salute secondo modalità proporzionate» e
neppure è desumibile «la legittimità della previsione, attraverso dichiarazioni anticipate, di un vincolo
per il medico a instaurare in futuro con il dichiarante in stato anche transitorio di incoscienza, una
relazione che escluda a priori, senza la possibilità di un dialogo attuale, l’utilizzo di presidi
proporzionati, cioè di una relazione in sé orientata alla tutela della salute.» (Cfr. EUSEBI, cit., 404)
D’altra parte, anche a prescindere da tutte le considerazioni riguardanti la vera natura e la proporzione
delle richieste di sospensione dei trattamenti o di richieste propriamente eutanasiche – una massa
imponente ormai di ricerche dimostra che, laddove il paziente è trattato adeguatamente, con terapie
del dolore ad esempio, dove è sostenuto, aiutato, lui e la famiglia, tali richieste si riducono a
proporzioni insignificanti; inoltre, l’aspetto forse più decisivo riguarda il senso reale della domanda
eutanasica, cosa chiede veramente il paziente, cosa vuole, qual è il grido di aiuto, il grido “muto”
direbbe Montale, che si nasconde dietro a questa domanda? - ma anche a prescindere da tutto questo,
ritorniamo brevemente a quanto abbiamo detto prima, cioè che una relazione moralmente adeguata
con un soggetto capace di esprimersi deve passare attraverso il suo consenso. Cosa significa
propriamente consenso? Il consenso non è un modulo burocratico, non è solo e principalmente un
dispositivo legale, né tantomeno una condizione contrattuale o, peggio, assicurativa. Consenso, avere
lo stesso sentire, andare insieme, camminare insieme, è la condizione di un rapporto reale, costruttivo.
Tanto è vero che l’idea di consenso nasce per il matrimonio, proprio quando il matrimonio – con il
cristianesimo – cessa di essere un contratto, un contratto di vendita (matri – monio = letteralmente
compro una madre). E’ legato inscindibilmente all’idea di persona, della dignità della persona che
liberamente cammina verso il suo destino, verso un significato che è il suo destino. Il consenso è l’inizio
di un rapporto, di un cammino comune. Non è un rendersi totalmente disponibili, ti do il consenso, fai
di me ciò che vuoi, no. Se non dispongo ultimamente di me stesso, come posso rendermi disponibile.
Tanto è vero che non si può autoridursi in schiavitù, non ci si può vendere. Mi rendo disponibile a un
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rapporto che dura nel tempo, che è in grado di resistere alle circostanze, nel bene e nel male, iniziamo
a camminare insieme. Iniziamo a condividere quella domanda di significato che è l’unica che può dare
un senso, ultimamente, all’idea stessa di “qualità della vita”. Come ci ricorda lo scrittore ebreo
americano, Chaim Potok, in un passo straordinario di un suo romanzo, Danny l’eletto, con il quale vorrei
concludere il mio intervento:
«Gli esseri umani non vivono in perpetuo, Reuven. Viviamo meno di quanto dura un batter
d’occhio, se si commisurano le nostre vite all’eternità. Può quindi esser lecito chiedere qual è il
valore della vita umana. C’è tanta sofferenza, in questo mondo. Che significa dover tanto
soffrire se le nostre vite non sono nient’altro che un batter d’occhio? […] Reuven, ho imparato
molto tempo fa che un batter d’occhio è nulla, di per se stesso. Ma l’occhio che batte, quello sì
che è qualcosa. Lo spazio di una vita è nulla. Ma l’uomo che la vive, lui sì che è qualcosa. Lui
può colmare di significato questo spazio minuscolo, cosicché la sua qualità sia
incommensurabile, sebbene la quantità possa essere irrilevante.
(C. Potok, Danny l’eletto, Garzanti, Milano 1999, 270)
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