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La fatica del quotidiano
La fatica del quotidiano Premessa Non facciamo riferimento alla “sofferenza” in senso generale o al dolore legato ad alcuni grandi drammi, piuttosto a quella ordinaria fatica legata all’operare quotidiano in tutti i suoi ambiti. Non affrontiamo la questione nei suoi contenuti teologici perché troppo complessa (soprattutto per il relatore...) ma toccheremo principalmente gli aspetti relativi alla “vita spirituale”, provando a chiederci che valenze ha la fatica quotidiana in relazione al cammino di discepolato e come poterla affrontare secondo uno stile evangelico. Diciamo che più che affrontare la questione del “perché” ci soffermiamo sul “come”. E’ importante tenere presente che quella che propongo è una riflessione assolutamente e necessariamente parziale senza alcun pretesa di completezza o esaustività. Mi è sembrato più utile scegliere solo alcuni aspetti della questione per non disperderci inutilmente. 1. Censimento (incompleto) della fatica ordinaria. Ho privilegiato quegli ambiti di pesantezza del vivere legati principalmente ad un logorio di carattere nervoso, anche se magari originati da fatiche anche fisiche. Mi sembrano queste, ascoltando i racconti di tante famiglie, le difficoltà più quotidiane, più diffuse e più mal sopportate. Li elenco descrivendoli senza cercarne le ragioni, sapendo che a volte delle ragioni ci sono e sono analizzabili, altre volte no, in corrispondenza di situazioni difficili da affrontate semplicemente come dei “dati di fatto”. a) Gli affanni e le ansie legate alla complessità della vita. Esiste una sempre crescente complessità esistenziale, legata ai ritmi della vita moderna, alle sue esigenze, alle problematiche che porta in sè, al senso di precarietà e di sfuggevolezza delle cose. Da questo nascono due fenomeni che portiamo faticosamente: l’effettiva accresciuta difficoltà pratica di affrontare le situazioni (paradossale se consideriamo il livello di sviluppo raggiunto); l’aumento dell’ansia e delle preoccupazioni per il timore di non essere all’altezza, di perdere il controllo, di non riuscire a gestire, di non poter più garantire al 100%, di far fronte a tutte e singole le esigenze… b) La frustrazione Mettiamo in questa categoria i desideri o bisogni non appagati; le scelte condizionate; i fallimenti di ogni genere; assenza di gratificazioni a fronte di sforzi significativi (sia in campo lavorativo che in altro); il senso di insoddisfazione, di insufficiente valorizzazione o di non completa realizzazione; il disagio affettivo; l’accettazione obbligata di condizioni di vita non ottimali… c) Le pazienze Ci riferiamo qui a tutti quei tipi di impegni o di frangenti che ci richiedono un costante e cospicuo impegno di energie senza che, almeno apparentemente o immediatamente, il nostro sforzo porti alcun tipo di risultato. Situazioni problematiche che hanno la forma di un vicolo cieco; attesa di maturazioni o di sviluppi che tardano; il compito educativo in generale; il ripetersi quotidiano dei medesimi gesti o di cattive abitudini ritrite e alla lunga insopportabili; compiti di assistenza gravosi e a lungo termine; impieghi ripetitivi e alienanti… d) Il peso del limite proprio e altrui Anche questa una “pazienza” ma la segnaliamo a parte perché particolarmente impegnativa e, effettivamente, senza soluzione di continuità. Tutti i generi di fatiche che provengono dall’esperienza del limite in noi e negli altri, limite di carattere fisico, caratteriale, intellettivo, psicologico. e) Il problema dell’intesa comunicativa. Un notevole – a volte notevolissimo! – impiego di energie viene investito nelle dinamiche comunicative 2. Cenno interpretativo. a) E’ un fatto originario1. Il racconto di Genesi colloca la fatica quotidiana dell’uomo alle origini. Il lavoro faticoso è realtà presente e da sempre sperimentata; la collocazione del suo inizio in un tempo “fuori dal tempo” e in un luogo “oltre ogni luogo” ne afferma il carattere “originale”, primordiale: la fatica dell’operare cioè è qualcosa di assolutamente connaturale all’uomo, ed è da sempre esperienza dell’umanità. b) L’origine: la frattura di una comunione Si racconta il peccato dell’uomo di sempre, non un peccato originante, ma di un peccato tanto radicato nell’uomo che fin dall’inizio segnò il suo rapporto con Dio. Il racconto è risposta alle teorie metafisiche e apocalittiche dell’origine del male (colpa degli angeli); ma anche polemica a chi cercava proposte religiose che non fossero la fedeltà a Jahve e alla sua Legge (idolatria o cose simili…). Attenzione: i racconti dell’origine non segnalano la differenza tra un “prima” e un “poi” rispetto al peccato, ma la distanza e la sproporzione tra l’ideale di Dio e il reale dell’umanità. Il problema, dentro un racconto costruito secondo la categoria di alleanza, è costituito dalla frattura di una comunione all’interno della quale anche il lavoro (faticoso) aveva un suo senso preciso e non veniva percepito come minaccia (l’uomo lavorava già nel giardino cfr Gen 2, 15). Rotta la comunione con Dio tutta l’esperienza umana diventa “dolorosa”. Si potrebbe viceversa dire: la fatica del vivere – la “frattura” con la creazione – segnala e rivela la frattura col Creatore. La disarmonia non può esser voluta da Dio; la responsabilità del disordine è dell’uomo. “A margine”: l’assottigliarsi in genere della dimensione comunitaria della vita appesantisce notevolmente questa fatica del vivere… 3. Sfondo evangelico: Accenno qui ad alcune prospettive che, pur non risolvendo evidentemente il tema della fatica, offrono una cornice evangelica. a) L’immersione di Cristo nell’umano L’incarnazione del Figlio in Gesù Cristo ci spinge a guardare con favore l’esperienza umana e, di conseguenza anche l’inevitabile fatica del vivere. Il fatto che Gesù abbia attraversato senza sconti la nostra medesima situazione non può che consolarci e suscitare in noi un senso di comprensione e vicinanza da parte sua che, se non toglie la fatica, certamente la alleggerisce. La sua solidarietà inoltre dà alla fatica umana una dignità altissima: in essa non esiste alcuna minaccia, bensì una via di santità poiché Gesù è stato Figlio di Dio dentro quell’esperienza, la stessa nostra. Il luogo in cui riscoprire, sperimentare, accogliere la comunione col Padre è proprio l’esistenza umana nella sua ordinarietà e in tutte le sue componenti. Non abbiamo altro spazio in cui vivere il Vangelo che non sia quello della nostra esistenza quotidiana. Qui e oggi, in questo luogo e in questo tempo, in questa vita e in questa fatica incontro il volto del Padre e vivo da Figlio, esprimendo la mia adesione a Lui. b) Debolezza e perseveranza La fede cristiana ha sempre un duplice volto. Essa è certamente “riposo in Dio”, esperienza della propria debolezza e della sua capacità di consolare e ricreare (“Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi e io vi ristorerò”). Allo stesso tempo però è lotta contro un nemico, esercizio di perseveranza e di costanza, sopportazione di tribolazioni e persecuzioni, resistenza alle avversità ed esercizio ascetico. Queste due dimensioni sono da tenere fortemente in tensione come due elementi imprescindibili della vita cristiana, ed eliminarne una delle due significa falsare l’esperienza. 1 Allora il Signore Dio disse al serpente: "Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno". Alla donna disse: "Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà". All'uomo disse: "Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato: "Non devi mangiarne", maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!". (Gen 3, 14-19) Abbandonarsi in Dio è l’esito ultimo del perseverare; perseverare è il movimento di una libertà che intende l’abbandono. Lo scontro con la fatica, la presenza stessa dello sforzo richiesto non sono un banco di prova della fedeltà o della capacità individuale di aderire a Dio. Piuttosto gli ostacoli (di ogni genere!) nella vita di fede sono da leggersi e da affrontare come vere e proprie condizioni e situazioni propizie affinché la mia fede sia esercitata e si attui. “Se amate quelli che vi amano cosa fate di diverso dai pagani?”. La fatica provoca la volontà, sollecita la libertà, costituisce il terreno dell’autenticità. c) Le Beatitudini L’esperienza della debolezza (fatica) costituisce un ambito privilegiato di incontro con Dio. Lo scontro con il proprio limite, con la misura ridotta delle proprie forze sono il trampolino per l’esperienza della cura previdente e provvidente di Dio, per riconoscere che il compimento della nostra vita viene da Lui. Per questo è beato chi è in affanno o si trova in una condizione o difficile: ha un posto in prima fila per toccare con mano chi è Dio e qual è il suo modo di operare. Vivere nello spirito delle Beatitudini non significa sospendere ogni fatica ma continuare invece a trafficare le risorse che abbiamo, sapendo che esse vengono da Dio come primo segno di provvidenza. E’ questo il primo modo di affidamento reale a Lui e di assenso alla Sua volontà. Vivere lo Spirito delle Beatitudini significa stare sotto la legge della povertà di spirito: primato di Dio, consapevolezza che tutto viene da Lui, radicale relatività a Dio. 4. Una prospettiva concreta di lavoro: a) La fatica può essere guardata come “amica” (cfr lo “sfondo evangelico”). Stiamo però attenti a non litigare col “piacere”! La vita “deve” essere fatica ma non può essere una “penitenza”. La fatica deve esserci maestra anche nell’imparare il rispetto e la cura per ciò che siamo, ricordandoci della preziosità che rappresentiamo agli occhi di Dio. La giusta cura di noi stessi è uno dei primi doveri. Il “piacere della vita” va accolto quando viene, ma va anche cercato senza falsi moralismi quando ne abbiamo realmente bisogno. Non bisogna vergognarsi di avere bisogno di gratificazioni, nemmeno di cercarle, tantomeno di chiederle! Certo, se vivo solo per quello, forse qualche problema c’è… Lasciarsi portare verso un logorio ininterrotto che tende ad ingrigirci non è affatto una via di perfezione attraverso il sacrificio. E’ solo una stupidaggine… b) La fatica come via di radicalità. Non è vero che la fatica rafforza e la sofferenza purifica, comunque. Non c’è nulla di automatico in questo, ma tutto dipende dall’atteggiamento con cui le cose sono vissute. In una logica di fede in effetti la fatica può costituire un’enorme risorsa in vista di una sempre maggior autenticità di vita e di radicalità evangelica. Se la prospettiva con cui affronto ogni fatica quotidiana è quella per cui ogni situazione – ogni!!! – è occasione per vivere la “forma della Carità” riconoscendo il primato di Dio, allora tutto ciò che in me o fuori di me si oppone a questo diviene uno stimolo ad approfondire la motivazione, ad affinare la volontà, a consolidare la decisione. Attenzione: può avvenire il contrario se non uso la cautela descritta nel punto sopra o se la motivazione di fondo non è limpida. Per comprendere come assumere la “forma dell’amore” i classici consigli evangelici sono un buon percorso per affrontare con frutto le fatiche quotidiane, essi, infatti sono corsie preferenziali per incarnare il Vangelo nel quotidiano, per dare forma alla vita in “pura perdita di sé”. Povertà (l’amore povero) La prima accezione: povertà di spirito. Atteggiamento di amorosa e umile confidenza con Dio, al quale ci si rivolge come al Padre da cui ogni viene, nel riconoscimento della pochezza della nostra umanità. In Gesù questa povertà di Spirito assume una forma precisa: un atteggiamento complessivo di vita mai prevaricatore o dominante, piuttosto di debolezza e di servizio dell’altro (a immagine del Padre). Ecco perché “amore povero”. Povertà è però anche una virtù da coltivare in relazione all’uso dei beni che possediamo: saprò vivere la gusta indifferenza nei confronti dei beni, senza farne mai un sinonimo di potenza e dominio, ma strumento di servizio. Non va molto di moda, ma fare lo sforzo di riconoscere la presenza reale della Provvidenza è una strada per abbassare la temperatura di certe fatiche. Castità (l’amore casto) La logica è quella del dono: “io per l’altro”. La castità sarà quella virtù che mi aiuterà a vivere, gesti e parole secondo l’amore di Gesù, considerando ogni occasione di incontro con l’altro come opportunità di realizzazione del dono di me. La castità domanda di permanere in un normale stato di conversione da tutto ciò che in me spinge per il possesso dell’altro, per la sua strumentalizzazione, il renderlo oggetto, il considerarlo in ordine alle mie esigenze e alla mia “fame”. A volte la vera fatica nasce da questo tipo di approccio. Obbedienza (l’amore obbediente) Gesù “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), cioè la sua obbedienza ha carne e sangue. Significa che è fatta di situazioni concrete nelle quali non vive passivo con le mani in mano, ma si lascia interpellare e mosso dall’amore del Padre e per il Padre, scruta dove la volontà di Dio si manifesta così da aderirvi. L’obbedienza di Gesù è da intendere come un movimento appassionato di continua ricerca, e insieme esperienza, nelle circostanze della vita ordinaria, della comunione con il Padre suo. Traducendolo in concreto la si può descrivere come la virtù che mi fa “aderire al presente”, che mi fa guardare e riconoscere questa mi vita, con queste condizioni, questa mia umanità, questa comunità, questa famiglia, queste situazioni… come una chiamata dietro alla quale il Padre mi chiama a vivere con Lui nell’amore. c) L’ambizione ad una comunità reale Sono convinto che la decisione di Gesù di costituire i suoi discepoli come una comunità vera e propria non sia solo funzionale all’annuncio, ma rispetti la struttura fondamentale dell’uomo la cui autenticità si realizza in modo “sociale”. Riuscissimo a rispettare più severamente questa legge che portiamo scritta dentro di noi, la fatica del quotidiano troverebbe tutto un altro ambiente in cui essere affrontata…