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Non sono venuto a portare la pace, ma la spada.Il combattimento

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Non sono venuto a portare la pace, ma la spada.Il combattimento
P. ADALBERTO PIOVANO1
“Non sono venuto a portare la pace, ma la spada”.
Il combattimento spirituale
Introduzione
Non è certamente facile riflettere su un tema come il combattimento spirituale e tentare di proporlo al
credente di oggi; si sente un certo disagio nell’affrontare un aspetto dell'esperienza cristiana che fa uso di un
linguaggio così lontano da un certo clima spirituale che caratterizza tanti strati del nostro attuale contesto
ecclesiale. Da dove deriva questo disagio? Perché c’è un certo sospetto di fronte a temi come questo? Può
trovare ancora spazio, in un certo cristianesimo entusiastico e un po’ ideologico, una rappresentazione
‘drammatica’ della vita spirituale? Brevemente, possiamo identificare alcune cause di tale disagio; esse,
d’altra parte, evidenziano in controluce l’importanza e la necessità di rifondare un certo linguaggio relativo
alla vita spirituale in un ritorno alla sua matrice biblico-patristica.
Si nota un certo senso di fastidio, se non addirittura di avversione, nei confronti di quel mondo
disciplinare ed ascetico segnato da un opprimente volontarismo che, in realtà, ha caratterizzato a lungo alcuni
ambiti della vita di molti religiosi o semplici laici. Metodi disciplinari o ascetici appaiono più come somma
di atti repressivi autoimposti o subiti piuttosto che come cammini di maturazione e di liberazione; questo
modo di rapportarsi al proprio corpo, alle cose, a Dio stesso viene percepito come una sorta di masochismo
da rifiutare, contrastante con la logica gioiosa dell’Evangelo. Tale avversione, anche se nasce da una
ambigua e superficiale comprensione della dimensione ascetica della vita cristiana, è certamente l’amaro
risultato di tante deviazioni in questo ambito, deviazioni che hanno ferito ed esasperato la vita di tanti uomini
e donne provocando il rigetto di tutto ciò che ha il sapore di ascesi o di disciplina.
Notiamo inoltre, soprattutto nel contesto sociale di un Occidente secolarizzato, la perdita progressiva
del valore di alcuni rapporti che esistono tra la dimensione spirituale dell’uomo e la sua sfera corporale. Le
cause di questa rottura di relazioni sono molteplici e complesse. Certamente, un influsso notevole deriva
dall’edonismo corrente che si infiltra nei vari livelli dell’esistenza quotidiana delle persone, condizionandone
i rapporti, gli stili di vita, ecc…Questo fa sì che alcune realtà ‘profane’ sono ormai staccate o estranee alla
sfera spirituale; i cristiani stessi soffrono di questa dicotomia e fanno fatica a vedere il rapporto che
intercorre tra dimensione corporale e vita secondo lo Spirito. Si pensi, appunto, alle attuali modalità con cui
ci si relaziona al cibo o al proprio corpo: sembrano realtà ormai autonome nei confronti dell’ambito
spirituale. Ma anche, in modo più generalizzato, si insegue un rapporto autonomo con il proprio ‘io’: si parla
spesso di ‘auto-realizzazione’ come qualcosa di assoluto, creando così l’impressione di una certa ipertrofia
dell’‘io’. Tutto questo ha portato, inevitabilmente, all’eclisse di alcuni aspetti della prassi disciplinare e
liturgica della Chiesa - tradizionali e legati all’esperienza cristiana - come il digiuno o la veglia. Se sono
presenti, restano tuttavia in qualche modo separati dalla sfera spirituale e personale, assumendo quasi sempre
un orientamento orizzontale, funzionale al sociale.
Tutto ciò causa anche un rilassamento ed un appesantimento del vissuto del cristiano: si fa fatica ad
entrare nel proprio cuore e a prendere coscienza di ciò che in esso si muove. Vita interiore e vita secondo lo
Spirito sono sommerse da una frenesia di impegni caritativi, catechetici, operativi, sociali…tanto che, a
volte, si ha l’impressione di una semplicistica identificazione tra esperienza religiosa e impegni nel mondo;
la vita di fede corrisponde di meno all’accesso ad una relazione personale con Dio innestata su una profonda
vita interiore. Questo si riflette in particolare sul cammino di ricerca di tanti giovani le cui istanze di vita
interiore, di autentica e profonda esperienza di Dio, rimangono inevase. Sembra, ai loro occhi, che Chiesa e
vita interiore siano entità separate. Di qui le deviazioni e il disorientamento nelle pseudo-spiritualità.
Ma anche presbiteri e religiosi non sono esenti da tale rottura. «Spesso – nota E.Bianchi – tanto è
estesa e visibile l’azione pastorale, quanto è ridotta l’attenzione e l’impegno dato alla vita spirituale»2. Il
ricorso a ‘spiritualità’ legate a scuole o movimenti non è sufficiente; può essere piuttosto una fuga in una
1
P.Adalberto Piovano è priore della comunità benedettina della “Ss.Trinità” di Dumenza e docente di Liturgia
delle Chiese Orientali presso l'Istituto di Liturgia pastorale “ Santa Giustina” di Padova.
2
E.BIANCHI, Ai presbiteri, Bose/Magnano (Qiqajon) 1999, p.8.
1
scelta ‘antologica’ di alcuni aspetti della vita spirituale, ma senza un radicale e costante impegno nella vita
secondo lo Spirito. Essa non può mai essere staccata o a parte dal ministero e dal cammino concreto del
presbitero.
Infine notiamo, anche tra presbiteri e religiosi, la tentazione ad un certo conformismo a schemi o
linguaggi preferenziali per l’uomo d’oggi. Non si fa riferimento alla necessità di tradurre in modo accessibile
il messaggio evangelico. Si vuole sottolineare piuttosto il rischio di emarginare quelle realtà presenti
nell’annuncio che sembrano ‘suonare’ difficili all’orecchio dell’uomo contemporaneo. Si ha quasi paura che,
toccando certi temi, non si venga più ascoltati, si appaia ‘fuori moda’, ci si senta ‘tagliati fuori’. Così si può
cadere nella situazione di colui che parla di ciò che si pensa che l’altro desideri udire. Non si invoca,
certamente, l’integralismo di un linguaggio o di un pensiero come custodia e difesa della verità
dell’annuncio. Si cerca solo di mettere in evidenza la necessità di una continua vigilanza per non svuotare
l’esperienza cristiana o la vita secondo lo Spirito di alcuni contenuti qualificanti. A volte insistere su certi
temi può apparire una follia. Ma resta pur sempre una realtà costitutiva della sequela e del kerigma
evangelico la ‘follia della croce’. Antonio il Grande lo aveva intuito quando disse ai suoi discepoli.
Verrà un tempo in cui gli uomini impazziranno, e al vedere uno che non sia pazzo, gli si avventeranno
3
contro dicendo: ‘Tu sei pazzo!’, perché egli non è come loro .
Si potrebbero individuare altre cause che rendono difficile la proposta di un tema come quello del
combattimento spirituale. Ma sono sufficienti quelle che abbiamo brevemente elencato per prendere
coscienza del disorientamento che provoca un itinerario arduo come questo. E dobbiamo riconoscere che
oggi, nella ‘geografia’ spirituale, siamo più attratti dal monte della Trasfigurazione che dal Getsemani o dal
monte delle Tentazioni; siamo più affascinati dai luoghi di contemplazione appagante che dai luoghi della
lotta. Questi ci sconcertano, così come hanno impaurito i primi discepoli.
Ma se abbiamo il coraggio di guardare in faccia la realtà cristiana nella sua dinamica di sequela e nella
sua serietà evangelica, ci rendiamo subito conto della centralità di questa dimensione di lotta, di
combattimento.
Il tema del combattimento spirituale affonda anzitutto le sue radici nella categoria biblica della
tentazione come esperienza qualificante e necessaria per la maturazione del rapporto tra Dio e il suo
popolo4.Le tentazioni di Israele, d’altra parte, sono una delle chiavi simboliche e interpretative del racconto
sinottico delle tentazioni di Gesù: la lotta contro il nemico diventa una esperienza che attraversa tutto il
cammino storico di Cristo nella consapevolezza della sua figliolanza divina.
Inoltre, la visione che Paolo ha della vita secondo lo Spirito è espressa sovente con un linguaggio
agonistico-militare che rimanda continuamente alla dimensione del combattimento: desideri della carne e
desideri dello Spirito sono in continua lotta in noi e la vita battesimale è un rinnovato esodo dal luogo della
morte a quello della vita in Cristo5. Tale angolatura che accentua nell'esperienza cristiana la dimensione di
lotta nello scontro incessante con lo spirito del male, ha avuto un influsso nelle più antiche esperienze
spirituali della Chiesa: essa ha sempre percepito il cammino del discepolo di Cristo come combattimento sia
nella forma radicale del martirio, sia nella prospettiva che si apre al cristiano dal momento in cui è innestato
in Cristo, nel battesimo (cfr. catechesi battesimali), sia soprattutto nella scelta di coloro che affrontano la
lotta a viso aperto contro il nemico nella solitudine del deserto (i monaci).
Infine, a questo riguardo, non deve essere dimenticato l’apporto delle scienze umane.
Nell’approfondimento della psiche dell’uomo, viene sottolineata - anche se con un linguaggio diverso da
quello utilizzato in ambito teologico-spirituale - la necessità di un cammino ‘ascetico’ come liberazione da
bisogni e condizionamenti per una maturazione armonica e integrale della persona. Un controllo delle
proprie pulsioni, emozioni, sentimenti, ecc… è fondamentale per un equilibrio psichico e per una educazione
alla libertà6.
3
Antonio il Grande 25 : Vita e deti dei padri del deserto, I, cur. L.Mortari, Roma (Città Nuova) 1975, p.90.
Cfr. ad esempio il testo di Dt 8,1-6. Sul significato della tentazione nel contesto biblico cfr.: S.LEGASSE,
Tentaion. Dans la Bible, in Dictionnaire de Spiritualité, XV, Paris (Beauchesne) 1990, coll.193-212. Cfr. anche
B.MAGGIONI, Padre nostro, Milano (Vita e Pensiero) 1995, pp.107-114; A.LOUF, Sotto la guida dello Spirito,
Bose/Magnano 1990, pp.44-54.
5
A questo riguardo il testo classico di Paolo è Ef 6, 10-20. Immagini militari usate da Paolo per esprimere la
vita cristiana si ritrovano anche in 2Cor 10, 3-4; Rm 13, 12; 1Ts 5,8 ecc…
6
Cfr l’articolo di A.CENCINI, ‘E ancora tempo di ascesi e disciplina?, in Testimoni 18/1999, pp.23-29.
4
2
A questo punto, dobbiamo riconoscere con realismo che “non siamo migliori dei nostri padri”, né
possiamo consideraci estranei o salvaguardati dalla dimensione di lotta che la vita cristiana comporta. Anzi, a
ben considerare, dobbiamo ammettere che siamo più fragili e vulnerabili di coloro che ci hanno preceduto
nella “buona battaglia della fede”(1Tm 6,12) e, sotto certi aspetti, meno pronti agli attacchi sottili di certe
logiche mondane. Fare questa constatazione non significa rinchiudersi in una paura paralizzante di fronte al
mondo, ma piuttosto scegliere di guardare nella verità se stessi, collocandoci sotto lo sguardo stesso di Dio.
Dunque, quanto abbiamo finora detto ci impone un'ultima considerazione che apre ad una scelta: la
vita secondo lo Spirito esige coraggio, il coraggio di lasciarsi condurre dallo Spirito nel ‘deserto’ per
intraprendere un pellegrinaggio di cui non sempre si possono conoscere gli itinerari o gli imprevisti, né
prevederne nei dettagli i movimenti o i passi. In questo simbolico cammino nella solitudine, si possono
scoprire dentro di noi presenze o volti che non vorremmo vedere, che non vorremmo che esistessero.
Vedere in faccia se stessi è spesso fonte di disillusioni, è atto che spezza le idealizzazioni di sé, le
immagini di noi che ci siamo forgiati. Tutto questo può implicare l’entrare in crisi e il subire ferite. Il
lavoro di discesa nel proprio cuore, di ricerca della propria verità non lo intraprende chi ha paura delle
ferite, della sofferenza che a lui ne può derivare. Quando la verità vuole rivelarsi all’uomo fa uso di un
grande dolore: vi è sempre il prezzo di un’acuta sofferenza da pagare al disvelarsi della verità. La paura
può paralizzare e impedire il cammino interiore, ma allora si resterà spettatori della vita ed essa ci passerà
7
accanto come un’estranea .
Non si deve tuttavia mai perdere di vista un aspetto fondamentale in questo sorprendente e doloroso
itinerario: esso, e la lotta che ne costituisce il dinamismo, sono condotti “sotto la guida dello Spirito”. Non si
riducono a introspezione psicologica, né tantomeno ad uno sforzo titanico della propria volontà in una
continua tensione e scontro. Se si dovesse avanzare così, ci ridurremmo a persone ripiegate su se stesse e
perennemente tese. Il combattimento spirituale è di fatto la cifra riassuntiva dell'esperienza spirituale; è la
“bella lotta della fede”, come dice Paolo (tòn kalòn agòna tès pìsteos: 1Tm 6,12). «E' cioè la lotta che nasce
dalla fede, dal legame con Cristo manifestato dal battesimo, che avviene nella fede, cioè nella fiducia della
vittoria già riportata dal Cristo stesso, e che conduce alla fede, alla sua conservazione e al suo
irrobustimento»8.
Per imparare a procedere in questo insidioso e, d’altra parte, necessario cammino, ci metteremo in
ascolto della Scrittura e della tradizione monastica; in particolare, l’esperienza di coloro che hanno fatto della
lotta spirituale un'esigenza profonda e un momento qualificante della loro ricerca di Dio, diventerà per noi un
‘typos’ su cui verificare i passi e le tappe del nostro cammino.
2. Una parola da ascoltare e una icona da contemplare
E si potrebbe iniziare con due icone emblematiche (tipologiche appunto), le quali non solo possono
offrirci gli elementi essenziali, le tappe, le dinamiche del combattimento spirituale, ma anche possono
svelarci la qualità umana di questa esperienza e collocarla all’interno del cammino della vita secondo lo
Spirito. Si tratta del racconto evangelico delle tentazioni di Gesù e dell’icona della Scala del Paradiso di
Giovanni Climaco.
2.1 Il deserto delle tentazioni
La tradizione spirituale cristiana ha sempre riletto l’esperienza della tentazione e la dinamica della
lotta spirituale alla luce dell’esperienza stessa di Gesù nel deserto9. La categoria biblica della tentazione (così
come è espressa ad esempio in Dt 8,2-5) resta la chiave ermeneutica per comprendere sia l’episodio narrato
dai sinottici, sia l’esperienza stessa del credente. In ogni caso, la drammatica lotta contro il tentatore resta,
7
L.MANICARDI, La vita interiore oggi, (= Iesti di meditazione 89) Bose/Magnano (Qiqajon) 1999, p.17.
E.BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano (Rizzoli) 1999,.p.36.
9
Per una raccolta di testi patristici sull’episodio delle tentazioni di Gesù cfr. Matteo 1-13, cur.M.Simonetti
(=La Bibbia commentata dai Padri. NT 1/1) Roma (Città Nuova) 2004, pp.105-116; Luca, cur.A.A.Just jr. (=La Bibbia
commentata dai Padri. NT 3) Roma (Città Nuova) 2006, pp.116-122. Cfr anche la interessante interpretazione letteraria
di questo racconto evangelico nella Leggenda del Grande Inquisitore ne’ I fratelli Kramazov di F.Dostoevskij.
8
3
nel cammino umano e spirituale di Gesù, un'esperienza qualificante che percorre tutta l’esistenza terrena del
Figlio di Dio.
Ci soffermeremo brevemente sul testo di Lc 4,1-13, senza la pretesa di addentraci in una esegesi
dettagliata del racconto evangelico10. Metteremo in evidenza alcuni elementi narrativi che ci aiutano a
collocare il tema del combattimento spirituale in prospettiva biblica.
Anzitutto il modo con cui Luca descrive i protagonisti è rivelativo per la dinamica stessa del racconto.
Gesù è delineato come l’icona dell’uomo ‘spirituale’ che sa discernere secondo lo Spirito. E questo, non
perché è collocato in uno spazio immateriale ed estraneo alla drammatica situazione umana, quasi sottratto
alla fatica di ogni scelta o esente dalla prova, ma perché ci insegna a scegliere secondo Dio, donandoci i
criteri per un reale discernimento ‘spirituale’. Gesù accetta la sfida della tentazione e attraverso di essa
scopre in profondità la sua identità di Figlio di Dio, quel nome udito nella teofania del battesimo (cfr.Lc
3,22).
Accanto a Gesù, vi è la misteriosa presenza dello Spirito. È lui a condurre Gesù nel cuore stesso della lotta,
nella solitudine del deserto, il luogo dell’esperienza della fragilità umana; qui, e non altrove, matura il
discernimento e lo Spirito sta a fianco a Gesù in questo cammino, quasi a guidarlo per mano, facendosi
presente nella forza della Parola donata come arma per combattere la suggestione diabolica.
E infine, di fronte a Gesù, vi è il tentatore o diabolos. È la proposta alternativa alla Parola di Dio, la controproposta subdola, affascinante, falsa, idolatrica. Abusando della debolezza dell’uomo, lo attende là ove
emerge la delicatezza del discernimento, capovolgendo i termini di esso per separare l’uomo da Dio. Proprio
attraverso la tattica con cui si accosta all’uomo (la suggestione che trascina sempre in sé qualcosa di
affascinante), il tentatore rivela la verità del volto nascosto dietro la maschera. Attraverso un dialogo
martellante, si insinua nel cuore dell’uomo colpendolo nella sua fragilità. E lo fa suggerendo il dubbio,
presentando una verità parziale, capovolta rispetto al progetto originale. Il “se sei Figlio di Dio” (espressione
che ritornerà come ultima sfida ai piedi della croce; cfr. Mt 27,40) con cui il tentatore a più riprese introduce
la sua suggestione, è come una spada tagliente che mira ad incrinare il rapporto filiale di Gesù con il Padre. È
la stessa tecnica usata in Gn 3 nei confronti del primo uomo: distruggere il rapporto confidenziale e
obbedienziale tra uomo e Dio, presentare Dio come nemico dell’uomo, geloso della libertà e delle possibilità
che gli sono offerte. E più l’immagine di Dio crea paura nell’uomo, più lo minaccia diventando ingombrante
e soffocante, più il tentatore è sicuro della riuscita della sua opera: separare, creare un progetto contrario a
Dio, illusorio, in cui l’uomo è schiavo del proprio idolo, vittima del suo essere come Dio (cfr. Gn 3,5).
La situazione attesa dal tentatore per attaccare Gesù, la scelta del tempo e del luogo per sferrare la
lotta, le modalità stesse del combattimento mettono a confronto questi tre protagonisti ed offrono la dinamica
della tentazione.
La suggestione diabolica pone l’uomo di fronte alla sua debolezza: …ma quando furono terminati (quei
giorni) ebbe fame…Allora il diavolo…(Lc 4,3). La tentazione nella fragilità è il momento drammatico della
krisis, ma soprattutto un momento privilegiato per un salto di qualità, per un approfondimento del proprio
rapporto con Dio e con se stessi. Anche se si rivela come tempo di apparente assenza di Dio e di lucida e
dolorosa coscienza della propria fragilità, esso può diventare la meravigliosa esperienza di una pienezza, di
una presenza: la presenza dello Spirito che consola e orienta il cuore dell’uomo. Può diventare una
esperienza veramente “spirituale”. E inoltre, essere messi alla prova nella carne della propria debolezza, è
occasione in cui si può “sapere quello che c’è nel cuore”(cfr.Dt 8,2): un momento in cui si saggia la qualità
dei nostri desideri e si smaschera la metodologia subdola con cui il tentatore si avvicina a noi, insinuando
quelle parole che possono penetrare nel nostro cuore.
L’attacco del tentatore avviene dopo quaranta giorni di digiuno: un tempo simbolico, che richiama il lungo
cammino di Israele nel deserto e che, in qualche modo, è necessario portare a pienezza perché possa avvenire
il discernimento. D’altra parte, i quaranta giorni passati nel digiuno si rivelano come un tempo che conduce
gradualmente ad un limite massimo di resistenza in cui ci si scontra con la propria fragilità, in cui si prende
coscienza di ciò che è essenziale alla propria vita, ma anche si diventa oggetto di attacco e di seduzione.
Il luogo della lotta è il deserto, simbolo biblico che riveste molte valenze. Appare come lo spazio vuoto e
solitario, senza confini e certezze, in cui è possibile fare verità di se stessi. Il deserto diventa così
10
Cfr. anche Mt 4,1-1 e Mc 1,12-13. Per una esegesi dei testi evangelici cfr. J.DUPONT, Le tentazioni dei Gesù
nel deserto, (= Studi Biblici 11) Brescia (Paideia) 1985.
4
espressione di una vita che è chiamata ad essere luogo di radicalità ed essenzialità, nel quale sono messi alla
prova la qualità dei propri desideri in rapporto alla libertà, alla scelta.
La scelta dei simboli con cui il tentatore riveste le sue suggestioni non solo si ricollegano alle tentazioni di
Israele nel deserto, ma si inseriscono nella struttura stessa dell’uomo, nei suoi desideri e nelle sue
frustrazioni. Le tre tentazioni sono riconducibili alla triplice libido che costituisce l’essere umano più
profondo: la libido amandi, la libido possidendi, la libido dominandi e cioè, la sete di piacere (che riduce la
vita ad un livello materiale, di benessere), il desiderio di possedere e la brama di potere (con cui si afferma se
stessi su Dio, sugli altri, sulle cose, trasformandosi nell’idolo che richiede l’adorazione più totale).
Da notare il carattere della terza tentazione, la più subdola: esigere da Dio un segno della sua presenza, della
sua fedeltà. È la tentazione radicale della fede che chiede a Dio di giustificarsi, di dare un perché dei suoi
metodi (cfr. Es 17,7: Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?). In questa tentazione è significativo l’utilizzo
diabolico della Parola di Dio per convincere Dio ad agire secondo la logica del tentatore, a ragionare come
lui, ad obbedire al suo progetto; il male viene camuffato con la maschera della parola di Dio (questo tentativo
di giustificare le proprie scelte contrarie al progetto di Dio è messo in rilievo soprattutto da Doroteo di Gaza).
Proprio la ‘spada’ della Parola, impugnata da Gesù in una logica di obbedienza, smaschera la falsità delle
suggestioni diaboliche, e in particolare, di due armi utilizzate dal tentatore per sferrare i suoi colpi: la parola
e l’immagine. Le suggestioni passano attraverso queste due espressioni comunicative primordiali che si
trasformano in maschera del progetto diabolico (cfr. anche il racconto di Gn 3). Parola ed immagine hanno il
volto del dubbio e del fascino, tratti ambigui che se non sono sottoposti al discernimento dell’autentica
Parola, illudono l’uomo attraverso una pretesa di verità e di bellezza.
Infine, come nota Luca, il tentatore ritorna al tempo fissato (4,13). Una lotta contro il tentatore non può mai
essere considerata definitivamente conclusa, né come spazio isolato; essa rientra in un progetto “bellico” più
ampio, che coinvolge l’intera esistenza umana.
2.2 Una scala tra terra e cielo
Sulle pareti di alcune chiese monastiche della Moldavia o del Monte Athos, si incontra spesso una
singolare raffigurazione simbolica, quasi una sorta di sintesi del cammino spirituale che il monaco non deve
mai perdere di vista. Si tratta della rappresentazione di uno dei testi ascetici più letti nel mondo bizantino, ma
anche nell’occidente latino: la Scala del Paradiso di Giovanni, igumeno del monastero di santa Caterina sul
Sinai. L’illustrazione di questo testo della tradizione monastica, riprodotta anche attraverso miniature e
icone, ci può offrire alcuni elementi essenziali per mettere a fuoco la dinamica di una esperienza qualificante
la vita spirituale: quella della lotta, del duro e faticoso cammino di trasformazione totale dell’uomo ad
immagine di Cristo.
Mi soffermo brevemente a descrivere, come esempio, una icona del XII sec. conservata nel monastero
del Sinai.11 La scena è dominata da una scala con trenta gradini (che corrispondono alla suddivisione
dell’opera del Climaco) che vanno da sinistra verso destra, cioè dalla terra verso il cielo. Lo spazio del divino
è simbolicamente rappresentato da un gruppo di angeli e dal gesto accogliente di Cristo che, con le braccia
allargate, invita i monaci a percorrere questo cammino ascensionale. Difatti la scala è piena di monaci
giovani e anziani nell’atto di salire, tentati tuttavia dalle frecce scagliate dagli archi di esseri demoniaci alati,
che invadono lo spazio. Alcuni monaci cadono nuovamente nelle realtà mondane, trascinati violentemente
con corde dalle figure diaboliche, mentre altri, con mani tese e piedi fermamente appoggiati sui gradini, si
oppongono per riuscire a raggiungere il cielo. Gli angeli collocati in alto sembrano assistere a questo viaggio
spirituale di ascesa dei monaci.
In alcune rappresentazioni, gli angeli sembrano giocare una parte più attiva e, affiancandosi ad alcuni
monaci che faticosamente salgono i gradini della scala, contrastano l’azione dei demoni. La scena, in questo
caso, assume un tono più marcatamente cosmico, quasi un combattimento che coinvolge realtà che sono al di
11
Per una descrizione di questa icona della Scala del Paradiso, come pure per altre raffigurazione del medesimo
soggetto conservate al monastero di santa Cateruina del Sinai, cfr.Holy Image-Hallowed Groud. Icons from Sinai, ed.
R.S.Nelson-K.M.Collins, Los Angeles (The J.P.Getty Museum) 2006, pp.244-249. Per una descrizione degli afferschi
della Scala sulle pareti dei monasteri della Moldavia (in particolare Sucevica) cfr. A.VASILU, L’architettura dipinta.
Gli affreschi moldav nel XV e XVI secolo, Milano (Jaca Book) 1998, pp. 284-289. Sulla iconografia di Giovanni
Climaco e della Scala, cfr. K.P.CHARALAMPIDIS, Giovanni Climaco nella iconografia bizantina, in Giovanni
Climaco e il Sinai, Bose/Magnano (Qiqajon) 2002, pp.313-337.
5
là dell’uomo; la raffigurazione, in alcuni casi, dell’abisso infernale che risucchia coloro che non hanno
saputo resistere agli assalti del male, rende la scena ancora più drammatica.
Significativo è ciò che avviene sulla cima della scala: il culmine della perfezione è simbolicamente
rappresentato da un monaco che, attraverso un gesto di affidamento, si offre all’abbraccio accogliente di
Cristo. In alcune icone è Cristo stesso che, con un gesto simile a quello presente nell'iconografia della
Discesa agli Inferi, afferra con decisione il braccio del monaco. Così viene descritto questo particolare della
rappresentazione in un antico Manuale per iconografi: «Al cospetto di Cristo, all’ultimo gradino della scala,
c’è un vecchio monaco…egli tende le mani e guarda in cielo. Il Signore lo prende per mano e gli mette sul
capo con l’altra mano una corona di fiori, dicendogli: Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e vi
farò riposare»12.
In alcune raffigurazioni della Scala, sugli ultimi gradini ci sono due monaci che sembrano aver
raggiunto la cima. Ma il movimento del loro corpo esprime significativamente la situazione interiore che
l’apparenza di perfezione sembra mascherare: infatti un monaco protende il suo corpo in avanti verso il
Cristo che lo accoglie, quasi a significare come tutto il cammino sia frutto di un dono della grazia, maturato
sul terreno dell’umiltà; il secondo monaco, invece, nonostante la sua dura ascesi che lo ha reso agli occhi
degli uomini icona di perfezione, precipita rovinosamente cadendo di spalle, simbolo di un combattimento
spirituale condotto sulle proprie forze, più frutto di orgoglio che di umile fiducia in Dio. Infine, in basso, in
un angolo, è raffigurato un gruppo di monaci con gli occhi levati verso questa mistica scala; tra di loro,
spesso, emerge Giovanni Climaco che indica, con un gesto della mano, il simbolico itinerario verso il cielo.
Il Manuale per iconografi già citato invita il pittore a porre accanto a questa rappresentazione la seguente
scritta: «Guarda la scala appoggiata al cielo e rifletti sui fondamenti delle virtù. Come sfugge questa fragile
vita! Accostati alla scala e sali con coraggio, avrai per difensori i cori angelici quando passerai attraverso le
insidie dei demoni malvagi. Giunto alla porta del cielo otterrai la corona per mano del Signore»13.
Mi sono attardato nel descrivere l’iconografia della Scala Paradisii come simbolo della vita
monastica, perché in essa vengono collocati in modo equilibrato alcuni elementi significativi che offrono
un'angolatura corretta sul discorso relativo all’ascesi, così come la tradizione monastica l’ha interpretato. Già
il simbolo della scala (così ricco di risonanze bibliche), attraverso la sua dinamica, inserisce bene la vita
spirituale nella categoria della progressione, della maturazione, legandola ad un movimento ascensionale. La
faticosa salita verso una cima rievoca immediatamente un linguaggio caro alla tradizione ascetica antica:
quello del ponos14, dell’esercizio e del lavoro faticoso, dell’impegno ascetico che modella la propria struttura
umana rendendola conforme all’icona dello Spirito. In questo cammino è coinvolta la totalità della persona,
nella sua concretezza ‘carnale’ e nella sua realtà spirituale, nel tempo e nello spazio; essa è simbolicamente
espressa dalle due dimensioni, umana e divina (corpo e spirito, terra e cielo), congiunte dalla scala.
È ciò che la Regola di Benedetto (7,8-9) esprime interpretando l’immagine della scala discendente
dell’umiltà:
E la scala elevata in alto è la nostra vita presente che il Signore, quando avrà reso umile il nostro cuore,
innalzerà fino al cielo. Si può anche dire che i lati di questa scala sono il nostro corpo e la nostra anima.
Tra questi lati la divina chiamata ha posto per noi diversi gradi di umiltà e di ascesi spirituale.
Come ci suggerisce anche il testo di RB, la scala esprime anche la gradualità e l’ordine di un cammino,
fatto di tappe e tempi sottoposti ad una discretio che tiene conto della soggettività di ciascuno. Per Giovanni
Climaco, questa progressione è una applicazione del principio di discernimento: “Se vi è un'idea che svolge
un ruolo determinante nella pedagogia spirituale (di Climaco), è che c’è un tempo per ogni cosa e che è
pericoloso voler ottenere prematuramente ciò che, se si rispetta l’ordine normale, avverrà a suo tempo”15.
Così scrive Climaco:
12
Cfr. DIONISIO DA FURNA’, Ermeneutica della pitura, cur.G.Donato Grasso, Napoli (Fiorentino) 1971,
p.288.
13
Ibid.,p.288.
Cfr. concetto di ponos in P.MIQUEL, Lessico del deserto. Le parole della spiritualità, Bose/Magnano
(Qiqajon) 1998, pp.303-315.
15
P.DESEILLE, La dottrina spirituale di Giovanni Climaco, in Giovanni Climaco e il Sinai, Bose/Magnano
(Qiqajon) 2002, p.101.
14
6
Se vi è un tempo per ogni cosa che avviene sotto il cielo, come dice l’Ecclesiaste, e una di tali cose è la
nostra vita religiosa, esaminiamo, se pare bene, e cerchiamo in ogni momento quali azioni siano proprie
di ogni tempo. È certo, infatti, che per quelli che combattono, c’è un tempo per l’impassibilità e un tempo
per dominare le passioni – lo dico per quelli che cominciano la lotta - . C’è un tempo per le lacrime e un
tempo per l’aridità del cuore, un tempo per obbedire e un tempo per comandare; un tempo per digiunare e
un tempo per partecipare ai banchetti; un tempo per combattere il corpo, nostro nemico, e un tempo per
mettere a morte le passioni; un tempo per la burrasca dell’anima e un tempo per la calma della mente; un
tempo per la tristezza del cuore e un tempo per la gioia spirituale;….un tempo per la preghiera incessante
e un tempo per il sincero servizio. Non cerchiamo, ingannati da zelo orgoglioso, di fare prima del tempo
le cose che vanno fatte a loro tempo. Non cerchiamo in inverno ciò che è dell’estate, o al tempo della
semina, ciò che deve venire nel tempo della mietitura, perché c’è un tempo per seminare le fatiche e un
tempo per mietere gli ineffabili doni di grazia. Altrimenti, neppure quando sarà giunto il tempo potremo
raccogliere i frutti propri di quel tempo16.
Anche le diverse modalità con cui i monaci affrontano la dura salita riflettono la situazione interiore,
la maturità o immaturità spirituale di ciascuno e, d’altra parte, evidenziano la pericolosità, le insidie, le
insicurezze disseminate su questo cammino; sono un simbolo di ciò che la tradizione monastica chiama
'combattimento spirituale'. Ciò che avviene sulla cima della scala offre una visione equilibrata e
profondamente evangelica della dinamica del combattimento spirituale (le figure del fariseo e del pubblicano
di Lc 18 sono due prototipi evangelici dei monaci raffigurati all’ultimo gradino della scala): è anzitutto un
combattimento guidato dallo Spirito che agisce con la sua grazia, permettendo in colui che è umile, la vittoria
pasquale di Cristo. Questo dissipa ogni pretesa di eroismo o di protagonismo ascetico; se così non fosse, la
lotta spirituale si trasformerebbe in quella ascesa orgogliosa espressa dalla suggestione del serpente: Sarete
come Dio (Gen 3,5 ).
Infine, la presenza dell’autore della Scala Paradisii, collocato in un angolo della scena mentre indica,
ad un gruppo di monaci, il simbolico cammino verso il cielo, sottolinea un altro elemento importante nella
dinamica della vita spirituale: la necessità di una guida, un ‘padre secondo lo Spirito’, che sappia mostrare i
passi da compiere in questo singolare viaggio spirituale, attraverso un autentico discernimento e in ascolto
dei desideri più profondi del figlio spirituale.
Tra l’altro, gli elementi simbolici che abbiamo brevemente descritto ci offrono, in particolare, lo
spazio autentico entro cui la tradizione monastica (e in particolare quella orientale) ha collocato e interpretato
l’ascesi come mezzo che dà qualità e consistenza ad una maturazione spirituale. Tale spazio che permette
una lettura equilibrata dell’ascesi (ed un recupero per noi, oggi), è nient’altro che quello del combattimento
spirituale, la vita secondo lo Spirito come lotta contro ogni idolatria per porre tutta la propria esistenza (cuore
e mente, corpo e spirito, volontà e sentimenti, ecc….) sotto la signoria di Cristo.
3. Il combattimento spirituale e il luogo della lotta
Il monachesimo delle origini aveva chiara coscienza che nel deserto non avrebbe incontrato
nient’altro che “il principe di questo mondo”. Andare con Cristo nel deserto non significa
sfuggire a tutte le tentazioni, ma piuttosto, come Cristo e con Cristo, affrontare “nudi” il
tentatore. Pensare che oggi le cose siano diverse sarebbe un’illusione fatale. L’oppositore del
genere umano non è legato a luoghi, tempi o condizioni di vita. Chi entra oggi in monastero o si
dà alla vita religiosa o ecclesiastica, in questo nostro mondo demitizzato, spesso non considera
questo fatto fondamentale: egli è eo ipso entrato nel “deserto”, nel luogo dell’isolamento e della
derelizione, di desolati percorsi di sete e di ingannevoli miraggi. Chi non volesse ammettere
questa realtà e che immaginasse di essere solo un bravo “operaio nella vigna del Signore”,
correrebbe il rischio di misconoscere la vera natura delle difficoltà che inevitabilmente
incontrerà. Sarà sorpreso di trovare nella sua “vigna” tanta “zizzania”, “spine e cardi”, invece di
“uva”, e non capirà che è stato il “nemico” a seminarli di nascosto. Questa lotta non è un
17
semplice incidente, un imprevisto, ma è parte integrante della vita nel deserto! .
Questo testo di un autore spirituale contemporaneo, p.Gabriel Bunge, eremita e studioso dell’antico
monachesimo, evidenzia con chiarezza il posto centrale, nel cammino di sequela del Signore, occupato
16
GIOVANNI CLIMACO, Scala del Paradiso 26, 59: PG 88, col. 1032B-C. Il testo è stato citato secondo la
traduzione presente in DESEILLE, La dottrina spirituale di Giovanni Climaco, p.102.
17
G.BUNGE, Akedia. Il male oscuro, Bose/Magnano (Qiqajon) 1999, p.21.
7
dall’esperienza della tentazione e della lotta a viso aperto e senza sosta contro il nemico più subdolo e
pericoloso di cui il tentatore si serve per minacciare e distruggere l’identità del discepolo di Cristo: l’ “uomo
vecchio”, quella ‘zizzania’ che produce ‘spine e cardi’ nel cuore dell’uomo. È questa la grande sfida e la
fatica della vita spirituale. Richiamando il titolo della nostra relazione, potremmo dire che sta proprio a
questo livello la scelta di impugnare quella ‘spada’ che Cristo è venuto a portare per intraprendere la ‘bella
battaglia della fede’.
Ma anzitutto possiamo domandarci: quale è il vero campo di battaglia? Dove dobbiamo combattere?
Quale è il luogo della lotta?
3.1 Le profondità della lotta
Anzitutto dobbiamo ammettere che il combattimento spirituale coinvolge molte forze e dimensioni
della nostra vita di uomini e di credenti: investe spazio e tempo, corpo e spirito, cuore e mente, trasformando
l’intera esistenza in luogo di confronto e scontro con il tentatore. Il racconto evangelico delle tentazioni di
Gesù e l’icona della Scala ci offrono una conferma di quante realtà entrino in gioco in questa esperienza.
Così afferma Isacco il Siro:
Questo mondo è la palestra della lotta e lo stadio della corsa; e questo tempo è il tempo del
combattimento. E il luogo del combattimento e il tempo della lotta non sono soggetti a una
legge. Ciò significa che il re non ha posto un limite ai suoi lavoratori, finché non sia finita la lotta
e non siano tutti radunati nel luogo del Re dei re. Lì sarà esaminato colui che ha perseverato
nella battaglia e non ha ricevuto sconfitta e colui che non ha voltato le spalle.
Perciò, nessuno abbandoni la speranza. Solo: non disdegni la preghiera e il chiedere aiuto a
nostro Signore. Teniamo bene nell’intelligenza questo: per tutto il tempo in cui siamo in questo
mondo e abitiamo in questo corpo, se anche fossimo innalzati fino alla volta dei cieli, non ci è
18
possibile restare senza fatica e avversità e senza preoccupazione .
Tuttavia in questa mancanza, in un certo senso, di limiti, di confini che delineano il campo di battaglia
(il simbolo del deserto si addice bene a questa distesa ‘esistenziale’), è presente un punto in cui questo spazio
quasi infinito trova una concentrazione, diventando così il vero luogo della lotta. Questo spazio è il cuore. E
già il termine utilizzato dalla tradizione monastica ci orienta a questa prospettiva.
Il termine combattimento spirituale significa sia combattimento secondo lo Spirito, cioè sotto la guida
dello Spirito, ma anche combattimento contro gli spiriti, cioè non contro realtà esterne a se stessi, ma realtà
interiori che si annidano in noi, che contrastano la nostra crescita ad immagine di Cristo, che fanno parte di
quella zavorra dell’uomo vecchio continuamente nascosta in noi. Non è una lotta contro il proprio corpo e
nemmeno contro la volontà, i sentimenti, le emozioni, i desideri in quanto realtà costitutive della nostra
umanità. È una lotta contro ciò che impedisce a queste componenti dell’uomo di essere veramente se stesse,
libere e integrali in una tensione verso il progetto di Dio. È una lotta contro quel mondo interiore negativo
che Paolo chiama “i desideri della carne” (cfr. Gal 5,16-17), quei desideri che vanno in direzione opposta a
quelli dello Spirito. La tradizione monastica ha dato un nome a questo miscuglio di ambiguità, affascinante e
pericoloso allo stesso tempo, che si nasconde dentro di noi: i logismoi (i parvulos cogitatos di RB Pr 28). La
parola ‘pensiero’, come normalmente viene tradotto logismos, non esprime adeguatamente il contenuto del
termine greco; di fatto esso è difficilmente traducibile attraverso una sola espressione in quanto riassume in
sé tutto quel mondo interiore che caratterizza la psiche umana e le sue relazioni con la totalità della persona,
mondo composto di tensioni, inclinazioni, pulsioni, emozioni, desideri, ecc… che interagiscono nell’uomo19.
È uno spazio complesso ed ambiguo che richiede di essere chiarito, orientato e sottoposto ad un
discernimento. Come precisa G.Bunge, «in sé e per sé il pensiero è una manifestazione naturale e positiva
della nostra vita interiore, della nostra attività emotiva e sensoriale, del nostro modo di comprendere le cose
del mondo. In modo sottile, però, questi pensieri possono diventare veicoli di finalità che contraddicono il
progetto creazionale e allora assumono la valenza di “pensieri cattivi”, nel senso di una seduzione al male.
Come tali, essi sono la manifestazione dello stato del nostro “cuore” e rendono visibili la sua malvagità, il
suo essersi staccato da Dio e l’essere diventato schiavo di se stesso (cfr. Mc 7,21)»20.
18
ISACCO DI NINIVE, Un' umile speranza. Antologia, cur.S.Chialà, Bose/Magnano (Qiqajon) 1999, p. 95.
cfr. T.SPIDLIK, La spiritualità dell’Oriente cristiano. Manuale sistematico, Roma (Pontificium Institutum
Orientale) 1985, pp.207-208.
20
BUNGE, Akedia, p.35.
19
8
Dunque questa lotta si svolge al livello profondo della persona: non è immediatamente distinguibile. Anche
se poi sfocia in un agire o in un essere che sono conseguenza e risultato del modo con cui si è affrontato tale
combattimento. Esso, allora, diventa lotta ‘nello spirito’, cioè nel cuore, che appare come un campo chiuso,
in cui carne e spirito si danno guerra continuamente.
Così Teofane il Recluso definisce il cuore:
Il nostro cuore è davvero la radice e il centro della vita. Esso mostra se lo stato dell’uomo è
buono o cattivo ed incita le altre forze all’attività e, dopo che esse hanno realizzato la loro
opera, esso riceve dentro di sé il risultato di queste azioni per rafforzare o indebolire quel
sentimento che caratterizza la disposizione permanente dell’uomo. Sembra, quindi, che ad esso
- il cuore - si dovrebbe concedere il governo della vita - ed infatti è così presso molti e in
maniera minore presso altri - e può darsi che inizialmente fosse così. Ma vennero le passioni e
turbarono tutto. Quando esse sono presenti, il nostro cuore non è un segnalatore sicuro, le
nostre impressioni non sono come dovrebbero essere, i gusti sono perversi e conducono
l’attività delle altre forze verso la dissipazione. Il programma, quindi, è questo: tieni il cuore sotto
controllo e sottometti ad una severa critica tutti i sentimenti, i gusti e le inclinazioni. Quando
21
sarà purificato dalle passioni, esso potrà agire a suo agio» .
Dunque è il cuore dell’uomo il vero luogo della lotta ed è per questo che il combattimento spirituale è una
battaglia dura, una battaglia che ci accompagna ovunque. Ce lo ricorda Antonio il Grande:
Disse ancora: «Chi siede nel deserto per custodire la quiete con Dio è liberato da tre guerre:
quella dell’udire, quella del parlare e quella del vedere. Gliene rimane una sola: quella del
22
cuore» .
Nella ‘guerra del cuore’, come Antonio definisce il combattimento spirituale, è in gioco la verità del monaco
(o più semplicemente del cristiano), proprio perché è in gioco la verità stessa del suo essere di fronte a Dio:
Non è cosa facile infatti acquistare un cuore puro; solo attraverso una dura lotta e una grande
23
fatica l’uomo acquista una coscienza pura e un cuore puro ed estirpa il male in radice .
3.2 Il cuore: luogo di partenza e di arrivo del male.
Nell’individuare il cuore come vero campo di battaglia per colui che vuole seguire Cristo, gli antichi
monaci sono rimasti profondamente legati al terreno biblico e alla parola stessa di Gesù. Nella polemica con
i farisei, riportata in Mc 7,1-23, Gesù richiama la centralità del cuore come luogo in cui si rivela la verità del
rapporto tra l’uomo e Dio e tra l’uomo e tutto ciò che lo circonda. È dal ‘di dentro’ che parte la dinamica di
questo rapporto ed esso è condizionato dallo stato dell’interiorità: puro o impuro dipendono dal cuore
dell’uomo.
Ma è altrettanto vero che tra il cuore e i canali attraverso cui comunichiamo con la realtà e ne
accogliamo i messaggi, esiste una interdipendenza e un reciproco condizionamento. Se un cuore impuro
rende impuri gesti, parole, sguardi, a loro volta le provocazioni, le emozioni, le immagini, i desideri
introducono nel nostro cuore un mondo di ambiguità e di suggestioni. Tale influsso può essere espresso bene
dal testo di Mt 6,22: la lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà
nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso (cfr. anche Mt 5,27; 7,3-5).
Questo duplice movimento che coinvolge il cuore è espresso chiaramente in questo testo di Giovanni
Climaco, nella sua Scala Paradisi:
Alcuni dicono i pensieri del cuore la causa delle passioni, altri al contrario che siano i sensi
corporei l’origine dei pensieri cattivi; i primi sostengono che se non vi fossero i pensieri non
seguirebbero i moti del corpo, i secondi ascrivono più che altro ai turbamenti del corpo la
21
Testo citato in T. SPIDLIK, L’arte di purificare il cuore, Roma (LIPA) 1999, p.6. Sul concetto di cuore in
Teofane il Recluso cfr anche lo studio di T. SPIDLIK, Il cuore e lo spirito. La dottrina spirituale di Teofane il Recluso,
Città del Vaticano (Libr. Ed. Vaticana) 2004.
22
Antonio il Grande 11, in Vita e detti dei padri del deserto, I, p.89.
23
PSEUDO-MACARIO, Spirito e fuoco. Omelie spirituali (Collezione II), cur.L.Cremaschi, Bose/Magnano
(Qiqajon) 1995, p.285.
9
malizia mettendoli sotto accusa con questo ragionamento: spesso i pensieri del cuore hanno
inizio dalla vista di ciò che piace, dal contatto della mano, dall’odorato provocato dai profumi,
dall’udito sedotto da voci soavi. Su questo ci dia lumi chi ne è capace nel Signore, poiché dare
tali lumi spetta a chi è progredito nella prassi attraverso la gnosi; è per lui infatti necessario
ovvero utile approfondire, perché la gnosi non è di tutti; e non è di tutti la santa semplicità
corazza contro gli inganni dei malvagi.
Alcune passioni provengono dall’interno e giungono al corpo; altre invece seguono il cammino
inverso. Per i mondani si avvera la seconda ipotesi; per quelli che abbracciano la vita
24
monastica, la prima, per mancanza di occasioni materiali .
In ogni caso, il punto di partenza e di arrivo (cioè lo spazio in cui si gioca il rapporto tra il ‘di dentro’ e il ‘di
fuori’) è certamente il cuore. Ecco perché è il cuore che deve essere purificato, vigilato, custodito. Non si
possono evitare le ambiguità delle provocazioni; ma un cuore ben custodito sa discernere e resistere. Un
cuore non puro, un cuore che ha fatto spazio ad un miscuglio melmoso di pensieri e si è adagiato in essi,
dando spazio alla passione, diventa un filtro opaco e inaffidabile per il nostro rapporto con la realtà. E
certamente il consenso al peccato è dato dall’interno dell’uomo, dalla sua libera volontà e scelta.
A questo riguardo è interessante sottolineare l’insistenza e l’attenzione con cui gli autori monastici, e
in particolare Giovanni Climaco, si sono soffermati sulla dinamica della penetrazione del pensiero malvagio
(il logismos) nel cuore25. Così la descrive Giovanni Climaco nella sua Scala Paradisi:
Altra cosa del resto l’approccio, e altra cosa l’adesione; una cosa il consenso, e un’altra la
condizione di schiavo, altro il momento della lotta, e altro lo stato morboso dell’anima. La
distinzione dei Padri dotati di discernimento comprende i seguenti stadi: l’approccio, semplice
pensiero o casuale fantasia che tutto a un tratto si insinua nel cuore; l’adesione, indugio
sopraffatto o meno dalla passione dopo il primo impatto consenso e ripiegamento compiaciuto
dell’anima per quanto si è reso sensibile alla mente; il comportamento da schiavo, quello di chi
permanentemente cede col cuore alla violenta e involontaria attrattiva che fa scomparire le
migliori disposizioni che poteva avere. Momento di lotta, dicono quello in cui l’anima combatte
contro il nemico con forza ancora pari affrontando la lotta umilmente cosciente di poter vincere
o perdere, stato morboso quello dell’anima in cui la malattia della passione con l’andare del
tempo mettendo profonde radici ha provocato con l’abitudine una assuefazione al morbo che
ormai vive per libera scelta divenuta disposizione connaturata.
Dei suddetti stadi, il primo non è colpevole, il secondo non lo è sempre, il terzo lo è secondo il
comportamento di chi lotta; la lotta è causa di premio o di castigo. La condizione di schiavo
invero va giudicata diversamente secondo che opera in tempo di preghiera o in altro tempo,
secondo che si tratta di pensieri mediani ovvero malvagi; ma tale stato morboso tutti dovranno
senza alcun dubbio scontarlo o con una degna penitenza o con la pena finale. Chi dunque non
26
cede interiormente all’inizio della tentazione ha già stroncato tutte le altre con un sol colpo .
Senza analizzare le cinque tappe che caratterizzano le progressiva penetrazione del pensiero malvagio nel
cuore (suggestione, dialogo, lotta, consenso, passione), sottolineiamo soltanto la qualità del discernimento
che deve essere posto fin dall’inizio. Da qui dipende tutta la dinamica della lotta e proprio in questo
immediato e vigilante discernimento consiste l’ascesi del cuore. Nella sua Vita Antonii, Atanasio pone sulle
labbra del grande eremita egiziano questa raccomandazione:
Qualunque immagine appaia, colui che la vede non cada in trepidazione, ma piuttosto interroghi
con sicurezza dicendo dapprima: «Chi sei tu, e da dove vieni?» …Se si tratta di una potenza
diabolica, subito si indebolirà vedendo un animo sicuro e vigoroso. La domanda «Chi sei tu, e
da dove vieni?» è infatti segno di un animo non turbato. Così Giosuè di Nun imparò
27
interrogando, e il nemico non rimase nascosto a Daniele che interrogava.
24
GIOVANNI CLIMACO, Scala del Paradiso XV: tr. it. La Scala del Paradiso, cur. C.Riggi (=Collana Testi
Patristici 80), Roma (Città Nuova) 1989, p.203
25
Su questo particolare asppetto del combattimento spirituale cfr SPIDLIK, La spiritualità dell’Oriente
cristiano. Manuale sistematico, pp.211-212; V.LEPACHIN, Strast’ i lestvica strastej (La passione ei gradi delle
passioni), in Vestnik 1998/n°179, pp.5-22.
26
GIOVANNI CLIMACO, Scala del Paradiso XV: tr. it. La Scala del Paradiso, p.202
27
ATANASIO,Vita di Antonio 43,1-3: tr. it. in Vita di Antonio, cur. C.Mohrmann-G.J.M.Bartelink, Milano
(Mondatori/Fond. L.Valla) 1974, pp.90-91.
1
Solo se il cuore è custodito attraverso un costante discernimento dei pensieri per mezzo della ‘spada dello
Spirito, cioè la Parola di Dio’ (Ef 6,17), è possibile intraprendere fin dall’inizio e con vigore la lotta. Soltanto
in questo modo, ci ricordano i padri monastici, possiamo entrare in possesso del nostro cuore. Giovanni di
Gaza in una delle sue lettere dice:
I pensieri entrano nel nostro cuore come il grano quando viene seminato; in questo non vi è
condanna. Ma nel consentire ad essi e nel disporne male, in questo vi è condanna.
Il segno di riconoscimento del consenso è che la cosa piaccia all’uomo, e che egli ne gioisca in
cuor suo, e vi pensi con piacere. Se uno invece resiste al pensiero e lotta per non accoglierlo,
28
questo non è consenso, ma lotta, e questo rende l’uomo provato e lo fa progredire.
Spesso gli autori monastici utilizzano il simbolo biblico del serpente per esprimere la potenza persuasiva e
ingannevole del pensiero malvagio e la conseguente necessità di un vigilante e immediato discernimento.
L’allusione al racconto di Gen 3 dimostra come il sottofondo biblico resti un paradigma spirituale per la
tradizione monastico-patristica. Come fa notare P.Edokimov, «il racconto biblico del ‘frutto proibito’ mette
in evidenza la potenza della suggestione; esso suscita il desiderio con la sua apparenza estetica e sensuale al
tempo stesso: ‘L’albero era buono da mangiare e bello a vedere e desiderabile’. La disubbidienza formale è
trapassata dalla freccia della tentazione che colpisce la libertà umana e perverte la sua opzione. È chiaro il
significato essenziale della caduta: il frutto desiderabile, concupito sensualmente, immerge nella vita dei
sensi, preferita all’approfondimento spirituale della comunione con Dio. L’uomo appare colpevole, non tanto
negativamente, per disubbidienza, ma positivamente, perché non si arricchisce con la prossimità di Dio. ‘Se
si fosse attaccato a Dio fin dal primo movimento del suo essere, avrebbe subito raggiunto la sua perfezione’,
dice san Gregorio Nisseno»29.
4. Un nemico dai molti volti
La profondità del luogo in cui si svolge questa lotta, il cuore, e la totalità delle forze che essa investe
permette al ‘nemico’ di nascondere la sua pericolosità con uno schermo di ambiguità: esso agisce in modo
subdolo, penetrando con molta cautela e circospezione e rendendo difficile il discernimento. Per questo si
riveste sempre di un aspetto di verità, di bontà, di bellezza, di fascino, per nascondere la sua radicale
menzogna. “Accovacciato alla porta” del cuore, riesce a nascondersi nelle pieghe più recondite di esso, per
ripresentarsi nel momento opportuno.
L’apostolo Paolo, in due occasioni, ci descrive alcuni tratti del volto di questo nemico. In Gal 5,16.24
parla di ‘desideri della carne' (epithumìan sarkòs), da cui prende forma l’agire dell’uomo ‘carnale’ (le opere
della carne). Attraverso questo termine collettivo, Paolo indica tutte quelle pulsioni o tensioni interiori che
attraverso la sfera emotiva e sensitiva disordinata, passionale, istintiva intaccano l’agire dell’uomo, la sua
volontà, la sua capacità di discernimento, la sfera razionale, ecc… In Ef 6, 11-12, presentando la lotta che il
cristiano deve affrontare per essere fedele al suo Signore e descrivendo l’armatura necessaria per combattere,
l’apostolo utilizza altre due espressioni: il credente si trova “di fronte alle astuzie del diavolo (pros tas
methodeìas tou diabòlou)” e deve combattere “non contro carne e sangue, ma contro i Principati e le Potestà
(pros tas archàs, pros tas eksousìas), contro i dominatori (pros tous kosmokràtoras) di questo mondo di
tenebra, contro gli spiriti del male (pros ta pneumatikà tes ponerìas) che abitano nelle regioni celesti”. Il
cristiano, nel mondo, si trova faccia a faccia e attorniato (pros) da molti nemici: essi non sono gli uomini
(‘carne e sangue’), ma quelle realtà che colpiscono la parte spirituale dell’uomo e ne strumentalizzano la
sfera fisica; nemici innumerevoli che attorniano l’uomo e tentano di impossessarsi della creazione intera per
raggiungere il cuore dell’uomo. Questi nemici «sono a priori superiori all’uomo per la loro posizione situata
‘nei cieli’ dell’esistenza, per la tenebrosità e l’inattaccabilità di questa posizione. Tale posizione è appunto
1’‘atmosfera’ dell’esistenza che essi stessi intendono diffondere intorno a sé. Questi nemici, infine, sono tutti
pieni di malvagità essenziale e mortale. Per sé, essi costituiscono semplicemente la multiforme avanguardia e
il molteplice spiegamento di quella Potenza nemica di Dio che, quale Potenza dominante il mondo, si cela
dietro di essi e dietro il mondo stesso: il diavolo»30. Dunque, per Paolo, o diabòlos è il manovratore di un
‘esercito’ asservito che accerchia l’uomo e il suo cuore, seminando in esso ‘tenebra’ e malvagità e
28
GIOVANNI DI GAZA, Lettera 248. Testo citato in Fuoco ardente. Guida spirituale, cur.P.Deseille,
Bose/Magnano (Qiqajon) 1998, p. 25
29
P. EVDOKIMOV, Le età della vita spirituale, Bologna (Il Mulino) 1968, p.179.
30
H. SCHLIER, La lettera agli Efesini, (=Commentario Teologico del NT, X/2) Brescia (Paideia) 1973, p.465.
1
contaminandolo nella sua crescita spirituale. I volti e le maschere che il tentatore assume sono molteplici e
devono esser identificati: essi formano, fondamentalmente, la zavorra pesante dell’uomo vecchio che tende
continuamente a rivivere nel cuore di colui che è stato immerso nelle acque vivificanti della morte di Cristo.
In questo terreno biblico affondano le radici dell’esperienza e della riflessione dell’antico
monachesimo. I monaci erano coscienti che il male contro cui essi combattevano e che si annida nel cuore
dell’uomo ha la sua origine in colui che ‘è menzognero fin dal principio’ (......). Ma erano altrettanto
consapevoli della varietà dei modi e dei volti con cui il tentatore si insinua nel cuore. Ecco perché, come
abbiamo già sottolineato, gli antichi monaci parlavano di logismoi come modalità diversificate attraverso cui
il male penetra nel cuore dell’uomo. Senza soffermarci ulteriormente sulla complessità del significato di
questo termine, logismos, già richiamato in precedenza, preferiamo mettere in luce brevemente proprio la
varietà delle forze (desideri, istinti, passioni…) che questa realtà investe condizionando la totalità della
persona umana, proprio a partire dal cuore.
Sia Mc 7,21-22 (dal cuore dell’uomo escono oi dialogismoì oi kakoì), sia Gal 5,19-21 ci offrono alcuni
elenchi di passioni o vizi che investono la totalità della persona umana e del suo agire, intaccando e
capovolgendo le relazioni con se stesso, con il proprio corpo, con le cose, con i propri simili e, infine, con
Dio. Ed è interessante notare come in questi elenchi sia messa maggiormente in rilievo la dimensione
orizzontale che tali pensieri malvagi investono; potremmo definire tali passioni ‘vizi relazionali’ perché
proprio nella sfera dei rapporti emerge in modo più drammatica la divisione interiore e il disordine prodotto
dal peccato.
In questa linea si colloca anche la tradizione monastica. Con profondo intuito psicologico, con una acuta
osservazione del comportamento umano, ma anche con una fedele aderenza allo stesso linguaggio biblico
(mediato certamente dalla cultura ellenistica), gli autori monastici hanno identificato otto pensieri, otto
suggestioni diaboliche come altrettante sfaccettature o modalità con cui il nemico attacca il cuore dell’uomo.
Erede e portavoce di tale riflessione spirituale è Evagrio Pontico che ha sistematizzato tale dottrina
formulando una lista di logismoi, diventata poi tipica per la tradizione monastica seguente31. Ritroviamo
questo elenco evagriano nel Trattato pratico sulla vita monastica:
Otto in tutto sono i pensieri generici sotto cui si raccoglie ogni pensiero:
il primo è quello della ingordigia (gastrimargìa);
dopo di esso viene quello della fornicazione (porneìa);
il terzo è quello dell’avarizia (philargyrìa);
il quarto quello della tristezza (lùpe);
il quinto quello dell’ira (orgè);
il sesto quello dell’accidia (akedìa);
il settimo quello della vanagloria (kenodoksìa);
l’ottavo quello della superbia(yperephanìa).
Che tutti questi pensieri turbino o non turbino l’anima, non dipende da noi; ma che essi si
attardino o non si attardino, che muovano o non muovano le passioni, questi sì dipende da
”32
noi .
Certamente tale litania di malvagità non deve essere assolutizzata: dentro e fuori di noi i volti e le
insidie del male sono molto più variegati, sfumati, complessi. Ma è pur vero che tale lista riflette
profondamente la struttura psicologica e spirituale dell’uomo, mettendo in evidenza particolari dinamiche;
ecco perché, in qualche modo, gli otto pensieri malvagi elencati da Evagrio diventano ‘tipici’ anche per noi,
quasi una griglia di riconoscimento di ogni suggestione del tentatore, poiché “in essi è contenuto ogni altro
pensiero”.
È importante, inoltre, notare la dinamica che collega tra loro questi pensieri, dinamica che si riflette
poi sull’agire dell’uomo. Essa emerge se confrontiamo gli otto pensieri malvagi con i loro contrari, cioè con i
frutti dello Spirito, così come sono elencati in Gal 5,22.
31
Sugli otto pensieri malvagi nella tradizione patristica e monastica cfr. SPIDLIK, La spiritualità dell’Oriente
cristiano, pp. 219-220 e il recente studio di J.-C. LARCHET, Terapia delle malattie spirituali. Una introduzione alla
tradizione ascetica della Chiesa ortodossa, (=Spiritualità 30), Cinisello B. (San Paolo) 2003. Per quanto riguarda la
tradizione occidentale dei vizi capitali cfr. i recenti studi di C.CASAGRANDE-S.VECCHIO, I sette vizi capitali. Storia
dei peccati nel Medioevo, Torino (Einaudi) 2000 e G.CUCCI, Il fascino del male. I vizi capitali, Roma (AdP) 2008.
32
EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico 6: tr. it. in EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico. Cento capitoli
sulla vita spirituale, cur.G.Bunge, Bose/Magnano (Qiqajon) 2008, p.79. Cfr. Anche EVAGRIO PONTICO, Contro i
pensieri malvagi. Antirrhetikos, cur. G.Bunge-V.Lazzeri, Bose/Magnano (Qiqajon) 2005.
1
Infatti, se rileggiamo queste due liste a partire dal testo di Gen 3, notiamo una duplice circolarità: nei pensieri
malvagi la gola (come assimilazione smodata del cibo nella logica della preda, non in quella del dono) apre
la via alla situazione radicale dell’orgoglio (in cui la dimensione divina della vita è collocata nel regime del
possesso e non in quello della gratuità). È, appunto, la dinamica del racconto simbolico del peccato in Gen 3.
D’altra parte, nei frutti dello Spirito, notiamo come l’agape, facendo uscire l’uomo dalla logica mortale del
possesso, apre allo spazio del dono, nelle sue molteplici sfumature (i frutti). Ma questo è possibile solo se la
totalità dell’essere è ordinata alla gratuità: il dominio di sé apre all’agape.
Dunque, in questa prospettiva, possiamo notare un chiaro rapporto tra pensieri malvagi e frutti dello
Spirito. La gola (come squilibrio della corporeità) e l’orgoglio (come logica del potere e rifiuto del dono)
fanno da inclusione a tutti gli altri pensieri, che diventano così l’itinerario concreto tra questi due poli;
l’agape (la logica del dono) e il dominio di sé (equilibrio della corporeità) fanno da inclusione ai frutti dello
Spirito. Questo ci fa inoltre capire come la modalità biblica nel descrivere il peccato del primo uomo
(mangiare il frutto dell’albero), è profondamente vera ed è legata alla struttura stessa dell’uomo e al suo
rapporto con la realtà. Ritorneremo subito su questo aspetto. Qui facciamo solamente notare il legame tra
gola ed orgoglio. Anche se apparentemente sembrano distanti l’uno dall’altro (la gola investe la sfera
corporale, mentre l’orgoglio intacca la vita spirituale e la dimensione intellettiva dell’uomo), questi due
pensieri malvagi sono, di fatto, interdipendenti e profondamente legati tanto da poter essere considerati la
sintesi di tutta la dinamica che investe gli otto pensieri. Come abbiamo già sottolineato rifacendoci a Gen 3,
la pretesa di diventare ‘come Dio’ (pretesa che trasforma Adamo in predatore della divinità) passa,
simbolicamente, attraverso un atto di ingordigia. Il modo avido in cui il cibo viene assimilato, di nascosto da
Dio, esprime dunque la radice di ogni pensiero malvagio: una progressiva e smisurata crescita del proprio
‘io’ fino ad assumere la statura della divinità, quell’'io' divinizzato che è espressione dell'idolatria di se stessi,
dell’orgoglio e della philautia. Riferendosi agli antichi autori monastici, O.Clement nota che:
Per la maggior parte degli autori ascetici, sebbene queste classificazioni siano alquanto fluttuanti e
debbano piuttosto essere intese nella loro dinamica, esistono due «passioni-madri», l’una concernente
le facoltà irrazionali (thumos ed epithumia) ed è l’ingordigia, nel senso di una fondamentale avidità;
l’altra concernente il noùs, e questa è l’orgoglio. Avidità e orgoglio si congiungono in una specie di
appropriazione metafisica che incurva intorno all’ego tutto lo spazio dell’essere. Gli spirituali, e
particolarmente Massimo il Confessore, parlano qui di philautia, amore di sé, egocentrismo, che
sottrae il mondo a Dio per appropriarselo, reificando il prossimo. Non c’è più né l’Altro, né l’altro ma
soltanto l’io assoluto. «Chi ha la philautia, ha tutte le passioni», dice Massimo.
L’avidità scatena la dissolutezza come espressione della sessualità e, tutte e due insieme, per
soddisfarsi, generano l’avarizia. Quest’ultima è causa di tristezza - perché non si possiede tutto - e di
invidia — verso chi possiede. Così nasce l’iracondia, contro chi minaccia i miei beni o si impadronisce
prima di me di un bene cui agognavo.
L’orgoglio, da parte sua, genera la «vanagloria», ostentazione di ricchezze e di attrattive, e poi l’ira e
la tristezza quando non si ottengono dagli altri ammirazione e approvazione. E si ritorna così,
attraverso una profonda volontà di accaparramento dell’essere, all’avidità. I due circuiti si
33
ricongiungono, formando una ellissi a due poli .
Dunque, come sottolinea O.Clement, esiste chiaramente anche una logica interna negli otto pensieri
malvagi: i primi tre segnano il rapporto con le realtà materiali che ci circondano (metafora di realtà più
profonde); la tristezza e la collera denotano uno squilibrio interiore (soprattutto nella sfera emotiva)
derivante da una corporeità non equilibrata. L’accidia, d’altra parte, sottolinea come una vita disordinata
perda il proprio senso, il proprio logos. Tale situazione ‘illogica’ si trasforma in uno stato intermedio,
difficile da identificare e da combattere perché trascina in sé aspetti legati ai pensieri precedenti e apre agli
ultimi due pensieri. La vanagloria e l’orgoglio, infine, manifestano il punto d’arrivo di questo squilibrio: esso
ha ormai raggiunto il centro, il proprio ‘io’, il quale perde così ogni rapporto di verità con se stessi, con gli
altri, con Dio.
5. Come combattere? Vigilanza e ascesi
In Ef 6,10 – 20, testo biblico di riferimento per il tema del combattimento spirituale, Paolo ci offre una
descrizione dettagliata dei vari elementi che compongono quell’armatura simbolica (quella che chiama ten
33
O.CLEMENT, Alle fonti con i Padri. I mistici cristiani delle origini. Testi e commento, Roma (Città Nuova)
1987, pp.131-132.
1
panoplian tou theou) mediante la quale il credente può affrontare la lotta pros tas methodeias del diavolo.
Tutte le parti dell’armatura servono per ‘parare i colpi’ del nemico, per evitare di essere feriti mortalmente,
per permettere la ripresa della battaglia. Ma vediamo che, in questo elenco, una sola è l’arma offensiva,
l’unica posta nelle mani del combattente e capace di annientare la pericolosità del nemico, rendendolo
inoffensivo. È la ‘spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio’ (Ef 6,17). Per custodire veramente il nostro
cuore e orientare il nostro agire, noi abbiamo bisogno di una parola sicura, una parola che non può essere
ingannata, una parola capace di fare chiarezza e smascherare l’origine e la direzione dei nostri desideri, una
parola alla quale i pensieri non possono resistere e sono obbligati a rispondere correttamente. Come ricorda
un detto dei padri del deserto: «Sii il portinaio del tuo cuore, affinché lo straniero non entri, dicendo: tu sei
dei nostri o dei nostri nemici». Questa parola capace di interrogare è la parola di Dio. E per Paolo, la Parola
di Dio è come una spada, ha la forza di separare, di fare chiarezza, è capace di andare in profondità rivelando
la verità del nostro cuore e di ciò che si muove in esso. Nulla può sottrarsi allo sguardo della Parola di Dio.
Ma la forza di questa Parola viene dallo Spirito di Dio che agisce in essa, quello Spirito che scruta e prova i
nostri cuori, quello Spirito che conosce ciò che è secondo Dio, quello Spirito che viene in soccorso alla
nostra debolezza. «Poni alla porta del tuo cuore un cherubino con la spada infuocata»: è questo l’invito di un
monaco del deserto.
Ma qual è il clima umano e spirituale che permette di ‘maneggiare’ agevolmente, con maestria, questa
spada? Il testo di Paolo ci rimanda chiaramente al contesto militare, fatto di esercizio, di duro addestramento.
Ma soprattutto ci ricorda che la spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio, può esercitare la sua funzione,
sempre pronta ad agire nel discernimento, solo se si rimane vigilanti con ogni perseveranza e intercessione
(agrypnountes ev pase proskarteresei kai deesei) (Ef 6,18). Nel testo di Paolo, dunque, viene descritto non
solo l’arma, ma anche il clima e la modalità con cui il credente può affrontare seriamente il nemico. Ed è il
clima della vigilanza, profondamente legata all’ascesi, quel clima umano e spirituale che coinvolge due
dimensioni essenziali dell’uomo: il corpo e il cuore.
Collocare l’ascesi e la vigilanza in stretto rapporto con la dimensione ‘drammatica’ della vita spirituale, o più
semplicemente della vita cristiana (cfr. appunto la descrizione di Paolo in Ef 6,10ss.), significa restituire ad
esse una corretta ed equilibrata funzione nell’ambito della maturazione umana e spirituale. Inoltre, tale
relazione permette anche di definire le condizioni essenziali, i criteri e i limiti per un discernimento di una
ascesi sana ed evangelicamente liberante. E, a questo riguardo, possiamo sottolineare un aspetto importante:
ogni forma di ascesi che coinvolge la dimensione corporale nel combattimento spirituale, è anzitutto in
relazione alla vigilanza, all’interiorità, al cuore, vero luogo della lotta e mira essenzialmente a purificare i
desideri che abitano in esso per renderli conformi a quelli dello Spirito. Così un autore spirituale russo, il
vescovo Ignatij Briančaninov, esprime il ruolo dell’ascesi nella vita monastica:
L’ascesi corporale è necessaria per rendere la terra del cuore adatta a ricevere i semi spirituali
e a produrre frutti della stessa specie. Abbandonare o trascurare le fatiche ascetiche, significa
rendere il terreno inadatto ad essere seminato e a produrre il frutto. Esagerarle, invece, o porre
in esse la propria speranza, è altrettanto nocivo, o addirittura più ancora che abbandonarle.
L’abbandono delle osservanze ascetiche corporali rende l’uomo simile ad un animale, dando
libero sfogo alle passioni del corpo e offrendo ad esse un vasto campo d’azione; ma
l’esagerazione (delle fatiche ascetiche) rende l’uomo simile ai demoni, perché favorisce e
rinforza la predisposizione alle passioni dell’anima…..Diamo il giusto valore alle pratiche
ascetiche corporali – esse sono strumenti indispensabili per acquistare le virtù – ma vigiliamo
per non scambiare questi strumenti come se fossero virtù, per non cadere nell’accecamento e
34
privarci dei progressi spirituali a causa di una falsa concezione dell’agire cristiano” .
Questo testo ci aiuta anche a fissare i limiti di ogni ascesi: se la ‘fatica’ e il dominio del corpo non
raggiungono il cuore, non si trasformano in custodia e vigilanza dell’interiorità, in continua purificazione dai
pensieri, possono anche plasmare un carattere o favorire un autocontrollo, ma non plasmeranno mai l’uomo
‘spirituale’. «Colui che ha rinunciato alle cose materiali… – scrive Esichio presbitero – ha fatto monaco
l’uomo esteriore ma non ancora l’uomo interiore; chi invece ha rinunciato ai pensieri passionali di questo –
cioè dell’intelletto – è questo il vero monaco. Facilmente uno fa monaco l’uomo esteriore, se vuole, ma non è
piccola lotta fare monaco l’uomo interiore»35.
34
I.BRIANTCHANINOV, Les miettes du festin. Introduction à la tradition ascétique de l’Eglise d’Orioent,
Sisteron (Ed. Présence) 1979, pp.166-167.
35
ESICHIO PRESBITERO, A Teodulo 70 , in NICODMO AGHIORITA e MACARIO DI CORINTO, La
Filocalia, I, cur. B.Artioli - F.Lovato, Torino (Gribaudi) 1982, p.244.
1
Dunque, “fare monaco l’uomo interiore”, cioè condurre la totalità della vita ad una unità e ad una
libertà attraverso la tensione verso un punto unificatore – Dio e la rivelazione del suo amore in Gesù – è
fondamentalmente l’obiettivo di ogni cammino ascetico, della lotta spirituale. Ed è un obiettivo che supera il
puro sforzo umano. Lo sottolinea con chiarezza Jung, mostrando le differenze fra la tradizione ascetica
pagana e quella cristiana:
Mentre il sacrificio mitraico…mirava unicamente all’addomesticamento e al disciplinamento
dell’uomo istintuale,…l’idea cristiana del sacrificio,…esige dedizione da parte di tutto l’uomo, e
quindi non solo l’addomesticamento dei suoi istinti animali, ma una totale rinunzia ad essi e
inoltre il disciplinamento delle sue funzioni spirituali specificamente umane in vista di una meta
36
spirituale che trascende questo mondo .
Se manca il profondo legame con la totalità della persona e la sua maturazione verso una libertà ed una
capacità di amare in Cristo (questo è l’obiettivo del combattimento spirituale), ogni ascesi perde il suo
valore, diventa riduttiva o addirittura aberrante ed antievangelica. E questo è il rischio che ha corso, lungo i
secoli, anche l’ascesi cristiana. Se oggi c’è una perdita o una reazione negativa a questo aspetto della vita
spirituale, ciò è dovuto anche alle deviazioni che ha subito l’ascesi.
Già il linguaggio utilizzato dagli antichi autori monastici e dalla tradizione patristica è spesso ambiguo, non
sempre agganciato in modo chiaro ad una matrice biblica e più debitore del contesto culturale e filosofico
pagano. Se poi si scorre la letteratura agiografica, si rimane impressionati da certe prodezze ascetiche che
fanno del monaco più un eroe stoico che un mite discepolo dell’evangelo. Tutto questo ha influito sul modo
di praticare una ascesi corporale e sul suo contenuto. In certi ambienti religiosi e in certe epoche, l’ascesi si è
gradualmente trasformata in una pratica fine a se stessa il cui obiettivo era il dominio di sé, una sorta di
autocontrollo del corpo senza una autentica e positiva relazione con la dimensione dell’agape. Questa
modalità caratterizzata da una generosità puramente naturale ha reso, di fatto, ogni pratica ascetica schiava di
un eccessivo volontarismo o di una visione moralistica e ‘meritoria’ della vita cristiana (i cosiddetti ‘fioretti’
o rinunce per acquistare meriti). Lo sguardo sospettoso e un po’ dualista sulle realtà corporali ha poi rischiato
di trasformare l’ascesi in una pratica autopunitiva, sottolineandone solo l’aspetto mortificante.
Proprio di fronte alle deviazioni del contenuto e della prassi ascetica e agli attuali sospetti verso questo
ambito, si deve reagire riproponendo il cammino liberante che ha caratterizzato l’autentica tradizione
monastica. Esso mi pare stupendamente espresso in queste parole di P.Evdokimov:
L’ascetismo non ha nulla in comune con il moralismo. Il contrario del peccato non è la virtù, ma
la fede dei santi. Il moralismo esercita le forze naturali e il suo profondo volontarismo sottopone
il comportamento umano agli imperativi morali. Ma è noto fino a qual punto l’etica autonoma ed
immanente sia fragile e poco efficace perché non offre nessuna sorgente vivificante. Si può
rispettare una legge, non la si può mai amare come si ama una persona, ad esempio Gesù
Cristo. Il Cristo non è il principio del bene, ma il bene incarnato… Per questo, nei conflitti tragici
dell’esistenza, al colmo della sofferenza o solitudine, i “principi” morali e sociologici sono
impotenti. Non hanno il potere di dire al paralitico: “levati e cammina!”. Non possono perdonare
né assolvere, rendere la colpa inesistente o risuscitare i morti. Eretti a sistema, la loro rigida
apparenza di impersonalità e di generalità, nasconde il fariseismo dell’’orgoglio degli umili’. È la
forma più perniciosa, perché ‘quando l’orgoglio è preso per umiltà, la malattia è irrimediabile’.
La virtù degli asceti ha un ruolo diverso e significa il dinamismo umano messo in moto dalla
presenza di Dio. Non si tratta di ’un’opera meritoria’: ‘Dio è il nostro creatore e salvatore; non è
37.
colui che misura e pesa il prezzo delle opere’
Infine un ricupero della autentica ascesi permette di reintegrare nella vita spirituale proprio quella
dimensione che oggi sembra da essa pericolosamente separata: il corpo. La perdita di questo rapporto, come
abbiamo già sottolineato, è rischiosa per la vita cristiana, in quanto tende a trasformare il messaggio
evangelico in ideologia e la vita spirituale in una sorta di interiorità senza volto, in idee generose e in scelte
prese a colpi di volontà. Tale modo di vivere la vita cristiana è fragile e rarefatto. Fare partecipare il corpo
36
C.G.JUNG, Simboli della trasformazione, in Opera omnia, V, cur.L.Aurigemma, Torino (Boringhieri)
1970,pp. 422.423.
37
EVDOKIMOV, Le età della vita spirituale, pp.169-170
1
all'avventura spirituale è un atto di fede nella Incarnazione del Verbo di Dio e nella sua morte e risurrezione.
Così fa notare p. Deseille:
Sicuramente il pensiero dei Padri comporta un certo dualismo; tuttavia esso non oppone la
materia allo spirito, ma il mondo presente al mondo che verrà, quello in cui le anime e i corpi
non sono ancora trasfigurati dalla potenza dello Spirito, a quello della resurrezione e
trasfigurazione dell’essere tutto intero. Anche il fine della loro ascesi non era quello di separare
l’anima dal corpo, per quanto ciò fosse possibile su questa terra, ma di trasfigurare il corpo
stesso per farlo partecipe della divinizzazione dell’anima. Se i primi monaci hanno adottato un
insieme di gesti di preghiera, di pratiche ascetiche (soprattutto il digiuno) e di usi diversi, questo
è dovuto al fatto che essi sapevano per esperienza che questi comportamenti favorivano la
‘compunzione del cuore’ nel suo significato più ampio, cioè una vita spirituale la cui spinta
interiore non è né uno spirito privato della sensibilità, né una sensibilità abbandonata alle sue
sole emozioni, ma uno slancio che sgorga dalle profondità di un cuore ricreato dallo Spirito
Santo e che integra in sé tutte le ricchezze dell'affettività umana per metterle al servizio
38
dell’amore di Dio e del prossimo .
Ci soffermiamo brevemente sulla relazione tra vigilanza e ascesi, queste due dimensioni che
coinvolgono la totalità della persona, cuore e corpo, e che offrono, secondo la tradizione monastica, la
corretta angolatura per affrontare quello spazio di deserto e di tentazione che ogni cammino nella vita
secondo lo Spirito comporta.
5.a. Vigilanza e attenzione: l’ascesi del cuore
La stretta interdipendenza tra i sensi, che coinvolgono la dimensione corporale, e il cuore, il simbolo
della stato della nostra interiorità, esige un cammino ascetico. Esso è anzitutto ordinato a mantenere attento e
desto il cuore. Infatti la custodia dei sensi, l’ascesi dello sguardo, della bocca, delle orecchie (aspetti che
vedremo in seguito) sono relativi all'attenzione del cuore, permettendo di trasportare la vigilanza nello spazio
interiore in cui avviene la lotta. E in questo senso vigilanza e attenzione diventano la “fatica del cuore”
(come dice Barsanufio), una ascesi attraverso la quale è possibile operare quella purificazione necessaria per
rendere efficace l’azione della ‘spada dello Spirito’: «Ogni carisma è dato con la fatica del cuore. – scrive
Barsanufio - E il carisma della vigilanza (nepsis) non lascia entrare i pensieri o, se entrano, non permette loro
di nuocere. Che Dio ti conceda di essere sobrio e vigilante (tò néphein kaì tò gregorein)»39. Ad un fratello
illuso della tranquillità del suo cuore, un abba lo pone di fronte alla consapevolezza che solo un cuore
vigilante rende possibile un discernimento della lotta:
Un fratello ha detto ad un anziano: «Io non vedo lotte nel mio cuore». L’anziano gli rispose: «Tu
sei un edificio aperto da tutti i lati. Chiunque entra da te e ne esce a proprio piacimento. E tu, tu
non sai ciò che accade. Se tu avessi una porta, se tu la chiudessi ed impedissi ai cattivi pensieri
40
di entrare, allora li vedresti fermi all’esterno e combattere contro di te» .
“Avere una porta per sapere ciò che accade” nel cuore è nient’altro che vigilare e mantenere costantemente
sotto controllo la relazione tra sensi e interiorità. Questo permette di discernere ciò che intacca la qualità dei
nostri desideri, pervertendoli e allontanandoli da Colui che li rende liberi e veri. E, d’altra parte, un cuore
vigile e custodito impedisce ai sensi e al corpo di cadere nei lacci del nemico. Potremmo dire che l’ascesi del
cuore permette l’ascesi del corpo; un cuore vigile rende vigilante la totalità della persona. “Un fratello chiese
ad abba Arsenio di dirgli una parola. L’anziano gli disse: «Lotta con tutte le tue forze perché la tua attività
interiore sia secondo Dio e così vincerai le passioni esteriori»”41.
38
P.DESEILLE, , L’échelle de Jacob et la vision de Dieu, Saint-Laurent-en-Royans (Monstère saint-Antoine-leGrand) 1995, p.28-29
39
BARSANUFIO E GIOVANNI DI GAZA,Lettera 267: in BARSANUPHE ET JEAN DE GAZA,
Correspondence, II/1, ed.F.Neyt - P.de Angelis Noha - L.Regnault (=Sources Chrétiennes 450) Paris 2000, p.248-249.
40
Serie Sistematica. XI, 43. in I PADRI DEL DESERTO, Detti, cur.L.Mortari, Roma (Città Nuova) 1980,
pp.232-233.
41
Arsenio 9 : in Vita e detti dei padri del deserto, I, p.99.
1
Vorremmo ora sottolineare alcuni aspetti del rapporto tra vigilanza (in greco nepsis) e attenzione
(prosochè)42. Possiamo coglierli anzitutto come due atteggiamenti profondamente legati che creano uno stile
di vita ascetico e sobrio, plasmando una modalità particolare di collocarsi di fronte a se stessi e agli altri, di
fronte alla realtà, di fronte a Dio. Mediante la vigilanza e l’attenzione, noi possiamo avanzare con
circospezione e pazienza nel luogo dell’interiorità, orientarci all’interno di un mondo spesso ambiguo e
vegliare in esso per poter discernere i passi del nemico: «L’uomo ha bisogno di un grande discernimento –
scrive l’abba Isaia – che recida ogni volontà carnale, e di una vigilanza attenta (néphein metà prosochés) in
tutte le sue vie per evitare di smarrirsi»43.
Contrapposta alla superficialità e alla distrazione spirituale, situazioni che indeboliscono la tensione e la
vivacità interiore, l’attenzione implica appunto una capacità di fissare lo sguardo interiore su ciò che è
essenziale ed essere sempre in tensione verso di esso ( ‘attendere’ significa, in latino, ‘tendere-a’, ‘essere teso
verso’). La vigilanza può essere invece considerata la custodia dell’attenzione: non si può essere attenti se si
è appesantiti, se manca una sobrietà di cuore e di mente. Come scrive lo Pseudo-Macario: «La fatica del
cuore e la vigilanza sui pensieri aiutano a fissare la propria attenzione (proséchein) sul Signore»44. «In senso
stretto e specifico, la nepsis è l’atteggiamento di un’anima ben sveglia, presente a se stessa e a Dio, vigilante,
circospetta e attenta a non lasciarsi sorprendere dall’avversario demoniaco che cerca di introdursi nella
mente o nel cuore per mezzo dei logismoi – cioè dei pensieri, cattivi o semplicemente importuni, che quegli
si ingegna di suggerire -, pronta infine a respingerlo fin dal suo primo tentativo di avvicinarsi. Questo
atteggiamento di chi sta sulla difensiva si chiama anche attenzione (prosoché), ‘guardia’ della mente, del
cuore (phylaké)»45.
Quanto abbiamo finora detto ci aiuta a comprendere l’importanza, per un equilibrio e una maturità nella vita
spirituale, di questi due atteggiamenti. Essi costituiscono un vero e proprio esercizio (askesis) o ‘metodo
spirituale’, come li chiama Esichio46. Dunque, non possono essere ridotti ad una semplice conoscenza di se
stessi. Certamente per vigilare è necessario conoscere il proprio mondo interiore, ciò che si muove in esso, i
desideri che lo abitano, le pieghe in cui si nascondono ambiguità e falsità. Ma vigilare ed esser attenti a se
stessi è qualcosa di più: implica un esercizio della volontà e della memoria attraverso i quali il cuore (unito
all'intelligenza) è tenuto continuamente desto sotto lo sguardo di Dio: »Veglia su di te – scrive Basilio di
Cesarea – per poter vegliare nella conoscenza di Dio»47. In questa attenzione, come abbiamo già sottolineato,
interagiscono cuore e sensi. La vigilanza è un esercizio di tutta la persona. Si custodisce il proprio cuore per
avere l’agilità e la lucidità nel discernere i pensieri e le immagini che provengono dall’esterno: «Sii il
portinaio del tuo cuore – dice un apophtegma – affinché lo straniero non entri, dicendo: ‘Tu sei dei nostri o
dei nostri nemici?’»48.
Ma si custodiscono i propri sensi perché essi sono il veicolo attraverso cui penetrano nel nostro cuore
fantasie, sensazioni, pensieri. Occhi, orecchie, bocca sono luoghi simbolici del nostro corpo attraverso cui
avviene il contatto tra la realtà che ci circonda e il nostro mondo interiore. Non si deve mai dimenticare
questo rapporto tra cuore e attitudine corporale e la loro influenza reciproca; eliminare una delle componenti
è illusorio e pericoloso49.
La tradizione monastica, fedele all’insegnamento evangelico, ha indicato soprattutto la preghiera come
vero strumento per custodire il cuore vigile e attento. Anzi, più propriamente si deve dire che la preghiera
non è tanto uno strumento, ma lo spazio in cui attenzione e vigilanza possono veramente entrare in azione e
dare unità alla complessità della vita, mantenendo desti cuore e corpo, la totalità della persona. Nella
preghiera tutta la vita diventa vigilanza. È questo il senso dell'esortazione di Paolo in Ef 6,18: per affrontare
il nemico indossando l’armatura di Dio e impugnando la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio, è
necessario pregare incessantemente con ogni sorta di preghiera e di suppliche nello Spirito, vigilando a
42
Cfr. P.MIQUEL, Lessico del deserto, pp.247-257. 319-330.
ABBA ISAIA, Logos 25, 21: in ISAÏE (Abbé), Recueil ascétique, Bellefontaine 1985, p.227.
44
PSEUDO-MACARIO, Omelia VI, 1. in PSEUDO-MACARIO, Spirito e fuoco, p.123.
45
P.ADNES, Hésychasme, in Dictionnaire de Spiritualità, VII, coll.391-392. Cfr. cit. i n MIQUEL, Lessico del
deserto, p. 247.
46
Cfr. il testo completo in ESICHIO PRESBITERO, A Teodulo 1: in La Filocalia, I, p.230.
47
Cfr. BASILIO DI CESAREA, Veglia su di te. Homilia in illud “Attende tibi ipsi”, cur. L.Cremaschi (=Testi
dei Padri della Chiesa 6) Bose/Magnano (Qiqajon) 1993, p.23. Cfr. anche MIQUEL, Lessico del deserto, p.327.
48
Il testo dell’apophtegma è citato in SPIDLIK, La spiritualità dell’Oriente Cristiano, p.213.
49
Cfr. a questo riguardo Sir 22,33-23, 6.
43
1
questo scopo con ogni perseveranza ed intercessione (agrypnountes en pase proskarteresei kai deesei).
Vigilanza e preghiera sono inseparabili, tanto che Evagrio ha potuto dire:
L’attenzione che cerca la preghiera troverà la preghiera (prosoché proseuchén zetousa,
proseuchén eurései): se c’è qualcosa infatti a cui segue la preghiera, questa è l’attenzione. A
50.
questa dunque bisogna applicarsi
Questo profondo legame tra attenzione e preghiera in rapporto alla custodia del cuore e alla lotta spirituale,
fa entrare la preghiera stessa nello spazio della ascesi. E la dimensione ascetica della preghiera è data
anzitutto dalla continuità, da quella incessante invocazione del cuore che lo mantiene vigile e umile nella
lotta.
Attenzione è il silenzio ininterrotto del cuore, da ogni pensiero; – dice Esichio – il silenzio che
sempre e perennemente e ininterrottamente respira ed invoca Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio;
lui solo. Con lui si schiera coraggiosamente contro i nemici, e a lui si confessa, che solo ha il
potere di perdonare i peccati. Abbracciata continuamente a Cristo attraverso l’invocazione, a lui
che solo conosce i cuori nel segreto, l’anima cerca di nascondere con ogni mezzo agli uomini la
propria dolcezza e l’intima lotta, perché il maligno non faccia crescere di nascosto la malizia e
51.
non cancelli la bellissima attività
6. Ascesi e maturità spirituale
Da quanto abbiamo detto finora, appare evidente come per la tradizione monastica l’ascesi, nella sua
relazione al corpo e al cuore, è orientata profondamente ad una piena maturità spirituale. Attraverso un
esercizio disciplinato di tutte le componenti della persona, si attua quello stato esistenziale che è la vigilanza.
E proprio la vigilanza (il frutto di una ascesi del cuore e del corpo) permette di custodire la propria vita da
quelle realtà ambigue che intaccano i nostri desideri più veri (i logismoi) e favoriscono quella idolatria di sé
che è la radice di ogni peccato. La tradizione monastica ha dato due nomi a questo idolo sempre in agguato
in noi: la philautia, l’amore smodato di sé (quella “tenerezza sragionevole verso se stessi” che rende “eamici
di sé contro se stessi”, secondo la definizione Massimo il Confessore)52 e la voluntas53 propria (ìdion
thélema), questa volontà passionale, questa tendenza non ragionata ed istintiva a seguire ciò che il logismos
suggerisce. Proprio a partire dai meccanismi soffocanti della philautia e dalla progressiva mancanza di
libertà provocata dalla volontà propria, comprendiamo il senso profondo del combattimento spirituale (e
dell’ascesi in esso): individuando nei vari pensieri malvagi manifestazioni diversificate con cui la philautia
intacca la nostra vita, il combattimento spirituale vuole condurre l’uomo, sotto la guida dello Spirito, alla
maturità personale e al dispiegamento della libertà. Questa lotta contro la ‘ipertrofia del proprio io’ non è,
dunque, un masochismo spirituale, ma il faticoso cammino verso un'apertura del proprio io alla vita vera e
all’agape, cercando di custodire un equilibrio e una ‘sanità spirituale’ (questo potrebbe essere il senso
dell’apatheia)54. E solo sul terreno della vigilanza si qualifica tale lotta.
Nella vigilanza, come già abbiamo sottolineato, il credente impara a resistere per difendere la tensione
e la vivacità della propria esistenza da ogni appiattimento ed appesantimento delle seduzioni mondane; nella
vigilanza, il credente sa mantenere ad un livello ‘secondo lo Spirito’ la qualità della vita e delle relazioni a
servizio della logica del dono e della comunione; nella vigilanza, il credente custodisce il cuore da tutto ciò
50
EVAGRIO PONTICO, Sulla preghiera 149: PG 79, col.1200.
ESICHIO PRESBITERO, A Teodulo 5: in La Filocalia, I, p.231.
52
Le due espressioni citate sono di Massimo il Confessore ( cfr.Centuria II,8 e Ad Thalassium, Praef.: SPIDLIK,
La spiritualità dell’Oriente Cristiano, p.228). Il tema della philautìa in Massimo il Confessore è stato studiato da
I.HAUSSHER, Philautie. De la tendresse pour soi à la charitè selon saint Maxime le Confesseur, (=OCA 137) Roma
l952 (tr.it.: I.HAUSSHER, Philautia. Dall’amore di sè alla carità, Magnano/Bose 1999 ).
53
Questo aspetto è particolarmente sviluppato da Doroteo di Gaza nelle sue Istruzioni, offrendoci anche una
esemplificazione tipologica nella Vita di Dositeo. Cfr. anche SPIDLIK, La spiritualità dell’Oriente cristiano, pp.228229; ID., L’obéissance et la conscience selon Dorothée de Gaza, in Studia Patristica XI (=Texte und Untersuchungen
108) Leipzig-Berlin 1972, pp.72-78 (tr. it. in Vita Consacrata 13/1977, pp. 105-112). Anche san Benedetto nella sua
Regola insiste molto sulla voluntas proria e nel capitolo 1, parlando dei monaci girovaghi e dei sarabaiti, presenta due
situazioni esemplari del disastro spirituale a cui può condure chi è affetto da tale ‘malattia’.
54
Cfr. BIANCHI, Le parole della spiritualità, 36.
51
1
che ne annebbia lo sguardo e ne attutisce la capacità di ascolto; nella vigilanza, anche il corpo viene messo in
sintonia con lo spirito e diventa sacramento dell’incontro. Colui che sa mantenersi in relazione costante con
questo atteggiamento, struttura in modo maturo e solido la sua personalità umana e spirituale. Per Basilio,
nella pagina conclusiva delle sue Regole morali, questo è l’atteggiamento decisivo nella vita del cristiano:
«Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e ogni ora, ed essere pronto nel compiere
perfettamente ciò che è gradito a Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene. La vigilanza,
matrice del discernimento, è atteggiamento umano-spirituale di lucidità, di sobrietà, di attenzione alla storia,
alla vita, all’oggi, agli altri; è passione per il Signore e rigetto degli idoli, è presenza a se stessi e attenzione
alla presenza del Signore»55.
Vorremmo ora elencare brevemente alcuni ambiti della vita spirituale in cui l’ascesi, unita alla
vigilanza, gioca un ruolo importante come cammino di maturità. In particolare nella sua relazione al corpo,
ascesi e vigilanza diventano un binomio fondamentale per affrontare realisticamente la lotta spirituale. E
mantenere un equilibrio tra queste componenti, significa prendere coscienza di un fatto di capitale
importanza: il corpo partecipa attivamente, in questo combattimento, alla vita secondo lo Spirito. Come
scrive O.Clement:
Solamente nella prospettiva del corpo che risuscita si può comprendere il senso del desiderio e
il senso dell’ascesi. L’ascesi è lo sforzo, attraverso un abbandono attivo alla grazia, per
eliminare le maschere applicate al nostro volto, i personaggi nevrotici incollati alla nostra
persona, per lasciar risalire in sé nella fiducia e nell’umiltà, nell’obbedienza della fede, la verità
del desiderio. Passiamo così, a poco a poco, dal corpo possessivo che considera il mondo e
l’altro come prede, al corpo celebrante che si unisce alla liturgia della Chiesa e, attraverso di
56
essa, alla liturgia cosmica .
L’homo asceticus è il credente che ha preso sul serio l’Incarnazione del suo Dio e comprende che il corpo, la
‘carne’, attraverso un esercizio sintonizzato con l’azione dello Spirito, diventa luogo di trasfigurazione, di
theosis.
6.a. Ascesi, desiderio, libertà.
Benedetto, nel capitolo 49 della sua Regola (quello dedicato al cammino quaresimale, nel quale si
parla esplicitamente di un impegno ascetico), connota ogni scelta ascetica con un equilibrio, dato dalla
discretio, e una ‘spontaneità’, caratterizzata dal gaudium sancti Spiritus. Addirittura nel capitolo della
quaresima, Benedetto richiama per ben due volte la gioia: cum gaudio sancti Spiritus (v.6) e cum spiritalis
desiderii gaudio (v.7). La ‘gioia del desiderio suscitato dallo Spirito’ orienta ad una attesa (la Pasqua, il
passaggio dalla morte alla vita) e suggerisce quei cammini di liberazione che ogni ascesi comporta. Questo
stile ‘pasquale’, gioioso (si potrebbe mettere in relazione con le ‘lacrime generatrici di gioia’ del gradino VII
della Scala del Paradiso) fa comprendere come ogni ascesi debba essere soprattutto liberante. Certamente
essa comporta sempre un aspetto ‘mortificante’, ma questo non è fine a se stesso e non ha come semplice
punto di arrivo un dominio di sé autonomo e chiuso. I ‘no’ della rinuncia sono in relazione a un ‘sì’ più
grande: il ‘sì’ della libertà e della sequela di Cristo. Questo si vede molto chiaramente se si passano in
rassegna le varie terapie che la tradizione monastica consiglia nella lotta contro i pensieri malvagi.
Anzitutto proponendo come ‘cura’ radicale il cammino dell’umiltà, colloca ogni altra terapia sul
terreno della verità. E concretamente ciò significa liberare i desideri più veri dalla tirannia dell'idolatria che,
appunto, li stravolge e li avvelena. Dunque, più che sostituire un desiderio ad un altro, si tratta di trasfigurare
i desideri che abitano nel nostro cuore. La gola si combatte con un desiderio e una ‘fame’ più profonda,
quella di Dio; la lussuria si sconfigge con un amore più grande, quello di Cristo; l’avarizia si distrugge se si
colloca nel cuore un tesoro più prezioso, quello del Regno. E così via. Qui sta anche la delicatezza del
compito del padre spirituale: non deve immettere nel cuore del figlio desideri diversi, fossero pure i più santi
e pii, ma deve ascoltare i desideri che si muovono nel cuore del figlio e orientarli alla vita secondo lo Spirito.
Significativa a questo riguardo è la risposta che l’abba Palamone dà al giovane Pacomio che gli chiedeva di
essere suo discepolo e guidarlo sulla via monastica:
55
56
L.MANICARDI, II tempo e il cristiano, (=Meditazioni 96), Bose/Magnano (Qiqajon) 2000, p.27.
O. CLEMENT- A. ROUET, Il Signore è per il corpo, (=Meditazioni 64) Bose/Magnano (Qiqajon) 1995, p.11
1
57
Sarò pronto nei limiti della mia debolezza a soffrire con te finché tu non conosca te stesso
«Questa è l’opera del padre spirituale secondo la grande tradizione del deserto: stare accanto al fratello,
senza la pretesa di fare da maestri, senza proporre modelli stereotipati di santità, senza vincolare a sé gli altri,
ma pronti a condividere la sofferenza e la fatica di chi cerca la volontà di Dio su di sé»58.
Solo se l’ascesi porta ad una autentica libertà interiore può diventare luogo di vigilanza, arma contro il
nemico e occasione di discernimento.
6.b. Ascesi, disciplina, discrezione.
La libertà interiore a cui l’ascesi mira, passa attraverso un uso disciplinato di tutte le attività che
concorrono alla crescita spirituale, ma anche di tutte le dimensioni che favoriscono una maturazione umana.
Una ascesi e una disciplina che non siano equilibrate e liberanti rischiano di creare una situazione così
opprimente da diventare facile preda di quel vuoto esistenziale che gli antichi monaci chiamavano akedia.
Quante volte un eccessivo sovraffaticamento spirituale ed ascetico, soprattutto se c’è un atteggiamento di
scrupolo che porta a moltiplicare gesti, sforzi, osservanze per essere maggiormente sicuri di una solida vita
spirituale, conduce ad un certo punto ad un disgusto e a un rigetto della stessa vita spirituale!
Solo se l’ascesi è ‘disciplinata’ dalla discretio allora rimane ancorata in un cammino di umiltà e di libertà.
«Uno dei segreti della vita spirituale è fare tutto nei tempi e nelle misure convenienti. Le cose prive di
misura e fuori tempo, infatti, sono di breve durata; le cose di breve durata, poi, sono più dannose che
utili»59La discretio, così raccomandata dal monachesimo antico e di cui RB è un testimone eccellente,
permette di dare alla propria vita, umana e spirituale, una misura a partire dalle proprie possibilità ed essere
fedele ad essa. È una reale saggezza che nasce dalla consapevolezza dei propri limiti e dalle possibilità
presenti in noi: «Abba Antonio disse: ‘Vi sono di quelli che martoriano il corpo nell’ascesi e, mancando di
discernimento, si allontanano da Dio’»60.
In questa prospettiva tutta la persona, le sue componenti e la sua vita vengono ‘disciplinate’ e strutturate in
modo solido, profondo, essenziale. E in questo senso l’ascesi produce le profondità della fede in quanto fa sì
che questa sia un'esperienza di tutta la persona. E una vita disciplinata ed ascetica è un vita liberata dalla
pesantezza che impedisce una reale vigilanza.
6.c. Ascesi, maturazione, tempo.
Nell'esperienza della maturazione umana, per crescere è necessario ‘togliere via’ ciò che caratterizza
l’età precedente: quanti ‘distacchi’ si operano in una persona per raggiungere una piena maturità umana e
quante volte è necessario ‘dire addio’ ad esperienze che pur sono state arricchenti nella propria vita, ma che
devono esser abbandonate per raggiungere nuove mete! Se manca questo doloroso passaggio, una vera ascesi
che si opera in più tappe della vita, ogni età umana resta priva di frutti, sterile, chiusa in una nostalgia o in
fuga verso un futuro irreale.
Così avviene anche nella vita secondo lo Spirito. Si potrebbe esprimere questo dinamismo con le
parole di Paolo in 1Cor 13,10-11: Quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto
uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato.
Nella vita spirituale si deve compiere un continuo ‘togliere via’ ciò che appartiene all’età precedente per
liberare e far maturare alla piena statura di Cristo l’uomo interiore. « Non è cosa facile far monaco l’uomo
interiore», diceva Esichio, perché l’uomo interiore raggiunge un cuore monachos solo a costo di un continuo
sradicamento da certezze e sicurezze, anche spirituali, che rischiano di bloccarne la crescita. Se manca il
coraggio di questo tipo di ascesi, anche la vita spirituale rimane intrappolata in comportamenti ‘infantili’ ed
‘adolescenziali’, incapace di accogliere il frutto che lo Spirito fa maturare.
57
Il testo è presente nella Vita Bohairica di san Pacomio: Vita copta di san Pacomio, cur. F.Moscatelli, Padova
(ediz. Messaggero/Abbazia di Praglia) 1981, p.44.
58
Detti inediti dei padri del deserto, cur. L.Cremaschi, Bose/Magnano (Qiqajon) 1986, pp.51-52.
59
BUNGE, Akedia, p.111, Il testo di Evagrio si trova in EVAGRIO PONTICO, Trattato Pratico 15: tr. it. (cfr.
b nota 32) p.103.
60
Antonio 8: Vita e detti dei padri del deserto, I, p.85.
2
E proprio il rapporto tra ascesi e maturazione umana e spirituale ci sollecita a porre l’attenzione su di
un altro tipo di relazione: quella tra ascesi e tempo.
Di fatto si matura nel tempo (tempo umano e tempo dello Spirito). Quali sono i frutti di una ascesi del
tempo? L’ascesi e la disciplina del proprio tempo dovrebbero aiutare a riscoprire alcune dimensioni, alcuni
ritmi, che sono fondamentali soprattutto nella vita spirituale: la pazienza (upomone), come capacità di attesa
rimanendo nel tempo e nello spazio che ci sono donati; la perseveranza, come capacità di durare nel tempo
con responsabilità e impegno, con disponibilità e tenacia; la resistenza come capacità di riprendere il
cammino dopo ogni caduta; la ricerca, come apertura nel tempo a ad una verità sempre nuova. Così scrive
Isacco il Siro:
[La vita nello Spirito] richiede in primo luogo tempo e fedeltà. Se, infatti, non è possibile che uno
impari le arti del mondo senza persistere per molto tempo nella fedeltà dei loro commerci - e
solo allora il pensiero afferra l’oggetto e il modo della pratica dell’arte che ha deciso di imparare
-, quanto più questo è valido per noi. Se un’arte visibile agli occhi richiede tanto tempo e fedeltà
di impegno, quanto più l’arte dello Spirito, che l’occhio non vede, per la quale non si conosce
ciò da cui la si può apprendere, e che necessita di una grande purezza! Il maestro in questo è
61
lo Spirito, e l’arte è nascosta .
E un tempo in cui ci è data la possibilità di acquistare questi atteggiamenti e questo ritmo interiore, è il
quotidiano: rimanere nel quotidiano, senza ‘sognare la vita’, fuggendo in qualche modo dalla sua precarietà e
fragilità, è una reale ascesi che ci tempra e ci disciplina. Essa ci educa a gustare il tempo che ci è donato e
non a cercare quello che non possiamo possedere (passato e futuro); ci abitua ad accettare le tappe della vita
con i loro limiti costitutivi e le loro ricchezze. L’ascesi del quotidiano è vera sapienza: Insegnaci a contare i
nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore (Sal 90, 12).
6.d. Ascesi e preghiera.
Abbiamo già fatto accenno alla profonda relazione tra vigilanza, combattimento spirituale e preghiera.
E, d’altra parte, anche a partire dall’esperienza più quotidiana, sappiamo quanto è faticoso pregare e quali
difficoltà si incontrano in questo cammino; siamo consapevoli della necessità di un esercizio duro, a volte
logorante, per entrare e permanere nella preghiera. Dobbiamo inoltre riconoscere che mettere in relazione
ascesi e preghiera può creare un certo disorientamento. Infatti unire una dimensione dell’esperienza cristiana
che richiama lo sforzo, l’esercizio, la pratica e l’apprendimento faticoso, con una dimensione più carismatica
come quella della preghiera, può lasciare perplessi. E questo disagio si accresce se - ed è questo spesso il
sentire comune - si legge la preghiera nella categoria della spontaneità, in una libertà da ogni regola o
disciplina costrittiva. È allora inevitabile che sorgano alcuni interrogativi. La preghiera è arte, che si
acquisisce con lo sforzo continuo, o dono che bisogna supplicare dal Signore? Si diventa uomo di preghiera
con l’esercizio o per carisma? La pedagogia della preghiera è una ascesi, appunto, o una esperienza
“mistica”?62 Questi ed altri eventuali interrogativi, tendono, di fatto, a porre il problema in posizione
alternativa o conflittuale. La preghiera è come un’arte: essa esige un apprendimento, un esercizio per essere
assimilata. È la dimensione ascetica che prepara la strada attraverso la quale si entra nella preghiera. Ma
all’interno di questo spazio, non cessa il lento e progressivo cammino della lotta affinché la dimensione
pneumatica, la creatività e la gratuità della preghiera prendano forma e concretezza nell’esperienza di chi
prega. In questo senso l’ascesi non è un preludio alla preghiera, ma fa parte della sua dinamica interna. Si
potrebbe illustrare questo rapporto tra ascesi e preghiera alla luce di un apoftegma:
I fratelli chiesero ad abba Agatone: «Abba, nella vita spirituale quale virtù richiede maggior
fatica?». Dice loro: «Perdonatemi, ma penso che non vi sia fatica così grande come pregare
Dio. Infatti, quando l’uomo vuole pregare, i nemici cercano di impedirlo, ben sapendo che da
nulla sono così ostacolati come dalla preghiera. Qualsiasi opera l’uomo intraprenda, se
61
ISACCO DI NINIVE, Un' umile speranza, pp.124-125
Cfr. T.GOFFI, Ascesi come educazione alla preghiera, in La preghiera cristiana, a cura di E.Ancilli, Roma
(Teresianum) 1975, p. 202; Ibid., in La preghiera. Bibbia, teologia, esperienza storiche, II, a cura di E.Ancilli, Roma
1988, p.27.
62
2
persevera in essa, possederà la quiete. La preghiera invece richiede lotta fino all’ultimo
63
respiro» .
È fondamentale, per una autentica vita spirituale, essere educati a rimanere in questa fatica, ad accogliere ‘il
sudore della preghiera’, secondo una incisiva espressione di Isacco di Ninive64. La preghiera esige
conversione, è ricerca incessante del volto di Dio, è accettazione della propria realtà creaturale e di tutte
quelle dimensioni che caratterizzano la nostra esperienza storica e che non possiamo fuggire (tempo, spazio,
corpo, complessità della vita, ecc…). Nella preghiera entrano a far parte tutte queste realtà del vissuto umano
e diventano parte costitutiva della sua dinamica, del suo divenire, della sua struttura. Qui, appunto, si colloca
l’ascesi. “Nel momento in cui l’uomo prega - scrive Isacco di Ninive - e supplica Dio e gli parla, facendosi
violenza per raccogliere da ogni parte (...) i suoi pensieri, egli si apre a Dio solo e Dio riempie il suo
cuore”65.Ascesi nella preghiera è, appunto, “farsi violenza per raccogliere da ogni parte” tutte le dimensioni
che compongono la propria persona e la propria esistenza. Prendere coscienza di questo significa guardare in
faccia non solo le fatiche e le difficoltà che si incontrano quando l’uomo si accinge a pregare, ma anche la
preghiera stessa come lotta.
Solo se si accetta questa povertà si entra nella preghiera e si fa esperienza della sua gratuità. Non è
sufficiente eliminare le difficoltà pensando poi di entrare in una preghiera ‘perfetta’. Tutto ciò si presenta, di
fatto, come presunzione e illusione; si avrebbe una preghiera ‘disincarnata’, ‘monifisita’. Il cammino da
compiere è diverso: nella difficoltà stessa matura la preghiera poiché, se essa rimane nella lotta e attraverso
di essa sa integrare tutte le proprie fragilità, si trasforma in autentico cammino alla ricerca del volto di Dio.
Sottolineando la necessità di questa esperienza di debolezza nella preghiera, p.A.Louf così scrive:
Cerchiamo di descrivere qui una tappa molto importante della preghiera, tappa che in realtà tutti
quanti temiamo: l’inutilità dei nostri sforzi ci fa finalmente prendere coscienza, a nostre spese,
che la preghiera è impossibile per noi! Alcuni allora si agitano come possono e si sforzano di
fare del loro meglio in generosità, fervore o dedizione agli altri. Tutte cose in fondo più facili che
fare esperienza della nostra radicale impotenza di fronte a Dio.
Che fare allora in questa impasse? La risposta a questa domanda è una delle più semplici:
soprattutto non agitarsi, ma semplicemente dimorare nell’impasse, che significa non fuggire con
nessun pretesto. È proprio lì, in questa impasse in cui ci dibattiamo ingloriosamente, che
dovremo essere liberati e guariti dalla nostra impotenza. Abbiamo detto essere liberati, al
passivo: è essenziale. Non si tratta mai di liberarsi da soli, ma proprio di essere liberati da un
altro. Questo vuol dire non essere più in grado di gestire la situazione, restare nella nostra
impotenza affinché proprio lì, e non altrove, venga a prenderci la forza di Dio. La preghiera
infatti è anche esperienza di salvezza e deve diventare illustrazione concreta delle parole di
Paolo: “Quando sono debole, è allora che sono forte perché la potenza di Dio si manifesta nella
66.
debolezza” (cf. 2Cor l2,9-10)
6.e. L’ascesi della debolezza.
63
Agatone 9: in Vita e detti dei Padri del deserto, I, p.117. Riportiamo altri due detti che sottolineano questa
dimensione di lotta che caratterizza la preghiera. Sono attribuiti ad Evagrio Pontico e si trovano in Series systematica
XII (tr. it. in I PADRI DEL DESERTO, I detti, a cura di L.Mortari, Roma 1980, p.238). Il primo detto si ritrova anche
in EVAGRIO, Rerum monachalium rationes 11: PG 40, col.1264B: “Il padre Evagrio ha detto: « Se ti perdi d’animo,
prega, come è scritto. Prega però con timore, tremore, fatica, sobrietà e vigilanza. È così che bisogna pregare,
soprattutto a causa dei nostri nemici maligni e invisibili che, sempre intenti al male, si sforzano di ostacolarci in primo
luogo su questo punto»”. Il secondo detto sottolinea ancora la preghiera come lotta contro i nemici che la ostacolano: “
Disse anche: «Quando ti viene in cuore un pensiero avverso, non cercare altre cose nell’orazione, ma affila contro colui
che ti combatte la spada delle lacrime»”. Sul detto di Agatone cfr. G.M.COLOMBAS, Il monachesimo delle origini, II,
(=Complementi di Storia della Chiesa), Milano (Jaca Book) 1990, pp.316-318.
64
Descrivendo l’agonia di Gesù al Getsemani, Isacco scrive: “Nostro Signore, dalla notte in cui sudò, ha mutato
il sudore del lavoro esercitato su di una terra che fa crescere spine e cardi nel sudore che si accompagna alla preghiera,
perché l’uomo sudasse nel lavoro della giustizia”(testo citato in ISACCO DI NINIVE, Discorsi spirituali ed altri
opuscoli, a cura di P.Bettiolo, Bose/Magnano 1990, p.247).
65
ISACCO DI NINIVE, Discorso XXXII: tr. fr. ISAAC LE SYRIEN, Oeuvres spirituelles. Les 86 Discours
Ascètiques. Les Lettres, cur.J.Touraille, Paris 1981, p.202 (si tratta della redazione greca dei Discorsi, che presenta
molte varianti rispetto a quella siriaca).
66
A.LOUF, Sotto la guida dello Spirito, Bose/Magnano 1990, p.142.
2
Il testo di 2Cor 12,9-10, citato da p.A.Louf nel brano riportato sopra, ci può introdurre ad un altro
rapporto che dà autenticità al faticoso cammino dell’ascesi e all’esperienza del combattimento spirituale: la
relazione con la propria fragilità, con la propria debolezza come luogo in cui si manifesta ‘la potenza di Dio’.
Una ascesi che non si confronta con la concretezza della propria esistenza attraverso il simbolo del corpo e
non fa esperienza di una serena accettazione della fragilità che lo abita, rischia di diventare una sfida
continua alla propria umanità, generando quello sforzo titanico che è porta aperta all’orgoglio. Non è
automatico una progressione parallela tra ascesi e maturità spirituale se manca questa umile accettazione del
proprio limite e, soprattutto, se manca la consapevolezza che non ci si salva con il proprio sforzo. Come nota
ancora p.A.Louf
“ogni sforzo naturale è, per così dire, destinato fin dall’inizio a staccarsi da se stesso e a
esaurirsi, per raggiungere un punto zero da cui l’uomo non può più avanzare né fare un solo
passo ulteriore sulla via verso Dio. Anzi, in questo punto zero lo sforzo dovrà morire a se stesso
per essere reso capace ad aprirsi ed abbandonarsi alla potenza della grazia di Dio. Lo sforzo
dell’asceta cristiano è quindi, per sua natura, destinato all’esaurimento e alla morte, senza mai
poter raggiungere il suo scopo. Ma è proprio in questo punto zero, là dove fallisce ogni sforzo
umano, che la potenza di Dio lo rimpiazza e lo porta ad un risultato che l’uomo non avrebbe mai
67
sperato di raggiungere con le proprie forze” .
Non si raggiunge la perfezione in uno stoico distacco dalle cose, in un eroico dominio di sé, in una
acquisizione farisaica delle virtù. La figura evangelica del fariseo nella parabola di Lc 18, può essere
considerato un simbolo di questa perfezione raggiunta in modo autonomo. È il giusto contento di sé (ed è
interessante che la direzione della sua preghiera sia se stesso: pregava davanti a sé), soddisfatto del suo
sforzo ascetico, senza la benché minima ferita di imperfezione, la benché minima esperienza di fragilità. A
questa figura si contrappone quella del pubblicano, così caro alla tradizione monastica e indicato da RB 7, 65
come icona dell’umiltà. Il pubblicano rappresenta la vera ascesi, non per la sua condotta di vita o per il suo
impegno formale ad una pratica ascetica, ma per il coraggio di riconoscere la propria verità davanti a Dio e
aprire la propria vita alla Sua misericordia. Questa è l’ascesi gradita a Dio: l’ascesi del cuore contrito e
umiliato, come offerta del proprio fallimento a Dio e piena accoglienza della sua grazia. “A che cosa ci si
esercita nell’ascesi? Non alle nostre forze, ma alla grazia di Dio, al piacere della sua grazia”68.
6.f. Una ascesi nella grazia e nella carità
L’esperienza della propria debolezza, che si incontra in un autentico cammino ascetico, è la via che
apre alla grazia, cioè alla consapevolezza che è la potenza di Dio a vincere nella lotta contro il male che è in
noi. ‘Estinguere il male in radice’ è frutto della sinergia tra la libera volontà dell’uomo (lo sforzo ascetico) e
la grazia di Dio. Così, in una sua omelia, scrive lo Pseudo-Macario:
“Del resto soltanto la potenza divina è in grado di sradicare il peccato e il male, suo compagno.
All’uomo non è lecito né possibile sradicare il peccato con le proprie forze. Lottare, combattere,
dare e ricevere colpi è compito tuo, ma sradicare il male spetta a Dio. Se tu fossi in grado di far
questo, che bisogno c’era della venuta del Signore? Come non è possibile che l’occhio veda
senza la luce. né si può parlare senza lingua, ascoltare senza orecchie, camminare senza piedi,
lavorare senza mani, così senza Gesù non si può essere salvati né entrare nel regno dei
69
cieli” .
Ogni ascesi, come apertura alla grazia e disponibilità all'azione dello Spirito, si trasforma in una
continua consapevolezza del legame con Cristo, con Colui che è stato tentato nella nostra carne e che lotta in
noi e con noi. È questo il senso di quelle parole che Benedetto disse al monaco Martino, un eremita rinomato
per le sue prodezze ascetiche. Venuto a sapere che questo asceta viveva legato ad una catena di ferro fissata
alla roccia, “mandò un suo discepolo a dirgli: «Se tu sei un vero servo di Dio, non sia una catena di ferro a
tenerti legato, ma la catena di Cristo»”70. L’ascesi può essere praticata solo in Gesù Cristo, nella logica della
67
68
69
70
LOUF, Sotto la guida dello Spirito., pp. 77-78
Ibid.,p. 82.
PSEUDO-MACARIO, Omelie, p.77.
GREGORIO MAGNO, Dialoghi, III, 16.
2
sequela e della Pasqua71 ed è possibile rimanere nella lotta che essa comporta solo se lo sguardo del cuore è
costantemente rivolto a Cristo (cfr. Eb 12,2).
Nella logica della Pasqua di Cristo, l’ascesi diventa una continua esperienza del passaggio dalla morte alla
vita, dalla logica mortale della phylautia alla logica vivificante dell’agape. È questo il senso che RB 7 dà alla
scala dell’umiltà: il progressivo riconoscimento della propria realtà libera da ogni orgoglio (l’arma micidiale
della phylautia) e fa giungere alla piena maturità di Cristo, a “quell’amore di Dio che essendo perfetto,
scaccia il timore” (7,67). Se manca questo punto di arrivo, se l’ascesi non apre alla logica della comunione,
se non è libertà per amare, ancora una volta diventa porta aperta dell’orgoglio, povera illusione di una
perfezione raggiunta. E da questo tutta la tradizione monastica ha messo in guardia, come dimostrano questi
detti:
“Un anziano disse: «Acquistiamo la principale virtù: l’amore. Il digiuno, infatti, non è nulla, la
72.
veglia non è nulla, ogni fatica non è nulla, se manca l’amore. Sta scritto infatti: Dio è amore»”
“Disse l’abba Iperechio: «È cosa buona mangiare carne e bere vino, e non mangiare con
73.
maldicenza le carni dei fratelli»”
“Ogni asceta privo di carità si dimostra estraneo a Dio”
74.
E in questo senso l’ascesi diventa pedagogia alla carità, in quanto tende a liberare tutta la persona (corpo e
cuore) dalla schiavitù dell’egocentrismo, del ripiegamento su di sé, per renderlo strumento di dono e di
incontro con l’altro. L’avventura di un incontro, di una relazione, anche a livello umano, esigono
inevitabilmente rinunce, sacrifici, pazienza, limitazioni, accettazione dell’altro nella sua diversità. È questa,
appunto, la lotta contro la tirannia del proprio io. “Di più – come scrive E.Bianchi - essendo a servizio della
rivelazione cristiana che attesta che la libertà autentica dell’uomo si manifesta nel suo divenire capace di
donazione di sé, per amore di Dio e del prossimo, aprendosi al dono preveniente di Dio, l’ascesi tende a
liberare l’uomo dalla philautia, cioè dall’amore di sé, dall’egocentrismo, e a trasformare un individuo in
persona capace di comunione e gratuità, di dono e di amore”75.
Conclusione
Come cammino di progressiva liberazione e spoliazione in una continua sinergia con l’azione dello Spirito,
l’avventura del combattimento spirituale, così come la tradizione monastica ce l’ha consegnata, ha come
punto di arrivo una totale purificazione della persona nel fuoco della carità: è questo il frutto dello Spirito
che matura nel terreno fecondato dalla lotta e dallo sforzo ascetico. L’homo asceticus, l’uomo che
intraprende umilmente la lotta nello e con lo Spirito, in questa prospettiva è colui che si è reso disponibile,
attraverso un progressivo abbandono di tutto ciò che non è secondo Dio, all’azione della grazia; ed è per
questo che è reso trasfigurato in una bellezza spirituale e in un'armonia di umanità. E anche tutto quello che
si fa, nella semplicità dei gesti e nella quotidianità delle azioni, nello spazio e nel tempo che sono donati,
tutto diventa bellezza e armonia. E mi pare che possiamo cogliere questo proprio nel primo detto della serie
alfabetica degli apophtegmata:
“Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto e da una
fitta tenebra di pensieri. E diceva a Dio: «O Signore! Io voglio salvarmi, ma i miei pensieri me lo
impediscono. Che posso fare nella mia afflizione?». Ora, sporgendosi un po’, Antonio vede un
latro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di
nuovo si mette seduto ad intrecciare corde, e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del
Signore, mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l’angelo che diceva: «Fa’ così e
76.
sarai salvo». A udire quelle parole, fu preso da grande gioia e coraggio; così fece e si salvò”
71
Cfr. LOUF, Sotto la guida dello Spirito, pp. 73-77.
Systematica XVII, 31: in I PADRI DEL DESERTO, Detti editi ed inediti dei padri del deserto, cur.s.Chialà –
L.Cremaschi, Bose/Magnano (Qiqajon) 2002, pp.147-148.
73
Iperechio 4: in Vita e Detti dei padri del deserto, II, p.206.
74
MASSIMO IL CONFESSORE, Libro ascetico 36: PG 90, col.941D (cfr. I.HAUSSER, Philautia. Dall’amore
di sè alla carità, Magnano/Bose 1999, p.147)
75
BIANCHI, Le parole della spiritualità, p.21.
76
Antonio 1(Syst, .VII, 1): Vita e detti dei padri del deserto, I, pp.83-84.
72
2
Antonio, nella solitudine, fa l’esperienza di un profondo sconforto, una tristezza che avvolge il cuore e
lo rende tenebroso. Sta affrontando una dura lotta (è il combattimento spirituale) e non riesce a trovare una
luce nella fitta tenebra di pensieri che rendono il suo cuore ripiegato su se stesso. Senza la luce dello Spirito,
la nostra vita è ripiegata su se stessa, senza gioia, continuamente sul baratro del non senso (quella tristezza
non è altro che l’accidia). Finché si rimane prigionieri del proprio mondo interiore, così ambiguo e confuso,
senza riuscire a compiere un reale discernimento, non si può intraprendere nessun cammino di salvezza («i
miei pensieri me lo impediscono»).
«O Signore - grida Antonio – io voglio salvarmi…che posso fare?». La vita spirituale inizia sempre
con un grido di aiuto, chiedendo al Signore quella ‘cosa buona’ che può condurci alla salvezza, quella
presenza misteriosa che ci guida per mano al luogo della gioia e della pace.
E il primo passo che Antonio è invitato a fare è uscire da se stesso, guardare fuori da sé, guardare al di là
della ‘fitta tenebra di pensieri’. E cosa vede? ‘Un altro come lui’. Non vede presenze estranee. Rivede se
stesso, ma in modo diverso. Come in uno specchio, vede il suo volto, ma non annebbiato dalla tristezza;
scopre il suo volto così come lo vede Dio. Ed è il volto dell’uomo che vive nella gioia dello Spirito, il volto
dell’uomo spirituale (‘era un angelo mandato per correggere Antonio’).
E cosa fa questo ‘altro come lui’ di tanto diverso per essere proposto come cammino di salvezza?
Semplicemente vive in pienezza ciò che sta facendo, non ripiegato su se stesso, ma alla presenza di Dio.
Intrecciare corde e pregare sono due azioni essenziali che ritmano la giornata del monaco (se si vuole è l’ora
et labora di Benedetto), sono il simbolo della concretezza della vita fecondata dallo Spirito che prega in noi,
che trasforma ogni nostro gesto in eucaristia, che ci rende sempre attenti allo sguardo del Signore. La vita
spirituale non è altro, così ci dice questo detto, che la vita giorno dopo giorno sotto la guida dello Spirito,
quello Spirito che penetra anche nelle pieghe più nascoste della nostra esistenza. Ecco perché Antonio di
fronte a questa rivelazione ‘fu preso da grande gioia e coraggio’. È il coraggio di intraprendere ogni giorno
questo cammino con lo Spirito; è la gioia che nasce dallo Spirito e vince ogni tristezza. Questa è la fatica e
l’avventura della vita spirituale.
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