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il guardaroba di Totò

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Cosa c’è dietro una maschera
Aveva conosciuto la miseria, quella vera.
Ma era nobile dentro prima ancora che
per casato: ecco Totò in un ricordo che ha
per filo conduttore il suo guardaroba unico
ELEGANTE
LO NACQUI
MODESTAMENTE
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GIANLUCA TENTI
]
GUIDO FUÀ
LA BOMBETTA SCOTT OF LONDON È QUELLA, INCONFONDIBILE, CHE PORTAVA IL PRINCIPE ANTONIO DE CURTIS QUANDO, NEI TEATRI O SUI SET CI NEMATOGRAFICI,
S I T R A S FO R M AVA N E L P E R S O N AG G I O TOT Ò . A N C H E L ’ A B I TO È S U O , E D È QU E L LO D I S C E N A . M A C H I L I H A I N D O S S O ? S C O P R I T E LO VO LTA N D O PAG I N A . . .
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[ DI
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Cosa c’è dietro una maschera
Continua a insegnarci il rispetto dei veri valori
I N A LTO , TOT Ò BAC I A L A N I P OT I N A D I A N A I L G I O R N O D E L S U O BAT T E S I M O . « I L N O N N O A N DAVA D I N OT T E N E I V I C O L I D I N A P O L I E FAC E VA S C I V O L A R E
B I G L I E T T I DA 10 M I L A L I R E N E L L E F E S S U R E D E L L E P O RT E D E I P OV E R I » , R I C O R DA L E I O G G I . A D E S T R A , FOTO U F F I C I A L E P E R L A S TA M PA D E G L I A N N I 4 0 .
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GUIDO FUÀ
dalla copertina dedicata a Totò.
Un elegantone, un maestro di stile. Non propriamente un magister
elegantiarum, perché lui non aveva la pretesa di insegnare niente a
nessuno. O meglio, non ne aveva
bisogno. Perché insegnava, e insegna ancora oggi, uno stile di vita, fatto di eleganza naturale e rispetto (valori oggi sempre più rari) a generazioni che anagraficamente non lo conoscono. Testimoniava, in buona sostanza, la differenza che corre tra essere «uomini o caporali».
Si può parlare in tanti modi del grande Totò. Attraverso le battute dei
suoi film, che ancora oggi cadenzano la parlata quotidiana. Attraverso
i ricordi di questa marionetta vivente, irrazionale. Di questo magnifico
artista donato all’Italietta intera in anni di tanta miseria e poca nobiltà.
Risate che Liliana, la figlia, ha sempre portato a prova di un ipotetico,
ma necessario, processo di beatificazione del sommo giullare fino agli onori della Santità. E a pensarci bene ha ragione lei. Sì, ci vorrebbe proprio
un San Totò, santo protettore degli innamorati...
Ad attendere Monsieur, quella mattina, c’erano donna Liliana, la figlia
di Totò che va ripetendo «Siamo tutti figli di Totò». E Diana. La nipote del re della risata. Assente ingiustificato, invece, Antonello, l’altro figlio di donna Liliana che pure, a chiacchierata conclusa, fa capolino per
salutare il vecchio amico. E sono proprio le due donne di casa de Curtis a guidare questa scoperta intima, partendo dal loro inesauribile scrigno di ricordi. A iniziare dal leggendario guardaroba del principe: 160
abiti, sartoriali, suddivisi per stagione e per colore. Il suo stile preferito
era il principe di Galles. E nessuno dei completi era confezionato («Mio
padre non indossava mai uno spezzato se non per andare sullo yacht Alcor», conferma Liliana, «lo ricordo col doppiopetto, il pantalone bianco e la scarpa bianca in crociera»). Un’altra ala dell’armadio era riservata agli altri elementi dell’abbigliamento. Camicie Old Bond Street.
Tutte con le cifre e con lo stemma principesco.
Di seta per l’inverno e di lino per l’estate. Scelte personalmente da Totò, che trascorreva lunghe ore davanti alla mazzetta dei tessuti per controllare fin nei minimi dettagli le qualità della lavorazione. Era maniacale nella scelta. «Le camicie, tutte, potevano essere stirate esclusivamente da mamma», dice donna Liliana. Già, la moglie di Totò, una
«tosca», come dice la nipote, che da lei ha preso il nome. Diana Bandini Rogliani veniva da Firenze. Totò l’aveva vista a teatro e se n’era
subito innamorato. Per poco quest’amore non gli fece passare brutti
guai con la giustizia per una questione d’anagrafe, ma si sa: l’amore non
ha età. E a lei il principe è restato legato per sempre.
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s
«Signori si nasce e io lo nacqui,
modestamente». Così parlò Antonio de Curtis, principe. Prim’ancora che nobile, gran signore. Tanto in pubblico quanto in privato.
Lui che conquistò la sua Napoli a
braccetto con Eduardo De Filippo.
Lui che sedusse le bellissime (Liliana Castagnola si suicidò quando si sentì abbandonata, Silvana Pampanini barcollò, Franca Faldini camminò al suo fianco per oltre un decennio), lui che conquistò l’ammirazione di Pier Paolo Pasolini e Oriana Fallaci. Lui che fu osteggiato da certa critica, ma eletto Santo per acclamazione popolare e sotto la benedizione di Federico Fellini. Sì, insomma, il grande Totò. Quello che concentrò in una battuta succo e polpa di una vita vissuta dalla polvere all’altare, dal Nadir allo Zenith.
Condendo il piatto esistenziale con la nobile dignità di un miserabile (tale lo avrebbe descritto Victor Hugo se Antonio Clemente fosse vissuto in quella Parigi e non fosse invece spuntato dal ventre di Napoli) e la
fame cattiva di chi è arrivato all’apice del successo ma non dimentica e,
soprattutto, non rinnega il proprio passato.
Lo spiegò proprio alla Fallaci, che aveva iniziato un’intervista complimentandosi con lui per il suo «volto bizantino». Totò rispose: «Sì, lo so,
la mia faccia ricorda quella di certi mosaici di Ravenna. D’altra parte, signorina mia, non c’è da stupirsi, visto che da Bisanzio vengo. Lo dico senza boria poiché col titolo di Altezza Imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino, mentre con Totò ci mangio dall’età di vent’anni. Mi spiego?». In realtà, la frase era ancora più lunga. E si ritrova anche in un vecchio filmato Rai quando, rispondendo a Lello Bersani, diceva: «Dicono che ricordo i mosaici di Ravenna. Che vuole, sono di Bisanzio. Altezza Imperiale. Principe. Conte Palatino, Cavaliere del Sacro
Romano Impero, Ufficiale della Corona Italiana, Cavaliere di Gran
Croce di Sant’Agata e San Marino. Ma il più bel titolo è stato Totò». Per
la precisione nel 1946, al termine di una lunga querelle giudiziaria, gli si
riconobbe il diritto di fregiarsi dei nomi e dei titoli di Antonio Griffo Focas Flavio Dicas Commeno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio,
Altezza Imperiale, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, Duca di Macedonia e di Illiria, Principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania,
del Peloponneso, Conte di Cipro e di Epiro, Conte e Duca di Drivasto
e Durazzo. Ma, soprattutto, Totò. Un signore, un gentleman, un Monsieur. Ecco chi era il principe de Curtis. Voglio confessare una cosa. La
prima volta che ho acquistato questa rivista, sulla quale Franz Botré si
ostina a farmi scrivere, fu proprio perché il mio sguardo rimase ipnotizzato
A METTERSI NEI PANNI DI TOTÒ PER IL FOTOGRAFO DI «MONSIEUR» È CHI NE HA PIENO DIRITTO: LA FIGLIA LILIANA. CHE CI HA INTRODOTTI NEL FARAONICO
G UA R DA R O BA D E L L ’ AT TO R E : 1 6 0 A B I T I SA RTO R I A L I , C E N T I N A I A D I C R AVAT T E E U N ’ I N F I N I T À D I AC C E S S O R I , DA L L E S CA R P E A I FA Z Z O L E T T I DA TA S C H I N O .
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a
Aveva un sarto di riferimento in ogni città: da tutti
Monsieur». Perché questa cura maniacale del guardaroba? «Perché prima di diventare Totò», ribatte Liliana, «aveva le pezze al culo. Proprio
così: le pezze al culo. Ed è chiaro che quando le vicende andarono meglio volle circondarsi subito di cose belle e di valore». Dopo una breve
pausa, Liliana rivela un dialogo tra il principe e la moglie Diana. «Totò, non ti sembra di esagerare?», gli chiese un giorno la moglie proprio
davanti al guardaroba. «Mia cara, io amo le cose e lavoro come un negro proprio per procurarmele. La vita senza questi sfizi sarebbe un
mortorio. E poi non ti sei mai accorta? Io sono un civettone».
E la sua vera eleganza qual è? «Lui stesso. La sua bellezza», continua donna Liliana. «Anche quando non indossava un abito era elegante, come
fisico e come portamento. Un uomo nudo può essere terrificante, lui no».
«Senza considerare», duetta Diana, innamorata persa del nonno, «che lui
aveva un’eleganza innata. Era un principe di Bisanzio, lo era di lignaggio. Ma prima di tutto lo era umanamente, dimostrando così che ogni
tanto i nobili sanno pure fare i nobili». Ecco uno spunto per cercare di
essere il meno banali possibili. Sì, perché quando si parla di una figura
così importante, di un patrimonio dell’umanità, il rischio che corre chi
scrive è di scivolare nella retorica, nell’ovvietà, nel voler far sfoggio di una
conoscenza eccessiva, narcisistica, che disturba il lettore.
Anche se, confesso, nei confronti di Totò provo una venerazione mistica, con l’occhio della memoria che mi proietta indietro nel tempo nelle giornate assolate di una casa di mare, quando il sole delle due del pomeriggio «faceva male», incollato davanti alle immagini in bianco e
nero di un televisore che colorava l’anima e segnava l’umore. Ecco per-
ANTONIO DE CURTIS DÀ UN TENERO BACIO IN FRONTE A DIANA BANDINI ROGLIANI (QUI SOPRA). L’ATTORE L'AVEVA VISTA A TEATRO QUANDO ERA ANCORA
G I O VA N I S S I M A E S E N ' E R A S U B I TO I N N A M O R ATO : DA L E I H A AV U TO L A F I G L I A L I L I A N A ( L ’ I M M AG I N E A P PA RT I E N E A L L ’ A R C H I V I O G I U S E P P E PA L M AS ) .
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ARCHIVIO GIUSEPPE PALMAS
Anche se alla figlia ha dato il nome di Liliana, per ricordare la Castagnola. «L’unica che mi abbia veramente amato», disse un giorno il principe, anche se poi visse con l’affascinante Faldini. «Portava spesso il gilet», riprende il discorso Liliana. «Se non era del completo, poteva essere
solo giallo scuro o bordeaux, mai a quadretti. E poi le cravatte. Quante
cravatte. Centinaia di cravatte. Disposte rispettando cromatismi e disegni, messe tutte sul portacravatte e su un solo livello per poterle scegliere
meglio. Voleva così, perché diceva: “Sennò si rovinano”».
Aveva un sogno Totò. Voleva un figlio maschio. Gli capitò Liliana, un
fiore. La amò intensamente. Poi, quando diventò nonno di un pargolo,
Antonello, sbottò: «’Mbé, era l’ora». Voleva un maschio perché sognava di trasmettergli tutto il suo sapere di vita e stile, abbigliamento, qualità dei tessuti, eleganza. A iniziare proprio dalla collezione di cravatte.
E dalle scarpe che si faceva fare da un calzolaio napoletano, ma anche
da uno milanese (nessuna griffe, sia chiaro). Da quanto ci teneva a
quelle scarpe, se le lucidava da solo. Un’altra mania erano le bretelle, che
si faceva spedire dall’Inghilterra. «E poi i fazzoletti da taschino», continua Liliana. «L’ascot, che usava solo in barca, quando vestiva con pantalone bianco e giacca blu scuro. Poi aveva un cassetto solo per i calzini,
tutti col reggicalze. I boxer, antesignani, invece degli orribili mutandoni
dell’epoca. E le scarpe, fatte su misura da un calzolaio che aveva la forma del suo piede. Potevano essere un mocassino rigido marrone o nero.
O scarpe con i lacci, quelle più eleganti. Solo in estate, a Capri, ne usava
alcune di corda e tela, una sorta di espadrillas. Aveva pochi pullover, non
li amava. Meglio qualche cardigan più sobrio e con tonalità tenui. Una decina di dolcevita, blu o bianco. E la collezione di cappelli, perché usciva
sempre col cappello: Borsalino di feltro a tesa larga in inverno o Panama
color panna in estate. Aveva anche la tuba. E sulla scena portava la bombetta Scotts of London. Ma non teneva niente degli spettacoli nel guardaroba privato. E poi aveva un’altra esigenza: la cura maniacale per l’aspetto
lo aveva spinto a tenere un sarto di riferimento in ogni città. Magari comprava l’abito a Roma, da Caraceni. Poi però aveva il suo sarto napoletano, il sarto fiorentino. I nomi? Chi li ricorda... Erano tanti».
E poi vuoi che contasse l’etichetta? Per uno come Totò non contava certo il brand. Lui voleva, meglio esigeva, la vera qualità, il fatto a mano.
Nessuno poteva prendersi gioco del suo stile. «Ricordo il suo guardaroba nell’appartamento di viale Buozzi, angolo con via Monte Parioli», spiega la figlia. «Una parete intera. Abiti, paltò con revers di pelliccia pregiata, le scarpe tutte in ordine e lucidate. E poi le camicie. Non voleva
che nessuno le toccasse. Le cambiava, anche tre volte al giorno. E sceglieva sempre i gemelli da abbinare: ori e argenti, disegni smaltati». «Ho
una foto sua bellissima», dice la nipote Diana. «C’è lui dietro tutti i suoi
armadi. La porterò a Firenze, al prossimo Pitti Uomo, nello stand di
e tti
esigeva sempre il massimo
ché considero un privilegio trovarmi in un attico sulla Cassia a gustarmi la tazzulella e’ caffè che donna Liliana ha voluto prepararmi. Ognuno di noi ha una sua memoria di Totò. La lettera di Totò, Peppino e la Malafemmena (Malafemmena, la canzone che lui stesso scrisse, così come fece con le poesie e con l’incommensurabile ’A livella). Oppure San Giovanni decollato, dove una parte la recitò anche Liliana. O ancora Napoli milionaria con Eduardo De Filippo, che divise la propria parte pur di
averlo al suo fianco. E l’elenco corre veloce tra Guardie e ladri di Mario
Monicelli e L’oro di Napoli di Vittorio De Sica. Tra la scena dell’onorevole Trombetta e i duetti con le donne più fascinose della memoria: le
risate di gioia di Anna Magnani e quelle imbarazzate di Mina.
Ed ecco perché rivolgo a Liliana e Diana la domanda più scontata che
mi venga a mente: com’è nata l’idea di portare il guardaroba di Totò in
giro per il mondo, in una mostra itinerante che contagia Stati Uniti, Francia e Turchia e che presto sbarcherà anche in Cina? «L’idea della mostra»,
rivela Diana, che ne è la curatrice, «è nata dalle richieste della gente. E
allora ti trovi lì centinaia di persone che si fermano davanti alle teche in
cui custodiamo il suo smoking di Caraceni, le federe e le lenzuola, tutte con le iniziali ricamate, il cappello del bel Ciccillo, il servizio d’argento
da toilette che gli regalò Liliana Castagnola, la macchina fotografica e
il binocolo, il porto d’armi e l’araldica. Ma vuoi sapere dove rimango sconvolta? Davanti al suo abito di scena. Perché non è coperto, non è protetto». «Sta lì, sul manichino», s’inserisce Liliana. «La gente lo guarda,
lo venera. Non osa toccarlo. Incute amore e rispetto. Più di ogni altro oggetto, più dell’orologio e delle sue lettere autografe».
Immagino il guardaroba e obietto che qualcosa mi sfugge. Il mito nasce nei bassifondi di Napoli, in via Antasaecula, al 107, nel quartiere Stella, rione Sanità di Napoli. L’indirizzo della fame, dove ancora oggi i panni si asciugano per strada. Qui rimane fino ai vent’anni. Poi s’inventa artista, lui che viene non dalla commedia dell’arte, ma dall’arte dell’arrangiarsi della napolitanità verace, sopravvive, vivacchia e vive ascendendo
fino all’Olimpo. Non frequenta una scuola di buone maniere. Anzi. Appena può scappa pure da scuola per andare a studiarsi la gente in mezzo alle strade. «In gioventù è umiliato e vilipeso dai coetanei, che lo additano come figlio di NN», commenta Liliana.
Da dove trae, quindi, questa sua signorilità che non si trova sotto un cavolo e non si compra certo al mercato? Possibile che il sangue nobile che
fluisce nelle vene, strapazzato nel frullatore di quella marionetta slogata che lui trasforma in Totò, lo abbia trasmutato in un maestro di vita?
«Sì», ribatte Diana. «La sua eleganza, per me che sono la nipote, è nel
modo stesso col quale ci ha tramandato l’educazione, sia quella formale sia quella naturale. Non è il buongiorno e buonasera di facciata. Parlo del rispetto dell’altro. Sempre e comunque. Parlo dell’amore per gli ani-
mali. Ricordi? Manteneva un canile dove erano rinchiusi 250 animali.
Andava di notte nei vicoli di Napoli e faceva scivolare biglietti da diecimila lire, stirati e profumati, nelle fessure delle porte dei poveri. Non
ha mai dimenticato le sue origini. Quelle della vita reale e quelle dell’araldica». Guardo Liliana e per un istante vedo Totò. Liliana è bella. Da
giovane era bellissima, come testimoniano le foto inedite che dispiega
sul tavolo del salotto. Ascolta, le chiedo, mi sveli qualcosa di intimistico su di lui? Come iniziava la giornata lontano dai riflettori e dai paparazzi? «Ogni mattina stava due ore in bagno. Più che altro a pettinarsi,
a lisciarsi i capelli. Li impomatava così tanto che non si sarebbero più
mossi per tutto il resto della giornata. Metteva il profumo Tabablon. Voleva starsene da solo. Si specchiava, si studiava, davanti, di fianco, dietro. Solo quando si sentiva a posto andava davanti al suo guardaroba, svestiva la vestaglia e decideva cosa mettersi. Era un rito irrinunciabile. Decideva da solo». Quindi non vale il detto che la cravatta la sceglie la donna... «Ma sei pazzo», sbotta Liliana. «Era come per i regali. Non li accettava mai, voleva solo farli. Non voleva assolutamente essere toccato
da nessuno che non fosse di famiglia. Si concedeva solo al manicure, al
pedicure Allegretti, quello del Papa, che quando entrava in casa ci stava otto ore perché poi doveva mettere a posto tutta la famiglia. E anche
il barbiere doveva venire a casa». Erano questi i segreti del suo fascino?
Era l’ostinazione di una vita fatta su misura a renderlo così unico?
«Macché. Nonna me lo ha spiegato sempre», dice Diana. «Era bambino, ma era anche molto uomo. Per questo piaceva alle donne».
«Per me e mio fratello Antonello era nonno. Era presentissimo. Decideva su tutto. Sceglieva lui la scuola, il collegio, le governanti. Ci comprava gli abiti, da Zingona alla Maddalena. Viveva molto tra Lugano e
Montecarlo e, quando veniva a trovarci, portava un baule pieno di
quello che oggi si chiama underwear. Mi fece fare anche la sottoveste
dalla sarta. Voleva che portassi il cappello e m’insegnava a fare l’inchino». L’inchino. Parlo con Diana e penso a com’è cambiato lo stile di vita dei giovani d’oggi. Non che il mondo debba incagliarsi e rifiutare la
modernità. Ma certi atteggiamenti cui assistiamo ogni giorno per le vie
delle città tradiscono un processo irreversibile di vita, dove i valori
stanno evaporando. Penso questo e Diana, quasi leggendomi nella
mente, dice: «Oggi manca tutto. Manca il buongusto. Mi domando perché la gente non usi gli specchi che ha in casa. Certe figure… Non è solo questione di look. È anche il porgersi in modo cortese. Non stucchevole. Ma cortese. Il saper ascoltare. Invece oggi tutti vogliono solo
parlare». Qual è l’elemento del suo guardaroba che più senti tuo? «La
vestaglia mi commuove», dice Diana, «perché lui in casa stava in vestaglia.
Con i revers di raso nero, le impuntunature e quel color rosso amaranto... Sì, credo che la vestaglia sia ciò a cui tengo di più».
I N A LTO , TOT Ò I N U N M O M E N TO D I R E L A X . L ’ I M M AG I N E È T R AT TA DA L L I B R O « U N P R I N C I P E C H I A M ATO TOT Ò - I M M AG I N I D I V I TA , Q U I S Q U I L I E E
P I N Z I L L AC C H E R E » ( R I Z Z O L I , 20 0 4 , 1 4 4 PAG I N E , 2 5 E U R O ) , C H E È S TATO CU R ATO DA L L A N I P OT E D E L G R A N D E AT TO R E N A P O L E TA N O , D I A N A D E CU RT I S .
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Cosa c’è dietro una maschera
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Monsieur uomo elegante uomo
Adorava scrivere la notte. E pensare. Da solo
è
«È un po’ come nei ricordi di nonna, che ce lo facevano vivere, quando eravamo piccoli, come in un bel
film. In vestaglia stava anche in
camerino». «E nelle pensioni con
mia madre», s’insinua Liliana, «che
visse con lui i momenti più belli
della carriera di Totò. Non l’Excelsior, ma la pensioncina». «Mio nonno era bello anche per questo», rilancia Diana. «Anzi, è bello. Perché in realtà non è morto. Vive con noi.
Vive con i giovani d’oggi». «Era se stesso in ogni situazione», sottolinea
Liliana. «Quando indossava il doppiopetto, lui che non era alto e lo sapeva portare. Quando mangiava pane e mortadella o il suo piatto preferito: pasta e fagioli. O quando indossava il suo smoking, bello, semplice
e lineare. Fatto dal sarto». C’è però un abito, in particolare, che esprime
al più alto livello l’eleganza innata di Totò. Lo scelsi, una decina d’anni fa, per una mostra a Palazzo Strozzi a Firenze, dove esponemmo foto storiche di grandi divi del cinema di Hollywood e Cinecittà e dove
scelsi come simboli del vero stile Charlie Chaplin e Totò nei loro panni di scena. Ed è a quell’abito che torna la memoria.
«Pantaloni a righe un po’ corti, di lana. Camicia bianca di cotone. Fracsciass, come si dice a Napoli: sarebbe un tight, con le code. E la bombetta
lisa dall’uso, che profuma ancora di lui», annuisce donna Liliana.
La osservo mentre il fotografo la «tortura» per le immagini che andranno a corredo di questo pezzo. La osservo e l’amo per il privilegio che ci
ha concesso in quest’ora antimeridiana. La scruto e scopro la tenerezza
dei suoi occhi che tutto hanno visto, ai quali invidio il dialogo profondo
con quelli di Antonio de Curtis. Diana, intanto, riprende il dialogo.
«Aveva un modo di imporre le mani... Intimissimo. Riusciva a farlo senza essere invadente. Era protettivo, ecco… Come in questa foto in cui dà
un bacio in fronte a mamma». E mentre parla mi indica uno scatto dell’archivio Giuseppe Palmas. C’è un frame che reputi insostituibile?, le chiedo. Voglio dire: in un film, o nella tua infanzia. C’è un Totò più Totò per
te? «Ce n’è uno. A prescindere. Quando sono stanca, stressata, quando sono giù o mi girano m’infilo un bel 30 minuti di Miseria e nobiltà ed è meglio di un Valium. Pensa alla straordinarietà dell’artista. All’Ospedale Pertini fanno la Totò-terapia per i bambini. E i piccoli ridono e stanno meglio. Credono che Totò sia ancora qui. E in fin dei conti lo è».
Non c’è bisogno di celebrarlo, rifletto. La grandezza del suo messaggio,
della sua mimica facciale, delle movenze burattinesche, l’elogio dello sberleffo, la forza della fame lo hanno già immortalato. «Sulla sua tomba lasciano i biglietti da innamorati, i disegni, le preghiere», commenta Liliana. «È un qualcosa di straordinario che qualcuno, prima o poi, dovrà
spiegare». E tu, chiedo alla figlia
del Grande, hai un’immagine che
vale più delle altre? «Anche se lei
non è d’accordo», dice rivolgendosi alla propria figlia, «è estremamente elegante quando spiega
la miseria in Guardie e ladri. È la
sua dignità a essere elegante. È il
dire le cose senza rabbia. C’è tutto lui in quell’immagine. C’è Totò mio
padre che ama la notte e il buio perché il giorno, con i suoi rumori, è volgare. Era davvero così. Adorava la notte. Adorava mettersi a scrivere di
notte. E pensare. Da solo». Liliana, chiedo, che ricordi hai del suo stile
comportamentale? Come si muoveva in casa o con gli amici? Manteneva
sempre questo suo modo di fare? «Si capisce», dice donna Liliana.
«Quando si sedeva, per esempio, tirava sempre un po’ in su i pantaloni
prendendoli con le mani all’altezza della coscia per rispettare la piega.
E considerava una maleducazione accavallare le gambe. Era il suo stile, era il suo modo di vivere. Lo ricordo all’ingresso del Sistina, elegantissimo. Mi teneva sotto braccio. Andavamo a vedere il Rugantino con
Aldo Fabrizi. Si era voluto vestire elegante. Prima di tutto per rispetto
al suo amico. Ma soprattutto per piacere a se stesso».
Un guardaroba faraonico. La cura meticolosa del dettaglio, del particolare. Eppure a me torna in mente un altro Totò. Quello che sotto la
giacca indossa solo una pettorina, una finta camicia, in un vecchio film
con Titina De Filippo. Liliana annuisce. Sorride. «Vedi», chiosa, «in fin
dei conti mio padre aveva il buon gusto del rispetto. Era uno che aveva capito quanto beffarda poteva essere la vita: in un film prima cammina per strada con la divisa di generale e un’autobotte, passandogli accanto, interrompe il getto d’acqua per rispetto. Poi cammina lungo la
stessa strada vestito da borghese. E l’autobotte lo innaffia. Ecco, in quella sua espressione che si pietrifica, in quel suo non dire niente c’è la grande lezione di umanità di Totò mio padre».
«Io so a memoria la miseria», continuava a ripetere Totò quando girava sulla sua Cadillac nera, guidata da un autista in livrea con i guanti bianchi. Quando morì, scrisse Gaetano Afeltra: «A salutarlo c’era tutto il popolo di Napoli. Nobili e borghesi, gentiluomini e guappi, scugnizzi e cadetti della Nunziatella. Preti, ladri e camorristi. Sante donne di preghiera
e puttane pallide senza trucco e col velo nero. Il ventre di Napoli».
Mentre mi congedo, osservo una piccola raccolta di terracotte colorate,
donate dagli artisti dei presepi napoletani. Vedo una vecchia foto in cui
Totò fuma le sue Turmac. Ne fumava 90 al giorno. Ripenso agli appunti
che avevo buttato giù prima di questo viaggio nella memoria. Alla sua
eleganza classica. Al suo stile. Al suo mito. A prescindere.
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ANTONIO DE CURTIS SI GUARDA ALLO SPECCHIO. NELLA CURA DEL PROPRIO ABBIGLIAMENTO ERA QUASI MANIACALE: CURAVA PERSONALMENTE LA PULIZIA
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