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1 LA QUESTIONE EVOLUZIONISTA (aspetti scientifici) Carlo Cirotto

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1 LA QUESTIONE EVOLUZIONISTA (aspetti scientifici) Carlo Cirotto
Materiale riservato. La riproduzione per usi non personali è vietata
LA QUESTIONE EVOLUZIONISTA (aspetti scientifici)
Carlo Cirotto
Credo sia capitato a tutti di restare attoniti e ammirati di fronte allo
spettacolo della vita che prorompe in un prato assolato di maggio o in un
bosco al tramonto o lungo le rive di un fiume. E' un'esperienza dolce e forte
allo stesso tempo, che solo l'arte, forse, riesce ad esprimere in modo
adeguato. E' un'esperienza composita, fatta di una miriade di sensazioni
che i nostri sensi colgono e che si fondono in mirabile armonia nella zona
più profonda del nostro essere. Assomiglia assai da vicino all'emozione che
ci prende ascoltando una sinfonia suonata da una grande orchestra. Anche
in questo caso molti strumenti fondono insieme le loro note nell'unica
armonia della composizione. Persino le diverse capacità professionali degli
orchestrali trovano collocazione organica nella sinfonia. Forse che animali,
piante, luce, acqua non formano anch'essi un'opera unica di colori, di odori,
di suoni che arriva diretta all'anima dopo aver coinvolto tutti i sensi?
Raggiungere una nuova unità facendo leva su diversità e molteplicità
sembra essere una regola comune della vita e delle orchestre.
Le infinite forme della vita
Molteplicità e diversità, innanzi tutto. E' questo l'aspetto della realtà
che, con parola pregnante, anche se poco poetica, è detta "biodiversità"
dagli studiosi della natura. Stime attendibili dicono che le specie animali e
vegetali tuttora presenti sul pianeta Terra non sono meno di 13 milioni.
Sembra superfluo ricordare che tale trionfo della diversità ha stimolato
la curiosità degli amanti della natura fin dall'antichità. Costituiscono una
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vasta schiera coloro che si sono dedicati con eccezionale impegno a
descrivere le tipologie dei viventi e i loro stili di vita. Memorabili sono, anche
per il fascino delle loro illustrazioni, i 'bestiari' e gli 'erbari' medievali. In essi
si ritrova condensato tutto il sapere di alchimisti e speziali, di monaci e
agricoltori attenti osservatori della natura. Purtroppo, la mentalità dell'epoca
trovava normale mescolare la realtà provata con il sentito dire, le forme con
la simbologia e con la mitologia.
Solo dopo la nascita della scienza moderna, con Galileo, si percepì la
necessità di conferire un taglio più rigoroso, più scientifico, anche alla
descrizione e catalogazione degli esseri viventi. Ecco, allora, intere
generazioni di nuovi naturalisti impegnarsi a descrivere scrupolosamente,
fin nei minimi particolari, animali e piante, cercando di dar loro un qualche
ordine seguendo i più svariati criteri di somiglianze e diversità. Nella
maggior parte dei casi si trattava, però, di criteri di classificazione poco più
che personali, assolutamente inadatti a raccogliere il consenso dell'intera
comunità scientifica.
Vivere in un mondo fisso
Fu solo intorno alla metà del Settecento che il genio di Carlo Linneo
(1707-1778) concepì un criterio empirico di classificazione tanto semplice
da poter essere utilizzato anche da naturalisti dilettanti e, insieme, tanto
potente da rendere agevole la soluzione dei più astrusi problemi di
classificazione. E' a Linneo che dobbiamo quella chiave 'dicotomica' di
classificazione che ancora oggi è utilizzata con profitto da naturalisti e
biologi.
A fare da elementi portanti, da unità fondamentali del suo sistema di
classificazione, Linneo pose le specie, che concepì come entità reali e,
soprattutto, fisse, suscettibili solo di modificazioni transitorie e secondarie.
Fu, questa, un'intuizione di straordinaria importanza: intorno ai problemi
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della specie ruoteranno quasi tutti i successivi dibattiti biologici fino ai nostri
giorni.
Linneo, grazie alla sua concezione di specie e alla nuova chiave di
lettura sistematrica, fu, probabilmente, il primo naturalista a possedere una
visione veramente generale ed organica della natura vivente. Non poteva,
quindi, non porsi la domanda che sorge spontanea anche in noi di fronte
allo spettacolo della natura: “Perché questa sconfinata varietà di piante e di
animali che sembrano appositamente progettati per i più svariati ambienti
naturali?”. La risposta che il nostro scienziato dette fu: Tot numeramus
species quot ab initio creavit Infinitum Ens.
Il latino semplice e la facile orecchiabilità hanno fatto sì che la frase sia
stata mandata a memoria e ripetuta senza difficoltà da intere generazioni di
studenti, che, ribadendola, mostravano di aver colto il cuore stesso della
convinzione linneana: la fondamentale fissità delle specie viventi e, quindi,
dell'intero mondo della vita. E’ fuor di dubbio che il significato primo e più
evidente del detto di Linneo fosse proprio questo. Ma non è l’unico. Ve n’è
un altro, più profondo, che può essere letto in filigrana e che, forse per
questo, tende a sfuggire. La frase esprime anche il tentativo di superare
l’aspetto puramente descrittivo della questione per giungere al vero cuore
del problema, al perché profondo della pluralità e del finalismo delle specie.
Con il suo detto icastico e sapiente, Linneo proponeva una risposta a
questi perché: la volontà divina. Le specie che osserviamo sono tanto
numerose, tanto diverse e così ben adatte ad ogni ambiente perché così le
ha volute il Creatore.
Il finalismo, problema scivoloso
A nessuno può sfuggire la natura epistemologicamente ambigua del
ragionamento linneano: veniva proposta una risposta di ordine teologico ad
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una domanda di natura scientifica. Sotto il profilo metodologico, Linneo non
avrebbe potuto fare un’operazione più azzardata. E’ bene però che, prima
di emettere verdetti poco benevoli, entriamo, almeno un po’, nell’atmosfera
culturale respirata dal nostro naturalista. Ai suoi tempi la scienza galileiana,
nata da poco, non era ovviamente in grado di spiegare alcunché delle
caratteristiche delle specie viventi; la filosofia, dal canto suo, forniva
risposte diversificate e, tutto sommato, vaghe; l’unico sapere capace di
offrire una risposta elaborata e sufficientemente convincente era la
teologia. Infatti, rifacendosi alla descrizione genesiaca dell’opera creatrice
divina, essa era in grado di dar ragione sia della varietà delle specie viventi
sia del finalismo presente inequivocabilmente in ogni specie e in ogni suo
componente. Oltre allo sconfinato numero di specie, infatti, l'aspetto dei
viventi che maggiormente colpiva, allora come oggi, erano le strutture
mirabilmente complesse, orientate all’auto-conservazione e all'adattamento
all’ambiente di vita. Un’organizzazione così perfetta non era spiegabile se
non con l’intervento intelligente di un Creatore!
Alla teologia quindi Linneo si rivolse. Certo, oggi non siamo più disposti
a condividere questo suo atteggiamento concordista; possiamo tuttavia
apprezzarlo in quanto espressione del suo desiderio di conoscere.
Vivere in un mondo in evoluzione. Lamarck e Darwin
Si dovrà attendere Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829) per
assistere al primo tentativo di fornire una risposta scientifica al problema
della molteplicità delle specie e dei loro caratteri finalistici. Lamarck partì
dall'ipotesi, diametralmente opposta a quella di Linneo, che le specie
viventi non fossero fisse ma capaci di adattarsi all'ambiente circostante sia
biotico che abiotico. Ipotesi assai plausibile. Anche a noi la vita appare non
come una cosa rigida, data una volta per tutte, ma come una realtà
altamente plastica, capace degli adattamenti più impensati. E' questa
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caratteristica peculiare dei viventi che Lamarck scelse come uno dei pilastri
della sua teoria. L'altro pilastro, altrettanto solido, fu offerto dall'evidenza
che esistono alcune caratteristiche - quelle che noi oggi chiameremmo
'genetiche' - che, mantendosi costanti in ogni specie, risultano indipendenti
dall'ambiente e vengono trasmesse alla prole ad ogni generazione.
Partendo da questi dati di fatto, Lamarck propose che gli adattamenti
all'ambiente dei singoli individui fossero anche ereditabili dalle generazioni
successive. Quella di Lamarck è, per questo, conosciuta come 'teoria della
ereditarietà dei caratteri acquisiti'.
A titolo di esempio, ecco l'argomentazione che Lamarck propose per
spiegare la lunghezza del collo e delle zampe delle giraffe. Disse che,
all'inizio della loro evoluzione, le giraffe non erano altro che antilopi con
collo e zampe di lunghezza canonica. Erano però particolarmente ghiotte
dei germogli degli alberi di acacia e, per giungere anche a quelli più alti,
erano solite allungarsi il più possibile, stirando in particolare il collo e le
zampe. Grazie a questo quotidiano esercizio di stretching, anche l'antilope
più normale si ritrovava, nel giro di poco tempo, con gli arti un po' più
lunghi. Questo allungamento adattativo lo trasmetteva poi, come carattere
ereditario, alla sua prole, che a sua volta lo ritrasmetteva non senza aver
aggiunto il proprio contributo. In questo modo, generazione dopo
generazione, collo e zampe divennero straordinariamente lunghe.
Ad indirizzare la serie di trasformazioni che portarono, un po' alla volta,
le antilopi a diventare giraffe, Lamarck ipotizzò una sorta di spinta interna
verso una perfezione sempre maggiore, un impulso di stampo vitalistico
verso il cambiamento orientato ed una sempre maggiore complessità.
La teoria di Lamarck fu profondamente innovativa per i suoi tempi.
Peccato, però, che non fosse vera. I caratteri acquisiti, infatti, non
diventano mai ereditabili. Lo dimostrò Weismann quasi mezzo secolo
dopo, taglando ripetutamente la cola a molte generazioni di topi e notando
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che i nuovi nati ne erano sempre in possesso. E comunque, Lamarck
avrebbe potuto correggere la sua teoria e Weismann risparmiarsi la lunga
fatica sperimentale per confutarla se solo avessero considerato che da
tempi immemorabili gli Ebrei circoncidono i figli, ma tuttora i nuovi nati
possiedono il prepuzio.
Nonostante che la teoria di Lamarck fosse scorretta dal punto di vista
biologico,
fu
però
di
grande
importanza
in
quel
processo
di
differenziamento culturale che portò all'affermazione della biologia come
scienza indipendente. Essa fu, infatti, il primo, concreto passo verso
l'emancipazione della biologia dalla filosofia e dalla teologia. Fu il primo
tentativo di recidere il cordone ombelicale del finalismo che ancora legava
la biologia alla teologia. Dopo Lamarck, infatti, non fu più necessario rifarsi
alla diretta volontà del Creatore, per spiegare la diversità delle specie. Se
le specie non sono entità fisse, possono trasformarsi con il tempo le une
nelle altre, arricchendo progressivamente la biodiversità. Non fu più
necessario neanche chiamare in causa la volontà del Creatore per
spiegare il finalismo presente ovunque negli organismi viventi. Se, infatti, le
specie sono capaci di cambiare nel tempo, adattandosi all'ambiente in cui
vivono, non c'era più la necessità di ipotizzare l'azione intelligente di un
Creatore
che
mettesse
l'organismo
giusto
nell'ambiente
giusto.
L'organismo diventava da solo 'giusto' per il proprio ambiente mediante la
sua capacità adattativa.
Nonostante ciò, tuttavia, l'operazione per liberare la biologia dalla
sudditanza alla filosofia e alla teologia non poteva ancora dirsi totalmente
riuscita. Lamarck, infatti, continuava a leggere l'iter evolutivo come un
progresso orientato, un cammino degli organismi verso la perfezione senza
deviazioni né tentennamenti. In tale preordinazione, troppo lineare, poteva
ancora essere letta una volontà divina. Il cordone ombelicale era stato
dilacerato ma non totalmente reciso.
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Per assistere alla recisione completa si dovette attendere Charles
Darwin (1809-1882), naturalista inglese di esperienza incredibilmente
vasta. Anche Darwin, come Lamarck, partì dall'assunto che le specie non
fossero entità fisse. A differenza di Lamarck, però, ipotizzò che i
cambiamenti, presenti con il trascorrere del tempo in ogni specie, non
fossero in alcun modo influenzati dall'ambiente, ma fossero minuscole,
innumerevoli e continue variazioni spontane e, soprattutto, casuali che,
sommandosi, portavano a diversificazioni via via più profonde. Quelle che
vediamo oggi differenziare le specie esistenti.
Tale ipotesi era, sì, capace di giustificare l’enorme varietà delle specie,
ma da sola non bastava a render ragione del loro perfetto inserimento nei
rispettivi ambienti naturali né degli evidenti caratteri finalistici delle loro
strutture e dei loro comportamenti. All’ipotesi della variabilità spontanea
Darwin
aggiunse,
quindi,
quella
della
selezione
naturale.
Come
nell’allevamento del bestiame, disse, è l’allevatore a comportarsi da agente
selezionatore favorendo la riproduzione degli animali che possiedono le
caratteristiche più vantaggiose, così nel mondo vivente è la natura stessa a
fare da selezionatore, favorendo le specie che si dimostrano più capaci
nella lotta per la sopravvivenza. Le meno forti e le meno fornite
soccombono a vantaggio di quelle più dotate che hanno, in questo modo,
maggior possibilità di riprodursi.
Come si vede, Darwin prese ampiamente le distanze dalla teoria
lamarckiana. Ma non perché la ritenesse errata. Al contrario, considerava
plausibile e persino utile alla causa dell'evoluzione l'ipotesi dell'ereditarietà
dei caratteri acquisiti, ma non la giudicava né centrale né decisiva.
Semmai, ciò che Darwin non gradiva del pensiero di Lamarck era quella
tendenza intrinseca alla perfezione, al progresso, che Lamarck poneva a
fondamento della spinta evolutiva. Nei suoi famosi taccuini annotò al
riguardo alcune frasi particolarmente significative: "La mia teoria è molto
diversa da quella di Lamarck" e "Il progresso è un errore di Lamarck".
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Qualsiasi tipo di tendenza o di spinta verso forme più progredite fu
estromesso dalla teoria darwiniana mediante l'introduzione del concetto di
casualità delle variazioni alle quali vanno spontaneamente soggette tutte le
specie viventi e che forniscono i materiali che verranno poi passati al vaglio
della selezione naturale.
L'ipotesi della casualità esclude che le variazioni spontanee presentino
una qualche forma di orientamento intrinseco. Ad evitare equivoci, va
comunque sottolineato che a presentare il carattere della casualità è solo
uno dei due attori della teoria darwiniana: la variabilità delle specie. L'altro
attore, la selezione naturale, presenta invece tutti i caratteri della necessità.
Significative sono le immagini che esprimono le due diverse intuizioni.
Mentre Lamarck faceva riferimento alla classica 'scala naturae' che
esprimeva la convinzione di un progresso costante, un'ascesa uniforme
verso forme più perfette, l'immagine a cui faceva riferimento Darwin era
quella di un albero i cui rami si divaricano e si moltiplicano con il procedere
dal tronco alla chioma. Scriveva: "Gli organismi rappresentano un albero,
irregolarmente ramificato: alcuni rami più volte ramificati - sono i generi -.
Tante gemme terminali muoiono, tante ne nascono. La morte di una specie
non è affatto diversa da quella di un individuo. .... L'albero della vita
dovrebbe chiamarsi corallo della vita, con la base di rami morti così che i
passaggi non sono visibili".
Con questa operazione magistrale, Darwin recise del tutto quel residuo
di cordone ombelicale che legava ancora la biologia alla filosofia e alla
teologia.
Mendel e la nascita della genetica
La teoria di Darwin, senza alcun dubbio geniale e grandiosa,
presentava tuttavia alcune zone d'ombra dovute al limitato sviluppo delle
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conoscenze dell'epoca. Una di queste, forse la più significativa, riguardava
la variabilità. Darwin l'aveva ipotizzata come uno dei fondamenti della sua
teoria, ma le conoscenze biologiche del suo tempo non erano capaci di
identificarla in oggetti concreti definiti. Fu anche per questa difficoltà, forse,
se il pensiero darwiniano fu messo da parte per qualche decennio. Solo
con la nascita della genetica, la scienza dell'ereditarietà biologica, risultò
evidente che i caratteri ereditabili di ogni organismo erano localizzati in
corpuscoli discreti. Concreti, quindi, e tali da poter essere fisicamente
identificati, analizzati, modificati sperimentalmente.
Proprio negli anni in cui Darwin dava alle stampe la sua opera
fondamentale: L'origine delle specie, un monaco agostiniano, Gregor
Mendel (1822-1884), faceva esperimenti di incrocio di piselli nella quiete
del suo monastero in Moravia. I risultati dei suoi studi furono pubblicati in
un volume delle Memorie della Società Naturalistica di Brno e costituirono
le basi sperimentali delle ben note leggi di Mendel che, descrivendo le
modalità con cui i caratteri paterni e materni vengono ereditati dalla prole,
fornirono la dimostrazione che quei caratteri non hanno nulla di vago ma
sono rapportabili a concrete strutture materiali presenti nelle cellule degli
organismi viventi. E' questo infatti il solo modo per spiegare le modalità
della loro distribuzione nella prole.
Le successive scoperte della genetica permisero di identificare nel
DNA la molecola portatrice dell'informazione ereditaria e nei geni (segmenti
di DNA) le particelle materiali
recanti l'informazione di ogni singolo
carattere. Con l'identificazione dei geni fu subito chiaro come fosse
concretamente possibile anche il loro cambiamento. La molecola di DNA
può subire modificazioni (mutazioni) nella sua struttura chimica che si
ripercuotono sulle caratteristiche stese del vivente. Era così chiarita anche
la fonte della variabilità genetica.
Il Neodarwinismo
L'innesto delle nuove conoscenze di biochimica e biologia molecolare
sul vecchio tronco della teoria darwiniana portò, tra gli anni venti e gli anni
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cinquanta del Novecento, alla formulazione della cosiddetta Teoria
Sintetica o Neodarwinismo. In essa vengono identificate le cause
fondamentali della variabilità dei viventi nelle mutazioni geniche. Da esse si
originano continuamente, in gran numero e in modo casuale le variazioni
dei viventi. A dar forma a questa variabilità, di per sé anarchica, è poi la
selezione naturale: i fattori ambientali eliminano gli individui che sono meno
capaci di adattamento. Non sono i geni a guidare l’evoluzione; è l’ambiente
che lo fa, anche se sono i geni a fornire i materiali.
Non prevedendo relazione alcuna tra la comparsa delle forme mutate e
la successiva selezione naturale, questo meccanismo appare simile ad un
procedere a tentoni, in stile assolutamente casuale.
Questa è, all’osso, la teoria evolutiva che oggi raccoglie i consensi più
ampi.
Evoluzione e teorie evoluzionistiche
Nel dibattito sull’evoluzione, una notevole fonte di confusione è
rappresentata da un errore compiuto di frequente non solo dai profani ma
anche da divulgatori esperti e persino da scienziati: identificare l’evoluzione
con il neo-darwinismo. E’ invece di fondamentale importanza, pena
disastrose confusioni, tenere distinta l’evoluzione, come dato di fatto, dalle
teorie evoluzionistiche che mirano a spiegarne il come e il perché.
Lo studio dei resti fossili degli organismi vissuti prima di noi ha fornito
le prove concrete della realtà dell'evoluzione.
I dati paleontologici presentano il beneficio, di non poco conto, di
trovarsi già organizzati secondo un preciso ordine: quello cronologico. Ciò
è dovuto al fatto che i fossili sono inglobati in sedimenti la cui disposizione
spaziale rispecchia fedelmente quella temporale: i sedimenti più profondi
sono anche i più antichi mentre quelli via via più superficiali sono
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progressivamente più recenti. La cronologia che dà ordine al panorama dei
reperti fossili, non è quindi un’interpretazione che dà ordine ai dati operata
dai paleontologi né una loro ricostruzione più o meno plausibile ma è, essa
stessa, inglobata in quell’unico complesso ordinato di dati sperimentali che
reclama
una
spiegazione
scientifica.
In
particolare,
all’interno
di
quest’ordine cronologico e quasi da esso supportate, tre evidenze si
impongono alla nostra attenzione come altrettanti dati di fatto.
- La prima è che tutti i viventi, anche i più complessi, discendono da
uno o più progenitori comuni particolarmente semplici, i batteri.
- La seconda è che nel corso di tale discendenza si è verificata la
diversificazione dei viventi.
- La terza è che la diversificazione dei viventi è stata accompagnata da
un aumento di complessità e di organizzazione.
A questo complesso ordinato di dati di fatto si dà il nome di evoluzione.
E’ quest’evoluzione, nella quale, ripeto, confluiscono sia i singoli dati
sperimentali (i singoli reperti fossili, ad esempio) sia le regolarità che li
legano insieme, a dover essere spiegata facendo ricorso ad opportune
teorie.
E' opportuno parlare di ‘teorie’ e non di ‘teoria’. Sembra infatti assai
improbabile che un’unica teoria – nel nostro caso il neo-darwinismo riesca a spiegare esaurientemente un numero tanto grande di dati
eterogenei e poliedrici. Sembrerebbe più saggio guardare con favore al
sorgere di più teorie nella quasi certezza di migliorare, così, la
comprensione dell’evoluzione. Elaborate in questi ultimi decenni, ne sono
disponibili
diverse.
Destano
interesse,
ad
esempio,
l’evoluzione
punteggiata, il neo-lamarckismo, il costruttivismo che riescono a gettare
luce su aspetti del processo evolutivo lasciati in ombra dal neo-darwinismo.
La teoria dell'evoluzione punteggiata, ad esempio, si mostra capace di
affrontare, più adeguatamente del neo-darwinismo, il problema della
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cosiddetta macroevoluzione. Per macroevoluzione si intende la comparsa
di
organi
totalmente
nuovi
e,
a
fortiori,
di specie
nuove.
Alla
macroevoluzione fa da contraltare la microevoluzione, che è solo un
adattamento
sempre
più
avanzato
di
strutture
già
esistenti.
Il
neodarwinismo appare adatto a spiegare la microevoluzione ma ha delle
difficoltà a spiegare la macro a meno di non ricorrere a categorie nuove,
ignote alla teoria originaria.
E’ la complementarità di teorie diverse che può risultare quanto mai
utile per giungere in tempi ravvicinati alla meta costituita dalla
comprensione dei meccanismi evolutivi. Tutte comunque, prima di essere
accettate come probabili spiegazioni, devono superare il vaglio della
verifica sperimentale, così come avviene per tutte le teorie che ambiscono
ad essere considerate scientifiche. E tutte le teorie che ho appena elencato
presentano a loro favore risultati sperimentali vuoi nel campo della
paleontologia, vuoi in quello della morfologia comparata, vuoi in quello
della biologia molecolare.
I dati paleontologici
Per ovvi motivi di contenimento spazio-temporale non posso prendere
in esame i dati della biologia molecolare, né quelli dell'anatomia
comparata. Mi limiterò invece a considerarne alcuni della paleontologia che
aiuteranno ad inquadrare meglio la problematica.
Lo studio dei fossili racchiusi nelle conformazioni rocciose delle epoche
passate ci mette di fronte a due realtà che sono sconcertanti nella loro
evidente grandiosità.
La prima di queste realtà è che il divenire della vita segue la direzione
dal più semplice al più complesso. I più antichi esseri viventi che
popolarono la terra furono cellule "semplici", i batteri. Solo molto più tardi
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fecero la loro comparsa dapprima le cellule più complesse (gli eucarioti) e
poi tutte le altre forme pluricellulari, tra cui la nostra specie, secondo questa
scala temporale:
Formazione della Terra
4,5
Primi fossili di batteri
3,8
"
Cellule eucariotiche
2
"
Riproduzione sessuata
1
miliardo di anni fa
Invertebrati acquatici, alghe verdi
750
milioni di anni fa
Vertebrati
500
“
Anfibi e insetti
370
“
Dinosauri e grandi conifere
270
“
Mammiferi
165
“
Fine dei dinosauri
65
“
Genere Homo
2/3
“
Utensili litici
2,5
“
Homo sapiens arcaico
150
mila anni
Uomo moderno
40
“
Rivoluzione neolitica
Nascita di Cristo
miliardi di anni fa
10
2
“
“
La seconda realtà che sconcerta è il cosiddetto tempo profondo, e cioè
l'inimmaginabile lunghezza dei tempi richiesti perché da una terra
inizialmente deserta e squallida si giungesse all'accogliente biosfera attuale.
E affinché queste scansioni temporali, che utilizzano unità di misura tanto
distanti dalla nostra esperienza, acquistino un significato più pregnante, può
essere utile ricorrere ad un semplice trucco di contrazione temporale.
Immaginiamo che la Terra si sia formata 24 ore fa, allora 20,2 ore ci
separano dalla comparsa dei primi batteri, 2,5 ore da quella dei primi
vertebrati, 20,8 minuti dall’estinzione dei dinosauri, 48 secondi dalla
fabbricazione dei primi utensili litici e appena 38 millesimi di secondo dalla
nascita di Cristo.
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Nei sedimenti scandagliati dai paleontologi alla ricerca di antiche
testimonianze fossili si leggono la nascita, la fioritura e la morte di un
numero straordinariamente elevato di specie che si sono avvicendate nel
fiume della vita. L'albero maestoso dell'evoluzione si sta trasformando in
una sorta di cespuglio che si infittisce sempre di più con il progredire delle
ricerche. Il cespuglio che la paleontologia ci propone, ha comunque una
particolarità: non presenta punti di inserimento precisi dei singoli rami sugli
altri. Ciò è dovuto all'estrema improbabilità di trovare i resti fossili di quei
pochi individui che per primi hanno imboccato quel particolare percorso di
speciazione. Per avere questo tipo di risposte è più opportuno rivolgersi ad
altre discipline, come la biologia molecolare e la genetica di popolazioni.
L'ominazione
Questa brevissima panoramica della storia della vita sulla Terra non
sarebbe completa se non prendessimo in considerazione anche l'evoluzione
della nostra specie. Non per conferirle la posizione privilegiata di vertice
dell'evoluzione biologica ma per completare il quadro con una storia che ci
interessa da vicino. Ogni animale, infatti, si trova al vertice di una scalata dal
più semplice verso il più complesso e ciascuno rappresenta un adattamento
che è maggiore di tutti i precedenti.
I nostri antenati diretti non furono, evidentemente, i cavalli né gli uccelli
né le lucertole, ma non furono neanche gli altri primati nostri contemporanei.
Le attuali scimmie antropomorfe - gorilla, scipanzè, bonobo, orango - sono
solo nostri cugini più o meno lontani.
Circa 20 milioni di anni fa un antropoide arboricolo (un antenato del
Kenyapithecus?) migrò dall'Africa verso l'Asia, forse spinto da uno dei
ricorrenti periodi di siccità. In Asia i suoi discendenti dettero origine agli
antenati dei gibboni e dell'orango. In seguito, poi, una decina di milioni di
anni fa, si ebbe dall'Asia all'Africa una nuova migrazione di ritorno. I
migratori si stabilirono sia nelle foreste, dando origine agli attuali antropoidi
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Materiale riservato. La riproduzione per usi non personali è vietata
(gorilla,
scimpanzé,
orango),
sia
nelle
savane,
dando
origine
ad
Australopithecus. Australopithecus aveva un mosaico di caratteri che in
parte possono essere considerati prettamente umani (stazione eretta, tipo di
piede, tipo di dentatura...) e in parte sono simili a quelli di uno scimpanzé
(forma del cranio, volume della scatola cranica, statura ...).
Varie
specie
di
Australopithecus
(Australopithecus
afarensis,
A.
aethiopicus, A. boisei, A. africanus, A. anamensis ...) sono ben
documentate da fossili africani. In alcuni depositi con resti di Australopiteci
sono state rinvenute anche schegge di pietra ritoccate che risalirebbero a 32,5 milioni di anni fa e, secondo alcuni studiosi, potrebbero essere opera
degli Australopiteci stessi. E' possibile che l'Australopiteco usasse ciottoli,
pietre, ossa a scopo di difesa o per procurarsi il cibo. Forse poteva anche
praticare una rudimentale scheggiatura della selce. Ma la lavorazione
sistematica della pietra non appartiene a questa fase dell'ominazione. Va
attribuita piuttosto ad una nuova specie di ominide, probabile discendenza
di A. anamensis, comparso nell'Africa centro-orientale intorno a 2 milioni di
anni fa: Homo habilis. Il suo cervello era decisamente più grande di quello
degli Australopiteci, presentava aree encefaliche del linguaggio abbastanza
ben sviluppate ed era tanto organizzato da rendere capace H. habilis di
industrie litiche, strutture di insediamento ecc. H. habilis fu il creatore della
più antica delle culture umane, quella olduwaiana.
Da habilis a sapiens
Non è facile seguire le prime fasi dell'umanità nella sua evoluzione e nei
suoi spostamenti. Alcune caratteristiche di H. habilis si modificarono nel
tempo con un'evoluzione graduale che portò a forme umane diverse, anche
se non ancora uguali a quelle che osserviamo oggi.
Questo stadio dell'umanità viene definito Homo erectus (l'attributo
specifico non ha alcun riferimento alla stazione eretta). H. erectus ha
un'accresciuta capacità cranica (da 800 a 1250 cc) e la sua statura è media
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(da 160 a 170 cm). Abbandonò probabilmente l'Africa in un'epoca molto
antica (da 1,6 a 1,8 milioni di anni fa) e raggiunse le più lontane regioni
dell'Est e del Sudest asiatico (Cina e Giava). Industrie litiche affinate,
un'organizzazione sociale più complessa, la domesticazione del fuoco, la
protezione del corpo con pelli di animali sono alcune espressioni della
cultura di H. erectus.
Nelle sue incredibili migrazioni, H. erectus raggiunse anche l'Italia: risale
a 800 mila anni fa la calotta cranica rinvenuta a Ceprano nel Lazio.
In Europa, nel periodo fra 100 mila e 40 mila anni fa, il processo evolutivo
fa emergere un tipo umano particolare, l'Homo neanderthalensis, che per
alcune caratteristiche richiama H. erectus, ma si presenta più evoluto
soprattutto nell'aumentata massa encefalica e nelle manifestazioni culturali.
Il Neandertaliano, però, non ha contribuito alla comparsa dell'uomo
moderno.
Le
forme
umane
di
quel
periodo
(H.
erectus
e
H.
neanderthalensis) si estinsero intorno a 40 mila anni fa. Il loro posto fu
preso da una nuova specie, H. sapiens, anch'essa proveniente dalla fucina
africana dove aveva avuto origine tra i 150 e i 100 mila anni fa. Si tratta
della forma moderna di H. sapiens che intorno a 30 mila anni fa era
largamente affermata ovunque. Iniziava così, con questi uomini, la cultura
del Paleolitico superiore, caratterizzata da una raffinata industria litica, da un
largo uso dell'osso come strumento e dalle splendide espressioni di arte
pittorica e scultorea.
Il differenziamento culturale
Nella veloce panoramica appena conclusa, non è difficile scorgere
l'intreccio di due 'storie' diverse: la storia degli eventi biologici, che fa da
sfondo materiale alla narrazione e quella degli eventi culturali che hanno
permesso di leggere sempre più accuratamente i dati biologici ed hanno
portato all’affermazione delle teorie evoluzionistiche. In quest'ultima storia,
quella culturale, sono riconoscibili i passaggi tipici di quei processi che
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potremmo definire di differenziamento culturale. Mi piace chiamare così quasi per una sorta di deformazione professionale - le trasformazioni
culturali che, partendo da una situazione conoscitiva generica o
monocorde, portano a conoscenze specifiche e molteplici. Come il
differenziamento degli organismi è il definirsi di capacità specialistiche a
partire da potenzialità generiche, così si può definire differenziamento
culturale quel processo che segue un percorso analogo nell’ambito della
cultura. Quel processo, insomma, che ha permesso ai polloni delle scienze
moderne di crescere sull'antico ceppo del sapere filosofico/teologico.
Credo sia importante, per dare completezza al nostro discorso,
dedicare attenzione a questo particolare aspetto: ci aiuterà anche a
comprendere le ragioni di molte posizioni odierne sullo spinoso problema
dei rapporti scienza/fede ed anche le ragioni di alcune tendenze
fondamentaliste che scuotono il mondo della biologia, soprattutto negli Stati
Uniti.
Come è facile immaginare, il processo differenziativo del sapere
biologico dai più antichi saperi filosofici e teologici non è avvenuto una volta
per tutte, ma deve essere continuamente rielaborato e riproposto per non
perdere benefici già raggiunti come la riorganizzazione degli ambiti di
competenza dei diversi saperi e la conseguente scomparsa di posizioni
ambigue come quella di Linneo.
In questa non facile operazione di rivisitazione dei propri limiti e delle
proprie competenze sorgono le tentazioni di stampo fondamentalista di chi
crede di risolvere alla radice il problema riconoscendo come valido un solo
sapere - il proprio - e negando la validità degli altri. Oggi assistiamo ad
almeno due derive fondamentaliste: quella di chi propone una lettura
ideologica del neo-darwinismo e quella di chi vuole il ritorno alle posizioni di
Linneo nel nome di una interpretazione letterale della Bibbia. La prima
assolutizza una teoria scientifica estendendone la validità ben oltre i confini
che le sono propri. La seconda assolutizza l’interpretazione religiosa
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promuovendo una lettura fondamentalista della Scrittura ed attribuendole
una validità esplicativa scientifica che non possiede.
La lettura ideologica del neo-darwinismo
Iniziamo dalla lettura ideologica del neo-darwinismo, molto diffusa tra
gli addetti ai lavori e, grazie a divulgazioni fortunate, anche tra il grande
pubblico. Obiettivo fondamentale è di negare validità a qualsiasi argomento
che possa, anche lontanamente, far riferimento a letture filosoficometafisiche aperte al trascendente. I punti chiave sono: (a) la negazione di
ogni finalismo, b) la negazione di leggi che giustifichino la complessità del
vivente e (c) l’attribuzione al caso di ogni novità evolutiva. Per dirla con uno
dei suoi massimi esponenti, Jacques Monod, essa esclude dalla vita “ogni
progetto di sviluppo organico, ogni legge che non sia il puro caso e la cieca
necessità, ogni logica del vivente, ogni finalismo”. Dove per “puro caso” e
“cieca necessità” si intendono mutazione e selezione naturale.
Grazie
all’acquisizione di questa verità, “l’uomo finalmente sa di essere solo
nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso”.
Il carattere ideologico di tale lettura può essere messo in evidenza
analizzando i suoi tre punti fondamentali.
Prima di tutto la negazione, che pretende di avere i caratteri della
scientificità, di ogni forma di finalismo. Sorge però spontanea una domanda
pregiudiziale: il finalismo rientra tra le competenze della scienza
sperimentale? In altre parole, è in possesso la scienza sperimentale di
strumenti metodologici che le consentano di dire una parola conclusiva
sugli aspetti finalistici della natura? La risposta è, evidentemente, negativa.
La scienza non estende la sua competenza alle finalità perché gli strumenti
cognitivi in suo possesso - il metodo empirico - non le permettono di
raggiungerle. Ci si chiede allora come il sapere scientifico in quanto tale
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possa escludere l’esistenza di un qualcosa che, quand’anche esistesse,
non sarebbe comunque in grado di cogliere.
Il fatto è che di finalismo devono parlare non gli scienziati ma i filosofi,
che sono in possesso di adeguati strumenti categoriali.
Direttamente collegata alla negazione di qualsiasi finalità è l’esigenza di
negare l’esistenza di leggi o ‘logiche’ del vivente. Queste infatti potrebbero
assumere indesiderati ruoli guida nel processo evolutivo, sospingendolo
lungo percorsi preferenziali e suggerendo ‘pericolose’ conseguenze
filosofiche. E’ sconcertante, ma, secondo questa particolare lettura del neodarwinismo, la scienza non dovrebbe neanche perdere il suo tempo nella
vana ricerca di inesistenti leggi o logiche del mondo della vita.
Fortunatamente sono sempre più numerosi gli uomini di scienza che,
contravvenendo a questa imposizione ideologica, studiano con nuovi
approcci i viventi e la loro evoluzione scoprendo un imprevedibile mondo di
leggi, di regolarità e di logiche.
L’attribuzione al caso di ogni novità evolutiva, infine, meriterebbe un
particolare approfondimento perché è il cavallo di battaglia dei più virulenti
attacchi ideologici. Non potendo fare una trattazione necessariamente
lunga, mi limiterò a proporre alcune semplici considerazioni: a) caso non è
sinonimo di probabilità; b) sia nella scienza deterministica classica che in
quella statistica caso ha il significato di mancanza di intelligibilità; c) il caso,
quindi, non è in grado di spiegare niente e, meno che mai, può essere
considerato un reale agente propulsore dell’evoluzione.
Accanto alla lettura ideologica che, negando validità agli altri saperi,
attribuisce alle categorie neo-darwiniane la capacità di affrontare e risolvere
problemi filosofico-teologici, ve n'è anche un’altra, relativamente diffusa,
che le attribuisce addirittura valenze religiose. Riporto, a titolo di esempio,
lo stralcio di un’intervista rilasciata da un famoso attore tedesco che ha
interpretato Giovanni Paolo II nella serie Non abbiate paura della
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televisione Usa: “Non ho niente a che vedere con la chiesa. Non credo in
Dio. Credo nell’evoluzione, mi sembra più logica”.
Il creazionismo e la teoria del disegno intelligente
Sul versante opposto si colloca il movimento di pensiero e di opinione
noto come creazionismo. Assai diffuso negli Usa soprattutto tra le chiese e
le sette fondamentaliste, poco diffuso in Europa e nella chiesa Cattolica,
afferma la diretta creazione da parte di Dio delle specie viventi con le
modalità e i tempi descritti nei primi due capitoli della Genesi. Come si può
notare, si tratta della riproposizione, persino peggiorata, della posizione di
Linneo e del suo errore metodologico con l’aggravante che ben tre secoli di
elaborazioni e conquiste teoriche sembrano essere trascorsi invano e che
nessun progresso nel frattempo sembra essere avvenuto nel campo della
scienza e dell’esegesi biblica. L’errore di fondo permane lo stesso: dare
risposte teologico-religiose a domande scientifiche. I termini stessi della
contrapposizione vivacissima alla quale stiamo assistendo denunciano
l’equivoco. Si parla di creazionismo ed evoluzionismo come di due teorie
alternative, in possesso delle stesse caratteristiche di scientificità. Non si
sottolinea
mai,
o
quasi
mai,
che
la
vera
alternativa
scienfica
all’evoluzionismo è il fissismo ed è tra queste due categorie che sarebbe
legittimo
il
confronto.
Il
creazionismo
è
altra
cosa
sia
rispetto
all’evoluzionismo che al fissismo perché è una categoria teologica e come
tale può essere correttamente confrontata solo con altre categorie
appartenenti allo stesso ambito.
Una posizione analoga, anche se all’apparenza più raffinata del
creazionismo, è la teoria del disegno intelligente. Si tratta della posizione di
alcuni scienziati americani secondo cui le mutazioni casuali e la selezione
naturale non possono spiegare da sole l’evoluzione delle molteplici e
complesse forme di vita. Si deve invece ipotizzare l’intervento di un agente
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intelligente extra-naturale. Pur non identificando mai l’agente intelligente
con il Dio biblico, si deve tuttavia rilevare che i sostenitori del disegno
intelligente compiono lo stesso tipo di errore dei creazionisti: danno una
risposta extra-scientifica ad una domanda scientifica. Ciò che intendono
spiegare, infatti, è il dato genuinamente sperimentale della complessità
della vita che può essere, certo, l’attuazione del progetto di un’intelligenza
esterna ma può essere anche il frutto delle proprietà della materia stessa.
Solo la seconda di queste ipotesi può essere definita scientifica in quanto di
natura chiaramente empirica e suscettibile di verifiche sperimentali. La
prima, al contrario, è di natura filosofica perché l’eventuale intelligenza
extra-naturale progettatrice non può certo essere dimostrata tramite
esperimenti empirici.
Oscar Wilde era convinto che “a dar risposte sono capaci tutti, per far
domande giuste ci vuole un genio”.
Anche la Bibbia va interrogata in modo corretto. Non si possono
pretendere risposte che non vuole e non può fornire e che solo
subdolamente possiamo strapparle. L’autore dei primi capitoli della Genesi
di sicuro si rifaceva ad un modello scientifico fissista, tipico dei suoi tempi,
ma lo scopo del suo discorso non era quello di rispondere alla domanda
(scientifica): “Cos’è successo all’inizio del mondo e dell’uomo?” quanto
piuttosto alla domanda (teologica): “Che significato ha l’uomo nel mondo e
nei suoi rapporti con Dio?”. Tale differenza di domande era già ben chiara
ad Agostino. Nella sua De Genesi ad litteram infatti affermava: “Non si
legge nel Vangelo che il Signore avrebbe detto: Vi manderò il Paraclito che
vi insegnerà come vanno il sole e la luna. Voleva formare dei cristiani, non
dei matematici”. Dopo più di mille anni lo stesso concetto fu ribadito dal
cardinal Baronio con una frase tanto chiara quanto lapidaria: “Lo Spirito
Santo intese insegnarci come si vada in cielo, non come il cielo si muova”
(Spiritui Sancto mentem fuisse nos docere quomodo ad coelum eatur, non
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quomodo coelum gradiatur) che venne citata e parafrasata in più occasioni
dallo stesso Galileo.
Le due prospettive di studio sono distinte, non necessariamente in
opposizione ed anzi tendenti alla complementarietà. Nel discorso tenuto da
Giovanni Paolo II all’Accademia Pontificia delle Scienze il 22 ottobre 1996
si afferma: “Le scienze dell’osservazione descrivono e valutano con sempre
maggiore precisione le molteplici manifestazioni della vita e le iscrivono
nella linea del tempo. (…) L’esperienza del sapere metafisico, della
coscienza di sé e della propria riflessività, della coscienza morale, della
libertà e anche dell’esperienza estetica e religiosa sono però di
competenza dell’analisi e della riflessione filosofiche, mentre la teologia ne
coglie il senso ultimo secondo il disegno del Creatore”.
Certo, la tentazione dello sconfinamento è forte: il teologo è stato
spesso tentato di emettere verdetti di tipo scientifico e lo scienziato di dire
la sua su tesi religiose. F. Facchini, antropologo dell’Università di Bologna
ed anche teologo, ha cercato di mettere i paletti di frontiera: “Gran parte
degli equivoci sul problema delle origini è sorta dalla pretesa di negare ciò
che la scienza non può dirci (la dimostrazione dell’anima) o di far dire alla
Bibbia quello che essa non vuol dirci (contenuti di ordine scientifico). Ai due
interlocutori vanno posti quesiti che rientrano nel loro ambito. Alla Bibbia sul
perché dell’esistenza, alla scienza sul dove, come, quando si è formata la
vita. (…) La vera alternativa non è tra evoluzione e creazione, ma tra
visione di un mondo in evoluzione, dipendente da Dio creatore secondo un
suo disegno, e visione di un mondo autosufficiente, capace di crearsi e
trasformarsi da sé per eventi puramente immanenti”.
Ritengo che le parole di Facchini offrano la miglior conclusione
possibile a questo mio intervento.
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Approfondimento bibliografico
I testi sulle teorie evolutive sono particolarmente numerosi. Pochi,
comunque, presentano la chiarezza e la concisione, unite ad una indubbia
correttezza scientifica, di un libro che, per queste doti, può essere
consigliato a coloro che si accostano all'argomento per la prima volta senza
possedere particolari conoscenze nel campo della biologia:
Telmo Pievani - La teoria dell'evoluzione. Attualità di una rivoluzione
scientifica - Il Mulino, Bologna 2006.
Un'iconografia di rilievo ed un testo di piacevole lettura caratterizzano il
volume di R. Massa, che suggerisce una lettura in chiave evolutiva della
realtà vivente:
Renato Massa - L'evoluzione. Il viaggio della materia vivente - Jaca
Book, Milano 2007.
Per i lettori già in possesso di conoscenze biologiche di base sono
consigliabili le seguenti letture:
Maynard Smith - La teoria dell'evoluzione - Newton & Compton, Roma
2005.
Ernst Mayr - L'unicità della biologia - Raffaello Cortina, Milano 2005.
Niles Eldredge - Le trame dell'evoluzione - Raffaello CFortina, MIlano
2002.
Un classico alquanto impegnativo e ponderoso è:
Stephen Jay Gould - La struttura della teoria dell'evoluzione - Codice,
Torino 2003.
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Efficaci ai fini della comprensione dei meccanismi evolutivi secondo
l'ottica neo-darwiniana sono anche alcuni capitoli dei testi di G. Manzi
dedicati al tema generale dell'evoluzione umana:
Giorgio Manzi - Homo sapiens. Breve storia naturale della nostra specie
- - Il Mulino, Bologna 2006.
Giorgio Manzi - L'evoluzione umana. Ominidi e uomini prima di Homo
sapiens - Il Mulino, Bologna 2007.
All'evoluzione dell'uomo sono anche dedicati i volumi di lettura agevole e
di iconografia ben curata:
Fiorenzo Facchini - Le origini dell'uomo e l'evoluzione culturale - Jaca
Book, Milano 2006.
Chris Stringer, Peter Andrews - Storia completa dell'evoluzione umana
- Logos, Modena 2006.
Sui rapporti evoluzione - teologia uno dei riferimenti classici è il pensiero
di P. Teilhard de Chardin di cui è uscito di recente un dizionario delle opere:
Fabio Mantovani - Dizionario delle opere di Teihard de Chardin - Il
Segno dei Gabrielli, Negarine di S. Pietro in Cariano (VR) 2006.
Al pensiero teilhardiano si rifà l'opera:
Lodovico Galleni - Scienza e Teologia - Queriniana, Brescia 1992.
Completo e profondo, e pur tuttavia di agevole lettura è il testo:
Jacques Arnould - La teologia dopo Darwin. Elementi per una teologia
della creazione in una prospettiva evoluzionista - Queriniana, Brescia 2000.
Ha avuto vasta eco sui media l'incontro del Papa con i suoi ex alunni a
Castel Gandolfo nel 2007, dedicato alla visione evoluzionistica e ai problemi
che pone alla filosofia e alla teologia:
Schülerkreis (Gruppo di allievi) di Papa Benedetto XVI (a cura di) Creazione ed evoluzione - Edizioni Dehoniane, Bologna 2007.
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Il portavoce più noto di posizioni anti-religiose e anti-cristiane nel nome
dell'evoluzione è R. Dawkins. Grazie alla sua prosa lucida e accattivante,
l'autore è riuscito ad avvicinare il grande pubblico al suo modo di
interpretare il neodarwinismo. Nel suo ultimo libro attacca alla radice la
religione. Non solo le religioni istituzionali, a cominciare naturalmente dalle
chiese cristiane, ma la religione tout court:
Richard Dawkins - L'illusione di Dio. Le ragioni per non credere Mondadori, Milano 2007.
A Dawkins replica con stile altrettanto brillante e stringente il collega
biochimico A. Mc Grath sostenendo la tesi opposta:
Alister Mc Grath - Dio e l'evoluzione. La discussione attuale - Rubettino,
Soveria Mannelli 2006.
In Italia, posizioni analoghe a quelle di Dawkins sono difese da T.
Pievani. E' degno di nota il fatto che lo stesso autore che ha scritto 'La teoria
dell'evoluzione. Attualità di una rivoluzione scientifica', qui messo al primo
posto tra i testi suggeriti per la comprensione del neodarwinismo, sia anche
l'autote di un libro contenente un attacco viscerale alla religione:
Telmo Pievani - Creazione senza Dio - Einaudi, Torino 2006.
Per farsi un'idea della versione più moderna delle teorie creazioniste,
nota come 'disegno intelligente':
Marco Respinti - Processo a Darwin - Piemme, Casale Monferrato
2007.
La posizione della grande maggioranza dei teologi cattolici sulla teoria
del 'disegno intelligente' è espressa da:
Stanley Jaki - Disegno intelligente? - fede & cultura, Verona 2007.
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