IL BOCCACCIO Dario Fo Copione per lezione su Giovanni
by user
Comments
Transcript
IL BOCCACCIO Dario Fo Copione per lezione su Giovanni
Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 IL BOCCACCIO Dario Fo Copione per lezione su Giovanni Boccaccio registrata per l’Espresso Prima stesura aggiornata all’12 agosto 2010 roberto ‐ rosaria ‐ elisa 1 Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 2 V’è una disattenzione grave nel presentare, come si fa normalmente, un personaggio come Giovanni Boccaccio: ci si dimentica di ricordare innanzitutto che il poeta fiorentino, seppur da autodidatta, aveva raggiunto, specie nelle lettere, un livello culturale straordinario. Scriveva in latino, parlava molte lingue e fu fra i pochi del suo secolo ad avviarsi allo studio del greco. Letterato e stimato da molti degli eruditi suoi contemporanei, egli fu anche un intellettuale che si impegnò nella vita politica del suo tempo in modo egregio. Tutt’altro dal luogo comune che lo vede solo come narratore di storie amene, da passatempo e anche piuttosto facili e sboccate. Boccaccio, detto semplicemente il novellatore, scrisse un’enorme quantità di opere: dai saggi letterari, alle bucoliche, dalle elegie di gusto classico, alle ballate e soprattutto le “favole”, racconti piacevoli e di sapore storico, oltre a fatti di cronaca. Sono testi scritti in latino e in volgare. Nella lingua toscana del tempo sono, per esempio, concepite le sue novelle. In particolare, il Decameron, che raccoglie ben cento racconti e fu creato nella maturità del poeta ed è da tutti è riconosciuto come il suo capolavoro. Quasi immediatamente, la pubblicazione di quella sua opera si trovò a godere di un successo straordinario e dopo solo qualche anno i copisti, detti allora emanuensi, che riproducevano l’opera integrale, non riuscivano più a soddisfare le enormi richieste dei lettori. È del tutto naturale che, con gli applaudenti, spuntarono in gran numero i denigratori che tempestarono di critiche il Decamerone (CK critiche): «Si tratta di una raccolta di storie spesso triviali – commentavano – per di più imitazioni di raccolte di favole di altri autori, quasi sempre anonimi. Il più saccheggiato è senz’altro il Novellino (un insieme di scritti popolari di varia forma)». Boccaccio ammetteva di aver attinto da molte fonti e di aver plagiato a man bassa, ma si difendeva dichiarando: «Mi sono preoccupato di trasformare quelle conte, spesso di qualità mediocre, in scritti di un certo stile e contenuto morale, ottenendo un linguaggio, credo, molto più piacevole». Ma i detrattori incalzavano: «Sì, raccontala come ti pare, ma sempre di furto si tratta!» È strano che il nostro novellatore ammettesse tanto palesemente d’essere un emerito plagiario di storie altrui. In Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 3 verità, le novelle che egli aveva raccolto in gran numero, non erano mutuate solo da fantasticherie poetiche, ma di fatto erano direttamente ispirate a reali fatti di cronaca: in poche parole, si trattava di fatti autentici, i cui protagonisti erano spesso ancora vivi e vegeti, e soprattutto operanti con tutta la loro autorità e potenza. Non dimentichiamoci che il ‘300 era ancora il tempo in cui si rischiavano processi con pene durissime contro i giullari e gli joguladores, nonché contro cronisti obloquentes – come diceva l’editto del 1221 redatto da Federico II imperatore di Svevia. Sommo despota che d’intellettuali “sparlatori”, o troppo sinceri, ne aveva messi a morte più d’uno. Fra le vittime dei processi, che oggi chiameremmo politici o di censura alla libera cronaca, conosciamo Jacopone da Todi, incarcerato da Bonifacio VIII e da lui condannato a morte, per non parlare di Dante Alighieri, il quale era uso nominare ogni personaggio che mettesse in scena, o se preferito in piazza, con nome e cognome e relative infamità. Boccaccio stimava e ammirava enormemente il sommo Poeta. Cercava di seguirne lo slancio poetico, ma non quello brutalmente politico. Per il novellatore di Certaldo, l’idea di trovarsi a sua volta esiliato da Firenze, con per di più magari addosso una condanna di morte in contumacia, e costretto a vagare per i comuni e le corti di mezza Italia, umiliato spesso come un accattone, non lo sollecitava proprio. Invece, con questa sua ammissione di plagio – in verità, come abbiamo detto e come più avanti dimostreremo, assolutamente non veritiera – nel caso ci fosse stato un contenzioso con denuncia da parte di personaggi illustri e potenti che si riconoscevano in quelle storie vilipesi e messi alla berlina, il Boccaccio poteva sempre evitare i conseguenti processi dicendo: «Io, lo dicono anche i miei detrattori più feroci, ho copiato! Io sono solo colpevole di aver trascritto storie di altri autori: ma si può perseguire per offesa e indegnità un semplice emanuense copista, per di più sprovveduto?» Insomma, le sue storie sono composte su fatti reali, ma spesso sotto finale, la conclusione è capovolta e mascherata, e l’identità dei protagonisti è del tutto fantastica. Come a dire: meglio bugiardo mistificatore, ma sano e libero. Ma temo che con questo metodo privo di strutture portanti, come si dice nella geometria d’analisi, noi si stia andando Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 4 verso la tangente cioè: si stia uscendo dal progetto originario, dimenticandoci di descrivere e proiettare innanzitutto la base e l’alzato della storia della vita realmente vissuta dal Boccaccio, a partire dagli eventi più importanti che determinarono il clima storico del tempo. Stiamo parlando dell’inizio del Trecento e della prima metà di quel secolo – ricordiamo che Boccaccio nasce esattamente nel 1313. In quel periodo in Italia e in tutta Europa accadde un vero e proprio scombussolamento, tanto politico quanto religioso: la diaspora della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, che portò l’intiero clero di Roma, assestato da ormai dodici secoli nella Città Santa, a sloggiare dall’Urbe e a traslocare papa, vescovi, preti ed esercito vaticano al completo ad Avignone. Pare che la ragione prima di quel gesto fosse determinata dal fatto che nella caput mundi, papa, vescovi e la curia tutta non si sentissero più sicuri: infatti baroni e principi di quella città si scannavano a vicenda nella lotta per la supremazia territoriale, economica e soprattutto politica. I nobili terrieri pretendevano di gestire tutto, compreso la riscossione delle tasse, il controllo dei beni erariali, i mercati e perfino il diritto di batter moneta, nonché le elezioni di vescovi e papi. Ma perché rifondare una nuova Roma proprio ad Avignone? Prima di tutto per la semplice concomitanza che Bertrand de Gouth, il papa appena eletto con il nome di Clemente V, era una forte personalità di Provenza. In secondo luogo, perché lì poteva godere dell’appoggio di forze politiche fra le maggiori d’Europa, a cominciare da Filippo IV il Bello, re di Francia, e della Casa d’Angiò, sovrana del Regno di Napoli e di Sicilia e, guarda caso, originaria di Provenza. Il grande esodo, a detta dei maggiori cronisti di allora, fu tragico e maestoso al tempo. Roma in pochi giorni si spogliò di tutta la sua storia: la solenne carovana si muoveva su centinaia di carri che caricavano tesori, vestigia sacre e profane, opere d’arte, vescovi e grandi prelati con le proprie famiglie più o meno mascherate con amanti e figli, evidentemente solo naturali. Gli armati al seguito col compito di proteggere la santa sfilata sventolavano drappi e vessilli dai vistosi colori: nessuna fanfara li precedeva, nessuno intonava inni sacri né tantomeno biascicava orazioni. L’unico ritmo che a tratti si faceva sentire era quello prodotto dai numerosi cariaggi, delle salmerie e dei famigli di servienti e cucinieri, dalle pentole e dal padellame che, penzolanti dalle Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 5 fiancate dei carri, ballonzolando uno contro l’altro producendo uno scampanare non certo festoso. Muovendosi a pochi passi in coda ecco un altro scampanellare più agreste. Infatti, seguivano cavalli da cambio, asini, muli, vacche, pecore, capre e i pecorai con i loro cani da gregge: sembrava l’esodo narrato dai sopravvissuti alla distruzione di Gerusalemme. In tutta la Penisola qualche milione di fedeli sparsi nei borghi e nelle città ascoltava attonito e sgomento dai parroci e dai frati la cronaca di quella traversata di fuggiaschi con il Pontefice in testa. Invero, il papa Clemente V aspettava tutta la sua gente tranquillo ad Avignone. «Ma è indegno – si sentiva esclamare con disperazione – che il nostro Padre Santo ci abbia abbandonati in questo modo! Chi ci indicherà la via, chi ci difenderà dai briganti, sempre più numerosi, e dalle angherie dei potenti?» In realtà, il Papa non aveva totalmente abbandonato le terre e i fedeli della penisola, né tantomeno le città, specie quelle sotto la sua giurisdizione: in esse erano rimasti rappresentanti del Vaticano che continuavano a gestire il potere dello Stato della Chiesa e a controllare che duchi e baroni non facessero man bassa di quei beni. Napoli, sotto Roberto I d’Angiò, cominciava anzi a vivere una situazione economicamente felice: la gestione accorta e lungimirante del re provenzale aveva sviluppato fortemente la tessitura, i mercati e il movimento delle navi che trasportavano merci in Oriente, per tornare con derrate alimentari a prezzo conveniente nel porto di Napoli. Firenze, che manteneva il proprio governo comunale, come altre città del Nord, difendeva la propria autonomia politica e la libertà di mercato a cominciare da quello finanziario, come dire delle banche a prestito. Un fenomeno che determinava alti guadagni e nello stesso tempo continui pericoli di bancarotta, come di lì a poco avvenne a Genova, Venezia e a Firenze stessa. Roma, al contrario, viveva un momento di stasi politica e sociale drammatica: con la sortita della Curia e di tutto l’apparato amministrativo e politico del papato, stava franando in una situazione di caos fallimentare. I baroni continuavano con i loro reciproci scontri e con i saccheggi della gente dei quartieri e delle borgate. Ma ecco che quasi all’improvviso arrivò a Roma, proveniente da Avignone, un giovane notaio, certo Cola di Rienzo, con la delega firmata dal pontefice perché si riportassero l’ordine e le condizioni Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 6 fondamentali per far risorgere quella città. Nacque così la Repubblica Romana, ma sempre sotto il controllo costante della Chiesa. Come abbiamo detto, Giovanni Boccaccio nasce nel 1313, molto probabilmente a Certaldo, presso Firenze. Il padre, Boccaccino da Chelino, riconosce, o meglio, legittima quasi subito il figlio, ma non ne sposa la madre. Infatti, qualche anno dopo, prenderà in moglie un’altra donna, Margherita de’ Maldoli, dalla quale avrà un altro figlio, Francesco. Situazioni del genere si ritrovano spesso nel medioevo e anche nel Rinascimento. Infatti, Leonardo da Vinci, essendo figlio naturale di un notaio, abitò sempre fuori dalla casa del padre, giacché la ragazza che lo aveva partorito era di bassa estrazione. Così come, prima di lui, Ruzante, che venne alla luce in una casa di campagna in una tenuta del padre – un medico di origine milanese che aveva ingravidato una servetta di casa. Costui riconobbe il figliolo, ma subito si sposò con una giovane nobile di Padova. Per la sua condizione, il nostro più grande autore di teatro del tempo non fu mai accettato all’università, anche se il padre ne era addirittura il rettore. Il grande architetto fiorentino Leon Battista Alberti, che a sua volta subì una mortificazione del tutto simile, diceva: «Vuoi avere un figlio di straordinario ingegno e costante volontà di farsi valere? Ingravida una giovane fantesca di casa e sposati ad altra donna di una buona famiglia, provvista di dote, dalla quale avrai molti figli. Noterai che di quest’ultima covata, nessuno si mostrerà degno d’attenzione per la sua intelligenza. Ma il primo, il bastardo, quello sì ti darà alte soddisfazioni». Dicevamo che il padre di Giovanni aveva nome Boccaccino ed era mercante nonché banchiere. Al figlio venne storpiato il nome in Boccaccio, che – strano segno della sorte – fin dai greci e dai romani era il soprannome che si dava agli attori buffoneschi della commedia satirica. Della madre, invece, non si sa nulla. Non conosciamo occasione in cui il novellatore la nomini. Forse, la giovane era deceduta poco dopo averlo partorito. Oppure, cosa più probabile, al momento in cui era rimasta gravida già era maritata o prossima alle nozze con qualche personaggio di alta condizione sociale e quindi aveva partorito di nascosto, ché dalla tresca conveniva che il promesso sposo fosse tenuto Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 7 all’oscuro. Così il padre Boccaccino s’era preso la briga di crescere il bimbo, da lui riconosciuto, in un primo tempo affidandolo, com’era di consuetudine, a una balia. Tant’è che il padre, quando di lì a poco si sposò, aveva con sé il figliolo. Proprio come in ogni favola che si rispetti, la matrigna non godeva di alcuna affettuosità da parte del piccolo intruso. Né pare che la madre acquisita fosse granché ben disposta verso il figlio. E’ risaputo che il mercante di Certaldo provenisse da una famiglia di piccoli proprietari terrieri approdati al commercio, ma già prestava moneta con l’ambizione di farsi banchiere. Naturalmente il piccolo Giovanni venne avviato agli studi fiscali e giuridici – con tutto che in cuor suo, già giovanissimo, intendesse dedicarsi alle lettere e alla poesia. A sette anni fu affidato a un maestro, Giovanni di Domenico Mazzuoli da Strada, vicino a Dante e ad altri maestri di lettere del tempo. Evidentemente questo insegnante seppe alimentare il suo desiderio di dedicarsi alle lettere. Il momento in cui il giovane Boccaccio subì una vera e propria trasformazione, sia riguardo al linguaggio che ai contenuti della sua rivelazione poetica, fu a Napoli dove a 14 anni, nel 1327, seguì il padre, socio dei Bardi, che erano fra i massimi banchieri d’Europa. Il primo incontro con Napoli procurò una straordinaria emozione nel ragazzo: egli era uso, da fiorentino, concepire la città come un insieme organico e progettato di case, palazzi, borghi, canali e fiumi. A Firenze, le merci entravano nella città all’alba e ordinatamente si portavano ai negozi e alle piazzuole dello scarico. Prima ancora, quelle strade e vicoli erano percorsi da cariaggi a botte, atti a ritirare le lordure e i liquami da fogna. Le guardie delle acque facevano la ronda perché non si rovesciassero cànteri o vasi da notte dalle finestre sulla via. Chi poi si permetteva di lordare le acque del fiume e dei canali, versando avanzi di tinture o scarti di fucina, veniva fortemente multato. Napoli, al contrario, gli apparve come una città del bengodi, costruita volutamente fuori da ogni regola. Le strade e i vicoli salivano e scendevano dai monti verso il mare e dal mare all’insù come fossero progettati per un’enorme giostra da carnevale. La gente non stava nelle case, ma fuori, nella strada. Discutevano, scherzavano o insultavano affacciandosi dalle finestre e dal di sotto si faceva altrettanto. Era tutto un Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 8 vociare da mercato, con sghignazzi e grida. Transitavano donne eleganti e prostitute di tutte le età, anche ragazzine, ancora in pubertà – e poi ogni tanto, qualche ladro inseguito dal derubato. Tutto si offriva e contrattava. Sotto le finestre delle carceri c’erano donne e uomini che davano la voce ai detenuti, intonando strane filastrocche che parevano serenate. Nessuno si meravigliava d’alcunché. A questo proposito, Boccaccio, da Napoli scrive una lettera a un figlio dei Bardi, che sta a Firenze, nella quale testimonia: «Durante la festa del santo loro maggiore, San Gennaro, la cattedrale era ricolma di gente – ognuno che a gran voce implorando chiedeva la grazia. Il vescovo dall’ambone mostrava, tenendo le braccia in alto, la coppa dentro la quale c’era il sangue di San Gennaro asseccato. Ma tutti erano certi che oggi, o domani, o al massimo dopodomani avrebbe cominciato, sciolto, a bollire. Mi accompagnava in quella visita un francese che da tempo viveva in quella città e ne conosceva usi e costumi, saggezze e follia, e che parlava correntemente la lingua loro. Io gli ho sussurrato: “Ma dimmi, tutto questo popolo, che viene anche di fuori città, dall’Irpinia e da Caserta, crede davvero che quello che succederà sarà un autentico miracolo?” “No, io penso che nessuno si illuda su un evento simile, anzi: son certo che in cuor suo non ci sia alcuno convinto che si tratti di un atto miracoloso” E io di rimando: “Pensano ci sia un trucco?” “No, un trucco no, ma un abile gioco di prestigio, sì, quello sì”. “Ma com’è che restano così stralunati e gridano come se fossero presi da un incantamento fanatico?” “È un gioco, una recita dove ognuno vuol sentirsi protagonista della rappresentazione! Tutto il resto è magia degli inganni”». Boccaccio dovette forzatamente cominciare ad apprendere il napoletano, giacché quello era il linguaggio di ognuno, ma non era facile poiché in quell’idioma non esisteva un unico linguaggio. La gente dei bassi usava termini e vocalità particolari e soprattutto gestualità del tutto diverse da quelle che usava la gente dei borghi alti. I nobili poi, specie quelli che frequentavano la corte, usavano inserire espressioni tratte dal provenzale, dal francese e pure dallo spagnolo. I marinai, a Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 9 loro volta, esibivano un gergo da ciurma, colmo di termini provenienti dall’arabo e dal catalano. Ciò nonostante, il ragazzo apprese non solo a comunicare in quella lingua, ma addirittura a scrivere, tant’è che esiste più di un documento in napoletano ad opera del nostro favellatore. Dopo un solo anno di permanenza in quella città, il padre, Boccaccino di Chelino, fu nominato da Roberto d’Angiò re di Napoli suo consigliere e ciambellano. Quest’impegno davvero prestigioso permetteva al socio dei Bardi di gestire i grandi capitali della corte per finanziare progetti commerciali e di produzione di manufatti. Era il suo un incarico di grande prestigio e valore, col quale il Regno d’Angiò riconosceva una totale fiducia nella sua amministrazione. Grazie a quella nomina, il banchiere toscano e il suo figliolo si trovarono invitati spesso a corte, soprattutto durante le feste e a qualche banchetto ufficiale. Il giovane Boccaccio scoprì così un mondo che aveva immaginato solo nelle sue letture degli eroi cavallereschi e gli capitò di poter osservare dal vivo le figure reali di splendide dame che si muovevano dentro quella rappresentazione che pareva messa in scena solo per stupire ogni foresto. Ma insieme alle immagini dorate si imbatté anche nel grigio dei livelli, cioè si rese conto che esistevano una tavola alta e una tavola bassa ed egli si trovava accomodato in quella di sotto. In fondo che poteva pretendere? Egli e suo padre trattavano affari di denaro e di profitto per la corte, e la loro “gualdrappa” era certo di rango, ma sempre da servitore. Questo rendersi conto delle rigide differenze di classe colpì il giovane Boccaccio notevolmente, tant’è che in molte sue novelle troviamo la descrizione della divisione in scomparti di quella società. Una di queste è la novella di Cisti il fornaio dove un semplice impastatore di farina di grano, pur essendosi arricchito a dismisura, dimostra di sapersi muovere davanti agli uomini di casta inferiore e superiore con leggerezza e grande saggezza e discernimento, condita alla consapevolezza di cosa significhi stare al proprio posto e tenere rispetto per la forma adeguata delle consuetudini. Da che, per questo suo garbato comportamento, è da tutti apprezzato e può godere di stima e considerazione (VI, 2). Ma tornando dal fornaio fiorentino alla vita di corte napoletana, quel clima di fastosa giocondità che stravolge il figlio del bancario – dove lo stile del gesto nel muoversi e Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 10 danzare, nell’esprimersi con linguaggi fioriti contrasta duramente cogli intrighi e il relativo pettegolare dei vari gruppi di nobili, a loro volta alti e bassi – svela ogni “rotear di pavana”, cioè di danza, una miseria umana davvero mortificante. Dentro questo spesso artificioso turbinare, però, ecco che Boccaccio viene a scoprire la presenza di una creatura che gli appare come un incanto: si tratta di Giovanna d’Angiò, la preferita fra le varie nipoti di Roberto re di Napoli. La principessa, che fra qualche anno sarà scelta come unica sovrana del Regno, in quel momento è ancora una bambina che vien festeggiata nel giorno dell’onomastico per i suoi sei anni. Quello che maggiormente sorprende il ragazzo, che ha appena diciotto anni, è la tranquillità con cui la creatura sa vestire il proprio ruolo: non si dimostra assolutamente impacciata o a disagio dinnanzi a tutti quei birignao artefatti della corte, né tantomeno dinnanzi al solito rito del sollevarla fra le braccia da parte degli illustri parenti e amici che le stanno intorno. Ad un vecchio zio che la sta per sollevare, la bimba pare abbia esclamato: «Mais qu’est‐ce que tu va faire, mon oncle? Tu cerches le malheure! Comme tu me leves par l’air tu risques que t’arrive une ernie che te s’afface curieuse au centre du ventre!» («Ma che vai facendo, zio caro? Vai cercando la disgrazia! Come mi levi al cielo rischi che all’istante ti scoppi fuori dal ventre un’ernia a bubbone!») Naturalmente tutti i presenti esplodono in una grossa risata alla quale la bimba non dà alcuna attenzione. Ma più impressionante è la semplicità e la coscienza di sé che la piccola Giovanna mostra nel proprio comportamento. È una bimba di stupenda grazia e bellezza, ma priva di ogni infantilismo, nessun capriccio o pianto – piuttosto, spesso produce gesti di noia e fastidio propri di una ragazzina già adulta. Nulla la sconvolge e ad ogni regalo che le viene offerto esprime commenti appropriati e per nulla affettati: quasi già una dama. Boccaccio non si immagina certo di trovarsi davanti a quella che fra qualche anno sarà una delle donne più potenti e famose di tutta Europa, protagonista di fatti tragici al limite dell’osceno che la vedranno vedova ancora pulzella e poi rimaritata per ben altre tre volte, con principi spesso indegni di lei. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 11 È risaputo che Giovanna possedesse una larga cultura, sia nelle scienze che nelle lettere. Amava la pittura e la musica e per di più conosceva parecchie lingue fra le quali il provenzale, il francese, il latino e si arrangiava anche con l’ungherese. Soprattutto, si esprimeva in un ottimo e colorito napoletano, nel quale sapeva anche cantare strambotti e ballate, naturalmente popolari. La sua nutrice non era stata scelta fra le dame di corte, come era d’uso nel mondo regale: la madre, Margherita di Valois, preferì affidarla ad una ex lavandaia, che già era stata la balia di Luigi d’Angiò, il fratello del padre. Ella era conosciuta come Filippa la Catanese. Di lei si dice che fosse donna di liberi costumi, ricca di fascino da mezzana e pur colma di saggezza – soprattutto straordinariamente generosa nei suoi affetti. Infatti, pur essendo sposata al maggiordomo di corte, coloriva la propria vita con storie amorose davvero appassionate. Giovanna era affezionata a Filippa più che alla propria madre che, come in tutte le corti, si trovava a frequentare raramente. La sua nutrice la rendeva partecipe di tutte le sue avventure d’amore e così le insegnava a conoscere i fanciulli e gli uomini maturi e a saperli giudicare scegliendo, ancora infante, quelli da poter amare e quelli per i soli giochi casti o lussuriosi. Naturalmente, oltre al provenzale, come già accennato, il primo linguaggio che apprese fu proprio il napoletano: non solo la parlata, ma la gestualità, i comportamenti, e soprattutto la moralità, e con la freschezza anche il torbido . Intanto Boccaccio cercava di adeguarsi alle regole e ai riti della corte, che gli stavano piuttosto ostici e vuoti. In verità quel mondo anche se lo teneva in disparte, in un certo modo lo affascinava e allo stesso tempo a tratti lo infastidiva. Di giorno in giorno, si rendeva conto che dietro quell’eleganza favolesca del tutto formale, non esisteva né vera amicizia, né stima, né tantomeno quella saggezza generosa tanto esaltata dalle epopee cavalleresche. Insomma la forma cortese, come si diceva a Napoli, era tutto una gran bufala “pour epatér le cùille” ‐ cioè per stupire i fessi. In quel tempo il figlio del “bancarottiere di corte”, come lo chiamavano nel lazzo sgarbato i giovani bellimbusti dell’aristocrazia, convinse il padre a toglierlo dallo studio dell’economia e del raggiro fiscale, un genere di disciplina che gli dava sempre più allo stomaco. Questi resistette un poco, ma poi vista l’insofferenza a quell’arte del figliolo, accettò di Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 12 avviarlo allo studio del diritto canonico e per Boccaccio fu proprio un gran salto… in un baratro di disperazione. Però finalmente nell’ambiente dei “delfini” di corte nessuno usava più verso di lui il sarcastico termine di “prista a’ struozzo” e “usurazzo” ma al contrario veniva appellato con i termini molto più gentili di “pretino”, “pretazzo” e “chiericuccio”. Alcune di quelle splendide ninfe salgono dall’acqua di larghi fiumi). Nella ricca collezione d’arte del palazzo dei d’Angiò, Boccaccio ebbe l’occasione di ammirare la grande tavola oggi andata perduta, ma di cui esiste ancora una buona copia d’epoca, di un maestro provenzale che rappresentava Salomè danzante. Nella pittura, la fanciulla accenna ad un passo con giravolta, muovendosi leggera e con straordinaria eleganza e sensualità. Sdraiata su sontuosi cuscini, la madre sua sbirciava Erode, che se ne stava addirittura sbavando dal desiderio, irretito da quelle movenze. Quella Salomè aveva le stesse sembianze di una delle dame della corte, in particolare Maria dei Conti d’Aquino, allora appena sedicenne, addirittura figlia naturale di re Roberto d’Angiò e quindi consanguinea di Giovanna. A Boccaccio, tutto preso da un sogno proibito – quello di poterla amare – veniva in mente un canto napoletano che diceva: E tu se’ come l’àlbaro sottile che co’ vento se mòve atturcicàto Tu danza danza senza dàmme fiato Jó te canto ma ‘sta tua gironda me fa murire Danza danza che la veste tòja va volando fòra e te làssa ignuda comme a ‘stu mùnno fussi nata ora. A quella Salomè – Maria infanta, figlia di re – Boccaccio, per non svelarne l’identità, cambiò nome. Scrisse per lei la famosa Elegia di Madonna Fiammetta, a lei dedicò più di un poema e addirittura la pose fra le figliole che raccontano il Decameron. Ma il nostro poeta non si accontentava di storie immaginarie con fanciulle impossibili, egli amava le donne anche nel reale, Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 13 fatto di abbracci e sconvolgenti notti di passione. Non sappiamo a che momento abbiano avuto inizio le sue avventure amorose, ma siamo a conoscenza di quanto fossero frequenti… se non altro, dal numero dei frutti prodotti: cinque figli, maschi e femmine, nati da quelle passioni. Ma chi erano e da che livello sociale provenivano quelle sue innamorate? Non lo sappiamo. Forse quelle creature provenivano da donne diverse? Anche di questo particolare, nulla conosciamo. Di sicuro, con nessuna di loro si era legato in matrimonio e, purtroppo, sappiamo anche che nessuno di quei figli gli sopravvisse. Ma torniamo alla Napoli della sua giovinezza. Siamo nel maggio del 1333: non conosciamo che malattia o morbo gli avesse procurato il decesso, ma Carlo, il giovane e unico figlio di Roberto d’Angiò, e padre di Giovanna, in quei giorni cessò di vivere. A questo punto il regno dovrebbe andare ad uno dei nipoti maschi, figli dei fratelli di Provenza e d’Ungheria, ma il vecchio re, maestro di gabole da baro, mette in campo un matrimonio da celebrare immediatamente: la sposa sarà la piccola Giovanna, sua nipote, che sarà data in moglie al cugino Andrea d’Ungheria, che ha la stessa età dell’infanta, cioè sette anni. Naturalmente, per un matrimonio tanto assurdo e inconsueto, bisognava ottenere il consenso e la dispensa dal Papa. Giacché oltre al permesso per le nozze fra due creature del genere, c’era da superare anche il problema del legame di sangue fra i due cuginetti. Ma, per fortuna, Clemente V era un sant’uomo: spregiudicato e di larghe vedute, tant’è che a sua volta aveva preso con sé una splendida e giovane nobildonna, Brunissenda di Foix, amata come un’amante e tenuta a palazzo come una moglie, assieme al figlio nato dalla loro santa unione. Quindi non fece questione. I napoletani accolsero la notizia con grida e canti festosi. Il popolo si rovesciò naturalmente alla marina: allo sbarco del piccolo principe d’Ungheria, il nuovo porto costruito da Roberto si colmò di navi e barche in tal quantità, che per farsi strada la galea reale sulla quale giungeva il nobile infante dovette forzare rovesciando più d’una imbarcazione. Ma tutto venne preso come segno di buona scaramanzia: la prua che sfondava i navigli era letta come un segno di gioiosa fecondità. Gli scugnizzi si gettavano in acqua dai moli d’attracco con capriole da delfino. Al passaggio dei due principi, le madri Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 14 sollevavano i propri figlioli che lanciavano fiori. I piccoli sposi erano abbigliati come bambolotti: vesti ricamate in oro e con pietre preziose in quantità. Sembrava partecipassero ad un gioco di maschere e burattini: uno spettacolo da teatro dei pupi, soprattutto per l’impaccio con cui erano costretti a muoversi i due bimbi, così ingoffati, per salutare la folla festante. Poi, giunti a palazzo, ecco che i due figlioli vengono issati su un palco con troni adatti alla loro misura. Giovanna prova a mettersi seduta, ma l’abito gonfio di trame e sbuffi non permette alcun movimento. Perciò, come fosse del tutto normale, dé se sola si slaccia l’abito e fra gli applausi dei presenti si lascia cascare ai piedi gonna e corpetto esclamando: «Oh, mò fàteme pijà fiato!» Quindi parlando in provenzale, si rivolge al suo minuto pretendente e lo incita: «Stràzze èsto tòi sgragnào e dàte plàçe con moi!» – cioè «Liberati di questo tuo gualdrappone e datti respiro con me!» Per il gaudio della folla degli invitati, i due prossimi sposi si scambiano il bacio rituale sfiorandosi appena le guance l’un l’altro, ma la folla vuole lo spettacolo col rito d’amore e grida: «Vasàteve ‘a vócca!» Il ragazzino non capisce, ma Giovanna fa un gesto come dire “datemi un momento” ‐ e appresso si lancia a braccia spalancate sul piccolo coniuge e lo bacia sulla bocca con voluttà. Un urlo di stupore festoso esplode nel gran salone. Quindi, musiche e danze. Tutti sono coinvolti nel ballo e, approfittando della bagarre rotante, i due ragazzi vengono ritirati dalle rispettive governanti e portati insieme in un luogo più consono e tranquillo. Bisogna pur consentire ai due promessi sposi di frequentarsi un poco perché si possano conoscere. Il ragazzino è giustamente piuttosto sconcertato e palesemente introverso: non bisogna dimenticare che è sì di stirpe provenzale – il suo avo più prossimo era Carlo Martello ‐ ma è cresciuto in Ungheria e fatica a comunicare con tutti quegli estranei, compresa la sposa. Giovanna, al contrario, si diverte come fosse tutto un gioco. In attesa che giunga la dispensa papale per il rito matrimoniale, bisognerà attendere forse un mese, cosicché i ragazzini avranno ogni giorno l’occasione di stare insieme e giocare con altri figli di nobili della corte. Giovanna si dimostra a tratti affettuosa con Andrea, ma più d’una volta scatta aggressiva con insulti verso chiunque la contraddica o cerchi di gestire il gioco. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 15 Finalmente giunge il giorno delle nozze solenni. Boccaccio è di certo presente alla festa e si troverà ad essere letteralmente trasportato di peso dalla folla, che si muove in tutte le direzioni per godersi le varie sfilate: da una parte le due cavallerie, quella dei provenzali e la magiara, con i guerrieri in arme da parata e centinaia di bandiere, dall’altra i nobili anch’essi a cavallo, che esibiscono stupendi costumi d’oro e d’argento con rosso e azzurro, compresa qualche dama che avanza trionfante. Ma gli applausi maggiori vengono raccolti dalle nobili magiare che scendono da Posillipo cavalcando all’amazzone, cioè non sedute di traverso ma a strizzacosce, alla maniera degli ussari. Nella cattedrale, fra due ali di armigeri in corazze dorate, fanno il loro ingresso lo sposo, scortato da damigelle d’Ungheria, e appresso la sposa che avanza seguita da uno stuolo di giovinetti, fra i quali sono ben visibili i suoi compagni d’infanzia: Filippo di Taranto e Enrichetto Caracciolo Rosso. A loro, la bimba è fortemente affezionata, anzi: è follemente innamorata di entrambi, che la corrispondono con autentica passione. Appena appresso, entra un altro dei suoi amichetti, il cugino Luigi di Taranto, fratello di Filippo, che diverrà il suo prossimo secondo sposo. Quindi, ecco avanzare le damigelle nobili della corte. Boccaccio trattiene il respiro: ha inquadrato la figura di Maria dei Conti d’Aquino, la sua Fiammetta o, se preferite, l’eterna Salomè – e si rende conto che da quella ragazza è completamente ammaliato. Tutte le altre figliole sembrano, al suo cospetto, delle comparse. Lei si muove con tale leggiadria da sembrare sospesa, come sfiorasse appena il pavimento. Per ultimo, fa il suo ingresso nella navata centrale il re. E qui, come di regola, si dà fiato alle trombe, il coro della cattedrale intona solenne il Gloria. Si giunge allo scambio di anelli, all’abbraccio finale e quindi i ragazzi, uno alla volta, baciano la sposa. Fino a quel momento Giovanna è apparsa sempre scherzosa e sorridente, ma come si ritrova ad abbracciare Filippo di Taranto, lo stringe a sé avvolgendolo disperata e scoppia in un pianto dirotto. A Giovanna, Boccaccio dedica un commento elegiaco che ritroviamo nel suo “De mulieribus claris”, una sorta di galleria delle donne più celebri della Storia, da Eva a Giovanna appunto. Nel breve testo egli salta tutta la storia dell’infanzia della regina di Napoli, di Gerusalemme e di Sicilia, di cui Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 16 abbiamo appena narrato, e inizia subito a presentare il ritratto della donna già matura. Queste sono le sue parole: «Ella fu sopra le altre famosa per potenza e costumi. Poiché viene insignita della corona regale, validamente ergendosi colla sua virtù, ella sconfigge bande di ventura e di rapina, scellerati che infestavano il suo regno ordinandolo in modo che chiunque voglia oggi passare per esso, sia povero che ricco, può farlo con sicurezza notte e giorno, se vuol, pure cantando». Quindi, fa l’elenco delle aggressioni subite da rivali e nemici e delle guerre sanguinose che le toccò mettere in campo: «difficoltà tutte che, non dico a donna, ma a maschi re forti e validi, sarebbero riuscite insuperabili». Naturalmente non giunge a narrare dei due mariti ultimi che sceglierà di sposare, giacché quando il poeta racconta della regina siamo ancora intorno al 1361 e Giovanna è giunta solo al secondo marito. Similmente, Boccaccio salta a piedi giunti tutta la tragica storia dell’assassinio del suo primo sposo, Andrea d’Ungheria, avvenuto nel castello normanno di Aversa ad opera dei nobili amici e parenti della regina – con Giovanna presente, seppur posta a dormire nella sua stanza mentre il marito veniva brutalmente massacrato dai congiurati. Né si preoccupa di narrarci del processo, con normali torture, ai sospetti partecipanti al delitto – processo a cui seguono le esecuzioni, più di trenta, nello spiazzo del Castel dell’Ovo, alla presenza di tutte le autorità e di migliaia di curiosi che urlano festanti ad ogni mozzar di testa o squartamento. Ancora, non fa cenno alcuno all’unica persona che, pur essendo fortemente imputata non viene condotta in giudizio, cioè proprio la regina in persona. Quindi come si dice a Napoli, è evidente che Boccaccio non ha voluto “sfrugujare ‘a mazzarella a San Gennaro”, cioè provocare rabbia e risentimento in potenti ancora vivi e vendicativi, ed è questa la ragione che lo consiglia a censurare tutti i passi pericolosi della storia di Giovanna. Ma la scantonatura più smaccata, il maggiore fra tutti i nostri contastorie la mette in campo quando si tratta di dare la propria testimonianza riguardo al coinvolgimento della regina di Napoli nell’eliminazione fisica del suo consorte. Tanto per cominciare, Boccaccio, proprio all’inizio della storia, non accenna alcunché sul colpo basso di Giovanna, che si fa incoronare unica signora regnante costringendo lo sposo, Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 17 figlio di re magiari, a farle da principe consorte. Come minimo ci si poteva aspettare, dal favellatore massimo, che ci raccontasse dell’indignazione dei regnanti d’Ungheria, e soprattutto di quella d’Andrea, che arrivò a minacciare di far fuori tutta quella masnada di nobili parassiti che incitavano la regina perché arrivasse a cancellare dalla reggenza i magiari in blocco – così da potere prendere il loro posto con gran vantaggio. Non spende parole nemmeno in seguito al delitto, per avvertirci che il fratello dell’assassinato, Luigi re d’Ungheria, ha deciso di scendere con fanti e cavalieri fino a Napoli, per imporre un giusto processo ai criminali del complotto, soprattutto alla sposa della vittima. Ma noi sappiamo, grazie ai racconti di numerosi cronisti del tempo, che Giovanna non attese il sopraggiungere dell’armata ungherese, ma nottetempo salì su un galeone provenzale e di lì a qualche giorno sbarcò a Marsiglia, da dove raggiunse il Papa, ad Avignone. «Che debbo fare?», chiese disperata al Santo Padre, nato suddito degli Angiò. E Clemente V le rispose: «Figliola cara, ti sei posta in una disperata situazione. L’unica, per calmare quell’orda di magiari scatenati, è che tu ti faccia giudicare da un tribunale di giudici di rango, come quelli che teniamo qui in Avignone – e ancora il pontefice aggiunse – Attenta: che con la sentenza che ne uscirà tu vai rischiando la tua testa, oltre che la corona, quindi bisogna trattare sottilmente la questione. Non ti illudere si possa corrompere questi nostri magistrati col denaro… ma ci si può arrivare solo offrendo benefici legati alla loro carriera, col dono di qualche palazzo o podere, nonché qualche tenuta da caccia con una ricca peschiera annessa... Per questo ti chiedo un sacrificio: che, per questa operazione, tu metta a disposizione tutti gli averi che possiedi in Provenza». Giovanna sussulta: «Ma… tutti, proprio tutti?!» «Sì, tutti – compresi ponti, acquedotti e casini di caccia». «Ma tu mi chiedi di spogliarmi del regno intiero!» E il Santo Padre di rimando: «Cara, stiamo parlando di teste da salvare... scegli tu!» «E a chi dovrò intestare tutto questo possedimento? » «A una persona di prestigio… e intorno non vedo che me, mia dolce figliola». Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 18 Così Giovanna ebbe salva la testa e il Santo Padre acquisì un regno intiero. La sentenza fu memorabile: un capolavoro di giurisprudenza. Si decretò che Giovanna fosse sì da ritenere colpevole d’aver partecipato a quell’orrendo delitto, ma senza coscienza di commetterlo, giacché si trovava sotto incantamento, o se preferite, ammaliata, a tal punto che la sua «fragile natura di femmina non aveva potuto resistere» a quel diabolico plagio. Questo sì che era un tribunale di giustizia degno di quel nome. Farsa basata su DIDONE A questo punto, però, dobbiamo chiedere venia a chi ci sta ascoltando. Boccaccio non merita queste nostre critiche così spietate. In verità, con troppa fretta l’abbiamo tacciato d’esser pusillanime: leggendo con più attenzione i suoi scritti, ne abbiamo infatti trovato, proprio sulla cronaca del regno di Napoli, che gli rende giustizia. Si tratta di un commento piuttosto feroce verso la nostra regina: Eccovelo: «Urlate di indignazione e dolore, donne del nostro tempo, osservando il corpo esanime di questo giovane principe trucidato; e chinate il capo, coscienti che fu donna nobile e cristiana a tramare con i sicari. Ancor più sgomente vi farete scoprendo le ragioni che portarono quella donna spietata all’infame delitto. Non fu per offese subite o tradimenti del maschio: fu per lussuria che quella femmina dal cuore di bestia feroce si liberò dall’ingombro marito. E infatti, che differenza passa tra il cercare e l’ottenere l’amplesso di tanti giovani di bell’aspetto e fisici modellati e il praticare i postriboli, secondo l’esempio di Messalina? Non per vero amore, quindi, ma per sola libidine, questa signora concupiva amanti uno appresso all’altro, spinta dal un insaziabile appetito di sesso». Aa..accidenti: scusate, non avevo letto bene il titolo del brano! Qui Boccaccio non sta parlando di Giovanna, ma di Martesia, la scellerata regina delle amazzoni – che, ad ogni cambio di luna, si dava a giovani caduti nella sua rete… per poi ucciderli e passare ad altro sgavazzo. Quindi, come non detto… e passiamo più avanti. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 19 A questo punto possiamo tornare a Boccaccio e al suo Decameron ma sempre facendo mente locale al clima politico, sociale e culturale di fondo in cui si muove ciascuna vicenda che andremo a raccontare. Qui è venuto il momento di trattare con molta attenzione quale sia l’impianto architettonico del Decameron. Attraverso questa analisi ci renderemo conto che il pregio più fastoso nell’impianto strutturale consiste nell’aver inserito, oltre alle favole elegiache e fra quelle più spassose o commoventi, il contrappunto ostinato della costante tragica della morte. Situazione scenica, questa, che più tardi ritroveremo sia nelle opere degli elisabettiani che in Molière e addirittura nell’opera più importante della cultura orientale cioè la straordinaria raccolta di favole conosciuta come “Le mille e una notte”. Ancora in queste opere s’affaccia prepotente, all’improvviso, sempre in contrappunto alla morte, la donna sia come narratrice che come personaggio principale delle vicende sceneggiate. Qui dobbiamo ammettere che fra le grandi doti di Boccaccio c’è proprio quella di aver posto, alla maniera delle grandi tragedie greche di Euripide e dei fabliaux dell’XI e XII secolo, il mondo femminile con le sue protagoniste in primo piano, rendendo la donna interprete spesso assoluta del racconto‐spettacolo. NOTA (È risaputo che al tempo del teatro elisabettiano le favole del Boccaccio erano già state tradotte in inglese e messe in commercio a Londra). Non a caso il racconto delle storie facete e seriose del Decameron viene proposto da un gruppo di sette figliole e tre ragazzi, che da Firenze si sono trasferiti sulle colline toscane per sfuggire alla peste che sta decimando gli abitanti di città, paesi e borghi dell’Europa intiera. Nella sola Firenze, che contava circa 70.000 abitanti, i deceduti sono più di 30.000 ed è sorprendente che a organizzare e a proporre questa vera e propria esibizione narrativa siano state proprio loro, le Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 20 femmine, a cui spetta il compito di narrare il maggior numero di novelle. La festosa brigata tenta attraverso quei racconti di contrastare l’angoscia della strage. Ad ogni modo, sempre a proposito del Decameron, Boccaccio non si limitò a redigere una raccolta arraffandola alla bell’e meglio, ma si impegnò a dare un assetto organico a tutta l’opera, ad alternare con sapienza e gusto le varie storie, e soprattutto a presentarle con uno stile rotondo e pulito, evitando le sviolate saccenti dei soliti eruditi. E’ palese che a questo scopo Giovanni Boccaccio, oltre a indirizzarsi ai classici, si sia rivolto innanzitutto a studiare e a far tesoro della straordinaria produzione dei giullari di tradizione popolare: a partire da quei fabulatori, maschi e femmine, che produssero i famosi fabliaux. I fabliaux sono racconti, per lo più monologhi, creati a cominciare dal decimo secolo in Francia. Gli autori sono spesso chierici e anche qualcuna di quella femmine geniali che si esibivano di solito in taverne e locande. Fra le raccolte più famose segnaliamo quella curata da Rosanna Brusegan per Einaudi. Proprio in quell’edizione ritroviamo favole satiriche di inimitabile fattura, ideate e, soprattutto, recitate in quel tempo da una ben nota giullaressa della Francia medioevale. Boccaccio, seguendo l’esempio di Dante, suo vero maestro, a sua volta raccolse soprattutto testi della tradizione popolare italiana, provenienti dalle varie aree culturali, a partire dalla Sicilia, fin su nel Napoletano e per arrivare al Nord, in Veneto e in Lombardia. Qui sicuramente ebbe occasione di scoprire a sua volta gli scritti di fabulatori noti o anonimi di Padova e Verona, quali il testo detto “Lamento di una sposa padovana”. Si tratta del disperato racconto di un’ancor giovane donna il cui marito è partito alla Crociata. È da qualche anno che attende il suo ritorno, ma non vedendolo spuntare ha ormai perduto ogni speranza. Un giorno appare alla sua porta un uomo senza età, dal viso emaciato, gli abiti logori. Costui si presenta come giullare e dice di essere partito per la Guerra Santa al servizio di un nobile di Francia. Il nobile con i suoi armati è caduto prigioniero del feroce Saladino e di lui non ha più saputo nulla. Il giullare parla con fatica la lingua veneta Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 21 poiché a sua volta è straniero: mezzo tedesco, mezzo croato. Vorrebbe raggiungere il suo Paese ma, ahimè, nella sua mente si è creata gran confusione: non si ricorda da che luogo sia partito e se per caso tenga pure una famiglia. All’istante esplode in lacrime. Commossa la donna lo accoglie fra le sue braccia e anch’essa si scioglie in un pianto. Alla fine, il cantore senza patria viene invitato dalla sposa a dimorare da lei. Si susseguono giorni sereni e la sposa si libera dalla sua disperazione raccontando del suo amato sposo, il cavaliere perduto, mentre l’ospite sembra recuperare qualche ricordo. Ad un certo punto, mentre brindano a questa nuova amicizia, ecco che la donna si trova ad abbracciare il forestiero. Lui si alza in piedi urlando in perfetto pavano: “Ecco, lo savea! Ti se’ ‘na sguancia puta! “O Deo Segnor, ti se’ meo marìo tì! Tì ma’ ziogad ‘na trapola infame!” Quindi inaspettata, la sposa esplode in una gran risata: “Ma tu credevi davvero che io fossi cascata nella tua commedia e che non t’avessi riconosciuto, se non altro per quel papocchio di parlata tedesca mista a croato al quale non avrebbe creduto nemmeno l’ultimo degli imbecilli! E poi quel presentarti con la viola per farmi credere d’essere un cantastorie! Di nascosto ho provato a strimpellarla, è tutta stonata da crearti i brividi. Facendo lavare i tuoi abiti poi ho ritrovato un paio d’occhiali che ho subito riconosciuto essere i tuoi. Quindi fammi il favore, prendi la tua roba e vattene fra i Croati, quello è un mondo creato apposta per te. Finalmente sono libera e felice! Sloggia da casa mia!”. “Ma ti te credea de bon che mì fuessi cascò in la tua comedia e che no te avesse reconosciut o tortolon! Ma a chi te vorseva far creder d’esser un tudesco co’ quela parlata de strogoto inciucat! E po’ arivar chilò con stà viola in man per farte credar un jugular cantor. Mì de nascundon gò cercà de sonarla ma l’è tutta stortonada de farte venir i sbrisoli anca sul cul! Das po’ fazendo lavar i toi vestimenti co la gionta de le tò braghe gò truat un para de ogiai che gò al’imediata reconosciuo. Son tò sti védar. A sto punto fame ol favor, cata li tò strasci e vate fra li Cruat che quel è l’è un mondo facto aposta per tì. Alfin son pur fata libera e feliz! Fora da la mi casa! Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 22 Il marito le si getta ai piedi, chiede perdono ma lei lo scalcia. Poi però alla fine i due si lanciano l’uno nelle braccia dell’altra giurando entrambi che d’ora in poi non faranno più manfrine di sorta. Lui bestemmia le Crociate e tutte le guerre di religione, salvo quelle di conquista. Qualcuno bussa alla porta. All’unisono i due urlano: “No ghe semo per nisciun! Andit via!” Ma i botti all’uscio continuano. La donna esce quasi imprecando. Si trova davanti un giovane che chiede: “Se l’è sucedut cos’è?”. “O, niént, amór dei me ògi me marìo l’è tornat, vedemose diman ala stessa ora al mismo posto de sempre, amor de’ me ògi”. Con la stessa chiave scenica ritroveremo una favola del Boccaccio nel Decameron con soluzioni di svolgimento analoghe. Allo stesso modo, certamente, altri autori che il poeta toscano ha consultato sono Bescapé e Bonvesin della Riva suoi contemporanei lombardi e ancora il giullare di almeno un secolo prima detto Mattazzone da Calignano (della provincia pavese), ben conosciuto per la sua giullarata in dialetto padano sulla nascita del villano. Mattazzone si immagina che l’uomo, ormai affrancatosi alla terra, chieda al Creatore di offrirgli un aiuto per alleggerire la fatica nel lavorare i campi e nell’accudire le bestie. «Ho capito – esclama il Padreterno – tu mi chiedi che io ti procuri un villano». «E chi sarebbe costui?» «E’ uno che ha sembiante di uomo, ma è più prossimo agli animali di quanto non appaia». Così dicendo il Padreterno si fa presso a un asino che sta transitando da quelle parti, solleva il braccio e disegna uno strano ghirigoro intorno al corpo dell’animale. All’istante l’asino resta gravido e, di lì a nove mesi, ecco che la bestia sforna: co’ una sbrufàda dal cü una creadüra scenciunàda de merda. Pö, de bòto, ‘n’altro mouvmént de bràssa e stciòpa ‘na sciacquàda dal ziél che subito piöve adòso al vilàn come tormenta, perché subitaménte se faga cosienza de la vita che ghe se presenta. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 23 All’istante, questo brano ci fa venire in mente La Caccia di Diana del Boccaccio. Dove incontriamo rozzi animali, che educati all’amore, diventano esseri umani. Insomma Giovanni il Novellatore non si fa scrupolo di far proprio qualunque testo con idee particolarmente originali che incontra, specie quando quei nuovi temi presentano svolgimenti scenici fortemente teatrali. Una chiave di struttura e svolgimento adottata dalle rappresentazioni popolari sia sacre che profane di tutto il Medioevo. Infatti tutto il Decameron è in verità un’opera non tanto da leggere, quanto piuttosto da ascoltare, rappresentata in spazi scenici anche occasionali possibilmente da attori valenti. Questa è la ragione che ci ritrova pienamente d’accordo con quei critici e ricercatori della cultura rinascimentale più che convinti che i principali autori del nascente teatro cinquecentesco come Della Corte, Bibbiena, Machiavelli e Ruzante, abbiano poi attinto la maggior parte delle situazioni grottesche e tragiche proprio dal Decameron. Ma l’attenzione per l’opera massima del Boccaccio non si ferma all’Italia dell’Umanesimo bensì, grazie ai comici del teatro dell’Arte costretti a emigrare dagli editti della Controriforma tra la fine del Cinquecento e per tutto il Seicento, raggiunge tutti i più importanti Paesi d’Europa. Tant’è che ritroviamo chiavi di svolgimento tratte dalle favole del Boccaccio perfino in Shakespeare e in Marlowe, per non parlare poi di Molière e dei maggiori autori spagnoli quali Rojas con la sua “Celestina” e perfino Cervantes. E non bisogna dimenticare l’attenzione che ha portato verso le novelle del Decamerone Goldoni. Appunti: I FIGLI DI BOCCACCIO e GLI AMORI SEQUENZA DELLE FAVOLE NEL DECAMERONE La prima fra le storie raccontate è quella che vede come protagonista un personaggio a dir poco sconcertante. Boccaccio si presenta quindi ai lettori del Decameron mettendo in scena immediatamente il suo mondo reale, Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 24 quello che egli conosce fin da ragazzo e che ha appreso forzatamente. Stiamo parlando del mondo dei banchieri e dei bancari, di quella società di operatori che devono apprendere oltre che i numeri della contabilità quelli delle percentuali di tassazione e di prestito, i dividendi e la macchina dei profitti, che spesso si traduce in un ordigno di vera e propria furfanteria. Quel personaggio che ci offre, il novellatore l’ha conosciuto proprio da vicino ed è quasi doveroso per lui usarlo come figura narrante il prologo. Un vecchio esattore specializzato in riscossioni di debiti si ritrova a Parigi dove sta mettendo in atto una serie di raccolte forzate. Le somme di denari dati in prestito vengono da lui recuperate su commissione delle banche con grande scaltrezza e con veri e propri ricatti da strozzino. All’istante l’esattore si sente male e si rende conto che sta morendo. Nel letto agonizzante parla tra sé e sé come in un delirio nel quale ricorda le truffalderie messe in atto nello svolgimento di numerose operazioni di riscatto monetario. Sappiamo così che egli disprezza tutto di questo mondo, salvo il denaro e il potere. Non ama le donne ed è dedito alla sodomia. Per realizzare i suoi impegni da estorsore si serve anche di atti violenti e infami ricatti. È un miscredente da gogna, l’unico pensiero che lo preoccupa è il fatto che, privo com’è d’una fede religiosa, senza la protezione di alcuna confraternita di appartenenza la sua salma finirà in una discarica di immondizie, (la famosa “guanda” medievale). Il suo vaneggiare è ascoltato da due giovani che l’hanno accolto nella loro casa. Essi, commentando quella confessione, si dicono preoccupati per il fatto che la morte nella propria casa di un anticristo del genere procurerà loro una grave perdita di considerazione. Il vecchio estorsore a sua volta è riuscito ad ascoltare i commenti preoccupati dei due ospiti suoi e promette loro che farà di tutto per agevolarli e far sì che alla sua morte essi abbiano grande vantaggio anziché danno. Il moribondo chiede di potersi confessare ma insiste perché a farlo sia un sant’uomo di grande prestigio religioso. Di lì a poco giunge nella casa un umile frate ritenuto grande saggio e in odore di santità. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 25 Subito l’esattore gli si presenta come uomo angosciato per i suoi peccati che egli reputa gravissimi e soprattutto per non aver avuto il tempo di redimersi. Dichiara, fra le lacrime, di meritare pene durissime, una volta trapassato il confine della vita. Quindi inizia un elenco di infamità commesse. Il sant’uomo lo ascolta e ne rimane letteralmente sconvolto. Quel cristiano che gli si confessa con tanta passione nell’animo, in verità risulta essere l’uomo più candido mai conosciuto. I suoi peccati sono a dir poco inesistenti: denuncia di sé d’aver maledetto solo nella mente la propria madre per un attimo ma quella colpa lo perseguita dall’infanzia, ancora s’accusa di aver pensato male di persone che poi ha scoperto essere innocenti. Ha mentito per non offendere uomini e donne sfuggendo alla sincerità che è uno dei più grandi valori che Dio ci abbia offerto. Si è cibato con avidità partecipando a feste sontuose, dimenticando i poveri che battono affamati alle porte d’ogni casa. Ha avuto pensieri lascivi verso femmine che attraversavano il suo cammino, perfino in chiesa, mentre pregava, gli è capitato di sentirsi affascinato dalle coriste che dedicavano inni al Creatore. Ha in verità tentato di ripagare il Signore soccorrendo afflitti e moribondi anche affetti da lebbra e peste ma senza sufficiente slancio, provando spesso repulsa e terrore mentre li abbracciava ormai inerti. Ha visitato le carceri e pur ascoltando i lamenti dei prigionieri, si è limitato a qualche aiuto e a offrire loro parole di conforto. Solo parole. E qui egli esplode in un lamento disperato ripetendo fra le lacrime: “Chi mi potrà mai salvare?”. Il pianto è talmente struggente che anche il sant’uomo confessore a sua volta non sa trattenere le lacrime, lo abbraccia ed esclama: “Non temere, Iddio ti accoglierà con grande affetto poiché la tua è un’anima santa”. E così ecco che i funerali dello strozzino si celebrano con la partecipazione di una gran folla di fedeli giacché il sant’uomo confessore tiene nella grande chiesa più di un discorso, ‐ meglio dire delle omelie ‐ a glorificazione di quel beato che in questo momento, certo, sarà fra le braccia del Signore, in cielo. GIORNATA II – NOVELLA I Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 26 Martellino, giovane protagonista insieme ai suoi compagni di lazzi e buffonerie si ritrova a una festa di religione molto popolare a Treviso, allora chiamata Trevigi. Per celebrare il santo di nome Arrigo in molti fedeli sono scesi dalle valli e dai borghi anche lontani. Alcuni storpi e azzoppati sono accompagnati da parenti e amici nella piazza perché al passaggio delle reliquie del patrono della città sperano di ricevere la grazia che li tolga da quelle infermità. All’istante, per burla a dir poco blasfema, Martellino che a capo sta della brigata come il meglio buffone e mimo, si scompone tutto nel corpo torcendo gambe e piedi e anco le braccia così da apparire il più disgraziato fra gli storpi mai veduti. Al passaggio delle reliquie, egli all’istante manda un grido e inizia a biascicare parole senza senso ma che nel suono e nelle cadenze fanno intendere ch’egli stia invocando un intervento pietoso del santo acciocché possa tornare sano e ritto nel corpo. I compagni suoi trattengono a mala pena le risa, lo stolto giullare a questo punto va strafacendo poiché si finge preso da lampi di calore e vibra in tutte le membra a tratti saltando quasi in aria come scosso da fremiti, si capovolge fino a restare in equilibrio in verticale su di un solo braccio, quindi rotea in una capovolta da saltimbanco e ricade fra le urla dei fedeli che partecipano stupiti a quella sceneggiata. L’agile Martellino, fedele al suo soprannome, ora sta esagerando con i contorcimenti e i salti per aria fino a raggiungere una base di statua ridotta a frammenti e gli si sostituisce ponendosi braccia in aria e con piedi e gambe in posizione di danza. Esplode un applauso di gioia, seguito da: “Miracolo! Miracolo! Il santo Arrigo l’ha guarito!” ma i compari del buffone non sanno trattenere le risa e scoppiano in uno sghignazzo troppo evidente. A questo punto la gente intuisce la beffa oscena di cui è vittima e qualcuno grida: “Sacrilegio! Ci si sta prendendo gioco del santo nostro!”. Un attimo e una gran folla è addosso al finto miracolato. Pedate e schiaffi lo scaraventano per terra e qualcuno ha già appeso una corda con cappio a un palo con traverse e ha fatto scendere il cappio infilandolo al collo del pagliaccio. Per sua fortuna intervengono le guardie che lo salvano ma lo trascinano davanti al giudice nel Palazzo della Ragione. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 27 Costui gli chiede se non provi vergogna per quell’atto insensato. Martellino esplode subito in un pianto disperato: “Non so cosa mi sia preso. Forse il demonio è entrato in me e mi ha portato a compiere quella infame buffonata! Non ero io che mi muovevo! Lo giuro sul capo di tutti i miei amici, e parenti! Ma non c’è nulla che mi possa salvare, io merito un castigo duro che mi faccia apprendere l’essere onesto e rispettoso. Merito davvero di trovarmi ridotto storpio come mi ero finto”. E il giudice di rimando: “Mostrami un po’ come ti era riuscito di trasformarti nella tua spudorata metamorfosi”. Detto fatto Martellino emana un grido quindi tutto comincia a contorcersi e a capovolgersi in un gesto da acrobata disossato e quindi a gemere e a stravolgere di nuovo tutto il corpo suo fino a gettarsi in aria e a ricadere ritrasformato in gesto di danza. Il giudice non può fare a meno di applaudire. “Sei un fenomeno!” esclama ‐ “Da una parte meriti la corda al collo, ma dall’altra c’è da stupirsi per tanta duttilità con cui gestisci le tue membra. Dammi retta, ripiegati ancora da storpio fino a entrare in quella cassa” e indica un baule. “Se ce la fai, sei salvo”. Il nostro buffone si torce rapido e con un balzo sparisce dentro la cassa e da sé solo richiude il coperchio. Il giudice ridendo ordina a due guardie: “Sollevate quel mobile e trasportatelo fuori di città. Una volta giunti al fiume gettate il baule in acqua e se riuscirà a galleggiare lasciate che sia trasportato dalla corrente”. Così avviene e Martellino è salvo. Una volta galleggiante apre il coperchio e si lascia trascinare dal fiume fino a Padova. Così, come la janglerie del contorcimento l’aveva posto in grave pericolo, allo stesso modo l’abilità buffonesca del contorsionista gli salva la vita. INTRODUZIONE IV GIORNATA Filippo Balducci fiorentino, non nobile, ma ricco, fu colto da tremenda sventura. Amando egli con gran passione una sua donna che gli aveva donato da poco un figliolo, all’improvviso ella gli mancò. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 28 Il dolore del giovane sposo fu terribile, egli disperato lasciò ogni suo bene a una comunità di povera gente e tenendo fra le braccia la creatura se ne salì per l’alpe fino a un eremo, nel quale si pose col bimbo vivendo di radici e bacche, come usano gli animali, ma pregando in ogni momento Dio che lo facesse sortire da quel suo dolore. Passarono mesi e anni, e ogni tanto l’eremita lasciava suo figlio solo per qualche giornata, nel tugurio, per raggiungere Firenze dove si incontrava con gli amici della comunità che aveva aiutato. Quindi, tornava lassù fra i monti nell’eremo dove il bimbo intanto cresceva come un piccolo animale selvatico e del tutto ignaro delle cose del mondo. Un giorno, quando il padre stava apprestandosi a ritornare per una sua visita a Firenze, il figliolo lo supplicò di portarlo con sé. Il padre cercò di dissuaderlo a questa esperienza, ma alla fine, per l’insistenza del figlio, che ormai aveva raggiunto i diciotto anni, accettò. E qui lasciamo parlare della sua città Boccaccio in persona. Ecco le sue parole: «Il giovane, veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali tutta la città piena si vede, si cominciò forte a meravigliare e di molte dimandava il padre che fossero e come si chiamassero. E così, per ventura, si scontrarono con una brigata di belle e giovani donne ed ornate, le quali, come il ragazzo vide, subitamente sorpreso dimandò il padre che cosa quelle fossero. A cui il padre disse: “Figliuol mio, bassa gli occhi a terra, non le guatare che quelle son mala cose”. Disse allora il figliolo: “O come si chiamano?”. Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole desiderio men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse: “Elle si chiamano papere e le più giovani e leggiadre paperelle”. Colui, il figliolo, che mai più alcuna di quelle non n’avea veduta, non curatosi più dei palagi, dei cavalli e dei denari, disse: “Padre mio, io vi prego che voi facciate che io abbia subitamente una di quelle papere”. “Ahimè, taci, elle son perigiose creature”. Ma il figlio rispose: “Io non so perché queste siano come voi dite perigiose creature, ma a me non è mai paruta vedere cosa Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 29 così preziosa. Elle sono più belle che gli agnoli dipinti che voi oggi nello battistero m’avete mostrato. Voi mi prometteste un dono allo mio completamento d’anno. Ora ve prego, donateme una de quelle papere così che io la possa portare con me lassù e le darò beccare”. “No, io non ti vo permettere. Tu non sai dove elle s’imbeccano!” “Lo apprenderò, quella me ne darà la diritta”» E così dicendo si getto appresso ad una figliola e la afferrò per la vita sollevandola come ci volesse danzare. Lo straordinario, è che quella “paperella” rise di gioia e all’improvvisa si abbracciò al collo del figliolo e insieme disparirono fra la gente del passeggio. Il padre cercò di raggiungere i due giovani, ma, per quanto girasse di diritto e rovescio per la piazza e le strade attigue, non li riuscì di ritrovarli. La sera, stanco e disperato il padre torno lassù all’eremo, ma giunto al ponte che attraversa l’Arno fu colpito da un malore, si piegò sul parapetto e cadde giù dal ponte nel fiume per poi sparire. Il figlio, rimasto solo con la fanciulla, interamente sconvolto da quell’incontro, se ne stava seduto con lei sulla riva dello stesso fiume e riempiva di domande la ragazza. «Chi se’, da dove vieni, qual è lo tuo nome?» Ed ella de rimando: «Io me chiamo Eva». «No, impossibile, tu me burli!», esclamò ridendo il ragazzo. «Che te burlo! È lo mio nome… che c’è di tanto strambo nel chiamarsi Eva?» Ed ello: «Perché? Perché io mi chiamo Adamo!» «Ma guarda che curiosa occasione, l’è come uno sortilegio: entrambi noi siamo come le prime criature dello Paradiso». «Ancora devo dirte che io – aggiunge Adamo – so’ remasto solo co’ lo padre mio». «Ell’è già una fortuna – commenta la figliola – io so’ remasta senza né madre, né padre fin da che son nasciuta… e te devo di’ che ell’è la prima vòta anco pe’ me che giongo a Fiorenza, giacché tutta la ‘nfanzia mea l’ho passata su le balze de de li monti de la Lunigianae no’ so ‘ndata manco a scola!» E Adamo je chiede: «E chell’è la scola?» Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 30 «Ei! Se va de bon concerto fra tutti li dói! Ce convegne porci ‘nu campanello allo collo, come le pecorelle, pe’ no’ perdersi torno torno!» E così, tegnendose per le mani e ridendo, s’avviarono su per le raspe che portano alla montagna. Adamo, quello giorno mismo, ell’era disceso a Fiorenze con lo padre, ma mò nella salita non ritruovava la via, così ché se persero e giunsero a traversare una vallata dove steveno di molte grotte abitate da romiti. Uno de questi, scorgendoli dall’alto, s’affacciò alla rupe e comenzò a cridare: «Temete lo Diabbolo‐Dimonio che se annida en ogni creatura, travestito de bellezza! Come l’avrete riconosciuto ricacciatelo tosto nello sóo infermo a castigare!» E de po’, all’estante, de novo derentro l’antro suo se despare. L’Adamo, innervosito: «Ma dico... è lu modo cotesto de darce avvisata?! Eva! Eva... ma chi è ‘sto Diabbolo‐Dimonio?» «Adamo, non stare a vociare, ché qui siamo soli e ce sento de molto bene assai! Forse dev’essere qualcuno che sta contro lo Signore». Entanto aveveno represo lu cammino e gionsero a veghé lu monte, co’ l’antro dov’era locato l’eremo sójo. «E dove sta ‘sto Diabbolo, Eva?» «Dice che s’annida in ogni creatura... travestito di bellezza...» «Quindi Eva… anche dentro di me si può annidare!» Ed ella di rimando: «Beh, anco pure dentro di me allora se potrebbe ficcare!» «Sì, Eva, invero ell’è più facile che stia dentro de te il Diabbolo‐Dimonio... travestito de bellezza...» «Io? Potrei essere io il Dimonio travestito di bellezza?» La figliola se sentì tutta avvampare de rossore che quasi desvegniva. «Bella… quindi mi vedi bella! Oh, t’abbraccerebbe!» «E che aspett’a pruovarlo?» E così la figliola, lanciandogli le braccia introno al collo, cridò: «Sì, so’ io lo bello Diabbolo‐Dimonio e ti trascinerò allo meo Inferno!» E Adamo je dimanda: «Ma che è ‘sto Inferno? «Forse è ‘no loco, uno anfratto, una prigione dove si deve cacciare ‘sto Diavolo per darci uno castigo». Dio, che li avea combinato ‘sto romito co’ la soa profezia! ‘Sto rintronato dell’Adamo mò scorgea lu Dimonio en ogni loco e sortiva come de senno per ogni gestuare. Steveno jocando derentro l’antro dell’eremo... come due ragazzini a rotolarsi abbracciati derentro l’erba e nell’istante che Adamo avea Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 31 sollevata nelle sue braccia Eva... de botto la gittò a terra con gran tonfo. «Ma che te piglia? Me voi stronca’ l’ossa?» «Fora!», cridò Adamo, e la sollevò all’istante e la gittò al de là dell’entrata. «Fora! – le gridava ‐ Vattene fora! Vattene! Torna nello tòjo Infierno!” e s’era serrato derentro la caverna, tappandose con la steccionata. «Ma te tu se’ sortito pazzo?! Non fa’ l’allocco... Io no’ so’ lo Diabbolo, te ‘l vo a giurare!» Eva pruovò ad entrare supplicanno, ma non v’era nulla da fare. S’era abbarricato! La figliola quasi piagneva: «Adamo, non lasciarme sola... Sta scennendo lo scuro... e non so’ bona de dormì sola! Me fa paura». Nulla, non responne. Eva s’accovacciò appresso alla tana, attese e intanto la poveretta se pruovava ‘no qual che cosa che le strizzava lo gargarozzo. Chello è lo “dolore”... Ell’era la prima volta che pruovava lu “dolore”. Cercò de piagnere nu poco... «forse me consola – pensava – Macchè… non me scende lacrima... e me cresse nu magone sordo che me spacca lu core». Va via la luna... vien buia la notte... nemmanco se vegheno più le stelle... Uno zizzagare improvviso di lampi spacca il cielo... Un boato! E piove... piove a dirotto... «So’ cussi desasperata che non me ’mporta d’annàmme a ripara’». Altre frecciate di lampo. Vegnono abbasso tocchi di ghiaccio. «Che è?! Mi acchiappa il freddo con i tremori. Non sento più le mani... le gambe. Mi lamento». La steccionata si muove. S’è deciso infine! S’affaccia Adamo. «Esce l’ommo meo… Oddio sto male... Me solleva... me porta nella tana... me strofina con le foglie secche... me strofina dappertutto. Mi chiama... “Eva...” non riesco a rispondere. Sono intorpidita perfino nella lingua. Mi chiama gridando: “Eva! Eva!”. Che bel nome che ho nella bocca sua! Sconvolto... m’abbraccia. Mi stringe. Mi alita sul viso... mi lecca la faccia. Piagne... Il ragazzo piagne per me… Piano piano mi riaffiora il Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 32 tepore. Me riesce, se pure con fatica, de movere le dita e le braccia. Lo abbraccio anch’io… Sento un qualche cosa che punta contro il ventre mio... Dio Santo che è, Adamo?! È un essere vivente?!» Lui, l’Adamo, si scosta appena: «Non so ‐ mi risponde imbarazzato ‐ anche il giorno passato mi era accaduto... e anche poc’anzi, quando t’ho sollevata fra le braccia mie, quando si giocava... è per ‘sta ragione che ti ho scacciata!» «Ma che c’entro io con quella tua propaggine che diventa vivace e spinge in fuori?» «Eva, mi si spinge in fuori soltanto quando arrivi tu sai... specie se ridi... e pure per il tuo odore». «È curioso alla risata e all’odore?... Non sarà un morbo, una malattia? Che so: un bubbone ridanciano?» «No, non mi dà dolore. Anzi!... Però mi turba... mi provoca gran calore perfino sul capo!» «Calore sul capo? Allora non deve essere un fatto naturale. Adamo, pensi che ce sia di mezzo lo Dimonio?» «Sì... io penso di sì Eva... Codesto, credo che sia proprio il Demonio lui stesso nella sua persona... Lui... travestito di bellezza!» «Beh, non esageriamo... Non mi pare ‘sta gran bellezza. Non ha nemmanco gli occhi!» «È chiaro che il Diavolo è accecato!” «Allora com’è che si ringalluzzisce per me, se non mi vede?» «Sarà che l’amore è cieco!» «L’amore? Da dove ti sorte Adamo ‘sta parola... che giammai l’ho sentita dire sulli monti miei: l’amore». «Non so... mi è fiorita così... all’improvviso sulle labbra mie... l’amore... che sarebbe quando mi sbotta ‘sta voglia che sbradorda di stringerti... di stropicciarti a rotoloni. Mi viene da gridare: amore!” «Anche a me... coglie ‘sta mattana. Proviamo un’altra abbracciata (stretta)?» E così se arritrovano de nuovo avvolti uno dentro l’altra ad attorcigliarsi di giochi e di carezze. «Sentilo di nuovo ‘sto Dimonio come punta!... E dove si vuole inficcare?» «Lascialo fare Eva... che voglio proprio vedere dove si incammina...» «Dio! Vuole ficcarsi quaggiù!... Stringe!... Mi manca il respiro...” «Non ti voglio dare offesa, Eva – dice con fatica Adamo ‐ ma io giurerei che in te sta nascosto ‘st’Inferno...” Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 33 «Mi sento abbrancare di pallore…credo, Adamo, di sapere dov’è ‘sto luogo... che mi ci sento il fuoco proprio dello Inferno!» «Dobbiamo dare ragione a quello romito che ci gridava: “Non appena che avrete riconosciuto ‘sto Dimonio, ricacciatelo nel suo inferno a castigare!” E castighiamolo – esplode di nuovo Adamo – castighiamolo ‘sto diabbolone!” Fuori, il cielo si spacca di fulmini... sferzate di vento scendono a scatafascio ad attorcigliare gli alberi, al pari dei due innamorati che s’abbracciano tra i sospiri... l’acqua ribolle fin dentro il mare. Pure gli animali si azzittiscono... solo loro due, Adamo ed Eva gemono quasi mugolando. «Dio! Dio! Se il Diavolo dell’Adamo ritrova tanta pazza gioia come me con il mio inferno – dice gioiendo Eva – quanto esso ci si impazza! Mi ci ingarbuglio tutta... non riuscirò mai di spiegarmi il ribaltone... lo sfarfallo... l’incrocchio... il trastullo... Che idea che hai avuto Signore Iddio, di imporre a lui, all’Adamo, il Diavolo e a me l’Inferno fondo! Che stramiracolo hai fatto mio Signore... Tu sei un Padreterno! Oh, alleluia Signore! Alleluia! E anche: Amen!» IL MARITO MORIBONDO • HASHISH SONNO • PURGATORIO • COMPLICE (PRETE, MEDICO CHE POTREBBE ESSERE SERVO DI LUI e D’ACCORDO CON LUI) Siamo alla terza giornata del Decameron, alla novella ottava. “Essa novella” è evidentemente ispirata a uno o più fabliaux del X‐XI secolo. Noi ci siamo permessi, giacché ne abbiamo trovato le tracce, di inserirci anche qualche variante scenica ispirata da fabulazzi nati qualche secolo prima in cui è stato creato il Decamerone. Ci siamo permessi, inoltre, su istigazione di Pier Paolo Pasolini, di inserire in questa storia brani di altre novelle di Boccaccio. Infatti, chi ha veduto lo straordinario film del regista sul Decamerone, avrà notato che tutta l’intera sequenza è ambientata nella conca partenopea e soprattutto Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 34 che i personaggi parlano ognuno rifacendosi a dialetti di Napoli e della Campania. Non è un arbitrio ma si tratta di una considerazione storica, cioè che a diciassette anni circa Boccaccio, come abbiamo già accennato, si trova a Napoli dove abita e vive per i prossimi anni della sua giovinezza. Ed è li che comincia a scrivere in volgare, ispirandosi intieramente a quella cultura delle conte che la terra napoletana sola ci ha offerto in tale gran quantità e bellezza. Ecco il racconto così come a nostra volta vi proponiamo. Come quasi di normale a Napoli, una coppia di sposi vive in un basso che dà sulla strada: una sola stanza col letto e cucina, tutto a vista e nell’interno ci stà una scala a pioli attraverso la quale si riesce a salire grazie a una botola fino al piano superiore, disabitato perché pericolante. La moglie, Rosaria, è femmina più ggiovene del marito Ferondo e di una bellezza e vivacità che incantano ogni omo che abbia l’occasione di avvicinarla. Issa ne è lusingata e vorrebbe corrispondere, ma lo marito che le sta quasi costantemente addosso non le concede spazio alcuno. Il marito, Ferondo, è pescatore, ma da tiempo non sorte più a mare perché dice de no’ volé finire en bocca a li pescicani, che da ‘na stagione en qua scorrazzano intorno alle isole dello golfo a comenzà de quella de Ischia e Procida. Ma, en verità, nulla lo trattiene dal passare le mezze journate insieme a una masnata di sfazzendati che jogano a carte e che co’ gioco d’azzardo se guadagnano la vita barando e truffando li coglioni, come illo, lo Ferondo che perde li sòi quatrini e anco chilli guadagnati dalla sòa mujièra. Essa, Rosaria, cerca de riportare vantaggio alla vita della famiglia lavorando al telaio, come del resto fanno di molte donne dei vari rioni, tessendo su macchine offerte loro a poco prezzo dalla generosa Confraternita degli Umiliati. Questa Congrega degli Umiliati, che ha origine nel Settentrione, è considerata da la ggente de sta città cumme una benedezione giacchè, ensegnando ai napoletani comme se lavura la lana e comme ce se fanno tele e lenzola, ha prodotto grande benessere. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 35 Rosaria, come ogni femmina de sta città, per muovere il telaio porta sulla strada il lavoro, cosicché mentre tesse può conversare con i passanti e con le altre femmine. Spesso Rosaria se intrattiene con ‘nu giovane della Confraternita degli Umiliati, che si incarica di procurare i telai e ritirare le tele tessute, sostituendole con nuove trame da intrecciare. Quel giovane di nome Benevenuto, che non è ancora monaco, ma solo novizio, s’è fortemente invaghito della splendida sposa ma non tiene coraggio de rivelarle la sua passione. Un giorno, mentre Rosaria si reca alla parrocchia per confessarsi, Benevenuto la segue restando nascosto tra la folla. Giunta alla chiesa, Rosaria si rende conto che il parroco e i suoi coadiutori sono tutti occupati a ricevere le confidenze di altri fedeli. Rosaria sta per andarsene dal tempio quando passando davanti a un confessionale che credeva vuoto, vede spuntare dalla tenda centrale del mobile una mano che le fa cenno di avvicinarsi. “Site libbero, padre?”. Le risponde una voce piuttosto roca: “Sì, figliola, per poco ancora, ma lo sono” e aggiunge: “Scusami se mi ritrovo in difficoltà con la parola ma è da stamane che ascolto e dò consigli a peccatori”. Naturalmente dobbiamo subito svelarvi che la voce gracchiante in verità è quella del giovane Benevenuto, che s’è infilato furtivamente nel confessionale e ha pensato di sostituirsi al confessore calzando la tunica che ha trovato sul sedile. “Dimmi quello che hai in cuore di confidare al Signore” biascica Benevenuto. Rosaria prende un respiro e quasi appoggiando la fronte alla grata che la divide dal falso prete, sussurra: “Sto molto confusa, padre. Vivo con un marito pellu quale tenghe affetto, ma non riesco ad amare. E ancora isso mi annuoia assai giacché non mi concede di descorrere manco con le compagne mie che fanno lo mio mismo travajo sovra i telai. Non parliamo poi se mi dilungo con i committenti che vengheno a ritirare la merce e a regolarla colla paga”. Benevenuto sempre mistificando la voce le chiede: “E chi sono quei committenti?” “Sò monaci degli Umiliati” è la risposta. “Bè, sò bboni ommini. E ce n’è qualcuno con lo quale più volentieri t’intrattieni?” Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 36 “Oh sì, padre. Ce ne sta proprio uno, bello, jovine e costumato, che me mira cò l’uocchi d’angiolone adorante. E quanno me tiene la mano tremma tutto per l’emmozione. “E qual è lu vostro sentimento verso chillo?” “Padre, jo credo in cor mio che sto fazendo gran peccato chè non puozzo dicere che sento amicizia per isso e basta, accussì! sarebbe gran menzogna se lo dicessi giacché a chillo figliolo jo ce vojo bene. Ce vojo bene assai”. “Pur’io!” dice Benevenuto, dimenticandosi di truccare la voce. “Che dite, padre?” esclama Rosaria. Si sente un tonfo aggiunto ad un grido. “Che d’è? Padre, siete cascato?” Ma il padre si leva con fatica ed esce dal confessionale portandosi via il sedile rotto e coprendosi tutto, anche il viso, con la tonaca. “Padre, rispondente! Che ve pija?” “Sò caduto, molto in basso sò caduto, nel peccato, ma sò felice!” e sparisce. Qualche giorno appresso il novizio Benevenuto giunge al desco del telaio dove Rosaria sta tessendo. Si sforza di essere disinvolto e saluta afferrando le tele, le solleva controluce e le muove a diritto e a rovescio come per esaminarle. Rosaria, senza smettere di spingere sul pedale, gli dice: “Non essere troppo severo con la trama che ho intessuto. Oggi mi sento accussì fuori sesto da combinare di continuo inciampi”. “E pecché? Cosa ti porta ad essere così maldestra?” “Il fatto è che ieri sono andata a confessarmi”. “Ah sì?” dice lui “devo andarci anch’io uno di questi giorni. Ma a te che t’è capitato?” chiede sempre con l’aria distratta il giovane novizio. “È capitato che il prevosto che mi confessava non m’ha dato l’assoluzione e, peggio, se n’è pure fujito scandalizzato”. “Scandalizzato? E da che?” “Dal fatto che prima gli ho detto che ero maritata e poi subito appresso gli ho raccontato che tengo pure ‘n’ innamorato”. “E gli hai detto pur’anco d’esser a tua volta presa da lui?” “Eh, sì.” “E gli hai detto pure di chi si tratta, nome e soprannome?” “No, non ce n’era bisogno” “Perché? “Perché lui lo sapeva di già” “E come fai a esserne così sicura?” Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 37 “Perché sei tu il mio innamorato”. “Cosa? che hai detto?” E lei, spiccicando sotto voce: “Se’ tu lo mio innamorato! Ma, ti prego, un’altra volta non infilarti più nel confessionale perché come confessore sei proprio da pijà a pernacchi!” A ‘sto punto entrambi vorrebbero gettarsi uno nelle braccia dell’altro, ma tutt’intorno c’è gente che transita curiosa d’ogni cosa, tanto che il giovane sbotta: “Ma quando riuscirò mai a starmene un momento solo con te, per poterti dire tutto quello che mi sta intasando lu còre e le cervella?” Ecco che appare Ferondo, il marito, chiamato «‘O Cappiello» pecchè se ttiene sempre ‘nu strambo berretto che nun se cava mai dalla capa manco pe’ annà a dormì. Isso è sospettoso e aggredisce entrambi i giovani: “Beh? È da un po’ che vi sto osservando. Che mercato state facendo? Ci vuole tanto a ritirare un paio di tele e a pagare il dovuto?” Risponne l’ Umiliato: “Hai ragione. Soltanto, dai un occhio qua che razza di trama ha messo in opera la tua mujera. Di sicuro, acussì scombinata, i monaci miei non me l’accetteranno. Beh, datti da fare!”, e così dicendo Benevenuto restituisce il lavoro e se ne va scocciato assai. Ferondo lo segue co’ lo sguardo per un poco e po’ dice: «Rosaria, hai nutato chillo mezzo frate procuratore de commesse che pelo tene sulla capa?» «E che c’hanno li cavelli de ‘sto fiòlo?» «Eh… so’ russi! Isso, tiengo lo suspetto, se li tigne ‘no poco de niro, ma so’ seguro: sono rossi!» «E beh? che c’è de tanto enfame ‘avécce li capelli russi?» «Eh, sì che c’è l’enfame! Chillo vene da le valli venete e là se dice che “lo plu bono de li rùss ha gittato lo padre dint’a’ ‘o puss». «Ah… mò stai pure a judicà la gente pe’ li pruverbi?» «Eh, sì. Me spiace, ma chillo russo non me piace. No’ farmelo più truà fra li pédi!» «Vabbé, da dimani je dico: “Rosso: tenete pure lo tóo telaio e anco la trama pe’ fa’ lo telame – pe’ te no’ travajo più. E teneti pure li tóo quattrini…» «No, no – la interrompe lu marito Cappiello – arrivà fino a ‘sto punto no…» E Rosaria sghignazzando je responne «Già, pecchè se nno con che sordi ce vai a jogà all’osteria co’ l’amici tòj?» E PAC, alla fijóla ensolente j’arriva ‘n fazza ‘na manata teremenda de lo Ferondo. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 38 «E co’ chisto empara a rispettamme, che io so’ ancora lo masculo, accà!» Besogna savè che fra i fratelli degli umiliati si truovava un omo di grande sapienza, che tutti chiamavano Mastro Giusto e anco Dottore, pure se medico non fusse. Infatti, l’arte sua era quella dello speziale. Pè ‘sta ragione, teneva, nel palazio delli monaci, un negozio con scaffali ricolmi di erbe arromàteche, semi d’oriente e africani per tutte le bisogne. Egli era in grande amicizia con Benevenuto, che lo considera come oracolo vivente. E a lui se revolgeva ogni volta che se veniva a trovare in una qualche defficile situazione. Così, al dottore, il giovane novizio rappresentò di quella sua passione per la splendida Rosaria, la sposa dello Cappiello, e di quanto entrambi fussero desperati per l’impossibilità de stare insieme. «Caro frate mio – sentenziò lo dottore – ccà ce sta una unica soluzione: chilla de spostare lu monte che no ve concede de goderve la luce de lo sole». «E chi sarebbe ‘sto monte?», chiede Benevenuto. «Quello gran rozzo dello marito sójo – è la risposta dello speziale – Isso è l’engombro!» «Ma mica lo se po’ fa pè morto, i’ no’ tengno alcuna idea de divegnì assassino! » Mastro Giusto surride calmo e poi conclude: «Ce sei andato appresso». «Appresso? Che me stai a dicere?» «Nello senso che lo se pòle porre nello mismo stato senza colpa alcuna». «Cioè?» «Sarebbe a dicere porlo nella condezione d’esser morto… e allo mismo tiempo vivo». «E come ce se può arrivare a uno tal strambazzo?» «Con lo ingegno e l’erbe orientali!» Così dicendo, Mastro Giusto indica gli scaffali ricolmi de bocce di vetro. Quindi sale per ‘na scala lassù e ce toglie uno barattolo chiéno de radici scure. «Mò io te preparo uno decotto. Poi quello tu procuri de fallo avé alla tóa amata Rosaria pecché issa ce lo sciolga ‘int’o vino. Je gusta a chillo zotico el sorrentale profumato?» «Credo che sì! El l’è un beone, spesso imbriaco…» «E allora gittamocenne en ‘sto gioco!» Accussì accadde che Rosaria versò la pozione. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 39 Bevuta che l’ebbe lu marito, isso se fu colto da tremmori e mancamenti. Quindi, de botto cascò sullo letto che muorto pareva, ma sempre collu cappiello. Fora, devanti alla camara dellu basso, ce steveno lu giovane Benevenuto e lo sóo cumpare speziale. Rosaria, che s’era premmunita de fa’ venire a la cena co’ loro dói amici de Ferondo, subbito sortì per la via e se comenciò a cridare: «E’ muorto! Lo marito meo el l’è morto! Aita! Chiammate ‘nu dottore che ce sarvi!» «Ecchime – disse lo saviente – sto giust’accà!» I due compari immantinente entreno nella casa . Lu dottore tasta lo cuorpo di quel Ferondo di qua e di là, e quindi ordena che ognuno esca di lì. Prepara uno medicamento e co’ ‘na specie de clisterio lo fa dessennere nella gola de lo infermo, che appresso emana ‘no rutto teremendo. Lo dottore, che avea tenuto co’ sé lo giovane Benevenuto come sóo assestente, je ordena de procurare un bacile e porlo a la bocca de quel desgraziato, che comenzò a vomegare come ‘na pompa. De lì a poco, lo muorto retorna vivo e dice: «Che m’è accapitato?» E gli amici suoi, rentrando nella sala, respondono al Ferondo rinvenuto: «E’ ‘nu portento che tu se’ tornato fra noi, compare! Non è manco mezz’ora che tu eri cadavero…» «Essì, è ‘nu miracolo – dice la sposa chiagnente – sovra tutto che àbbimo trovato subitamente codesto dottore che t’ha risorto…» «Purtroppo, – aggiunge con impaccio lo saviente – cara figliola, voi dovete prepararve a ‘nu giorno prossimo che se repeterà lo mismo accidente e sarete vedova. «Oh, no! Ma che me decite? – sbotta addolorata Rosaria. «E sì, e in quel caso non ce poterà essere nemanco San Gennaro in persona che lo potrà far tuornare allu mondo». «Facimmo subbeto ‘na scaramanzia!», esclamano in coro gli amici suoi. «E’ così, cari amichi mei, ‐ dice lu Dottore e revolgendose allo marito tutto strontonato – vuj, besogna che ve preparate a lu viaggio per l’aldelà. Tegnete ‘na malattia che nun perdona, che se chiamma, en latino, celicium e, en vulgare, a’ mazzata». «Oh, meo Deo! A’ mazzata?», se lamentano avviliti. «Ma non gittateve ‘n disperazione, giacché ‘sto morbo teremendo ell’ha una vareante dello tutto origginale…» «E che sarebbe?» chiese lu malcapetato. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 40 Mastro Giusto si va a sedere sul letto presso di lui e gli domanda: «Non è per caso che vuj site un ommo facile alla gelusia inverso alla vostra femmena? Respunnete sencero!» «Sì… uno poco…» E l’amici sòj se fecero ‘na risata da ingozzarse. «Dice ‘nu poco, ‘sto assatanato! Isso veghe amanti della moglie sòja en ogne loco e le fa scenate teremende… e la bastona pure!» «Davvero? – dimanda stupito il dottore, appoggiato da Benevenuto. E l’amici sòj ribattono: «Je toglie lo fiato e la vita mesma a ‘sta sua mujera…e pure li sordi che issa se guadagna allu telaio je sgraffigna… E pe’ stacce appresso e controllarla, ha smesso pure de andà pe’ mare a pescà li pesci!» «Bogiardo, chisto non è vero! «Zitto!» «Ce so’ stato pure jeri a gittà le reti…» «Lazza perde… ‐ continua il dottore‐ «Bè, basta accussì: e mò potete ben comprennere perché sto morbo se chiama anco brivvido de la gelusia. E st’ommo ell’è gionto oramai allu paradosso, per lo che, fra poco, comenzerà a soffrì de visioni e incube: je capeterà all’istante de veghé emmagini de follia». «Come sarebbe de follia?» dimanda Rosaria, desperata. «Bè, je po’ succedere all’immediata – dice lo dottore – fate conto, noi se sta qua e all’improvvisa a isso je pija ‘na crisi tutta immaginata: fatti che no’ so’ veri, ma stanno dentro la capa sóa. Se pone a cridà contra de la sua femmina che noi vediamo comme adesso sta, ben abbigliata e tranquilla, ma isso la descorge despojata, ignuda. E anca tutti noi dintorno, spojati ce vede, come fussimo allu bagnu de calore”. “E che se sta a facere?” dimandano gli amici soj. “Se fornìca”. “Formìca? E da dove sponteno ‘ste formiche? E che sò, insetti giganti, velenosi?” sclama lu marito Ferondo. E lu duttore: “No! Fornìca, for‐nì‐ca! Vò dì giacerse copulum sexorum cum coitum gaudente”. “Ah!” – esclamano tutti in coro. “Insomma: ce se sbatte tutti in massa!” – puntualizza lu marito. “Eh, no! Tutti, no. Tu stai solo a veghè – e ci hai le visioni. Ma vedi destorto perché c’hai l’incubi d’assatanato, de follia estereca”. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 41 “Oh, che desgrazia che ce va a capità a sto fanateco” commenteno gli amici soj. Tutti sorteno dalla casa e quarche giorno appresso verso sera bussa alla porta lo giovane Benevenuto, che gionge inviato dallu dottore per conoscere la condezione dell’infermo. Come tutti i giorni Rosaria ha fatto trangugià una pozione de medicamento prescritto dallu speziale, che in quella pozione ce ha fatto sciogliere una droga turca che se chiamma “scombussolo”. Teremenda! S’affaccia in quell’istante il giovane e chiede: “Come va lu nostro moribondo?” “Eh, no, eh! Non recomenzamo n’ata vòta collo morebondo” – esclama seccato Ferondo. “Ma dicevo per gioco, tanto per dare un poco de allegrezza a sto mortorio”. E Rosaria, fingendosi addolorata dice: “Purtroppo c’è poco da fare allegrezza, qui ogni giorno peggiora. Racconta, marito meo, che t’accade quanno te pija la crisi”. “Eh, sì. Me colgheno delli sbarrazzoni come allucinamenti tremendi, comenza a girà tutta la stanza e poi veggo la mea mujera che se spoja desnuda. Ecco proprio come mò, or ora!” In verità, Rosaria ha cominciato davvero a sfilarsi tranquillamente la sottana, il corpetto e resta ignuda nell’atto di far danze sbattendo l’anche e pure le nateche. “Eccola, la vedi?”, dice lu marito, co’ voce stonata. “Che vedo? – dice il giovane – “La sto guardando, ma me pare vestuta a lo completo”. “E non te riesce a veghé l’ancheggio? E mò, guarda che fa! Se sta avvicinando a te e te sfila le brache” “Ma non dire sciocchezze! ‐ se indigna lu novizio ‐ Io le tengo ben serrate le brache mie, allo posto sojo”. “Eh no, eh no, maledetta allucinata»! Mò te scorgo ignudo anca a te, Benevenuto. E che fai mò, cò sto pirolo tojo?” “Che pirolo? Me sto bevendo allo bicchiere no poco de vino”. “Sì, beve lo vino brindando collo pirolo ritto! A chi la racconti? tu te sta pijando piacere de la mia mujera. Chillo è ‘no coito, tu te la stai inforcando! – e pppoi comme imbestialito crida: «E datte ‘na calmata! E che è? Peggio de un ariete sovra ‘na pecura, tu sé!” “Ah! – ‘sclama seccata la mujera – mò veghe pure le pecure e li montoni! Non c’è proprio più speranza!” Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 42 “Anch’io ne ho abbasta” dice Benevenuto. “E no, abbasta lo dico io! Fàtemece almanco partecipà nu poco pure a me!” sbotta Ferondo. “E no, tu se’ lo moribondo infoiato. Lassarte partecipà vò dì provocatte ‘na crisi che ce rimani tramorto secco”. “Ma tu sta proprio fora de capo!” esclama la figliola. “Mò te fazzo vedè che ell’è tutta ‘na tua impressione destorta. Vago fora in la strata e me comenzo a chiamà tutta la gente che passa”. “No, no, così ignuda non sortire! Te lo vieto! E poi, se entreno accà altri ommini de securo se despojano puro issi e me copulano cum gaudio la mujera”. All’istante Ferondo il visionario s’addormenta d’un sonno profondo, a tratti riaffiora con voce lamentosa e senza alcun risveglio: “No, non voglio più veghé quelle scene dove la mia Rosaria sta abbrazzata nuda con un altro a so’volta infoiata”. “Ha ragione!” – grida Rosaria uscendo sconvolta in strada – “Ne ho abbastanza anch’io. Non ne pozzo più de veghé lo marito meo trattato come un pajaccio con noi che je se reccita tutta sta sceneggiata da trivio”. “E no, Rosaria mia – dice Benevenuto ‐ li nuostri abbrazzamenti, almeno per me non so stati joco de burla. Ell’era amore verace… da svenimenti”. “Sì, ma dennanzi all’uocchi scarruccati dello marito meo!” In quello appare lo speziale che spigne li dói dentro la casa: “Carmàteve… e abbassate la voce, che se trovammo intrammezzo la via e la gente che trànseta ce po’ ascultà! Ad ogni manera, cara figliola, si tu prefersi de turnà a fatte battere come nu materasso ogni volta che chillo va fora de senno e sopportà scenate come se tu fusse la peggio puttana de lu quartiere, accomoddate pure, cessiamo all’estante sta farsa e per te areccomincia tutto come prima. Io credevo che a sto guajone, Benevenuto, tu l’amasse pè davvero, Rosaria mia. Ma se nun è bene venuto che lo tenimmo a fà”. “No! – se ne esce fra le lacrime Rosaria – jo je vojo bbene da morire a sto gaglioffo che m’ha incantato, ma nun me ce vojo entorcecà d’abbrazzi en sta manera de sceneggiata obsena”. “E va bbene – ripija irritato lo speziale – mannamo tutto a monte e lassamo che sto marito tojo abbi a fornì tra li pazzi de na priggione o che lo embarcheno sulla nave dei folli come fanno ad Anversa fra li todeschi”. E Rosaria, stopita: “Che d’è sta storia della nave delli folli?” Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 43 “Ell’è nu rituale che da mò repetono en le Repubbliche Anseatiche e che ho enteduto che la Reina nostra Juvanna tene l’entenzione de proporlo anco da nuje, accà nellu nostro porto a Santa Lucia!”. “E che saresse?” dimandano curiosi li doi innamorati. E Mastro Giusto responne: “Ogni anno all’attracco dellu Castel dell’Ovo anderanno a carecà tutti l’impazzuti, le creature uscite de senno, fora d’ogni regola e raggione, sovra ‘nu naviglio tutto vele ma indove c’hanno a bella apposta staccato lu timone. E chista se chiamma “La nave delli pazzi”. Lu barcone senza guida vene trasinato da tre galere fora dallu Golfo fino allu mare avierto indove se move la corrente che mena verso le Colonne d’Ercole, accussì in chello stretto trase lu naviglio condannato a desparì nello infinito dell’Oceano, senza più turnà”. “E no, e no!” grida Rosaria – io non pozzo pensà allu marito meo su sta nave che se perde nellu mare”. “Ma te voi mette in capo che sto catorcio de marito tojo ell’è malato per lo vero e tene na condanna secura che nun se pole fermà, che chista ell’è ‘na condanna a morte e che nisciuno lo po’ grazzia?”. “A morte? – singhiozza la figliola – Eh, no: vedova no’ me ce voglio truovà!” “E allora – dice secco lo speziale ‐ dovemmo faje tirà le cuoia subbito a sto suicida vagante!”. “Fallo morì? “ sussulta Rosaria. “No, solo farlo trapassare, ma non davvero, pè finzione”. “Come sarebbe pè finzione?” “Ascolta, Rosaria. Te tu te fidi de me e dello innamorato tojo?”. “Sì, che me fido”. “E allora lassace fa… e tu vederai comme tra pochi jorni isso tornerà da te sano e docile comme un agnello”. “ E comme pole avvenì ‘sto prodiggio?” dimanda preoccupata la sposa. “Per prima cosa noi te lo si fa sparire pè nu poco de tiempo”. “Sparire? E io che fazzo in sto tiempo, sola?” “No, tu non starai sola ma sempre co’ me apresso – je sospira Benevenuto strignendola fra le brazza – accussì finalmente ce avremo l’occasione de visitacce anima e cuorpo comme dò sposi novelli”. “Oh, sì! – sbotta Rosaria – me piace st’idea! Ma guai a vuji se ce farete dellu male allo meo Ferondo!”. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 44 A ‘ste parole lu speziale se lassa sfuggì na considerazione ammara: “Ma tu guarda ste femmene – dice ‐lu marito, siempre collu cappiello in capo, la batte a ogni occasione fino a falle sortì lo sangue d’ogni loco, j’arròbba li dinari pe’ jogà e chilla se preoccupa pure che nun je se faccia male, a st’infame”. Lu Benevenuto asciuga le lacreme alla sua amata colli baci e je sospira: “Sta secura, Rosaria. Isso starà felice e beato comme fusse in paradiso o almanco en purgatorio”. Come si fa scuro, Mastro Giusto e Benevenuto, spingendo un carretto giungono alla casa nel vicolo del Malpertugio, dove Ferondo sta ancora dormendo d’un sonno profondo. Rosaria viene loro incontro preoccupata assai: “Nun s’è ancora resvejato! Mica sarà morto pè davvero?” “No ‐ la pone tranquilla lo speziale – è che la pozione che c’avemmo propenato da tre jorni in qua j’ha fatto proprio l’effetto giusto. Dormerà ancora tranquillo almanco ‘n’altra notte sana”. Così dicendo lo sollevano dal letto e lo destendono nel carriaggio, lo ricoprono col suo lenzuolo e se ne escono dopo abbracci e baci fra i due figlioli. I due compari degli Umiliati, sempre spingendo quel carretto, se ne vanno verso Ponente fino a raggiungere i Campi Flegrei, dove fumane e scoppi di vapori li accolgono come fuochi d’artificio. Scaricano a terra Ferondo senza troppe cerimonie tant’è che gli schizza via il cappello dalla testa, glielo riconficcano, lo coprono con un lenzuolo, scelgono una tettoia che lo ripari dai getti roventi, e se ne vanno. L’«apparuto morto» all’alba si risveglia in mezzo alle fumarole e ai soffioni boraciferi, si leva stordito per la droga e si muove come ubriaco tra la nebbia e le folate di zolfo. “E dove sto?” – commenta preoccupato – Voi veghe che sò devegnuto un’anema e che m’hanno condannato all’enferno? Già sto puzzo de zolfo e de marcio nun me prumette niente de bono”. Dagli occhi gli scendono lacrime e d’improvviso si trova aggredito da uno sbuffo tremendo de fumo rovente che lo coglie di rasente alle natiche “Ohi!‐ grida il condannato zompando fra i soffioni – comme m’ha abbrusciato! si tasta il deretano e commenta: “Ma tu guarda, sono ‘n’anima senz lu corpo, ma co’ le chiappe vive… ‘n’anima col culo!”. Quindi prende un respiro, porta na Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 45 mano a la fronte e esclama: “Oh, menomale che m’hanno seppelluto collu cappiello en capo!». Ci sono altre anime che si muovono fra la nebbia, anche loro avvolte in lenzuoli. In verità, sono dei normali bronchitici catarrosi che vengono a farsi le cure comm’è d’uso in quelle solfatare. Ma Ferondo non c’era mai stato ed è convinto d’essere nell’aldilà. Uno dei catarrosi che va respirando sovra un getto a lenzuolo spalancato per raccogliere vapore in quantità, commenta: “Ohi, che calore! Pare proprio un inferno! E un altro appresso gli risponde: “E invece siamo solo al purgatorio!” Ferondo, penitente appena giunto, si lascia sfuggire un grido gioioso: “Bè, c’è andata bene, sempre meglio lu purgatorio che il foco dell’eterno castigo!”. E mentre così si compiace scorge un’anima avvolta nel proprio normale lenzuolo che affonda le mani in un sacchetto e ne cava dei pani farciti con carni ed erbe profumate. Fa per morsicarne un boccone quando è preso da un gran colpo di tosse, che lo costringe a farsi in là fuori dai getti della zolfatara per prendere fiato. Subito Feroldo afferra il boccone lasciato su una pietra dal bronchitico, e lo addenta, nello stesso tempo un altro catarroso afferra il sacchetto del cibo abbandonato e se la batte. “Ma tu guarda, commenta Feroldo‐ le anime del purgatorio che se fanno gli spuntini e se rubbeno il mangiare!”. In quel mentre torna il bronchitico padrone della merenda e lo aggredisce: “Che hai fatto? Te sei magnato tutta la mea colazione?” “No, io l’ho appena assaggiata. È quell’altra anima che te’ha rubata la borsa!” “All’animaccia toja!” lo aggredisce il derubato. E lo colpisce con una mazzata in pieno muso, quindi gli sferra pedate capita dove capita. Con fatica, Ferondo riesce a sfuggire a quella gragno’la di colpi e si ritrova all’istante in una coltre di vapore, inciampa ed è costretto a saltellare come se danzasse la tarantella dentro una palude rovente dove esplodono bolle puzzolenti in quantità. Gli zompi si consumano. Finalmente il condannato riesce a sortire dalla pozza e se ne va a sbattere contro un’altra anima: “Scusami, anema santa e non me sò accorto de te”. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 46 E l’anima santa gli risponde: “Non te fà preoccupazione, so l’amico tuo che te viene a consolà”. “Che amico?” “Non me hai reconosciuto?” E così dicendo il penitente si libera il volto dal lenzuolo e appare la faccia dello speziale. “Sei tu! – esclama sorpreso Ferondo – Mastro Giusto! E quello che ti sta appresso non è forse lu novizio Benevenuto?” “Sì, hai indivinato, semo nuje”. “Ma che ci fate cà? Siete morti puro vuje?” “No, nuje semo sojamente in visita”. “Ma comme, en l’enferno ce sta lu diritto de visita comme a li condannati en prezone?” “Sicuro, basta na bbona raccomandazione.” “Ah, ecco perché se dice avecce nu santo in paradiso – sclama il morto apparuto. – Che fortuna, che siete gionti qua da me!” “Che t’è capitato?” “So’ contento. Ho descoverto che semo a lo purgatoro, no’ a l’enferno… e ‘sto fatto me dà speranza: vò dicere che nu jorno o l’altro de ‘sta pena ce sortirò. “Certamente” – lo consolano i due Umiliati. “Ma savete cosa ho scoperto? Che qui l’anime delli defunti magneno! “Davvero?” – commentano sorpresi li doi amici. “E sì, c’ho addentato ‘na pagnotta… e c’ho guadagnato ‘nu sacco de botte e pedate pè st’assaggio. Io non immaginava proprio che li morti povessero magnà, è na bella notizia, non ve pare? “E sì, ma nuje lo si sapeva. Tant’è che apposta t’avemo portato ‘sta bbona colazione, na cesta china de robba de sgagnatte” «Graaazie… Ma quanto siete bboni vuje, sete proprio l’amici mei più cari» Fa per abbracciarli ma poi ci ripensa e dice: “No, l’anime morte nun se possono abbrazza che so vote dello cuòrpo tutto, solo le chiappe sò chine, almanco le mee”. «Ad ogni modo ‐commenta lo novizio Benevenuto ‐de tutto sto bene de Dio debbi rengrazià la mojera tója. È issa che c’ha consegnato sto cesto cò dentro sto pranzo da bengodi pè te”. “Issa? La mea Rosaria? – tu me vene a dicere che chella me pienza anco da morto e continua a volemme bbene ancora? “Già – commenta l’anema dello speziale – e tu de certo non merita na dedizione accussì generosa e appassionata .” Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 47 “Ma anco io le volevo bene anzi che io morissi, tanto che io la teneva tutta notte in brazzo e non faciva altro che vasarla e … anco se faceva altre dulzinerie sotto coverta quando voja me venia”. “Già – je dice de rimando lo giovine novizio – ma appresso pè gelusia tu la battea comme nu forsennato e nun t’arrestava manco quanno scorzea lacrime e sango rigà lo volto soò”. In quell’istante ecco di nuovo il bronchitico della colazione r giungere loro appresso seguito da altre due anime vocianti. “Eccolo, lu ladrone de merenda con doi soi compari” e cosi dicendo gli si lanciano tutti e tre addosso a Ferondo colpendolo còn bastoni e pietre. Lo speziale e Benevenuto cercano di corrergli in aiuto, ma quei truculenti scalciando e menando botte da orbi li tengono discosti dalla tenzone. Ferondo è travolto dagli energumeni e alla fine, è ridotto uno zerbino, tutto calpestato in ogni loco, perfino sul cappello che gli cala oltre il naso. “Ehi! Ferma! – gridano lo speziale e il suo assistente, vedendo che gli aggressori si stanno portando via la cesta con tutto il cibo. Ma quelli se ne vanno sghignazzando: “Rubbare ai ladri è lo mejo piacere che se pozza provà” e nella nebbia se despaiono. I due compari Umiliati in visita al purgatorio si piegano sul corpo del bastonato e cercano di rianimarlo. “Lassateme” risponde Fe‐rondo– «so appena morto n’altra vota. Ma perché me stanno a bastonà tutti a sta manera?” E lo speziale con voce da oracolo: “È la pena che te sei meritata. Chille nun so aneme delli defunti ma diavoli che vengheno a fa le loro passate de castigo alli condannati de gelusia”. “Gelusia?” chiede Ferondo. “Sì, gelusia. Nun sei tu forse nu geloso assatanato, oltretutto avendo pè mujera la mejo femmena de lu munno?”. “Ahimè, tu dici lo vero ‐ ammette Ferondo ‐ Issa era la più doce creatura ch’abbi mai tenuta fra le mani”. “Già, pè strizzalla alla gola ogni momento!” – lo accusa Benevenuto. “Ma io nun lo sapeva che Domineddio avesse per male che l’uomo fosse geloso, che nun lo sarebbe gimmai stato, savendolo!”. “E no – lo incalza lo speziale – non abbasta despiacette, bisogna che tu t’avvedi in profondo e con spaviento. Perché, se avviene che tu mai ritorni nellu munno reale, rammentate Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 48 chillo che mò te vene ad accadé en esto loco donde ogni penitente che trascorre appresso a te con pretesti appositamente creati, te verrà a batte come t’è capitato or ora. E ogni giorno con altre sceneggiate te verranno a tormentà collu foco e te arriveranno addosso pur’anco annimali feroci che t’ abbrancheno pe magnatte e poi te digerischeno e te cacheranno fora, giusto comme lu strunzu che tu sé”. “Oh, no! Ve giuro che nun verrà a succedere che io retorni a combenà de sti peccati. Ma diteme, amichi miei, vuje penzate davvero che pole tornà allo munno colui che morto l’è?”. “Sì, nuji lo penzammo. Anzi ne simo seguri, se Deo lo vole”. “Oh, ve assecuro – dice de tutta voce Ferondo – se io ritorno sarò lo mejo marito che sta in nello munno. Mai leverò la mano sovra la femmena mea, mai le dirò villania, e ve ggiuro su tutti li santi, che le lasserò fare ciò che issa c’avrà lo sfizio de fare e non je ne dimanderò gimmai la cagione”. In quella, si leva un cumulo di nebbia che ogni cosa va cancellando e quando si dirada Ferondo si trova solo senza alcuno appresso: che li amici suoi sono spariti. «Dottore! Novizio, amico meo! Do’ siite?” Fà per muoversi, ma s’accorge che uno dei suoi piedi sta bloccato da una catena lunga affrancata a una colonna di marmo: «E che? E che m’avite fatto? M’avete ligato? Ma pecché? Forse nonsiite vuj… forse non so’ l’amichi mei che m’hanno affrancato comme un prigione… ma quarche diavolo! Deo che pena, stacce nello purgatoro causa li me’ peccati! Dio, Signore Santissimo, liberame e te giuro che sarò bbono come ‘n’anzelo del cielo!» Intanto, i due compari fanno ritorno al basso del vicolo del Malpertugio, dove trepidante sta ad attenderli Rosaria, che subito come li vede apparire si leva ‘sclamando. «Oh, finalmente sete de retorno, io stavo in pena. Comme se truova quello povero marito meo?» «Bene sta ‐ la tranquillizzò lo speziale – isso se va sovra tutto facenno coscienza dello malo comportasse che ha tenuto con te figliola, e statte secura che fra non molto tempo devegnerà nu bbono cristiano, mite e chino de comprensione». Ma Rosaria lo sta ad ascoltare solo di sguincio giacchè tutta la sua attenzione è per il novizio amoroso suo. La giovane se l’è già tutto abbracciato e va copréndolo di baci e carezze. Ad ogni passata di tenerezza gli sfila di dosso qualche indumento. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 49 Lo speziale subito li scongiura: «Ennò, Peffavore, non vojo avè pur io visioni de stralacqui amorosi allo limite dello sgrazzo lussurioso. Contenuate pure, ma lassate ch’io me ne sorta fora». Così i due, restati soli, si ingarbugliano uno nell’altro come tortore inebriate. Non s’arrestano nemmeno per porre sul foco un tegame per preparare qualcosa da mangiare. Hanno posto lo stangone alla porta e coperto anche l’unica finestra con un tavola inchiodata e non so’ per quanti giorni se ne restano a farsi piacionerie. E quando proprio la fame cresce si mangiano l’uno con l’altro, e si beveno puro, esagerati! Ma entrambi si risvegliano per un gran bussare che viene dalla porta. «Oddio!» esclamano all’unisono le due tortore in amore «Chi pole essere?» La voce di là dice:‐ «Semo l’amici dellu marito Ferondo e vorrebbimo savè donde stà. Forse ch’è in casa?» «Ia nulla saccio, e Rosaria non sta accasa» risponde Benevenuto. Rosaria, che s’è posta adosso una camicia, fa’ cenno a Benevenuto che ella sta per montare al piano di sopra traverso la scala a pioli e cosi, agile come un babbuino si arrampica lassù e raggiunge la botola, la solleva, passa oltre e la richiude. Benevenuto va ad aprire la porta che dà sulla via e gli appaiono due ceffi che lo spintonano gettandolo sul pavimento di botto. Quindi gli urlano: «Chi s’è tu?» e così dicendo gli puntano una spada e una lancia corta alla gola. «Io sò vicino de casa»‐ risponde tremando Benevenuto‐ e «Donna Rosaria m’ha pregato de sta acca per recevere i parenti che debbono arrivà a momenti per lu battesimo .» «Lu battesimo de che ? » «De lu figlio che c’è nato jeri a la sorella de Rosaria » «E Rosaria do stà? » «Ell’è annata da la sorella a facce visita accompagnata da sommarito.» «Suo marito Ferondo? » «Chillo appunto, ne tene uhno solo… Al manco, pemmò! Benevenuto Leva la voce e esclama :Oh ecco che zonzeno finalmente» Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 50 Cosi dicendo il giovane punta il braccio verso l’esterno sulla via «Zonzeno che?»‐ domandano i due manigoldi. «Sta giusto arrivando lu carro con tutti li parenti soi,ce stanno pure le guardie. «Le guardie di che?» «Delli prigionieri!» «Prigionieri de che?» «Sono tutti parenti che sorteno in permisso da la galera per assistere lu battesimo de la primmo figlio novo de la famiglia: c’è lu sposo, lo padre soio, du fratelli tutti incatenati co appresso le guardie coll’arme.Se restate accà uno momento ve li faccio conoscere a tutti quanti» «No, ce spiace, ma forzatamente semmo oblegati a proseguì la nostra missione, dovimmo andà oltre» e in un attimo ecco spariti. Di lassù intanto s’è spalancata la botola e appare Rosaria «Se ne sò annati?» «Si discenne tranquilla, che so fogghiuti currendo come do’ marioli E per la fretta hanno desmentegato pure ‘sta lancia che me avevano pontato a la gola» «Io c’ho lo dubito» ‐dice Rosaria scivolando sulla scala a pioli‐ che chilli so vegnuti per zercarme a mme e famme sputà di dove s’è nasconnuto lu marrito meo.» «Eggià commenta Benevenuto‐ sarà per farlo sputà nu debbeto de gioco . Ehissà che ha combenato chillo scellerato, »‐ «Eccome ce se move mò?» «È appena l’alba, damme retta, ciccolona mia, ‐ retornamo fra le coverte c’è repenseremo chiù tardi» cosi dicendo i due si liberano un’altra volta dalle vesti loro e si lasciano cadere l’uno abracciati all’altro fra le lenzuola. Non fanno in tempo a darsi un bacio prima di dormire che di nuovo bussano alla porta. «E chi ssò de mo’? De novo chilli che so tornati?» Se dimandano a una voce sola‐ Subito giungono voci perentorie dall’esterno: «Mattei in ferondo è in casa? – aprite! siamo guardie della marineria! Rispondete! abbiamo notizie di vostro marito! Nessuno in casa?» i due restano zitti senza rispondere e si fanno segni l’uno con l’altra Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 51 Rosaria sta rimontando de novo per la scala quanno si sente battere in modo molto chiù rumoroso e se leva una voce perentoria E’ la voce dello speziale: “Benevenuto, vieni ad aprire, sono io , il dottore – ho portato con me i medicamenti per Rosaria! Come sta la sposa? È passata la febbre?” Rosaria intuisce subito che è bene reinfilarsi nel letto lui si è già calzato i pantaloni, mentre lei s’è già tolta di nuovo la veste Lu giovane, s’avvicina alla porta e parla sottovoce come a voler evitare di svegliare qualcuno: “l’inferma s’era appena addormentata e senza l’ordine del dottore non me la sentivo di aprire a chicchessia” il dottore s’affaccia alla porta appena averta: “hai fatto bene caro ad essere guardingo e sospettoso” e poi rivolto alle guardie mentre le fa entrare : “è il mio assistente aiuto – quindi indica la sposa distesa nel letto e commenta: « Solo quando scopriremo da chè è procurata sta febbre ce potremo avvicina. E’ meglio evitare di diffondere il morbo – anche a voi, signore guardie, vi consiglio di non annarle troppo appresso, non si sa mai” il dottore fa un gesto verso le guardie perchè se pongheno comodi“a che dobbiamo questa visita? – potete parlare liberamente, noi siamo amici della famiglia…” e il ragazzo, d’aggiunta, “sì, siamo di casa…” “è una cosa un po’ delicata” “allora – dice il novizio – è meglio serrare di nuovo la porta, mi sembra di capire che convenga non entrino curiosi” “sì senz’altro, ha capito giusto” Prende per primo parola lo speziale “Donna Rosaria si trova in una delicata situazione. Sapete, il marito suo è sparito da qualche giorno ed essa non si capacita di cosa possa essere accaduto” “purtroppo, noi temiamo di saperne qualcosa” la ragazza, con un fil di voce domanda: “avete notizie di lui? Oh, per favore, ditemi: sapete cosa gli sia capitato? Come sta?” Le due guardie della marineria, mentre se pongheno assettati su do sedie, estraggono da una borsa un gioiello, esattamente una collana d’argento dorato, e, rimanendo discosti, con impaccio, la mostrano alla sposa: “riconoscete questo oggetto Donna Rosaria?” “mi pare… fatemi vedere…” la collana passa di mano in mano, dallo speziale al giovane, alla sposa. Rosaria appena lo osserva dice: “oh, sì: senz’altro questo è di mio marito” Il capo delle guardie dice: “già, non c’è dubbio, dev’essere proprio così – d’altra parte c’è pure inciso il suo nome, ferondo lazzàro” Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 52 E Rosaria, con voce preoccupata: “oddio! E lui dov’è? Dove avete trovato questa sua collana?” “al collo del marito vostro – almeno, pensiamo quello sia il suo collo…” “oddio mi sento male… ma cercate di ricordare, descrivetemi il suo volto: e io vi dirò se quello è mio marito!” “impossibile!” “perché impossibile, non ha volto?” “quasi – l’abbiamo trovato in acque alte, dove di sicuro è rimasto più di tre giorni…” “Annegato? Oddio, datemi un qualcosa… un goccio di vino greco!” Speziale “ho io il rimedio, son speziale…” e tira fuori dalla borsa una boccetta che versa in un bicchier d’acqua e porge alla donna “Non si sa, mi perdoni signora se le produco dolore e angoscia, ma il suo come dire.. il cadave..… no la salma… è stata in parte sbranata da come dire… pesci” “lo sapevo, lo sapevo!” “sapeva che sarebbe stato addentato da grossi pesci?” “sì, lui m’aveva raccontato che il mare intorno ischia e procida era infestato da pescecani” “esatto, pensiamo proprio sia successo così” “e dire che noi tutti‐ dice piangendo Rosaria,‐ si pensava che la storia di quegli squali fosse una sua frottola raccontata per scansarsi dall’andare in mare alla pesca… E c’avemmo fatto pure un sacco de risate .. ah ah li piscicani ah ah” «Ma c’è altro, ‐ interviene il sergente delle guardie‐ la salma in capo teneva ancora un cappello a cuppa catalana, ‘no zuccotto tondo ficcato fino alle sopracciglia – tanto che anche dopo tempo che era rimasto a mollo nell’acqua stava ancora ficcato. Quando alfine siamo riusciti a sfilargli sto zuccotto ce semo resi conto che isso tenieva de sotto sul centro della capa ‘na chierica: i capelli in quel punto jerano stati rasati. » «Ah si, ben lo conosco, ell’è vero – interviene la sposa‐ Issu , lo marito meo, tegnieva na chierica. Ma non vuleva che alcuno lo savesse» «E pecchè?‐ dimanda lu sergente E je responnono «Pecchè Ferondo se vergognava che chillu segno se era fatto imporre sulla capa quanno era ancora guaglione fusse scoverto.» Il novizio de giunta dice: «Ell’era accussì ossessionato che tegneva lo capiello en capo anche a letto dicheno. >E’ vvero Rosaria?» «Eh, sì! ell’è accussì!» Lo speziale prende de novo la parola: «Dunque, se mi permettete, per concludere nui tegnimmo tre indizi securi: primmo: la collana, secunno, lu cappiello, terzo, la chierica indelebile. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 53 «Giusto ‐dicono a due voci le guardie‐ ma a sto punto bisogna descovrire se si tratta di uno incidente o de uno delitto » «E già ‐conclude il giovane novizio‐ perché nulla ci assicura che l’amico nostro non sia stato acciso. «Ma da chi? Per che ragione? » incalza lu sergente. «Voi savete se c’havesse delli nemici? Debiti de gioco? Affari poco puliti per le mani? O ce sea de miezzo na questione de gelosia?» «No, no, gelosia no. ‐dice Rosaria ponendosi assettata sul letto‐ Era nu poco sospettoso, comme tutti li mariti, dellu resto». «Bè, sea cume sea, nui avemmo bisogno de la vostra collaborazzione» fa lu sergente. «Ve lo offreremo de securo st’appoggio », dice lo speziale «ma vuje sete ben a coscenza che chisto è n’affare che potrebbe fà scattà delli pericoli pe’ tutti chilli che ce metteno lu naso e la vocca, ispecie in uno quartiere come chisto accussì maleaffamato. » “Sì, d’accordo – cerca de concludere lo sergente – quinni? “Quinni nuje ce se mette a servizio vostro solo se ce assicurate lo ingaggio officiale per tutti e tre, con nu documento firmato dallo vostro comando che ce certifica che nuje simmo autorizzati a ‘nvestigà sotto vostra copertura». «Bè.. –responde lu sergente‐ demostratece che ce savete fà e appena ve capita de dacce quarche novità vegnite allu nostro commando de guardia. Dimandate dell’agente speciale Trangipane della marineria di porto‐ che so’ io‐ e sarite subitamente accujuti». Tutti salutano e chilli se ne vanno. Una volta rimasti soli, i tre si chiedono preoccupati se abbino fatto bbene a dare certe informazioni alli poliziotti e metterse in combutta con loro. Lo speziale li tranquillizza: “Vuje dovete savè che se se vole porse in tranquillità nelli confronti delli polizziotti, primma regola l’è chilla de combenà nu bello inciucio con issi mismi. E già, se tu li sbirri te li fai amici veraci poi chilli mica te vengheno a suspettà» E Rosaria esclama:«E sì che nuje ne avimmo da nasconde. Pe’ gente che fa sequestro de un ommo e lo tene prigione nellu purgatorio c’è la galera... A proposito, ce semo dementecate de portacce da mangiare allu marito meo.» «Ma per organizzare come muoverci‐dice lo Speziale‐ bisogna che Rosaria ci racconti per filo pe’ segno tutto quello che sa su suo marito a cominciare dall’ambiente che frequenta all’osteria. Chi sono i suoi compari?» Ed è qui che, come si dice ,Rosaria avre il sacco: «Ferondo con me non parlava volentieri dei compagni del gioco d’azzardo». In fondo, lei aveva subodorato che il ruolo di suo marito e degli altri popolani fosse di comparse, poiché come giocatori di carte, facevano un po’ pena. Lei stessa giocando a casa qualche volta se n’era resa conto: perdevano anche con lei! Ma lo Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 54 strano è che ogni tanto, vedeva tornare il marito con le tasche imbottite di denaro. E conclude «Io gli guardavo i pantaloni di nascosto mentre dormiva e ho preso nota del movimento di vantaggio e svantaggio – e ho dedotto che, con alti e bassi, Ferondo, alla fine di ogni mese, era come se gli restasse in tasca il corrispettivo di uno stipendio piuttosto vantaggioso, del quale naturalmente non mi faceva mai parola. Anzi, diceva che finiva sempre per perdere. «Quindi finalmente, ammise una sera, che uno dei giocatori superiori chilli che dirigevano la bisca avendogli lui chiesto un prestito, lo indirizzò da un usuraio, il quale disse: «Se vuoi i denari, dammi in garanzia quella tua collana che tieni al collo» E, sorpresa, gli offrì una cifra tanto incredibile che chiese all’usuraio «Ma siete sicuro di questo valore che state calcolando per questa collana?» «Eh, sì, è oro fine!» mi disse Ferondo «Io sapevo benissimo che si trattava di argento dorato, ma se non lo capiva lui, tanto valeva starsene zitto! E chiede il novizio «E dove sono finiti tutti quei sordi? Se li è giocati a carte ? ‐» «No, voi non ci crederete risponde Rosaria, ma per la prima volta mio marito mi ha fatto un regalo incredibile! mi ha comprato un completo da vera signora, comprese scarpe e culotte alla francese – così eleganti che per una settimana annavo intorno per la casa con addosso solo quelle culotte». «Fermi tutti! – dice lo speziale – le relazioni di Rosaria sono preziosissime: ma cerchiamo di metterle bene in luce e di tirare le somme. Quindi, il nostro Ferondo frequentava una congrega di strani individui che per i loro affari unu poco turbidi aveva bisogno di assoldare gente de covertura, ‐come addì delle comparse‐ «che, oltretutto, commenta Rosaria‐venivano pagate, attraverso lu ggioco, con stipendio fisso al mese» « E pe’ concludere –riprenne lo speziale‐ c’è la collana col nome suo che vene acquistata a un prezzo esorbitante per poi ritrovarcela appesa al collo di un annegato senza né volto né sembianze, che se vol far passare per lu Ferondo nostro.» E Rosaria se chiede: «Ma pecchè tutta sta manfrinata? Acche serve? » «Già, Dove se vole arrivare?»insiste lo speziale «Fermate ameco meo » dice Benevenuto, «tu devi savè che poco Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 55 prima che tu giungessi con le guardie a bussare a sta porta, doi figuri de brigante erano zonti accà e ammè me hanno puntato alla gola na’ spada e na lancia curta… chesta» e mostra la lancia abbandonata. «E pecchè? Con che intenzione ? » «Pecché volivano sapè dove se fusse cacciato lu pescatore Ferondo..» «Ma ell’è stopendo..» fa lu speziale « come stopendo!?Per poco non me infilzeno alla gola!» «Ma no, Stopendo è l’indizio, perche essi de seguro sono chilli de la misma banda che ha ucciso lu sosia de lu Ferondo Nostro » «Sosia? E che l’è sto sosia? » chiede Rosaria «Lu doppio, chillu truvato mangnato da li piscicagni. ‐ spiega lo speziale – «Ci siamo!‐esclamma Benevenuto ‐Donca a sto punto, la prima mossa è chilla dannà all’osteria dove se riunivano a giogà e facce quarche domanda all’oste in perzona. » «Errore – sentenzia il Dottore – questa è l’ultima mossa che bisogna fare! La seguente è chilla di interrogare il nostro defunto (in purgatòrio). C’è però prima un particolare che dobbiamo mettere in evidenza: a sto ponto è chiaro che Ferondo è stato scelto come membro dalla combriccola dell’organizzazione segreta per il fatto che poteva essere usato come sosia di un altro. E l’altro è esattamente il personaggio che la polizia ha trovato morto, scambiandolo appunto per il pescatore Ferondo. E Rosaria aggiunge: «Ma c’è anche da domandarsi: perché far credere alla polizia che il morto fosse un povero marinaio fanatico del gioco d’azzardo? Perché la banda de sti briganti truccatori dopo aver eliminato il sosia, non ha fatto sparire anche Feroldo, lo marito meo?» E Benevenuto la blocca: «Eccome no, Rosaria, ci hanno provato eccome li assassini a fallo fora… chi credi che fussero chilli due malandrini che sò entrati spintonandomi e pontarmi l’arme in lu collo!! Chilli vegnivano pe Ferondo , pe accopparlo!» «Ah ecco, bravo Benevuto che te sei ricordato, ‐ sbotta lo speziale‐ Donque ricapitolanno Punto primo: Evidentemente quello che importava alla banda in questione era punire con la morte qualcuno che aveva compiuto qualcosa ai loro occhi indegno e dopo aver fatto credere si trattasse del pescatore evitare che lo stesso pescatore si trovasse vivo e vegeto… » «Ecco pecchè s’hanno fatto ‘sta visita li doi malandrini – dice Rosaria , «E la fortuna è – conclude lu giovane Benevenuto‐ che nui ce l’avimmo cavato dalli mani appena in anticipo.» Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 56 «Comme ddire ‐conclude Rosaria‐ «che, senza immaginarlo, avimmo salvato Ferondo portandolo in purgatòrio.» E cosi dicendo Rosaria si getta tra le braccia del suo innamorato gridando: «Nun me lassà anco tu, amore meo! Vasame! Vasame! E tornamo a lu letto!» «Fermi fermi!!!» –grida lo speziale‐ «Macchè c’avete lu ballo di san vito dintra lu passere e la passerella?!.. Reponeteve tosto li abiti addosso Besogna che ce n’annamo de prescia a interrogà l’anima del defunto. » Ma ecco che de novo bussano alla porta: «Ah, ma è nu tormentone! Chi po’ esse ancora?. E lu spezziale sbircianno alla porta dice: « No tranquilli, so’ doi mei fratelli della congrega delli ommiliati che me hanno portato lu magnare pe’ Ferondo che se ce presentamo a isso senza cibo se magna a noi, belli freschi che semo… » E lu novizio:« Penza un po’ nu morto che se magna li vivi!» «Già che tengheno nu carretto – dice Rosaria‐ che ne diite de menalli connoi allu purgatorio?» «So’ d’accordo ‐dice lo speziale‐ e d’appresso alli doi omiliati, macchè ce tenete in coppa asta carrioola‐» e chilli : «Delli costumi de agnoli co’ tanto de ali «Vabbuò, verranno bboni anche chilli!» Finisce sto capitolo e se n’apre un altro. Eqquì retroviamo lu povero Ferondo allo purgatorio colli amici suoi che je danno da magnà e lo liberano dalle catene. Issu racconta : «Ognuno che passava de qua me molestava Perfino delli cani mi hanno orinato addosso, per via che mi hanno scambiato come parte della colonnae ancora so’ zonti delli corbacci che sono venuti a beccarmi e poi mi scagazzavano pure addosso… e un mascalzone mi ha fregato il lenzuolo e quando ho protestato… ha risposto menandomi!». Lu poverazzo si tranquillizza solo quando la moglie se lo coccola uno poco. Intanto Mastro Giusto e lu novizio se sistemano assettati su delle petre che stanno li attondo. «Co’ calma‐ dice Rosaria‐ nuje se avrebbe debbesogbno che tu ce responne a delle questione «Prima di tutto , però , marito meo, te vegno a dicere che tu sì morto ‘n’ata vota». «Come?! so’ rimorto?! N’ata vota? » E Benevenuto je responne «Sì, nel senso che la polizzia di marina ha trovato un sosia tojo, nellu senso de doppione, azzannato da pesci famelici che j’hanno cancellato le sembianze.» E Rosaria repija « Ma la polizia è convinta che quello morto sì tu, per lu fatto che tu sei pescatore e sto corpo che credono tuo, l’hanno trovato in alto mare, fuori dal golfo, annegato sotto la tua barca rovesciata, impigliato dalle reti». Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 57 E lo speziale conclude: «Defunto da almeno tre giorni, tutto gonfio d’acqua». «Oh, Madonna mia! Ma che altri elementi hanno per dire che sono io quello?» E Rosaria risponde: «L’elemento primo è che gli hanno trovato al collo la catenina tua, col nome cognome e anche la tua nascita quella che tu avevi venduto per una cifra esagerata all’usuraio». «Ah! Ce siamo!! ‐dice Ferondo ‐Scommetto che Glielo hai raccontato te Rosaria alla polizia sto fatto dell’usuraio! Sei la solita chiacchierona bastarda…» «Buono, ricordati sempre che sei ancora ospite dell’aldelà pè purgarte de li toi peccati», interviene lo speziale. Eqqui Ferondo sorte da li gangheri «Sapete che ve dico! Che dovete piantarla co’ ‘sto purgatorio. Ormai, cari li mei figli d’Androcchia, ho capito che l’è tutta ‘na bufala: qui semo alli Campi Flegrei, dove ce se cura dai malanni de bronchi e polmoni e se fanno li suffumigi dinto le grotte appestate da ‘na nebbia asfisiante che te bruscia il culo.» «Ennò, non è accussì. chi t’ha detto ‘na panzana de sta manera?!» cerca de cammallo lo Mastro Giusto. «Nisciuno me l’ha detta, quintorno con ‘sta ggente catarrosa non s’è fa parola di nulla che senno te menano. L’ho pienzato io, con le mie cervella. Perché io le cervella ce le tengo, anco da muorto..» «Ecco, l’hai detto bene, tu ce tieni nu zervello de impazzuto fanatico, chevveghe bugiardi, intrallazzatori, e amanti tutt’intorno ignudi alla muliera toia in ogni momento. e apposta pe sta raggione lu deo creatore t’ha chiamato accà en lo purgatorio, per tirarti fora da ‘sta tua gelusia ensensata e cercare de insegnarte a devegnire un omo dabbene e ddoscile, traendote fora da ‘sto comportamento de animale ca teni co’ la donna toa». «Si..» ‐Se pone a alluccà lo Feroldo ‐«Vallo a contà alli beoti.. vui m’avete de securo menato accà come en una priggione e mmo non ve vene en la capa che con chista pensata avite compeuto uno crimmine da galera?!» «Beh, crimmine, no’ esageriamo!» «Va bene, vedaremo se so’ esaggerato. Perché io fora de cca’ me ce vado allo palazzo de la raggione dove ce stanno li giuddici de città e faccio denonzia de ‘sto sequestro che avete combenato de me co’ l’enganno e la truffalderia». Lo speziale si leva in piedi gridando «Angeli de lo demonio, venitece en aiuto che st’anima è retornato dentro la su’ follia» E all’istante appaiono su una rupe i due frati dell’ umiliati che calzano doe ali granni sulle spalle e le aggiteno sbattendo qua e là cridando: «Vade retro indemoniato!» e accussì se lanzeno abbasso contra ‘a Feroldo menando botti d’ala tremendi e pedate en ogni loco. Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 58 «Perdono, chiedo pietà signori angeli dellu cielo!» «Pèntete! Pèntete!» gridano tutti li presenti in coro. E l’angeli d’aggiunta con voce tonante: « Allu foco te gittiamo se te va n’altra volta a pronunzià blasfemie de sta manera..!» «No, no, bono sarò!! Perdonatemi, Perdonatemi! Ve prego sarò come un agnello!» e crolla al suolo colpito dall’ultima mazzata tremenda. Uno degli agnoli pija nu secchio, va alla fonte appresso, lo colma d’acqua, quindi torna dove ce stà Feroldo svegnuto e je scarica sullo viso tutta ‘na d’acquata. Feroldo se leva assettato all’estante tutto madedo como nu pulcino a miezzo annegato e grida «Chedd’è? Dove sto? Mamma l’angeli ancora, Nun me picchiate più che ssò redento..» «Si, mettiti tranquillo» dice lo speziale‐ «Assettate, bisogna che tu ce responni a qualche domanda che te facciamo… ma bigna che tu parli co’ cœre ‘n mano e la verità ‘n lu zervello!» «Lo faccio ben volentiere, dicame MASTRO GIUSTO »ONESTO (METTERE IN TESTA) «Allora: fatte venì en mente, se te riesce, uno delli toi compari de ziogo d’azzardo che te pare fusse de la taglia toa» «Taglia come a dì che c’ha le misure mie misme d’abbito?» «Si, quello» «Ce n’era uno che so sicuro lo fosse pecchè m’aveva regalato un suo vestito che mi annava nitto e pulito come se me l’avessero cucito pe’ me.» «E dimme lu nome » «Barullo, anze don Barullo Statammuocca…» E lu speziale esclama «Ecco Bene, bene, Barullo. …che de certo no’ l’era dello rione nostro…» «Eh, no. Era di Margellina» «Ah, dove ce stanno li palazzi delli banchieri e delli nobbili» «Essì! credo fusse banchiere pur illo na vota. Ma pecché ve interessa de sapè dellu mio compare de gioco?» «Aspetta le domande le faccio io. E quinni isso era uno di quelli che imprestava li denari per jogà? «Si isso cosi steva» « E senza favve pavà l’ interesse a strozzo?» «E come lo sai? Chisto parriculare nun l’ho detto manco alla muliera mea, Rosaria» «Nu fa’ domanne, te ripeto» «E dimme, responni il giusto che poi te lassammo in pace: tu te n’eri reso conto che chelli quatrini de le vincite ell’era uno regalo che vi facevano pe’ tegnervi ligati alla congrega loro?» «Essì che lo sabevo. Ell’era na regalìa che ce facevano li patroni de la bisca, pe’ tenecce legati zitti ebboni» «Zitti pe no fa scovrire che?» Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 59 «Ennò, nu lo posso dì, c’è pericolo che mi ammazzano! «Ma tu sei già morto, che te ne fotte a ttè!» «Ah!e ggià !Allora pozzo parlà» «Essì!» «Allora te vojo dicere che chilla del nostro quartiere Malpertugio nun è la sola bisca en azzione ma ce ne stanno dell’altre pe’ tutta Napoli, in ogni rione e tutte senza permesso de jogo. O meglio lu permesso ce sta, mall’è truccato, farso.» Feroldo ride. Lo speziale lo incita: «ell’è naturale che ci sta quarcuno che la covre sta truffaldia e che ogni vota incassa lu boccone pe fa’ mostra de no vedè. Ma è ggente de la polizia?» «No, più in alto! E so quattrini tanti» «Più in alto. Ma di quelli che stanno in coppa alla scalinata? E tu lo sai chi sò?» «Ennò quello no lo puozzo dicere» «Ma sei morto» «Ma chelli c’hanno pure li santi e li angeli comprati» «A proposito d’angeli, ecco che ritornano » e indica la rupe di fronte da dove sono apparsi gli angeli di prima. «No, no, parlo.. spiffero ogni cosa » «Vabbè, nun desturbateve» e ferma gli angeli. Così dicendo estrae un foglio di pergamena con una penna e calamaio annesso come fosse un gioco di prestigio e gli ordina «Fortuna che tu sai scrivere, segna qua nome cognome e l’indirizzo d’ognuno della “santa società”. Così nisciuno sape» Quindi Mastro Giusto ritira il foglio, lo infila in una borsa e dice: «Avimmo furnuto. Ma visto che te sei comportato bbene, te dico che cc’è una regalia pettè» «Pemmè e cheddè?» «Un loco coperto e sicuro dove porti a ben protetto ad alloggiare.» «Un alloggio pemmè? E ndo stà? » «Bene‐ ordina ai due‐ Vui staccategli la catena e tu seguimi.» Così si pone in cammino verso la rupe de fronte, dove ce stà un portone. Mastro Giusto se fa’ dà una chiave da uno dell’angeli che l’ha seguito e la infila nella toppa, gira la chiave, e l’ali de lo portazzo s’avreno : «Ecco derentro ce stanno provviste per almanco una settimana: acqua, vino, pane e perfino in letto grande tutto pettè!» «Oh grazie che maraviglia de purgatorio l’è questo» Lo fa entrare «Bada ce stanno anche lu candelabro e l’ acciarino per appizzarlo» Feroldo entra tranquillo osserva ogni cosa e ride felice, Mastro Giusto serra il portone e lo rinchiude. «ma c’avete fatto mi chiudete?» Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 60 «Sì, pecchè tu stii protetto.» «Uh, ma allora è ‘na priggione. «No, ne lu purgatorio non ce stanno prigioni.Nun dire accussì che poi lo Padreeterno suff’enne e nun si sa che fa. Chillo ha una mania pe’ li fulmini e nun te dico che combina». Lo speziale mima il botto di un tuono e tutti esplodono in una grande risata. All’immediata i tre salutano gli angeli che se son cavati l’ ale «Scusate ma noi tre –dice Mastro Giusto‐ bisogna che ce sbrighiamo a conducere una quarche inchiesta. Donche, devidiamoci li compiti: io vago all’ osteria dello Squaqquero, tu, Rosaria, vieni con me, che poi quanno avremo scoverto lo nome della vedova dello barullo Stattammuocca, tu ce farai ‘na visita a chella signora» «E io? ‐chiede Benevenuto ‐Che fazzo?» «Tu zompe come nu’ fulmine a santa Prassede donde ce sta Don Calisto , lo prevosto della congrega delli Accattoni.Tu te presenti eddici che temmanno jo , lo speziale Giusto» «Ho capito ..Ecchè je dimanno?» «De mprestatte la mappa di tutte le bettole e osterie de Napoli dove ce se joga d’azzardo» «E come lo sape issu? » «Attraverso li so’ accattoni. Chilli sanno ogneccosa.. Vacce! Ce sse rrevede stasera e appresso qualche giorno andremo a trovare lu nostro amico Trangipane alla marineria di porto.» E dice al ragazzo: «Poi toccherà a ttè recitare dinnanzi alli cumannanti de stu palazzo de justizia » «E pecchè io solo?» «Lo saverai più tardi. Addio!» Passano tre‐quattro giorni ed ecco li amichi de la nostra ghenga che se ritruovano dinnanzi allu palazzo de la marineria. Se presentano a lu piantone e dicheno con chi vogliono parlacce. Emediatamente vengheno accompagnate allu piano superiore e fatti accomodà dentro un salone dove ce stà lu sergente appresso a uno capitano maggiore chell’è ppoi lo responsabile de tutta l’organizzazione de justizia. Lo capitano se ll’eva e je và incontro alli tre poi li fa accomodare su tre poltrone. se va a sède pure lo serzente e comenza l’approccio: il capitano avre subito decendo «Spero che vui ce portate bone nove.» «Nui Speriamo che le sieno de certo» risponde Mastro Giusto, «ma l’è migliore che parli chillu che fra di noiartri ha menato a vantaggio l’indagine tutta. Io e Donna Rosaria siamo solo suoi collaboratori» Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 61 «Allora è lu giovane lo maestro inquisittore» (???) «Si, è codesto» Così Benevenuto se leva all’impiedi e espone la inchiesta sua: «Noi, segnori illustrissimi offiziali avemmo descoverto che lu’ muorto annegato col piede appeso alla barca null’è de securo Feroldo lu pescatore, come ce sta inciso nella collana che l’annegato tegneva alu collo, ma lo vero suo nome è Barullo Statammuocca. «Fermatevi un attimo amisci! Sergente, per favore, prendete nota de tutte cose » Il sergente esegue, afferra un registro e comenza a segnare. Il capitano: «Pruseguite!» «Cotesto Stattammuocca nu tempo era banchiere, ma fu cacciato dalla società delli prestiti pe truffa e bancarotta.» «Ah.. chillu è.. Mo’ aggio capito. È un’antica conoscenza» «Issu Don Barullo insieme ad altri malandrini de alto bordo fra i quali c’erano dei bari de mestiere aveva messo in campo tutta una straordenaria organizzazione de gioco d’azzardo, con bische in ogni quartiere napulitano. Qua ce stà l’elenco de ‘na gran quantetà de chelli lochi malfamati, pe’ lu resto ce pensate vuie.» «State tranquillo che ce daremo daffà!» «Inoltre» ‐ prosegue Benevenuto‐ «grazie all’oste della taverna dello Squaqquero che s’è deciso a raccontacce ogne cosa, avemo descoverto lu nome e dove tegnono casa tutti li torbidi che partecipano a chistu traffeco.» Mastro Giusto gli passa nu safaldone de carte che Benevenuto pone sullo tavolo dinnanzi a li doi uffiziali e quindi aggiunge: «Accà c’è tutto quello che ve serve pe’ ffà na bella retata che per sistemare l’arrestati ve tocca d’ avrì almanco quattro nove prigioni» E il capitano sfogliando l’elenco delli nomi : «Ecce n’è sì!Da facce na mapparia.. Ma che bravi site stati!» «Grazie Capitano! E ancora derentro a st’altri fogli truoverete nu calcolo de tutti l’incassi e le rendite dell’intiero zozzo affare ,jurnata pe’ jurnata. » «Eccheddè?!Ma ‘sta indagine ve la siete pappata tutta da suli vui tre?» Benevenuto dice: « A dì la verità nuje ce vengheno in soccorso di molti amici, de chilli che sapeno ogne cosa de sta città: accattoni, peregrini, pizzocchere, pottane, preveti, santi e malandrini e pure li sorchi ce vengheno in aiuto.» «Bhè, annate Avanti Benevenuto che ce stemo proprio a divettì» «Anca nuie, donche..Ell’è chiaro che la raggiuone dellu pecchè Don Barullo è stato occiso e poi annegato è da ritruovarse fra li capi Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 62 dell’intero affare completamente detassato.. poi zercheremo de dirve come e da chi.» E subito lo capitano dimanda: «E qual è lu trallocco, lu movimiento che ha causato sto delitto secunno a vui?» «Segnori lustrissimi ofiziali, a sto punto bigna che ce faccimmo n’arresto‐ Senza manette, s’intende!‐ Per la prossima pontata della istoria chilla, de chiusura, ce vedimmo fra Quattro ggiorni» «Ma diteci almanco mo’ qual è la vostra ipotesi, ci interessa, fin’ora ve dirò, ci avete dato la dimostrazione de essere degli investiganti de grande savienza.. vero capitano?» «Essì, dice il capitano, eddeppiù, ve vegno a dicere che nuje no ce potemo permetter de lassarve annà for a d’accà senza una accettazione de ongaggio derentro lu nuostra offizio de polizia, ispecie allu jovene» Rosaria scoppia a piagne pe’ la felicità. E Benevenuto dice: «E questa poi? me volete fa’ chiagnere anch’amme?» Il sergente che s’è allontanato verso no mobilone da sagrestia ritorna al tavolo con un registro e lo va a porre dennanzi al capitano. Il capitano dice: Ecco, qua ce sta lu cuntratto de ingaggio con tanto de compenso giornaliero per un minimo iniziale de cinque anni. Firma: nome cugnome endo stai e la dechiarazione che tu sorti dallo tua congrega dell’ummiliati e te pone a nostra desposizione. «Ossì, ‐ dice sottovoce Rosaria, che accussì me pole anco sposà‐» Comme l’è stabilito Rosaria se arreca a fare visita alla vedova dellu sosia del marito soio – chillo occiso e mangiato da li pesci.‐ Esta ddama nulla sape de sto delitto e a Rosaria non ce ancò vegnuto ne la mente come dacce l’avvisata. La figliola zonze a Marzellina sotto allu palazzo delli Stattamuocca e truova lu portone abierto senza manco nu custode. Monta lo scalone e sbatte lu batacchio alla porta ndo c’è scritto l’enderezzo. Lo portale se avre senza che alcuno ce stia de là a movere l’ante. Rosaria dimanda se ce sta gente in casa, fa qualche passo ne lu salone che dà a ‘na scalenata e di lasù parte na Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 63 frezza che per uno poco nun la piglia in su la fronte. E la frezza se va a infilzà nello pavimento de massello. «Ohie! Cheddè esta manera de riceverti accà?» crida Rosaria. «No te movere deddove se’!» ordena na voce de femmena de lassù in coppa a lo scalone. «Eccheddè?» «Chista è l’avvesata!» je risponne la segnora de palazzo che tene na balestra pontata abbasscio. «Come che tu fa lu gesto de montare quassù te zonze ‘na frappata in mezzo a lu petto!» «Ma segno’, je sò la mujiera de lo doppio de lu marito vostro» «Mo che disce. Doppio? Mio mariuto c’ha nu doppio?» «Cello teneva.. mo nonn ce sta più!» «Chi non ce sta più ? lo doppio o lo marito meo?» «Signora me dispiace… ma vvoi averete savuto de lu pescatore che hanno truovato impigliato con lu pede a la sua barca annegato..» «Si, n’ho sentuto parlà… Ebbè?» «Li ommini de la polizia de marina m’ erano vegnuti addìscere che chillo fusse lo marito meo ma appresso avimmo scoverto che non era accussi.» «Ahnno? E ccheddè?» «Lu muorto è marito a vuje, segnora dama» «Macche dite lo marito meo??» «Donna Fabrizia, ascoltateme, chisto è il vostro nome?» «Si, come lo sapete?» «Ascoltateme, appresso ve dico ogni cosa.. Signora lo marito vostro da quanto tiempo ell’è sparuto?» «Serà do settimane.» «Allora è proprio chillo lo cadavere c’hanno seppellito l’atro ziorno.. » «oddio Santo protezzeme! Che me state a dicere!!! Ecchepprove avete vui che sea accussì? » «Segnora appresso dico ogne cosa.. Ma lassateme fare qualche domanda. In questi ziorni ell’è gnuto qurche duno a farve visita?» «Ecchiamala visita, per nu poco sti briganti me volevano ammazzà de securo. chilli hanno ucciso tre delle guardie mee che steveno qua a farme de protezione.. scannate accussì..» «Lo immaginavo.. anche damme so venute, e volevano ammazzà lo mareto meo» «Ma non avete detto che ell’è morto?» «Ennò illo è vivo pecchè s’è fojuto , o meglio ce l’avimmo fojuto» Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 64 «No c’è capisco niente de sti discorsi che me fate» «Se me permettete de montà o scennete voi sarebbe più facile farse entendere» Così donna Fabrizia Stattammuocca descende, se vanno a serrà in una cammera che dà verso lu mare, con tutte le puorte e fenestre serrate e se recomenza lu dialogo. E accussì la segnora vene a savè de tutte cose ispecie delle pruove enconfutabili che ce stanno su l’ammazzamento de lo sposo sojo e de rimando Donna Rosaria je va a raccontà de chillo che il savea: Don Barullo ell’era proprio ‘nu fetiente pecchè ne lu momento mismo che fazeva affari co quella masnada de malavita se steva a preparà ‘nu tradimento» «Comme sarebbe a dicere?» l’interrompe la signora «Sarebbe a dicere ‘na soffiata con denonza de ognuno». «E quall’era lo vantazzo che ‘stu enfame de lu marito meo ce poteva guadagnà?» «Chillo de eliminà tutti li so’ compari, pijarse ogne profitto e sortire netto pulito da sta miserabbile società de la monnezza.» «No! » –esclama Donna Fabbrizia‐ «Essì, vui non ne sapevate niente?» «Come nno, lo sapevo ssì, ma me piace sentermela cunfermà. Io lo dicevo sempre: Barullo meo tu ce stai annando troppo all’empazzata in esta purcaria..va a finì che ce rimetti la capa.. » «Essì è cussi che è stato.. Certo che lu vostro marito ell’era nu sacripante cun tante di cervello.. che pensata… illu lo sapeva bbene che facenno la spiata avrebbe guadagnato l’empunità» «Certo che a me me piacerebbe de sapè quanto era reussito a tirarse in la borsa e en quanto tiempo» «Bè, glielo diche jo cara amega mea.. »e ccossì dicenno abre nu cassetto e tira fora nu malloppone de incartamenti con la lista che fra lui e li soci soi s’erano collezionati,sti truffaldi: palazzi, gioie, poderi co ville , eppure navigli co doppia velatura «Tutto sempre senza pavà nu soldo per lu diritto d’ acquisto o vendita.» «Fermateve nu momento Donna Fabbrizia che me gira la capa come una tarottola empazzuta: «Mavvoi, segnora, come ve pensate de scampavve da chilli assassini che ve stanno addà la caccia cumme a nu capriolo? » «Nun lu sacce..dateme nu consiglio vui chemme apparete na figliola con tanto de ingegno!» Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 65 E Rosaria responne: «È chiaro che vuje siete l’unica testimonia remasta de tutto sta fetenzia quindi, accà ci vuole nu gioco di prestigio besogna farve sparì”. “Sparì pessempre“? “No, fateme finì. Proprio mò me viene na pensata: mio marito ell’è nasconduto in un loco che nessun al mondo ci penserebbe» «Endostà?» «Allo purgatorio e anco vui ci dovete anna cò lui» «Con vostro marito allu purgatorio? Macché dite» «Appresso vi dò tutta la spiega, ma mmo besogna che ce diamo una mossa svelta assai.. Fora ce stanno li amici mei do galantuomini che ce meneranno dove alla fine ve troverete allo sicuro. Mò me pijo totta sta malloppata de carte e vuje abbijateve co lo mejo abbito de cerimonia che c’avite e anco tutti li vostri bbeni che potite menar co’ vuje. Jamme!» E finalmente semo arrivati a lo sotto finale della istoria. Rosaria, Donna Fabrizia, Mastro Giusto e Benevenuto, seguiti da li doi anzeli che tireno nu carretto chino de mercanzia, stanno zonzendo ai Campi Flegrei. «Ah, è codesto che chiamate ‘lu purgatorio»‐ esclama Donna Fabrizia.‐ «Si»‐dice Rosaria «e vederete che ve piacerà nu sacco» Ecco n’altro po’ de cammino e la combriccola zonze dinanzi a la rupe dove s’apre lo refugio de Ferondo che ggià ha sentuto le voci e sta cridando: «Oh! Site zonti alfine! Site delli disgraziati infammi. D’accordo che sto allo purgatorio, ma lassamme cà comme una fetecchia, desperato”. “Nun allucca, Ferondo, t’avimme purtato nu regalo che te annerrai a desvenire per la maravija”. Così dicenno Mastro Giusto avre lu portone e appare Ferondo seminudo ancora legato a nu piede co’ na catena. Donna Rosaria dice: “Marito meo, chista nun è la manera de presentasse a na signora. Gittate addosso quarcosa da covrirse!” E indicando Donna fabrizia Ferondo dice: «È chillo lu regalo? Ah, è bella assai!» così dicenno pija un linzolo e se l’accomoda come fusse no mantello. «Chista che te presento è n’amica mea. Appresso sarà lei a ditte chi l’è e perché è venuta ell’è costà». Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 66 Li doi anzeli senza l’ali scarecheno tutto quello che sta sullo carretto, l’uno all’altro se fanno convenevoli quinni Rosaria dice alla signora: «Metteteve a vostro agio. Cavateve pure sto vestimento da reggina e poneteve alla tavola, è l’unico modo per conosserve». Il desco è stato già approntato con cibo, vini, frutti e perfino con un dolze de pastiera. Un attimo e tutti, fra vasi e brazzi, se ne sorteno. Li doi ospiti dellu purgatorio no poco scurnusi se so posti uno appresso all’altro. Anco alla segnora c’hanno messo na catena alla cavija, così tanto pe’ creacce na situazione d’eguaglianza. Intanto che se pranzeno e se racconteno tutte cose della vita loro scende lo scuro, appizzano le lampade. A fatica se portano allu letto, isso, lu mascolo je domanda alla segnora nu piacere: là appresso ce sta na fonte, isso vurrebbe tanto che la segnora l’aiutasse a fasse no risciacquo dellu corpo tutto pecchè se ssente sozzo assaje, so giorni e giorni che non se lava. Alla dama gentile nun je par vero, se despoja nu poco pure issa e comenza a ensaponare tutto quanto je capita de chillo cuorpo sotto le mano. Anco isso ferondo accatta nu piezzo e sapone e fa lo mismo colla signora. Comenzeno a ride e a mannà grida e gemiti, appresso se assugheno colli lenzoli e poi se destendono sullo letto ma le catene nun je permettono de staccarse uno dell’altro, so costretti a stà appicciati. «Me dispiace» dice Ferondo «de starve così appresso» «Oh, no» responde Fabrizia «me fa piacere dallu momento che sta calando lu jorno. Se fa più frisco” «Sì, avete raggione, ell’è così bbono dunasse lo calore». Li giorni appresso a Napoli pare che sia zonto lo judizio universale: l’ommini maggiori de tutta la città vengheno incatenati e portati alle galere. Benevenuto ell’è stato pijato en carico dallu palazzu de justizia della Marineria, Rosaria ell’è rimasta gravida. Nasce lu fijolo, nu masculo, e lu jorno dellu battesimo sotto la casa nova, sempre nello mismo quartiere, tutta la ggente dello rione je fà festa granne: hanno approntato na tavolata longa longa pe’ tutto lo vicolo del Malpertugio e fanno regalìe e musiche, canti e danze. «E lo padre de lo nasciuto a dò stà?» «Pare che sia morto chissà dove!» Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 67 «Avea appena seminato a la su’ femmina sto fijolo che se n’è sparuto». «No, miracolo! Eccolo! È tornato! Ed è proprio isso, il padre, Ferondo, che viene avanti accompagnato da tutti li amici soi: lo speziale, il nova guardia Benevenuto e c’è pure Donna Fabrizia che vene a fà da madrina allu piccirillo». Quarche amico proprio sincero je dice: «Sò felice Ferondo, che sì tornato. Ma nun c’hai fatto caso che sto tuo fijolo ce tiene na stramba capijatura» Ferondo dice: «Pecché stramba?» Je risponne l’amico: «La mujera toja è nira nira de pelo, tu iguale e chillo piccirillo è ruosso come lo foco. Da chi ja pijato?» «Da me. E da chi sennò?» E così dicenno se toje lo cappielo dalla capa e dice: «Anco io so ruosso, guarda accà». E appare sta mappata de capelli davvero de foco. «So finti, ma chissene fotte». IL MORTO MANGIATO I BARI CHE FANNO IL TOUR DELLE OSTERIE Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 68 LA CORRUZIONE (anche di personaggi importanti) – SONO LORO CHE GESTISCONO LA LOTTERIA N.B. •TRIVIALITA’ DONNE •DIASPORA DEL CLERO ROMANO CON PAPA AD AVIGNONE (CATTIVITA’ AVIGNONESE) •NASCITA DELLA REPUBBLICA ROMANA CON COLA DI RIENZO CHE SI FA ELEGGERE TRIBUNO •MERETRICI PROCURANO PROSTITUTE DI GRAN MESTIERE E BELLEZZA TRA LE QUALI DANZATRICI, SUONATRICI DI LIUTO E CANTATRICI PER ARRICCHIRE LE FESTE DI CORTE; DONNE CHE VENGONO OFFERTE PER IL SOLLAZZO DEI PRINCIPI PERCHE’ GRAZIE ALLA LORO CARINERIA SONO CERTI DI OTTENERE BENEVOLENZA E PRIVILEGI DAI REALI E DAI LORO TIRAPIEDI •TERREMOTI •PESTE •INVASIONE DELLE LOCUSTE (PROCESSATE E CONDANNATE A MORTE) •DISASTRO FINANZIARIO CON IL FALLIMENTO A BANCAROTTA DEI BARDI E DI TUTTI I GRANDI MERCANTI CHE COINVOLGE ANCHE IL PADRE DI BOCCACCIO, COSTRETTO A SGOMBRARE LA PIAZZA DI NAPOLI E A Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 69 TORNARSENE A FIRENZE ONDE CERCARE DI SALVARE L’INTIERA “BARACCA” IN SFALDAMENTO •IL TRASFERIMENTO RENDE TRISTE BOCCACCIO: HA IMPARATO AD AMARE NAPOLI, SPECIE LA CORTE E LA VITA FESTOSA CHE LA’ SI SVOLGE A CONFRONTO CON FIRENZE DETTA “GRIGIA”, CON LE SUE LEGGI E IL SUO RIGORE COMUNALE •BOCCACCIO A FIRENZE ACQUISTA PERO’ CREDIBILITA’ PRESSO GLI AMMINISTRATORI E GUADAGNA CARICHE MOLTO IMPORTANTI. IL PARADOSSO È CHE VIENE ADDIRITTURA ELETTO RESPONSABILE DELL’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA E DI CONTROLLO MILITARE DELLA CITTA’ •CONTATTO DI BOCCACCIO CON I BRIGANTI DA SOPPRIMERE: INCONTRO DIRETTO CON FRA’ MORIALE E COLA DI RIENZO CHE STA TRATTANDO CON I BRIGANTI STESSI (vedi novella della donna rapita del brigante) •CATTURA DEI BRIGANTI DA PARTE DI COLA E LORO SOPPRESSIONE •RUOLO DI GIOVANNA DI NAPOLI NELLA VITA E NELLA POESIA DI BOCCACCIO •CORRISPONDENZA COSTANTE FRA LA REALTA’ STORICA ATTRAVERSO GLI EVENTI TRAGICI E GROTTESCHI CHE SI SUSSEGUONO NELLA QUOTIDIANITA’ DEL TEMPO; BOCCACCIO CERCA DI METTERE QUESTI ACCADIMENTI IN EVIDENZA NELLE SUE STORIE. SEMBRA ECHEGGIARE LA FAMOSA FRASE DI SAVINIO NEL SECOLO APPENA PASSATO CHE DICEVA AGLI ARTISTI DEL SUO TEMPO: “CANTATE UOMINI LA VOSTRA STORIA E ANCO SE TRATTERETE DI FATTI ANTICHI O PROSSIMI IMMAGINATI NARRATELI COME SE SI STESSERO SVOLGENDO NEL VOSTRO TEMPO PERCHE’ VI AMMAESTRINO ALLA PRESENTE VITA”. •CONCOMITANZA NELL’APERTURA DEL DECAMERON FRA L’INCOMBERE DELLA MORTE PER LA PESTE CHE CREA STRAGE E LA GRAVE MALATTIA CHE STA PORTANDO CON SE’ IL PROTAGONISTA SUL LETTO DOVE GIACE INFERMO E LA CONFESSIONE DEI PECCATI CHE IL MORIBONDO FA AD UN SANT’UOMO, UN FRATE CHIAMATO PER L’ESTREMO CONFORTO. IL BANCHIERE PROCACCIATORE DI DEBITI NON SALDATI, FEROCE, CRIMINALE, CORRUTTORE CONFESSA DI AVER CONDOTTO VITA INDEGNA MA APPRESSO ELENCANDO I SUOI PECCATI DESCRIVE FATTUCCI DA Boccaccio Dario Fo – prima stesura – 12 agosto 2010 70 EDUCANDA DANDO PERO’ A QUESTI ATTI UN TRAGICO VALORE. LA TROVATA SCONVOLGE IL SANT’UOMO CHE SI CONVINCE ESSERE QUEL MORIBONDO UN’ANIMA DEGNA DEL PARADISO. •SCOPRIAMO LE DOTI IMPENSATE DI BOCCACCIO: IL POETA SA DIPINGERE E CON DISEGNI E MINIATURE ILLUSTRA LE PROPRIE NOVELLE. •L’INCORONAZIONE, IL RISENTIMENTO DEL GIOVANE SPOSO E DELLA CORTE UNGHERESE; LA REGINA ERA PRIMA E IL MARITO RELEGATO AL RUOLO DI PRINCIPE CONSORTE. Fin dalla pubertà il nostro fabulatore, seguendo il pensiero classico, si cimentò nella scrittura di veri e propri poemi in cui esaltava la presenza delle donne nel Creato. Con questi suoi scritti il giovane voleva dimostrare che senza le donne la vita nell’universo sarebbe vuota e infelice. Le protagoniste di queste storie, come abbiamo già accennato pocanzi nella “Caccia di Diana”, erano per di più divinità o ninfe seguaci della dea della caccia o di Afrodite. Appunti da: “FIRENZE nel medioevo”: repubblica di diritto autonomo (p. 10) le altre comunità in europa dovevano strappare le proprie libertà come privilegi da pagare con moneta ed elargizioni mercatali santissima giustizia: citazione machiavelli l’inquisizione ha avuto spazi minori d’azione