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Ci teniamo i clandestini e cacciamo gli imprenditori
PRIMO PIANO Venerdì 26 luglio 2013 3 @ commenta su www.liberoquotidiano.it DIAGNOSI E CURA Ormai i mali di cui soffre il Paese li hanno capiti tutti. Ma in molti non si rassegnano all’unico rimedio possibile: tagliare le spese e le tasse soldi e lavoro La denuncia di Confcommercio La corsa a ostacoli delle nostre imprese Ci teniamo i clandestini e cacciamo gli imprenditori Perfino un politico di sinistra come Fassina l’ha capito: spesso si evade per sopravvivere L’alternativa è fuggire dall’Italia. Gli unici a rimanere sono gli stranieri che delinquono ::: segue dalla prima MAURIZIO BELPIETRO . (...) a non pagare. Ovviamente non parliamo di gentaglia che lo fa per guadagnare sempre di più, senza alcun senso civico e di solidarietà, ma di quegli imprenditori o commercianti un po’ borderline, che tirano avanti sul filo del rasoio. Nel numero di Panoramain edicola il sociologo Luca Ricolfi, studioso di sinistra certo non sospettabile di simpatie per gli evasori, spiega che ci sono professionisti, gioiellieri e altri che fanno i furbi, ma ci sono anche alcune decine di migliaia di piccole imprese del Centro Nord che evadono per necessità e se non lo facessero chiuderebbero, licenziando centinaia di migliaia di persone. Il professore aggiunge che nel Mezzogiorno, dove il tasso di evasione è circa il triplo di quello del Nord, andrebbe pure peggio: l’intera economia meridionale sarebbe rasa al suolo. «Almeno un milione di persone perderebbe il lavoro, la gente scenderebbe in piazza contro lo Stato e il prestigio di mafia, camorra e ’ndrangheta salirebbe alle stelle». Ecco perché, conclude il docente subalpino, la lotta all’evasione la si fa solo a chiacchiere o con qualche iniziativa un po’ spettacolare. Perché se si facesse sul serio bisognerebbe essere pronti ad affrontarne le conseguenze: in termini di rivolta sociale e in termini di consenso. Su chi tira a campare senza pagare le tasse ingrassano i partiti - che sanno benissimo dove non si fanno gli scontrini e non si emette fattura - ma anche i sindacati, i quali chiudono un occhio per evitare che le aziende chiudano i battenti e i dipendenti dell’evasore si trasformino rapidamente da occupati in disoccupati. I quali, come è noto, non pagano le tasse ma soprattutto non pagano la tessera alle confederazioni. In modi diversi, Fassina e Ricolfi dicono la stessa cosa. Di troppe tasse si muore e dipingere chi non versa le imposte come se fosse un delinquente e non un imprenditore messo alle corde dalla crisi e da uno Stato che non lo aiuta ma lo vessa, non aiuta a capire né a risolvere il problema. Ieri, sulla prima pagina del Sole 24 Ore c’era la notizia di un’azienda di Albiate, Brianza, che ha deciso di trasferirsi nel Canton Ticino. L’industria, specializzata in forcelle per le biciclette, trasloca tutto, non solo i macchinari, ma anche i dipendenti. Seguendo l’esempio di molte altre imprese lombarde e venete, la Sintema Sport non va in Romania o in Serbia, dove le garanzie per le maestranze e anche i salari sono ridotti al minimo: va nella vicina Confederazione, dove ci risulta che stipendi e costo della vita siano supe- L’IDEA GRILLINA CHE AUMENTA LA BUROCRAZIA D’Alia promette di abolire il Durt E il M5S si dissocia da se stesso Il M5S si dissocia da se stesso. Il movimento di Beppe Grillo ha infatti sconfessato l’emendamento presentato dal suo esponente alla Camera, Giacomo Pisano, che introduceva il Durt (Documento Unico di Regolarità Tributaria). Al Senato i grillini ora lavoreranno per cancellarlo. Il Durt sarebbe un ulteriore aggravio burocratico, in un Paese in cui la burocrazia pesa per il 10 per cento sul costo d’impresa. In precedenza era stato il ministro della Pubblica amministrazione, Giampiero D’Alia, ad impegnarsi per l’abolizione del Durt. D’accordo anche Pdl e Pd. riori a quelli nostri. Il titolare spiega l’addio all’Italia in modo chiaro, citando la tassa sui rifiuti che costringe l’imprenditore, oltre a pagarla, a tenere un registro di carico e scarico del materiale da smaltire e lo obbliga a consegnare nell’apposito centro di raccolta lo scarto in eccesso. «Non ce la facciamo più», dice, «stiamo raschiando il fondo del barile». Altro che prevedere sgravi per chi assume, come si è deciso con il decreto del Fare. Qui i soldi e la fiducia per investire sul futuro non ci sono più e invece di fare si comincia a disfare. I nostri ministri e i nostri sindacalisti non hanno ancora capito che l’unica via per rilanciare l’economia, non far scappare le aziende e battere l’evasione è riassumibile in una sola parola: tagliare. Andare di forbici con le spese, la burocrazia, i tempi della giustizia e le tasse. Questo è il solo modo conosciuto per far ripartire l’Italia ed evitare l’emigrazione delle imprese. Ma al contrario, noi, mentre mettiamo in fuga chi vuole darci lavoro, ci teniamo gli immigrati che al posto del lavoro hanno scelto il crimine. Via gli industriali della Sintema Sport, dentro i picconatori alla Kabobo. Bell’Italia, con la picconata assicurata. [email protected] @BelpietroTweet ::: CLAUDIA CASIRAGHI La burocrazia italiana è ormai diventata un male di proporzioni gigantesche, capace di penalizzare gli imprenditori al punto da costringerli a sprecare, mediamente, sei giornate al mese per sbrigare le incombenze burocratiche e amministrative. In un Paese già provato dalla recessione, il sistema burocratico rappresenta quindi l’ostacolo maggiore alla nascita e alla crescita delle imprese. Lo dimostra un documento diffuso nei giorni scorsi da Confcommercio. La confederazione che riunisce circa 700mila imprese ha voluto offrire una panoramica complessiva della situazione, avviando anche un confronto tra la burocrazia del Belpaese e quella di altri Paesi europei e non. Si legge, tanto per fare qualche esempio, che, per avviare una nuova impresa, all’imprenditore italiano sono necessari addirittura 78 adempimenti, laddove invece a quello statunitense ne bastano sei. Per la costituzione di un rapporto di lavoro poi in Italia sono necessari 56 adempimenti; negli Stati Uniti uno. Ancora, qui da noi occorrono 68 adempimenti per garantirsi l’accesso al credito mentre in Inghilterra è sufficiente un solo adempimento. Ma il fronte più problematico riguarda gli adempimenti fisca- li: le imprese italiane infatti devono far fronte a 122 adempimenti in un anno contro i 12 richiesti alle imprese inglesi. Un altro fronte critico è quello dei controlli e delle ispezioni: ci sono troppe sovrapposizioni e duplicazioni inaccettabili. Finché le autorità preposte ai controlli saranno tanto numerose, nota l’associazione dei commercianti, sarà pressoché impossibile riuscire a coordinare le loro attività. Risultato: incertezza sulle regole e competitività delle imprese compromessa. Nell’enorme macchina burocratica, inoltre, sono diventati sempre più frequenti i ritardi nei pagamenti e il mancato rispetto dei termini contrattuali da parte della pubblica amministrazione mina la sopravvivenza delle imprese, specie delle più piccole. Confcommercio termina la sua disamina con alcune cifre eloquenti: 61 miliardi di euro il costo stimato della burocrazia italiana e 95 miliardi di euro il debito che le amministrazioni pubbliche hanno contratto con le imprese fornitrici di beni e servizi che, per essere pagate, aspettano circa 186 giorni. Mille giorni servono, in media, per ottenere una sentenza di primo grado. Non c’è da sorprendersi se nel 2012 mediamente hanno portato i libri in tribunale 34 imprese al giorno.