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Il sofferto rapporto tra legge e autonomia collettiva

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Il sofferto rapporto tra legge e autonomia collettiva
Il sofferto rapporto tra legge e autonomia collettiva: alcune riflessioni ispirate
dalla nuova disciplina dell’orario di lavoro
di U. Carabelli e V. Leccese
Il saggio è stato pubblicato sul volume “Percorsi di diritto del lavoro” (a cura di Garofalo D. e Ricci G.), Cacucci,
Bari, 2006, pp. 193- 224.
Sommario: 1. La recente riforma dell’orario di lavoro nel più generale quadro dei rapporti tra legge e autonomia
collettiva. – 2. Le differenti funzioni dei rinvii legali all’autonomia collettiva contenuti nel d.lgs. n. 66/2003 e i problemi
d’incostituzionalità per contrasto con l’art. 39 Cost. – 3. I rinvii in funzione migliorativa dei trattamenti legali (deroghe
migliorative). L’efficacia soggettiva dei contratti collettivi stipulati in attuazione dei cd. rinvii impropri. – 4. I rinvii in
funzione peggiorativa dei trattamenti legali (deroghe peggiorative). – 4.1. Segue. Il problema dell’efficacia soggettiva:
le tesi che poggiano l’erga omnes dei contratti collettivi di diritto comune su modelli ‘alternativi’ a quello dell’art. 39,
seconda parte, Cost. – 4.2. Segue. Le tesi che poggiano l’erga omnes dei contratti collettivi di diritto comune
sull’interpretazione ‘riduttiva’ dell’art. 39, seconda parte, Cost. – 4.3. Segue. Il ritorno all’efficacia inter partes dei
contratti collettivi di diritto comune e la funzione promozionale dell’effetto legale derogatorio. Gli escamotages per
l’estensione erga omnes. Indivisibilità e pretesa ‘giuridica necessità’ dell’efficacia generale. – 5. I rinvii in funzione di
limitazione dei poteri datoriali. Procedimentalizzazione ed efficacia soggettiva del contratto collettivo. – 6. I rinvii in
funzione d’integrazione o specificazione di norme legali. – 6.1. Segue. Il problema della funzionalizzazione della
contrattazione collettiva da parte della legge. – 6.2. Segue. Il problema dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi
con funzione integrativa o specificativa della norma legale. – 6.3. Segue. Il problema degli effetti legali dei contratti
collettivi con funzione integrativa o specificativa della norma legale. – 7. Conclusioni: diritto privato, principio
volontaristico e garanzia di democratica rappresentazione della volontà dei lavoratori.
1. - All’interno del processo, in atto ormai da alcuni anni, di ridefinizione ed articolazione delle
‘relazioni pericolose’ tra legge ed autonomia collettiva nel nostro ordinamento, un importante e
paradigmatico tassello è certamente costituito dal d.lgs. n. 66 del 2003 (e dal suo correttivo, d.lgs. n.
213/2004), con il quale - in virtù della delega conferita ad opera della l. n. 39/2002 (Legge
comunitaria 2001) - è stata data «organica» trasposizione alla direttiva n. 93/104/Ce (come
modificata dalla direttiva n. 2000/34/Ce), ora «codificata» con la direttiva n. 2003/88/Ce del 4
novembre 2003.
Questo contributo si propone di ripercorrere, traendo spunto dalle norme del predetto
provvedimento, le più delicate questioni giuridiche sollevate dalla tecnica del rinvio legale alla
contrattazione collettiva svolta da soggetti selezionati dalla legge. A questo riguardo è sin d’ora
opportuno precisare come anche da tale provvedimento affiorino con forza i due aspetti
problematici che a tutt’oggi sviluppano le massime tensioni sui delicati equilibri dell’ordinamento
giuridico del lavoro: la questione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi oggetto di rinvio e
quella della selezione dei soggetti sindacali individuati dalla norma di rinvio. Si tratta, invero, di
questioni rilevanti sul piano delle politiche sindacali, ma che ovviamente assumono rilievo cruciale
nella riflessione del giurista.
In effetti, alla stregua di una lettura largamente presente nella dottrina, attraverso le disposizioni
di rinvio, il legislatore perseguirebbe non soltanto l’obiettivo di consentire alla contrattazione
collettiva di svolgere la funzione specifica cui è chiamata dalle norme legali, ma altresì di assicurare
che le concrete regole da essa poste nell’assolvere a tale funzione abbiano un’efficacia generale; e
ciò, nonostante la persistente presenza, nel nostro ordinamento, dell’art. 39, co. 2° ss., Cost.,
peraltro tuttora inattuati. Ed in questa prospettiva si può ben comprendere come la selezione legale
dei soggetti sindacali chiamati dalle singole disposizioni legali a svolgere le predette funzioni,
attraverso la stipulazione di contratti collettivi, risulti indissolubilmente intrecciata con quella
dell’efficacia erga omnes di tali contratti: essa pone, infatti, con forza il problema della
ammissibilità – in mancanza, appunto, di attuazione della seconda parte della norma costituzionale
– non solo politica, ma anche giuridica, di un’attività contrattuale, in grado di produrre anche effetti
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legali ad efficacia generale, svolta da alcuni sindacati selezionati dal legislatore, in modo difforme
da quanto previsto dalla seconda parte dell’art. 39 Cost. Un problema, questo, divenuto tanto più
grave e complesso mano a mano che, al fine di evitare possibili complicazioni derivanti dal conflitto
tra i soggetti sindacali designati dalle norme di rinvio, si è fatta sempre più ristretta la cerchia di
quelli che sono considerati dalla legge come idonei e sufficienti per svolgere le predetti funzioni (il
che - come si dirà nell’ultimo paragrafo - pone altresì il problema della determinazione della
volontà maggioritaria sul fronte sindacale).
Proprio l’analisi dei vari richiami alla contrattazione collettiva contenuti nel d.lgs. n. 66/2003 è
in grado di far emergere con grande evidenza le implicazioni generali appena descritte.
Al riguardo, va sin d’ora precisato che, nonostante la suggestione unificante indotta dall’art. 1,
co. 2°, lett. m), il quale fornisce una definizione generale di «contratti collettivi di lavoro» (si tratta
dei «contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più
rappresentative») da valere in tutti i casi in cui il decreto rinvii ad essi, nel d. lgs. n. 66 si
rinvengono in realtà anche dei rinvii a contratti collettivi stipulati da soggetti differenti e/o a
specifici livelli (cfr. spec. art. 17, co. 1°, e art. 18, co. 2°). Per altro verso, la generica formulazione
della citata lett. m), pur nella sua indubbia ambiguità, induce a ritenere che il legislatore delegato
abbia inteso ricomprendere tutti i livelli contrattuali, da quello interconfederale a quello aziendale,
passando per quello nazionale e per quello territoriale; soluzione interpretativa, questa, che consente
anche di fornire adeguata spiegazione alla presenza nel decreto di disposizioni che, come appena
accennato, operando in via d’eccezione rispetto alla norma generale, stabiliscono specificamente il
livello competente (per argomenti più analitici a sostegno di questa interpretazione e per i necessari
rinvii alla dottrina conforme e contraria, si rinvia a Carabelli-Leccese, 2005; Bolego, 2004).
Orbene, è evidente che tutti questi rinvii ripropongono la determinante questione del rapporto tra
le varie norme (del decreto contenenti il rinvio) e l’art. 39 Cost., tanto nella parte fondante la libertà
sindacale (co. 1°), quanto in quella disciplinante la contrattazione collettiva erga omnes (co. 4°).
2. – Il problema del potenziale contrasto con l’art. 39 Cost., incombente su tutte le norme che
rinviano a contratti collettivi non è nuovo e, più in generale, riguarda quell’ormai assai variegato
insieme di disposizioni che, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, hanno rinviato alla
contrattazione collettiva al fine di introdurre deroghe agli standards legali di disciplina del rapporto
di lavoro o anche al fine di liberalizzare, totalmente o parzialmente, l’accesso da parte delle imprese
a risorse normative (specialmente in tema di flessibilità) in generale vincolate per legge o, ancora, al
fine di condizionare o legittimare l’esercizio dei poteri datoriali altrimenti non vincolati (sulla
questione v., tra i più recenti, anche per i necessari rinvii, Lunardon, 1999; Rusciano, 2003; Natullo,
2004; Luciani-Santagata, 2004). Sotto altro profilo i vari rinvii alla contrattazione collettiva
presentano differenti caratteristiche dal punto di vista della struttura e della funzione, oltre che del
contenuto, del contratto collettivo destinatario del rinvio.
Prendendo, quindi, ad esempio paradigmatico i rinvii contenuti nel decreto legislativo
sull’orario, risulta dunque indispensabile svolgere una trattazione differenziata, raggruppando i
rinvii a seconda delle relative uniformità. Ed in tale prospettiva appare utile partire da una
disposizione, l’art. 3, co. 2°, che, al suo interno, racchiude due differenti tipologie di rinvio cospicuamente presenti nel d.lgs. n. 66 e destinate a rivestire un ruolo essenziale nell’architettura di
quest’ultimo - le quali prevedono una produzione negoziale in funzione derogatoria, rispettivamente
migliorativa e peggiorativa, rispetto alla disciplina legale.
Al riguardo, mentre l’art. 3, co. 1°, prevede che «l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore
settimanali», il menzionato comma 2° stabilisce che «i contratti collettivi di lavoro possono
stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l’orario normale alla durata media delle
prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno».
La norma ripropone in larga misura, come da più parti osservato, la medesima previsione
contenuta nell’art. 13, co. 1°, parte prima, della l. n. 196 del 1997, conservando i due rinvii alla
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contrattazione collettiva, rispettivamente per la riduzione dell’orario normale settimanale e per la
redistribuzione multiperiodale di esso su base, al massimo, annua (le uniche differenze sono
costituite dall’eliminazione del riferimento alla competenza esclusiva dei contratti collettivi
nazionali e dall’introduzione dell’espressione «ai fini contrattuali», ma esse non rilevano ai fini del
discorso qui condotto).
3. - Prendendo le mosse dal primo rinvio, si deve preliminarmente sottolineare che la formale
attribuzione ai contratti collettivi del potere di ridurre la durata dell’orario normale di lavoro risulta,
a ben vedere, superflua (o al massimo indicativa di una sollecitazione del legislatore). Non si è mai
dubitato, in proposito, che la previsione contrattuale di clausole migliorative (nel senso che
apprestino una maggior tutela al lavoratore) rispetto ai trattamenti legali rientri tra le competenze
‘geneticamente’ spettanti, in forza dell’art. 39, co. 1°, Cost., alla contrattazione collettiva.
Infatti, è senz’altro vero che l’art. 39 Cost. non contiene alcuna «riserva, normativa o
contrattuale, in favore dei sindacati, per il regolamento dei rapporti di lavoro» (Corte cost. n.
106/1962; ma cfr., per l’affermazione di principio, anche Corte cost. n. 120/1963; 101/1968), di
modo che, pur a fronte di un generale regime di libertà contrattuale garantito dalla predetta
disposizione, non è certo precluso al legislatore di intervenire a regolamentare specifici aspetti del
rapporto di lavoro. Peraltro, è altrettanto vero che tale intervento - essendo generalmente volto a
fissare standards di tutela minimale - pone limiti che la contrattazione collettiva non può derogare
in pejus, ma può liberamente derogare in melius (la tesi di fondo risulta ormai assolutamente
prevalente nel dibattito giussindacale: v. la ricostruzione critica di Rusciano, 2003), salvo che non
sia la stessa legge a impedire modifiche migliorative da parte della stessa contrattazione (ipotesi
della cui legittimità costituzionale per contrasto con la citata disposizione costituzionale si è peraltro
molto discusso in passato: cfr., per tutti, Ricci M., 1999; Rusciano, 2003; Giugni, 2001; CarabelliLeccese, 2005).
Ebbene, la riduzione dell’orario settimanale di lavoro a parità di retribuzione si presenta come
tipica manifestazione dei miglioramenti salariali e normativi perseguiti dall’autonomia collettiva,
nell’esercizio della tradizionale funzione normativa del contratto collettivo di diritto comune (cfr.
Carabelli-Leccese, 2002). Il rinvio di legge, in altre parole, non toglie né aggiunge alcunché a
quanto quest’ultimo già potrebbe fare (e, tradizionalmente, già ha fatto) in quanto atto di autonomia
privata. Né, per altro verso, si può sostenere che il ‘rinvio’ legale - che in questo caso è, dunque,
nulla più di un mero ‘richiamo’ - trasformi il contratto di diritto comune (e quindi le clausole
normative in esso contenute) in qualcosa di diverso da ciò che giuridicamente è.
Su questa problematica, che in verità è stata affrontata con soluzioni dalle molteplici
sfaccettature soprattutto con riferimento ai rinvii legali in funzione derogatoria, ci si soffermerà
analiticamente tra breve. Qui sia consentito solo anticipare che, ad avviso di chi scrive, il contratto
collettivo - in linea generale ed indipendentemente da qualsivoglia rinvio legale - non può che
continuare ad esprimere la sua efficacia soggettiva soltanto nei confronti dei datori di lavoro (e
lavoratori) che risultino giuridicamente vincolati ad esso, essendo comunque impedita una sua
efficacia generale dall’art. 39 Cost.
Ed infatti, in mancanza di attuazione dell’art. 39, seconda parte, al legislatore è da quest’ultima
precluso adottare soluzioni differenti per assicurare l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi. Si
tratta di un limite che deriva direttamente da una chiara e rigorosa pronuncia della Corte
Costituzionale (n. 106/1962), la cui vincolatività per l’interprete è tuttora assolutamente stringente,
come dimostrano d’altronde le successive pronunce della Consulta che hanno esplicitamente o
implicitamente confermato la perdurante validità dei principi in essa contenuti (tra le decisioni che
assumono il contenuto di questa sentenza come imprescindibile presupposto, salvo poi a ricercare
escamotages con i quali ovviare alla pretesa esigenza di estensione generale dell’efficacia del
contratto collettivo di diritto comune, v. Corte cost. nn. 268/1994, 344/1996, 309/1997). Come si
ricorderà, infatti, la ricordata sentenza del 1962 fece salva la legge delega n. 741/1959 solo in
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quanto quest’ultima era «transitoria, provvisoria ed eccezionale», ma statuì letteralmente e senza
incertezze che «sarebbe palesemente illegittim[o]» un intervento legislativo che «cercasse di
conseguire [il] risultato della dilatazione ed estensione, che è una tendenza propria della natura del
contratto collettivo, a tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce, in
maniera diversa da quella stabilita dal precetto costituzionale». La Corte, come noto, dichiarò
comunque l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, l. n. 1027/1960, poiché «anche una sola
reiterazione della delega (a tale riducendosi la proroga prevista dall’art. 1 [...]), toglie alla legge i
caratteri della transitorietà e dell’eccezionalità che consentono di dichiarare insussistente la pretesa
violazione del precetto costituzionale e finisce col sostituire al sistema costituzionale un altro
sistema arbitrariamente costruito dal legislatore e pertanto illegittimo» (sulla pronuncia v. per tutti,
da ultimo, Ricci M., 1999).
A queste puntuali affermazioni della Corte, poi, si può altresì aggiungere che ogni soluzione
alternativa è destinata ad infrangersi anche – ma sul punto si tornerà tra breve - contro il ‘muro’
della libertà sindacale (a seconda dei casi positiva e/o negativa) di cui all’art. 39, co. 1°, Cost. (cfr.
anche Mariucci, 1985; Garofalo M.G. 1985).
Per il vero il problema potrebbe forse assumere configurazione in parte differente ove si
ritenesse che la libertà organizzativa dei datori di lavoro vada ricondotta non all’art. 39, co. 1°,
Cost., bensì agli artt. 18, co. 1°, e 41, co. 1°, Cost.; il che consentirebbe interventi legislativi che,
senza ledere la libertà sindacale (negativa) dei lavoratori, contemplassero meccanismi di estensione
dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi a latere datoris. Ma la tesi del differente fondamento
costituzionale della libertà organizzativa dei datori di lavoro, seppure da più parti sostenuta, non ha
avuto riscontro da parte della Corte costituzionale (cfr. già le pronunce in materia di serrata, n.
29/1960 e n. 141/1967).
Alla luce di tali considerazioni, si deve pertanto ritenere che l’ordinamento consente oggi
esclusivamente l’efficacia civilistica inter partes del contratto collettivo, quali che ne siano i
soggetti stipulanti e quali che siano i tipi di rinvio che il legislatore abbia adottato. Ciò, beninteso,
fatto salvo il ricorso ai numerosi, ma frequentemente inadeguati, escamotages (cui si farà cenno tra
breve) elaborati ormai da tempo da dottrina e giurisprudenza; e fatte eventualmente salve le ipotesi
eccezionali connesse alla contrattazione collettiva per il lavoro pubblico e allo sciopero nei servizi
essenziali, per le quali, secondo alcune letture, potrebbe essere proposto un discorso differente
fondato rispettivamente sugli artt. 97 e 40 Cost. (ma su quest’ultimo aspetto, che richiederebbe
maggiori approfondimenti, v. Carabelli-Leccese, 2005).
Tornando, quindi, al rinvio legale di cui si discute, non v’è dubbio che, in base a quanto appena
argomentato, sarebbero tenuti a rispettare l’eventuale riduzione di orario settimanale definita dal
contratto collettivo superveniens solo i datori di lavoro aderenti all’associazione stipulante un
contratto extra-aziendale (o che abbiano stipulato un contratto aziendale), ovvero quelli che
risultino avere volontariamente ‘recepito’ la contrattazione collettiva quale fonte regolativa del
contratto e del rapporto di lavoro, utilizzando all’uopo gli escamotages ormai da lungo tempo
evidenziati da dottrina e giurisprudenza al fine di ovviare in qualche modo alla mancata attuazione
della seconda parte dell’art. 39 Cost. (v., per tutti, Vallebona, 1997; Lunardon, 1999; Giugni, 2001;
Rusciano, 2003). I datori di lavoro rimasti ab origine estranei alle discipline collettive sarebbero
invece legittimati a restare ancorati al limite legale delle 40 ore settimanali.
Per contro, alla luce delle varie tesi emerse al riguardo, l’obbligo datoriale di applicare la nuova
regolamentazione dovrebbe essere ritenuto operante non solo nei confronti dei lavoratori aderenti
alle organizzazioni sindacali stipulanti, ma - tenuto comunque conto anche della normale assenza di
un interesse datoriale ad una differenziazione di trattamento (cfr. Giugni, 2001) - pure degli altri.
Ciò sulla base delle letture fondate sull’obbligo assunto dal datore di lavoro, con l’atto di adesione
ad un sindacato datoriale, di uniformare i contratti di lavoro di cui è parte al contratto collettivo,
indipendentemente dall’iscrizione o meno del singolo lavoratore (Pera, 1958), sul divieto di
discriminazione del lavoratore per motivi sindacali (Persiani, 1999, ma già Dell’Olio, 1980) o su un
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presunto obbligo di parità di trattamento (ancora di recente, Tremolada 2000; ma per ulteriori riff. v.
Lunardon 1999), ovvero, con specifico riferimento al contratto aziendale, sulla sua applicazione
generale (per tutti, Ichino, 1975), anche in virtù della «posizione monopolistica della parte datoriale
nella contrattazione» (D’Antona, 1999), ovvero, specularmente, della stipulazione di tale contratto
da parte di un soggetto rappresentativo unitario di origine elettiva quale la r.s.u. (da ultimo,
Monaco, 2003; ma per una posizione critica v., tra i più recenti, Fontana 2004). Per converso, dal
lato dei lavoratori, evidentemente interessati all’applicazione della nuova regolamentazione più
vantaggiosa indipendentemente dalla loro affiliazione sindacale, non parrebbe potersi nemmeno
ipotizzare un problema di rifiuto.
Ciò detto, una volta esclusa l’incidenza del rinvio in esame sull’efficacia soggettiva dei contratti
collettivi, resta da chiarire quale sia la sua funzione, in considerazione del fatto che la disposizione
in cui esso è contenuto (art. 3, co. 2°), va letta in combinazione con l’art. 1, co. 2°, lett. m), del d.lgs.
n. 66, il quale, come s’è detto, fornisce una definizione di «contratti collettivi di lavoro» che vale in
tutti i casi in cui il decreto rinvii ad essi (salvo, è ovviamente da ritenere, che la singola norma di
rinvio non preveda diversamente).
Ebbene, ad avviso di chi scrive, sembra invero da escludere che dalla norma scaturente dal
combinato disposto di queste previsioni possa dedursi che il potere di ridurre per via contrattuale
l’orario normale settimanale sia stato riconosciuto dal legislatore soltanto ad «organizzazioni
sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative». Così interpretata, infatti, la norma,
precludendo il pieno esercizio della libertà contrattuale da parte di soggetti collettivi che non
rivestano le caratteristiche in esse indicate, si porrebbe in contrasto con l’art. 39, co. 1°, Cost. E’
indubbio, invero, che - in forza della libertà sindacale (positiva) costituzionalmente garantita da
questa disposizione - a qualsivoglia sindacato, indipendentemente dalla sua ‘rappresentatività’, è
riconosciuta (e non può essere sottratta da una legge ordinaria) la prerogativa di contrattare
condizioni di lavoro più vantaggiose per i propri affiliati rispetto a quelle previste da norme di
legge.
Richiamando quanto da altri sostenuto in relazione a disposizioni similari contenute nella
normativa in materia di part-time di cui al d.lgs. n. 61/2000 (v. Pinto, 2002; Voza, 2004; ma cfr.
anche, con riferimento al d.lgs. n. 276/2003, Carinci F., 2004), si può invece ritenere che il rinvio di
cui qui si discute, al pari di tutti quelli in cui il sindacato è chiamato dalla legge a migliorare lo
standard legale di tutela, risulti superfluo e privo di valore precettivo; esso, nel riferirsi ai contratti
collettivi stipulati da soggetti individuati selettivamente, avrebbe, insomma, il valore di una mera
sollecitazione o invito, rivolto ai soggetti selezionati, ad intervenire sulla materia (c.d. rinvio
‘improprio’, secondo la definizione di Pinto, 2002). La legittimità costituzionale di siffatto rinvio,
in tal senso, potrebbe essere salvata, per così dire, con un’operazione interpretativa di
depotenziamento del suo valore precettivo, e cioè escludendo esso sia che impeditivo rispetto
all’attività negoziale di altri soggetti (in altre parole, negando ad esso il valore di clausola di
‘riserva’).
Concludendo, si deve ancora precisare che tutte le osservazioni critiche sin qui sviluppate sono
pienamente riferibili a molti altri rinvii, sparsi nelle sue varie disposizioni che prevedono
l’intervento della contrattazione collettiva in funzione migliorativa dei trattamenti previsti dalla
legge (cfr. artt. 4, co. 1°; 5, co. 3°, 4° e 5°; 8, co. 1° e 3°; 10, co. 1°; 13, co. 2°; 15, co. 2°, seconda
parte; 16, co. 1°; 18, co. 2°, sui quali v. Carabelli-Leccese, 2004)
4. - Ben più complesso, sempre con riferimento all’efficacia soggettiva dei contratti collettivi
oggetto di rinvio, appare il discorso in relazione all’altro rinvio contenuto nel co. 2° dell’art. 3:
quello attinente alla determinazione della durata normale settimanale come durata media, su base, al
massimo, annuale: c.d. orario multiperiodale.
A differenza del primo, si tratta di un rinvio che appare riconducibile a quell’ampia categoria di
rinvii legali - così frequenti soprattutto nell’ultimo ventennio - che consentono al contratto
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collettivo di ‘derogare’ a norme di legge non in senso migliorativo, bensì, a seconda dei casi, nel
senso:
1) di introdurre direttamente trattamenti peggiorativi (a latere del lavoratore) o comunque
difformi rispetto a quelli previsti dalla legge (una funzione derogatoria che potremmo definire di
tipo ‘regolativo’);
2) di stabilire l’eliminazione o il temperamento di vincoli legali, con conseguente riconoscimento
in capo al datore di lavoro di posizioni soggettive (eventualmente anche condizionate, ma
comunque) più vantaggiose, soprattutto in tema di flessibilità (una funzione derogatoria, questa, che
ha per effetto l’attribuzione al datore di lavoro di poteri o facoltà e che, per rapporto all’altra,
potremmo definire di tipo ‘deregolativo’);
3) di trasformare un limite legale da inderogabile in derogabile dalle parti individuali, pur se,
eventualmente, nel rispetto di determinati limiti e/o condizioni (una funzione, questa, che potremmo
forse meglio definire come ‘derogabilizzatrice’ - ovvero, con termine meno pregnante, ma più
armonico, ‘quasi-derogatoria’ - proprio per evidenziare che la deroga costituisce una conseguenza
non necessaria, ma solo eventuale dell’intervento collettivo, dipendendo essa poi dalla volontà delle
parti individuali. Del contratto collettivo oggetto di questo tipo di rinvii, con specifico riferimento
alle tipologie flessibili di lavoro subordinato, si è tra l’altro detto che esso produrrebbe un «terzo
effetto» - diverso da quelli normativo e obbligatorio - e cioè un effetto «costitutivo» della
legittimazione negoziale individuale: cfr. D’Antona, 1990; v. anche Roccella, 2000 e, da ultimo,
Voza, 2004).
La distinzione tra questi differenti rinvii ad una contrattazione collettiva di tipo derogatorio
(espressione con la quale, d’ora in avanti, intendiamo riferirci alle tre forme di contrattazione
appena indicate, mentre quella volta a fissare deroghe in melius sarà definita semplicemente come
contrattazione migliorativa), invero, è effettuata con finalità meramente classificatorie, dal
momento che, in assenza di precisazione del legislatore (come nel caso che ci interessa), il rinvio
potrebbe anche implicare il possibile esercizio da parte del contratto collettivo di una qualsiasi delle
funzioni suddette.
Va ancora aggiunto che alla tipologia di rinvii descritta nel presente paragrafo sono riconducibili
molti di quelli contenuti nel decreto legislativo (cfr. gli artt. 4, co. 4°; 5, co. 3° e 4°; 8, co. 1°; 9, co.
2°, lett. d); 10, co. 1° e 3°; 13, co. 1°; 17, co. 1°; 18, co. 2°). Su questi rinvii, formulati, in alcuni
casi, mediante l’individuazione di soggetti contrattuali differenti da quelli specificati, come si è
visto, dalla norma di portata generale di cui all’art. 1, co. 2°, lett. m) e contenuti in previsioni che,
talora, consentono anche deroghe migliorative, oltre che peggiorative, si rinvia a un’analisi più
approfondita condotta in altra sede (Carabelli-Leccese, 2004).
Con riferimento a tutti i rinvii riconducibili a questo tipo va detto che la selezione dei soggetti
abilitati a contrattare in funzione derogatoria è, evidentemente, espressione di una scelta politica del
legislatore sul piano dell’affidabilità dei contraenti cui vengono riconosciute tali specifiche
prerogative in rapporto alla disciplina legale (scelta selettiva sulla cui legittimità costituzionale si è
sviluppato, come noto un cospicuo dibattito dottrinale e giurisprudenziale: sulle pertinenti pronunce
della Consulta v., per tutti, Ricci M., 1999). In altre parole, si può affermare che in questo caso - a
differenza di quanto sopra detto a proposito dei rinvii alla contrattazione collettiva in funzione
migliorativa - il rinvio legislativo intende attribuire ai soggetti selezionati il potere di produrre,
attraverso il contratto, l’effetto derogatorio consentito dalla legge (c.d. rinvio ‘proprio’: cfr. ancora
Pinto, 2002).
Viceversa, anche questi rinvii non hanno alcuna incidenza sul piano dell’efficacia soggettiva del
contratto collettivo: anche in questo caso, infatti, l’effetto voluto non potrà che prodursi secondo i
principi del diritto privato (fatto sempre salvo, naturalmente, il ricorso agli escamotages cui si è
accennato). Ma su questo aspetto è bene soffermarsi con maggiore analiticità.
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4.1. - Al riguardo si possono qui richiamare - senza pretesa di esaustivo approfondimento, né di
completezza ricostruttiva - le varie posizioni che in passato hanno tentato di giustificare, in presenza
di rinvii legislativi anche similari, una efficacia generale del contratto collettivo di tipo derogatorio,
senza incorrere nella violazione dell’art. 39, co. 1° e 4°, Cost.
Seguendo un percorso ispirato non alla successione temporale delle varie tesi, bensì al loro
contenuto essenziale, è opportuno partire dalla posizione di chi ha ritenuto che il contratto collettivo
tragga, nei casi di cui qui si tratta, un proprio diretto fondamento nella ‘delega’ legislativa, dalla
quale deriverebbe la produzione, da parte del contratto (appunto ‘delegato’), di effetti di carattere
generale, da taluni affermata anche in virtù della particolare qualità rappresentativa dei soggetti
negoziali (tra gli altri, Pessi, 1984; Ballestrero, 1989, che prende comunque le distanze dalle tesi
che enfatizzano il rilievo della selezione del soggetto negoziale; cfr. anche Ferraro, 1981; con
specifico riferimento ai rinvii contenuti nel d.lgs. n. 66, v. Tremolada, 2003).
A parte quanto si dirà tra breve, va qui anzitutto rammentato che da autorevole dottrina si è
osservato come questa lettura - la quale, facendo derivare il vincolo generale dalla norma di legge e
non dal contratto, parrebbe in grado di evitare la violazione del principio di libertà sindacale
(negativa) del singolo - potrebbe porsi in contrasto con la libertà sindacale costituzionalmente
garantita, ove si riconoscesse che la stessa norma di legge miri a funzionalizzare l’autonomia
collettiva al perseguimento del fine pubblico implicito nel rinvio, rendendola non libera nei fini e
nei modi (Persiani, 1999). Questa stessa dottrina, peraltro, ha rilevato come, nel caso dei rinvii
legali a contratti collettivi con funzione derogatoria, il legislatore, lasciando l’attività contrattuale
libera nell’an, nei fini e nei modi, si limita a fare proprie le scelte effettuate da quest’ultima,
dovendosi così ritenere evitato il contrasto con il dettato costituzionale (almeno sotto il profilo de
quo, e cioè della lesione della libertà sindacale per via della funzionalizzazione) (cfr. ancora
Persiani, 1999 e 2004).
In effetti – muovendosi entro questa traiettoria (nel senso di valorizzare il fatto che la legge ‘fa
proprie’ le scelte della contrattazione collettiva), ed ispirandosi ad una nota costruzione di diritto
costituzionale (Modugno, 1988) – taluno ha teorizzato che le norme di legge contenenti rinvii
sarebbero vere e proprie norme sulla produzione, che consentono di considerare la contrattazione
collettiva come ‘fatto’ produttivo di regole idonee ad incidere sul diritto oggettivo (c. d. fonte fatto),
integrando, specificando e - a volte - derogando la disciplina legale (la lettura è proposta da Proia,
1994 e 2002, il quale, peraltro, non ne fa scaturire l’efficacia erga omnes del contratto collettivo).
Analogamente, altra dottrina (ragionando sullo specifico rinvio di cui all’art. 5, co 1°, l. n. 223 del
1991, relativo alla individuazione da parte del contratto collettivo di criteri di scelta per il
licenziamento collettivo alternativi a quelli legali, ma utilizzando argomentazioni che paiono invero
utilizzabili in generale) ha proposto una lettura secondo la quale il fatto stesso della stipulazione del
contratto collettivo produrrebbe l’effetto legale della disattivazione della norma legale da derogare,
laddove poi il contratto potrebbe anche introdurre, ove richiesto o comunque legittimato dalla legge,
un diverso regime regolativo; ovvero ha sostenuto, in via alternativa, che la modifica del
regolamento del contratto individuale non si produrrebbe in forza del potere di autonomia, ma
sarebbe «direttamente assicurata - attraverso il meccanismo del rinvio - dalla disciplina di legge e,
quindi, attraverso l’integrazione di quel regolamento che la legge naturalmente opera» (l’una e
l’altra tesi sono di Liso, 1998).
Orbene, queste ultime tre posizioni, le quali mirano evidentemente ad imputare alla norma di
legge l’effetto erga omnes della regolazione prevista dal contratto collettivo, se riescono ad evitare
il contrasto con l’art. 39, co. 1°, Cost. - tanto sotto il profilo della funzionalizzazione (per quanto
detto più sopra), quanto della libertà sindacale (negativa) del singolo - si espongono, tuttavia, a
critica dal punto di vista del contrasto con il co. 4° del medesimo articolo, cui d’altronde resta
comunque esposta anche la tesi del contratto ‘delegato’ da cui si è partiti.
Alla prima di esse si può così obiettare che, anche a voler accogliere senza incertezze, da un
punto di vista di teoria generale, la costruzione della ‘fonte fatto’, resterebbe pur sempre da
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dimostrare la possibilità di riferirla pure al rapporto legge/contratto collettivo di diritto comune
nell’ambito delle varie fattispecie legali di rinvio di cui qui si discute (per talune perplessità, v. già
Lassandari, 2001; Rusciano, 2003): a ciò parrebbe infatti ostare la presenza nella Costituzione di
una normativa speciale sul contratto collettivo ad efficacia generale, costituita, appunto, dal co. 4°
dell’art. 39 Cost. (è questa preoccupazione, d’altro canto, che induce Proia, 2002, ad escludere,
come si è detto, l’effetto erga omnes, pur accogliendo la tesi della fonte-fatto). In altre parole, così
come nel 1962, con la già citata sentenza n. 106, la Corte costituzionale aveva individuato nella
legge delega n. 741/1959 un potenziale vulnus costituzionale, per sostanziale ‘aggiramento’ della
strada maestra tracciata da quella disposizione costituzionale ai fini dell’efficacia erga omnes dei
contratti collettivi (v. supra, par. 3), analoga lettura potrebbe essere effettuata nei confronti della
pretesa estensione della costruzione della ‘fonte fatto’ ai contratti collettivi di diritto comune
investiti dalle predette norme legali di rinvio, la quale condurrebbe ad una situazione comparabile a
quella oggetto di censura da parte della Corte: l’ottenimento con mezzi diversi dall’art. 39, co. 4°,
Cost. dell’efficacia generale del contratto collettivo.
Se ciò è vero, peraltro, critiche similari potrebbero essere rivolte, a ben vedere, anche alle altre
due menzionate posizioni che hanno tentato di riportare alla norma legale di rinvio l’efficacia
generale della regolazione definita dal contratto: anch’esse sembrano infatti trascurare che tale
effetto si produce pur sempre non soltanto sul presupposto della sussistenza del contratto collettivo,
ma soprattutto in perfetta aderenza al contenuto di esso. E ciò significa che, anche in questa
prospettiva, non potrebbe non leggersi nella norma di rinvio la surrettizia riproposizione di un
aggiramento del dato costituzionale; un aggiramento diverso, se si vuole, ma indubbio, ove si eviti
di minimizzare, per contingenti ragioni di politica del diritto, il profondo valore di coerenza del
modello costituzionale insito nella lettura fatta dalla citata sentenza della Corte. Né diversa
valutazione, come accennato, potrebbe darsi della tesi del contratto ‘delegato’, nella quale, anzi,
l’aggiramento dell’art. 39, co. 4°, traspare addirittura con maggiore evidenza.
Rispetto alle considerazioni di ordine squisitamente tecnico fin qui svolte, non si può certo
trascurare la sofisticata lettura - non ammiccante a costruzioni di teoria generale del diritto
costituzionale, bensì ‘interna’ al più specifico disegno costituzionale dei rapporti collettivi sindacali
- offerta da Massimo D’Antona nel suo ultimo scritto. In esso, in implicita rivisitazione critica della
sentenza del 1962 della Corte costituzionale, l’autore prospetta una differenziazione funzionale tra
la previsione contenuta nell’art. 39, co. 4°, e quella contenuta nel suo primo comma, derivante da
due alternativi progetti che sarebbero desumibili dalla disposizione costituzionale. Più
precisamente, secondo l’autore si dovrebbe sostenere che la «seconda parte dell’art. 39 fonda sulla
legge non soltanto l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, ma lo stesso potere contrattuale
dei sindacati», in quanto richiede il loro «riconoscimento giuridico [...] - ancor prima che per
“dilatare ed estendere” l’efficacia dei contratti collettivi - per fondare un potere di rappresentanza
sociale che consiste (e può risolversi interamente) nell’abilitazione ex lege a stipulare contratti
collettivi con efficacia erga omnes»; insomma, per dirlo in altro modo, «la seconda parte dell’art. 39
non garantisce efficacia legale ai contratti sottoscritti dai sindacati rappresentativi, ma rende
rappresentativi i sindacati registrati in quanto garantisce l’efficacia legale dei contratti che essi sono
abilitati a sottoscrivere». Di qui la possibilità, risalendo poi al 1° comma della stessa disposizione,
di sostenere, invece, che nella prospettiva della libertà sindacale «il sistema contrattuale precede la
legge, costituisce fenomeno di autonomia sociale presupposto, sul quale la legislazione interviene
ex post ai fini di sostegno o riconoscimento o regolazione, senza alterare il fondamento volontario e
i criteri di autolegittimazione che presiedono al suo funzionamento, appunto perché lo svolgimento
inter partes dell’attività contrattuale è, rispetto all’intervento legislativo, un prius o comunque una
variabile esterna» (D’Antona, 1999).
La costruzione di D’Antona cerca dunque di rinvenire una strada per sottrarsi ai permanenti
effetti ostativi dell’art. 39, co. 4°, ribaltando la prospettiva di avvicinamento al problema
costituzionale dell’erga omnes: come precisato dall’autore, la norma costituzionale non si
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opporrebbe «a qualsiasi intervento legislativo che direttamente o indirettamente assegni ai contratti
collettivi un’efficacia superiore a quella che avrebbero autonomamente», bensì soltanto a quelli
«che, attraverso l’attribuzione dell’efficacia erga omnes ai contratti collettivi, assegnino
direttamente o indirettamente a sindacati diversi da quelli registrati il monopolio legale della
rappresentanza legale della categoria» (v. ancora D’Antona, 1999).
In realtà, ad avviso di chi scrive, anche questa lettura non riesce a sottrarsi al conflitto con la
pronuncia della Corte costituzionale del 1962 (del che d’altronde, l’autore era perfettamente
consapevole, com’è dimostrato dal letterale richiamo delle espressioni ‘dilatare’ ed ‘estendere’,
utilizzate dalla Corte medesima), uscendone soccombente. A ben vedere, infatti, l’inversione di
prospettiva proposta nell’analisi della seconda parte della disposizione costituzionale – nel senso di
procedere, nel ragionamento, non dal contratto al soggetto, ma dal soggetto al contratto – confligge
in radice con la già ricordata affermazione della Corte secondo cui «sarebbe palesemente
illegittim[o]» un intervento legislativo che «cercasse di conseguire [il] risultato della dilatazione ed
estensione [...] del contratto collettivo [...] in maniera diversa da quella stabilita dal precetto
costituzionale»: emerge con chiarezza da queste parole che al centro del ragionamento del Giudice
delle leggi in relazione al problema dell’erga omnes v’è proprio il contratto e non il soggetto. E se
questo è l’effetto derivante dalla disciplina della seconda parte dell’art. 39 (e specificamente del co.
4°), di esso non può non tenersi conto nella lettura del co. 1° dello stesso articolo e, in particolare,
nell’individuazione delle potenzialità da esso espresse: se, infatti, si può convenire che dalla libertà
sindacale discende l’autonomia negoziale, non si può più invece sostenere, proprio alla luce delle
argomentazioni appena svolte, che il legislatore possa assegnare ex lege all’atto di autonomia
un’efficacia generale sulla base dell’osservazione che tale soluzione non sarebbe lesiva né della
libertà sindacale né dell’autonomia negoziale.
Al riguardo, va osservato che, pur volendoci collocare nella prospettiva adottata dall’autore,
quest’ultima affermazione solleva, per il vero, notevoli perplessità in relazione alla violazione del
principio di libertà sindacale negativa, derivante dallo stesso art. 39, co. 1°, alla luce del quale pare
difficile sostenere – in assenza di specifica previsione costituzionale in tal senso – la legittimità di
una legge che assoggetti ‘forzosamente’ il singolo al contratto collettivo stipulato da organizzazioni
sindacali cui egli non abbia conferito alcun potere rappresentativo. Ed infatti, si deve riconoscere
che - nel quadro delineato dal Costituente - il sacrificio della libertà sindacale negativa è reso
possibile, appunto, soltanto dall’attuazione della seconda parte della stessa disposizione
costituzionale (profilo colto, non a caso, sul finire degli anni ’50, in talune delle ordinanze di
rimessione con le quali venne sollevata la questione di legittimità costituzionale poi decisa con la
pronuncia n. 106/1962); pertanto, una deviazione da questa strada per il raggiungimento
dell’efficacia generale del contratto collettivo sarebbe comunque destinata ad infrangersi – per così
dire in seconda battuta – anche contro il predetto principio di libertà sindacale (ma al riguardo v.
anche quanto precisato supra, con riferimento ai rinvii in funzione migliorativa; cfr., per uno spunto
di riflessione, anche Corte cost. n. 106/1962).
Ma, al di là di questa considerazione, l’obiezione fondamentale che qui si oppone alla tesi in
questione è che l’art. 39, co. 4° – nella lettura fornita dalla Corte nel 1962 – non ammette alcuna
soluzione alternativa per l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi, onde una legge che
perseguisse il medesimo effetto per altra via si porrebbe in diretto ed immediato contrasto con tale
norma costituzionale (cioè, ricordando ancora una volta le parole della Corte, finirebbe per
«sostituire al sistema costituzionale un altro sistema arbitrariamente costruito dal legislatore e
pertanto illegittimo»).
4.2. - Con la tesi appena esaminata e criticata si è raggiunto, probabilmente, l’apice del
‘giustificazionismo’ teorico costituzionale dell’erga omnes fondato su modelli alternativi a quello
dell’art. 39, seconda parte. V’è poi un insieme di posizioni che potrebbero essere descritte come
operanti in una prospettiva di frammentazione ‘ad excludendum’, e cioè di diversificazione
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tipologica dei contratti collettivi, al fine di sottrarre alcuni di essi dalla portata ‘preclusiva’ del
vincolo costituzionale, secondo l’impianto definito dalla stessa Corte costituzionale.
Rinviando ad altre sedi per la critica alla tesi secondo cui, nel caso di attuazione delle direttive
comunitarie, i contratti collettivi eventualmente investiti dal rinvio della norma di legge interna
sarebbero in grado di esprimere un’efficacia generale, senza violare l’art. 39 Cost. (v. Leccese, 2001
e Carabelli-Leccese, 2005), va qui dato conto, anzitutto, della posizione di quanti affermano che i
contratti aziendali sarebbero sottratti ai problemi fin qui descritti. Secondo questa posizione, infatti,
le norme di rinvio che si riferissero a tali contratti non contrasterebbero con l’art. 39, co. 4°, Cost.,
dato che in questa norma si fa esplicito riferimento solo alla categoria (o, meglio, alle categorie:
«con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce»)
(cfr. per tutti, sia pure con una pluralità di accenti e di approfondimenti, Tosi P., 1985; De Luca
Tamajo, 1985; Zoli, 1992; Lassandari, 2001).
Al di là dei diversi argomenti (talora impliciti, o proposti per fugaci cenni) addotti per giungere a
questo esito ‘sottrattivo’, il nucleo essenziale del ragionamento seguito dai sostenitori della tesi è
sostanzialmente il seguente: 1) il Costituente aveva presente solo il contratto di categoria tipico
dell’esperienza corporativa; 2) pertanto, si preoccupò di prevedere, con il modello di cui alla
seconda parte dell’art. 39, solo i meccanismi per estendere l’efficacia soggettiva di quest’ultimo; 3)
conseguentemente, il contratto aziendale non rientra in tale modello; 4) all’esito, nulla osta a che la
sua efficacia soggettiva generalizzata sia realizzata per altre vie.
Restando per il momento all’interno di questo ragionamento, va osservato che esso giunge ad
esiti non conformi alle premesse, poiché non considera che se, come ormai qui ricordato più volte,
da un punto di vista generale l’attuazione del menzionato modello rappresenta l’unica via per
consentire ad un contratto collettivo di godere di efficacia generale, appare evidente che escludere i
contratti aziendali dalla parte seconda dell’art. 39, significherebbe implicitamente sostenere che per
tali contratti l’effetto ‘estensivo’ prefigurato dal Costituente non sarebbe configurabile neppure in
caso di attuazione della predetta parte seconda (insomma, optando per la sottrazione del contratto
aziendale dalla disciplina costituzionale di cui all’art. 39, co. 2° ss., si finirebbe per affermare «una
drastica, ma necessaria, soluzione che disponga un divieto totale di [estensione] erga omnes per i
contratti decentrati, poiché i commi [in questione] introducono, nel nostro ordinamento, non il
divieto, ma l’eccezione al divieto di efficacia soggettiva generalizzata»: così, efficacemente,
Lazzeroni, 1999).
Queste osservazioni sono di ausilio per smentire anche la premessa da cui muove il
ragionamento qui criticato, in virtù della irrazionalità che essa finisce per attribuire alla scelta del
Costituente; pur se, in realtà, si tratta di una premessa la cui contestabilità può fondarsi anche su
altri - altrettanto decisivi - argomenti. Ed infatti, da un lato, va segnalato che la stessa Corte
costituzionale pare dare per scontato la riferibilità anche ai contratti aziendali della seconda parte
dell’art. 39 Cost. (per tutte, Corte cost. n. 268/1994); dall’altro lato, si deve riconoscere che la
lettura della disposizione costituzionale deve essere effettuata - anche per quanto attiene all’aspetto
qui trattato - alla luce della concreta evoluzione dei modelli rappresentativi e negoziali e non può
essere ‘congelata’ in una visione corporativa di categoria eterodeterminata (ovvero ipostatizzata in
virtù del fenomeno negoziale esistente - recte: assolutamente prevalente - nel periodo corporativo:
cfr. Treu, 1968). Non si vede dunque perché nella ricostruzione della nozione di categoria, anche ai
fini della norma costituzionale in commento, non possa essere utilizzato - quantomeno in via di
interpretazione evolutiva - l’armamentario di riflessioni che hanno condotto ad affermare da tempo
che il termine categoria (il quale, come segnalato, nella Costituzione è per di più usato al plurale),
deve essere letto (sul piano organizzativo), come sinonimo di «ambito [o area o, ancora, campo]
professionale della organizzazione» (Giugni, 1979), prescelto o individuato (Mancini, 1963, pur
nell’ambito della sua nota critica alla scelta compiuta dal Costituente nella seconda parte dell’art.
39) o creato dal soggetto collettivo (liberamente, in virtù del primo comma dell’art. 39) e che
quindi (sul piano negoziale) la categoria debba essere identificata con ogni «unità contrattuale di
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composizione autonomica» (Romagnoli, 1963). Quest’ultima, dunque, a sua volta, potrebbe anche
non identificarsi con la «categoria sindacale, intesa come sfera soggettiva del sindacato» (ancora
Romagnoli, 1963), onde, ai fini che qui interessano, ben potrebbe coincidere con la ristretta unità di
livello aziendale (per argomentazioni analoghe, arricchite in alcuni casi da riflessioni sulla letterale
e sulla ratio dell’art. 39, v. Proia, 1994; Greco, 1996; Napoli, 1999; cfr. anche Di Stasi, 1998).
A parte la tipologia dei contratti aziendali, va ancora ricordato come, sempre al fine di evitare
l’incidenza dell’art. 39, co. 4°, Cost., sulle norme di rinvio, si sia da più parti giunti a sostenere che,
almeno in taluni casi, i contratti collettivi da esse richiamati non sarebbero di tipo ‘normativo’ (cfr.
Liso, 1998), laddove la disposizione costituzionale si riferirebbe ai soli contratti collettivi aventi,
appunto, tale connotazione, e dunque soltanto rispetto ad essi vieterebbe di percorrere strade
alternative per l’erga omnes.
A questo riguardo, a parte i dubbi circa la fondatezza di siffatta interpretazione dell’art. 39 Cost.
(peraltro in qualche modo avallata dalla Corte cost., nella sentenza n. 268/1994: ma su di essa si
tornerà più avanti), si può sostenere (riprendendo e sviluppando l’autorevole suggerimento critico di
Persiani, 1999 e 2004; v. anche Gragnoli, 2000 e Proia, 2002) che - al di fuori dei contratti
contenenti clausole meramente obbligatorie e degli accordi concertativi o triangolari - tutti i
contratti collettivi e, dunque, anche i contratti collettivi che, sulla base di un rinvio legale, svolgono
funzione ‘derogatoria’ di norme di legge - nonché, si può sin d’ora aggiungere, quelli che
intervengono, non necessariamente per riconoscimento legale, a condizionare, regolare, modulare
etc. un potere, una facoltà, una libertà datoriale, altrimenti esercitabile senza limiti, così come quelli
che vengono investiti dalla legge del compito di integrare o specificare il contenuto del precetto
legale (ma di questi due tipi di contratti si dirà più avanti) - possono essere considerati come
contratti che sviluppano una funzione ‘normativa’ e che, pertanto, hanno (al pari dei tradizionali
contratti di tipo migliorativo) efficacia normativa, nel senso che pongono regole destinate ad
incidere sui contratti e rapporti di lavoro instaurati con i singoli, e di cui questi ultimi possono
invocare l’applicazione.
Ovviamente, con quanto appena detto non si vuol negare che la funzione normativa è tipica dei
tradizionali contratti collettivi di diritto comune, i quali - attraverso le clausole della loro parte,
appunto, normativa - operano direttamente (pur senza incorporazione) sui contratti e rapporti di
lavoro dei lavoratori (soggetti alla disciplina collettiva), in funzione normalmente migliorativa dei
trattamenti precedenti (anche se non è impedito ad essi di modificare in senso peggiorativo i
precedenti trattamenti contrattuali: cfr., per tutti, Giugni 2001; Rusciano 2003), senza la mediazione
di alcuna norma di legge (da cui la sostenuta loro appartenenza, quale species a genus, alla variegata
categoria dei ‘contratti normativi’: Giugni, 2001). Si vuole, invece, sostenere che anche i contratti
collettivi derogatori oggetto dei rinvii legali sviluppano una funzione di tipo normativo e possono
essere ricondotti a quella stessa categoria, in quanto le loro norme sono destinate comunque ad
esprimere la loro efficacia - parimenti dall’esterno e senza incorporazione - sui contratti e rapporti
individuali di lavoro.
In conclusione, in relazione ai rinvii di tipo derogatorio si deve ritenere che il loro valore
giuridico non è quello di estendere erga omnes l’efficacia del contratto collettivo di diritto comune,
ma solo di consentire che la regolamentazione da esso introdotta - la quale, come detto, finisce pur
sempre per costituire un ‘trattamento’ normativo (talora anche economico) – ‘deroghi’ alla norma di
legge, normalmente in virtù delle peculiari caratteristiche del soggetto stipulante. In tal senso non si
può affermare che le clausole di rinvio si muovono «certamente al di là della seconda parte
dell’articolo 39, ma non in elusione di essa» (ancora Liso, 1998), ma si deve invece sostenere che i
contratti collettivi, in quanto manifestazione di libertà sindacale, sono sempre e necessariamente
inclusi nell’art. 39 Cost., onde, al di fuori delle procedure di cui al suo co. 4°, non v’è spazio per
un’efficacia erga omnes per forza di legge (insomma, non può ammettersi che la funzione delle
clausole di rinvio del tipo qui trattato sia, oltre che quella di aprire la via derogatoria, anche quella
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di modificare la natura del contratto oggetto di rinvio, trasformandone di conseguenza l’efficacia da
inter partes in erga omnes: in questo senso già, con chiarezza, Bellocchi, 1998 e ora Proia, 2002).
Ciò detto, non si può nemmeno - lo si dice incidentalmente a rafforzamento di quanto sin qui
sostenuto - difendere l’efficacia generale dei contratti collettivi ‘derogatori’ sulla base della
selezione soggettiva effettuata dalla norma legale (cfr. Ferraro, 1981): a parte quanto si avrà modo
di osservare criticamente nel paragrafo conclusivo in merito alla negativa evoluzione della
normativa di rinvio sul piano del progressivo decremento delle garanzie di democraticità, si è
correttamente affermato che non è possibile, almeno allo stato attuale del nostro ordinamento,
costruire «un nesso tra qualità rappresentativa degli agenti ed effetti dei relativi atti negoziali»
(Campanella, 2000). In altre parole, non si comprende per quale motivo il rinvio legale a specifici
soggetti selezionati dal legislatore secondo proprie valutazioni di opportunità (e dunque di politica
del diritto) dovrebbe essere in grado di ovviare al vincolo imposto dalla seconda parte dell’art. 39
Cost., data, lo si ribadisce ancora una volta, la rigorosa lettura della Corte nella sentenza del 1962.
4.3. - La verità è che la tesi la quale, almeno allo stato del dibattito scientifico, risulta più
convincente è quella avanzata da chi - esaltando, per così dire, il giusto equilibrio di interessi e
tutele, specialmente con riferimento alle norme di rinvio che prevedono quelle deroghe che abbiamo
chiamato ‘deregolative’ - ha sostenuto l’inammissibilità della pretesa del datore di lavoro free rider
(che cioè si sottrae alla responsabilità dell’appartenenza e dell’azione sindacale e, di conseguenza,
all’applicazione del contratto collettivo) di godere dei vantaggi - tra cui, specificamente, forme di
maggiore flessibilità - assicurati dallo stesso contratto collettivo (D’Antona, 1990). Le norme che
permettono al contratto collettivo di introdurre deroghe all(e eventuali rigidità dell)a disciplina
legale andrebbero, insomma, lette in stretta connessione con la tradizionale efficacia soggettiva del
contratto di diritto comune, di modo che, al fine di godere della flessibilità consentita dal contratto
collettivo oggetto del rinvio, lo stesso datore di lavoro dovrebbe pagare il prezzo della (volontaria)
inclusione nel complessivo sistema di regolazione collettiva di cui fa parte anche quel contratto (in
proposito cfr. ancora D’Antona, 1990). Anche se ciò, ad avviso di chi scrive, non deve
necessariamente avvenire mediante adesione all’organizzazione datoriale, essendo sufficiente una
costante applicazione della disciplina collettiva, oltre che, a maggior ragione, un formale rinvio alla
sua fonte di produzione. Una costruzione, questa, che, com’è noto, ha largamente ispirato lo stesso
legislatore della normativa in materia di part-time del 2000-2001, prima delle modifiche introdotte
dal d.lgs. n. 276 del 2003 (v. Roccella, 2000).
Questa lettura, oltre a rispecchiare una meritevole scelta di politica del diritto, costituita dalla
promozione di un ampliamento del campo di applicazione soggettiva della contrattazione collettiva
- la quale, a sua volta, sul piano della politica economica, si traduce nella ricerca di una sana
competitività fondata sul rispetto degli standards economico-normativi definiti (quali valori di
equilibrio) tra le contrapposte parti collettive - si rivela, in verità, assai convincente dal punto di
vista tecnico giuridico ove riferita ai casi di rinvio a contratti collettivi per l’esercizio di una
funzione ‘derogatoria’, tanto regolativa che deregolativa, ovvero (anche) di una funzione ‘quasiderogatoria’.
Né pare sufficiente contrapporvi l’obiezione secondo cui essa violerebbe sia la libertà sindacale
sia quella di iniziativa economica del singolo datore di lavoro, poiché lo costringerebbe all’adesione
al contratto collettivo siglato da organizzazioni cui egli non appartiene, pena l’impossibilità di
accedere a risorse normative rese disponibili solo per i datori sindacalizzati o comunque rispettosi
del sistema contrattuale (cfr. Liso, 1998). A questa obiezione si potrebbe rispondere che ciò di cui si
discute non è, in realtà, una risorsa legale, ma una risorsa contrattuale: ma si tratterebbe di una
difesa invero solo in parte fondata, dato che la derogabilità della norma legale, per quanto attuata
dal contratto, trova pur sempre il suo fondamento nella legge. Altre sono invece le risposte che a
nostro avviso vanno date: a parte la problematica questione dell’esistenza stessa della libertà
sindacale dei datori di lavoro, o comunque della sua riconducibilità all’art. 39 Cost., cui si è fatto
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sopra cenno, va quanto meno rilevato che l’ordinamento italiano ha sperimentato da tempo una
forma di intervento legale, di sostegno all’attività sindacale e all’autonomia collettiva, compatibile
con la libertà sindacale dell’una e dell’altra parte: la normativa promozionale (Giugni, 2001).
Orbene, ad avviso di chi scrive, gli interventi normativi di cui si sta trattando, se letti alla luce della
tesi appena discussa (e quindi come aventi, quale oggetto del rinvio, un contratto collettivo di diritto
comune), si rivelano da un lato flessibilizzanti (proprio in quanto consentono la deroga), ma
dall’altro lato, appunto, incentivanti la volontaria inclusione nel sistema contrattuale di tutti i datori
di lavoro che intendano avvantaggiarsi della deroga consentita (sulla natura promozionale di questi
rinvii, d’altronde, v. già lo stesso Liso, 1998). Si tratta, insomma, non dell’imposizione dell’obbligo
di applicare il contratto collettivo, ma di una sorta di scambio che viene offerto ai free riders (dal
legislatore in primis, e quindi dalle parti sociali), il quale si profila compatibile, a ben vedere, non
soltanto con la libertà sindacale (per quanto si è appena detto circa la natura anche promozionale
dell’intervento), ma pure con la libertà di iniziativa economica, poiché detto scambio risulta
sicuramente espressione del perseguimento di un obiettivo di utilità sociale (la volontaria
espansione del naturale ambito di applicazione dei contratti collettivi di diritto comune).
Ciò detto, va semmai osservato che la tesi qui condivisa necessita di alcune precisazioni: la
prima riguardante la struttura del sistema contrattuale di riferimento, la seconda attinente alla
posizione soggettiva del lavoratore.
Quanto alla prima, va segnalato che il problema della posizione datoriale si propone nei termini
evidenziati più sopra nei casi in cui il rinvio sia (attuabile e quindi) attuato da un contratto extraaziendale, al cui rispetto il datore non sia direttamente tenuto; casi nei confronti dei quali si deve
segnalare il rilievo di tutte le tesi dottrinali e giurisprudenziali con cui si è cercato di misurare quella
che si è sopra definita come (volontaria) inclusione del datore stesso nel sistema di relazioni
contrattuali di riferimento, qualora essa non risulti in qualche modo formalizzata (cfr. Giugni,
2001). Ma esso, evidentemente, non si pone affatto nel caso di contratto aziendale, al cui rispetto il
datore di lavoro è, invece, direttamente vincolato in quanto soggetto contraente.
Quanto alla seconda, invece, va avvertito che la ricostruzione sostenuta in questa sede (dei
contratti collettivi oggetto di rinvio legale con funzione tanto derogatoria, regolativa o deregolativa,
quanto ‘quasi-derogatoria’, appunto come ordinari contratti di diritto comune) implica la
consequenziale riproposizione, anche a latere dei lavoratori, di tutti i classici problemi dell’efficacia
soggettiva limitata. Riguardo a tali problemi si deve, per il vero, ricordare ancora una volta
l’esistenza della pluralità di tesi che hanno cercato di ricondurre, attraverso il ricorso a vari
escamotages, l’applicazione del contratto collettivo ad una manifestazione di volontà o quantomeno
ad un comportamento partecipativo del lavoratore rispetto all’azione sindacale, e ciò con
riferimento ai contratti collettivi anzitutto aziendali, ma anche extra-aziendali.
A tali escamotages possono in fin dei conti essere ricondotte, oltre che le numerose e ormai
largamente conosciute soluzioni fornite dalla giurisprudenza, anche le sofisticate costruzioni
dottrinali – cui pur va riconosciuto un indubbio respiro teorico - che hanno tentato di risolvere il
problema della sottoposizione alla regolamentazione contrattuale collettiva del singolo lavoratore
non iscritto e dissenziente (ed il cui contratto individuale non contenga ovviamente un espresso
rinvio né alla fonte né allo specifico contratto collettivo) traendo ispirazione dal principio di
effettività (su cui v., tra gli altri, Lunardon, 1999, e, per quanto attiene specificamente al contratto
aziendale, Lassandari, 2001; v. anche Vallebona, 1997). Ci si riferisce, in particolare, alle tesi che
hanno fatto rispettivamente riferimento: 1) all’acquiescenza del singolo lavoratore (o al mancato
dissenso individuale rispetto) ai prodotti della fonte collettiva (tesi talora supportata dal richiamo
alle clausole di inscindibilità contenute nei contratti collettivi) (cfr., tra i tanti e pur con una pluralità
di accenti, Liebman, 1993; Prosperetti G., 1989; Tosi P., 1985 e 1988); 2) al mancato rifiuto del
singolo di assoggettarsi (non al singolo atto, bensì) alla fonte collettiva stessa, da considerarsi come
vera e propria fonte-fatto, di cui l’ordinamento asseconderebbe l’efficacia tendenzialmente generale
(Proia, 1994); 3) alla partecipazione del lavoratore all’elezione del soggetto negoziatore e/o alla
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formazione della decisione collettiva sul negozio (cfr., ad esempio, Caruso, 1992); 4) alla inclusione
del lavoratore nella fattispecie sindacale di autotutela attraverso un qualsivoglia comportamento
organizzatorio anche passivo o dissenziente (Scarpelli, 1993); 5) al principio della libertà sindacale
di contrattazione come espressione di un potere di qualificazione, e quindi di tipizzazione della
fattispecie sindacale a valenza generale (iscritti e non iscritti), alla cui definizione il singolo può
anche non partecipare (libertà negativa), ma dalle cui ‘conseguenze’ non può sottrarsi, così come ad
esse ha diritto di accedere (Pedrazzoli, 1990); 6) alla efficacia generale del contratto collettivo
aziendale misurabile ex post attraverso la verifica del se «il regolamento contenuto sia in grado di
aggregare consenso, in termini adeguati, da parte dei singoli prestatori, ovverosia di provocare
forme di dissenso in misura definita ‘tollerabile’» (Lassandari, 2001).
A parte il fatto che alcune di queste soluzioni – ci si riferisce in particolare a quelle dottrinali che
prescindono addirittura dalla ricostruzione di una condivisione (anche implicitamente)
volontaristica dell’atto o dell’attività da parte dei soggetti interessati – sono rimaste relegate ad una
dimensione prevalentemente teorica, prive in generale di riscontro pratico applicativo, va detto per
il resto che anche le altre si sono sempre rivelate di estrema accidentalità. Queste ultime, infatti,
hanno avuto la funzione di soccorrere l’interprete (quasi a mo’ di stampella…) nei suoi tentativi di
risolvere un problema nevralgico per gli equilibri del sistema (quello, appunto, dell’efficacia
soggettiva del contratto collettivo), il quale necessiterebbe (ormai) di ben più stabile sostegno (come
dice Rusciano, 2003, esse sono «utili più per una soluzione del singolo caso, che per una solida
ricostruzione, teorico-sistematica, della contrattazione e della rappresentanza sindacale»; si tratta,
insomma, di soluzioni che «tradiscono il loro carattere contingente di strumenti diretti a tamponare
“falle” concettuali che postulerebbero approcci di ben altro respiro»: De Luca Tamajo, 1985). Ma
proprio per la loro natura di meri escamotages, è risultata assai frequente, ed anzi normalmente
ricorrente, l’estrema difficoltà di invocarne l’ausilio nelle concrete situazioni sottoposte al vaglio
del magistrato.
In considerazione di ciò, non ci si può certo nascondere che la tesi qui accolta e difesa potrebbe
comportare conseguenze applicative talora poco funzionali, rendendo difficoltosa l’attività
organizzativa datoriale, soprattutto quando siano in ballo profili gestionali che non possono essere,
o possono esserlo solo difficilmente, oggetto di differenziazioni regolative individualizzate. Si può
comprendere dunque perché una parte della dottrina ha tentato di spostare la questione sul piano,
per così dire, della ‘giuridica necessità’ dell’efficacia generale. Quest’ultima, infatti, deriverebbe
dalla (presupposta) indivisibilità della materia trattata e/o degli interessi in campo (e dunque sia di
quelli collettivi sia, sostanzialmente, di quello datoriale), la quale, ricorrendo nella gran parte delle
vicende gestionali, richiederebbe necessariamente un’uniformità di regole (tra i più recenti,
Persiani, 1999 e 2004; Liso, 1998; Zoli, 2002; Proia, 2002; sulla questione v. altresì, anche per
ulteriori rinvii, l’ampia trattazione di Lunardon, 1999); e tra tali materie, data la prospettiva
adottata, non c’è dubbio che si potrebbe ricondurre la gestione dell’orario di lavoro (v., infatti,
Tremolada, 2003, che utilizza l’argomento a sostegno della tesi secondo cui il d.lgs. n. 66, pur
operando rinvii a contratti collettivi dotati di efficacia erga omnes, non violerebbe l’art. 39 Cost.).
In realtà, va preliminarmente segnalato che questa costruzione, che potremmo, appunto, definire
della ‘efficacia generale necessitata’ - dall’indivisibilità della materia e/o degli interessi - del
contratto collettivo, prescinde, a ben vedere, dal rinvio legale e dalla derogabilità da esso consentita:
se il principio fondante di detta efficacia generale è costituito dall’indivisibilità della materia o
dell’interesse (collettivo, dei lavoratori, ovvero produttivo-imprenditoriale), dovrebbe dedursi che
esso operi anche al di fuori delle ipotesi di rinvio legale (cfr. Lunardon, 1999; Tremolada, 2000).
Ciò premesso, in risposta a quella tesi si deve anzitutto sottolineare come sulla stessa sussistenza
di materie indivisibili per l’ordinamento siano state invero avanzate, da lungo tempo, perplessità
(Caruso, 1992). Ed al riguardo, a parte comunque il fatto che, «su di un piano rigorosamente
formale, […] quello dell’indivisibilità è concetto descrittivo di fenomeni irrilevanti per il diritto,
laddove non sia quest’ultimo a procedere ad una qualificazione di tal segno» (Lassandari, 2001, ed
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ivi ulteriori riff.; ma v. già Grandi, 1985 e Dell’Olio, 1980), è da considerare che il riconoscimento
sul piano fattuale, prima ancora che su quello giuridico, di questa caratteristica risulta comunque
problematico, data la frequente aspirazione a spacciare per indivisibili materie e interessi ad
indiscutibile caratterizzazione individuale solo per ragioni di opportunità (opinione, questa, in fin
dei conti condivisa anche da Liso, 1998).
Ma, al di là di queste ultime considerazioni, si deve rilevare che - pur se si volesse ammettere la
giuridica rilevanza di una siffatta indivisibilità - l’efficacia generale del contratto di diritto comune
sarebbe sempre e comunque preclusa dalla presenza dell’art. 39, co. 4° (nonché co. 1°), Cost.
Insomma, a voler ragionare in coerenza con il testo costituzionale (nella lettura datane sin
dall’origine dal Giudice delle leggi), la diretta efficacia erga omnes di un contratto collettivo di
diritto comune non può farsi derivare in via diretta nemmeno dalla trattazione di materie/interessi
indivisibili; piuttosto - argomentando in senso inverso e partendo, com’è imprescindibile, dal
vincolo costituzionale - si deve rinvenire in ciò conferma dell’impossibilità di fronteggiare, in
presenza dell’inevitabile ricorso allo schema privatistico, le amplificazioni funzionali del contratto
collettivo che un ‘pretenzioso’ legislatore ha inteso promuovere e/o assecondare in mancanza di
attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. (la quale soltanto - come si è più volte rilevato - è
stata invece ritenuta dal Costituente sopportabile nel sistema di libertà delineato dal primo comma
della disposizione: cfr. già, peraltro, Mancini, 1963, il quale, segnalando i sacrifici che l’erga omnes
impone al soggetto collettivo, aveva, come noto, mosso dure critiche nei confronti dell’opzione
complessiva del Costituente). Di modo che, a fronte di un’effettiva indivisibilità della materia e/o
dell’interesse, il contratto collettivo (una volta constatata - secondo i canoni precedentemente
indicati - la sua vincolatività a latere datoris) se, da un lato, sarà inevitabilmente esposto al dissenso
del lavoratore non aderente all’organizzazione stipulante (salvo, ovviamente, che nel caso concreto
non possano ‘soccorrere’ gli escamotages di cui si è sopra detto), dall’altro lato, proprio per effetto
di siffatto dissenso, rischierà di non essere praticamente applicato nemmeno ai lavoratori aderenti.
5. Oltre ai due tipi sin qui esaminati e racchiusi, in modo paradigmatico, nell’art. 3, co. 2°, nel
d.lgs. n. 66, vi sono altri rinvii alla contrattazione collettiva che presentano caratteristiche in parte
differenti.
Ci si riferisce, anzitutto, ai rinvii che prevedono la possibilità per i contratti collettivi di
intervenire a limitare - nell’an, nel quantum o nel quomodo - poteri datoriali che altrimenti, in
mancanza di contratto, sarebbero esercitabili dal datore stesso senza limiti o, al massimo, nel
rispetto di altri limiti e condizioni previsti dalla legge, la definizione del cui contenuto, tra l’altro,
può, a sua volta, essere oggetto di un (diverso tipo di) rinvio legale in funzione integrativa o
specificativa (su questo aspetto v. il successivo paragrafo).
E’ bene precisare che tali contratti, di solito definiti ‘gestionali’, possono assolvere, sulla base
del rinvio legislativo, al compito: di fissare regole di carattere generale, sia sostanziali che
procedurali (ad es., obbligo di consultazione o contrattazione sindacale), per l’esercizio del potere
datoriale, di modo che, a partire da quel momento, esso dovrà essere necessariamente esercitato nel
rispetto delle medesime regole (salvo poi, nel caso di regole procedurali, verificare - alla luce del
concreto contenuto della previsione negoziale - l’efficacia solo obbligatoria o anche normativa delle
relative clausole); di intervenire a regolare, in attuazione di procedure fissate in precedenti accordi,
il concreto esercizio di quel potere nei singoli casi, ovvero ancora di intervenire direttamente
(ipotesi invero assai meno frequente) a regolare l’esercizio del potere stesso nel concreto caso di
specie (in questi ultimi due casi non si potrà evidentemente configurare un’efficacia obbligatoria).
A quest’ultimo riguardo, per maggiore chiarezza, si deve sottolineare che nell’ambito di questo
gruppo di rinvii intendiamo collocare quelli in cui l’intervento del contratto collettivo sia previsto
come ulteriormente vincolativo rispetto ai limiti e condizioni previsti dalla legge; laddove, qualora
al contratto collettivo fosse consentito di (eliminare, ma soprattutto) modificare (e quindi sostituire)
limiti e condizioni legali, si rientrerebbe nella categoria dei rinvii del secondo tipo, cioè di quelli
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che abbiamo definito come aventi funzione ‘derogatoria’ (in tal senso si possono, dunque,
confermare le perplessità da varie parti sollevate - v., anche per ulteriori riff., Carabelli, 2002;
Natullo, 2004 - nei confronti della nota sentenza della Corte costituzionale n. 268/1994, relativa
all’art. 5, co. 1°, l. n. 223/1991 - in tema di collocamento in mobilità dei lavoratori - in base alla
quale, com’è noto, l’accordo con il quale vengono individuati criteri di scelta diversi da quelli, c.d.
legali, definiti dalla stessa disposizione, apparterrebbe alla categoria degli ‘accordi gestionali’).
I rinvii del d.lgs. n. 66 appartenenti alla tipologia di cui ora ci si occupa sono quelli contenuti, ad
esempio, negli artt. 11, co. 2° e 15, co. 2°, seconda parte, entrambi in tema di lavoro notturno.
Rispetto alla prima disposizione, va osservato che, ferma restando la facoltà, ormai riconosciuta al
datore di lavoro, di richiedere lavoro notturno, la previsione da parte dei contratti collettivi di
requisiti soggettivi in presenza dei quali i lavoratori non possono esservi adibiti costituisce un
intervento limitativo di un potere datoriale altrimenti non vincolato dalla legge (salvo che nei casi
già previsti dal medesimo art. 11, co. 2°.). La seconda disposizione, poi, nel prevedere che in caso
di sopraggiunta inidoneità del lavoratore al lavoro notturno e di inesistenza o indisponibilità di
mansioni diurne equivalenti cui adibirlo - ipotesi nelle quali vi sarebbe spazio per l’esercizio del
potere di recesso - la contrattazione collettiva possa individuare concrete «soluzioni» alternative,
pone le basi per una eventuale limitazione di quel potere (altri rinvii qui richiamabili sono poi
quelli contenuti negli artt. 5, co. 2°, 12, co. 1° e 14, co. 4°, sui quali si possono vedere le
osservazioni formulate in Carabelli-Leccese, 2004).
Orbene, rispetto a questo tipo di rinvii possono essere anzitutto riproposte le considerazioni
sviluppate in relazione alla prima tipologia di contratti oggetto di rinvio legale di cui ci si è occupati
in precedenza (rinvii in funzione ‘migliorativa’) e che si è avuto modo di qualificare come
‘impropri’ . I contratti di cui si discute condividono, infatti, con quelli del primo tipo il fatto di
investire profili di regolazione che il contratto collettivo può disciplinare anche in assenza di rinvio
legale. Essi, d’altro canto, sono volti a tutelare l’interesse collettivo al controllo e alla limitazione
dell’esercizio dei poteri datoriali e - anche se in senso lato - possono essere considerati migliorativi
delle posizioni del lavoratore, sia quando essi fissino limiti di carattere sostanziale ai predetti poteri
(come ad es. nel citato caso di cui all’art. 11, co. 2°, d.lgs. n. 66), sia quando le loro clausole
prevedano, quali ‘complicazioni’ dell’esercizio di tali poteri, vincoli di tipo soltanto procedurale (di
solito al fine di assicurare il coinvolgimento del sindacato in processi gestionali). Pure questi ultimi
vincoli, infatti, rispondono comunque ad una logica di tutela anche del singolo prestatore di lavoro,
dato che (a prescindere dal concreto risultato finale) assicurano al lavoratore il filtro dell’intervento
collettivo nell’esercizio di un potere che altrimenti il datore di lavoro potrebbe egualmente
esercitare senza limiti (cfr. infra).
Proprio per la loro caratterizzazione, dunque, si può sostenere che anche questi rinvii risultano
sostanzialmente superflui, non potendosi dubitare che la previsione contrattuale di clausole volte a
porre limiti a poteri datoriali, altrimenti in grado di esplicarsi in piena libertà (o, come detto, nel
rispetto dei soli vincoli di legge), rientri tra le funzioni che la contrattazione collettiva – da
qualunque soggetto sindacale essa sia svolta - è in grado di esercitare in forza della libertà sindacale
(positiva) sancita dall’art. 39, co. 1°, Cost., da qualunque sindacato essa sia svolta Pure in questo
caso, insomma, il rinvio legale non toglie né aggiunge alcunché a quanto qualsiasi contratto
collettivo di diritto comune già potrebbe fare di per se stesso; tanto meno a tale rinvio potrebbe
attribuirsi la funzione e/o l’effetto di estendere erga omnes le clausole contrattuali, per le medesime
ragioni ostative evidenziate in precedenza in relazione ai rinvii aventi ad oggetto i contratti collettivi
di contenuto migliorativo.
Ciò detto, va poi notato che risulterebbe altresì del tutto inutile richiamare, nei confronti di
questo tipo di rinvii e dei contratti da essi previsti, le tesi, sopra ricordate, che giungono per diversa
via ad affermare l’efficacia erga omnes di contratti collettivi con funzione derogatoria, dal momento
che, evidentemente, anche in questo contesto andrebbero riproposte le considerazioni critiche là
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sviluppate (ivi comprese quelle relative alla pretesa natura non normativa di questi contratti: v.
infra).
Se, peraltro, queste obiezioni sono vere, rimane allora intatto il problema dei limiti soggettivi
entro cui può operare la norma del contratto collettivo stipulato in funzione dei rinvii di cui qui si
ragiona; ed esso non sembra poter essere risolto che sulla base delle tecniche del diritto privato,
nonché, eventualmente, degli escamotages con cui dottrina e giurisprudenza hanno in passato esteso
l’efficacia soggettiva del contratto dal lato tanto dei datori che dei prestatori di lavoro, cui si è fatto
riferimento in precedenza.
In realtà, va ricordato che nei confronti di siffatti contratti collettivi è stata suggerita una
specifica lettura che trae spunto dalla nota costruzione della procedimentalizzazione dei poteri
dell’imprenditore (Liso, 1982 e già Romagnoli, 1977). Si è infatti sostenuto che i contratti volti a
delimitare, sul piano tanto sostanziale che procedurale, il potere del datore di lavoro, sarebbero di
carattere gestionale e per essi non si porrebbe in realtà nessun problema di efficacia né normativa né
generale, in quanto - una volta accertatane l’applicabilità al datore di lavoro - la regolazione
contrattuale inciderebbe sul contratto o sul rapporto di lavoro non iure proprio, bensì
indirettamente, in via mediata, proprio per via del potere datoriale, ‘inevitabilmente’ destinato a
esplicarsi erga omnes in ragione della sua inscindibilità (Liso, 1998; cfr. anche Persiani 1999: «a
ragione della inscindibilità del potere organizzativo»).
Anche questa tesi - per quanto fatta propria (in verità senza grande convinzione, e con
riferimento, come accennato, ad una fattispecie di rinvio a contratto collettivo non equiparabile a
quelle di cui si discute in questa sede) dalla Corte costituzionale (sentenza n. 268/1994, cit.) propone, ad avviso di chi scrive, una lettura non del tutto sufficiente ad evitare i dubbi di contrasto
con il dettato costituzionale, salvo a correggerla nel senso che si preciserà tra breve.
Anzitutto, non appare fondato, neppure riguardo a tali accordi, affermare che essi non hanno una
propria funzione normativa. Come ben precisato da un autore, «alla previsione, in termini astratti e
generali, di limiti ad un potere unilaterale del datore di lavoro, fa necessariamente riscontro, se
considerata nella logica del rapporto, il diritto del lavoratore a che quei limiti siano rispettati»
(Persiani, 1999; v. anche Bellocchi, 1998; Proia, 2002). In secondo luogo, non si può, al fine di
assicurare l’efficacia generale del vincolo imposto contrattualmente sul potere datoriale, invocare
l’inscindibilità del potere organizzativo: questa argomentazione è del tutto rapportabile a quella,
ricordata in precedenza, riguardante l’indivisibilità della materia e degli interessi; ad essa, pertanto,
non possono che essere opposte le stesse obiezioni avanzate in quella sede, confermando che
«l’esigenza intrinseca di una disciplina unitaria, determinata dal coinvolgimento dei problemi di
organizzazione del lavoro, non può creare da sé le condizioni di efficacia dell’atto» (Bellocchi,
1998).
Ciò posto, ad avviso di chi scrive si può tuttavia sostenere che, a fronte di contratti di questo tipo
- dei quali non può dunque essere messa in dubbio la tradizionale natura di contratti di diritto
comune - una volta che se ne riconosca l’applicabilità al datore di lavoro (il che, si badi bene, va da
sé nel caso di contratti aziendali), il lavoratore non iscritto non potrebbe sottrarsi all’esercizio del
potere secondo le modalità e/o i limiti definiti dal contratto, in quanto tali modalità e limiti possono
comunque essere configurati come legittimi modi di esercizio del potere stesso che derivano da una
‘scelta’ del datore di lavoro tra quelle astrattamente praticabili. In altre parole, il fatto che il datore
abbia effettuato questa scelta impegnandosi contrattualmente nei confronti del sindacato e/o dei suoi
iscritti a rispettare certe modalità e/o limiti, non altera l’originario fondamento unilaterale del potere
esercitato nei confronti di tutti i lavoratori, di modo che, nei confronti dei lavoratori non iscritti, il
contratto risulterà un mero elemento ‘interno’ al processo decisionale datoriale, onde a rigore di
termini non si pone neppure, nei loro confronti, un problema di efficacia soggettiva del contratto
collettivo, ma di mera soggezione dei medesimi ad un esercizio legittimo del potere datoriale (cfr.
anche Bellocchi, 1998).
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Per contro, vista la questione dal lato dei lavoratori, mentre per gli iscritti ai sindacati stipulanti
vi sarà la possibilità di invocare il rispetto, nei loro confronti, degli obblighi contrattuali (e cioè che
il potere sia esercitato secondo le modalità e/o entro i limiti convenuti dal contratto), ciò non sarà
possibile per il lavoratore non iscritto, a meno che non soccorrano nei suoi confronti gli
escamotages cui ci si è più volte riferiti (cfr. comunque, in particolare, Persiani, 1999, con specifico
riferimento, oltre che alla inscindibilità del potere organizzativo, alla necessità di evitare
«discriminazioni per ragioni sindacali»). Anche se va detto che la possibilità che il datore vincolato
dal contratto rifiuti di esercitare il potere nei confronti del singolo lavoratore non iscritto secondo le
modalità e/o i limiti contrattuali appare davvero marginale e probabilmente relegabile al limite tra
gli strumenti di difesa processuale utilizzabili ex post dal medesimo datore di lavoro in caso di sua
violazione dei predetti vincoli contrattuali nei confronti dello stesso lavoratore.
In conclusione, pure la tesi che si ispira alla teoria della procedimentalizzazione si presenta come
un ennesimo tentativo di suggerire un percorso logico che, procedendo dalla (supposta o effettiva)
‘inevitabile’ destinazione erga omnes del potere datoriale, ne fa derivare sul piano giuridico
un’efficacia generale, per così dire, necessitata degli accordi di cui si tratta, dimenticando quanto
affermato dalla Corte costituzionale circa l’impraticabilità di un percorso verso l’erga omnes
alternativo a quello indicato dall’art. 39, co. 4°: al di là del diritto privato e del ricorso eventuale a
strumenti di estensione compatibili con esso non c’è, insomma, che la violazione della norma
costituzionale (cfr. Bellocchi, 1998).
6. Infine, un ulteriore tipo di rinvii presente nel d.lgs. n. 66 è riconducibile a quella categoria di
rinvii legislativi che attribuiscono al contratto collettivo il compito di colmare uno spazio lasciato
vuoto (o semi-vuoto…) dalla norma di legge, e più precisamente di integrare la (e quindi dare
contenuto alla) norma (quanto ad es. a nozioni, quantità, etc.); ovvero di specificare (e quindi
esplicitare) limiti o condizioni che la legge stessa individua in generale, ma dei quali non detta gli
(o, quanto meno, alcuni degli) elementi connotativi (cfr., in generale, Liso, 1998, Vallebona, 1997,
e, con riferimento ai rinvii contenuti nel d.lgs. n. 276/2003, Carinci F., 2004). E ciò, evidentemente,
potrebbe riguardare un qualsivoglia profilo inerente ai rapporti di lavoro nonché, tra l’altro, come
accennato al par. 5, un aspetto del potere datoriale, posto che la norma di rinvio potrebbe anche
affidare alla contrattazione collettiva il compito di intervenire in funzione integrativa o specificativa
di una regola legale dettata per disciplinare l’esercizio di quel potere.
A questo tipo di rinvii possono essere ricondotti, nell’ambito del d.lgs. n. 66, quelli previsti dagli
artt. 1, co. 2°, lett. e), n. 2; 4, co. 5°; 8, co. 1°; 15, co. 2°, prima parte.
6.1. - Peraltro, prima di scendere nel dettaglio dei loro contenuti, è bene preliminarmente
segnalare che anche il singolo, concreto rinvio riconducibile alla tipologia qui trattata parrebbe
porre in realtà delicati interrogativi circa la correlazione tra la norma legale e l’autonomia collettiva,
sollevando, ancora una volta, sospetti di funzionalizzazione della seconda al perseguimento degli
obiettivi voluti dalla prima e, dunque, di contrasto della stessa norma di rinvio con il principio di
libertà sindacale di cui all’art. 39, co. 1°, Cost.
In realtà – ricordando quanto già osservato in relazione ai rinvii con funzione derogatoria - si
deve anzitutto riconoscere che in tutti gli esempi sopra richiamati (ed in genere in quelli deducibili
dall’esperienza concreta), i soggetti collettivi restano certamente liberi di intervenire o meno a
regolamentare la materia oggetto di rinvio (non grava su di loro alcun obbligo giuridico di svolgere
la predetta funzione specificativa per via negoziale, tanto meno entro limiti di tempo predeterminati:
libertà nell’an, nonché nel quando; cfr. Persiani, 1999).
Invece, dal punto di vista del contenuto e dunque, sostanzialmente, dei fini dell’attività
contrattuale, la questione appare più complessa. Su questo piano, infatti, la norma di rinvio, per il
modo stesso in cui è strutturata in questi casi, parrebbe talora implicare davvero un asservimento
della contrattazione collettiva - ed anzi, più specificamente, del singolo contratto collettivo, se non,
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addirittura, di una sua clausola - al soddisfacimento dell’obiettivo legale volta a volta coinvolto, nel
senso che quest’ultimo sembrerebbe costituire un limite interno all’operare della stessa
contrattazione, e cioè un fine cui essa dovrebbe direttamente mirare (di modo che tale fine
risulterebbe precostituito per le stesse parti collettive, in violazione della loro libertà negoziale). E
tuttavia, ad avviso di chi scrive, si deve riconoscere che, nei casi in questione, non potrà mai negarsi
la sussistenza d’interessi negoziali propri delle parti collettive (anche se, di fatto, assai
frequentemente essi potrebbero risultare in tutto o in parte sovrapponibili con i fini perseguiti dalla
legge: si pensi all’interesse all’occupazione). In quanto soggetti/agenti privati che agiscono in
regime di libertà, la (libera) attivazione del loro impegno negoziale non pare, infatti, giustificabile
se non alla luce di siffatti autonomi interessi, di fatto implicitamente deducibili dal loro
comportamento volontario. Se ciò è vero, peraltro, può dedursi che il fine della norma legale di
rinvio non deve essere concepito come limite interno all’attività negoziale delle parti sociali, dato
che anche ove finisse per costituire di fatto anche il fine di essa, lo sarebbe sempre in quanto
liberamente assunto come proprio dalle parti stesse, nell’atto di accedere volontariamente alla
contrattazione; esso, pertanto, potrà sempre essere ricostruito, a ben vedere, soltanto come un limite
esterno all’attività di contrattazione collettiva, in quanto tale privo di rilievo funzionalistico (cfr.
Carabelli, 2002; Persiani, 2004).
6.2. - Tutto ciò premesso, va ora sottolineato che le considerazioni appena sviluppate, se, da un
lato, escludendo la funzionalizzazione della contrattazione collettiva da parte della norma di legge,
nei casi di rinvio in questione, servono ad escludere altresì, sotto questo profilo, la violazione
dell’art. 39, co. 1°, Cost., nulla ci dicono in merito ai problemi dell’efficacia soggettiva del contratto
collettivo con funzione integrativa o specificativa.
Ebbene, si può qui osservare, con generale riferimento a tutti i rinvii in funzione integrativa e
specificativa, come anche i contratti collettivi destinatari di essi - e stipulati ai livelli e/o dai soggetti
selezionati dal legislatore - rimangano pur sempre qualificabili quali atti di autonomia privata
(collettiva).
Anche per essi, dunque, non possono che essere ribadite le osservazioni sopra formulate in
merito, anzitutto, alla limitata efficacia soggettiva di qualsivoglia contratto collettivo oggetto di
rinvio (e all’incompatibilità con l’art. 39 Cost. delle letture volte ad affermarne l’applicazione erga
omnes; cfr. anche Vallebona, 1997, il quale si esprime per l’incostituzionalità «di qualsiasi
meccanismo di rinvio in bianco all’autonomia collettiva, le cui determinazioni andrebbero
sistematicamente a riempire il precetto legale-contenitore applicabile a tutti gli appartenenti alla
categoria»). Allo stesso modo, vanno anche qui confermate le considerazioni già prospettate in
relazione alla possibile, fattuale, ricorrenza delle condizioni che consentono il ricorso ai diversi
escamotages più sopra ricordati: sia quelli diretti ad escludere la possibilità per il datore di lavoro di
applicare ai propri dipendenti trattamenti diversificati in virtù della loro mancata iscrizione al
soggetto stipulante; sia quelli, per così dire, volontaristici che, senza negare l’efficacia meramente
inter partes di qualsiasi contratto collettivo, consentono però, talora, di garantirne l’applicazione
anche a rapporti di lavoro che ne sarebbero altrimenti sottratti (ma per ulteriori approfondimenti, v.
Carabelli-Leccese, 2005, specie con riferimento all’efficacia soggettiva sia degli accordi con cui
vengono individuate, ai sensi dell’art. 2, co. 2°, l. n. 146 del 1990, in materia di sciopero nei servizi
essenziali, le prestazioni indispensabili, sia dei contratti collettivi del settore pubblico, nonché con
riferimento agli escamotages elaborati a proposito di tali normative da parte della Corte cost., nelle
pronunce n. 344/1996 e n. 309/1997).
6.3. - Se ciò è vero, resta da chiarire quale sia la funzione di questo tipo di rinvii, e
specificamente se essi possano essere considerati come riconducibili alla famiglia dei rinvii propri o
a quella dei rinvii impropri, secondo la generale distinzione che si è accolta sin dall’inizio di questo
saggio.
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A questo riguardo va ancora una volta ricordato, su di un piano generale, che, nei casi in esame,
il legislatore, pur ponendo una disciplina destinata a regolare i rapporti di lavoro, evita di dettarne
(tutti, o alcuni de)i profili di dettaglio, ma rinvia tale compito (in tutto o in parte) ai contratti
collettivi (normalmente quelli stipulati da soggetti selezionati). Ciò detto, peraltro, va notato che la
tipologia qui in esame presenta, in verità, caratteristiche variegate, che impongono l’effettuazione di
una precisazione determinante: in essa si raccolgono rinvii che, a ben vedere, altro non sono che
modalità particolari con le quali si manifestano le tre tipologie di rinvio cui si è fatto riferimento in
precedenza.
Si pensi, così, ad esempio, alla previsione di cui all’art. 15, co. 2°, prima parte, d.lgs. n. 66, in
forza della quale la contrattazione collettiva è chiamata a definire le modalità di applicazione della
norma contenuta nello stesso art. 15, co. 1°, relativa alla sopraggiunta inidoneità del lavoratore al
lavoro notturno ed alle sue conseguenze; oppure, ancora, all’art. 1, co. 2°, lett. e), n. 2, sulla cui
base il contratto collettivo, integrando la legge al fine di individuare la nozione di lavoratore
notturno, può stabilire condizioni di miglior favore rispetto al limite degli ottanta giorni lavorativi
annui di cui allo stesso n. 2, ovvero rispetto al limite delle tre ore di cui al n. 1 della medesima lett.
e). Ebbene, in questi casi si è in presenza di rinvii in funzione integrativa che paiono del tutto
riconducibili alla tipologia dei rinvii (‘impropri’) in funzione migliorativa, poiché pare innegabile
che anche senza di essi la contrattazione collettiva avrebbe potuto liberamente intervenire a
disciplinare le descritte situazioni.
Si pensi, inoltre, a quanto previsto dall’art. 8, co. 1°, d.lgs. n. 66, sulla base del quale le norme
collettive potrebbero anche limitarsi a determinare le specifiche modalità di godimento delle pause,
senza incidere sulla loro durata: in tale prospettiva può dirsi che il contratto collettivo è chiamato
dal rinvio legale ad integrare, con le predette modalità, la regola implicita nella norma secondo cui,
mentre è riconosciuto al lavoratore il diritto alla pausa, è rimesso invece al datore di lavoro (in
mancanza di siffatta integrazione dettata, appunto, dalla disciplina collettiva) il potere di
determinare la collocazione temporale della stessa (come si ricava dal riferimento alle «esigenze
tecniche del processo lavorativo»). Un rinvio legale, questo, che risulta, dunque, anch’esso
riconducibile alla terza tipologia dei rinvii (ancora una volta ‘impropri’) alla contrattazione
collettiva in funzione di delimitazione dei poteri datoriali: non pare esservi dubbio, infatti, che la
contrattazione collettiva avrebbe potuto comunque, anche a prescindere dal rinvio medesimo,
svolgere la descritta funzione attraverso il predetto intervento.
Per converso, in altri casi i rinvii in funzione integrativa o specificativa si manifestano con
caratteristiche del tutto omologhe a quelle tipiche della tipologia dei rinvii (questa volta, ‘propri’) in
funzione derogatoria, nelle sue tre varianti (regolativa, deregolativa e quasi-derogatoria). Ed è
evidente che, al riguardo, valgono tutte le considerazioni svolte in precedenza in relazione alla
predetta tipologia (ivi compreso quanto attiene alla funzione promozionale ad essa intrinseca). Ciò
vale, per rimanere ad un esempio interno alla disciplina di cui al d.lgs. n. 66, con riferimento al già
citato art. 1, co. 2°, lett. e), n. 2, poiché il contratto collettivo, ove proceda alla integrazione della
legge ai fini dell’individuazione della nozione di lavoratore notturno, potrebbe stabilire condizioni
peggiorative - anziché, nei termini appena illustrati, migliorative - rispetto al limite degli ottanta
giorni lavorativi annui di cui allo stesso n. 2.
Ciò detto, occorre pur tuttavia riconoscere che, una volta effettuata questa sorta di ‘scrematura’,
nell’ambito della tipologia dei rinvii in funzione integrativa o specificativa residuano pur sempre
taluni rinvii che non risultano (almeno apparentemente) riconducibili alle tre tipologie già
esaminate. Per essi si pone, dunque, il problema di definirne la natura (propria o impropria) e, a tal
fine, di verificare se risultino finalizzati ad attribuire al contratto collettivo la capacità di produrre
un effetto legale di qualche tipo.
In proposito si può prendere in considerazione l’ultimo rinvio contenuto nel d.lgs. n. 66, previsto
dal citato art. 4, co. 5°, il quale il quale, vincolando comunque il datore di lavoro a comunicare alla
DPL-Settore ispezione del lavoro il superamento, con lavoro straordinario, delle 48 ore di lavoro
20
settimanale, stabilisce che la contrattazione collettiva possa determinare «le modalità per adempiere
al predetto obbligo di comunicazione». Ebbene, dopo aver ribadito che, anche in questo caso, il
contratto collettivo è destinato a ‘riempire’ la norma di legge, sembra comunque potersi sostenere
che - al pari di quanto già rilevato in merito ai rinvii in funzione integrativa o specificativa
rapportabili a quelli inclusi nelle tipologie dei rinvii in funzione migliorativa e di delimitazione dei
poteri datoriali - a tale contratto non può essere riconosciuta, in realtà, l’idoneità a produrre alcuno
specifico effetto legale. Nel caso qui prefigurato, infatti, si è in presenza del risultato di un’attività
interpretativa della norma di legge che le parti avrebbero potuto svolgere, tramite il contratto
collettivo, anche in assenza di rinvio legale, il quale dunque non aggiunge né toglie nulla all’attività
contrattuale svolta nell’esercizio della libertà sindacale. In altre parole le clausole contrattuali
attuative dei rinvii qui considerati sono del tutto comparabili a quelle che le parti frequentemente
pattuiscono in funzione di interpretazione di clausole legali, come avviene ad esempio nei casi in
cui esse provvedano a definire il contenuto del giustificato motivo o della giusta causa di
licenziamento; ed in questa ipotesi, com’è noto, è opinione dominante in dottrina e giurisprudenza
che la norma contrattuale non sia vincolante per il giudice, pur se questi non può che trarne utile
ispirazione (v., per tutti, Ghera E., 2002). Per contro, è da segnalare che, anche in mancanza
d’intervento della contrattazione, non vi è una preclusione all’applicazione della norma, rispetto alla
quale i singoli operatori si assumeranno direttamente la responsabilità interpretativa.
7. La classificazione dei rinvii alla contrattazione collettiva contenuti nel d. lgs. n. 66 e la loro
riconduzione alle due famiglie dei rinvii propri ed impropri, di recente opportunamente evidenziate
in dottrina (v. ancora Pinto, 2002), ci ha consentito di rilevare come da quelli del secondo tipo
(‘impropri’) – cui sono stati da noi ricondotti sia quelli in funzione migliorativa, sia quelli in
funzione di limitazione dei poteri datoriali – non sia possibile, al fine di evitare qualsivoglia
contrasto con l’art. 39, co. 1° e 4°, Cost., far derivare altro se non una mera sollecitazione, rivolta ai
soggetti selezionati, a sviluppare un’attività negoziale sulla materia oggetto di rinvio, senza che ne
risulti precluso l’intervento di altri soggetti collettivi. Un’attività, peraltro, i cui prodotti contrattuali
hanno una mera efficacia inter partes.
Si è poi potuto rilevare come le norme legali contenenti rinvii ai contratti collettivi stipulati da
soggetti selezionati in funzione ‘derogatoria’ (regolativa e deregolativa) e ‘quasi derogatoria’ - i
quali sono invece riconducibili alla tipologia dei rinvii ‘propri’ - assumono un rilievo del tutto
peculiare, che non attiene, ancora una volta, all’efficacia generale dei contratti stessi (preclusa,
come argomentato, dall’art. 39, co. 4°, nonché co. 1°), bensì all’idoneità di questi ultimi a produrre
gli effetti legali voluti dalla legge.
Infine, si è segnalata la possibilità di ricondurre i rinvii in funzione integrativa o specificativa
della norma legale all’una o all’altra delle due figure.
A tali conclusioni si è giunti considerando come la via maestra per la soluzione dei problemi di
legittimità sollevati, a fronte dell’art. 39, 1° e 4° co., Cost., dalla normativa legale di rinvio, che
indubbiamente, negli ultimi venticinque anni, si è sempre più ramificata nell’esperienza giuridica
del nostro ordinamento, risieda nella rigorosa correttezza costituzionale dell’impegno interpretativo
rispetto al profilo dell’erga omnes. E riconoscendo di conseguenza che, esclusa in radice la
possibilità di assegnare ai rinvii legali su cui ci si è ampiamente soffermati la ‘capacità’ di conferire
ai contratti collettivi richiamati un’efficacia generale, solo ai c.d. rinvii ‘propri’ è possibile poi – per
ulteriori motivi di coerenza con il dettato costituzionale – attribuire un valore precettivo, in grado di
far derivare effetti legali dalla stipulazione dei contratti collettivi da parte dei soggetti sindacali
selezionati.
Ciò detto, va ancora osservato che la convinzione – talora esplicitata, assai spesso solo
presupposta, nel ragionamento interpretativo non solo della dottrina, ma della stessa giurisprudenza
– secondo cui le esigenze di ‘flessibilizzazione guidata’ potevano e possono essere favorite con
l’attribuzione alle organizzazioni sindacali, in qualche modo rappresentative, di sostanziali compiti
21
di rappresentanza generale e con il conseguente riconoscimento di un’efficacia generale ai contratti
collettivi da esse conclusi su ‘investitura’ legale per lo svolgimento delle funzioni predette, ha
costretto l’interprete a ‘forzare’, indirettamente (con il suo ‘aggiramento’) o direttamente (con il suo
preteso ‘ridimensionamento’), il dato costituzionale in materia di contrattazione collettiva ad
efficacia generale (a sua volta ritenuto troppo ancorato a logiche ormai superate dalle grandi
mutazioni economico-sociali degli anni successivi alla Costituzione).
Si tratta, tuttavia, di una scelta di politica del diritto assai discutibile e criticabile. Stante la chiara
e netta lettura della Corte costituzionale (su cui ci si è soffermati ampiamente più sopra), l’erga
omnes perseguito ‘a tutti i costi’ – tramite la normativa di rinvio e le interpretazioni che ne hanno
assecondato le (indichiarabili, ma evidenti) pretese di efficacia generale – apre nel corpus
normativo costituzionale una ferita assai vistosa, tanto più ingiustificabile a fronte dell’altrettanto
vistosa inadempienza del legislatore ordinario nel dare concretezza al progetto racchiuso nello
stesso art. 39 Cost. (cfr. anche Vallebona, 1997, il quale parla di «barbarie del nostro diritto che il
giurista ha il dovere di denunziare e combattere»). Le note ragioni politiche, storicamente
individuabili, della mancata attuazione della disposizione e della diffusione, a partire dagli anni ’80,
dell’esperienza del coinvolgimento dell’autonomia collettiva nei processi di normazione legislativa
non possono, insomma, fungere da giustificazione giuridica della violazione del vincolo
costituzionale da parte di una prassi legislativa da cui si vorrebbe far derivare l’attribuzione al
contratto collettivo di diritto comune di funzioni para-legislative e sulla base della quale i sindacati
di fatto sarebbero stati «chiamati ad esercitare un potere pubblico» (Liso, 1998, con specifico
riferimento alle norme contrattuali volte a «completare o modificare [...] il contenuto della
disciplina legale»). Così come, sostenere che, anche a causa dei rinvii legislativi ai soggetti
maggiormente rappresentativi (anzi, a soggetti comparativamente più rappresentativi), vi siano
ormai «elementi di attrazione del contratto collettivo tra le fonti del diritto, e che si manifesta ormai
«sempre più debole, per non dire una pura finzione, l’idea secondo cui il contratto collettivo altro
non è che un contratto di diritto privato» (Rusciano, 2003), significa affermare, ahimè, che la
costituzione materiale si è distaccata da quella formale, ma non giustifica certo la pretesa di una
‘prevalenza’ della prima sulla seconda (ovvero di assecondare, appunto, un’efficacia erga omnes ‘a
tutti costi’ dei contratti collettivi di diritto comune oggetto di rinvio).
Certo, si è ben consapevoli di come la lettura qui proposta si muova in controtendenza rispetto
all’atteggiamento - sia del legislatore, sia di parte della dottrina e della giurisprudenza - che negli
ultimi anni ha dominato la scena della nostra disciplina, volto a riporre progressivamente nel
dimenticatoio il limite scaturente dalla norma costituzionale, sia pure per la comprensibile (ma
comunque pretesa) aspirazione di conferire efficienza al sistema di relazioni sindacali e politiche. Ci
si riferisce, evidentemente, al formale coinvolgimento ad ampio raggio dell’autonomia collettiva in
attività ‘para-legislative’ ed alla sempre più frequente tendenza del dibattito scientifico ad
assecondare tale vicenda con interpretazioni, invero sempre più sofisticate, di sostegno all’efficacia
generale dei contratti collettivi oggetto dei variegati tipi di rinvio legale.
Sulle ragioni di questa esperienza sono stati versati ormai fiumi di inchiostro (per un’articolata
disamina v., per tutti e tra i più recenti, Rusciano, 2003, nonché, con particolare riferimento ai più
recenti sviluppi - o involuzioni - delle prassi concertative, Bellardi, 2004). Ciò che più preme ancora
considerare in questa sede, peraltro, è che, al di là della sostanziale rimozione del vincolo
costituzionale, l’evoluzione legislativa in questione ha comportato il passaggio dalle prime forme di
rinvio generico ai contratti collettivi non qualificati dal punto di vista dei soggetti, alle successive
ipotesi di rinvio ai contratti stipulati dai sindacati dapprima meramente ‘rappresentativi’,
successivamente ‘più rappresentativi’ o ‘maggiormente rappresentativi’, fino a ridiscendere poi
verso le più recenti forme di rinvio fondato su una valutazione comparativa di rappresentatività,
dapprima nel senso estensivo di cui alla l. n. 196 del 1997 e del d.lgs. n. 368 del 2001 (in cui si
rinviene la formula del contratto collettivo sottoscritto «dai sindacati comparativamente più
rappresentativi»), e poi nel senso limitativo di cui alla l. n. 30 e ai d.lgs. nn. 66 e 276 del 2003 (in
22
cui la formula del contratto collettivo sottoscritto «dai sindacati comparativamente più
rappresentativi» è stata - anche se non univocamente - sostituita da quella del contratto collettivo
stipulato «da organizzazioni sindacali [...] comparativamente più rappresentative».
Ebbene, appare innegabile che in questa evoluzione si può in realtà riscontrare quantomeno
l’intento del legislatore di addivenire ad una progressiva restrizione dei soggetti qualificati come
idonei e sufficienti alla stipula dei contratti collettivi oggetto dei rinvii legislativi. E siffatto graduale
impoverimento del fronte soggettivo ha raggiunto il suo apice con l’ultimo passaggio legislativo il
cui obiettivo consiste proprio nello ‘sterilizzare’ (Pinto, 2004) o, meglio ancora, ‘neutralizzare’
l’eventuale dissenso di un sindacato comparativamente più rappresentativo - anche se, in teoria,
quest’ultimo fosse, per caso, il più forte ed il più numeroso in termini assoluti del sistema di
relazioni sindacali di riferimento - rispetto ad una decisione condivisa da altri sindacati che pure, a
loro volta, possono essere considerati comparativamente più rappresentativi, così riconoscendo, ai
fini del rinvio legale, il rilievo giuridico di accordi stipulati solo da questi ultimi.
Sui limiti e le contraddizioni, anche sul piano esegetico, di questa lettura del dato normativo ci si
è soffermati in altra sede (Carabelli-Leccese, 2005). Qui conviene solo sottolineare come il
passaggio legislativo più recente renda ormai ancora più insostenibile la deformazione prodotta
dalla tecnica dei rinvii a partire dalla legislazione della crisi, poiché esso infligge un vulnus alla
forte valenza democratica che dovrebbe avere il processo negoziale, nella misura in cui si pretenda
di riconoscere effetti generali all’attività contrattuale svolta da tali soggetti (cfr., in senso analogo,
Rusciano, 2003).
E’ per questo che un ritorno rigoroso al diritto privato, quanto all’efficacia soggettiva dei
contratti collettivi di diritto comune, ci appare, alla fine, in grado di costituire un baluardo difensivo
contro il processo degenerativo in atto, che può oltretutto stimolare un nuovo vigore nella
riflessione intorno all’attuazione dell’art. 39 Cost. o comunque intorno all’esigenza di rimettere in
agenda la questione della regolamentazione del sistema di contrattazione collettiva e di
rappresentanza sindacale, secondo canoni che restituiscano in pieno valore al principio di
democrazia sindacale fondato sulla volontà della maggioranza dei lavoratori.
Un illustre collega, alcuni anni or sono ed in altro contesto, affermò, con una frase rimasta
famosa, che «il trentanovismo è nelle cose» (Pera, 1985); anche chi in passato ha pensato
ottimisticamente che si potesse fare a meno di affrontare di petto il problema dell’erga omnes e del
predetto principio di democrazia ritrova oggi, in quell’affermazione, un motivo di ripensamento
critico delle scelte degli anni più recenti. Ed infatti, ove pure si ritenesse indispensabile (continuare
a) perseguire la ‘governabilità’ del sistema socio-economico e la strategia della ‘flessibilizzazione
guidata’, attraverso la scelta di (continuare a) far interagire la legge e la contrattazione collettiva (al
fine di esaltare il determinante contributo di essa agli equilibri socio-economici del sistema),
assicurando però senza lesioni costituzionali l’efficacia generale dei suoi prodotti contrattuali,
occorrerebbe rimettere mano all’impegno (al momento quiescente, almeno nelle intenzioni
dell’esecutivo: cfr. quanto affermato nel Libro bianco) delle riforme (eventualmente anche del testo
costituzionale), tenendo in particolare conto le esigenze di concreta verifica della volontà
maggioritaria dei lavoratori.
Ovviamente non è questa la sede per interrogarsi sui possibili modelli attraverso cui attuare tale
verifica, con riferimento ai soggetti da investire dei poteri negoziali e/o ai prodotti dell’attività
negoziale. Quel che ci sembra indubbio, peraltro, è che - per esigenze di coerenza generale di
sistema - un eventuale intervento riformatore non potrebbe riguardare soltanto la contrattazione di
tipo derogatorio, anche nella modalità integrativa o specificativa, ma dovrebbe evidentemente avere
portata generale, nel senso di riferirsi ad ogni tipo di attività contrattuale collettiva della quale si
intendano ottenere contratti collettivi ad efficacia erga omnes.
Da questo punto di vista, la riflessione che Massimo D’Antona aveva avviato nell’ultimo dei
suoi scritti (D’Antona, 1999) risulta, a ben vedere, indipendentemente dalle soluzioni da lui
prospettate, significativamente anticipatrice dei bisogni di riforma che il nostro sistema, ormai
23
stressato dalle operazioni di ‘rappezzamento’ dell’ultima fase del secolo scorso, presenta alle soglie
del nuovo (analoghe esigenze di un intervento riformatore del legislatore sono espresse, tra gli altri,
da Rusciano, 2003; Bellavista, 2003; Campanella, 2000; Carinci F., 2004).
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