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la domenica - La Repubblica.it
LADOMENICA
DOMENICA 12 GENNAIO 2014
NUMERO 462
DIREPUBBLICA
130 MILIONI di morti tra il 1914 e il 2014
1 SOLDATO = 15MILA MORTI
15 1914 - 1918
milioni Prima guerra mondiale
CULT
All’interno
La copertina
La solitudine
del lettore
nella Babele
dell’editoria
4,5 1917 - 1922
milioni Guerra civile russa
450 1936 - 1939
mila Guerra civile spagnola
MOHSIN HAMID
e VALERIO MAGRELLI
10 1937 - 1945
milioni Seconda guerra sino-giapponese
Il libro
Andrew S. Greer
racconta
le vite impossibili
delle donne
LEONETTA BENTIVOGLIO
60 1939 - 1945
milioni Seconda guerra mondiale
Straparlando
Luciana Castellina
“Così ho visto
la classe operaia
andare all’inferno”
DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI
ANTONIO GNOLI
Il teatro
Guerra
dei cent’anni
La
LUCIO CARACCIOLO e VITTORIO ZUCCONI
CONTINUA
Giovani inquieti
in uno zoo di vetro
Cirillo rivisita
Williams
ANNA BANDETTINI
Dalla prima
carneficina mondiale
alla Siria di oggi
Tutti i conflitti
che hanno
segnato il secolo
La serie
La Poesia
del mondo
Emily Dickinson
fuggitiva
WALTER SITI
la Repubblica
DOMENICA 12 GENNAIO 2014
■ 36
LA DOMENICA
La copertina
Si cominciò nell’agosto del 1914 con un colpo di rivoltella a Sarajevo
1914-2014
Gli ultimi
giorni
dell’Europa
VITTORIO ZUCCONI
all’altodella propria torre orgogliosa la Morte guardò
il suicidio dell’isola nel mare ai suoi piedi». Fu questo
verso di Poe che la storica Barbara Tuchman scelse
per narrare il secolo del suicidio europeo cominciato
nel 1914, l’anno fatale nel quale il continente più prospero, colto, sviluppato, civile, più egemone che il
mondo avesse mai conosciuto, decise, per ragioni ancora inspiegabili, di autodistruggersi. L’Europa fu il Cavallo di Troia di se stessa. Implose — senza invasioni né attacchi, né orde di barbari — spalancando le porte della storia al Secolo Americano.
È difficile, per noi che abbiamo conosciuto soltanto l’Europa della miracolosa, e ora claudicante rinascita un secolo dopo quel 1914, comprendere quanto assoluta fosse la supremazia del nostro continente sul pianeta. E quanto improbabile apparisse in quell’anno la «marcia dei sonnambuli» — secondo la definizione di Christopher Clark a Cambridge — verso l’abisso. Chi lamenta la globalizzazione di oggi, non sa quanto già globale fosse il mondo della Belle Époque e profonda l’interdipendenza fra le nazioni del Vecchio Continente. Basteranno due cifre per dare la misura dello strapotere europeo: il 67 per cento
della produzione industriale mondiale veniva da qui; l’80 per cento delle flotte
militari e commerciali batteva bandiere europee.
Una guerra fra le corone, tutte posate sulla testa di parenti, cugini e cognati,
e l’unica grande repubblica del tempo, la Francia, appariva anche più assurda
di quanto possa sembrare oggi alle legioni di ragazzi che sciamano da un’università all’altra sotto il segno di Erasmo, ai turisti che salgono e scendono da voli low cost e treni superveloci, che passeggiano lungo le rive del Reno, della Mosa, della Vistola dopo avere attraversato frontiere di garitte vuote o bunker ormai coperti di edera. In un best seller del tempo, il Nobel per la pace sir Norman
Angell poteva scrivere nel 1910 che la devastazione del credito e della finanza
avrebbero impedito lo scoppio di una guerra o ne avrebbe reso brevissima la
durata, nella solita fiaba del “tutti a casa per Natale”. Ironicamente, il titolo del
suo saggio, La grande illusione, sarebbe divenuto un indimenticabile film contro la guerra. Ma Angell non avrebbe potuto immaginare che la rivoltella di un
allucinato nazionalista serbo-bosniaco, Gavrilo Princip, contro l’erede al trono degli Asburgo Francesco Ferdinando a Sarajevo avrebbe messo in moto «la
marcia dei sonnambuli» destinata a durare per l’intero «secolo breve», come lo
chiamò Eric Hobsbawm. La stampa Usa, di fronte al clamore suscitato da quell’assassinio, si concesse addirittura qualche ironia. L’Heralddi New York scrisse che «con tutti i duchi e gli arciduchi che hanno in Europa, uno in meno non
può fare grande differenza». Cento anni dopo, e ben più di cento milioni di morti direttamente o indirettamente attribuibili a quell’«arciduca in meno», storici della guerra come John Keegan si chiedono addirittura se non sia stata la farraginosità e la lentezza delle comunicazioni fra Cancellerie, non ancora adeguata alla velocità del telegrafo, dei telefoni già esistenti in cavi sottomarini, della neonata radio, a scatenare la reazione a catena.
Ma ciò su cui nessuno ha dubbi è il meccanismo di azioni e reazioni, catastrofi e vendette, conti di sangue lasciati in sospeso, che avrebbe prodotto la
Guerra dei Trent’anni europea, chiusa soltanto nel maggio di trentun anni dopo per poi congelare il continente nella glaciazione del conflitto ideologico fra
Est e Ovest. Tutto quello che sarebbe accaduto nella Seconda guerra, e nel lungo Dopoguerra che ancora tocca con le proprie dita gelide i rapporti fra Russia
e Occidente, ha le proprie radici in quelle giornate di agosto 1914. Le mostruose tecnologie di morte usate nella Seconda guerra hanno il Dna nella Prima, i
bombardamenti aerei, i tentativi di estendere la sofferenza alle popolazioni civili colpendo Parigi con supercannoni dalla gittata di 130 chilometri, i panzer,
i primi rudimentali missili usati per abbattere palloni aerostatici e dirigibili. E i
gas letali che dalle trincee sarebbero passati direttamente alle camere dello
sterminio nazista e, ancora oggi, sostanzialmente identici, ai massacri in Siria.
Molti, se non tutti, i protagonisti, della Seconda guerra, erano figli della Prima. Churchill, Lord dell’Ammiragliato fino al 1915; Gamelin, vincitore della prima battaglia della Marna nel 1914 e poi disastroso comandante supremo dell’Armée francese nel 1940; Hitler, reduce rancoroso e ferito nelle trincee del
fronte occidentale; Zhukov, il conquistatore di Berlino, decorato sui campi del
1915 contro le armate del Kaiser; Badoglio, vincitore del Sabotino e poi Capo di
Stato Maggiore per la sciagurata offensiva contro la Grecia del 1940. E naturalmente Mussolini, ferito sul Carso da una bomba durante un’esercitazione.
Insieme con il cumulo di macerie, cadaveri, di immensi danni economici che
dimezzarono le capacità industriali di nazioni come la Germania e divorarono
una generazione di giovani uomini che in Francia lasciarono, nel 1918, una proporzione di sei donne per quattro maschi e centinaia di migliaia di invalides,
l’eredità più sottilmente velenosa di quel 1914 fu quella che John Keegan definì
«la militarizzazione della politica». Nei totalitarismi prodotti dalla guerra, dove le ideologie e i partiti erano stati messi in divisa restò, e ancora sotto pelle sopravvive, «il morso dell’odio per il nemico e quel risentimento — scrive sempre
Keegan — che è sempre veloce nell’azzannare e lentissimo nel lasciare la preda». Dovette essere l’America, due volte strappata al sonno del suo isolazionismo, a impedire alla Terra Madre di precipitare in un abisso senza ritorno.
Oggi quel campo della morte che fu l’Europa è silenzioso. Ma la Signora di
Edgar Allan Poe, alta sulla propria gigantesca torre, osserva l’isola nel mare ai
suoi piedi e aspetta paziente.
IMMAGINI DA WWW.HISTOMIN.COM
FONTI: ONU- MILTON LEITENBERG, CORNELL UNIVERSITY (“DEATHS IN WARS AND CONFLICTS IN THE 20TH CENTURT”)- IRAQBODYCOUNT.ORG- PEACEREPORTER.NET- PEACELINK.IT/ELABORAZIONE “LA REPUBBLICA”/DISEGNI ANNALISA VARLOTTA
«D
1914
Granatiere (GB)
1930
Sciumbasci (Italia)
1936
Miliziano (Spagna)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
150 1945 - 1959
mila Guerra civile greca
6,2 1946 - 1950
milioni Guerra civile cinese
400 1946 - 1960
mila Guerra Colombia
1937
Ufficiale SS (Ger)
1940
Carabiniere (Italia)
1944
Fante (Usa)
la Repubblica
DOMENICA 12 GENNAIO 2014
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Da allora tutto è cambiato. I continenti coinvolti nei conflitti. Le armi. I modi di combattere. E di smettere
600 1946 - 1954
mila Guerra d’Indocina
Senza
guerra
né pace
1 1947 - 1948
milione Prima guerra indo-pakistana
15 1948
mila Guerra arabo-israeliana
4,5 1950 - 1953
milioni Guerra di Corea
1 1977 -1982
milione Guerra civile Mozambico
1,5 1978-1989
milioni Invasione sovietica in Afghanistan
70 1978-1990
mila Guerra civile Nicaragua
2 1983 -2005
milioni Guerra civile Sudan
LUCIO CARACCIOLO
1 1954 - 1962
milione Guerra d’indipendenza Algeria
16 1956
mila Guerra del Sinai
2,4 1960 - 1975
milioni Guerra del Vietnam
1 1962 - 1989
milione Guerra Etiopia - Eritrea
2 1967- 1970
milioni Guerra civile nigeriana
1,7 1967- 1978
milioni Guerra civile cambogiana
200
mila
1,5
milioni
1969- 1996
Guerra Guatemala
1971
Seconda guerra indo-pakistana
250 1971- 1978
mila Guerra civile ugandese
21 1973
mila Guerra del Kippur
150
mila
1,1
milioni
1975 -1990
Guerra civile libanese
1975 -2002
Guerre d’Angola
1960
Marine (Usa)
1981
Mujaheddin (Afgh)
1990-91
Marine (Usa)
1 1980 -1988
milione Guerra Iran-Iraq
ento anni fa scoppiava la «guerra per finire tutte le guerre»,
come la definì già nell’agosto 1914, in una fortunata serie di
articoli poi raccolti in libello, lo scrittore britannico Herbert
George Wells. Sentenza degna del padre fondatore della
fantascienza, resa poi celebre da un leader politico molto
immaginifico, il presidente americano Woodrow Wilson.
Da allora il mondo ha conosciuto centinaia di conflitti, di cui almeno
una cinquantina ad alta o media intensità, che hanno falciato almeno centotrenta milioni di vite umane, oltre la metà delle quali nelle due guerre
mondiali (quindici nella Prima, sessanta nella Seconda). Attualmente sono in corso una decina di conflitti che producono più di un migliaio di
morti all’anno. Il più tragico è quello di Siria: oltre centotrentamila morti.
La tendenza umana ad annientarsi reciprocamente per quote di potere,
territorio e ricchezza — e per qualcosa che usiamo chiamare “onore” —
visibile fin dall’alba della storia, ha avuto ragione dell’ottimismo di Wells.
Ma come è cambiata la guerra, dalla Grande Guerra a oggi? Molto, anche se meno di quanto correntemente si pensi. I principali mutamenti sono di tre ordini: riguardano gli attori, e quindi le vittime; le tecnologie belliche; la relazione con la politica.
Fino alla Prima guerra mondiale (inclusa), i conflitti moderni erano
condotti essenzialmente da e fra soldati, in spazi limitati. Militare era per
conseguenza la maggior parte dei caduti. Già nella Seconda guerra mondiale il numero dei morti civili eccede quello dei militari. Non solo perché
i combattimenti escono dalle trincee e dai campi di battaglia per dilatarsi
spesso nel cuore dei centri abitati, ma anche per le nuove tecnologie, a cominciare da esplosivi sempre più potenti e impiegabili a vasto raggio. La
guerra area, in particolare i bombardamenti terroristici contro la popolazione civile — che i britannici identificano con Coventry (e Londra), i tedeschi con Dresda, i giapponesi con le bombe convenzionali su Tokyo e le
atomiche su Hiroshima e Nagasaki — segna una svolta sia nelle dottrine
militari (ricordiamo il nostro Giulio Douhet, che nel 1921 pubblica il suo
Dominio dell’aria) che nella percezione delle opinioni pubbliche. Al punto che “solo” tremila morti civili — non le centinaia di migliaia dei bombardamenti a tappeto della Seconda guerra mondiale — in un attacco aereo non convenzionale contro le Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001, marcano un tornante storico.
Una nuova frontiera tecnologica è offerta dalla guerra cibernetica (cyberwarfare), che viene incontro a una necessità assai sentita nelle società
occidentali o comunque benestanti: ridurre la visibilità del conflitto e limitare al massimo le perdite. Almeno le proprie, specie se civili. Ma proprio tali caratteristiche ci rendono più vulnerabili al terrorismo, agli attacchi “asimmetrici”, in cui il duellante più debole sfrutta a proprio vantaggio la strapotenza del più forte.
La scarsa disponibilità occidentale a morire per la patria e a impegnarsi in guerre massicce e prolungate, accentuata dall’«inutile strage» del
1914-18, ha indotto alcuni studiosi a dichiarare la morte della guerra, almeno nel senso tradizionale del termine. I conflitti nei quali sono impegnate le Forze armate dei paesi Nato (esemplare il caso afgano) non vengono ufficialmente definiti tali, ma declassati a “operazioni di pace” per
non turbare le troppo sensibili opinioni pubbliche e forse anche le coscienze di alcuni decisori che hanno bisogno di credere alla propria propaganda.
Se fino a metà del secolo scorso le guerre potevano essere rappresentate come esplosioni di violenza delimitate nello spazio e nel tempo, i conflitti attuali sarebbero leggibili come un continuum: una costante tensione latente che ha i suoi picchi e le sue pause, non più un inizio e una fine
(si pensi ai Balcani, da Sarajevo a Sarajevo, e oltre). Così a morire non è tanto la guerra quanto la pace.
Di sicuro è in crisi, se non defunto, il paradigma classico che vuole la
guerra continuazione della politica con altri mezzi. L’impiego della forza
è spesso astrategico, nel senso che non persegue un fine politico determinato. O quanto meno, gli obiettivi sono alquanto fungibili e mutevoli, soprattutto in conseguenza degli umori delle opinioni pubbliche domestiche e internazionali.
Lasciamo stare i Balcani o l’Afghanistan: qualcuno è in grado di spiegare in una frase l’obiettivo della guerra americana al terrorismo, dopo l’11
settembre? Certamente non seppe farlo George W. Bush — si contano una
trentina di sue spiegazioni, spesso contraddittorie — mentre l’attuale presidente Barack Obama ha preferito rinunciare a chiamarla per nome, per
proseguirla in modo meno visibile (cibernetica, droni, operazioni coperte) ma non meno letale.
In ogni guerra, specie in quelle a noi contemporanee, riposa dunque
una componente irrazionale, che spin doctor, accademici e strateghi militari — talvolta la stessa persona con tre cappelli — cercano di ridurre ad
algoritmo. A questa costante non si può sfuggire. La guerra è anzitutto e
sempre avventura, sanguinosa e paradossalmente fascinosa. Poiché lo
spirito d’avventura appare troppo umano per essere debellato, la profezia di Wells dovrà sopportare, per il tempo prevedibile, le dure repliche
della Storia.
C
© RIPRODUZIONE RISERVATA
150 1989 -1997
mila Guerra in Liberia
100 1990 -1991
1,5 1990 -1995
mila Guerra Golfo
milioni Guerra civile Ruanda
300 1991 - 2001
mila Guerra nell’ex Jugoslavia
150 1991 - 2002
mila Guerra Sierra Leone
150 1991 - 2002
mila Guerra civile algerina
200 1991 - 2009
mila Guerra civile somala
800 1993 - 2000
mila Guerra civile in Burundi
200 1994 - 2009
mila Prima e seconda guerra cecena
6 1998 - 2003
milioni Seconda guerra del Congo
30 2001 - IN CORSO
mila Invasione dell’Afghanistan
150
mila
30
mila
2003
Invasione dell’Iraq
2011
Guerra civile in Libia
130 2011 - IN CORSO
mila Guerra civile siriana
TOTALE
129.858.100
1995-96
2002
Casco blu (Nato) Cavalleggere (Usa)
2003
Paracadutista (Usa)
la Repubblica
DOMENICA 12 GENNAIO 2014
■ 38
LA DOMENICA
L’attualità
Sudate carte
Il giro del mondo
in
biblioteca
Alexandrina, Egitto
C
Nazionale, Buenos Aires
Tempio del sapere in età ellenistica,
fu ricostruita nel 2002. Sulla facciata
ideogrammi in tutte le lingue
Libri rari e manoscritti, tra cui
una Bibbia di Gutenberg. Fa parte
dell’Università, ma è aperta a tutti
TU Delft Library, Olanda
Beinecke Library,Yale
Morgan Library, New York
Diretta per vent’anni da Borges,
ospita 5 milioni di volumi. Sorge
dove c’era la dimora di Juan Peròn
Fondata a inizio Novecento, ora
è stata ampliata da Renzo Piano
Ha anche oggetti d’arte e spartiti
po sono state devastate le biblioteche
dell’Iraq “liberato” dagli americani.
Per paradosso il tiranno Saddam Hussein, con un gesto politico e non certo
culturale, aveva staccato un assegno
da ventun milioni di dollari (uno in più
del principe degli Emirati Arabi, Feisal) per finanziare la costruzione della
nuova biblioteca di Alessandria.
Confesso che frequento malvolentieri le biblioteche immense, anche se
non manco mai di visitarle, magari solo per dare un’occhiata ai cataloghi. A
Buenos Aires, per esempio, è inevitabile fare un salto alla Biblioteca Nazionale per rendere omaggio a Borges che
ne fu il direttore. E Borges ci autorizza
a dire che, dopotutto, anche le biblioteche immaginarie hanno una loro
esistenza e una loro capacità di accogliere il lettore (sempre di lettore si
tratta). Borges, con la sua biblioteca di
Babele che poi è l’Universo, si qualifica subito come un estremista del libro.
Elias Canetti destina al fuoco la biblioteca del sinologo dottor Kean, protagonista del romanzo Autodafè. Abbiamo assistito al suo ampliamento, visto
che Kean ha eliminato le finestre per
poter aumentare i suoi scaffali. Ma ha
anche sposato, nel corso del romanzo,
una incredibile tiranna popolana
In vetro e acciaio, con il tetto che fa
da giardino: ha un media center,
l’area bambini, uno spazio per l’arte
ignorantissima che se ne infischia dei
suoi libri e del sapere e che lo ridurrà allo stremo. La cultura combatte con la
barbarie, è un topos. Un’altra biblioteca immaginaria che ormai è divenuta
leggenda è quella descritta da Eco ne Il
nome della rosa anche se qualcuno gli
ha rimproverato di aver messo troppi
volumi in una biblioteca medievale:
ottantasettemila, mentre nel Trecento
le biblioteche si potevano al più permettere venti codici e trecento manoscritti, come racconta Lucien X. Polastron nel suo Libri al rogo. Già, anche
Eco fa bruciare la sua biblioteca.
Il nome della rosa, come si sa, ruota
intorno a un’opera perduta di Aristotele. Non è facile che in una biblioteca
si trovi un’opera perduta di un grande
autore, ma non è nemmeno da escludere a priori. Chi frequenta una grande biblioteca non sa mai quali libri può
trovare, mentre è escluso che possa fare scoperte sorprendenti nella propria
biblioteca, dove tutto gli è noto. Così
per esempio ragionava un grande studioso, Carlo Dionisotti, per lunghi anni insegnante di letteratura italiana a
Londra e frequentatore della British
Library.
In Italia abbiamo la fortuna di poter
entrare in molte biblioteche più o me-
Nazionale, Parigi
hissà se nella biblioteca
di Alessandria d’Egitto
hanno finalmente risolto il problema acustico
dovuto alle gambe delle
sedie spostate dai lettori.
Lettori che hanno a disposizione una
sala immensa e molto ben illuminata,
ma un numero di libri ancora limitato
e con qualche esclusione “mirata”.
Non ci sono, per esempio, I versi satanici di Salman Rushdie, che però, assicura la direzione, si possono leggere in
traduzione, così come mancano altri
libri sospetti di poca correttezza verso
l’Islam. Fu costruita sul finire del secolo scorso, non senza qualche polemica
perché le ruspe avrebbero sacrificato
reperti della biblioteca antica: quella
che secondo una vulgata Cesare
avrebbe fatto bruciare con suprema
indifferenza. Luciano Canfora attribuisce invece l’incendio al Califfo
Omar nell’anno del Signore 640. La Biblioteca di Alessandria è nell’immaginario di molti la biblioteca per antonomasia, anche se nessuno ovviamente
ha mai visto la biblioteca antica e quella nuova è bellissima ma nuova, appunto, e potrebbe essere dovunque
nel mondo. Così la nuova Bibliothèque National di Parigi, intitolata a Mitterrand, criticatissima perché d’inverno si scivola su certe pendenze dell’entrata, non ha certo il fascino della
Richelieu, antica sede ora in via di ristrutturazione, dove si conservano
preziosi fondi antichi, documenti rari
e molte carte di scrittori (tra le ultime
acquisizioni ci sono anche quelle di
Tabucchi). Quando la Biblioteca Nazionale di Roma era ospitata nei palazzi del Collegio Romano, frequentarla
aveva un sapore ben diverso dal mettere piede nei saloni lucidi della nuova
sede costruita in mezzo alle caserme di
Castro Pretorio, ma — e lo sa chiunque
abbia in casa anche una modesta biblioteca personale — gestire e aggiornare un patrimonio librario non è facile. E certo non è facile il compito delle
biblioteche nazionali che devono per
legge possedere e schedare ogni libro
pubblicato, a costo di scoppiare e di essere costantemente in emergenza.
Comunque, Alessandria docet, c’è
sempre qualcuno in qualche parte del
mondo, che vuole incendiare i libri nemici e non è affatto vero che i roghi siano finiti con quelli dei nazisti. Nel 1992
i serbi hanno incendiato la biblioteca
di Sarajevo e all’incirca dieci anni do-
Abbazia di Admont, Austria
PAOLO MAURI
Gioiello barocco, è la biblioteca
monastica più grande del mondo:
chiamata “l’ottava meraviglia”
Con una collezione di 30 milioni
di volumi, da qualche anno
sta digitalizzando tutti i suoi fondi
la Repubblica
DOMENICA 12 GENNAIO 2014
■ 39
ABBAZIA DI STRAHOV
Nelle sale barocche della biblioteca di Praga
sono custoditi 200mila volumi e mille esemplari
della Bibbia. Alcune foto di queste pagine
sono tratte da The library. A World History
(James Campbell e Will Pryce, Thames & Hudson)
Ce ne sono d’immense
e di piccole, di reali e d’ immaginarie
Mentre la sfida dell’online avanza,
le più belle, ricche e innovative,
sono state catalogate in un volume. Vi abbiamo
Intitolata ai fratelli Grimm,
cofondatori della filologia tedesca
Arriva a seimila utenti al giorno
ra le biblioteche che hanno fatto la storia della nostra letteratura e del paese, due vanno citate sopra
le altre. La prima è quella organizzata dal conte
Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, nel palazzo avito
a Recanati. In quella biblioteca, ricca di molte migliaia di
volumi, il giovane genio passò gran parte della sua giovinezza in uno studio da lui stesso definito «matto e disperatissimo» che ne fece uno degli uomini più colti del suo
tempo: il maggior poeta italiano dell’Ottocento ma anche un notevole pensatore e filosofo. Giacomo soleva dire che «il leggere è un conversare che si fa con chi scrisse». Frase che lo lega a un altro grande genio vissuto tre
secoli prima, Niccolò Machiavelli.
Dell’inventore della scienza politica va ricordata la celeberrima lettera da lui scritta nel dicembre 1513 all’amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso
il papa a Roma. In quel periodo Machiavelli scontava il
suo esilio in una sua casa di campagna (l’Albergaccio).
Occupazioni e passatempi rustici per gran parte della
giornata, poi però: «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed
entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella
veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è
mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono [ecco Leopardi!]; e non sento per quattro hore di tempo alcuna
noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non
mi sbigottisce la morte».
È probabilmente la dedica più partecipata, più commovente che mai sia stata fatta a una biblioteca.
T
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ospita pure ossa di animali e 35mila
carapaci di tartaruga. I suoi volumi
coprono 2000 anni di storia cinese
Haeinsa, Corea del Sud
CORRADO AUGIAS
È un tempio che ospita le Tripitaka
Koreana, cioè le 81.258 tavolette
in legno con le Scritture buddiste
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Marciana, Venezia
Da Recanati
all’Albergaccio
Quando tutto sarà digitalizzato e
tutte le biblioteche saranno raggiungibili con il computer rischieremo di
perdere lo spettacolo dei libri e delle
cattedrali che li contengono? Mi auguro di no: per secoli i libri di carta ci
hanno fatto una compagnia straordinaria. E poi la “birbioteca”, come la
chiamava maliziosamente il Belli, è
un luogo e non deve diventare un non
luogo. Quando a marzo riaprirà al
pubblico dopo la pausa invernale ci
sarà una ragione in più per visitare il
castello di Masino, nel Canavese, già
della nobile famiglia Valperga e da oltre vent’anni proprietà del Fai che lo
ha ristrutturato in modo mirabile. E la
ragione sarà proprio la grande e antica biblioteca che il Castello contiene e
che ora è stata riordinata e schedata. Il
primo volume del catalogo è appena
stato pubblicato da Interlinea, con
magnifiche fotografie, a cura di Lucetta Levi Momigliano e Laura Tos. In
quelle sale, amico dell’eruditissimo
Tommaso Valperga di Caluso, che era
il padrone di casa, circolava l’inquieto
Alfieri. E le sue opere in varie edizioni
sono ben presenti nella biblioteca del
castello.
Birmingham
Grimm Centre, Berlino
no rimaste come erano quando furono fondate ed è un vero piacere per gli
occhi muoversi, per esempio, nella
grandiosa sala della seicentesca Biblioteca Angelica di Roma che ha un
notevole patrimonio librario proveniente dai lasciti di vari cardinali e anche, dal 1940, il fondo librario dell’Arcadia di cui ora è praticamente la sede.
L’Angelica fu una delle prime biblioteche a essere aperte al pubblico, così
come la quasi coeva Biblioteca Ambrosiana fondata a Milano dal cardinal Borromeo, proprio quello citato
dal Manzoni come un sant’uomo,
mentre un recente studio di Edgardo
Franzosini (Adelphi) racconta che
proprio santo non era. Comunque la
Biblioteca è lì e accanto c’è la Pinacoteca, sempre voluta dal Borromeo, dove si può ammirare tra l’altro (e l’altro
è moltissimo) il famoso Cesto di frutta
del Caravaggio. A Ventimiglia ho avuto modo di frequentare anni fa la Biblioteca Aprosiana, fondata appunto
da Angelico Aprosio (siamo sempre
nel Seicento) che oltre a sbrigare oggi
l’ufficio di biblioteca pubblica, conserva anche un buon fondo antico, in
gran parte dovuto al fondatore. Ci lavorò per qualche tempo lo scrittore
Francesco Biamonti.
Nazionale, Pechino
aggiunto qualche consiglio: ad Alessandria d’Egitto ci sono
un po’ troppi “buchi”, alla Mitterrand di Parigi meglio non andarci d’inverno...
Inaugurata nel 2013 da Malala,
con i suoi 35mila metri quadrati
è la più grande d’Europa
È una delle biblioteche nazionali,
ricca di volumi appartenenti
alla cultura greca e orientale
la Repubblica
DOMENICA 12 GENNAIO 2014
■ 40
LA DOMENICA
Le storie
Stanze segrete
Le docce bollenti di Woody Allen, il caffè di Kierkegaard,
il buio di Franzen, i sigari di Thomas Mann, le frittelle
della Highsmith, l’isolamento di Mahler e Murakami
Un libro svela routine, manie e idiosincrasie
di scrittori, pittori, registi e filosofi:
scoprendoli più abitudinari di un impiegato
Capolavori in corso
c’è del metodo
in quella follia
SIMONETTA FIORI
enioe sregolatezza? Niente
di più sbagliato. Il cliché romantico dell’artista incline
all’accensione creativa solo nel caos è destinato a essere smentito da un libretto uscito in Gran Bretagna. Si intitola Daily
Rituals (Picador), ma avrebbe dovuto
chiamarsi Routines. Se c’è un tratto che accomuna i grandi talenti degli ultimi secoli
— pittori, musicisti, romanzieri, registi, architetti, critici, filosofi e psicoanalisti —
questo è proprio la ripetitività dei gesti
quotidiani, l’alzataccia al mattino, la colazione sobria, le ore passate al tavolino, la vita sociale sapientemente calibrata. Lavoro, e poi lavoro, e ancora lavoro.
Il genio nasce da qui, da una regolatezza
che sconfina nell’ossessione, da una scorbutica ostinazione nel rispetto di orari e
programmi di lavoro. Con qualche eccentricità, naturalmente. Se Stravinskij riposa
la mente facendo una verticale, Beethoven
non disdegna abluzioni gelide. Così
Kierkegaard riesce a meditare sull’angoscia solo con una tazzina di caffè. E la testa
di Benjamin Franklin funziona meglio dopo un «bagno d’aria», nella sua camera da
letto: seduto a scrivere o a leggere, completamente nudo. Sì, stravaganze, piccoli slittamenti rispetto all’ordinarietà di vite regolate solo dalle esigenze della produzione
intellettuale. «Dopotutto lavorare», commenta Flaubert, altro celebre secchione «è
il modo migliore per ripararsi dalla vita».
L’idea di Daily Rituals è venuta a Mason
Currey, un newyorchese sveglio con problemi di concentrazione sul lavoro. Grazie
a una sterminata documentazione raccolta in rete e in svariate biblioteche, è entrato
nello studio di oltre centocinquanta geni.
La morale? Non c’è. Se non che abitudine e
creatività non sono affatto incompatibili,
anzi è vero il contrario. L’autodisciplina ti
protegge dagli agguati dell’umore. In qualche caso dalla depressione. L’incompatibilità è semmai con una normale vita sentimentale. Spesso infatti la monomaniacalità comporta solitudine, autismo del cuore. «Mi sento come un medico al pronto
soccorso», dice Philip Roth, felice di vivere
senza una moglie. «Con una differenza: sono io stesso l’emergenza di cui mi prendo
cura». Quasi una conferma della saggia regola secondo cui i geni è meglio ammirarli
nelle opere. Rigorosamente a distanza.
G
la Repubblica
DOMENICA 12 GENNAIO 2014
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Woody Allen
Simone de Beauvoir
Carl Jung
Alice Munro
ha sperimentato nel
corso degli anni: anche
i piccoli spostamenti
provocano una ventata di
energia mentale. Cambiare
stanza, uscire per strada, affacciarsi in terrazza. Ma niente è più prezioso di una doccia
bollente. I suoi film sono nati
sotto uno scroscio d’acqua.
n’esistenza ridotta all’essenziale, un po’
noiosa. Mattina: colazione, lavoro, pranzo con Sartre. Pomeriggio: lavoro e cena
con Sartre, con riepilogo delle
cose scritte e pensate in giornata. Il ritratto un po’ caricaturale arriva dal regista Claude
Lanzmann, che fu per sette anni il suo
amante. Forse non le ha mai perdonato
l’ossessiva presenza del rivale. O quel comando imperioso con cui Simone, il primo
mattino della loro convivenza, divise i rispettivi pensatoi: «Tu lavori a letto, io al mio
tavolo». Poi non una parola fino al pranzo,
naturalmente condiviso con Jean-Paul.
Qualche volta Claude si univa a loro.
egli anni Trenta, nel
pieno di un’attività frenetica tra pazienti e seminari, trovava riparo in una
torre di pietra a Bollingen, vicino al Lago di Zurigo. Niente luce né telefono, uno stile di vita
molto primitivo. L’unico bagliore artificiale proveniva dalle lampade a olio, in una gran confusione
di pentole, casseruole e salami. Qui scrisse
alcuni suoi lavori importanti. «A Bollingen
ero finalmente me stesso. Vivevo senza
elettricità e curavo la cucina da solo. Questi gesti semplici mi rendevano semplice. E
come è difficile essere semplici!».
etteratura e fatiche domestiche non vanno
d’accordo. Negli anni
Cinquanta, dovendosi dividere tra i lavori di casa e la cura
delle figlie, l’ultimo premio
Nobel riusciva a scrivere solo
nei ritagli di tempo, spesso il
pomeriggio in camera da letto. Poi prese in affitto anche un piccolo ufficio sopra la drogheria. Ma il logorroico
proprietario le impediva di concentrarsi.
La danza delle ombre felicisarebbe arrivato molti anni dopo.
L’
***
Martin Amis
differenza del padre
Kingsley, davanti alla
pagina bianca non è
mosso da sentimento di terrore. «La gente crede che appartenga al genere dello sgobbone. In realtà lavoro sì ogni giorno, ma soltanto poche ore. E
se riesco a scrivere dalle undici all’una, mi posso ritenere soddisfatto».
A
***
Wystan Hugh Auden
a routine, in un uomo intelligente, è
segno di ambizione», scrisse nel 1958. Sveglia
all’alba, caffè, un rapido passaggio sulle parole crociate, e
poi avanti con il lavoro fino alle 11,30 sulle ali di una mente
fulgida. Di notte, mai. «Perché
solo gli Hitler della terra lavorano di notte». Tutto perfetto? Anche la normalità ha
i suoi lati oscuri, considerando la dose
quotidiana di anfetamine che Auden doveva ingoiare per mantenersi in forma.
Routiniero anche nella “vita chimica”.
U
***
Umberto Eco
tra i pochi che non segue
una regola precisa, lavorando praticamente
ogni momento. «Ma quando
nuoto mi vengono le idee migliori. Soprattutto in mare».
È
«L
***
Jane Austen
ra capace di scrivere
ovunque, nella casa di
Chawton. Anche nel salotto, in compagnia della madre e delle sorelle, mai urtata
dalle loro chiacchiere. Non
ebbe mai una stanza tutta per
sé, ma questo non le impedì di
portare a termine capolavori
come Orgoglio e Pregiudizio ed Emma.
L’unica condizione richiesta è che non la
coinvolgessero nelle cose di casa. «Mi è
impossibile lavorare con la testa piena di
carne di montone & dosi di rabarbaro».
E
***
Francis Bacon
il classico esempio del
bohémien disciplinato,
in altre parole un ossimoro vivente. Disordinatissimo — basti guardare il suo
atelier londinese. Dedito a
ogni genere di eccessi. Ma nella pittura non perde un colpo.
Sveglia alle prime luci del giorno e intenso lavoro fino a mezzogiorno. E
i postumi della sbornia? «Mi piace dipingere anche dopo una sbronza. La mia
mente crepita con energia e il pensiero si
rischiara».
È
***
Jonathan Franzen
a sua officina di lavoro
assomiglia a una trincea. Non fu facile agli
inizi, quando neosposo andò
a vivere con la giovane moglie
in un piccolissimo appartamento fuori Boston, faticosamente diviso tra le ambizioni
letterarie di entrambi. Lui ebbe successo, lei no. E il matrimonio ebbe
fine. Ma neppure dopo la grande fama il
lavoro sarebbe stato semplice. Per scrivere Correzioni, dovette chiudersi nello studio di Harlem, con le imposte tirate e le luci spente. L’unica cosa accesa era lo
schermo del computer. Gli ci vollero
quattro anni e migliaia di pagine scartate
per portare a termine il libro. «Mi sono detestato tutto il tempo».
L
***
Sigmund Freud
a sua devozione alla psicoanalisi fu favorita dall’accudente moglie
Martha, che provvedeva a ogni
cosa, dalla scelta degli abiti al
dentifricio spalmato sullo
spazzolino. La celebre barba
veniva rifinita ogni mattina da
un solerte barbiere chiamato a
casa. Alle otto l’inizio delle sedute analitiche, che si chiudevano a mezzogiorno. Il
pasto principale veniva servito all’una, ma
Freud non aveva gusti da grand gourmet,
inclinando ai piatti della classe media come il bollito o il roast-beef. Mangiava con
quieta concentrazione. Talvolta era talmente assorto nei suoi pensieri da risultare imbarazzante per gli ospiti. Poi usciva a
spasso per Vienna, attraversando la Ringstrasse «con una velocità di marcia stupefacente», come annotò il figlio Martin.
Chissà quante nevrosi da smaltire.
L
N
***
Gustav Mahler
e sinfonie ne restituiscono una vita interiore
fiammeggiante, ma le
sue abitudini nella villa sul lago
a Maiernigg, in Carinzia, erano
piuttosto noiose. Una vita
«quasi disumana nella sua purezza», annotò la giovane e infelice moglie Alma. Sveglio all’alba, prima di comporre non sopportava
la vista di umani. Così il povero cuoco, per
portargli nel bosco la colazione senza essere visto, doveva imboccare sentieri scoscesi e solitari. E la moglie, per convincere i vicini a tenere i cani con la museruola, distribuiva per l’Opera biglietti gratis. Si può capire perché Alma perse la testa per Walter
Gropius. Dolente e stupefatto, Mahler finì
a consulto con Freud, che avrebbe poi
commentato: «Era come scavare con un
bastoncino in un edificio misterioso».
L
***
Thomas Mann
n altro campione di
routine, temuto e rispettato dai suoi cari.
Dalle nove fino a mezzogiorno, lo studio era considerato
un bunker inviolabile. Ai
bambini era proibito far rumore. A mente ancora fresca,
il grande romanziere si sforzava di buttare giù i suoi appunti, in una pianificazione meticolosa del lavoro. Tutto
quello che non arrivava entro le dodici doveva essere rimandato al giorno successivo, perché il pomeriggio era dedicato ad
attività meno impegnative. Anche il vizio
del fumo era pignolescamente amministrato: non più di due sigari al giorno, e al
massimo sette sigarette.
U
***
Joan Miró
er lui una rigorosa routine significava un argine
alla depressione, a quella vena malinconica che l’aveva afflitto da giovane, prima di
scoprire i colori. Ma ai pennelli associava una vigorosa cura
del fisico. A Parigi tirava di
boxe, a Barcellona saltava con
la corda e a Mont-roig alternava nuoto e
corse sulla spiaggia. Detestava la vita
mondana. «Merda! Odio le feste. Sono fiere mercantili. E la gente parla troppo».
P
***
***
***
Patricia Highsmith
Toni Morrison
on c’è vita al di
fuori del lavoro,
che è poi scavare
nell’immaginazione». Eccoci
davanti a un’altra workaholic,
solitaria e misantropa come
molti dei suoi personaggi.
Nella scrittura procede come
un panzer: non meno di quattro ore al giorno, e almeno duemila parole. Sdraiata a letto, in compagnia di Gauloises, portacenere, cerini, caffè caldo e
frittelle dolci. Qualche volta ci scappa anche un drink robusto, «per arginare i soprassalti di energia».
on ha mai scritto in
modo regolare, ma
l’avrebbe tanto desiderato. «Ho sempre avuto
un lavoro dalle nove alle cinque. E potevo dedicarmi alla scrittura solo all’alba o nei
weeek end». Oltre a essere
stata impegnata per
vent’anni alla Random House, Toni è stata una single mother. «Quando mi siedo a
scrivere, non ho ripensamenti. Ho talmente tante altre cose da fare, che rimuginare è un lusso che non mi posso permettere».
Saul Bellow
«Q
ualcuno mi ha definito un burocrate della letteratura, per la mia autodisciplina
giudicata eccessiva». La scrittura era la sua vita. «Mi sveglio
presto al mattino e lavoro tutto il giorno. Leggo di notte. Come Abe Lincoln».
***
«N
***
N
***
L
***
Haruki Murakami
Q
uando lavora ai suoi romanzi, si sveglia alle
quattro e va a dormire
non più tardi delle nove. Un’agenda ripetuta senza varianti.
«Solo così riesco a raggiungere
un più profondo stato mentale», ha dichiarato alla Paris Review. Mens sana in corpore sano. Per questo Murakami ha cambiato stile di vita: se prima era sedentario, dunque
incline a pinguedine, ora vive in campagna, corre ogni giorno e ha smesso di fumare (la sua dose era di tre pacchetti al giorno). Non ha vita sociale. «Le mie uniche relazioni sono con i lettori».
***
Oliver Sacks
outiniero anche il celebre neurologo, ma come può esserlo un tipo
come lui. In una giornata regolare, che comincia alle cinque del mattino e prosegue
con una nuotata e due volte alla settimana con la visita dall’analista, è il pomeriggio che
può accadere qualcosa d’imprevisto: un
abbandono totale alla fantasia, pensieri e
immagini che sfrecciano ovunque. «Se
sono fortunato esco fuori da questo stato
di alterazione con un’energia rinnovata e
la mente limpida». Può anche capitare
che Oliver parta per un viaggio creativo,
fuori da ogni regola. «Posso scrivere anche
trentasei ore di seguito, finché l’ispirazione non si esaurisce».
R
***
Voltaire
oprattutto negli ultimi
anni della sua vita, gli
piaceva lavorare a letto.
Sistemato tra comodi cuscini,
leggeva e dettava i suoi appunti a una delle segretarie. La sera, verso le otto, raggiungeva la
nipote rimasta vedova, Madame Denis, per lungo tempo
sua amante, ma la giornata di studio continuava dopo cena. Secondo Jean-Louis
Wagnière, il prediletto tra i segretari, poteva lavorare anche venti ore al giorno. Per
Voltaire, una vita perfetta.
S
***
Frank Lloyd Wright
on fu mai visto seduto al
tavolo da disegno. Un
po’ perché lavorava tra
le 4 e le 7 del mattino; un po’
perché non buttava giù il progetto finché non lo maturava
interamente nella sua testa.
Per Falling Water, la casa sulla
cascata, una delle più famose
del Ventesimo secolo, cominciò a disegnare solo quando il committente telefonò per
dirgli che tempo due ore sarebbe arrivato
per la firma del contratto. Anche in questi
frangenti, non appariva mai affannato.
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la Repubblica
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LA DOMENICA
Spettacoli
l’Oscar a una carriera straordinaria mantiene
il profilo più basso possibile:“Non posso andare
a ritirare il premio: sono occasioni in cui tocca
commuoversi e a me scapperebbe da ridere”
FOTO © LAURA SCIACOVELLI
Taglia & cuci
Per cinquant’anni ha vestito il grande
cinema italiano. E ora che sta per ricevere
MARIA PIA FUSCO
U
ROMA
n piccolo soggiorno, due
poltroncine, un tavolinetto
d’appoggio, una libreria,
una decina di ritratti disegnati alle pareti, una finestra sul Tevere. È
qui che vive Piero Tosi, una casa semplice
nel centro di Roma, vicino piazza Navona.
Niente ricorda la sua magnifica carriera, il
maestro che del costume ha fatto un’arte,
che per cinquant’anni ha vestito il teatro e
il cinema italiano più bello. Quello di Visconti, Pasolini, Monicelli, Bolognini, De
Sica, Cavani, Zeffirelli. «Non c’è spazio, sono due camere e cucina, c’era roba ovunque, neanche un posto per sedermi. Mi sono liberato di tutto, il materiale fotografico
è al Centro Sperimentale e il resto al Fondo
Gramsci. Io non ho più bisogno di niente»,
dice sbrigativo, senza amarezza.
Nessun rimpianto. L’ultimo film nel ’93,
Storia di una capinera di Zeffirelli con cui
dieci anni prima aveva curato i costumi di
La Traviata, e poi una consulenza a Gianni
Amelio per Le chiavi di casa. «Intorno mi
sono spariti tutti, i miei registi, i miei amici,
De Sica, Visconti, Fellini, Antonioni. Non ci
sono più Bolognini e Tirelli, con loro ho diviso la casa quando sono venuto a Roma. È
scomparso un mondo che era il mio, gli anni Cinquanta, vitali, rampanti, effervescenti. Ognuno ha il suo tempo, è finito il
tempo del twist, l’ultimo ballo che ho ballato. E il cinema come lo facevo io oggi è démodé». Sarà fuori moda ma ha lasciato il segno se i membri dell’Academy, dopo cin-
que candidature mancate, a marzo gli daranno l’Oscar alla carriera, insieme ad Angela Lansbury, Steve Martin e Angelina Jolie. Lui non ci sarà. «Detesto l’aereo, diventi un pacco. E mi guardi, sono una gelatina
acciaccata. E poi: gente che piange, collassa, ringrazia madri, mogli, suocere, figli,
parenti lontani. Non potrei, mi verrebbe
troppo da ridere: sono un toscano. Ma sarebbe una bugia se dicessi che non mi fa
piacere, è un riconoscimento talmente clamoroso, un segno di stima da parte di colleghi bravi, anche più bravi di me».
Tosi è toscano di Sesto Fiorentino, nato
il 10 aprile 1927. I segni del tempo ci sono,
cammina a fatica, accudito da un paio di
giovani che si alternano, occhiali scuri
proteggono gli occhi indeboliti, ha bisogno di pause per riprendere fiato, ma i lineamenti del volto incorniciato d’argento
restano nobili, belli, la memoria è lucida,
la mente brillante. E se ha bisogno di energia la recupera miracolosamente, lo sanno bene gli allievi del Centro Sperimentale dove insegna. «Mi piace il contatto con i
giovani, a volte li sgrido, voglio che imparino a curare i dettagli, sono essenziali.
Però mi vogliono bene. Del resto un vecchio muore di noia se non fa niente». La
noia la sconfigge anche continuando a
frequentare la gloriosa Sartoria Tirelli. È lì
che i suoi disegni sono diventati abiti, costumi, ornamenti.
Aspirante pittore, allievo di Ottone Rosai, cerca le radici della passione per lo spettacolo ripensando a quand’era bambino:
«Il cinema era un lusso proibito. Durante la
guerra fummo sfollati in campagna, prendevo il tram per andare a scuola a Firenze.
Nel tratto a piedi che facevo al ritorno da
scuola un giorno vidi per terra una striscetta lucida. La raccolsi, era un frammento di
pellicola e guardandola attraverso la luce ci
vidi ombre strane, misteriose, qualcosa di
magico. Solo dopo ho ricostruito: qualche
mese prima avevano girato in quella zona
un film con Miriam di San Servolo. Quel
frammento mi ossessionò a lungo».
La passione vera scoppierà poi a Roma,
nel Dopoguerra. «Eravamo avidi di cinema, frequentavo i cineclub, ho visto tutto il
possibile». Bellissimafu il suo primo film, la
sua prima volta con Visconti. «Era un uomo
che esigeva il massimo dai suoi collaboratori, e che non risparmiava rimbrotti agli
attori che pure adorava. Ma si metteva in
lizza anche lui, e dava grande sicurezza a
tutti perché sapeva con chiarezza quello
che voleva». Il primo giorno sul set Tosi vide Anna Magnani con un vestito che non gli
piaceva, troppo stirato. «Entrai in un palazzo e cominciai a bussare alle porte chiedendo alle donne una vestaglietta, un vestito qualunque, un abito che avesse una
vita addosso. “È per Anna Magnani!”, dicevo, e tutti erano felici di collaborare».
Tutt’altra cosa l’impegno per Il Gattopardo. «Ero aiutato da attori straordinari, Delon indossava il costume e subito era il personaggio, Burt Lancaster diventava il Principe perché imitava Visconti, modello perfetto. E non poteva esserci Angelica migliore di Claudia Cardinale. Per lei lavorai su diversi costumi: uno azzurrino, uno era il
risultato di una stratificazione di colori che
dava un color medusa, il bianco per il ballo,
con garza di Dior per l’effetto trasparente e
luccichio dorato. Le decorazioni di organza e nastri sulla gonna e la scollatura le trovai, autentiche, al mercato delle pulci di Parigi». Con Visconti Tosi ha reso indimenticabile la contessa interpretata da Alida Valli in Senso, ha studiato il re e i nobili della Baviera in Ludwig, ha vestito i personaggi di
Morte a Venezia e, in teatro, ha firmato le
scene e i costumi di un insuperabile Macbeth, diretto da Thomas Schippers. Non
la Repubblica
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MORTE A VENEZIA
Ancora costumista per Luchino Visconti in Morte a Venezia
(1971) dal romanzo di Thomas Mann: qui sotto, il bozzetto
dell’abito del giovane Tadzio (nella foto con Silvana Mangano
all’hotel des Bains). In basso, Dirk Bogarde in un’altra scena
TANCREDI E ANGELICA
I bozzetti per gli abiti
di Angelica (Claudia
Cardinale) e Tancredi
(Alain Delon) ne Il Gattopardo
di Luchino Visconti (1963):
“Delon indossava l’abito
e subito era il personaggio
Per Angelica lavorai
su diversi costumi” racconta
Tosi, tra cui “il bianco
per il ballo” (nella foto
al centro una scena)
A sinistra, il bozzetto
di un abito di Senso (1954)
sempre di Visconti
e Piero Tosi (87 anni)
tra le sue creazioni
L’ARCHIVIO
I materiali
pubblicati
sono
custoditi
dalla
Fondazione
Gramsci,
archivio
Piero Tosi
LUDWIG
Sopra, appunti per la realizzazione
dei costumi di Ludwig (1973) di Visconti
A destra, il bozzetto per l’abito
di Romy Schneider nei panni
dell’imperatrice Elisabetta
d’Austria e una scena del film
A sinistra, il bozzetto dell’abito
di Michel Serrault ne Il vizietto (1978)
di Edouard Molinaro
MEDEA
A sinistra, bozzetto per l’abito di Medea
(1969) di Pier Paolo Pasolini
interpretata da Maria Callas
che fosse semplice vestire i poveri: «Bisogna cominciare dalla materia, stingerla, lavorarla, ridurla vissuta, fare il vestito e dargli ancora vita. Quando ho cominciato io,
nei magazzini c’erano scomparti con scritto “popolo” ed era tutta roba uguale, una
foggia che andava bene per Ottocento e
Novecento, per le donne fiorellini e pallini, grigio sporcato per gli uomini. Fu
una lotta convincere i proprietari a
partire dalla materia e a costringere le sarte a fare il lavoro in più». Poveri erano I compagni di Monicelli — «L’ho adorato, toscano come
me, arguto, simpatico, mai stato
vecchio» — operai di una fabbrica
che si battono per l’orario guidati da
un professore socialista, Mastroianni:
«Marcello era l’ideale per un costumista,
persona docile, sempre di buon umore,
pronto a tutto».
Malgrado le offerte e le sollecitazioni Piero Tosi non ha mai sentito il richiamo di
Hollywood, e non soltanto perché detesta
gli aerei. Dice: «Era tanto bello il cinema che
facevamo in Italia, perché farlo altrove?».
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la Repubblica
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LA DOMENICA
Next
Tanta scienza
Miliardi di dischi di vetro in orbita per proteggere la Terra dai raggi solari,
fondali oceanici in grado di assorbire anidride carbonica, particelle riflettenti
da spruzzare nell’aria, lenzuola sui deserti e nuvole imbiancate col sale:
sembrano visioni, ma sono esperimenti veri per combattere
le emissioni di CO2. La sfida è realizzarli su larga scala
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I MAGNIFICI
GLOSSARIO
Riscaldamento globale
Il surriscaldamento
climatico è conseguenza
dell’inquinamento
Può generare reazioni
a catena stravolgendo
clima ed ecosistemi naturali
Anidride carbonica
L’aumentata
concentrazione
di questo gas
nell’atmosfera
è una delle principali
cause del global warming
Geo-engineering
L’insieme delle tecniche
e delle tecnologie
che studiano interventi
su larga scala
per ridurre gli effetti
dell’inquinamento
Buco nell’ozono
Uno degli effetti
dell’inquinamento
è la riduzione dello strato
atmosferico di ozono,
che provoca il maggiore
impatto dei raggi solari
Fitoplancton
Insieme di organismi
vegetali microscopici
che partecipano
alla costruzione
del plancton
in acque dolci o marine
ALESSANDRO LONGO
n filtro solare cosmico, dalle ambizioni smisurate: invece di limitarsi a proteggere la nostra pelle può schermare l’intero pianeta dai raggi. Oppure fondali oceanici diventati fertili grazie a una gigantesca operazione di bio-ingegneria: per assorbire grandi quantità di emissioni inquinanti, un po’ come fanno già ora gli alberi. Consideriamolo il piano B per salvare il pianeta dal disastro ambientale: usare le nuove tecnologie per interventi su larga scala, nei
prossimi dieci o vent’anni, e così ridurre gli effetti dell’inquinamento. Gli esperti chiamano
queste tecniche geo-engineering, mentre nelle principali università del mondo si stanno intensificando gli studi. Lo spiega chiaramente Rob Wood, docente di scienze atmosferiche all’università di Washington, che a dicembre ha pubblicato un ampio studio sulla rivista scientifica Climate Change: «Negli ultimi cinque anni, il geo-engineering è passato dal regno della
ciarlataneria a essere oggetto di ricerca scientifica». Tra i sostenitori principali di questa filosofia di attacco all’inquinamento c’è l’università di Oxford, che ha fatto scuola nel 2009 presentando i principi sul geo-engineering. L’idea di fondo è che l’umanità, per ostacoli politici
o tecnici, potrebbe non essere in grado di rispettare i piani per ridurre le emissioni. Non solo:
magari potremmo anche riuscirci, ma per poi scoprire che non è stato sufficiente per salvarci dal disastro. C’è un’opinione condivisa da molti scienziati, a quanto riporta l’università di
Oxford nel proprio manifesto: se riuscissimo a mantenere sui livelli attuali la concentrazione
di anidride carbonica nell’atmosfera avremmo solo il 50 per cento di possibilità di evitare un
aumento di due gradi centigradi delle temperature medie. E questa è la soglia che si associa
al rischio di cambi climatici disastrosi. «C’è da aver paura. Ecco perché dovremmo almeno
valutare tutte le opzioni. Scoprire se il geo-engineering è fattibile in caso di un’emergenza climatica», dice Wood.
Ma proprio perché gli scienziati cominciano solo adesso a prendere sul serio questo piano alternativo, non hanno ancora capito quale si rivelerà l’approccio migliore al problema.
Studiano quindi numerose soluzioni, che si possono riassumere in due categorie di interventi su larga scala: quelli per ridurre l’effetto dei raggi solari sull’atmosfera (esaltato, com’è
noto, dal buco nell’ozono prodotto dall’inquinamento) oppure quelli per catturare le emis-
U
BIOMASSE
Produrre energia bruciando biomasse
(legna, scarti agricoli) e poi catturare CO2
prodotta usando impianti già utilizzati
per le centrali a carbone. Una variante
è interrare i residui vegetali e compostarli:
è il cosiddetto biochar o carbone vegetale
■ Limite: l’efficienza energetica è inferiore
rispetto ad altri sistemi di produzione
Il pianeta salvato
dai geo-ingegneri
sioni di anidride carbonica. Un’idea è appunto quella di costruire un’enorme rete di dischi
di vetro (si ipotizza sedicimila miliardi) e mandarli in orbita con sistemi elettromagnetici.
Tra gli altri, ci stanno lavorando all’università dell’Arizona con un finanziamento della Nasa. Per ora c’è solo un modello sperimentale, da cui una prima stima dei costi per fare questo filtro solare gigante: cinquemila miliardi di dollari. Analoga è l’idea di spruzzare particelle riflettenti in atmosfera, tramite aerei o con speciali macchinari: è partita dallo scienziato Paul Crutzen (premio Nobel per gli studi sul buco dell’ozono). Il problema ovviamente
è realizzarla su larga scala. Idem per l’idea di riflettere i raggi solari sfruttando le proprietà
del colore bianco. Scienziati dell’università di Edimburgo e del Colorado ipotizzano di cospargere le nuvole di sale marino per renderle più riflettenti. Altri invece propongono politiche edilizie per colorare di bianco tutti i tetti degli edifici (avviene in California) o di stendere superfici bianche plastiche nei deserti.
L’idea di catturare l’anidride carbonica è già realizzata, invece, da alcuni progetti sperimentali. In Islanda, il progetto europeo CarbFix interviene sulle rocce basaltiche sottomarine per trasformarle in spugne assorbenti dell’anidride carbonica. Questa è una proprietà anche del fitoplancton, di qui l’idea di diffonderlo fertilizzando gli oceani con solfato di ferro.
L’ha fatto l’imprenditore Russ George, su piccola scala in Nord Pacifico, nel 2012, e ha scatenato le polemiche di molti scienziati, tanto che il governo canadese ha aperto un’inchiesta. Il
problema è che «molti di questi interventi hanno effetti ancora sconosciuti, e potenzialmente dannosi, sugli equilibri climatici o sugli ecosistemi», dice Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club e tra i principali esperti di energie rinnovabili in Europa. Per esempio, secondo alcuni scienziati, l’uso di particelle riflettenti atmosferiche potrebbe produrre siccità
in certe zone del pianeta. «Ecco perché bisognerebbe puntare soprattutto sulla riduzione delle emissioni, sulle energie rinnovabili», continua Silvestrini. Il geo-engineering mostra insomma analogie con certi farmaci: vuole curare i sintomi, di questo pianeta malato, non riuscendo a intervenire sulle cause; ma ha effetti collaterali inquietanti. «Altri interventi non dovrebbero essere pericolosi, ma hanno costi elevati che li rendono anti-economici — continua
Silvestrini — Tra questi, spicca l’idea di bruciare le biomasse per produrre energia e poi usare apparati di cattura dell’anidride carbonica prodotta, quindi di immagazzinarla in strati
geologici profondi». Viene fatto solo su piccola scala, perché questo processo aumenta i costi di produzione dell’energia. Di conseguenza, il geo-engineering potrà essere forse il nostro
asso nella manica del futuro: «Da tenere in serbo contro il rischio imminente di un disastro
climatico, se dovessero fallire le politiche ambientaliste tradizionali», dice Silvestrini.
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ROCCE SOTTOMARINE
Stoccaggio di CO2 nelle rocce basaltiche
sottomarine. Si inietta acqua salmastra caricata
con CO2 in zone bersaglio: le rocce catturano
il biossido di carbonio riducendo nel lungo
periodo l’effetto serra. È stato sperimentato
in Islanda con il progetto CarbFix
■ Limite: resta da provare la fattibilità
di questo metodo su larga scala
la Repubblica
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OCEANI FERTILI
Per filtrare i raggi solari si pensa
di costruire un’enorme rete
di dischi di vetro (dovrebbero
bastarne sedicimila miliardi)
e mandarli in orbita
con sistemi elettromagnetici
Per stimolare il fitoplancton e innescare
un processo che possa assorbire l’anidride
carbonica in eccesso bisognerebbe fertilizzare
gli oceani con solfato di ferro
Una prima sperimentazione è stata fatta
nell’oceano Pacifico settentrionale
■ Limite: costi e rischi causati
da collisioni con asteroidi
■ Limite: l’impatto sulla vita marina
è ancora sconosciuto
ALGHE ASSORBENTI
Coltivazioni di alghe in grado di assorbire
l’anidride carbonica, ma anche il nitrogeno
L’idea ha il vantaggio aggiuntivo di fornire
un prodotto alimentare. Un’iniziativa
sperimentale è dell’università del Connecticut
sul fiume Bronx River di New York
■ Limite: ancora da studiare
l’efficacia su larga scala
TUTTO BIANCO
Contro gli effetti del riscaldamento
globale uno degli studi è l’uso
del colore bianco per riflettere
i raggi solari e rispedirli nello spazio:
si ipotizza di cospargere le nuvole
di sale marino, verniciare
quanto più possibile di bianco
gli edifici e stendere grandi superfici
plastiche bianche su terreni e deserti
■ Limite: va sperimentato
su larga scala
PARTICELLE RIFLETTENTI
Particelle basate su solfati da spruzzare
con aerei o con speciali macchinari
nella stratosfera per ridurre l’impatto
dei raggi solari. L’idea è partita
da Paul Crutzen (premio Nobel
per gli studi sul buco dell’ozono)
■ Limiti: possibili effetti collaterali,
per esempio siccità
INFOGRAFICA MARCO GIANNINI
FILTRI SOLARI
la Repubblica
DOMENICA 12 GENNAIO 2014
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LA DOMENICA
I sapori
Forti
Matematicamente perfetto, candido come la neve,
talvolta viola sfacciato, vitaminico più di un agrume
Una volta vinto l’odore sulfureo
è il migliore alleato per affrontare il freddo
Bianco
Sodo
e tondeggiante,
è circondato
da una corona
di foglie
che ricoprono
il fiore durante
lo sviluppo
Il colore
candido
ne testimonia
la freschezza
È bello come un fiore
il campione d’inverno
LICIA GRANELLO
evoluzione è tutto. La pesca, un
tempo, era una
mandorla amara;
il cavolfiore non è
che un cavolo che
ha frequentato l’università», scriveva
Mark Twain. In effetti, nessun’altra brassicacea può competere in eleganza e bellezza. Perché il caulis floris, campione dell’orto d’inverno, sa essere candido come la
neve o di un viola sfacciato, chiuso a celare il segreto del fiore o aperto a corolla, come un girasole tutto da mangiare.
Altro che università. Il cavolfiore è così seducentemente perfetto da essere diventato un vero e proprio schema matematico, grazie allo scienziato franco-polacco Benoit Mandelbrot. Fu lui a scegliere il romanesco per esemplificare la
scoperta dei frattali, figure geometriche
che ripetono in se stessi una specifica
forma all’infinito, a somiglianza del fiore principale. Come il cavolfiore, appunto. Era il 1979, e la geometria dei
frattali rivoluzionò per
sempre i modelli matematici esistenti. Un punto di
non ritorno totalmente
ignorato nelle cucine del
pianeta, dove più che la
gloria della scienza e il
primato dell’estetica,
possono pentole e odori.
Questione di minuti. Pare ne bastino quindici perché i composti di zolfo, responsabili dell’odore sulfureo del cavolfiore in cottura,
scompaiano. Per resistere in
quell’interminabile quarto
d’ora, nell’acqua di bollitura
si aggiunge di tutto: pane intriso d’aceto o di limone,
qualche cucchiaio di latte o di
farina, una tazzina d’aceto sistemata sul coperchio o un pentolino con acqua e bacche di ginepro (o il sempiterno
aceto) a bollire in contemporanea.
Un piccolo sacrificio ben ripagato, visto
che non esiste miglior verdura per affrontare i giorni più freddi dell’anno, con annessi picchi di influenza e affini. Tutto merito di vitamina C e sali minerali presenti in
dosi massicce, tanto abbondanti da trasformare i cavolfiori in eroi vegetali nella
lotta allo scorbuto, patologia da carenza
vitaminica che falcidiava gli equipaggi dei
primi viaggi transoceanici. E se è vero che
in quanto a vitamine anche gli agrumi non
scherzano, a fare la differenza in favore
delle brassicacee furono la maggiore conservabilità e la facilità di reperimento, soprattutto lungo le rotte nordiche.
Del resto, la coltivazione dei cavolfiori
ha dimensioni planetarie, anche se il freddo contribuisce in maniera decisiva alla
formazione di un fiore sodo e ricco. L’Italia, leader europeo e terzo produttore
mondiale dopo Cina e India, brilla per l’offerta di biologico, tanto più importante in
un ortaggio che tende a fissare nei propri
tessuti tutti i minerali, compresi i metalli
pesanti, pessimi per la salute. Ben un terzo delle quasi cinquecentomila tonnellate
che finiscono ogni anno sui mercati arriva
dalla Puglia, seguita da Campania e Veneto, regioni dove le ricette dedicate occupano interi capitoli dei ricettari.
Così, tra le ultime tossine natalizie da
smaltire e i raffreddori da scansare, scegliete i cavolfiori come compagni di tavola. E se proprio ne detestate l’odore mefistofelico, mangiateli crudi, tagliati sottili
in insalata o tuffando le cimette in una
maionese alleggerita con lo yogurt. Le vitamine, che detestano il calore, ve ne saranno grate, alzando a mille il vostro sistema immunitario.
«L’
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Cavolo!
Che
Romanesco
Purple
Verde
Sembra un gioiello,
la brassica
ricoperta di rosette
disposte a spirale,
di un verde
chiaro brillante
Consistenza
più tenera
e gusto delicato
L’ultimo nato
arriva dalla Sicilia
e incanta
per la tonalità
rosso-violacea,
che segnala
la presenza
di antociani,
potenti antiossidanti
Detto anche cimone,
ha foglie meno
lunghe e fitte
del bianco,
che inducono
la produzione
di clorofilla nel fiore
Può pesare
oltre un chilo
la Repubblica
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Gli indirizzi
DOVE DORMIRE
DOVE MANGIARE
DOVE COMPRARE
LE STANZE DI CORTEINFIORE
Via Ognissanti 18
Trani
Tel. 345-9031003
Doppia da 100 euro, colazione inclusa
LE LAMPARE AL FORTINO
Via Tiepolo (Fortino Sant’Antuono)
Trani
Tel. 0883-480308
Chiuso martedì, menù da 50 euro
DELIZIE PUGLIESI
Via Mario Pagano 174
Trani
Tel. 0883-887599
BIOMASSERIA LAMA DI LUNA
Loc. Lama di Luna
Montegrosso (Andria)
Tel. 0883-569505
Doppia da 150 euro, colazione inclusa
ANTICHI SAPORI
P.zza Sant’Isidoro 8
Montegrosso (Andria)
Tel. 0883-569529
Chiuso sabato sera e dom, menù da 35 euro
VILLA CASADANGELO
Contrada Casadangelo
Andria
Tel. 0883-3564679
Doppia da 110 euro, colazione inclusa
ANTICA CUCINA 1983
Piazza Marina 4
Barletta
Tel. 0883-521718
Chiuso lunedì, menù da 30 euro
TABERNA CIBARIA
Via Napoli 124
Andria
Tel. 0883-883907
OLEIFICIO GALANTINO
Via Corato Vecchia 2
Bisceglie
Tel. 080-3921320
All’uso di Romagna
Gratinato
Soufflè
Nella ricetta dell’Artusi, soffritto di aglio
e prezzemolo, cimette lavate
e poco sgrondate, poi concentrato
di pomodoro diluito con acqua calda
Cimette bollite 5 minuti, poi spadellate
con aglio e peperoncino. Dieci minuti
in forno con besciamella, Parmigiano
e pangrattato. Sotto il grill per dorare
Cimette bollite, in purea con Parmigiano,
noce moscata, quattro tuorli e i bianchi
a neve. In una pirofila unta, spolverata
di pangrattato 20 minuti a 200°
Sulla strada
La pentola magica
MARIO DESIATI
uando finiscono le vacanze di Natale il paese si svuota, i miei coetanei tornano tutti a nord. C’è una grande malinconia nelle cose che tornano alla
normalità, cambiano gli odori del centro storico; i giorni natalizi c’è stato
profumo di carne alla brace, pasta al forno, soprattutto di focaccia e origano cotta nel forno a legna.
Dopo le feste, l’odore di focaccia e sugo è sostituito da uno più pungente, quando
si diffonde nell’aria somiglia alle esalazioni dei fanghi termali, ma che in prossimità
della cottura, posando le narici sulla pentola, ha la violenza di un fendente. L’odore
di cavolo bollito. Per molti è considerato un antidoto alle indigestioni. Addirittura,
con l’acqua del cavolo bollito, le mejere della tradizione stregonesca martinese preparavano una pozione che serviva a scacciare gli spettri maligni. E probabilmente è
la ragione che lega il cavolo alla sua misteriosa fama di sostanza magica. Nell’accezione popolare resta sempre un piatto povero, abbinato a un’idea di frugalità e nel
caso specifico l’alimento con cui proteggersi dall’inverno o fare un incantesimo.
Un noto guascone di Martina Franca chiamato Peracotta, quando la madre lo spediva dalla nonna con le verze bollite a ridosso dei giorni natalizi, nel percorso si faceva avvicinare dai curiosi affinché gli chiedessero cosa contenesse il recipiente; lui cincischiava, che no, non poteva far disperdere un solo atomo della fragranza custodita nella pentola. «Dunque sono pettole!» s’impicciavano, pensando alle profumate
polpette di pasta lievitate che si friggono a Natale. E quando mettevano il naso sull’orlo della pentola, Peracotta la scoperchiava colpendoli con la letale zaffata della
verza bollita: non è questo anche un incantesimo?
Dell’autore è in libreria Il libro dell’amore proibito, Mondadori, 2013
ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA
Q
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LA RICETTA
Crema
Insalata di rinforzo
Frittelle
Soffritto leggerissimo di cipolla e burro,
cavolfiore a fettine, poi latte a coprire
Dopo 20 minuti, frullare. A piacere,
Parmigiano, noce moscata, pepe
Nella tradizione napoletana, cimette
bollite sode, fatte raffreddare, condite
con capperi, acciughe, olive, sottaceti,
peperoni, olio, aceto e sale
Pastella di farina, latte, tuorlo più bianco
a neve, in cui immergere le cimette
cotte a vapore e asciugate
Frittura in extravergine ligure o di lago
Ingredienti
Cristina Bowerman dirige
la cucina di “Glass” a Roma,
coniugando tradizione
e modernità, come nella ricetta
ideata per i lettori di Repubblica
18 tuorli d’uovo
500 g. di farina per sfoglia
4 g. di colla di pesce,1 uovo intero
500 g. di cavolfiore romanesco
50 g. di Pecorino romano
60 g. di bottarga di muggine
qualche filetto di alici di Cetara
100 g. di pane, 2 spicchi d’aglio
foglioline di mentuccia romana
1/2 bicchiere di vino bianco
Impastare farina, tuorli e un pizzico di sale, lavorando per 10’ e lasciando poi riposare per due ore
per avere un impasto umido e morbido. Capare le cimette del romanesco. Arrostire in forno
le più belle e piccole. Sbollentare le restanti in acqua salata e ripassarle in olio, aglio e un pizzico
di peperoncino. Aggiungere un’alice per insaporirle ancora di più. Frullare le cimette
con un mestolino di brodo in cui è stata sciolta la colla di pesce, l’uovo e il pecorino. Mettete
in sac à poche e raffreddare. Stendere la sfoglia e riempire i ravioli. Le forme migliori
sono quelle che possono essere mangiate in un solo boccone. Coprire e mettere in frigo
con una spolverata di semola sul fondo della teglia. Spadellare aglio, olio, mezza alicetta
e bottarga di muggine. Sfumare col vino bianco e aggiungere un mestolo di brodo di pesce
Friggere il pane pestato in briciole. Cucinare i raviolini e mantecarli nella padella, rifinendo
con zest di limone, bottarga, pane fritto e foglioline di mentuccia. Decorare con le cimette arrostite
✃
Raviolini di romanesco e bottarga
la Repubblica
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LA DOMENICA
L’incontro
Nonsense
Da piccolo voleva fare il cantante lirico
ma cantava malissimo. Avrebbe voluto
farsi prete, ma non sapeva il latino
Alla fine si è diplomato
in agraria e ha fatto
il comico (Drive in,
Zelig, Fazio, Il Foglio)
inventandosi vite surreali
e politicamente scorrette
Maurizio Milani
“Ti dico: la satira
non esiste. Esiste quello che fa
il cretino per far innamorare
le impiegate della sua banca”
aurizio Milani passa
e va, ha un’idiosincrasia per gli appuntamenti, se sei fortunato lo incroci mentre sta scivolando
via. Viaggia poco, «anche perché costa»
e non usa le mail, è un revisionista della comunicazione nostalgico di posta e
fax. Scrive a mano, parole larghe e
sghembe. È un comico di strada e dei
comici possiede l’infelicità. È uno scrittore perché ha scritto qualche libro, e
chi non l’ha fatto?, l’ultimo si intitola
Uomini che piangono per nientee, dice,
«non va mica tanto bene». Il libro, non
l’attitudine al pianto. È un inventore di
vite. Surreali, irriverenti, politicamente scorrette, sporche, storte, incompiute, in bilico sulla realtà. Ne prenderemmo in prestito qualcuna se avessimo il coraggio di uscire dai nostri cieli
grigi: il falso nomade, il suonatore di
narici di cani, il capo dei servizi segreti
dei masai, l’uomo bauxite, il capitano
di baleniere, il grande obeso, il custode
di pala eolica. Sopra tutte c’è la sua: Innamorato fisso, che poi è anche il titolo
della rubrica quotidiana sul Foglio.
«Avevo fatto un’intervista alla Radio
Svizzera, la giornalista era Maria Rosa
Mancuso. Le ho fatto credere di essere
innamorato di lei, che poi è vero. La
Mancuso lo ha detto a Luigi Manconi,
Manconi l’ha detto a mio zio Adriano
Galliani, poi ho perso il filo dei contatti. Ho iniziato la rubrica il primo agosto
2006. Guadagno puliti 700 euro al mese. Tante volte negli ultimi tempi gli
mando dei pezzi fatti anni fa». Ci siamo
parlati, scritti — rigorosamente attraverso Poste Italiane — telefonati e
quando si è trattato di riordinare le idee
le domande sono diventate oggetti
estranei precipitati nel suo geniale hellzapoppin. Tanto valeva farne a meno.
«La prima cosa che ho fatto è stata
cambiarmi il nome: da Carlo Barcellesi
a Maurizio Milani. Facendo il cretino
nei locali notturni a Milano mi dispiaceva usare il cognome vero, avrei coinvolto i parenti tutti laureati. Da bambino volevo fare il cantante lirico, però
non sapevo a chi chiedere. Andai a suonare il citofono al teatro Regio di Parma.
dalla Rai e da Fabio Fazio. Direi che ho
tradito io loro. Mi spiego, mi sono innamorato di un’impiegata della redazione. Lei mi ricambiava sì e no. Come pegno d’amore le ho detto: faccio il pentito del cabaret. Comunque un po’ di spazio in più a Che tempo che fa me lo potevano dare. Invece solo due minutini
nell’anteprima. Adesso vedi che nell’anteprima lasciano venti minuti all’astrofisica, bellissima, per parlare di pulsar e doppie pulsar. Volevo giocare anch’io un po’ a pallone. Anche se il pallone era loro. Sono l’unico comico fallito
di Zelig. Perché? Semplice, perché non
facevo ridere. È chiaro che poi come
scusa uno dice: non lavoro perché non
sono comunista. Rispondeva Zelig:
certo, bisogna essere comunista, però
anche un po’ far ridere. Rispondevo io:
e se uno fa ridere e non è comunista? Rispondeva Zelig: torni quand’è comunista. Vabbè, sono un piangina. Mi sono
sempre lamentato di tutto. Dall’anidride carbonica al taglio delle foreste
amazzoniche al fatto che al Polo Nord ci
sono sempre meno squali balena a causa del global warming.
Avrei fatto meglio a farmi prete. Come ragazzo ho iniziato ad andare a prete a dieci anni. Adesso non sono ancora
riuscito a dare tutti gli esami. La vocazione ce l’ho, per cui chiederò alla Con-
Quando ho iniziato
per prima cosa
ho cambiato
cognome:
non volevo far fare
brutta figura ai miei
FOTO CONTRASTO
M
CODOGNO (Lodi)
Era il 1973. Il custode disse che per cantare l’opera bisognava essere iscritti a
un sindacato. A quel punto mi sono
iscritto. Però non è bastato, infatti cantavo non male ma malissimo. Ero il
bambino che cantava peggio di tutta la
provincia di Milano. Cercai di andare a
Bravo Bravissimo, sagra dei bambini
prodigio in tv. Anche qui fui avviato alla
scuola di panetteria. Ho fatto fino alla
Maturità, conseguita nel 1981 all’Istituto tecnico agrario di Codogno: 38 sessantesimi. La terza media l’ho fatta serale alla Camera del lavoro di Piacenza.
Le elementari, dopo essere stato bocciato diverse volte, le ho finite alle scuole differenziali. In classe con me alle elementari avevo un compagno che aveva
dei malori, saltava per terra in aula e si
vantava di essere sterile. Le bambine si
innamoravano di lui e lo chiedevano in
sposo. I professori erano tutti interisti.
In chimica avevo Renato Mannheimer... poi l’ho rivisto a fare i sondaggi a
Porta a Porta. Sono stato contento.
La prima volta che mi sono baciato è
stato allo Zelig nel 1986. Lei era poverissima. Ci siamo visti solo una volta. Ieri
l’ho chiamata per dirle: Paola, sono ancora innamorato di te. Lei mi ha risposto: benissimo, poi ti faccio sapere con
calma. Anche da soli è impossibile annoiarsi dove abito. Abbiamo 150 chilometri di piste ciclabili per andare in bici a Piacenza e Cremona. In estate siamo vicinissimi alle valli del Trebbia e del
Nure, i due torrenti più belli d’Europa.
A Codogno c’è il piatto più tipico della
Lombardia, la Raspadüra, c’è dentro il
grana e un sacco d’altra roba.
Ho esordito a un programma televisivo di Canale 5, era l’estate del 1987. Il
programma si chiamava Tu come noi,
era condotto da Pippo Baudo. Nel caso,
è inutile che cerchi negli archivi anche
perché abbiamo fatto il provino in
180mila e ne hanno presi due. Io non
ero tra quelli, giustamente... non facendo ridere. Sono un ragazzo che non ha
una sua personalità. Per cui faccio tutto
quello che vedo in tv. Questo fino a che
gli altri, il Pd, non avranno capito che è
la televisione che fa la differenza. Adesso in tv vedo molto Lilli Gruber. Penso di
votarla se entra in Forza Italia. Sì, sono
stato filo-Berlusconi. Scusami, ma tu
hai mai visto un regime i cui oppositori
sono diventati ricchi durante il regime?
Non come esuli all’estero. No, sono diventati ricchi stando in patria. E prima
del regime erano poveri. Io che ero favorevole al regime sono rimasto povero. Però sono passati vent’anni, a questo punto mi sono convertito, voto Italia dei Valori. Mi sono convinto dopo
aver visto una puntata di Report.
Non sono stato tradito dalla sinistra,
ferenza episcopale di fare una sanatoria. Tutti gli alunni dei seminari che sono stati poco bravi a scuola possono diventare buoni sacerdoti. Voglio essere
ordinato prete anche se non so il latino.
A parte gli scherzi, sono cattolico praticante. Insomma, così e così. Sono molto devoto a Santa Francesca Cabrini e a
San Giovanni Bosco. Seguo con particolare interesse le vicende di Medjugorje e quando sono stato in difficoltà
l’ascolto di Radio Maria mi è stato di
tanto conforto. Non sono sposato e non
ho figli. Non mi sono mai sposato perché ho sempre la speranza di entrare
nei quadri regionali della Dc. Vorrei
sposare l’impiegata che è in redazione
a Che tempo che fa, ma lei non vuole. Dice che ragiono da deficiente anche
quando scrivo lettere d’amore a Marina
Abramovic. Vivo in casa da solo con il
gatto, anzi la gatta. Ha ventitré anni ma
ne dimostra diciannove.
La satira non esiste. Esiste chi fa il cretino per far innamorare le impiegate
della sua banca. Loro sanno che comunque sei un imbecille e non ti vogliono come moroso. Fanno bene. Come falso nomade mi piace bere davanti al Comune di Varese e chiedere se
posso essere assunto come educatore e
fare i corsi di teatro ai grandi obesi con i
fondi comunitari. Non ho hobby. Di
professione faccio il ruffiano senza scopo di lucro. Mi piace. L’ho sempre fatto
anche sul posto di lavoro, andavo a fare
la spia al padrone.
Scrivo libri, ne ho letto persino qualcuno. I Promessi Sposi, Come trattare gli
altri e farseli amici di Dale Carnegie, Il
Settimo papiro di Wilbur Smith, sì, questo è un libro che mi ha formato molto.
Ti insegna come sbarrare il fiume Zambesi senza chiedere il permesso alle autorità che il permesso non te lo danno
fisso. Tanti si chiedono: ma perché
sbarrare il fiume Zambesi? La risposta è:
per fare un dispetto a Carlin Petrini e
Greenpeace. Leggo Clive Cussler, sempre lo stesso libro: Tempesta al Polo.
Che poi sono tutte balle, i ghiacciai sono più belli di prima.
Sono pieno di desideri, altroché.
Spero che non chiudano l’ospedale di
Codogno. Spero che diventiamo gli Stati Uniti d’Europa con presidente Gabriele Albertini, già sindaco di Milano. È
l’unico politico che sul tram tutti ne parlano bene. Per quanto riguarda la legge
elettorale sono favorevole al doppio
turno alla Boscimani. Il candidato che
al primo turno non raggiunge il 50 per
cento viene arrestato e con lui vengono
mandati al confino tutti quelli del suo
comitato elettorale. Al secondo turno
chi viene al seggio per chiedere: scusi, si
può votare per il ballottaggio? viene ar-
restato. Alla fine i votanti passano
dall’85 per cento degli aventi diritto al 2.
Questi vengono assunti come figuranti
nel pubblico dei talk show con un compenso di 750 euro al mese. Sono contento che è tornata la mia amata Dc,
speriamo mi dia una casa popolare senza averne diritto, produco una documentazione falsa.
Nella professione ho molti amici anche se ho il vizio di chiedere soldi in prestito a tutti. Sono amico con Antonio
Cornacchione a cui devo 36mila euro,
con Gianni Fantoni a cui devo 130mila
euro e con il dj Albertino a cui devo
500mila euro. Dimenticavo Paolo Rossi e Bebo Storti, dai quali ho imparato a
stare sul palco, infatti non ci sto mai. Anche Gian Piero Solari e Gino e Michele e
Giancarlo dello Zelig a cui devo 800mila euro. Non sono povero, ma solo perché i miei genitori qualcosa mi hanno
lasciato. Siamo sui 200 milioni di euro.
Il mio principale rimpianto è che ho
fatto domanda alla Nasa ma non sono
stato preso. Da lì mi è venuta la depressione, che poi non è neanche quello, ma
è non aver proprio voglia di lavorare.
Volevo essere assunto in qualità di responsabile del progetto Seti, la ricerca
di intelligenze extraterrestri. Il problema è dove puntare i radio telescopi. La
felicità esiste fissa. Esiste a Roswell dove nel 1947 ci fu un Ufo-crash certificato. Tutti gli anni quando visito il museo
degli Ufo sono contento. Mi piace vedere anche la gare di body building.
Sai, oggi mi sento un po’ come Hubner, il centravanti del Brescia anni Novanta. È come se lo chiami adesso che
ha quaranta anni a giocare in Nazionale. A me, che ne ho cinquantaquattro, chiamano quelli di Raitre: vieni
una puntata? Io rispondo: adesso?
Adesso non sono in forma, ho avuto le
delusioni d’amore. Dovevate farmi
giocare quando ero lì, sono stato lì sei
o sette anni. Comunque grazie, si fa
per dire. Non ho paura della morte. E...
insomma, non è che adesso che mi ci
fai pensare stappo un bottiglione di vino rigorosamente proveniente da vitigni Ogm. Però so già che cosa farò scrivere sulla mia tomba: Cercò di fidanzarsi con Jennifer Lopez ma non ci riuscì perché lei era in Florida e lui alle 5
voleva andare a letto».
‘‘
DARIO CRESTO-DINA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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