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la domenica - La Repubblica.it
LADOMENICA DOMENICA 12 GENNAIO 2014 NUMERO 462 DIREPUBBLICA 130 MILIONI di morti tra il 1914 e il 2014 1 SOLDATO = 15MILA MORTI 15 1914 - 1918 milioni Prima guerra mondiale CULT All’interno La copertina La solitudine del lettore nella Babele dell’editoria 4,5 1917 - 1922 milioni Guerra civile russa 450 1936 - 1939 mila Guerra civile spagnola MOHSIN HAMID e VALERIO MAGRELLI 10 1937 - 1945 milioni Seconda guerra sino-giapponese Il libro Andrew S. Greer racconta le vite impossibili delle donne LEONETTA BENTIVOGLIO 60 1939 - 1945 milioni Seconda guerra mondiale Straparlando Luciana Castellina “Così ho visto la classe operaia andare all’inferno” DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI ANTONIO GNOLI Il teatro Guerra dei cent’anni La LUCIO CARACCIOLO e VITTORIO ZUCCONI CONTINUA Giovani inquieti in uno zoo di vetro Cirillo rivisita Williams ANNA BANDETTINI Dalla prima carneficina mondiale alla Siria di oggi Tutti i conflitti che hanno segnato il secolo La serie La Poesia del mondo Emily Dickinson fuggitiva WALTER SITI la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 36 LA DOMENICA La copertina Si cominciò nell’agosto del 1914 con un colpo di rivoltella a Sarajevo 1914-2014 Gli ultimi giorni dell’Europa VITTORIO ZUCCONI all’altodella propria torre orgogliosa la Morte guardò il suicidio dell’isola nel mare ai suoi piedi». Fu questo verso di Poe che la storica Barbara Tuchman scelse per narrare il secolo del suicidio europeo cominciato nel 1914, l’anno fatale nel quale il continente più prospero, colto, sviluppato, civile, più egemone che il mondo avesse mai conosciuto, decise, per ragioni ancora inspiegabili, di autodistruggersi. L’Europa fu il Cavallo di Troia di se stessa. Implose — senza invasioni né attacchi, né orde di barbari — spalancando le porte della storia al Secolo Americano. È difficile, per noi che abbiamo conosciuto soltanto l’Europa della miracolosa, e ora claudicante rinascita un secolo dopo quel 1914, comprendere quanto assoluta fosse la supremazia del nostro continente sul pianeta. E quanto improbabile apparisse in quell’anno la «marcia dei sonnambuli» — secondo la definizione di Christopher Clark a Cambridge — verso l’abisso. Chi lamenta la globalizzazione di oggi, non sa quanto già globale fosse il mondo della Belle Époque e profonda l’interdipendenza fra le nazioni del Vecchio Continente. Basteranno due cifre per dare la misura dello strapotere europeo: il 67 per cento della produzione industriale mondiale veniva da qui; l’80 per cento delle flotte militari e commerciali batteva bandiere europee. Una guerra fra le corone, tutte posate sulla testa di parenti, cugini e cognati, e l’unica grande repubblica del tempo, la Francia, appariva anche più assurda di quanto possa sembrare oggi alle legioni di ragazzi che sciamano da un’università all’altra sotto il segno di Erasmo, ai turisti che salgono e scendono da voli low cost e treni superveloci, che passeggiano lungo le rive del Reno, della Mosa, della Vistola dopo avere attraversato frontiere di garitte vuote o bunker ormai coperti di edera. In un best seller del tempo, il Nobel per la pace sir Norman Angell poteva scrivere nel 1910 che la devastazione del credito e della finanza avrebbero impedito lo scoppio di una guerra o ne avrebbe reso brevissima la durata, nella solita fiaba del “tutti a casa per Natale”. Ironicamente, il titolo del suo saggio, La grande illusione, sarebbe divenuto un indimenticabile film contro la guerra. Ma Angell non avrebbe potuto immaginare che la rivoltella di un allucinato nazionalista serbo-bosniaco, Gavrilo Princip, contro l’erede al trono degli Asburgo Francesco Ferdinando a Sarajevo avrebbe messo in moto «la marcia dei sonnambuli» destinata a durare per l’intero «secolo breve», come lo chiamò Eric Hobsbawm. La stampa Usa, di fronte al clamore suscitato da quell’assassinio, si concesse addirittura qualche ironia. L’Heralddi New York scrisse che «con tutti i duchi e gli arciduchi che hanno in Europa, uno in meno non può fare grande differenza». Cento anni dopo, e ben più di cento milioni di morti direttamente o indirettamente attribuibili a quell’«arciduca in meno», storici della guerra come John Keegan si chiedono addirittura se non sia stata la farraginosità e la lentezza delle comunicazioni fra Cancellerie, non ancora adeguata alla velocità del telegrafo, dei telefoni già esistenti in cavi sottomarini, della neonata radio, a scatenare la reazione a catena. Ma ciò su cui nessuno ha dubbi è il meccanismo di azioni e reazioni, catastrofi e vendette, conti di sangue lasciati in sospeso, che avrebbe prodotto la Guerra dei Trent’anni europea, chiusa soltanto nel maggio di trentun anni dopo per poi congelare il continente nella glaciazione del conflitto ideologico fra Est e Ovest. Tutto quello che sarebbe accaduto nella Seconda guerra, e nel lungo Dopoguerra che ancora tocca con le proprie dita gelide i rapporti fra Russia e Occidente, ha le proprie radici in quelle giornate di agosto 1914. Le mostruose tecnologie di morte usate nella Seconda guerra hanno il Dna nella Prima, i bombardamenti aerei, i tentativi di estendere la sofferenza alle popolazioni civili colpendo Parigi con supercannoni dalla gittata di 130 chilometri, i panzer, i primi rudimentali missili usati per abbattere palloni aerostatici e dirigibili. E i gas letali che dalle trincee sarebbero passati direttamente alle camere dello sterminio nazista e, ancora oggi, sostanzialmente identici, ai massacri in Siria. Molti, se non tutti, i protagonisti, della Seconda guerra, erano figli della Prima. Churchill, Lord dell’Ammiragliato fino al 1915; Gamelin, vincitore della prima battaglia della Marna nel 1914 e poi disastroso comandante supremo dell’Armée francese nel 1940; Hitler, reduce rancoroso e ferito nelle trincee del fronte occidentale; Zhukov, il conquistatore di Berlino, decorato sui campi del 1915 contro le armate del Kaiser; Badoglio, vincitore del Sabotino e poi Capo di Stato Maggiore per la sciagurata offensiva contro la Grecia del 1940. E naturalmente Mussolini, ferito sul Carso da una bomba durante un’esercitazione. Insieme con il cumulo di macerie, cadaveri, di immensi danni economici che dimezzarono le capacità industriali di nazioni come la Germania e divorarono una generazione di giovani uomini che in Francia lasciarono, nel 1918, una proporzione di sei donne per quattro maschi e centinaia di migliaia di invalides, l’eredità più sottilmente velenosa di quel 1914 fu quella che John Keegan definì «la militarizzazione della politica». Nei totalitarismi prodotti dalla guerra, dove le ideologie e i partiti erano stati messi in divisa restò, e ancora sotto pelle sopravvive, «il morso dell’odio per il nemico e quel risentimento — scrive sempre Keegan — che è sempre veloce nell’azzannare e lentissimo nel lasciare la preda». Dovette essere l’America, due volte strappata al sonno del suo isolazionismo, a impedire alla Terra Madre di precipitare in un abisso senza ritorno. Oggi quel campo della morte che fu l’Europa è silenzioso. Ma la Signora di Edgar Allan Poe, alta sulla propria gigantesca torre, osserva l’isola nel mare ai suoi piedi e aspetta paziente. IMMAGINI DA WWW.HISTOMIN.COM FONTI: ONU- MILTON LEITENBERG, CORNELL UNIVERSITY (“DEATHS IN WARS AND CONFLICTS IN THE 20TH CENTURT”)- IRAQBODYCOUNT.ORG- PEACEREPORTER.NET- PEACELINK.IT/ELABORAZIONE “LA REPUBBLICA”/DISEGNI ANNALISA VARLOTTA «D 1914 Granatiere (GB) 1930 Sciumbasci (Italia) 1936 Miliziano (Spagna) © RIPRODUZIONE RISERVATA 150 1945 - 1959 mila Guerra civile greca 6,2 1946 - 1950 milioni Guerra civile cinese 400 1946 - 1960 mila Guerra Colombia 1937 Ufficiale SS (Ger) 1940 Carabiniere (Italia) 1944 Fante (Usa) la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 37 Da allora tutto è cambiato. I continenti coinvolti nei conflitti. Le armi. I modi di combattere. E di smettere 600 1946 - 1954 mila Guerra d’Indocina Senza guerra né pace 1 1947 - 1948 milione Prima guerra indo-pakistana 15 1948 mila Guerra arabo-israeliana 4,5 1950 - 1953 milioni Guerra di Corea 1 1977 -1982 milione Guerra civile Mozambico 1,5 1978-1989 milioni Invasione sovietica in Afghanistan 70 1978-1990 mila Guerra civile Nicaragua 2 1983 -2005 milioni Guerra civile Sudan LUCIO CARACCIOLO 1 1954 - 1962 milione Guerra d’indipendenza Algeria 16 1956 mila Guerra del Sinai 2,4 1960 - 1975 milioni Guerra del Vietnam 1 1962 - 1989 milione Guerra Etiopia - Eritrea 2 1967- 1970 milioni Guerra civile nigeriana 1,7 1967- 1978 milioni Guerra civile cambogiana 200 mila 1,5 milioni 1969- 1996 Guerra Guatemala 1971 Seconda guerra indo-pakistana 250 1971- 1978 mila Guerra civile ugandese 21 1973 mila Guerra del Kippur 150 mila 1,1 milioni 1975 -1990 Guerra civile libanese 1975 -2002 Guerre d’Angola 1960 Marine (Usa) 1981 Mujaheddin (Afgh) 1990-91 Marine (Usa) 1 1980 -1988 milione Guerra Iran-Iraq ento anni fa scoppiava la «guerra per finire tutte le guerre», come la definì già nell’agosto 1914, in una fortunata serie di articoli poi raccolti in libello, lo scrittore britannico Herbert George Wells. Sentenza degna del padre fondatore della fantascienza, resa poi celebre da un leader politico molto immaginifico, il presidente americano Woodrow Wilson. Da allora il mondo ha conosciuto centinaia di conflitti, di cui almeno una cinquantina ad alta o media intensità, che hanno falciato almeno centotrenta milioni di vite umane, oltre la metà delle quali nelle due guerre mondiali (quindici nella Prima, sessanta nella Seconda). Attualmente sono in corso una decina di conflitti che producono più di un migliaio di morti all’anno. Il più tragico è quello di Siria: oltre centotrentamila morti. La tendenza umana ad annientarsi reciprocamente per quote di potere, territorio e ricchezza — e per qualcosa che usiamo chiamare “onore” — visibile fin dall’alba della storia, ha avuto ragione dell’ottimismo di Wells. Ma come è cambiata la guerra, dalla Grande Guerra a oggi? Molto, anche se meno di quanto correntemente si pensi. I principali mutamenti sono di tre ordini: riguardano gli attori, e quindi le vittime; le tecnologie belliche; la relazione con la politica. Fino alla Prima guerra mondiale (inclusa), i conflitti moderni erano condotti essenzialmente da e fra soldati, in spazi limitati. Militare era per conseguenza la maggior parte dei caduti. Già nella Seconda guerra mondiale il numero dei morti civili eccede quello dei militari. Non solo perché i combattimenti escono dalle trincee e dai campi di battaglia per dilatarsi spesso nel cuore dei centri abitati, ma anche per le nuove tecnologie, a cominciare da esplosivi sempre più potenti e impiegabili a vasto raggio. La guerra area, in particolare i bombardamenti terroristici contro la popolazione civile — che i britannici identificano con Coventry (e Londra), i tedeschi con Dresda, i giapponesi con le bombe convenzionali su Tokyo e le atomiche su Hiroshima e Nagasaki — segna una svolta sia nelle dottrine militari (ricordiamo il nostro Giulio Douhet, che nel 1921 pubblica il suo Dominio dell’aria) che nella percezione delle opinioni pubbliche. Al punto che “solo” tremila morti civili — non le centinaia di migliaia dei bombardamenti a tappeto della Seconda guerra mondiale — in un attacco aereo non convenzionale contro le Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001, marcano un tornante storico. Una nuova frontiera tecnologica è offerta dalla guerra cibernetica (cyberwarfare), che viene incontro a una necessità assai sentita nelle società occidentali o comunque benestanti: ridurre la visibilità del conflitto e limitare al massimo le perdite. Almeno le proprie, specie se civili. Ma proprio tali caratteristiche ci rendono più vulnerabili al terrorismo, agli attacchi “asimmetrici”, in cui il duellante più debole sfrutta a proprio vantaggio la strapotenza del più forte. La scarsa disponibilità occidentale a morire per la patria e a impegnarsi in guerre massicce e prolungate, accentuata dall’«inutile strage» del 1914-18, ha indotto alcuni studiosi a dichiarare la morte della guerra, almeno nel senso tradizionale del termine. I conflitti nei quali sono impegnate le Forze armate dei paesi Nato (esemplare il caso afgano) non vengono ufficialmente definiti tali, ma declassati a “operazioni di pace” per non turbare le troppo sensibili opinioni pubbliche e forse anche le coscienze di alcuni decisori che hanno bisogno di credere alla propria propaganda. Se fino a metà del secolo scorso le guerre potevano essere rappresentate come esplosioni di violenza delimitate nello spazio e nel tempo, i conflitti attuali sarebbero leggibili come un continuum: una costante tensione latente che ha i suoi picchi e le sue pause, non più un inizio e una fine (si pensi ai Balcani, da Sarajevo a Sarajevo, e oltre). Così a morire non è tanto la guerra quanto la pace. Di sicuro è in crisi, se non defunto, il paradigma classico che vuole la guerra continuazione della politica con altri mezzi. L’impiego della forza è spesso astrategico, nel senso che non persegue un fine politico determinato. O quanto meno, gli obiettivi sono alquanto fungibili e mutevoli, soprattutto in conseguenza degli umori delle opinioni pubbliche domestiche e internazionali. Lasciamo stare i Balcani o l’Afghanistan: qualcuno è in grado di spiegare in una frase l’obiettivo della guerra americana al terrorismo, dopo l’11 settembre? Certamente non seppe farlo George W. Bush — si contano una trentina di sue spiegazioni, spesso contraddittorie — mentre l’attuale presidente Barack Obama ha preferito rinunciare a chiamarla per nome, per proseguirla in modo meno visibile (cibernetica, droni, operazioni coperte) ma non meno letale. In ogni guerra, specie in quelle a noi contemporanee, riposa dunque una componente irrazionale, che spin doctor, accademici e strateghi militari — talvolta la stessa persona con tre cappelli — cercano di ridurre ad algoritmo. A questa costante non si può sfuggire. La guerra è anzitutto e sempre avventura, sanguinosa e paradossalmente fascinosa. Poiché lo spirito d’avventura appare troppo umano per essere debellato, la profezia di Wells dovrà sopportare, per il tempo prevedibile, le dure repliche della Storia. C © RIPRODUZIONE RISERVATA 150 1989 -1997 mila Guerra in Liberia 100 1990 -1991 1,5 1990 -1995 mila Guerra Golfo milioni Guerra civile Ruanda 300 1991 - 2001 mila Guerra nell’ex Jugoslavia 150 1991 - 2002 mila Guerra Sierra Leone 150 1991 - 2002 mila Guerra civile algerina 200 1991 - 2009 mila Guerra civile somala 800 1993 - 2000 mila Guerra civile in Burundi 200 1994 - 2009 mila Prima e seconda guerra cecena 6 1998 - 2003 milioni Seconda guerra del Congo 30 2001 - IN CORSO mila Invasione dell’Afghanistan 150 mila 30 mila 2003 Invasione dell’Iraq 2011 Guerra civile in Libia 130 2011 - IN CORSO mila Guerra civile siriana TOTALE 129.858.100 1995-96 2002 Casco blu (Nato) Cavalleggere (Usa) 2003 Paracadutista (Usa) la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 38 LA DOMENICA L’attualità Sudate carte Il giro del mondo in biblioteca Alexandrina, Egitto C Nazionale, Buenos Aires Tempio del sapere in età ellenistica, fu ricostruita nel 2002. Sulla facciata ideogrammi in tutte le lingue Libri rari e manoscritti, tra cui una Bibbia di Gutenberg. Fa parte dell’Università, ma è aperta a tutti TU Delft Library, Olanda Beinecke Library,Yale Morgan Library, New York Diretta per vent’anni da Borges, ospita 5 milioni di volumi. Sorge dove c’era la dimora di Juan Peròn Fondata a inizio Novecento, ora è stata ampliata da Renzo Piano Ha anche oggetti d’arte e spartiti po sono state devastate le biblioteche dell’Iraq “liberato” dagli americani. Per paradosso il tiranno Saddam Hussein, con un gesto politico e non certo culturale, aveva staccato un assegno da ventun milioni di dollari (uno in più del principe degli Emirati Arabi, Feisal) per finanziare la costruzione della nuova biblioteca di Alessandria. Confesso che frequento malvolentieri le biblioteche immense, anche se non manco mai di visitarle, magari solo per dare un’occhiata ai cataloghi. A Buenos Aires, per esempio, è inevitabile fare un salto alla Biblioteca Nazionale per rendere omaggio a Borges che ne fu il direttore. E Borges ci autorizza a dire che, dopotutto, anche le biblioteche immaginarie hanno una loro esistenza e una loro capacità di accogliere il lettore (sempre di lettore si tratta). Borges, con la sua biblioteca di Babele che poi è l’Universo, si qualifica subito come un estremista del libro. Elias Canetti destina al fuoco la biblioteca del sinologo dottor Kean, protagonista del romanzo Autodafè. Abbiamo assistito al suo ampliamento, visto che Kean ha eliminato le finestre per poter aumentare i suoi scaffali. Ma ha anche sposato, nel corso del romanzo, una incredibile tiranna popolana In vetro e acciaio, con il tetto che fa da giardino: ha un media center, l’area bambini, uno spazio per l’arte ignorantissima che se ne infischia dei suoi libri e del sapere e che lo ridurrà allo stremo. La cultura combatte con la barbarie, è un topos. Un’altra biblioteca immaginaria che ormai è divenuta leggenda è quella descritta da Eco ne Il nome della rosa anche se qualcuno gli ha rimproverato di aver messo troppi volumi in una biblioteca medievale: ottantasettemila, mentre nel Trecento le biblioteche si potevano al più permettere venti codici e trecento manoscritti, come racconta Lucien X. Polastron nel suo Libri al rogo. Già, anche Eco fa bruciare la sua biblioteca. Il nome della rosa, come si sa, ruota intorno a un’opera perduta di Aristotele. Non è facile che in una biblioteca si trovi un’opera perduta di un grande autore, ma non è nemmeno da escludere a priori. Chi frequenta una grande biblioteca non sa mai quali libri può trovare, mentre è escluso che possa fare scoperte sorprendenti nella propria biblioteca, dove tutto gli è noto. Così per esempio ragionava un grande studioso, Carlo Dionisotti, per lunghi anni insegnante di letteratura italiana a Londra e frequentatore della British Library. In Italia abbiamo la fortuna di poter entrare in molte biblioteche più o me- Nazionale, Parigi hissà se nella biblioteca di Alessandria d’Egitto hanno finalmente risolto il problema acustico dovuto alle gambe delle sedie spostate dai lettori. Lettori che hanno a disposizione una sala immensa e molto ben illuminata, ma un numero di libri ancora limitato e con qualche esclusione “mirata”. Non ci sono, per esempio, I versi satanici di Salman Rushdie, che però, assicura la direzione, si possono leggere in traduzione, così come mancano altri libri sospetti di poca correttezza verso l’Islam. Fu costruita sul finire del secolo scorso, non senza qualche polemica perché le ruspe avrebbero sacrificato reperti della biblioteca antica: quella che secondo una vulgata Cesare avrebbe fatto bruciare con suprema indifferenza. Luciano Canfora attribuisce invece l’incendio al Califfo Omar nell’anno del Signore 640. La Biblioteca di Alessandria è nell’immaginario di molti la biblioteca per antonomasia, anche se nessuno ovviamente ha mai visto la biblioteca antica e quella nuova è bellissima ma nuova, appunto, e potrebbe essere dovunque nel mondo. Così la nuova Bibliothèque National di Parigi, intitolata a Mitterrand, criticatissima perché d’inverno si scivola su certe pendenze dell’entrata, non ha certo il fascino della Richelieu, antica sede ora in via di ristrutturazione, dove si conservano preziosi fondi antichi, documenti rari e molte carte di scrittori (tra le ultime acquisizioni ci sono anche quelle di Tabucchi). Quando la Biblioteca Nazionale di Roma era ospitata nei palazzi del Collegio Romano, frequentarla aveva un sapore ben diverso dal mettere piede nei saloni lucidi della nuova sede costruita in mezzo alle caserme di Castro Pretorio, ma — e lo sa chiunque abbia in casa anche una modesta biblioteca personale — gestire e aggiornare un patrimonio librario non è facile. E certo non è facile il compito delle biblioteche nazionali che devono per legge possedere e schedare ogni libro pubblicato, a costo di scoppiare e di essere costantemente in emergenza. Comunque, Alessandria docet, c’è sempre qualcuno in qualche parte del mondo, che vuole incendiare i libri nemici e non è affatto vero che i roghi siano finiti con quelli dei nazisti. Nel 1992 i serbi hanno incendiato la biblioteca di Sarajevo e all’incirca dieci anni do- Abbazia di Admont, Austria PAOLO MAURI Gioiello barocco, è la biblioteca monastica più grande del mondo: chiamata “l’ottava meraviglia” Con una collezione di 30 milioni di volumi, da qualche anno sta digitalizzando tutti i suoi fondi la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 39 ABBAZIA DI STRAHOV Nelle sale barocche della biblioteca di Praga sono custoditi 200mila volumi e mille esemplari della Bibbia. Alcune foto di queste pagine sono tratte da The library. A World History (James Campbell e Will Pryce, Thames & Hudson) Ce ne sono d’immense e di piccole, di reali e d’ immaginarie Mentre la sfida dell’online avanza, le più belle, ricche e innovative, sono state catalogate in un volume. Vi abbiamo Intitolata ai fratelli Grimm, cofondatori della filologia tedesca Arriva a seimila utenti al giorno ra le biblioteche che hanno fatto la storia della nostra letteratura e del paese, due vanno citate sopra le altre. La prima è quella organizzata dal conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, nel palazzo avito a Recanati. In quella biblioteca, ricca di molte migliaia di volumi, il giovane genio passò gran parte della sua giovinezza in uno studio da lui stesso definito «matto e disperatissimo» che ne fece uno degli uomini più colti del suo tempo: il maggior poeta italiano dell’Ottocento ma anche un notevole pensatore e filosofo. Giacomo soleva dire che «il leggere è un conversare che si fa con chi scrisse». Frase che lo lega a un altro grande genio vissuto tre secoli prima, Niccolò Machiavelli. Dell’inventore della scienza politica va ricordata la celeberrima lettera da lui scritta nel dicembre 1513 all’amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso il papa a Roma. In quel periodo Machiavelli scontava il suo esilio in una sua casa di campagna (l’Albergaccio). Occupazioni e passatempi rustici per gran parte della giornata, poi però: «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono [ecco Leopardi!]; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte». È probabilmente la dedica più partecipata, più commovente che mai sia stata fatta a una biblioteca. T © RIPRODUZIONE RISERVATA Ospita pure ossa di animali e 35mila carapaci di tartaruga. I suoi volumi coprono 2000 anni di storia cinese Haeinsa, Corea del Sud CORRADO AUGIAS È un tempio che ospita le Tripitaka Koreana, cioè le 81.258 tavolette in legno con le Scritture buddiste © RIPRODUZIONE RISERVATA Marciana, Venezia Da Recanati all’Albergaccio Quando tutto sarà digitalizzato e tutte le biblioteche saranno raggiungibili con il computer rischieremo di perdere lo spettacolo dei libri e delle cattedrali che li contengono? Mi auguro di no: per secoli i libri di carta ci hanno fatto una compagnia straordinaria. E poi la “birbioteca”, come la chiamava maliziosamente il Belli, è un luogo e non deve diventare un non luogo. Quando a marzo riaprirà al pubblico dopo la pausa invernale ci sarà una ragione in più per visitare il castello di Masino, nel Canavese, già della nobile famiglia Valperga e da oltre vent’anni proprietà del Fai che lo ha ristrutturato in modo mirabile. E la ragione sarà proprio la grande e antica biblioteca che il Castello contiene e che ora è stata riordinata e schedata. Il primo volume del catalogo è appena stato pubblicato da Interlinea, con magnifiche fotografie, a cura di Lucetta Levi Momigliano e Laura Tos. In quelle sale, amico dell’eruditissimo Tommaso Valperga di Caluso, che era il padrone di casa, circolava l’inquieto Alfieri. E le sue opere in varie edizioni sono ben presenti nella biblioteca del castello. Birmingham Grimm Centre, Berlino no rimaste come erano quando furono fondate ed è un vero piacere per gli occhi muoversi, per esempio, nella grandiosa sala della seicentesca Biblioteca Angelica di Roma che ha un notevole patrimonio librario proveniente dai lasciti di vari cardinali e anche, dal 1940, il fondo librario dell’Arcadia di cui ora è praticamente la sede. L’Angelica fu una delle prime biblioteche a essere aperte al pubblico, così come la quasi coeva Biblioteca Ambrosiana fondata a Milano dal cardinal Borromeo, proprio quello citato dal Manzoni come un sant’uomo, mentre un recente studio di Edgardo Franzosini (Adelphi) racconta che proprio santo non era. Comunque la Biblioteca è lì e accanto c’è la Pinacoteca, sempre voluta dal Borromeo, dove si può ammirare tra l’altro (e l’altro è moltissimo) il famoso Cesto di frutta del Caravaggio. A Ventimiglia ho avuto modo di frequentare anni fa la Biblioteca Aprosiana, fondata appunto da Angelico Aprosio (siamo sempre nel Seicento) che oltre a sbrigare oggi l’ufficio di biblioteca pubblica, conserva anche un buon fondo antico, in gran parte dovuto al fondatore. Ci lavorò per qualche tempo lo scrittore Francesco Biamonti. Nazionale, Pechino aggiunto qualche consiglio: ad Alessandria d’Egitto ci sono un po’ troppi “buchi”, alla Mitterrand di Parigi meglio non andarci d’inverno... Inaugurata nel 2013 da Malala, con i suoi 35mila metri quadrati è la più grande d’Europa È una delle biblioteche nazionali, ricca di volumi appartenenti alla cultura greca e orientale la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 40 LA DOMENICA Le storie Stanze segrete Le docce bollenti di Woody Allen, il caffè di Kierkegaard, il buio di Franzen, i sigari di Thomas Mann, le frittelle della Highsmith, l’isolamento di Mahler e Murakami Un libro svela routine, manie e idiosincrasie di scrittori, pittori, registi e filosofi: scoprendoli più abitudinari di un impiegato Capolavori in corso c’è del metodo in quella follia SIMONETTA FIORI enioe sregolatezza? Niente di più sbagliato. Il cliché romantico dell’artista incline all’accensione creativa solo nel caos è destinato a essere smentito da un libretto uscito in Gran Bretagna. Si intitola Daily Rituals (Picador), ma avrebbe dovuto chiamarsi Routines. Se c’è un tratto che accomuna i grandi talenti degli ultimi secoli — pittori, musicisti, romanzieri, registi, architetti, critici, filosofi e psicoanalisti — questo è proprio la ripetitività dei gesti quotidiani, l’alzataccia al mattino, la colazione sobria, le ore passate al tavolino, la vita sociale sapientemente calibrata. Lavoro, e poi lavoro, e ancora lavoro. Il genio nasce da qui, da una regolatezza che sconfina nell’ossessione, da una scorbutica ostinazione nel rispetto di orari e programmi di lavoro. Con qualche eccentricità, naturalmente. Se Stravinskij riposa la mente facendo una verticale, Beethoven non disdegna abluzioni gelide. Così Kierkegaard riesce a meditare sull’angoscia solo con una tazzina di caffè. E la testa di Benjamin Franklin funziona meglio dopo un «bagno d’aria», nella sua camera da letto: seduto a scrivere o a leggere, completamente nudo. Sì, stravaganze, piccoli slittamenti rispetto all’ordinarietà di vite regolate solo dalle esigenze della produzione intellettuale. «Dopotutto lavorare», commenta Flaubert, altro celebre secchione «è il modo migliore per ripararsi dalla vita». L’idea di Daily Rituals è venuta a Mason Currey, un newyorchese sveglio con problemi di concentrazione sul lavoro. Grazie a una sterminata documentazione raccolta in rete e in svariate biblioteche, è entrato nello studio di oltre centocinquanta geni. La morale? Non c’è. Se non che abitudine e creatività non sono affatto incompatibili, anzi è vero il contrario. L’autodisciplina ti protegge dagli agguati dell’umore. In qualche caso dalla depressione. L’incompatibilità è semmai con una normale vita sentimentale. Spesso infatti la monomaniacalità comporta solitudine, autismo del cuore. «Mi sento come un medico al pronto soccorso», dice Philip Roth, felice di vivere senza una moglie. «Con una differenza: sono io stesso l’emergenza di cui mi prendo cura». Quasi una conferma della saggia regola secondo cui i geni è meglio ammirarli nelle opere. Rigorosamente a distanza. G la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 41 Woody Allen Simone de Beauvoir Carl Jung Alice Munro ha sperimentato nel corso degli anni: anche i piccoli spostamenti provocano una ventata di energia mentale. Cambiare stanza, uscire per strada, affacciarsi in terrazza. Ma niente è più prezioso di una doccia bollente. I suoi film sono nati sotto uno scroscio d’acqua. n’esistenza ridotta all’essenziale, un po’ noiosa. Mattina: colazione, lavoro, pranzo con Sartre. Pomeriggio: lavoro e cena con Sartre, con riepilogo delle cose scritte e pensate in giornata. Il ritratto un po’ caricaturale arriva dal regista Claude Lanzmann, che fu per sette anni il suo amante. Forse non le ha mai perdonato l’ossessiva presenza del rivale. O quel comando imperioso con cui Simone, il primo mattino della loro convivenza, divise i rispettivi pensatoi: «Tu lavori a letto, io al mio tavolo». Poi non una parola fino al pranzo, naturalmente condiviso con Jean-Paul. Qualche volta Claude si univa a loro. egli anni Trenta, nel pieno di un’attività frenetica tra pazienti e seminari, trovava riparo in una torre di pietra a Bollingen, vicino al Lago di Zurigo. Niente luce né telefono, uno stile di vita molto primitivo. L’unico bagliore artificiale proveniva dalle lampade a olio, in una gran confusione di pentole, casseruole e salami. Qui scrisse alcuni suoi lavori importanti. «A Bollingen ero finalmente me stesso. Vivevo senza elettricità e curavo la cucina da solo. Questi gesti semplici mi rendevano semplice. E come è difficile essere semplici!». etteratura e fatiche domestiche non vanno d’accordo. Negli anni Cinquanta, dovendosi dividere tra i lavori di casa e la cura delle figlie, l’ultimo premio Nobel riusciva a scrivere solo nei ritagli di tempo, spesso il pomeriggio in camera da letto. Poi prese in affitto anche un piccolo ufficio sopra la drogheria. Ma il logorroico proprietario le impediva di concentrarsi. La danza delle ombre felicisarebbe arrivato molti anni dopo. L’ *** Martin Amis differenza del padre Kingsley, davanti alla pagina bianca non è mosso da sentimento di terrore. «La gente crede che appartenga al genere dello sgobbone. In realtà lavoro sì ogni giorno, ma soltanto poche ore. E se riesco a scrivere dalle undici all’una, mi posso ritenere soddisfatto». A *** Wystan Hugh Auden a routine, in un uomo intelligente, è segno di ambizione», scrisse nel 1958. Sveglia all’alba, caffè, un rapido passaggio sulle parole crociate, e poi avanti con il lavoro fino alle 11,30 sulle ali di una mente fulgida. Di notte, mai. «Perché solo gli Hitler della terra lavorano di notte». Tutto perfetto? Anche la normalità ha i suoi lati oscuri, considerando la dose quotidiana di anfetamine che Auden doveva ingoiare per mantenersi in forma. Routiniero anche nella “vita chimica”. U *** Umberto Eco tra i pochi che non segue una regola precisa, lavorando praticamente ogni momento. «Ma quando nuoto mi vengono le idee migliori. Soprattutto in mare». È «L *** Jane Austen ra capace di scrivere ovunque, nella casa di Chawton. Anche nel salotto, in compagnia della madre e delle sorelle, mai urtata dalle loro chiacchiere. Non ebbe mai una stanza tutta per sé, ma questo non le impedì di portare a termine capolavori come Orgoglio e Pregiudizio ed Emma. L’unica condizione richiesta è che non la coinvolgessero nelle cose di casa. «Mi è impossibile lavorare con la testa piena di carne di montone & dosi di rabarbaro». E *** Francis Bacon il classico esempio del bohémien disciplinato, in altre parole un ossimoro vivente. Disordinatissimo — basti guardare il suo atelier londinese. Dedito a ogni genere di eccessi. Ma nella pittura non perde un colpo. Sveglia alle prime luci del giorno e intenso lavoro fino a mezzogiorno. E i postumi della sbornia? «Mi piace dipingere anche dopo una sbronza. La mia mente crepita con energia e il pensiero si rischiara». È *** Jonathan Franzen a sua officina di lavoro assomiglia a una trincea. Non fu facile agli inizi, quando neosposo andò a vivere con la giovane moglie in un piccolissimo appartamento fuori Boston, faticosamente diviso tra le ambizioni letterarie di entrambi. Lui ebbe successo, lei no. E il matrimonio ebbe fine. Ma neppure dopo la grande fama il lavoro sarebbe stato semplice. Per scrivere Correzioni, dovette chiudersi nello studio di Harlem, con le imposte tirate e le luci spente. L’unica cosa accesa era lo schermo del computer. Gli ci vollero quattro anni e migliaia di pagine scartate per portare a termine il libro. «Mi sono detestato tutto il tempo». L *** Sigmund Freud a sua devozione alla psicoanalisi fu favorita dall’accudente moglie Martha, che provvedeva a ogni cosa, dalla scelta degli abiti al dentifricio spalmato sullo spazzolino. La celebre barba veniva rifinita ogni mattina da un solerte barbiere chiamato a casa. Alle otto l’inizio delle sedute analitiche, che si chiudevano a mezzogiorno. Il pasto principale veniva servito all’una, ma Freud non aveva gusti da grand gourmet, inclinando ai piatti della classe media come il bollito o il roast-beef. Mangiava con quieta concentrazione. Talvolta era talmente assorto nei suoi pensieri da risultare imbarazzante per gli ospiti. Poi usciva a spasso per Vienna, attraversando la Ringstrasse «con una velocità di marcia stupefacente», come annotò il figlio Martin. Chissà quante nevrosi da smaltire. L N *** Gustav Mahler e sinfonie ne restituiscono una vita interiore fiammeggiante, ma le sue abitudini nella villa sul lago a Maiernigg, in Carinzia, erano piuttosto noiose. Una vita «quasi disumana nella sua purezza», annotò la giovane e infelice moglie Alma. Sveglio all’alba, prima di comporre non sopportava la vista di umani. Così il povero cuoco, per portargli nel bosco la colazione senza essere visto, doveva imboccare sentieri scoscesi e solitari. E la moglie, per convincere i vicini a tenere i cani con la museruola, distribuiva per l’Opera biglietti gratis. Si può capire perché Alma perse la testa per Walter Gropius. Dolente e stupefatto, Mahler finì a consulto con Freud, che avrebbe poi commentato: «Era come scavare con un bastoncino in un edificio misterioso». L *** Thomas Mann n altro campione di routine, temuto e rispettato dai suoi cari. Dalle nove fino a mezzogiorno, lo studio era considerato un bunker inviolabile. Ai bambini era proibito far rumore. A mente ancora fresca, il grande romanziere si sforzava di buttare giù i suoi appunti, in una pianificazione meticolosa del lavoro. Tutto quello che non arrivava entro le dodici doveva essere rimandato al giorno successivo, perché il pomeriggio era dedicato ad attività meno impegnative. Anche il vizio del fumo era pignolescamente amministrato: non più di due sigari al giorno, e al massimo sette sigarette. U *** Joan Miró er lui una rigorosa routine significava un argine alla depressione, a quella vena malinconica che l’aveva afflitto da giovane, prima di scoprire i colori. Ma ai pennelli associava una vigorosa cura del fisico. A Parigi tirava di boxe, a Barcellona saltava con la corda e a Mont-roig alternava nuoto e corse sulla spiaggia. Detestava la vita mondana. «Merda! Odio le feste. Sono fiere mercantili. E la gente parla troppo». P *** *** *** Patricia Highsmith Toni Morrison on c’è vita al di fuori del lavoro, che è poi scavare nell’immaginazione». Eccoci davanti a un’altra workaholic, solitaria e misantropa come molti dei suoi personaggi. Nella scrittura procede come un panzer: non meno di quattro ore al giorno, e almeno duemila parole. Sdraiata a letto, in compagnia di Gauloises, portacenere, cerini, caffè caldo e frittelle dolci. Qualche volta ci scappa anche un drink robusto, «per arginare i soprassalti di energia». on ha mai scritto in modo regolare, ma l’avrebbe tanto desiderato. «Ho sempre avuto un lavoro dalle nove alle cinque. E potevo dedicarmi alla scrittura solo all’alba o nei weeek end». Oltre a essere stata impegnata per vent’anni alla Random House, Toni è stata una single mother. «Quando mi siedo a scrivere, non ho ripensamenti. Ho talmente tante altre cose da fare, che rimuginare è un lusso che non mi posso permettere». Saul Bellow «Q ualcuno mi ha definito un burocrate della letteratura, per la mia autodisciplina giudicata eccessiva». La scrittura era la sua vita. «Mi sveglio presto al mattino e lavoro tutto il giorno. Leggo di notte. Come Abe Lincoln». *** «N *** N *** L *** Haruki Murakami Q uando lavora ai suoi romanzi, si sveglia alle quattro e va a dormire non più tardi delle nove. Un’agenda ripetuta senza varianti. «Solo così riesco a raggiungere un più profondo stato mentale», ha dichiarato alla Paris Review. Mens sana in corpore sano. Per questo Murakami ha cambiato stile di vita: se prima era sedentario, dunque incline a pinguedine, ora vive in campagna, corre ogni giorno e ha smesso di fumare (la sua dose era di tre pacchetti al giorno). Non ha vita sociale. «Le mie uniche relazioni sono con i lettori». *** Oliver Sacks outiniero anche il celebre neurologo, ma come può esserlo un tipo come lui. In una giornata regolare, che comincia alle cinque del mattino e prosegue con una nuotata e due volte alla settimana con la visita dall’analista, è il pomeriggio che può accadere qualcosa d’imprevisto: un abbandono totale alla fantasia, pensieri e immagini che sfrecciano ovunque. «Se sono fortunato esco fuori da questo stato di alterazione con un’energia rinnovata e la mente limpida». Può anche capitare che Oliver parta per un viaggio creativo, fuori da ogni regola. «Posso scrivere anche trentasei ore di seguito, finché l’ispirazione non si esaurisce». R *** Voltaire oprattutto negli ultimi anni della sua vita, gli piaceva lavorare a letto. Sistemato tra comodi cuscini, leggeva e dettava i suoi appunti a una delle segretarie. La sera, verso le otto, raggiungeva la nipote rimasta vedova, Madame Denis, per lungo tempo sua amante, ma la giornata di studio continuava dopo cena. Secondo Jean-Louis Wagnière, il prediletto tra i segretari, poteva lavorare anche venti ore al giorno. Per Voltaire, una vita perfetta. S *** Frank Lloyd Wright on fu mai visto seduto al tavolo da disegno. Un po’ perché lavorava tra le 4 e le 7 del mattino; un po’ perché non buttava giù il progetto finché non lo maturava interamente nella sua testa. Per Falling Water, la casa sulla cascata, una delle più famose del Ventesimo secolo, cominciò a disegnare solo quando il committente telefonò per dirgli che tempo due ore sarebbe arrivato per la firma del contratto. Anche in questi frangenti, non appariva mai affannato. N © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 42 LA DOMENICA Spettacoli l’Oscar a una carriera straordinaria mantiene il profilo più basso possibile:“Non posso andare a ritirare il premio: sono occasioni in cui tocca commuoversi e a me scapperebbe da ridere” FOTO © LAURA SCIACOVELLI Taglia & cuci Per cinquant’anni ha vestito il grande cinema italiano. E ora che sta per ricevere MARIA PIA FUSCO U ROMA n piccolo soggiorno, due poltroncine, un tavolinetto d’appoggio, una libreria, una decina di ritratti disegnati alle pareti, una finestra sul Tevere. È qui che vive Piero Tosi, una casa semplice nel centro di Roma, vicino piazza Navona. Niente ricorda la sua magnifica carriera, il maestro che del costume ha fatto un’arte, che per cinquant’anni ha vestito il teatro e il cinema italiano più bello. Quello di Visconti, Pasolini, Monicelli, Bolognini, De Sica, Cavani, Zeffirelli. «Non c’è spazio, sono due camere e cucina, c’era roba ovunque, neanche un posto per sedermi. Mi sono liberato di tutto, il materiale fotografico è al Centro Sperimentale e il resto al Fondo Gramsci. Io non ho più bisogno di niente», dice sbrigativo, senza amarezza. Nessun rimpianto. L’ultimo film nel ’93, Storia di una capinera di Zeffirelli con cui dieci anni prima aveva curato i costumi di La Traviata, e poi una consulenza a Gianni Amelio per Le chiavi di casa. «Intorno mi sono spariti tutti, i miei registi, i miei amici, De Sica, Visconti, Fellini, Antonioni. Non ci sono più Bolognini e Tirelli, con loro ho diviso la casa quando sono venuto a Roma. È scomparso un mondo che era il mio, gli anni Cinquanta, vitali, rampanti, effervescenti. Ognuno ha il suo tempo, è finito il tempo del twist, l’ultimo ballo che ho ballato. E il cinema come lo facevo io oggi è démodé». Sarà fuori moda ma ha lasciato il segno se i membri dell’Academy, dopo cin- que candidature mancate, a marzo gli daranno l’Oscar alla carriera, insieme ad Angela Lansbury, Steve Martin e Angelina Jolie. Lui non ci sarà. «Detesto l’aereo, diventi un pacco. E mi guardi, sono una gelatina acciaccata. E poi: gente che piange, collassa, ringrazia madri, mogli, suocere, figli, parenti lontani. Non potrei, mi verrebbe troppo da ridere: sono un toscano. Ma sarebbe una bugia se dicessi che non mi fa piacere, è un riconoscimento talmente clamoroso, un segno di stima da parte di colleghi bravi, anche più bravi di me». Tosi è toscano di Sesto Fiorentino, nato il 10 aprile 1927. I segni del tempo ci sono, cammina a fatica, accudito da un paio di giovani che si alternano, occhiali scuri proteggono gli occhi indeboliti, ha bisogno di pause per riprendere fiato, ma i lineamenti del volto incorniciato d’argento restano nobili, belli, la memoria è lucida, la mente brillante. E se ha bisogno di energia la recupera miracolosamente, lo sanno bene gli allievi del Centro Sperimentale dove insegna. «Mi piace il contatto con i giovani, a volte li sgrido, voglio che imparino a curare i dettagli, sono essenziali. Però mi vogliono bene. Del resto un vecchio muore di noia se non fa niente». La noia la sconfigge anche continuando a frequentare la gloriosa Sartoria Tirelli. È lì che i suoi disegni sono diventati abiti, costumi, ornamenti. Aspirante pittore, allievo di Ottone Rosai, cerca le radici della passione per lo spettacolo ripensando a quand’era bambino: «Il cinema era un lusso proibito. Durante la guerra fummo sfollati in campagna, prendevo il tram per andare a scuola a Firenze. Nel tratto a piedi che facevo al ritorno da scuola un giorno vidi per terra una striscetta lucida. La raccolsi, era un frammento di pellicola e guardandola attraverso la luce ci vidi ombre strane, misteriose, qualcosa di magico. Solo dopo ho ricostruito: qualche mese prima avevano girato in quella zona un film con Miriam di San Servolo. Quel frammento mi ossessionò a lungo». La passione vera scoppierà poi a Roma, nel Dopoguerra. «Eravamo avidi di cinema, frequentavo i cineclub, ho visto tutto il possibile». Bellissimafu il suo primo film, la sua prima volta con Visconti. «Era un uomo che esigeva il massimo dai suoi collaboratori, e che non risparmiava rimbrotti agli attori che pure adorava. Ma si metteva in lizza anche lui, e dava grande sicurezza a tutti perché sapeva con chiarezza quello che voleva». Il primo giorno sul set Tosi vide Anna Magnani con un vestito che non gli piaceva, troppo stirato. «Entrai in un palazzo e cominciai a bussare alle porte chiedendo alle donne una vestaglietta, un vestito qualunque, un abito che avesse una vita addosso. “È per Anna Magnani!”, dicevo, e tutti erano felici di collaborare». Tutt’altra cosa l’impegno per Il Gattopardo. «Ero aiutato da attori straordinari, Delon indossava il costume e subito era il personaggio, Burt Lancaster diventava il Principe perché imitava Visconti, modello perfetto. E non poteva esserci Angelica migliore di Claudia Cardinale. Per lei lavorai su diversi costumi: uno azzurrino, uno era il risultato di una stratificazione di colori che dava un color medusa, il bianco per il ballo, con garza di Dior per l’effetto trasparente e luccichio dorato. Le decorazioni di organza e nastri sulla gonna e la scollatura le trovai, autentiche, al mercato delle pulci di Parigi». Con Visconti Tosi ha reso indimenticabile la contessa interpretata da Alida Valli in Senso, ha studiato il re e i nobili della Baviera in Ludwig, ha vestito i personaggi di Morte a Venezia e, in teatro, ha firmato le scene e i costumi di un insuperabile Macbeth, diretto da Thomas Schippers. Non la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 43 MORTE A VENEZIA Ancora costumista per Luchino Visconti in Morte a Venezia (1971) dal romanzo di Thomas Mann: qui sotto, il bozzetto dell’abito del giovane Tadzio (nella foto con Silvana Mangano all’hotel des Bains). In basso, Dirk Bogarde in un’altra scena TANCREDI E ANGELICA I bozzetti per gli abiti di Angelica (Claudia Cardinale) e Tancredi (Alain Delon) ne Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963): “Delon indossava l’abito e subito era il personaggio Per Angelica lavorai su diversi costumi” racconta Tosi, tra cui “il bianco per il ballo” (nella foto al centro una scena) A sinistra, il bozzetto di un abito di Senso (1954) sempre di Visconti e Piero Tosi (87 anni) tra le sue creazioni L’ARCHIVIO I materiali pubblicati sono custoditi dalla Fondazione Gramsci, archivio Piero Tosi LUDWIG Sopra, appunti per la realizzazione dei costumi di Ludwig (1973) di Visconti A destra, il bozzetto per l’abito di Romy Schneider nei panni dell’imperatrice Elisabetta d’Austria e una scena del film A sinistra, il bozzetto dell’abito di Michel Serrault ne Il vizietto (1978) di Edouard Molinaro MEDEA A sinistra, bozzetto per l’abito di Medea (1969) di Pier Paolo Pasolini interpretata da Maria Callas che fosse semplice vestire i poveri: «Bisogna cominciare dalla materia, stingerla, lavorarla, ridurla vissuta, fare il vestito e dargli ancora vita. Quando ho cominciato io, nei magazzini c’erano scomparti con scritto “popolo” ed era tutta roba uguale, una foggia che andava bene per Ottocento e Novecento, per le donne fiorellini e pallini, grigio sporcato per gli uomini. Fu una lotta convincere i proprietari a partire dalla materia e a costringere le sarte a fare il lavoro in più». Poveri erano I compagni di Monicelli — «L’ho adorato, toscano come me, arguto, simpatico, mai stato vecchio» — operai di una fabbrica che si battono per l’orario guidati da un professore socialista, Mastroianni: «Marcello era l’ideale per un costumista, persona docile, sempre di buon umore, pronto a tutto». Malgrado le offerte e le sollecitazioni Piero Tosi non ha mai sentito il richiamo di Hollywood, e non soltanto perché detesta gli aerei. Dice: «Era tanto bello il cinema che facevamo in Italia, perché farlo altrove?». © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 44 LA DOMENICA Next Tanta scienza Miliardi di dischi di vetro in orbita per proteggere la Terra dai raggi solari, fondali oceanici in grado di assorbire anidride carbonica, particelle riflettenti da spruzzare nell’aria, lenzuola sui deserti e nuvole imbiancate col sale: sembrano visioni, ma sono esperimenti veri per combattere le emissioni di CO2. La sfida è realizzarli su larga scala 7 I MAGNIFICI GLOSSARIO Riscaldamento globale Il surriscaldamento climatico è conseguenza dell’inquinamento Può generare reazioni a catena stravolgendo clima ed ecosistemi naturali Anidride carbonica L’aumentata concentrazione di questo gas nell’atmosfera è una delle principali cause del global warming Geo-engineering L’insieme delle tecniche e delle tecnologie che studiano interventi su larga scala per ridurre gli effetti dell’inquinamento Buco nell’ozono Uno degli effetti dell’inquinamento è la riduzione dello strato atmosferico di ozono, che provoca il maggiore impatto dei raggi solari Fitoplancton Insieme di organismi vegetali microscopici che partecipano alla costruzione del plancton in acque dolci o marine ALESSANDRO LONGO n filtro solare cosmico, dalle ambizioni smisurate: invece di limitarsi a proteggere la nostra pelle può schermare l’intero pianeta dai raggi. Oppure fondali oceanici diventati fertili grazie a una gigantesca operazione di bio-ingegneria: per assorbire grandi quantità di emissioni inquinanti, un po’ come fanno già ora gli alberi. Consideriamolo il piano B per salvare il pianeta dal disastro ambientale: usare le nuove tecnologie per interventi su larga scala, nei prossimi dieci o vent’anni, e così ridurre gli effetti dell’inquinamento. Gli esperti chiamano queste tecniche geo-engineering, mentre nelle principali università del mondo si stanno intensificando gli studi. Lo spiega chiaramente Rob Wood, docente di scienze atmosferiche all’università di Washington, che a dicembre ha pubblicato un ampio studio sulla rivista scientifica Climate Change: «Negli ultimi cinque anni, il geo-engineering è passato dal regno della ciarlataneria a essere oggetto di ricerca scientifica». Tra i sostenitori principali di questa filosofia di attacco all’inquinamento c’è l’università di Oxford, che ha fatto scuola nel 2009 presentando i principi sul geo-engineering. L’idea di fondo è che l’umanità, per ostacoli politici o tecnici, potrebbe non essere in grado di rispettare i piani per ridurre le emissioni. Non solo: magari potremmo anche riuscirci, ma per poi scoprire che non è stato sufficiente per salvarci dal disastro. C’è un’opinione condivisa da molti scienziati, a quanto riporta l’università di Oxford nel proprio manifesto: se riuscissimo a mantenere sui livelli attuali la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera avremmo solo il 50 per cento di possibilità di evitare un aumento di due gradi centigradi delle temperature medie. E questa è la soglia che si associa al rischio di cambi climatici disastrosi. «C’è da aver paura. Ecco perché dovremmo almeno valutare tutte le opzioni. Scoprire se il geo-engineering è fattibile in caso di un’emergenza climatica», dice Wood. Ma proprio perché gli scienziati cominciano solo adesso a prendere sul serio questo piano alternativo, non hanno ancora capito quale si rivelerà l’approccio migliore al problema. Studiano quindi numerose soluzioni, che si possono riassumere in due categorie di interventi su larga scala: quelli per ridurre l’effetto dei raggi solari sull’atmosfera (esaltato, com’è noto, dal buco nell’ozono prodotto dall’inquinamento) oppure quelli per catturare le emis- U BIOMASSE Produrre energia bruciando biomasse (legna, scarti agricoli) e poi catturare CO2 prodotta usando impianti già utilizzati per le centrali a carbone. Una variante è interrare i residui vegetali e compostarli: è il cosiddetto biochar o carbone vegetale ■ Limite: l’efficienza energetica è inferiore rispetto ad altri sistemi di produzione Il pianeta salvato dai geo-ingegneri sioni di anidride carbonica. Un’idea è appunto quella di costruire un’enorme rete di dischi di vetro (si ipotizza sedicimila miliardi) e mandarli in orbita con sistemi elettromagnetici. Tra gli altri, ci stanno lavorando all’università dell’Arizona con un finanziamento della Nasa. Per ora c’è solo un modello sperimentale, da cui una prima stima dei costi per fare questo filtro solare gigante: cinquemila miliardi di dollari. Analoga è l’idea di spruzzare particelle riflettenti in atmosfera, tramite aerei o con speciali macchinari: è partita dallo scienziato Paul Crutzen (premio Nobel per gli studi sul buco dell’ozono). Il problema ovviamente è realizzarla su larga scala. Idem per l’idea di riflettere i raggi solari sfruttando le proprietà del colore bianco. Scienziati dell’università di Edimburgo e del Colorado ipotizzano di cospargere le nuvole di sale marino per renderle più riflettenti. Altri invece propongono politiche edilizie per colorare di bianco tutti i tetti degli edifici (avviene in California) o di stendere superfici bianche plastiche nei deserti. L’idea di catturare l’anidride carbonica è già realizzata, invece, da alcuni progetti sperimentali. In Islanda, il progetto europeo CarbFix interviene sulle rocce basaltiche sottomarine per trasformarle in spugne assorbenti dell’anidride carbonica. Questa è una proprietà anche del fitoplancton, di qui l’idea di diffonderlo fertilizzando gli oceani con solfato di ferro. L’ha fatto l’imprenditore Russ George, su piccola scala in Nord Pacifico, nel 2012, e ha scatenato le polemiche di molti scienziati, tanto che il governo canadese ha aperto un’inchiesta. Il problema è che «molti di questi interventi hanno effetti ancora sconosciuti, e potenzialmente dannosi, sugli equilibri climatici o sugli ecosistemi», dice Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club e tra i principali esperti di energie rinnovabili in Europa. Per esempio, secondo alcuni scienziati, l’uso di particelle riflettenti atmosferiche potrebbe produrre siccità in certe zone del pianeta. «Ecco perché bisognerebbe puntare soprattutto sulla riduzione delle emissioni, sulle energie rinnovabili», continua Silvestrini. Il geo-engineering mostra insomma analogie con certi farmaci: vuole curare i sintomi, di questo pianeta malato, non riuscendo a intervenire sulle cause; ma ha effetti collaterali inquietanti. «Altri interventi non dovrebbero essere pericolosi, ma hanno costi elevati che li rendono anti-economici — continua Silvestrini — Tra questi, spicca l’idea di bruciare le biomasse per produrre energia e poi usare apparati di cattura dell’anidride carbonica prodotta, quindi di immagazzinarla in strati geologici profondi». Viene fatto solo su piccola scala, perché questo processo aumenta i costi di produzione dell’energia. Di conseguenza, il geo-engineering potrà essere forse il nostro asso nella manica del futuro: «Da tenere in serbo contro il rischio imminente di un disastro climatico, se dovessero fallire le politiche ambientaliste tradizionali», dice Silvestrini. © RIPRODUZIONE RISERVATA ROCCE SOTTOMARINE Stoccaggio di CO2 nelle rocce basaltiche sottomarine. Si inietta acqua salmastra caricata con CO2 in zone bersaglio: le rocce catturano il biossido di carbonio riducendo nel lungo periodo l’effetto serra. È stato sperimentato in Islanda con il progetto CarbFix ■ Limite: resta da provare la fattibilità di questo metodo su larga scala la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 45 OCEANI FERTILI Per filtrare i raggi solari si pensa di costruire un’enorme rete di dischi di vetro (dovrebbero bastarne sedicimila miliardi) e mandarli in orbita con sistemi elettromagnetici Per stimolare il fitoplancton e innescare un processo che possa assorbire l’anidride carbonica in eccesso bisognerebbe fertilizzare gli oceani con solfato di ferro Una prima sperimentazione è stata fatta nell’oceano Pacifico settentrionale ■ Limite: costi e rischi causati da collisioni con asteroidi ■ Limite: l’impatto sulla vita marina è ancora sconosciuto ALGHE ASSORBENTI Coltivazioni di alghe in grado di assorbire l’anidride carbonica, ma anche il nitrogeno L’idea ha il vantaggio aggiuntivo di fornire un prodotto alimentare. Un’iniziativa sperimentale è dell’università del Connecticut sul fiume Bronx River di New York ■ Limite: ancora da studiare l’efficacia su larga scala TUTTO BIANCO Contro gli effetti del riscaldamento globale uno degli studi è l’uso del colore bianco per riflettere i raggi solari e rispedirli nello spazio: si ipotizza di cospargere le nuvole di sale marino, verniciare quanto più possibile di bianco gli edifici e stendere grandi superfici plastiche bianche su terreni e deserti ■ Limite: va sperimentato su larga scala PARTICELLE RIFLETTENTI Particelle basate su solfati da spruzzare con aerei o con speciali macchinari nella stratosfera per ridurre l’impatto dei raggi solari. L’idea è partita da Paul Crutzen (premio Nobel per gli studi sul buco dell’ozono) ■ Limiti: possibili effetti collaterali, per esempio siccità INFOGRAFICA MARCO GIANNINI FILTRI SOLARI la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 46 LA DOMENICA I sapori Forti Matematicamente perfetto, candido come la neve, talvolta viola sfacciato, vitaminico più di un agrume Una volta vinto l’odore sulfureo è il migliore alleato per affrontare il freddo Bianco Sodo e tondeggiante, è circondato da una corona di foglie che ricoprono il fiore durante lo sviluppo Il colore candido ne testimonia la freschezza È bello come un fiore il campione d’inverno LICIA GRANELLO evoluzione è tutto. La pesca, un tempo, era una mandorla amara; il cavolfiore non è che un cavolo che ha frequentato l’università», scriveva Mark Twain. In effetti, nessun’altra brassicacea può competere in eleganza e bellezza. Perché il caulis floris, campione dell’orto d’inverno, sa essere candido come la neve o di un viola sfacciato, chiuso a celare il segreto del fiore o aperto a corolla, come un girasole tutto da mangiare. Altro che università. Il cavolfiore è così seducentemente perfetto da essere diventato un vero e proprio schema matematico, grazie allo scienziato franco-polacco Benoit Mandelbrot. Fu lui a scegliere il romanesco per esemplificare la scoperta dei frattali, figure geometriche che ripetono in se stessi una specifica forma all’infinito, a somiglianza del fiore principale. Come il cavolfiore, appunto. Era il 1979, e la geometria dei frattali rivoluzionò per sempre i modelli matematici esistenti. Un punto di non ritorno totalmente ignorato nelle cucine del pianeta, dove più che la gloria della scienza e il primato dell’estetica, possono pentole e odori. Questione di minuti. Pare ne bastino quindici perché i composti di zolfo, responsabili dell’odore sulfureo del cavolfiore in cottura, scompaiano. Per resistere in quell’interminabile quarto d’ora, nell’acqua di bollitura si aggiunge di tutto: pane intriso d’aceto o di limone, qualche cucchiaio di latte o di farina, una tazzina d’aceto sistemata sul coperchio o un pentolino con acqua e bacche di ginepro (o il sempiterno aceto) a bollire in contemporanea. Un piccolo sacrificio ben ripagato, visto che non esiste miglior verdura per affrontare i giorni più freddi dell’anno, con annessi picchi di influenza e affini. Tutto merito di vitamina C e sali minerali presenti in dosi massicce, tanto abbondanti da trasformare i cavolfiori in eroi vegetali nella lotta allo scorbuto, patologia da carenza vitaminica che falcidiava gli equipaggi dei primi viaggi transoceanici. E se è vero che in quanto a vitamine anche gli agrumi non scherzano, a fare la differenza in favore delle brassicacee furono la maggiore conservabilità e la facilità di reperimento, soprattutto lungo le rotte nordiche. Del resto, la coltivazione dei cavolfiori ha dimensioni planetarie, anche se il freddo contribuisce in maniera decisiva alla formazione di un fiore sodo e ricco. L’Italia, leader europeo e terzo produttore mondiale dopo Cina e India, brilla per l’offerta di biologico, tanto più importante in un ortaggio che tende a fissare nei propri tessuti tutti i minerali, compresi i metalli pesanti, pessimi per la salute. Ben un terzo delle quasi cinquecentomila tonnellate che finiscono ogni anno sui mercati arriva dalla Puglia, seguita da Campania e Veneto, regioni dove le ricette dedicate occupano interi capitoli dei ricettari. Così, tra le ultime tossine natalizie da smaltire e i raffreddori da scansare, scegliete i cavolfiori come compagni di tavola. E se proprio ne detestate l’odore mefistofelico, mangiateli crudi, tagliati sottili in insalata o tuffando le cimette in una maionese alleggerita con lo yogurt. Le vitamine, che detestano il calore, ve ne saranno grate, alzando a mille il vostro sistema immunitario. «L’ © RIPRODUZIONE RISERVATA Cavolo! Che Romanesco Purple Verde Sembra un gioiello, la brassica ricoperta di rosette disposte a spirale, di un verde chiaro brillante Consistenza più tenera e gusto delicato L’ultimo nato arriva dalla Sicilia e incanta per la tonalità rosso-violacea, che segnala la presenza di antociani, potenti antiossidanti Detto anche cimone, ha foglie meno lunghe e fitte del bianco, che inducono la produzione di clorofilla nel fiore Può pesare oltre un chilo la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 47 Gli indirizzi DOVE DORMIRE DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE LE STANZE DI CORTEINFIORE Via Ognissanti 18 Trani Tel. 345-9031003 Doppia da 100 euro, colazione inclusa LE LAMPARE AL FORTINO Via Tiepolo (Fortino Sant’Antuono) Trani Tel. 0883-480308 Chiuso martedì, menù da 50 euro DELIZIE PUGLIESI Via Mario Pagano 174 Trani Tel. 0883-887599 BIOMASSERIA LAMA DI LUNA Loc. Lama di Luna Montegrosso (Andria) Tel. 0883-569505 Doppia da 150 euro, colazione inclusa ANTICHI SAPORI P.zza Sant’Isidoro 8 Montegrosso (Andria) Tel. 0883-569529 Chiuso sabato sera e dom, menù da 35 euro VILLA CASADANGELO Contrada Casadangelo Andria Tel. 0883-3564679 Doppia da 110 euro, colazione inclusa ANTICA CUCINA 1983 Piazza Marina 4 Barletta Tel. 0883-521718 Chiuso lunedì, menù da 30 euro TABERNA CIBARIA Via Napoli 124 Andria Tel. 0883-883907 OLEIFICIO GALANTINO Via Corato Vecchia 2 Bisceglie Tel. 080-3921320 All’uso di Romagna Gratinato Soufflè Nella ricetta dell’Artusi, soffritto di aglio e prezzemolo, cimette lavate e poco sgrondate, poi concentrato di pomodoro diluito con acqua calda Cimette bollite 5 minuti, poi spadellate con aglio e peperoncino. Dieci minuti in forno con besciamella, Parmigiano e pangrattato. Sotto il grill per dorare Cimette bollite, in purea con Parmigiano, noce moscata, quattro tuorli e i bianchi a neve. In una pirofila unta, spolverata di pangrattato 20 minuti a 200° Sulla strada La pentola magica MARIO DESIATI uando finiscono le vacanze di Natale il paese si svuota, i miei coetanei tornano tutti a nord. C’è una grande malinconia nelle cose che tornano alla normalità, cambiano gli odori del centro storico; i giorni natalizi c’è stato profumo di carne alla brace, pasta al forno, soprattutto di focaccia e origano cotta nel forno a legna. Dopo le feste, l’odore di focaccia e sugo è sostituito da uno più pungente, quando si diffonde nell’aria somiglia alle esalazioni dei fanghi termali, ma che in prossimità della cottura, posando le narici sulla pentola, ha la violenza di un fendente. L’odore di cavolo bollito. Per molti è considerato un antidoto alle indigestioni. Addirittura, con l’acqua del cavolo bollito, le mejere della tradizione stregonesca martinese preparavano una pozione che serviva a scacciare gli spettri maligni. E probabilmente è la ragione che lega il cavolo alla sua misteriosa fama di sostanza magica. Nell’accezione popolare resta sempre un piatto povero, abbinato a un’idea di frugalità e nel caso specifico l’alimento con cui proteggersi dall’inverno o fare un incantesimo. Un noto guascone di Martina Franca chiamato Peracotta, quando la madre lo spediva dalla nonna con le verze bollite a ridosso dei giorni natalizi, nel percorso si faceva avvicinare dai curiosi affinché gli chiedessero cosa contenesse il recipiente; lui cincischiava, che no, non poteva far disperdere un solo atomo della fragranza custodita nella pentola. «Dunque sono pettole!» s’impicciavano, pensando alle profumate polpette di pasta lievitate che si friggono a Natale. E quando mettevano il naso sull’orlo della pentola, Peracotta la scoperchiava colpendoli con la letale zaffata della verza bollita: non è questo anche un incantesimo? Dell’autore è in libreria Il libro dell’amore proibito, Mondadori, 2013 ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA Q © RIPRODUZIONE RISERVATA LA RICETTA Crema Insalata di rinforzo Frittelle Soffritto leggerissimo di cipolla e burro, cavolfiore a fettine, poi latte a coprire Dopo 20 minuti, frullare. A piacere, Parmigiano, noce moscata, pepe Nella tradizione napoletana, cimette bollite sode, fatte raffreddare, condite con capperi, acciughe, olive, sottaceti, peperoni, olio, aceto e sale Pastella di farina, latte, tuorlo più bianco a neve, in cui immergere le cimette cotte a vapore e asciugate Frittura in extravergine ligure o di lago Ingredienti Cristina Bowerman dirige la cucina di “Glass” a Roma, coniugando tradizione e modernità, come nella ricetta ideata per i lettori di Repubblica 18 tuorli d’uovo 500 g. di farina per sfoglia 4 g. di colla di pesce,1 uovo intero 500 g. di cavolfiore romanesco 50 g. di Pecorino romano 60 g. di bottarga di muggine qualche filetto di alici di Cetara 100 g. di pane, 2 spicchi d’aglio foglioline di mentuccia romana 1/2 bicchiere di vino bianco Impastare farina, tuorli e un pizzico di sale, lavorando per 10’ e lasciando poi riposare per due ore per avere un impasto umido e morbido. Capare le cimette del romanesco. Arrostire in forno le più belle e piccole. Sbollentare le restanti in acqua salata e ripassarle in olio, aglio e un pizzico di peperoncino. Aggiungere un’alice per insaporirle ancora di più. Frullare le cimette con un mestolino di brodo in cui è stata sciolta la colla di pesce, l’uovo e il pecorino. Mettete in sac à poche e raffreddare. Stendere la sfoglia e riempire i ravioli. Le forme migliori sono quelle che possono essere mangiate in un solo boccone. Coprire e mettere in frigo con una spolverata di semola sul fondo della teglia. Spadellare aglio, olio, mezza alicetta e bottarga di muggine. Sfumare col vino bianco e aggiungere un mestolo di brodo di pesce Friggere il pane pestato in briciole. Cucinare i raviolini e mantecarli nella padella, rifinendo con zest di limone, bottarga, pane fritto e foglioline di mentuccia. Decorare con le cimette arrostite ✃ Raviolini di romanesco e bottarga la Repubblica DOMENICA 12 GENNAIO 2014 ■ 48 LA DOMENICA L’incontro Nonsense Da piccolo voleva fare il cantante lirico ma cantava malissimo. Avrebbe voluto farsi prete, ma non sapeva il latino Alla fine si è diplomato in agraria e ha fatto il comico (Drive in, Zelig, Fazio, Il Foglio) inventandosi vite surreali e politicamente scorrette Maurizio Milani “Ti dico: la satira non esiste. Esiste quello che fa il cretino per far innamorare le impiegate della sua banca” aurizio Milani passa e va, ha un’idiosincrasia per gli appuntamenti, se sei fortunato lo incroci mentre sta scivolando via. Viaggia poco, «anche perché costa» e non usa le mail, è un revisionista della comunicazione nostalgico di posta e fax. Scrive a mano, parole larghe e sghembe. È un comico di strada e dei comici possiede l’infelicità. È uno scrittore perché ha scritto qualche libro, e chi non l’ha fatto?, l’ultimo si intitola Uomini che piangono per nientee, dice, «non va mica tanto bene». Il libro, non l’attitudine al pianto. È un inventore di vite. Surreali, irriverenti, politicamente scorrette, sporche, storte, incompiute, in bilico sulla realtà. Ne prenderemmo in prestito qualcuna se avessimo il coraggio di uscire dai nostri cieli grigi: il falso nomade, il suonatore di narici di cani, il capo dei servizi segreti dei masai, l’uomo bauxite, il capitano di baleniere, il grande obeso, il custode di pala eolica. Sopra tutte c’è la sua: Innamorato fisso, che poi è anche il titolo della rubrica quotidiana sul Foglio. «Avevo fatto un’intervista alla Radio Svizzera, la giornalista era Maria Rosa Mancuso. Le ho fatto credere di essere innamorato di lei, che poi è vero. La Mancuso lo ha detto a Luigi Manconi, Manconi l’ha detto a mio zio Adriano Galliani, poi ho perso il filo dei contatti. Ho iniziato la rubrica il primo agosto 2006. Guadagno puliti 700 euro al mese. Tante volte negli ultimi tempi gli mando dei pezzi fatti anni fa». Ci siamo parlati, scritti — rigorosamente attraverso Poste Italiane — telefonati e quando si è trattato di riordinare le idee le domande sono diventate oggetti estranei precipitati nel suo geniale hellzapoppin. Tanto valeva farne a meno. «La prima cosa che ho fatto è stata cambiarmi il nome: da Carlo Barcellesi a Maurizio Milani. Facendo il cretino nei locali notturni a Milano mi dispiaceva usare il cognome vero, avrei coinvolto i parenti tutti laureati. Da bambino volevo fare il cantante lirico, però non sapevo a chi chiedere. Andai a suonare il citofono al teatro Regio di Parma. dalla Rai e da Fabio Fazio. Direi che ho tradito io loro. Mi spiego, mi sono innamorato di un’impiegata della redazione. Lei mi ricambiava sì e no. Come pegno d’amore le ho detto: faccio il pentito del cabaret. Comunque un po’ di spazio in più a Che tempo che fa me lo potevano dare. Invece solo due minutini nell’anteprima. Adesso vedi che nell’anteprima lasciano venti minuti all’astrofisica, bellissima, per parlare di pulsar e doppie pulsar. Volevo giocare anch’io un po’ a pallone. Anche se il pallone era loro. Sono l’unico comico fallito di Zelig. Perché? Semplice, perché non facevo ridere. È chiaro che poi come scusa uno dice: non lavoro perché non sono comunista. Rispondeva Zelig: certo, bisogna essere comunista, però anche un po’ far ridere. Rispondevo io: e se uno fa ridere e non è comunista? Rispondeva Zelig: torni quand’è comunista. Vabbè, sono un piangina. Mi sono sempre lamentato di tutto. Dall’anidride carbonica al taglio delle foreste amazzoniche al fatto che al Polo Nord ci sono sempre meno squali balena a causa del global warming. Avrei fatto meglio a farmi prete. Come ragazzo ho iniziato ad andare a prete a dieci anni. Adesso non sono ancora riuscito a dare tutti gli esami. La vocazione ce l’ho, per cui chiederò alla Con- Quando ho iniziato per prima cosa ho cambiato cognome: non volevo far fare brutta figura ai miei FOTO CONTRASTO M CODOGNO (Lodi) Era il 1973. Il custode disse che per cantare l’opera bisognava essere iscritti a un sindacato. A quel punto mi sono iscritto. Però non è bastato, infatti cantavo non male ma malissimo. Ero il bambino che cantava peggio di tutta la provincia di Milano. Cercai di andare a Bravo Bravissimo, sagra dei bambini prodigio in tv. Anche qui fui avviato alla scuola di panetteria. Ho fatto fino alla Maturità, conseguita nel 1981 all’Istituto tecnico agrario di Codogno: 38 sessantesimi. La terza media l’ho fatta serale alla Camera del lavoro di Piacenza. Le elementari, dopo essere stato bocciato diverse volte, le ho finite alle scuole differenziali. In classe con me alle elementari avevo un compagno che aveva dei malori, saltava per terra in aula e si vantava di essere sterile. Le bambine si innamoravano di lui e lo chiedevano in sposo. I professori erano tutti interisti. In chimica avevo Renato Mannheimer... poi l’ho rivisto a fare i sondaggi a Porta a Porta. Sono stato contento. La prima volta che mi sono baciato è stato allo Zelig nel 1986. Lei era poverissima. Ci siamo visti solo una volta. Ieri l’ho chiamata per dirle: Paola, sono ancora innamorato di te. Lei mi ha risposto: benissimo, poi ti faccio sapere con calma. Anche da soli è impossibile annoiarsi dove abito. Abbiamo 150 chilometri di piste ciclabili per andare in bici a Piacenza e Cremona. In estate siamo vicinissimi alle valli del Trebbia e del Nure, i due torrenti più belli d’Europa. A Codogno c’è il piatto più tipico della Lombardia, la Raspadüra, c’è dentro il grana e un sacco d’altra roba. Ho esordito a un programma televisivo di Canale 5, era l’estate del 1987. Il programma si chiamava Tu come noi, era condotto da Pippo Baudo. Nel caso, è inutile che cerchi negli archivi anche perché abbiamo fatto il provino in 180mila e ne hanno presi due. Io non ero tra quelli, giustamente... non facendo ridere. Sono un ragazzo che non ha una sua personalità. Per cui faccio tutto quello che vedo in tv. Questo fino a che gli altri, il Pd, non avranno capito che è la televisione che fa la differenza. Adesso in tv vedo molto Lilli Gruber. Penso di votarla se entra in Forza Italia. Sì, sono stato filo-Berlusconi. Scusami, ma tu hai mai visto un regime i cui oppositori sono diventati ricchi durante il regime? Non come esuli all’estero. No, sono diventati ricchi stando in patria. E prima del regime erano poveri. Io che ero favorevole al regime sono rimasto povero. Però sono passati vent’anni, a questo punto mi sono convertito, voto Italia dei Valori. Mi sono convinto dopo aver visto una puntata di Report. Non sono stato tradito dalla sinistra, ferenza episcopale di fare una sanatoria. Tutti gli alunni dei seminari che sono stati poco bravi a scuola possono diventare buoni sacerdoti. Voglio essere ordinato prete anche se non so il latino. A parte gli scherzi, sono cattolico praticante. Insomma, così e così. Sono molto devoto a Santa Francesca Cabrini e a San Giovanni Bosco. Seguo con particolare interesse le vicende di Medjugorje e quando sono stato in difficoltà l’ascolto di Radio Maria mi è stato di tanto conforto. Non sono sposato e non ho figli. Non mi sono mai sposato perché ho sempre la speranza di entrare nei quadri regionali della Dc. Vorrei sposare l’impiegata che è in redazione a Che tempo che fa, ma lei non vuole. Dice che ragiono da deficiente anche quando scrivo lettere d’amore a Marina Abramovic. Vivo in casa da solo con il gatto, anzi la gatta. Ha ventitré anni ma ne dimostra diciannove. La satira non esiste. Esiste chi fa il cretino per far innamorare le impiegate della sua banca. Loro sanno che comunque sei un imbecille e non ti vogliono come moroso. Fanno bene. Come falso nomade mi piace bere davanti al Comune di Varese e chiedere se posso essere assunto come educatore e fare i corsi di teatro ai grandi obesi con i fondi comunitari. Non ho hobby. Di professione faccio il ruffiano senza scopo di lucro. Mi piace. L’ho sempre fatto anche sul posto di lavoro, andavo a fare la spia al padrone. Scrivo libri, ne ho letto persino qualcuno. I Promessi Sposi, Come trattare gli altri e farseli amici di Dale Carnegie, Il Settimo papiro di Wilbur Smith, sì, questo è un libro che mi ha formato molto. Ti insegna come sbarrare il fiume Zambesi senza chiedere il permesso alle autorità che il permesso non te lo danno fisso. Tanti si chiedono: ma perché sbarrare il fiume Zambesi? La risposta è: per fare un dispetto a Carlin Petrini e Greenpeace. Leggo Clive Cussler, sempre lo stesso libro: Tempesta al Polo. Che poi sono tutte balle, i ghiacciai sono più belli di prima. Sono pieno di desideri, altroché. Spero che non chiudano l’ospedale di Codogno. Spero che diventiamo gli Stati Uniti d’Europa con presidente Gabriele Albertini, già sindaco di Milano. È l’unico politico che sul tram tutti ne parlano bene. Per quanto riguarda la legge elettorale sono favorevole al doppio turno alla Boscimani. Il candidato che al primo turno non raggiunge il 50 per cento viene arrestato e con lui vengono mandati al confino tutti quelli del suo comitato elettorale. Al secondo turno chi viene al seggio per chiedere: scusi, si può votare per il ballottaggio? viene ar- restato. Alla fine i votanti passano dall’85 per cento degli aventi diritto al 2. Questi vengono assunti come figuranti nel pubblico dei talk show con un compenso di 750 euro al mese. Sono contento che è tornata la mia amata Dc, speriamo mi dia una casa popolare senza averne diritto, produco una documentazione falsa. Nella professione ho molti amici anche se ho il vizio di chiedere soldi in prestito a tutti. Sono amico con Antonio Cornacchione a cui devo 36mila euro, con Gianni Fantoni a cui devo 130mila euro e con il dj Albertino a cui devo 500mila euro. Dimenticavo Paolo Rossi e Bebo Storti, dai quali ho imparato a stare sul palco, infatti non ci sto mai. Anche Gian Piero Solari e Gino e Michele e Giancarlo dello Zelig a cui devo 800mila euro. Non sono povero, ma solo perché i miei genitori qualcosa mi hanno lasciato. Siamo sui 200 milioni di euro. Il mio principale rimpianto è che ho fatto domanda alla Nasa ma non sono stato preso. Da lì mi è venuta la depressione, che poi non è neanche quello, ma è non aver proprio voglia di lavorare. Volevo essere assunto in qualità di responsabile del progetto Seti, la ricerca di intelligenze extraterrestri. Il problema è dove puntare i radio telescopi. La felicità esiste fissa. Esiste a Roswell dove nel 1947 ci fu un Ufo-crash certificato. Tutti gli anni quando visito il museo degli Ufo sono contento. Mi piace vedere anche la gare di body building. Sai, oggi mi sento un po’ come Hubner, il centravanti del Brescia anni Novanta. È come se lo chiami adesso che ha quaranta anni a giocare in Nazionale. A me, che ne ho cinquantaquattro, chiamano quelli di Raitre: vieni una puntata? Io rispondo: adesso? Adesso non sono in forma, ho avuto le delusioni d’amore. Dovevate farmi giocare quando ero lì, sono stato lì sei o sette anni. Comunque grazie, si fa per dire. Non ho paura della morte. E... insomma, non è che adesso che mi ci fai pensare stappo un bottiglione di vino rigorosamente proveniente da vitigni Ogm. Però so già che cosa farò scrivere sulla mia tomba: Cercò di fidanzarsi con Jennifer Lopez ma non ci riuscì perché lei era in Florida e lui alle 5 voleva andare a letto». ‘‘ DARIO CRESTO-DINA © RIPRODUZIONE RISERVATA