...

10 - Consiglio Regionale della Basilicata

by user

on
Category: Documents
10

views

Report

Comments

Transcript

10 - Consiglio Regionale della Basilicata
L' ilnmagine classica del Simposio
e il tema del vino in Orazio
Em ilia Claps
Rito collettivo, occasione di comunione spirituale ed emotiva, il simposio era nella civiltà greca anche
spettacolo, resta, abbandono ludico, nel quale la libagione si intrecciava con la musica e la danza, si
mescolava con i profumi più inebrianti, si esaltava nei giochi più sfrenati e nei lazzì più lascivi.
Anzi, da Omero in poi, il banchetto era considerato il luogo ideale della declamazione poetica, sia
nella forma della elegia sia in quela della lilica monodica e della lirica corale.
Nel IX libro de]]' Odissea (vv. 5-10) si legge:
"E io dico che non esiste momento più amahile
di quando la gioia regna fra il popolo tutto,
e i convitati in palazzo stanno a sentire il canfore,
seduti in fila: vicino son tavole piene
di pani e di carni, e vino al cratere attingendo,
il coppiere lo porta e lo versa nei calici:
questa in cuore mi sembra la cosa più hella ".
Esso aveva luogo generalmente dopo il pasto c vi partecipavano uomini adulti per bere, cantare, suo~
nare e conversare insieme, sotto la regia di un simpsiarca (i latini lo chiameranno magìster hibcndi ),
una personalità abilitata a impartire le regole del bere e a scegliere i temi della conversazione.
La più precisa descrizione del simposio greco é forse offerta da un'elegia di Scnofane (fr.21 BI D-K):
"Il pavimento lustra: mani, raz.ze pulite.
Uno ci pone in capo le ghirlande,
un altro tende fiale di balsamo,
Ii cratere troneggia, pieno di serenità.
Altro vino promette di non tradirei mai:
é in serbo nei boccali, sa di flore.
,L'incenso spira tutt'intorno unafragranw
di chiesa é chiara, fresca e dolce l'acqua,
Ha ciascuno il suo pane biondo:
la salda mensa è carica di calcio e miele denso.
C'è nel mezzo i 'altare coperto difiori,
la casa é avvolta di festa e di musica".
Esso é decantato come fattore di rivelazione: Alceo consacra - come vedremo - un binomio che diventerà proverbiale, "vino e verità": in Eschilo il vino viene definito addirittura lo "specchio deil' anima"~
147
"spia dell'amore" lo chiama Asclepiade; e Teognide sottolinea la forza rivelatrice del vino e ne ricorda
la funzionc benefica, purchè assunto con moderazione. Asua volta Eubulo, in una commedia andata
perduta fa dire a Dionisio;
"Per gli uomini assennati io mescolo tre crateri; il primo che essi bevono é per la salute, il secondo per
il piacere c il desiderio, il terzo per il sonno. Bevuto questo, i saggi convitati si accingono a tornare a
casa, il quarto cratere non appartiene più alla nostra influenza, ma alla violenza, il quinto al frastuono,
il sesto alla processione baccanica, il settimo agli occhi pesti, l'ottavo é per il testimone d'accusa, il
nono per la collera, il decimo fa uscire di senno. Infatti, un gran numero di libagioni fatte in piccoli
bicchieri taglia facilmente le gambe a chi ha bevuto",
Anche Platone, che pure nelle "Leggi" delinea uno Stato quanto mai austero, giustifica l'uso del vino
proprio come rivelatore dei sentimenti più segreti ed oscuri, prescrivendo comportamenti differenziati
per classi di età.
Nel Simposio Socrate afferma senza remora;
"anche a me piace grandemente che si beva, in quanto il vino, rigando gli animi sopiscc le cure.... ed
eccita l'allegria come l'olio la tìamma".
Un analogo concetto ritroviamo consacrato nelle Baccanti di Euripide:
"... ilfiglio di Semele, venuto
a pareggiarla che trovò il liquido
tratto dall'uva e lo insegnò ai mortali,
la bevanda che agli esseri infelici
che son gli uomini, e muoiono. acquieta
ogni dolore, quando dentro il flutto
della vite li inonda, e dà il sonno,
e col sonno l'oblio di tutti i mali
della giornata: non v'é medicina
altra che questa per chi soffre e pena".
In verità la morale greca basata su un ideale di equilibrio c non di frustrazione, trova nella giusta
mescolanza di vino e acqua che si realizza nel cratere, questo grande vaso di metallo prezioso intomo
al quale gravitava lo spazio del simposio, una delle sue più felici metafore.
La pittura antica e soprattutto la ceramica attica del VI e del V secolo, molto più della poesia e della
letteratura, costituiscono una inesauribile fonte documentaria peri piaceri, i costumi, i riti e i giochi
che si consumavano con il vino e frazie al vino, per rileggere quella aulentica cultura della convivialità
che i greci seppero concepire (si veda in proposito il volume "La città delle immagini", con prefazione
di J.P.Vemant e con importanti contributi di F; Lissarague, C.Bron, C.Bemard e FFrontisi-Ducroux
cfr. Tavole in appendice).
In Archiloeo il vino é un po' il segno di un esperienza vissuta senza l'enfasi dell'epos omerieo. Esso é
strumento ed occasione dell' estasi poetica, ma é soprattutto compagno nella dura fatica delle armi, nel
difficile mestiere quotidiano di soldati di ventura, di anonimi eroi del disincanto:
"impastato é il mio pane nella lancia:
nella lancia il vino d'Ismam.·
alla lancia appoggiato bevo",
J4,8
Anzi il vino é la prima arma dei soldati, il primo alimento per i guerrieri:
"va con la grande coppa tra i banchi della veloce
nave, togli i suggelli delle anfore panciute:
e il vino rosso :,pillafino alla feccia: di guardia
qui noi non potremo restare senza bere".
Ma é nel canto di Alceo che il vino diventa gioia fisica, sensazione corporea, clima ambientale, oltre
che ristoro della mente e lampo di autenticità spirituale. Il poeta lo abbina ai profumi delle stagioni:
"io già sento prùnavera
che s'avvicina ai suoi fiori:
versatem i presto ulla tazza di vino dolcissimo"
alvariare delle temperature stagionali:
"gonfiati di vino...
tutto é arso di sete.
e l 'aria fitmica per la calura "...
"ilfrcddo scaccia, la fiamma suscila
il dolce vino con l'acqua tempera
nel c mI ere senza rf.<.pa rmio ".
Ma, soprattutto, il vino ha per Alceo una grande forza spirituale: é specchio(ÒlO"tpOV) dell'uomo, é
verità (tÀa8eo:). Di più e di meglio la vita non dà.
Di qui l'invito del poeta:
"Beviamo. Perché aspettare le lucerne? Breve il tempo.
O amato fanciullo, prendi le tazze variopinte,
perché il figlio di Zeus e di Sémele
diede agli uomini il vino
per dimenticare i dolori.
Versa due parti di acqua e una di vino:
e colma le tazzefino all'orlo:
e l'una segua subito l'altra. "
E ancora:
"Non devi ai mali conceder l'anima;
a nulla giova soffrire e piangere,
o Bucchi: far portare il vino
ed inebbriarsi é il solo rimedio".
L'ebbrezza é per il poeta il massimo dei piaceri per le circostaze eccezionali:
149
"Ora bevete tutti, ubriacate!'i
a lUrta forza: é fllOrto Alirsilio.'''.
(sul soda] izio degli Etairoi si veda Snell: "poesia e società. L'influsso dei poeti sul pensiero e sul comportamento sociale della Grecia antica"; Gentili: "Poesia e pubblico nella grecia antica").
Il piacere del simposio é tema centrale anche della lirica di Anaceronte, per il quale esso non é il
trion!'ò del bere e dell' ebbrezza, bensì il luogo di una misurata armonia estetica ed erotica:
della Xa.plç e della a.~poouvrr
mi é caro chi presso il cratere ricolmo bevendo
narro i tumulti le risse le lagrimose guerre,
ma solo chi d'Afrodite e delle Muse insieme
i bei doni associando canta l'amabile gioia".
''/''1'0/1
:.Jon bisogna abbandonarsi al vino bevendo "come gli Sciti", ma ceIebrare "senza violenza" Dionisio,
"sorseggiando tra i bei canti".
E a quel richiamo rinfrancante e rasserenante del simposio e del vino non si sottrae neppure l'eleganza poe[ica di Pindaro, che paragona l' espelienza conviviale ad una immaginaria navigazione:
"cO/ne in un oceano di ricchezza,
in mezo all'oro e all'opulenza,
tulli indistintamente nuotiamo verso una ingannevole .'lponda:
allora il povero é ricco...
I cuori si gunfiano domati dall'arco dUa vite".
E il bere e il cantare sono manifestazioni complementari del simposio:
"Come quando tra i convitati shoccia la gioia del simposio
mescoliamo un secondo cralere di canti ispirati dalle Muse ...
Voglia il cielo che un giorno noi possiamo offrire
un terz.o cratere al Dio dell'Olimpo. a Zeus Salvatore, e diffondere su Egina
la libagùme dei nostri canti dolci come il miele"
(Istimiche VI 1-2-9).
Si beve e si canta e i versi di poesia passano di mano in mano come le coppe:
"Tu sei un messaggero fedele ...
un dolce cratere pieno di canti che SUO/W/IO .,
(Olimpica VI 90-91: Nemea 78-79).
Ma la ricchezza ispiratrice del vino esalta il canto dei poeti greci di ogni epoca e scuola.
Costante il motivo del vino che tradisce e rivela come in Callimaco:
"L'ospite aveva una piaga nascosta.
150
Hai visto che so~piro doloroso
usci dal suo petto alla terza coppa
di vino ? .. "
Altrettanto riconente il motivo del vino consolatore, portatore di oblio e di allegria.Asclepiade che si
dà forza da solo:
"Bevi AsclepiadeI Perché queste lacrime?
Ma che cos'hai? Non sei tu solo preda
della spietata Cipride, ne' solo
su di te Eros amato tese l'arco
e le sue frecce. Perché ancora vivo
stai tra la cenere? Beviamo il succo
puro di Bacco. Così brn'e é il giornoI
O aspettiamo la lampada, compagna
del sonno? Ma 'via, beviamo, di~perato
amante! Tra non molto
la nostra lunga notte dormiremo".
Anzi,il vino é per i più infelici, un mare in cui naufi'agare definitivamente, come in questi versi di
Stratone:
"Bevi ora, e ama, Damocrate. Non ::icnwre
berrai e non sempre andrai con i ragazzi.
Mettiamoci ghirlande e unguenti, prima
che li portino sulle nostre tombe.
Le ossa finché vivo bevano vino:
e morto, che le inondi anche il diluvio'!))
Ma, forse, nessun poeta ha saputo rovesciare, più radicalmente di Auromedonte, il paradigma razionaliSlico dei greci, assegnando all'ebbrezza e all'abbandono indotti dal vino una funzione addirittura
sublimatriee.
"Quando beviamo, la sera, siamo uOlnini;
e belve all'alba: l'uno contro l'altro".
Evidentemente il viaggio intrapreso nella cultura letteraria greca ci porterebbe lontano e verso sponde
imprevisle. Ma i poeti richiamati furono certemente i principali modelli di riferimenlo per gli autori
latini.
L'Epistola XIX di Orazio ha tanta forza espressiva e tanta chiarezza da non richiedere commenti:
"Ho camminato libero per una via non mai battuta;
non ho seguito orme d'altri. Chi ha fede in sé,
sarà la regina dello sciame. Per primo rivelai al Lazio i giambi di Paro:
non un'esperienza che fu sua, quelle parole che sconvolseroLicambe.
151
Non ,~frondare la mia corona
perché non ho osato mutare quella musica e quella tecnical
La maschia Saffo batté il suo ritmo su quello di Archiloco,
e così Alceo, con un altro contenuto e altra linea,
senza il proposito d'infangare il suocero con i suoi versi
e di spingere al suicidio con poesie inamanti la promessa.
Fui l'esecutore latino di Alcco: il suo nome,
non ancora pronunciato da altri,
feci famoso. Ma dove la mia voce é nuova,
vorrei per il mio libro occhi limpidi e nohili mani ".
Anche in Orazio il vino é naturalmente associato al convito. Solo raramente egli lo pona in connessione con ritualità, quali le libagioni o i sacrifici.
Lo fa, ad esempio, celebrando l'antica divinità romana del Genius :
"cras Geniwn mero
cumhis et porco bimenstri
cum famulis openi/n solutis "
Carm.III.17
('um sociis operwn pueris et coniu!?e fida ...
Floribus et vino Ccnium memorem brevis aevi"
Epist.II.l: 143
Ma generalmente egli é portato a rappresentare il convito al di fuori di ogni significato religioso. Il
convito di Orazio é la cena romana, che egli conosceva sia nella versione opulenta dei ricchi. come
risulta dalla caricatura di Nasidiano, ma anche dalla descrizione contenuta neUa SatiraIV del 2 0 libro;
sia nella configurazione più rustica e frugale che sicuramente prediligeva. come si può intendere de
noti passaggi lirici ("vile potabis modicis Sabinum Carm. 1.20) e dalla schietta pagina della V
Epistola:
"Se ti contenti di !?ù,cere a mensa
ospite su divani fahhricaIi
da Archia ne' sde!?lli di mangiare erbaggi
d'ogni sorta in un piccolo, modesto
piatto, io ti aspetterò, Torquato, in casa
al tramonto. Berrai vino 1.-'er.vato
nei doglifra Petrino di Sinuessa
e Minturna palustre quandofu
per la seconda volta Tauro console:
se tu ne hai migliorefalfo pure
venire; se no cerca di adaltarti
al mio ".
V'é con ogni evidenza,in questo atteggiamento di Orazio verso le gioie conviviali il ritlesso della sua
interpretazione "socratica" della vita (nel senso illustrato da Viktor Poschl, da Antonio La Penna e da
Alberto Grilli), della sua obbedienza ai principi dcll" a rs fruendi e del frui paratis (Carm. 1,31). del
152
t
I
i
l
~
f
quod satis est deorum muneribus sapienter Uli: cioé della volontà di apprezzare il valore delle cose
semplici e realmente disponibili, rifuggendo le ossessioni materialistiche ed esibizionistiche degli
accumulatori di ricchezze.
Nel costume corrente la cena aveva assunto una funzione ambivalente, in quanto pausa rilassante nel
mezzo dei negotia quotidiani ovvero come rottura e rimozione , sia pure temporanea , degli stessi
(Dupont "La vita quotidiana nella Roma repubblicana").
In Orazio é nettamante prevalente questa seconda figurazione del convito che, attraverso la pausa dei
negotia, ha il copmito di interrompere e risercire le eu me, l'angoscia quotidi ana dcII' esistenza, la
coscienza dolente del tempo che scorre ("truditur dies ciie" dirà nella XVIlI Ode del 2° libro) ; e nel
convito fa da protagonista il vino, ineffabile droga che procura l'assenza e l'oblio.
Nel definire questa funzione liberatoria del vino Ora7.io si ispira appunto ai grandi della lirica greca
arcaica (Archi]oco, A1ceo, Anaceronte) ma in una interpretazione chiaramente "filtrata" attraverso la
lezione epicurea o, meglio, attraverso quel pal1icolare mix eclettico che fu la "sua" filosofia della vita
(e circa l'influenza delle scuole post-socratiche e in particolare del pensiero diatribico sulla cultura
interiore d'Orazio é d'uopo rinviare ancora agli illuminanti studi, già citati, di La Penna, Pbschl, Grilli,
Canali).
In verità l'atarassia predicata dagli epicurei era una conquista della lucidità della ragione e dunque
poco aveva a che fare con l'oblio irrazionale provocato dal bere; tant'é che, spesso a tavola, invece che
alla gioia ;.;i an"ivava alla rissa, alla stregua dei proverbiali Traci (che per Orazio sostituiscono degnamente gli Sciti richiamati da Anaceronte) (Carm. l 27.1.2:1 36.14:11 7.26) o dei mistici Centauri e
Lipiti. Né Orazio ignorava l'altro effettonegativo del vino, il torpore, assimilabile alla moliis inertia
causata dall' amore (Epodi 14.1-5). Contro questi opposti eccessi Orazio si difende con la sua morale
della misura (il modus ) derivata dal concetto aristotelico di !J-EOOTllç e paneziano di llHPtotlls.
Anzi, a ben vedere, la norma del modus é quella nella quale Orazio, pur tra tanti ondeggiamenti filosofici, pur nella aUermazione del più profondo relativismo, si rifugia con coerenza e con convinzione.
Ma il richiamo dell'irrazionale, la tentazione di andare oltre ilmodus , riemerge appunto nel convito e
nel piacere del vino. L'invito a bere e a danzare senza freni ( !lune est hibcndum, nune pede libero pulsanda teUus. Carm. 137), per la morte di Cleopatra e la vittoria romana in orienteé un atto di esaltazione dionisiaca sia pure ben più temperata che in A1ceo; ma che il ritorno dalla Spagna di Numida
( Carm. I 36) viene festeggiato all'insegna delia smodatezza nel bere ( "nell promplae modus amphome") e nel ballare (" morem in Salium"), mentre l'irrazionale dionisiaco irrompe con la sua violenza e
il suo fascino:
Non ego sanius
bacchabor Edonis: recepto
dulce mihifurere est amico"
(Carm. II 7.26-28)
Come dire chc la violazione della misura e la sottrazione ai vincoli della saggezza non sono escluse o
ignorale:
"misee srultitiam consillis brevem:
dulee est desipere in loco"
(Carm. IV 12,27).
Purché appunto si tratti di stultitia brcvis, di occasionali ed effimeri cedimenti al furore barbarico: di
licenze e di raptus utili a bilanciare i momenti di depressione (di dcsidia di strenua inerti a, come li
153
chiama il poeta) c du nque a ri stabi lire [' equilibrio, il giusto mezzo (mette conto, a proposito della
"nevrosi" di Orazio, di ricordare le acute pagine critiche di Maurizio Bellini e di Luca Canali).
Ne]]' Ode a Varo (L I g) la ricerca di un saldo principio di medicias si esprime appunto nel richiamo
agli eccessi cò ai pericoli deIr abbandono edonistico:
" Non piantare nltri alberi H/m, prima del!n l'Ìle
sacra nel suolo mite di Tivoli né intorno alle II/ura
di Cali/o: duri pesi ai sobrii il dio propose
né altrùnenli scompaiono gli a.ffànni mordaci.
Chi dopo il vino parla più di anni gravose
o di sua povertà'! CM non esalta re, padre Bacco,
e te VenNe bella? ,Ha che i doni di Wl Libero
moderato nessuno oltrep(L'lsi ti monito la rissa
sanguinosa dei Centauri e dei Làpili uccessi di vino,
é monito Erio terrihile ai Traci quando non vedono
di libidine uvidi di la dal giusto l'orrore.
Non io, candido hassareo, ti turherò contrario,
né sotto il cielo aprirò i tuoi cesti di fronde
copel't i. Tien i lontani i l como Bereeinzio
e i timpalifcroci: na.l'ce da loro il cieco orgoglio,
la gloria che leva lroppo alti il capo vacuo,
In fiducia prodign d'arcano più del vetro chiara".
Due sono i luoghi poetici più esplicitamente dedicati da Orazio all'elogio del vino e della sua funzione
liberatori a: la XXI Ode del 3° libro e la già citata V epistola del lO libro.
In entrambi ritroviamo il tema classico del vino che libera dagli affanni, che consente di scoprire i
segreti umani ,che trasfigura la mecliocrità c le miseriedella realtà.L'ode all' anfora supera, per 1i mpidezza espressiva, gli stessi modelli eui semhra tematicamentc ispirarsi:
"Nata con me l'anno di Alan!l:o console
sia che apporti querele oppure giocOIulilà
orisse () folli mnori o facili sonni,
anfora pia, a qualunque scopo conservi
il prezioso Alarsico , scendi ora,
COil il consen'l"() di Corvino. a ·versare
vini Wl pò invecchiati.
!V'on lui, hench,j imbevulO di sermoni
socralici, li disprezzerà COli viso arcigno:
si narra che anche del! 'anlico Catone
la virtù si riscaldasse spesso col vino.
Tu un piacevole tormento apporti
agli ingegni duri tu scopri Le nngoscc
dei saggi e i pensieri nascosti
con i l giocondo Lieo.
154
Tu la ,,)]H'ranZ/1 ridai agli animi ansiosi
e lefòr::e e porti il corno dell' ahhol1dmu.a
al povero che dopo te, non teme
le teste adirate dei re né le armi dei soldati".
Il vino é compagno, testimone o complice degli alterni momenti del]' esperienza umana, é una specie
di additivo di una umanità che, anche grazie ad esso, si esprime piLl compiutamente.
E' 1'argomento che ritroviamo appunto nell' epistola a Torquato. già citata in precedenza:
"Comincerà a bere e a spargere Fori
e sopporterò di essere ritenuto ancora sconsidersto.
Cosa non produce l'ebhrezz.a? Schiude i segreti,
rende certe le speranza, nella mischia sospinge gli irnbelli
toglie agli amici il peso del/e wlRosee, ùpira le arti
"Chi i calici ricolmi non resero eloquente?
Chi non sciolsero dagli all'anni della dura povertà?"
Si realizzano, intorno al vino e grazie ad esso, sublimazioni e trasfigurazioni spirituali, ma anche sfumature ùi colorazioni ambientali.
Come ha ben osservato La Penna, nella lirica oraziana il vino non è una bevanda generica, esso è rappresentato nelle sue varietà locali, quasi a connotare una sua molteplice soggeuivilà: esso è, di volta in
volta, il Cecubo, il Falerno, il Massico, il Chio, il Lesbio, e via dicendo.
Per la verità la preferenza di Orazio è per i vini italici, del Lazio c della Campania in primo luogo: i
vini greci, ricercati dalla nobiltà, sono richiamati raramente e anzi Orazio non si esime dalr ironi nare
sul loro uso, che paragona alla moda di intrudurre grecismi nella lingua:
"AI senno linf?ua concimws utraqlle
suaviOl; ut Chio nota si cummixta Falerni esr"
(Sat.l 10.23)
Il vino per eccellen7a è, per il poeta, il Cecubo, ma quello più comunemente usato sembra il Falerno e
accanto ad esso il Massico.
La menzione dei diversi vini italici è, per Orazio la configuraLÌone di una vera e propria geografia
della eampagna italiana: si beve vino e si rievocano i luoghi di origine, siano essi Tivoli, o Alba, O la
Sabina, o Cales, o Formia, o Sorrento.E tutto ciò non é privo di significato. In tal modo Orazio accentuava il colore romano e il carattere '"nazionale" di un genere letlerario, la poesia conviviale che aveva
evidenti e autorevolissime ascenùente greche. Perseguendo così un triplice obiettivo: l'uno politico, in
quanto rispondenle ai postulati ideologici dcl Principato; l'altro letterario, diretto cioé ad affermare
una certa qual autonomia dai modcl1i greci; l'ultimo forse più intimamente poetico, quale riflesso di
un bisogno di identificazione con la vita c la cultura quotidiana, oltre che con la propria terra, con le
proprie radici storiche edesisteziali.
Ma alle concezioni oraziane - come si é prima accennaro - nonerano estranee le meditazioni di diversl
filosofi, soprattutto Stoici, sull' uso, sull' util ità e sui pericoli del vino.
155
L'antica Stòa eraattestata su posizioni rigoriste, ma non sempre univoche: Zenone vietava al saggio di
ubriacarsi; Crisippo distingueva il bere vino (Olvouo8m) dall'ubriacarsi (IlE8uE08at); Cleante invece
giudicava il vino inoffensivo ed intluente sulla salda saggezza del filosofo.
Anche ai tempi di Orazio gli ambienti stoici apparivano divisi sull' argomento, ma l'antico rigore era
ormai superato, come si ricava da due opere di Filone di Alessandria, dove si teorizza J'efficacia tonificante del vino, che ben si associa all' aspetto lieto e sereno che deve avere la saggezza.
E' in c questo clima culturale che si colloca l'atteggiamento moderato c misurato di Orazio verso il
piacere conviviale: un atteggiamento comunque sempre un pò diffidente, che gli fa apparire insopportabile la crapula, che lo rende insicuro e timoroso verso l'irrompere dell'ilTazionale che lo porta ad
escludere che dall'entusiasmo dionisiaco potesse scaturire l'ispirazione poetica.
Trasparente ed incisiva al riguardo l'ironia con cui si apre la citata XIX Epislola:
" A credere al vecchio Oratino, dotto Mecenate,
la poesia non può piacere a lungo,
e neppure avere vita, se scritta dagli astemi.
Da che Libero ha posto i poeti febbricitanti nell'ordine
dei Fauni e dei Satiri, le amabili Muse hanno forse
sempre puzzato di vino fin dalle prime ore.
Dall'elogio del vino si deduce che Omero era un beone:
pe/fino il padre Ennio non si abbandonò all'estro impetuoso
dell'epos che dopo aver bevuto. Da quando fu detto:
"agli astemi affido il Foro e il Puteale di Libone:
ma alla gente austera vieterò di cantare",
i poeti non hanno più smesso di bere in gara di notte,
e di puzzare di giorno"
No, per Orazio, " scrihendi recle sapere est et principium etfons" (Ars poet,. 309); la poesia é più ars
che ingenium, più frutto di lucidità e di sublimazione che d'improvvisazione. Da perfetto interprete
della poetica classica, egli paragona il suo esercizio artistico al lavoro dell' ape:
"... eRO apis Maunae
more modoque
grata carpentie rhyma per laborem
plurimum circa nemus uvidique
Tiburis ripas operosa parvus
carmina flngo ".
(" lo, per stile e gusto, I sono l'ape matina I che coglie il dolce timo, per i boschi / lungo le rive umide
di Tivoli / con fatica insistita: così esiguo I compongo questo canto laborioso")
156
Fly UP