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27 Gennaio 2013
27 Gennaio 2013 GIORNO DELLA MEMORIA TESTI SULLA SHOA PRIMO LEVI Se questo è un uomo “Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi; Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il viso da voi.” (Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.1) Si può ottenere secondo lei l’annullamento dell’umanità dell’uomo? Purtroppo si, purtroppo si. E direi che è proprio la caratteristica del lager nazista - degli altri non so , perché non li conosco, forse in quelli russi avviene altrettanto - è di annullare la personalità dell’uomo, all’interno e all’esterno, e non soltanto del prigioniero, ma anche del custode del Lager perde la sua umanità; sono due itinerari divergenti, ma che portano allo stesso risultato: Direi che è toccata a pochi la fortuna di conservarsi consapevoli durante la prigionia; alcuni hanno riacquistato la consapevolezza di cosa era stata questa esperienza dopo, ma durante l’avevano persa. Molti hanno dimenticato tutto, non hanno registrato le loro esperienze mentalmente, non le hanno incise nel nastro della memoria, per così dire. Quindi avveniva si, sostanzialmente in tutti una profonda modificazione delle personalità, con una attenuazione della sensibilità, soprattutto, per cui della casa, le memorie della famiglia, passavano in secondo piano di fronte al bisogno urgente , alla fame, al bisogno di difendersi dal freddo, al difendersi dalle percosse, al resistere alla fatica. Tutto questo portava a delle condizioni che si potevano chiamare animalesche, come quelle degli animali da lavoro. […] ( “La Stampa”, Torino, domenica 26 gennaio 2003, p. 19) PAUL CELAN FUGA DI MORTE Nero latte dell'alba lo beviamo la sera lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte beviamo e beviamo scaviamo una tomba nell'aria là non si giace stretti Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro Margarete lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra ci comanda ora suonate alla danza. Nero latte dell'alba ti beviamo la notte ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera beviamo e beviamo Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell'aria là non si giace stretti Lui grida vangate più a fondo il terreno voi e voi cantate e suonate impugna il ferro alla cintura e lo brandisce i suoi occhi sono azzurri spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza Nero latte dell'alba ti beviamo la notte ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera beviamo e beviamo nella casa abita un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell'aria e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti Nero latte dell'alba ti beviamo la notte ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso nella casa abita un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell'aria gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco I tuoi capelli d'oro Margarete I tuoi capelli di cenere Sulamith. Bertolt Brecht A coloro che verranno Davvero, vivo in tempi bui! La parola innocente è stolta Una fronte distesa vuoi dire insensibilità. Chi ride, la notizia atroce non l’ha saputa ancora. Quali tempi sono questi, quando discorrere d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta silenzio! E l’uomo che ora traversa tranquillo la via io mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici che sono nell’affanno. E vero: ancora mi guadagno da vivere. Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla di quel che fo m’autorizza a sfamarmi. Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri, sono perduto). «Mangia e bevi! », mi dicono: «E sii contento di averne». Ma come posso io mangiare e bere, quando quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e manca a chi ha sete il mio bicchiere d'acqua? Eppure mangio e bevo. Vorrei anche essere un saggio. Nei libri antichi è scritta la saggezza: lasciar le contese del mondo e il tempo breve senza tèma trascorrere. Spogliarsi di violenza, render bene per male, non soddisfare i desideri, anzi dimenticarli, dicono, è saggezza. Tutto questo io non posso: davvero, vivo in tempi bui! Nelle città venni al tempo del disordine, quando la fame regnava. Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte e mi ribellai insieme a loro. Così il tempo passò che sulla terra m'era stato dato. Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie. Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini. Feci all'amore senza badarci e la natura la guardai con impazienza. Così il tempo passò che sulla terra m'era stato dato. Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude6. La parola mi tradiva al carnefice. Poco era in mio potere. Ma i potenti posavano più sicuri senza di me ; o lo speravo. Così il tempo passò che sulla terra m'era stato dato. Le forze erano misere. La meta era molto remota. La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me quasi inattingibile. Così il tempo passò che sulla terra m'era stato dato. Voi che sarete emersi dai gorghi dove fummo travolti pensate quando parlate delle nostre debolezze anche ai tempi bui cui voi siete scampati. Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe, attraverso le guerre di classe, disperati quando solo ingiustizia c'era, e nessuna rivolta. Eppure lo sappiamo: anche l'odio contro la bassezza stravolge il viso. Anche l'ira per l'ingiustizia fa roca la voce. Oh, noi che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non si poté essere gentili. Ma voi, quando sarà venuta l'ora che all'uomo un aiuto sia l'uomo, pensate a noi con indulgenza. ELSA MORANTE C'era una SS che, per i suoi delitti orrendi, un giorno, sul far dell'alba, veniva portato al patibolo. Gli restavano ancora una cinquantina di passi fino al punto dell'esecuzione, che aveva luogo nello stesso cortile del carcere. E in questa traversata, l'occhio per caso gli si posò sul muro sbrecciato del cortile, dove era spuntato uno di quei fiori seminati dal vento, che nascono dove capita e si nutrono, sembrerebbe, d'aria e di calcinaccio. Era un fiorellino misero, composto di quattro petali violacei e di un paio di pallide foglioline, ma in quella prima luce nascente, la SS ci vide, con suo stupore, tutta la bellezza e la felicità dell'universo e pensò: "Se potessi tornare indietro, e fermare il tempo, sarei pronto a passare l'intera mia vita nell'adorazione di quel fiorelluccio". Allora, come sdoppiandosi, sentì dentro di sè la sua propria voce, che gli gridava: "In verità ti dico, per questo ultimo pensiero che hai fatto sul punto di morte, sarai salvo dall'inferno." Tutto ciò a raccontartelo mi ha preso un certo intervallo di tempo, ma là ebbe la durata di mezzo secondo. Fra la SS che passava in mezzo alle guardie e il fiore che si affacciava al muro, c'era tuttora, più o meno, la stessa distanza iniziale, appena un passo: "No! - gridò tra sé e sé la SS, voltandosi indietro con furia - Non ci ricasco, no, in certi trucchi! E siccome aveva le mani legate impedite, staccò quel fiorellino coi denti poi lo buttò in terra, lo pestò sotto i piedi. E ci sputò sopra". (Elsa Morante "La Storia" Einaudi, Torino 1974, pp604-605) ELIE WIESEL Mai potrei dimenticare quel silenzio notturno che mi privò, per tutta l’eternità, del desiderio di vivere. Mai dimenticherò quei momenti che uccisero il mio Dio e la mia anima, e ridussero i miei sogni in polvere. ( da LA NOTTE, Giuntina editore) Durante un raid aereo. Vicino alla cucina erano stati lasciati due calderoni mezzi pieni di zuppa fumante. Due pentoloni di zuppa, nel bel mezzo del sentiero, e nessuno a sorvegliarli!… All’improvviso, vedemmo la porta della baracca 37 aprirsi impercettibilmente. Apparve un uomo che strisciava come un verme in direzione dei pentoloni. Centinaia d’occhi seguirono i suoi movimenti. Centinaia d’uomini strisciarono con lui, sbucciandosi i ginocchi insieme ai suoi sulla ghiaia. Ciascun cuore batteva all’impazzata, ma d’invidia sopra a tutto. Quest’uomo aveva osato. Raggiunse il primo calderone. I cuori accelerarono: gliel’aveva fatta. La gelosia ci consumava, ci bruciava come paglia. Non pensammo nemmeno per un attimo di ammirarlo. Povero eroe, suicidarsi per una razione di zuppa! Nei nostri pensieri, lo stavamo uccidendo. Sdraiato accanto al pentolone, cercava ora di sollevarsi verso il brodo. Per debolezza o per paura, se ne stette lì, cercando senza dubbio di chiamare a raccolta le ultime forze. Alla fine riuscì a sporgersi sulla superficie della pentola. Per un attimo sembrò che si guardasse, cercando il suo riflesso spettrale nella zuppa. Poi, apparentemente senza ragione mandò un grido terribile, un rantolo quale mai avevo udito prima, e, a bocca aperta, spinse il capo verso il liquido fumante. L’esplosione ci fece sobbalzare. Ricadendo all’indietro sul terreno, con viso macchiato dalla zuppa, l’uomo si contorse per pochi secondi ai piedi del calderone, poi non si mosse più. ( da LA NOTTE, Giuntina editore) Le tre vittime montarono insieme sugli sgabelli. I tre colli furono infilati nei cappi allo stesso momento. “Viva la libertà!” gridarono i due adulti. Ma il ragazzo rimase in silenzio. “Dov’è Dio? Dov’è?” chiese qualcuno dietro di me. Ad un segno del comandante del campo, i tre sgabelli rotolarono… Cominciò la marcia dinanzi alle forche. I due grandi non vivevano più. Le lingue cianotiche penzolavano gonfie. Ma la terza corda si muoveva ancora; così leggero, il ragazzo era ancora vivo… Stette là per più di mezz’ora, lottando tra la vita e la morte, morendo d’una lenta agonia sotto i nostri occhi. E lo dovemmo guardare bene in faccia. Era ancora vivo quando io passai. La lingua ancora rossa, gli occhi non ancora vitrei. Dietro di me, udii lo stesso di prima domandare: “Dov’è Dio adesso?” E udii una voce dentro di me rispondergli: “Dov’è? Eccolo lì – appeso a quella forca…” Quella notte la zuppa sapeva di morto. ( da LA NOTTE, Giuntina editore) Ghetto di Terezin Il ghetto di Terezin durante la seconda guerra mondiale fu il maggiore campo di concentramento sul territorio dello Cecoslovacchia. Fu costruito come campo di passaggio per tutti gli ebrei del cosiddetto "Protettorato di Boemia e Moravia", istituito dai nazisti dopo l'occupazione della Cecoslovacchia, prima che gli stessi venissero deportati nei campi di sterminio nei territori orientali. Più tardi vi furono deportati anche gli ebrei della Germania, Austria, Olanda e Danimarca. Nel periodo in cui durò il ghetto - dal 24 novembre 1941 fino alla liberazione avvenuta l'8 maggio 1945 passarono per lo stesso 140.000 prigionieri. Proprio a Terezin perirono circa 35.000 detenuti. Degli 87.000 prigionieri deportati a Est, dopo la guerra fecero ritorno solo 3.097 persone. Fra i prigionieri del ghetto di Terezin ci furono all'incirca 15.000 bambini, compresi i neonati. Erano in prevalenza bambini degli ebrei cechi, deportati a Terezin insieme ai genitori, in un flusso continuo di trasporti fin dagli inizi dell'esistenza del ghetto. La maggior parte di essi morì nel corso nel 1944 nelle camere a gas di Auschwitz. Dopo la guerra non ne ritornò nemmeno un centinaio e di questi nessuno aveva meno di quattordici anni. I bambini sopportarono il destino del campo di concentramento assieme agli altri prigionieri di Terezin. Dapprima i ragazzi e le ragazze che avevano meno di dodici anni abitavano nei baraccamenti assieme alle donne; i ragazzi più grandi erano con gli uomini. Tutti i bambini soffrirono assieme agli altri le misere condizioni igieniche e abitative e la fame. Soffrirono anche per il distacco dalle famiglie e per il fatto di non poter vivere e divertirsi come bambini. Per un certo periodo i prigionieri adulti riuscirono ad alleviare le condizioni di vita dei ragazzi facendo si che venissero concentrati nelle case per i bambini. La permanenza nel collettivo infantile alleviò un tantino, specialmente sotto l'aspetto psichico, l'amara sorte dei piccoli prigionieri. Nelle case operarono educatori e insegnanti prigionieri che riuscirono, nonostante le infinite difficoltà e nel quadro di limitate possibilità, a organizzare per i bambini una vita giornaliera e perfino l'insegnamento clandestino. Sotto la guida degli educatori i bambini frequentavano le lezioni e partecipavano a molte iniziative culturali preparate dai detenuti. E non furono solo ascoltatori: molti di essi divennero attivi partecipanti a questi avvenimenti, fondarono circoli di recitazione e di canto, facevano teatro per i bambini. I bambini di Terezin scrivevano soprattutto poesie. Una parte di questa eredità letteraria si è conservata. L'educazione figurativa veniva organizzata nelle case dei bambini secondo un piano preciso. Le ore di disegno erano dirette dall'artista Friedl Dicker Brandejsovà. Il complesso dei disegni che si è riusciti a salvare e che fanno parte delle collezioni del Museo statale ebraico di Praga, comprende circa 4.000 disegni. I loro autori sono per la gran parte bambini dai 10 ai 14 anni. Utilizzavano i più vari tipi e formati della pessima carta di guerra , ciò che potevano trovare, spesso utilizzando i formulari già stampati di Terezin, le carte assorbenti. Per il lavoro figurativo i sussidi a disposizione non bastavano e i bambini dovevano prestarseli a vicenda. Sotto l'aspetto tematico i disegni si possono suddividere in due gruppi fondamentali: da una parte di disegni a tematica infantile, in cui i piccoli autori tornavano alla loro infanzia perduta. Disegnavano giocattoli, piatti pieni di cose da mangiare, raffiguravano l'ambiente della casa perduta. Disegnavano e dipingevano prati pieni di fiori e farfalle in fiore e farfalle in volo, motivi di fiaba, giochi di bambini. La maggior parte della collezione comprende questo tipo di disegni. Il secondo gruppo è formato da disegni con motivi del ghetto di Terezin. Raffigurano la cruda realtà in cui i bambini erano costretti a vivere. Qui incontriamo i disegni delle caserme di Terezin, dei blocchi e delle strade, dei baraccamenti di Terezin con i letti a tre piani, i guardiani. Ma i bambini disegnavano anche i malati, l'ospedale, il trasporto, il funerale o un'esecuzione. Nonostante tutto però i piccoli di Terezin credevano in un domani migliore. Espressero questa loro speranza in alcuni disegni in cui hanno raffigurato il ritorno a casa. Sui disegni c'è di solito la firma del bambino, talvolta la data di nascita e di deportazione a Terezin e da Terezin. La data di deportazione da Terezin è anche in genere l'ultima notizia del bambino. Questo è tutto quanto sappiamo sugli autori dei disegni, ex prigionieri bambini del ghetto nazista di Terezin. La stragrande maggioranza dei bambini di Terezin morì. Ma è rimasto conservato il loro lascito letterario e figurativo che a noi parla delle sofferenze e delle speranze perdute. Dr. Anita Frankovà Direttore del museo ebraico di Praga ALCUNE POESIE DEI BAMBINI DI TEREZIN Voi, nuvole grigio acciaio Voi, nuvole grigio acciaio, dal vento frustate, che correte verso mete sconosciute Voi, portatevi il quadro dell’azzurro cielo Voi, portatevi il cinereo fumo Voi, portatevi della lotta il risso spettro Voi, difendeteci! Voi, che siete fatte solo di gas. Veleggiate per i mondi, semplicemente, spazzate dai venti come l’eterno viandante aspettando la morte voglio una volta così come voi – i metri misurare di lontananze future e non tornare più Voi, cineree nuvole sull’orizzonte Voi, siate speranza e sempiterno simbolo Voi, che con il temporale il sole coprite Vi incalza il tempo! E dietro a voi è il giorno! Vedem, Hanu_ Hachenburg (1929 morto nel 1944) Sono Ebreo Sono ebreo ed ebreo resto anche se dalla fame morirò così al popolo non recherò sconfitta sempre per il mio popolo sul mio onore combatterò Orgoglioso del mio popolo sono che onore ha questo popolo sempre sarò appresso sempre di nuovo vivrò Franta Bass Nostalgia della casa E’ più di un anno che vivo al ghetto, nella nera città di Terezin, e quando penso alla mia casa so bene di che si tratta. O mia piccola casa, mia casetta, perché m’hanno strappato da te, perché m’hanno portato nella desolazione, nell’abisso di un nulla senza ritorno? Oh, come vorrei tornare a casa mia, fiore di primavera! Quando vivevo tra le sue mura io non sapevo quanto l’amavo! Ora ricordo quei tempi d’oro: presto ritornerò, ecco, già corro. Per le strade girano i reclusi e in ogni volto che incontri tu vedi che cos’è questo ghetto, la paura e la miseria. Squallore e fame, queste è la vita che noi viviamo quaggiù, ma nessuno si deve avvedere: la terra gira e i tempi cambieranno. Che arrivi dunque quel giorno in cui ci rivedremo, mia piccola casa! Ma intanto prezioso mi sei perché mi posso sognare di te. 1943 Anonimo Lacrime e dopo di loro la rassegnazione giunge, lacrime senza le quali la vita non è, lacrime ispirazione alla tristezza lacrime che scendono senza tregua Alena Synkovà Una volta Una volta una volta arriva Una volta la consolazione appare Una volta compare la speranza Una volta terribilmente si sfoga Una volta una brocca di lacrime scoppia Una volta alla morte dice “Taci ormai” Una volta arriva il giorno giusto Una volta d’acqua sarà il vino Una volta di piangere smettiamo Una volta le ferite si rimarginano Una volta Giuseppe, Dio questo vincolo di schiavitù getta Una volta anche Erode muore impazzendo dal terrore Una volta Davide pastore di porpora si colorirà la tunica colui che lo inseguiva diventa storpio il vecchio Re Saul. Una volta ha fine anche il dolore della malinconica esistenza una volta arriva il salvatore per levare il giogo ai soggiogati Una volta saremo se vuole il Signore A Canaan portati Una volta l’aloe fiorirà Una volta la palma i frutti dà Una volta tutto quello che è paura Una volta passa la nostra povertà Una volta entriamo nella tenda di Dio Una volta, una volta per noi germoglierà. Ivo Katz Lettera a papà Mammina ha detto, che oggi debbo scriverti ma ho avuto tempo, nuovi bimbi sono arrivati dagli ultimi trasporti e giocare volevo non mi accorgevo come fugge l’istante. Mi sono sistemato, dormo sul materasso per terra, per non cadere. Almeno non c’è bisogno di farsi il letto ed al mattino dalla finestra vedo il cielo. Ho un po’ tossito, ma non voglio ammalarmi così sono felice quando corro in cortile. Oggi da noi una veglia si terrà proprio come in estate al campo degli scout. Canteremo canzoni conosciute la signorina suonerà la fisarmonica. So che ti meravigli di come stiamo bene e che sicuramente ti rallegreresti di stare qui con me. Qualcos’altro, papà: vieni qui presto e sia più lieto il tuo volto! Quando sei triste, mammina allora si dispiace e dei suoi occhi mi manca lo splendore. E hai promesso di portarmi i libri che veramente da leggere non ho nulla, per favore vieni domani prima che sia buio del mio grazie puoi essere sicuro. Ormai debbo finire. Da parte della mamma ti saluto con impazienza aspetto il suono dei tuoi passi nel corridoio. Prima che di nuovo con noi sarai ti saluta e ti bacia il tuo fedele ragazzo. Hajn E’ così In quella che è chiamata la piazza di Terezin è seduto un piccolo vecchio come se fosse in un giardino. Ha la barba e un berretto in testa. Col suo ultimo dente mastica un pezzo di pane duro. Mio Dio, col suo ultimo dente: invece d’una zuppa di lenticchie povero superstite! "Koleba": M. Kosck nato il 30.3.32 morto il 19.10.44 ad Auschwitz H. Loewy nato il 29.6.31 morto il 4.10.44 ad Auschwitz Bachner (dati anagrafici non accertati) Tutti questi bei momenti si son persi senza rimedio la mia vita non ha una meta e per cercarla non ho più le forze. Ancora una volta soltanto la tua testa nelle mie mani, prendere poi chiudere gli occhi e nelle tenebre andarsene in silenzio. Anonimo La farfalla L’ultima, proprio l’ultima, Così ricca, smagliante, splendidamente gialla. Se le lacrime del sole potessero cantare contro una pietra bianca… Quella, quella gialla E' portata lievemente in alto. Se ne è andata, ne sono certo, perché voleva dare un bacio d’addio al mondo. Per sette settimane ho vissuto qui, Rinchiuso dentro questo ghetto Ma qui ho trovato la mia gente. Mi chiamano le margherite E le candele che splendono sull’abete bianco nel cortile. Solo che io non ho visto mai un’altra farfalla. Quella farfalla era l’ultima. Le farfalle non vivono qui, nel ghetto. Pavel Friedmann. 4-6-1942 Paura Oggi il ghetto prova una paura diversa, Stretta nella sua morsa, la Morte brandisce una falce di ghiaccio. Un male malvagio sparge il terrore nella sua scia, Le vittime della sua ombra piangono e si contorcono. Oggi il battito di un cuore di padre narra del suo terrore E le madri nascondono la testa tra le mani. Adesso qui i bimbi rantolano e muoiono di tifo Il loro sudario sconta un’amara tassa. Il mio cuore batte ancora nel mio petto Mentre gli amici partono per altri mondi. Forse è meglio – chi può saperlo? – Assistere a ciò oppure morire oggi? No, no, mio Dio, voglio vivere! Senza vedere dissolversi i nostri numeri. Vogliamo avere un mondo migliore, Vogliamo lavorare – non dobbiamo morire! Eva Pichová, dodici anni, Nymburk Il giardino Un piccolo giardino, Fragrante e pieno di rose. Il viale è stretto, Lo percorre un piccolo bambino. Un piccolo bambino, un dolce bambino, Come quel fiore che sboccia. Quando il fiore arriverà a fiorire Il piccolo bambino non ci sarà più. Franta Bass GIORGIO PERLASCA Il racconto di Giorgio Perlasca è una storia vera, l’incredibile vicenda di un commerciante padovano che, nell’inverno 1944, a Budapest riuscì a salvare dallo sterminio migliaia di ebrei, spacciandosi per il console spagnolo. Era un fascista entusiasta e aveva combattuto in Spagna come volontario per Franco. L’8 settembre 1943 lo trovò lontano da casa, ricercato dalle SS. Avrebbe potuto mettersi in salvo. Dal suo Diario, emerge l’azione straordinaria di un uomo solo, aiutato da uno sparuto gruppo di persone, che sforna documenti falsi, organizza e difende otto “case rifugio”, trova cibo, strappa ragazzi dai “treni della morte” di Adolf Eichmann inganna nazisti tedeschi e ungheresi. 30 dicembre, sabato La notte scorsa è successo un fatto terribile. Hanno preso un gruppo di ebrei del ghetto e li hanno trucidati in piazza Ferenc Liszt e in via Eötvös. Abbiamo prima udito le grida e le suppliche di centinaia di persone, e poco dopo gli spari. All’alba mi sono recato sul posto e ho visto che i morti erano per la maggior parte donne e bambini. La mattina sono andato all’hotel Hungaria per incontrare il delegato della Croce Rossa Internazionale, Weyermann. Improvvisamente mi si è avvicinato un ufficiale ungherese, pregandomi di andare con lui in riva al Danubio. I miei carabinieri hanno tentato di mandarlo via, temendo un attentato. Poi si sono limitati a rimanermi vicino, ma con i mitra puntati sull’ufficiale. Tutta la riva del fiume era ricoperta da neve, ma davanti ai caffè Hungaria e Negresco il colore era diventato rosso sangue. Nel fiume si vedevano i corpi nudi di centinaia di morti, che l’acqua non aveva potuto trascinare con sé a causa della presenza di blocchi di ghiaccio. Queste persone erano state ammazzate durante la notte e poi gettate in acqua. Ho detto all’ufficiale che avevo visto qualcosa di simile vicino al ponte Margherita e gli ho chiesto perché mi avesse invitato qui. Il suo scopo era quello di convincere gli stranieri che l’esercito era estraneo a questi fatti. E’ vero, gli ho risposto, ma l’esercito serve per far rispettare la legge e tutelare i diritti dei cittadini, non per assistere a simili atrocità. Mi hanno raccontato che le vittime erano state costrette a camminare per circa due chilometri, in fila per due, con le mani legate, a piedi scalzi e completamente svestite. Le avevano poi fatte inginocchiare sulla riva del fiume e avevano sparato loro alla nuca. L’ufficiale mi ha consegnato una donna che si era salvata per essere caduta in acqua prima degli spari. L’avevano slegata e la stavano frizionando con della canfora. L’ho portata con me all’ambasciata. Da: Enrico Deaglio, LA BANALITA’ DEL BENE Storia di Giorgio Perlasca, Tempo ritrovato, Feltrinelli 76603 Il mio numero era 76603. Mentre agli ebrei glielo tatuavano sul braccio a noi politici davano il numero inciso su un bracciale; pagando una minestra, te lo incidevano su un bracciale di cuoio anziché di ferro. (tratto da "C'era una volta la guerra" a cura di Sonia Brunetti e Fabio Levi. Silvio Zamorani editore, Torino 2002.) Rudolf Höss (…) A Sachsenhausen vi erano parecchie personalità, e anche alcuni prigionieri speciali. Erano indicati come “personalità” quei prigionieri che avevano sostenuto a suo tempo un certo ruolo nella vita pubblica. Erano considerati per lo più prigionieri politici, e nel campo erano messi insieme ad altri del loro tipo, senza particolari privilegi (…). Desidero parlare ora più diffusamente di un prigioniero speciale, perché il suo comportamento in prigionia fu del tutto peculiare, e io ebbi modo di osservarlo in ogni circostanza. Era il pastore evangelico Martin Niemoeller. Durante la guerra era stato un famoso comandante di marina; dopo la guerra divenne pastore. La Chiesa evangelica tedesca era suddivisa in numerosi gruppi, tra i quali rivestiva particolare importanza la Bekenntniskirche, guidata da Niemöller. Il Führer, volendo riunificate e raccogliere tutti i diversi tronconi, nominò un vescovo evangelico di Stato, ma molti dei gruppi evangelici non lo riconobbero e lo osteggiarono violentemente, e tra essi anche Niemöller. La sua congregazione era a Dahlem, un sobborgo di Berlino; qui si radunava tutta l’opposizione reazionaria evangelica di Berlino e di Potsdam, tutta la vecchia aristocrazia imperiale e tutti gli scontenti del regime nazionalsocialista. Ad essi Niemöller predicava la resistenza, e fu questa appunto la causa del suo arresto. Venne condotto nel cellulare di Sachsenhausen, dove godette di tutti i privilegi possibili. Poteva scrivere alla moglie a suo piacere, e la moglie fargli visita ogni mese e portargli tutto ciò che desiderava quanto a libri, tabacco e viveri. Se lo desiderava, poteva passeggiare nel cortile del cellulare, e la sua cella non era sfornita di comodità. Insomma, gli fu concesso quanto era possibile. Il comandante era tenuto ad occuparsi di lui di frequente e ad informarsi dei suoi desideri. Era interesse personale del Führer riuscire a ottenere da Niemöller che rinunziasse alla sua resistenza; personalità di primo piano si recarono a Sachsenhausen per convincerlo, perfino il suo vecchio superiore e seguace della sua Chiesa, l’ammiraglio Lans, ma tutto fu vano. Niemöller non si scostò d’un filo dal suo punto di vista, che cioè nessuno Stato ha il diritto di emanare leggi sulla Chiesa, tanto meno, poi, leggi che la riguardino da vicino, poiché ciò è una faccenda di mera pertinenza delle congregazioni ecclesiastiche. La Bekenntniskirche continuò così a prosperare e Niemöller divenne ufficialmente il suo martire (…). (…) Quando nel 1941, per ordine di Himmler tutti i religiosi dovettero essere trasferiti a Dachau, anch’egli subì la stessa sorte (…). (…) Himmler esigeva l’adempimento del dovere, l’impegno dell’intera personalità, fino al sacrificio di sé. Ciascuno in Germania doveva impegnarsi fino in fondo perché potessimo vincere la guerra. Per sua volontà, i campi di concentramento erano diventati vere fabbriche belliche, e a questa attività si doveva subordinare ogni cosa, di fronte ad essa dovevano cadere tutte le considerazioni di qualsiasi genere. Era sintomatica, a questo riguardo, la sua assoluta e consapevole indifferenza verso le condizioni generali dei campi, divenute ormai intollerabili. Lo sforzo bellico era la prima cosa:tutto ciò che intralciava la strada doveva essere eliminato.non mi era lecito pensare diversamente; dovevo farmi sempre più duro, più freddo, più inesorabile verso le sofferenze dei prigionieri. Vedevo ogni cosa molto chiaramente, spesso anche troppo, ma non potevo lasciarmi vincere, non potevo permettere che i miei sentimenti mi arrestassero. Ogni altra cosa era superflua di fronte allo scopo finale: la vittoria in guerra. Così, a quel tempo, io vedevo il mio compito. Non potevo andare al fronte: dunque, dovevo fare in patria il massimo sforzo per sostenere il fronte. Oggi mi accorgo che nonostante i miei frenetici sforzi per lavorare e far lavorare, non potevamo comunque vincere la guerra; ma a quel tempo credevo con assoluta convinzione nella vittoria finale, e ritenevo di dover lavorare per questo fine, senza trascurare la minima cosa. Per volontà di Himmler, Auschwitz divenne il più grande centro di sterminio di tutti i tempi. Allorché, nell’estate del1941, mi comunicò personalmente l’ordine di allestire ad Auschwitz un luogo che servisse allo sterminio in massa, e di realizzare io stesso tale operazione, non fui in grado di immaginare minimamente la portata e gli effetti. In effetti, era un ordine straordinario e mostruoso, ma le ragioni che mi fornì mi fecero apparire giusto questo processo di annientamento. A quel tempo non riflettevo: avevo ricevuto un ordine ed era mio dovere eseguirlo. Non potevo permettermi di giudicare se questo sterminio in massa degli ebrei fosse o no necessario, la mia mente non arrivava tanto in là. Se il Führer in persona aveva ordinato la “soluzione finale della questione ebraica”, un vecchio nazionalsocialista, e tanto più un ufficiale delle SS, non poteva neppure pensare di entrare nel merito. “Il Führer comanda, noi obbediamo”, non era certo una frase né uno slogan, per noi. Era un concetto preso terribilmente sul serio. Dal momento del mio arresto, mi è stato detto ripetutamente che avrei potuto benissimo rifiutare di eseguire questi ordini, che avrei potuto perfino assassinare Himmler. Non credo che, tra le migliaia di ufficiali delle SS, ve ne fosse anche solo uno capace di formulare un simile pensiero. Semplicemente, non sarebbe stato possibile. Nel luglio del 1942, Himmler venne a visitare il campo. Gli feci percorrere in lungo e in largo il campo degli zingari, ed egli esaminò attentamente ogni cosa: le baracche d'abitazione sovraffollate, i malati colpiti da epidemie, vide i bambini colpiti dall'epidemia infantile Noma, che non potevo mai guardare senza orrore e che mi ricordavano i lebbrosi che avevo visto a suo tempo in Palesatine: i loro piccoli corpi erano consunti, e nella pelle delle guance grossi buchi permettevano addirittura di guardare da parte a parte; vivi ancora, imputridivano lentamente. Rudolf Höss ricorda und dialogo con Eichmann sulla gestione della soluzione finale Quindi passammo a discutere le modalità per attuare il piano di sterminio. Il mezzo non poteva essere che il gas, perché sarebbe stato senz’altro impossibile eliminare le masse di individui in arrivo con le fucilazioni; e, oltretutto, sarebbe stata una fatica troppo pesante per i militi delle SS incaricati di eseguirle. ( Tratto da: Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss 1960 Giulio Einaudi editore) Martin Niemoeller " Prima vennero per gli ebrei e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero per i comunisti e io non dissi nulla perché non ero comunista. Poi vennero per i sindacalisti e io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa." ANNAH ARENDT LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO Il totalitarismo é un fenomeno " essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide e la dittatura. Dovunque é giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall'esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio del mondo ". "Estraniazione, che é il terreno comune del terrore, l'essenza del regime totalitario e, per l'ideologia, la preparazione degli esecutori e delle vittime, é strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che dopo essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall'inizio della rivoluzione industriale, si sono aggravati col sorgere dell'imperialismo alla fine del secolo scorso e con lo sfascio delle istituzioni politiche e delle tradizioni sociali nella nostra epoca. Essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo " . "Quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario é estraniazione che da esperienza al limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, é diventata un'esperienza quotidiana delle masse crescenti nel nostro secolo. L'inesorabile processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare come un'evasione suicida da questa realtà " “Il tentativo di rendere superflui gli uomini riflette l’esperienza delle masse moderne, costrette a constatare la loro superfluità su una terra sovrappopolata. La società dei morenti – in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto – è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza. Eppure nel contesto dell’ideologia totalitaria, nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se hanno un’”anima da schiavi”, non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Visti attraverso le lenti dell’ideologia, i campi hanno quasi il difetto di aver troppo senso, di attuare la dottrina con troppa coerenza” ”L'ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell'esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell'ordinamento sociale, bensí alla trasformazione della natura umana che, così com'è, si oppone al processo totalitario. I Lager sono i laboratori dove si sperimenta tale trasformazione, e la loro infamia riguarda tutti gli uomini, non soltanto gli internati e i guardiani. Non è in gioco la sofferenza, di cui ce n'è stata sempre troppa sulla terra, né il numero delle vittime. È in gioco la natura umana in quanto tale; e anche se gli esperimenti compiuti, lungi dal cambiare l'uomo, sono riusciti soltanto a distruggerlo, non si devono dimenticare le limitazioni di tali esperimenti, che richiederebbero il controllo dell'intero globo terrestre per produrre risultati conclusivi.” "La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto coi loro simili e con la realtà che li circonda; perché insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero. Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l'individuo per il quale la distinzione tra realtà e pensiero, fra vero e falso, non esiste più" "I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull'uomo". “I lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l’orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e di trasformare l’uomo in oggetto, in qualcosa che neppure gli animali sono; perché il cane di Pavlov che, com’è noto, era ammaestrato a mangiare, non quando aveva fame, ma quando suonava una campana, era un animale pervertito” "La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme" Nel libro "La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme" la Arendt raccoglie gli articoli che aveva pubblicato sul giornale statunitense New Yorker, quando assistette, nel 1961, al processo di Eichmann. Questi era stato un tedesco che, dopo aver aderito al nazionalsocialismo, aveva diretto la sezione B della GESTAPO, IV ufficio del RSHA (servizio principale per la sicurezza del Reich), che si occupava dei problemi ebraici. Eichmann organizzava quindi i treni che conducevano gli ebrei ai campi di sterminio. Cercando di capire l'uomo che aveva di fronte e i suoi comportamenti, la Arendt cambia la posizione sul male radicale che aveva espresso nel libro "le origini del totalitarismo". Di fronte alla superficialità di Eichmann, né malvagio né stupido, l'autrice elabora l'idea del male come mancanza di pensiero: il male non è più qualcosa di eccezionale ma fa parte di noi e delle persone che ci sono vicine. Di fronte al giudice che lo accusava dello sterminio degli ebrei, Eichmann sostenne che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini. Ad Eichmann mancò quello che lei chiama "lo spazio pubblico", cioè lo spazio per giudicare quello che avviene. Tutta la vita di Eichmann è un esempio di impossibilità di esprimere un giudizio. È la singolarità che permette che permette che vi sia uno spazio pubblico ed egli non la ha mai raggiunta. Ed infatti la sua è una esistenza impostata nell'obbedienza agli ingranaggi burocratici di potere, qualsiasi essi siano. Dunque il suo non è un vero agire, ma una ripetizione degli ordini ricevuti. La sua incapacità di arrivare alla singolarità si manifesta anche nel linguaggio adoperato, burocratico, intessuto di luoghi comuni, con frasi fatte. Sono queste le radici del male, un male molto quotidiano. Le frasi fatte sono modi di sottrarsi alla realtà. Il male è l'assenza, il rifiuto del pensiero. Pensare è infatti dialogare con se stessi, cioè di porsi di fronte alla scelta fra il giusto e l'ingiusto. "Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato che con il passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge." "Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini che si erano trasformati in assassini, era semplicemente l'idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo ("un compito grande, che si presenta una volta ogni duemila anni") e perciò gravoso. Questo era molto importante perché essi non erano sadici o assassini per natura; anzi, i nazisti si sforzarono sempre, sistematicamente, di mettere in disparte tutti coloro che provavano un godimento fisico nell'uccidere. (.). Perciò il problema era quello di soffocare non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri. Il trucco usato da Himmler ( che a quanto pare era lui stesso vittima di queste reazioni istintive) era molto semplice e molto efficace: consisteva nel deviare questi istinti , per così dire, verso l'io. E così, invece di pensare: che cose orribili faccio al prossimo!, gli assassini pensavano: che orribili cose devo vedere nell'adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle mie spalle!" "Il meccanismo dello sterminio era stato progettato e studiato in tutti i particolari.(.) All'inizio, quando la gente poteva ancora avere una coscienza, le defezioni negli alti gradi e soprattutto tra gli ufficiali superiori delle SS furono molto rare; cominciarono ad avere un peso soltanto quando ormai era chiaro che la Germania avrebbe perso la guerra.Ma anche allora non assunsero mai proporzioni tali da pregiudicare il funzionamento del meccanismo; furono atti individuali, dettati non dal rimorso ma dalla corruzione, ispirati non dalla pietà ma dal desiderio di salvare un po' di denaro o di crearsi un alibi per l'oscuro avvenire." “Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. “Non era stupido, era semplicemente senza idee[...]. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una spiegazione del fenomeno, né una teoria.” “E' anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E' una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s'interessa al male viene frustrato, perché non c'è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale.” I volantini della "Rosa Bianca" Il primo volantino Non c’è nulla di più indegno per una nazione civilizzata che lasciarsi “governare” senza alcuna opposizione da una cricca di irresponsabili dominati dai propri istinti. Certamente ogni onesto tedesco oggi si vergogna del suo governo. Chi tra di noi riesce a concepire le dimensioni dell’infamia che un giorno cadrà su di noi e sui nostri figli quando dai nostri occhi cadrà il velo e il più orribile dei crimini - crimini che infinitamente hanno superato ogni umana misura - sarà dinanzi a tutti alla luce del sole? Se il popolo tedesco è già così corrotto e così spiritualmente distrutto da non saper alzare una mano, se avventatamente si trova immerso nella fede sconsiderata che nutre verso la storia come ordine legittimante, se ha rinunciato alla propria libera volontà che è principio supremo dell’uomo e che lo eleva al disopra delle altre creature di Dio, se ha abbandonato la volontà di compiere l’azione decisiva e di girare la ruota della storia assoggettandola alla propria razionale volontà, se ha rinunciato alla propria individualità e ha percorso la strada che lo conduce ad essere ormai una massa vile e priva di spirito, allora sì il popolo tedesco merita la propria rovina. Goethe parla dei tedeschi come di un popolo tragico, come gli ebrei ed i greci, ma oggi questo sembra piuttosto un popolo privo di spina dorsale, gregge ubbidiente di parassiti, che ora succhiato sino al midollo, privato del suo centro di stabilità sta attendendo di essere condotto alla sua distruzione. Così sembra ma così non è. Attraverso un graduale, ingannatore e sistematico abuso il sistema ha rinchiuso ogni uomo in una prigione spirituale. Soltanto ora ha scoperto di essere stato ridotto in catene ed è diventato cosciente del suo destino. Soltanto pochi hanno riconoscito l’incombente minaccia della rovina ed il premio per il loro eroico allarme è stata la morte. Avremmo molto da dire sul destino di queste persone. Se ognuno aspetterà che sia l’altro uomo ad iniziare la lotta i messaggeri della Nemesi vendicatrice si avvicineranno e allora l’ultima vittima sarà stata gettata inutilmente nelle fauci del demone insaziabile. Per questo ogni singolo individuo cosciente della propria responsabilità come membro della civiltà cristiana e occidentale, deve difendersi con tutte le sue forze sino all’ultimo, deve lottare contro il flagello dell’umanità, contro il fascismo e contro ogni simile sistema totalitario. Resistete, opponete la resistenza passiva ovunque voi siate, impedite il funzionamento di questa ateistica macchina da guerra prima che sia troppo tardi, prima che le altre città come Colonia siano ridotte ad un cumulo di macerie, prima l’ultimo giovane della nazione versi il proprio sangue su qualche campo di battaglia per l’orgoglio folle di un subumano (1). Non dimenticate che ciascun popolo merita il regime che accetta di sopportare. Da La legislazione di Licurgo e Solone di Friedrich Schiller «La legislazione di Licurgo è un modello di politica e psicologia in relazione al fine che si propone. Egli voleva uno stato potente, fondato su se stesso ed indistruttibile; forza politica e durata erano gli obiettivi a cui egli mirava, e questo fine lo ha raggiunto nel grado che era possibile nelle sue condizioni. Ma quando si raffronti lo scopo che si proponeva Licurgo, agli scopi dell'umanità, una profonda disapprovazione deve subentrare all' ammirazione che ci ha avvinti ad un primo superficiale sguardo. Ogni cosa deve essere sacrificata al bene dello stato non è mai in se stesso un fine, ma esso è importante solo come una condizione attraverso la quale può essere raggiunto il fine dell'umanità non è altro che l'espressione di tutte le risorse dell'uomo, il progresso. Se un ordinamento statale ostacola lo sviluppo di tutte quelle risorse che si trovano nell'uomo, se esso impedisce lo sviluppo dello spirito, esso è deprecabile e dannoso, per quanto possa essere elaborato e perfezionato nella sua forma. a sua stessa durata diventa più un motivo di rimprovero che di successo; esso è solo un prolungamento del danno; infatti più dura nel tempo, più danni comporta. ...Il merito politico e l' attitudine alla politica vennero sviluppati a scapito di tutti i sentimenti morali. A Sparta non esisteva né l'amore coniugale, né l'amore materno, né l'amore filiale, né l'amicizia. Esistevano soltanto dei cittadini e delle virtù civiche. ...Una legge di stato imponeva agli spartani di essere disumani verso i loro schiavi; in queste infelici vittime delle guerre veniva insultata e maltrattata l'umanità. Nello stesso codice giuridico spartano veniva insegnato il principio pericoloso di considerare gli uomini come mezzo e non come fine. In tal modo i fondamenti dei diritti essenziali della legge naturale e della morale venivano legalmente infranti. ...Quanto più bello fu l'esempio dato dal rude guerriero Caio Marcio nel suo accampamento davanti a Roma, allorquando sacrificò la vendetta e la vittoria perché egli non poteva vedere scorrere le lacrime della madre! ...Lo stato [di Licurgo] poteva sopravvivere ad una sola condizione: che lo spirito del popolo si fosse estinto. Avrebbe potuto quindi durare solo se esso avesse mancato al più alto e unico scopo dello stato». Da Il risveglio di Epimenide di Goethe - Atto secondo, scena quarta I Geni Quello che audacemente è uscito fuori dall'abisso, può per un ferreo destino soggiogare metà della sfera terrestre, ma nondimeno nell'abisso deve tornare. Già minaccia un terribile timore: egli invano cercherà di resistere! E tutti coloro che a lui sono legati dovranno perire con lui. La speranza Ora incontro i miei valorosi, che si radunano nella notte, per tacere, non per dormire; e la bella parola "Libertà" viene bisbigliata e sussurrata, fino a che con insolita novità sui gradini dei nostri templi grideremo ancora con nuovo entusiasmo: "Libertà! Libertà!". Per favore fai più copie puoi di questo volantino e distribuiscilo. Junge T., “Fino all’ultima ora” Non possiamo correggere a posteriori la nostra biografia Due anni fa ho conosciuto Melissa Miiller. Venne a trovarmi per fare a me, testimone di un’epoca, qualche domanda su Adolf Hitler e sulle sue preferenze in campo artistico. Fu la prima di molte conversazioni che avevano per tema la mia vita e l’effetto che, nel lungo periodo, l’incontro con Hitler aveva avuto su di me. Melissa appartiene alla seconda generazione del dopoguerra, il suo sguardo è segnato dalla conoscenza dei crimini del Terzo Reich, ma non fa parte di quella categoria di persone che, col senno di poi, pretende di sapere tutto. Non crede che sia così semplice. Ascolta ciò che abbiamo da raccontare noi, testimoni storici, un tempo ammaliati dal Fuhrer, e tenta di indagare sulle origini di quanto è accaduto. «Non possiamo correggere a posteriori la nostra biografia, siamo costretti a conviverci. Possiamo però correggere noi stessi.» Questa citazione di Reiner Kunze, tratta da “Am Sonnenhang. Tagebuch eines Jahres” (Sul pendio assolato. Diario di un anno), è diventata un principio importante della mia vita. Continua così: «Solo non ci si aspetti sempre la pubblica umiliazione. Esiste una vergogna silenziosa che è più eloquente di qualsiasi discorso, e talvolta più sincera.» Alla fine, comunque, Melissa mi ha convinto a concedere l’autorizzazione a pubblicare il mio manoscritto. Se sono riuscita a far capire a lei quanto sia stato facile cedere al fascino di Hitler e quanto sia difficile vivere con la consapevolezza di aver servito l’autore di uno sterminio, ho pensato, dovrebbe essere possibile renderlo comprensibile anche ai lettori. O almeno questa è la mia speranza. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 5 La macchina da discorsi Tutto lo stato maggiore doveva trasferirsi a Berchtesgaden, ossia nell’Obersalzberg, dove Hitler desiderava trascorrere un periodo di riposo al suo Berghof e al tempo stesso ricevere alcune visite ufficiali. Così, negli ultimi giorni di marzo dell’anno 1943, assistei alla partenza e al trasferimento di un gigantesco apparato. Era previsto un soggiorno di diverse settimane e fu sorprendente vedere i preparativi svolgersi tranquillamente e senza difficoltà in un arco di tempo brevissimo. Noi segretarie preparammo le valigie con i nostri effetti personali, ma dovevamo anche portare il nostro ufficio da viaggio. Al Fuhrer poteva benissimo venire in mente di scrivere qualcosa lungo il percorso e dunque ciò doveva essere possibile anche in treno. Impacchettammo pertanto nelle apposite casse due macchine da scrivere Silenta, due con le maiuscole e una macchina da discorsi (una macchina con caratteri da circa un centimetro per leggere meglio il dattiloscritto di un discorso), perché al Berghof non ce n’erano. Un grosso baule conteneva la carta da lettere occorrente e altro materiale da ufficio disposto in molti cassettini e scomparti. Dovevamo fare attenzione a impacchettare tutti i tipi di carta da lettere, perché potevamo essere certe che sarebbero serviti proprio quelli che avessimo dimenticato. C’erano, per esempio, i fogli che Hitler usava per tutta la corrispondenza personale in qualità di capo di stato. Fogli bianchi con l’emblema della nazione (l’aquila con la croce uncinata) nell’angolo in alto a sinistra e sotto stampato in oro «Der Fuhrer». Per tutte le lettere di carattere privato, invece, si serviva di fogli molto simili, con la differenza che sotto l’emblema della nazione spiccava il nome «Adolf Hitler» in lettere maiuscole. Per ogni evenienza, dovevamo portare anche i fogli per gli affari di partito, con l’impressione in rilievo, nonché alcuni fogli per la corrispondenza militare con la normale stampa in nero. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 57 Fumare fa male Il professor Blaschke, un signore sulla sessantina, era il tipo dello studioso. Aveva le tempie ingrigite, mentre le folte sopracciglia e i baffi curati segnavano il suo volto pallido e sottile come delle travi scure. Era un uomo di natura introversa e taciturna. Nelle ore passate davanti al camino, tuttavia, di quando in quando veniva coinvolto da Hitler in una conversazione ed era uno dei pochi a difendere con determinazione il proprio punto di vista, sebbene il suo parere fosse opposto a quello del Fuhrer. Il professor Blaschke era anch’egli vegetariano, ma per un altro motivo. Sosteneva che la dentatura umana fosse fatta per gli alimenti vegetali e che tale nutrimento fosse il più digeribile. A questo proposito, dunque, concordava pienamente con Hitler, anche se spesso «danneggiava» il proprio corpo con cibi a base di carne e non riteneva che il pollame rientrasse nella categoria «carne». Ma quando Hitler pretese che il professor Blaschke gli confermasse che il fumo era uno dei vizi più dannosi e che produceva effetti negativi soprattutto sui denti, incontrò un’opposizione molto decisa. Blaschke era egli stesso un fumatore accanito e, forse per questo, più tollerante di quanto non avrebbe dovuto essere sotto il profilo medico. Riteneva che il fumo fosse addirittura benefico, in quanto disinfettava il cavo orale e stimolava l’irrorazione sanguigna, e che, in condizioni normali, non fosse affatto nocivo. Hitler, però, non gli dava ascolto: «Il fumo è e rimane una delle passioni più pericolose; al di là del fatto che personalmente trovo disgustoso l’odore del fumo di sigaro e di sigaretta, non offrirei mai una sigaretta o un sigaro a una persona che stimo o amo, perché gli renderei un cattivo servizio. È stato inequivocabilmente dimostrato che i non fumatori vivono più a lungo dei fumatori e che sono molto più resistenti alle malattie». Gretl Braun dichiarò di non volere affatto invecchiare se non poteva fumare, la vita non sarebbe stata bella neanche la metà e in ogni caso lei era sana anche se fumava da anni. «Sì, Gretl, ma se non fumasse, sarebbe ancora più sana, e vedrà che quando si sposerà non avrà bambini. E poi, l’odore del tabacco non dona proprio alle signore. Una volta ero a Vienna al ricevimento di un artista. Accanto a me sedeva Maria Holst (un’attrice viennese), davvero una bellissima donna. Aveva dei magnifici capelli castani, ma quando mi chinai verso di lei, dalla sua chioma mi arrivarono zaffate di nicotina. Le dissi: ma perché lo fa, dovrebbe cercare di mantenere la sua bellezza e non fumare». Quando poi Hitler affermò che l’alcool era meno dannoso della nicotina, suscitò l’opposizione compatta di tutti i fumatori, e non erano pochi nel suo entourage. Io dissi: «Mio Fuhrer, l’alcool distrugge matrimoni, provoca incidenti e crimini. La nicotina, invece, al massimo danneggia un poco la salute di chi fuma». Lui, tuttavia, non si lasciò convincere dalle nostre argomentazioni e stabilì che nei pacchi di Natale distribuiti a suo nome ai soldati della Leibstandarte fossero messi cioccolata e acquavite, ma non sigarette. Tentammo di spiegargli che probabilmente, alla prima occasione, i soldati avrebbero scambiato la loro cioccolata con del tabacco: fu tutto inutile. Himmler provvide poi personalmente a distribuire pacchetti di tabacco alle truppe, altrimenti l’efficienza bellica delle SS ne avrebbe sofferto di sicuro. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 91 Hoffmann il buon compagno di lotta mai sobrio Hoffmann, il buon compagno di lotta, anche nei suoi momenti migliori non aveva mai disdegnato un goccetto; Hitler stesso, infatti, narrò alcuni aneddoti che provavano che Hoffmann non era mai stato astemio. Dall’inizio della guerra Hoffmann aveva avuto poche occasioni di incontrare il Fuhrer. Al quartier generale non aveva motivo di recarsi, il Berghof, dunque, era la loro unica occasione d’incontro. All’inizio il Fùhrer era sempre contento di rivedere, dopo lunghi mesi, il suo fedele sostenitore, ma in poco tempo questi riusciva a irritarlo. «Hoffmann, il suo naso sembra una zucca andata a male; credo che se si mettesse un fiammifero davanti al suo respiro, lei esploderebbe. Presto nelle sue vene scorrerà vino rosso al posto del sangue» gli disse il giorno in cui si presentò a tavola senza poter nascondere nemmeno al Fuhrer di avere alzato un po’ troppo il gomito, cosa che almeno, prima, non aveva mai fatto. Era sempre apparso sobrio davanti a Hitler, che rimase impressionato e sconvolto nel vedere il suo vecchio amico e confidente lasciarsi andare così. Alla fine Hitler ordinò ai suoi aiutanti Schaub e Bormann: «Vi prego di provvedere che il professor Hoffmann si presenti sobrio da me. L’ho invitato per conversare con lui e non perché si desse alle sbronze». Da allora il buon Hoffmann ebbe qualche difficoltà a trovare qualcuno che bevesse in sua compagnia. Improvvisamente, nessuno nell’entourage di Hitler aveva la possibilità di procurargli una fiaschetta, né di tenergli compagnia con il vino. Più tardi, si portò egli stesso l’occorrente, irritando Hitler a tal punto che non venne quasi più invitato. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 101 Un silenzio imbarazzante circa le persecuzioni degli ebrei Di sera, davanti al camino, con Hitler si parlò a lungo dei galleristi e delle mostre allestite da Hoffmann, un vecchio compagno di lotta di Monaco, presso la Haus der Deutschen Kunst. La conversazione annoiò tutti tremendamente, ma Hitler amava la pittura e Hoffmann conosceva i suoi gusti e, soprattutto, il valore materiale degli antichi maestri. Un giorno era presente anche la figlia di Hoffmann, la moglie di Baldur von Schirach. Era una viennese graziosa e schietta dalla conversazione incantevole, ma dovette interrompere molto presto la sua visita per aver creato una situazione incresciosa durante una conversazione alla casa da tè. Io non ero presente, ma me lo riferì Hans Junge. Mentre Hitler era seduto davanti al camino con i suoi ospiti, a un tratto disse: «Mio Fuhrer, di recente ad Amsterdam ho visto un treno di ebrei deportati. È terribile osservare l’aspetto di quelle povere persone, sono certamente trattate malissimo. Lei lo sa e lo permette?». Vi fu un silenzio imbarazzante. Poco dopo Hitler si alzò, si congedò e si ritirò. Il giorno dopo la signora von Schirach tornò a Vienna, e nessuno accennò più all’accaduto. Apparentemente, aveva oltrepassato il limite dei propri diritti di ospite e non aveva adempiuto il suo compito di intrattenere il Fuhrer. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 102 Hitler racconta del suo viaggio in Italia ospite di Mussolini «Il Duce è un eccellente statista. Conosce la mentalità del proprio popolo ed è davvero sorprendente cosa sia riuscito a fare dell’Italia con il suo popolo pigro in così breve tempo. Ma non è in una posizione facile, si trova tra la Chiesa e la Casa reale. Il re è un imbecille, ma ha molti seguaci. Comunque è stato meraviglioso a Roma. L’Italia è un paese incantevole, però ha una popolazione molto pigra.» Hitler raccontò poi con entusiasmo delle grandi manifestazioni e dei fastosi allestimenti che il Duce aveva preparato in onore dell’ospite. La popolazione fascista aveva tributato infinite ovazioni allo statista alleato, mostrando molto temperamento e un entusiasmo incredibile. In seguito, Hitler definì tutto quell’entusiasmo semplicemente un fuoco di paglia e disse che gli italiani erano gentaglia priva di carattere. A quel tempo era stato con Mussolini all’opera e la disattenzione del pubblico nei confronti degli interpreti lo aveva fatto inorridire. «La gente sedeva nei palchi e nelle gallerie abbigliata in sontuose toilette e s’intratteneva in pettegolezzi personali mentre i cantanti davano il loro meglio. Arrivammo solo a metà del secondo atto e non riuscivo a credere alle mie orecchie quando all’improvviso, nel bel mezzo della rappresentazione, si interruppero per suonare l’inno nazionale italiano, quello della Germania e lo Horst-Wessel-Lied [l’inno ufficiale del Partito nazista, che dal 1933 veniva sempre cantato dopo l’inno nazionale]. Ero proprio imbarazzato e ho trovato la faccenda molto sgradevole per gli attori.» Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 103. La prima asserzione da megalomane che sentivo da Hitler Un giorno, si parlava ancora di matrimonio e di nozze e domandai: «Perché non si è sposato, mio Fuhrer?». Sapevo bene quanto gli piacesse combinare matrimoni. La risposta fu alquanto strabiliante: «Non sarei un buon padre di famiglia e ritengo irresponsabile formare una famiglia se non posso dedicarmi a mia moglie come si deve. Inoltre non vorrei avere dei figli miei. Credo che, di solito, i discendenti dei geni abbiano una vita molto difficile. Da loro ci si aspetta la stessa grandezza del famoso genitore e non se ne perdona la mediocrità. E poi, spesso diventano dei cretini». Era la prima seria asserzione da megalomane che sentivo da Hitler. Finora avevo avuto di tanto in tanto l’impressione che fosse megalomane nella sua ideologia e nel suo fanatismo, ma la sua persona era sempre stata esclusa dal gioco, mentre sottolineava piuttosto: «Sono uno strumento del fato e devo percorrere il cammino predisposto per me da una volontà superiore». Ora, tuttavia, mi disturbava enormemente l’idea che un essere umano si considerasse un genio. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 123 La convincente eloquenza di Hitler A volte nascevano anche interessanti discussioni sulla Chiesa o sull’evoluzione dell’umanità. Definirle discussioni forse è esagerato; partendo da una nostra domanda o osservazione cominciava a sviluppare il proprio pensiero, e noi stavamo ad ascoltare. È un peccato che io rammenti ormai solo minuscole schegge di queste teorie e purtroppo non possiedo neppure la convincente eloquenza con cui Hitler ci esponeva le sue idee. Tornando alle nostre baracche parlammo tra noi della conferenza di Hitler ed ero ben decisa a riflettere ancora su queste cose e tenerle a mente. Purtroppo, già il giorno dopo, dovetti constatare che riuscivo a riferire agli amici solo in maniera confusa e poco chiara tutto ciò che la sera precedente mi aveva impressionato e persuaso. Ah, se fossi stata matura ed esperta come lo sono oggi, non mi sarei semplicemente lasciata trascinare, non avrei subìto l’influsso di Hitler così, senza scrupoli né sospetti! Mi sarei dovuta preoccupare del pericolo insito nella forza di una persona che riusciva, con la propria oratoria e il proprio potere di suggestione, a stregare gli altri soffocandone la volontà e le convinzioni. Talvolta vidi consiglieri di Hitler, generali e collaboratori, uscire con espressioni perplesse da una riunione con il Fuhrer, masticando grossi sigari e lambiccandosi il cervello. In seguito ho avuto occasione di parlare con alcuni di loro e, sebbene fossero più forti, più saggi e più esperti di me, spesso era capitato loro di presentarsi al Fuhrer armati di un fermo proposito e di documenti e argomentazioni ineccepibili per convincerlo dell’impossibilità di un comando, dell’irrealizzabilità di una disposizione, ma, ancor prima che avessero finito, lui attaccava a parlare e tutte le loro obiezioni svanivano, perdevano senso di fronte alla sua logica. Sapevano che non poteva funzionare, ma non riuscivano a trovare il bandolo della matassa. Lo lasciavano disperati, scombussolati, resi insicuri delle proprie opinioni, prima tanto salde e irrefutabili, come ipnotizzati. Credo che molti abbiano tentato di opporsi a questa influenza, ma tanti si sono stancati, arresi, e hanno lasciato semplicemente perdere fino all’amaro epilogo. Tuttavia ci sono voluti la completa e totale disfatta, un’amara fine e molte profonde delusioni perché acquistassi lucidità e sicurezza. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 125 Un’ebrea nello staff di Hitler In primavera partimmo di nuovo alla volta del Berghof, mentre nella Prussia orientale le costruzioni dovevano essere sottoposte a ulteriori opere di fortificazione. Hitler voleva fare realizzare alcuni bunker molto stabili e a prova di bomba. Marlene von Exner non era della partita. Era rimasta nella Tana del Lupo per fare le valigie, chiudere casa e tornare a Vienna. Il suo destino ebbe un che di tragicomico. Sebbene non potesse soffrire i prussiani e odiasse le SS, si era innamorata del giovane aiutante delle SS Fritz Darges. Anche Gretl Braun si era innamorata di lui, ma per il piccolo Fritz questo amore era un po’ troppo pericoloso e troppo poco privato, dunque non aveva saputo decidersi ad accettarlo. Tuttavia c’era qualcosa che non quadrava con gli avi di Marlene. All’inizio del servizio da Hitler, lei aveva accennato al fatto che i documenti di sua madre non fossero a posto. La nonna era una trovatella e non era possibile verificarne la discendenza. In virtù dei provati sentimenti nazionalsocialisti dell’intera famiglia, Hitler aveva attribuito poca importanza alla faccenda, fino a quando l’efficiente e solerte SDP constatò che effettivamente nella linea materna era presente del sangue ebraico. Lo sgomento di Marlene fu grande, non tanto per il rischio di perdere il posto di lavoro, quanto per l’impossibilità di sposare un soldato delle SS. Hitler ebbe un colloquio con la signora von Exner, durante il quale disse: «Mi dispiace moltissimo per lei, ma capirà che non posso fare altro che licenziarla dal mio servizio. È impossibile che io faccia un’eccezione per me personalmente e annulli le mie stesse leggi quando mi fa comodo. Ma quando sarà di nuovo a Vienna farò arianizzare tutta la sua famiglia e le pagherò lo stipendio per altri sei mesi. Inoltre, prima di lasciarmi, la prego di venire una volta al Berghof come mia ospite». E fu così che Marlene prese congedo. Il Reichsleiter Bormann ricevette in mia presenza l’incarico di procedere all’arianizzazione della famiglia Exner. Era un compito che Bormann accettò controvoglia, perché aveva tentato di corteggiare l’affascinante viennese e non le avrebbe mai perdonato di averlo fatto invano. La sua vendetta non mancò di colpire; alcune settimane più tardi, infatti, ricevetti da Vienna una lettera molto infelice, secondo la quale ai membri della famiglia erano state ritirate le tessere del partito e si trovavano tutti in grandi difficoltà. Quando interrogai Bormann in merito, dichiarò che se ne sarebbe occupato lui. Trascorsero ancora settimane e settimane e alla fine ricevetti un resoconto impressionante su quanto fosse diventata dura la vita per gli Exner. Marlene dovette lasciare la clinica universitaria, sua sorella non poté studiare medicina, il fratello fu costretto a chiudere il suo studio medico e il minore non ebbe la possibilità di intraprendere la carriera di ufficiale. Ero talmente furiosa e indignata che mi sedetti alla macchina da scrivere con i caratteri grandi, trascrissi la lettera parola per parola e mi recai dal Fuhrer. Diventò tutto rosso dalla rabbia e convocò Bormann. Anche il Reichsleiter era tutto rosso quando uscì dalla camera di Hitler e mi squadrò furibondo. In marzo, però, ricevetti buone notizie: era tutto a posto, l’intera famiglia Exner mi ringraziava moltissimo, finalmente l’arianizzazione era stata portata a termine. Quattro settimane più tardi gli alleati erano a Vienna. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 135 Hitler ammalato Qualche giorno più tardi ci fu comunicato: «Il Fúhrer si scusa, mangerà da solo». E anche il tè fu sospeso. Finché, un giorno, Hitler rimase a letto. L’avvenimento fece scalpore. Nessuno lo aveva mai visto giacere a letto. Perfino il suo cameriere lo svegliava restando dall’altra parte della porta chiusa e appoggiava i fogli con le notizie del mattino fuori, su un tavolino. Il Fúhrer non aveva mai ricevuto nessuno dei suoi collaboratori in vestaglia. A un tratto si era ammalato e nessuno sapeva perché. Non era uscito indenne dall’attentato? I medici ritenevano che potesse forse essere l’effetto ritardato di una commozione cerebrale che si manifestava soltanto ora. In ogni caso non lo vedemmo per giorni. Gli aiutanti erano disperati. Il Fuhrer non voleva ricevere nessuno. Un giorno Otto Gunsche venne a raccontarmi: «Il Fúhrer è completamente indifferente, non sappiamo cosa fare. Nemmeno la situazione sul fronte orientale lo interessa, anche se lì siamo proprio messi male». Dalla degenza, Morell impartiva al suo assistente istruzioni telefoniche sulle cure per Hitler. Ed ecco che all’improvviso la sua vitalità si risvegliò, impartì ordini dal letto, chiese rapporti sulla situazione e, dopo qualche giorno, riprese perfino l’abitudine del tè notturno. Credo che ricevere i propri ospiti in camera, coricato, sia stato un evento unico nella sua vita. Devo dire che era molto scomodo. La stanzetta del bunker era ammobiliata in maniera squallida. Proprio come l’alloggio di un soldato in una caserma. Inoltre Hitler aveva in camera anche una gigantesca cassa di legno per Blondi e la sua famiglia, sicché lo spazio era davvero esiguo. Mi venivano in mente le preoccupazioni di Eva Braun, che non sapeva mai cosa regalare a Hitler per il suo compleanno o per Natale. Lui indossava una modesta vestaglia di flanella grigia, nessuna cravatta colorata, solo dei brutti calzini neri, nemmeno il pigiama era moderno. Giaceva nel suo letto, ben pettinato e rasato, in una camicia da notte bianca, così semplice che poteva essere stata disegnata solo dalla Wehrmacht. Non aveva abbottonato le maniche perché l’avrebbero stretto e quindi vedevamo la pelle bianca delle sue braccia. Un bianco cereo! Potevamo ben capire che non andasse volentieri in giro in pantaloni corti! Davanti al letto era stato collocato un tavolino, intorno al quale ci riunivamo con fatica avvicinando alcune sedie. Se uno degli ospiti (non erano molti, a parte le due segretarie, l’aiutante Bormann e Hewel) voleva uscire, tutti dovevano alzarsi, e servire era difficoltoso. Hitler non parlava ancora molto. Si fece raccontare cosa avevamo fatto negli ultimi giorni. Non avevamo grandi novità da riferire. La nostra principale attività era consistita nel copiare intere pile di comunicazioni sulle perdite. Era stato un lavoro avvilente e ci era parso inutile; negli ultimi giorni Hitler non aveva nemmeno guardato i resoconti. Era terribile vedere l’unico uomo che avrebbe potuto mettere fine a ogni miseria con un solo tratto di penna giacere nel suo letto quasi indifferente e guardare fisso davanti a sé con occhi stanchi, mentre intorno si scatenava l’inferno. Avevo l’impressione che il suo corpo avesse compreso all’improvviso la vanità di tutti gli sforzi della sua mente e della sua forte volontà e avesse dichiarato sciopero, si fosse semplicemente coricato dicendo: «Non ci sto più». Hitler non si era mai imbattuto in una simile insubordinazione e si era lasciato cogliere di sorpresa. Poco tempo dopo, tuttavia, ogni debolezza fu superata. La notizia che i russi sarebbero penetrati nella Prussia orientale lo rimise in piedi e lo fece guarire in un amen. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 164 Il medico di Hitler faceva anche esperimenti medici sui detenuti dei campi di concentramento e sull’eutanasia Dal punto di vista professionale, nel frattempo, le si prospettano buone opportunità. A trent’anni non ha ancora un obiettivo preciso, ma finisce sempre per imbattersi in persone che la stimano e l’aiutano. Willi Brust, un conoscente che lavora come grafico per «Quick», la raccomanda alla rivista, a quel tempo un apprezzato periodico di reportage, noto per le inchieste e gli accurati servizi, spesso anche su persone con un passato nazista. Sebbene i reporter e i redattori di «Quick» conoscano il passato della loro collega, non la interpellano mai sulle sue esperienze durante il Terzo Reich. Ricordo che, un martedì grasso, la redazione stava lavorando a un grande servizio su diversi processi per crimini di guerra ed esecuzioni capitali a Landsberg. Allora, per la prima volta, ho saputo che cosa avveniva dietro le quinte del Terzo Reich. E soprattutto ho conosciuto la vera natura di quelle persone che ricordavo cortesi e raffinate. Il dottor Karl Brandt, per esempio, uno dei medici al seguito di Hitler, che avevo considerato un uomo colto e umano. Nel 1948 fu impiccato per aver partecipato agli esperimenti medici sui detenuti dei campi di concentramento e sull’eutanasia. Ero esterrefatta. Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 243 Il confronto con una martire della “Rosa bianca” Racconta Traudl Junge : «A quel tempo, a Monaco, devo essere passata spesso senza farci caso davanti alla targa in memoria di Sophie Scholl in Franz-Joseph-Strasse [Sophie Scholl (1921-1943) partecipò con il fratello all’attività di propaganda antinazista del piccolo gruppo di resistenti della Rosa bianca.]. Un giorno l’ho notata e, quando mi sono resa conto che è stata giustiziata nel 1943, proprio nel momento in cui stava cominciando la mia vita accanto a Hitler, ne sono stata profondamente scioccata. Anche Sophie Scholl all’inizio era stata una ragazza del BDM, di un anno più giovane di me, e aveva capito benissimo di avere a che fare con un regime criminale. La mia scusa perdeva ogni consistenza.» Anni di presa di coscienza. Lunghe fasi depressive e colloqui terapeutici che non portano alcun miglioramento, apatia anche nel lavoro. Tra il 1967 e il 1971 Traudl è responsabile della rivista di settore «Drogerie Journal» per la casa editrice Wort und Bild. «A un tratto non riuscivo più a scrivere. Anche la frase più semplice mi creava delle difficoltà. Al pensiero di non essere più in grado di svolgere la mia professione le mie condizioni si erano ulteriormente aggravate. Volevo fuggire in Australia, cercare rifugio da mia sorella. Ho dato le dimissioni e ho affittato il mio appartamento.» Per quanto possa suonare paradossale, Traudl Junge ha preso radicalmente le distanze dal nazionalsocialismo, un sistema al quale non ha mai sentito di appartenere, ma che, ciononostante, ha condiviso. Non si è costruita un’esistenza fittizia, bensì si è sforzata di essere sincera con il suo prossimo. Gli anni del tormentoso confronto con se stessa hanno avuto un senso: l’hanno fatta maturare. «Mi sono ritirata e ho trangugiato i sensi di colpa, il lutto e il tormento. All’improvviso sono diventata interessante perché sono una testimone della storia; ciò mi ha fatto entrare in un pesante conflitto con i miei complessi di colpa. Perché in questi colloqui non si è mai parlato della colpa, ma soltanto di fatti storici, e quindi potevo riferire senza dovermi giustificare. Questa circostanza mi ha oppresso ancora di più e mi ha fornito ulteriore materia di riflessione. Oggi rimpiango due cose: il destino di quei milioni di persone che sono state assassinate dal nazionalsocialismo e la ragazza Traudl Humps, alla quale è mancata la sicurezza di sé e l’accortezza di saper dire no al momento giusto.» Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 251 VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI IN POLONIA DISCORSO DEL SANTO PADRE VISITA AL CAMPO DI AUSCHWITZ Auschwitz-Birkenau, 28 maggio 2006 Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa. Ventisette anni fa, il 7 giugno 1979, era qui Papa Giovanni Paolo II; egli disse allora: "Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui… Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro della morte e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Birkenau. Non potevo non venire qui come Papa". Papa Giovanni Paolo II stava qui come figlio di quel popolo che, accanto al popolo ebraico, dovette soffrire di più in questo luogo e, in genere, nel corso della guerra: "Sono sei milioni di Polacchi, che hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione”, ricordò allora il Papa. Qui egli elevò poi il solenne monito al rispetto dei diritti dell'uomo e delle nazioni, che prima di lui avevano elevato davanti al mondo i suoi Predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI, e aggiunse: “Pronuncia queste parole […] il figlio della nazione che nella sua storia remota e più recente ha subito dagli altri un molteplice travaglio. E non lo dice per accusare, ma per ricordare. Parla a nome di tutte le nazioni, i cui diritti vengono violati e dimenticati…”. Papa Giovanni Paolo II era qui come figlio del popolo polacco. Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui: Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco – figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell'onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell'intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui. Il 7 giugno 1979 ero qui come Arcivescovo di Monaco-Frisinga tra i tanti Vescovi che accompagnavano il Papa, che lo ascoltavano e pregavano con lui. Nel 1980 sono poi tornato ancora una volta in questo luogo di orrore con una delegazione di Vescovi tedeschi, sconvolto a causa del male e grato per il fatto che sopra queste tenebre era sorta la stella della riconciliazione. È ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della riconciliazione – da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori; dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti coloro che, in quest'ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell'odio e sotto la violenza fomentata dall'odio. Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male? Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell'Israele sofferente: “…Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose… Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore? Déstati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia!” (Sal 44,20.23-27). Questo grido d'angoscia che l'Israele sofferente eleva a Dio in periodi di estrema angustia, è al contempo il grido d'aiuto di tutti coloro che nel corso della storia – ieri, oggi e domani – soffrono per amor di Dio, per amor della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi. Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l'uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No – in definitiva, dobbiamo rimanere con l'umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l'uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell'egoismo, della paura degli uomini, dell'indifferenza e dell'opportunismo. Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure: da una parte, l'abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti; dall'altra, il cinismo che non conosce Dio e che schernisce la fede in Lui. Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza – una spirale di distruzioni, in cui tutti in fin dei conti possono essere soltanto perdenti. Il Dio, nel quale noi crediamo, è un Dio della ragione – di una ragione, però, che certamente non è una neutrale matematica dell'universo, ma che è una cosa sola con l'amore, col bene. Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché questa ragione, la ragione dell'amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace prevalga sulle minacce circostanti dell'irrazionalità o di una ragione falsa, staccata da Dio. Il luogo in cui ci troviamo è un luogo della memoria, è il luogo della Shoa. Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere. Come Giovanni Paolo II ho percorso il cammino lungo le lapidi che, nelle varie lingue, ricordano le vittime di questo luogo: sono lapidi in bielorusso, ceco, tedesco, francese, greco, ebraico, croato, italiano, yiddish, ungherese, neerlandese, norvegese, polacco, russo, rom, rumeno, slovacco, serbo, ucraino, giudeo-ispanico, inglese. Tutte queste lapidi commemorative parlano di dolore umano, ci lasciano intuire il cinismo di quel potere che trattava gli uomini come materiale non riconoscendoli come persone, nelle quali rifulge l'immagine di Dio. Alcune lapidi invitano ad una commemorazione particolare. C'è quella in lingua ebraica. I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall'elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: "Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello" si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all'uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele, con la Shoa, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell'uomo, del forte. C'è poi la lapide in lingua polacca: In una prima fase e innanzitutto si voleva eliminare l'élite culturale e cancellare così il popolo come soggetto storico autonomo per abbassarlo, nella misura in cui continuava ad esistere, a un popolo di schiavi. Un'altra lapide, che invita particolarmente a riflettere, è quella scritta nella lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive migrando in mezzo agli altri popoli. Esso veniva annoverato tra gli elementi inutili della storia universale, in una ideologia nella quale doveva contare ormai solo l'utile misurabile; tutto il resto, secondo i loro concetti, veniva classificato come lebensunwertes Leben – una vita indegna di essere vissuta. Poi c'è la lapide in russo che evoca l'immenso numero delle vite sacrificate tra i soldati russi nello scontro con il regime del terrore nazionalsocialista; al contempo, però, ci fa riflettere sul tragico duplice significato della loro missione:hanno liberato i popoli da una dittatura, ma sottomettendo anche gli stessi popoli ad una nuova dittatura, quella di Stalin e dell'ideologia comunista. Anche tutte le altre lapidi nelle molte lingue dell'Europa ci parlano della sofferenza di uomini dell'intero continente; toccherebbero profondamente il nostro cuore, se non facessimo soltanto memoria delle vittime in modo globale, ma se invece vedessimo i volti delle singole persone che sono finite qui nel buio del terrore. Ho sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Benedicta a Cruce: ebrea e tedesca scomparsa, insieme con la sorella, nell'orrore della notte del campo di concentramento tedesco-nazista; come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire insieme con il suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad AuschwitzBirkenau e qui sono morti, erano visti comeAbschaum der Nation – come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone, perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia. Con profondo rispetto e gratitudine ci inchiniamo davanti a tutti coloro che, come i tre giovani di fronte alla minaccia della fornace babilonese, hanno saputo rispondere: "Solo il nostro Dio può salvarci. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d'oro che tu hai eretto" (cfr Dan 3,17s.). Sì, dietro queste lapidi si cela il destino di innumerevoli esseri umani. Essi scuotono la nostra memoria, scuotono il nostro cuore. Non vogliono provocare in noi l'odio: ci dimostrano anzi quanto sia terribile l'opera dell'odio. Vogliono portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo; vogliono suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male. Vogliono portarci a quei sentimenti che si esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all'orrore che la circonda: "Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare". Grazie a Dio, con la purificazione della memoria, alla quale ci spinge questo luogo di orrore, crescono intorno ad esso molteplici iniziative che vogliono porre un limite al male e dar forza al bene. Poco fa ho potuto benedire il Centro per il Dialogo e la Preghiera. Nelle immediate vicinanze si svolge la vita nascosta delle suore carmelitane, che si sanno particolarmente unite al mistero della croce di Cristo e ricordano a noi la fede dei cristiani, che afferma che Dio stesso e sceso nell'inferno della sofferenza e soffre insieme con noi. A Oświęcim esiste il Centro di san Massimiliano e il Centro Internazionale di Formazione su Auschwitz e l'Olocausto. C'è poi la Casa Internazionale per gli Incontri della Gioventù. Presso una delle vecchie Case di Preghiera esiste il Centro Ebraico. Infine si sta costituendo l'Accademia per i Diritti dell'Uomo. Così possiamo sperare che dal luogo dell'orrore spunti e cresca una riflessione costruttiva e che il ricordare aiuti a resistere al male e a far trionfare l’amore. L'umanità ha attraversato a Auschwitz-Birkenau una "valle oscura". Perciò vorrei, proprio in questo luogo, concludere con una preghiera di fiducia – con un Salmo d'Israele che, insieme, è una preghiera della cristianità: "Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza … Abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni" (Sal 23, 1-4. 6). VISITA ALLA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI Sinagoga di Roma Domenica, 17 gennaio 2010 “Il Signore ha fatto grandi cose per loro” Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia” (Sal 126) “Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133) Signor Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, Signor Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Signor Presidente della Comunità Ebraica di Roma Signori Rabbini, Distinte Autorità, Cari amici e fratelli, 1. All’inizio dell’incontro nel Tempio Maggiore degli Ebrei di Roma, i Salmi che abbiamo ascoltato ci suggeriscono l’atteggiamento spirituale più autentico per vivere questo particolare e lieto momento di grazia: la lode al Signore, che ha fatto grandi cose per noi, ci ha qui raccolti con il suoHèsed, l’amore misericordioso, e il ringraziamento per averci fatto il dono di ritrovarci assieme a rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità. Desidero esprimere innanzitutto viva gratitudine a Lei, Rabbino Capo, Dottor Riccardo Di Segni, per l’invito rivoltomi e per le significative parole che mi ha indirizzato. Ringrazio poi i Presidenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Avvocato Renzo Gattegna, e della Comunità Ebraica di Roma, Signor Riccardo Pacifici, per le espressioni cortesi che hanno voluto rivolgermi. Il mio pensiero va alle Autorità e a tutti i presenti e si estende, in modo particolare, alla Comunità ebraica romana e a quanti hanno collaborato per rendere possibile il momento di incontro e di amicizia, che stiamo vivendo. Venendo tra voi per la prima volta da cristiano e da Papa, il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, quasi ventiquattro anni fa, intese offrire un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo. Con sentimenti di viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e l’affetto che il Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l’intera Chiesa Cattolica, nutrono verso questa Comunità e le Comunità ebraiche sparse nel mondo. 2. La dottrina del Concilio Vaticano II ha rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell’atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa. L’evento conciliare ha dato un decisivo impulso all’impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito e sviluppato in questi quarant’anni con passi e gesti importanti e significativi, tra i quali desidero menzionare nuovamente la storica visita in questo luogo del mio Venerabile Predecessore, il 13 aprile 1986, i numerosi incontri che egli ha avuto con Esponenti ebrei, anche durante i Viaggi Apostolici internazionali, il pellegrinaggio giubilare in Terra Santa nell’anno 2000, i documenti della Santa Sede che, dopo la Dichiarazione Nostra Aetate, hanno offerto preziosi orientamenti per un positivo sviluppo nei rapporti tra Cattolici ed Ebrei. Anche io, in questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell’Alleanza. Conservo ben vivo nel mio cuore tutti i momenti del pellegrinaggio che ho avuto la gioia di realizzare in Terra Santa, nel maggio dello scorso anno, come pure i tanti incontri con Comunità e Organizzazioni ebraiche, in particolare quelli nelle Sinagoghe a Colonia e a New York. Inoltre, la Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo (cfr Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, Noi Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998). Possano queste piaghe essere sanate per sempre! Torna alla mente l’accorata preghiera al Muro del Tempio in Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro cuore: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell’Alleanza”. 3. Il passare del tempo ci permette di riconoscere nel ventesimo secolo un’epoca davvero tragica per l’umanità: guerre sanguinose che hanno seminato distruzione, morte e dolore come mai era avvenuto prima; ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l’idolatria dell’uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo. Come dissi nella visita del 28 maggio 2006 al campo di concentramento di Auschwitz , ancora profondamente impressa nella mia memoria, “i potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità” e, in fondo, “con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno” ( Discorso al campo di AuschwitzBirkenau: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 1[2006], p. 727). In questo luogo, come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta. La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza. 4. La nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia – in ebraico Sifre Qodesh o “Libri di Santità” – il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo. E’ scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 839). “A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nella Antica Alleanza. E’ al popolo ebraico che appartengono ‘l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne’ (Rm 9,4-5) perché ‘i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!’ (Rm 11,29)” (Ibid.). 5. Numerose possono essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico “a livello della loro stessa identità” spirituale e che offre ai Cristiani l’opportunità di promuovere “un rinnovato rispetto per l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento” (cfrPontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, pp. 12 e 55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità; l’impegno per preparare o realizzare il Regno dell’Altissimo nella “cura del creato” affidato da Dio all’uomo perché lo coltivi e lo custodisca responsabilmente (cfr Gen 2,15). 6. In particolare il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (cfr Es 20,1-17; Dt 5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un “grande codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo. Le “Dieci Parole” chiedono di riconoscere l’unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono e devono offrire assieme. Le “Dieci Parole” chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell’essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo “shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele. Le “Dieci Parole” chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano. 7. Come insegna Mosè nello Shemà (cfr. Dt 6,5; Lv 19,34) – e Gesù riafferma nel Vangelo (cfr.Mc 12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c’è un mirabile detto dei Padri d’Israele: “Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Aboth 1,2). Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza. 8. In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra. I passi compiuti in questi quarant’anni dal Comitato Internazionale congiunto cattolico-ebraico e, in anni più recenti, dalla Commissione Mista della Santa Sede e del Gran Rabbinato d’Israele, sono un segno della comune volontà di continuare un dialogo aperto e sincero. Proprio domani la Commissione Mista terrà qui a Roma il suo IX incontro su “L’insegnamento cattolico ed ebraico sul creato e l’ambiente”; auguriamo loro un proficuo dialogo su un tema tanto importante e attuale. 9. Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il Misericordioso. 10. Infine un pensiero particolare per questa nostra Città di Roma, dove, da circa due millenni, convivono, come disse il Papa Giovanni Paolo II, la Comunità cattolica con il suo Vescovo e la Comunità ebraica con il suo Rabbino Capo; questo vivere assieme possa essere animato da un crescente amore fraterno, che si esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da affrontare. Invoco dal Signore il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa. Nel mio pellegrinaggio del maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto a Colui che può tutto: “manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione” (Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, 12 maggio 2009). Nuovamente elevo a Lui il ringraziamento e la lode per questo nostro incontro, chiedendo che Egli rafforzi la nostra fraternità e renda più salda la nostra intesa. [“Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre”. Alleluia” (Sal 117)] Ester, la speranza oltre la Shoah di Elena Dini Ha perso i genitori nello sterminio; un suo nipote è stato ucciso dai palestinesi a Jenin. Eppure crede in una memoria che apre alla riconciliazione CI SONO STORIE che, una volta raccontate, non lasciano il sapore amaro della tristezza che le accompagna. Sono storie in cui l'amore che le ha guidate e la speranza nel futuro giocano un ruolo fondamentale. Storie come quella di Ester Go¬lan (nella foto), ebrea che ha vissuto sulla sua pelle le ferite della Shoah, «troppo brutta per essere adottata in America e troppo magra per andare in Palestina». Oggi ha qualche chilo in più rispetto alla sua adolescenza e una bellezza che passa attraverso gli occhi di chi ne ha viste tante nella vita. A ottantasei anni in Israele incontra gruppi di ogni religione (musulmani compresi) per raccontare il dramma del¬l'Olo¬causto. E a rendere unica la sua testimonianza è la capacità di trasformare la memoria in un'occasione di dialogo. Nata in Germania nel novembre 1923, Ester Golan è sopravvissuta alla Shoah emigrando in Gran Bretagna; ma entrambi i suoi genitori, Arno e Else Dobrowsky, sono morti nei campi di sterminio. «Mia madre era sionista, so¬no cresciuta con il sogno di andare in Palestina», racconta Ester. Fino al 1932, la vita della famiglia Dobrowsky trascorreva in maniera abbastanza tranquilla ma con l'ascesa al potere di Hitler la vita cambia drasticamente: «Un giorno sono ar¬rivata a scuola - ricorda Ester - e la maestra mi ha detto: "Alzati, tu sei ebrea. Vai a sederti all'ultima fila". Da quel giorno in poi nessuno mi ha più parlato». Mamma Else cerca di far adottare la figlia negli Stati Uniti ma senza successo: «Nessuno vuole adottare una bambina brutta», fu la risposta. A 15 anni Ester parte per un campo di Youth Aliyah, un'associazione nata con lo scopo di preparare i ragazzi e le ragazze a emigrare in Pale¬stina. Ma, alla prova medica finale, Ester viene scartata perché sottopeso. Solo nell'aprile 1939 riesce a partire per Whitin¬ge¬hame, la casa di Lord Balfour in Scozia, dove venivano ospitati bambini ebrei in fuga dalle persecuzioni. Le ultime parole della mamma che ancora risuonano nelle sue orecchie sono: «L'anno prossimo a Gerusalemme». Nel 1942 la coppia Dobrowsky è spedita al campo di Theresienstadt dove Arno muore nel febbraio 1943. Mamma Else verrà trasferita ad Auschwitz dove morirà nel luglio 1944. FINITA LA GUERRA Ester si stabilisce nel nascente Stato di Israele. Per anni condivide il silenzio di molti sopravvissuti alla Shoah; finché non arriva la svolta. «È stato quando i miei figli hanno lasciato casa e ho avuto tem¬po per occuparmi della mia formazione - racconta -. Mi sono iscrit¬ta all'università, dove ho studiato psicologia educativa e sociologia. Ed è stato a quel punto che ho raggiunto la maturità emotiva necessaria per fare qualcosa sulla Shoah». Prendere coscienza del passato, rielaborarlo e anche raccontarlo è stato per Ester un nuovo punto di partenza. Inseparabile dalla volontà di impegnarsi nella conoscenza dell'altro, che in una terra come Israele ha il volto del¬l'arabo, cristiano e musulmano. «Ho cominciato a essere coinvolta nel dialogo interreligioso nel 1960 quando ero una guida turistica: studiavo religioni comparate e mostravo alle persone di fedi differenti i loro luoghi sacri». Da una parte, dunque, Ester comincia a lavorare all'interno della comunità ebraica per mantenere la memoria di ciò che è stata la Shoah. Ma Ester è anche ben cosciente di vivere in una società che ha tremendamente bisogno di pace e riconciliazione. Nel 2000 Ester si unisce ad un gruppo di donne ebree, cristiane, musulmane e armene per il dialogo interreligioso. Si in¬contrano mensilmente, si scambiano visite, si telefonano. «Per vivere in pace la gente ha bisogno di conoscersi. Deve sentire di avere qualcosa in comune con l'altro - insegna Ester e la base per una maggiore comprensione è la fiducia reciproca». UN'APERTURA al¬l'altro particolarmente si¬gni¬ficativa in chi ha vissuto tan¬to dolore. Ma anche questo atteggiamento do¬veva di nuovo essere messo alla prova. Nel 2002 nello Yom Ha-Shoah - il giorno in cui Israele ricorda le vittime della Shoah - Ester è allo Yad Va¬shem. Una telefonata di suo figlio le dà una nuova notizia terribile: c'è stato un combattimento a Jenin, tredici soldati israeliani sono morti. Suo nipote, Eyal Yoel, è uno di questi. «Per me la Shoah non era solo lì e allora, ma qui e oggi - commenta Ester a sette anni di distanza da quel 9 aprile 2002 -. Non è stato semplice per me tornare alle mie attività. Ma le don¬ne del mio gruppo di incontro mi hanno incoraggiata a farlo». La sua conclusione è che bisogna lavorare ancora di più per il dialogo: «Prima dell'intifada c'erano molti tentativi di incontro fra palestinesi e israeliani e fra ebrei, cristiani e musulmani. Ma dopo, tutto sembrava bloccato». Ester incontra padre Emile Shoufani, sacerdote greco-melchita e direttore di una scuola cristiana a Nazareth, e Nasir Ma¬gali, un gior¬nalista musulmano. «Sono un'israeliana, ebrea, sionista, so¬pravvissuta alla Shoah - si presenta Ester -. E mi chiedo co¬sa conoscano gli altri in questo paese della Shoah. Secondo me molto poco». Così parte una nuova avventura per Ester: parlare della Shoah non solo al mondo ebraico, ma anche al di fuori. Così, insieme a padre Shou¬fani e a Nasir Magali, Ester ha potuto organizzare nel 2003 un viaggio ad Auschwitz per una de¬legazione che ha visto unite 250 persone fra ebrei, cristiani e musulmani. È stata la prima vol¬ta che arabi cristiani e mu¬sulmani - ed ebrei hanno visitato insieme un campo di concentramento. Per Ester, «ovunque la gente è incline a dimenticare ciò che l'uomo è capace di fare all'altro». Per questo la sofferenza della Shoah può ancora oggi insegnare tanto e parlare alle generazioni presenti anche di un conflitto come quello israelo-palestinese. Conoscere l'altro, farsi conoscere da lui, ascoltarlo e così scoprire qualcosa in più di noi stessi: questa è la strada per Ester, ieri come oggi. E non c'è dolore, per quanto grande sia stato, che la chiuda di fronte alla sfida di incontrarsi con chi è «pericolosamente» differente. «Se cristiani ed ebrei, tedeschi e israeliani possono parlarsi dopo tutto quello che è successo fra di loro conclude Ester -, allora sicuramente anche palestinesi e israeliani, musulmani e ebrei possono farlo. Bisogna solo volerlo». I GIUSTI FRA LE NAZIONI La storia dei Giusti è nella tradizione ebraica. Si racconta che in qualsiasi momento della storia dell'umanità ci siano sempre 36 Giusti al mondo. Nessuno sa chi siano, nemmeno loro stessi, ma sanno riconoscere le sofferenze e se ne fanno carico, perché sono nati Giusti e non possono ammettere l'ingiustizia. E' per amor loro che Dio non distrugge il mondo. Nel buio della barbarie nazista, molte migliaia di non ebrei rischiarono e spesso persero la vita per salvare quella di un ebreo, di una famiglia ebraica, o di intere comunità. Donne e uomini come tanti, che sapevano perfettamente a che cosa andavano incontro, ma il cui senso di giustizia e di amore per i loro simili fu più forte della paura e della morte. Ai Gentili (cioè non ebrei) Giusti, gli ebrei d'Europa devono dunque particolare riconoscenza, poiché è anche merito loro se il piano nazista di fare di loro una "razza estinta" non è riuscito fino in fondo. Nel 1953 il Parlamento Israeliano ha incaricato l'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme, il museomonumento dedicato alla Shoah, di accordare il termine di "Giusti tra le Nazioni" agli uomini che rischiarono le loro vite per salvare gli ebrei, come gesto di riconoscimento e ringraziamento a nome di tutto il popolo ebraico. Un giudice della Corte Suprema presiede un comitato di personalità pubbliche che assicura che i nominati abbiano agito interamente a loro discrezione, in territori controllati dalle truppe tedesche o da loro alleati e collaboratori, e mettendo a rischio la propria libertà e la propria vita, senza ricevere remunerazioni o compensi di sorta. Nel 1962, presso lo Yad Vashem è stato inaugurato il "Viale dei Giusti", dove vengono tutt'oggi piantati alberi in loro onore e memoria. Dal 1963 al 2001 sono stati proclamati circa 20.000 Giusti. Fino al 2002, gli italiani erano 295. Giorgio Perlasca Commerciante padovano ex fascista convinto, fingendosi diplomatico di Spagna a Budapest, nell'Ungheria occupata dai tedeschi, salvò migliaia di ebrei ungheresi nell'inverno del 1944, rilasciando loro dei salvacondotti e creando otto case rifugio, protette dall'Ambasciata Iberica. Coprendo ogni sua azione con la bandiera spagnola, quindi di una nazione neutrale, Perlasca recitò la parte del diplomatico internazionale dal 1° dicembre 1944 fino alla liberazione dell'Ungheria, il 16 gennaio 1945. Tutto ciò, però, avveniva senza che Madrid ne fosse al corrente. Così, grazie alle difficoltà di comunicazione dovute alla guerra e all'intraprendenza di un uomo, migliaia di ebrei ungheresi vennero sottratti a morte certa. Perlasca lasciò Budapest il 29 maggio del 1945, tra una piccola folla di salvati e il ricordo di un giornale locale che salutava con affatto. Perlasca venne rintracciato nel 1988 da alcuni ebrei ungheresi e per la sua opera fu insignito dell'Ordine della Stella d'Oro in Ungheria. Il 25 settembre 1989 non solo venne nominato "Giusto tra i Giusti", ma gli fu conferita la cittadinanza israeliana e infine, per decreto del Re Juan Carlos di Spagna, fu nominato "Commendatore di numero dell'Ordine di Isabella" Marcella Girelli Nata a Roma il 13 maggio 1921, in una famiglia borghese, Marcella Girelli frequentò tutte le scuole presso le Suore di Sion, dove prese i voti poco più che maggiorenne, assumendo il nome di suor Luisa. Nel 1940 l'Italia entrò in guerra, ma la vita del convento continuò a scorrere nei suoi binari di sempre, anche quando nel 1942 il Vaticano affidò all'Ordine di Sion il compito di trasformare in veri e propri moduli le innumerevoli richieste di aiuto nella ricerca di dispersi che arrivavano da tutta Italia. Nell'ottobre del 1943, dopo che Roma fu occupata dalle truppe naziste, si ebbe una svolta radicale. Il 16 di quel mese si presentarono alle prote del convento alcune famiglie di ebrei scampati al primo tragico rastrellamento del ghetto, che quella mattina aveva condannato oltre mille persone, bambini e vecchi compresi, alla deportazione ad Auschwitz. La Madre Superiora non ebbe esitazioni: il convento doveva accogliere e proteggere tutti i fuggiaschi. Iniziò così una convivenza molto speciale. Ai rifugiati venne destinata una parte del convento per dormire e cucinare, quando arrivavano nazisti o fascisti a perquisire il convento, le suore avevano ideato un ingegnoso sistema d'allarme per avvisare gli ebrei nascosti, dar loro il tempo di far sparire le proprie tracce e nascondersi. Al momento della Liberazione, nel 1945, le Suore di Sion erano riuscite a proteggere e salvare 140 ebrei fra cui molti bambini. Per questo loro atto di coraggio e abnegazione, hanno ricevuto il riconoscimento di "Giuste tra le Nazioni". A ritirarlo, a nome di tutte, suor Luisa. Odoardo Focherini Carpigiano di nascita e trentino di origine, uomo acuto, sensibile, estroverso, sostenuto da una grande fede, Focherini ha vissuto intensamente la sua vita, dedicandosi con passione al lavoro, agli amici, al giornale "L'Avvenire d'Italia", all'Azione Cattolica e, soprattutto alla sua famiglia: la moglie e i sette figli. Grazie al lavoro per la Società Cattolica di Assicurazioni di Verona, che lo portava a muoversi per molte province del nord-est d'Italia, poteva vedere come si stava evolvendo la situazione italiana, quali le difficoltà del Paese sotto la dittatura. Nel 1942 incontrò degli ebrei scappati dalla Polonia e riuscì ad organizzare per loro una via di fuga. Da quel momento capì che poteva fare qualcosa, che disponeva di contatti e di persone fidate che avrebbero potuto aiutarlo nel caso in cui, anche in Italia, la situazione per la minoranza ebraica fosse precipitata. Con l'8 settembre 1943, arrivò la conferma ai peggiori timori. Focherini, con l'aiuto del sacerdote Don Dante Sala, riuscì a mettere in piedi una struttura segreta per organizzare l'espatrio di ebrei in Svizzera. Le persone che lo hanno conosciuto in quel periodo lo ricordano come una persona serena e sorridente, che sapeva incoraggiare i profughi terrorizzati, che aveva sempre una buona parola per loro. Il rischio era alto e lo sapeva: erano in gioco la sua vita e quella della sua famiglia. Proprio al capezzale di un ebreo da salvare, in ospedale a Carpi, venne arrestato l'11 marzo 1944. Fu portato prima in Questura a Modena, poi in carcere a Bologna, dove rimase fino al 5 luglio, quando venne trasferito a Fossoli: non era più prigioniero, ma deportato. A Fossoli sentiva ogni giorno di più che la situazione non si poteva risolvere così velocemente come aveva sperato; infatti, i primi di agosto il campo si trasferì a Bolzano, pericolosamente a nord. Il 5 settembre varcò il confine e arrivò al campo di Flossemburg, in Germania; da qui venne trasferito al sottocampo di Hersbruck, dove morì il 27 dicembre 1944. Tante volte aveva sperato e promesso ai propri famigliari il suo ritorno, ma la macchina nazista lo ha intrappolato, togliendo a lui la vita e a noi il prezioso ritorno di un Giusto. Aldo Brunacci Nato nel 1914 da una povera famiglia di contadini, Aldo Brunacci aveva studiato a Roma, nell'ambiente delle organizzazioni giovanili cattoliche. All'interno dell'Azione Cattolica imparò a pensare con la propria testa, senza subire la propaganda del fascismo. Tornato ad Assisi, assistette ai pestaggi degli oppositori al regime, alle violenze e agli arbitri, anche nei confronti dei giovani cattolici di cui si occupava assiduamente. Con l'Armistizio, nel settembre 1943, Assisi si riempì di ebrei in fuga, italiani e rifugiati dalla Germania, dall'Austria, dalla Francia. I frati e il vescovo di Assisi, monsignor Giuseppe Placido Nicolini, non ebbero esitazioni. Più di trecento ebrei vestiti da frati e da suore, nascosti nei sotterranei e nelle cantine, mimetizzati tra li sfollati (italiani provenienti dalle città bombardate) con documenti falsi, trovarono asilo nell'antica cittadina di San Francesco. Padre Brunacci, come collaboratore principale del vescovo, si trovò a gestire questa massa di gente, a nutrirla, proteggerla, procurare documenti falsi, affrontare i nazisti e i fascisti, spostare quelli più a rischio, curare gli ammalati, occuparsi dei non pochi bambini. Una rete di solidarietà si estese a parroci e sacerdoti di altre zone dell'Umbria; i cittadini di Assisi collaborarono in ogni modo; i fratelli Brizzi, proprietari di una tipografia stampavano documenti falsi per tutti. In una giornata concitata, il vescovo di Assisi, insieme a Brunacci, si trasformò in muratore con calce e cazzuola, per murare nei sotterranei del Vescovado libri di preghiere, oggetti rituali e preziosi appartenenti agli ebrei. Padre Brunacci fu arrestato dalle autorità fasciste, ma grazie all'intervento del Vaticano poté essere rilasciato dopo un periodo di detenzione. Il vescovo lo spedì a Roma, al sicuro, alla Segreteria di Stato vaticana. Padre Brunacci è stato riconosciuto come "Giusto tra le Nazioni" dai Yad Vashem e due alberi, per lui e per il vescovo Nicolini, ormai scomparso, sono stati piantati nel Viale dei Giusti. Giovanni Palatucci Come commissario aggiunto di polizia a Fiume, salvò molti ebrei, disattendendo alle procedure di arresto per motivi razziali nell'Italia occupata e non ottemperando agli ordini superiori provenienti dai nazisti. Si hanno notizie del fatto che nel 1939 riuscì a far fuggire 800 ebrei tedeschi verso la palestina. Quando dopo l'8 settembre 1943 i tedeschi annessero parte del nord Italia, facendola diventare Adriatische Kustenland, Palatucci restò al suo posto, continuando a contraffare i documenti degli ebrei e permettendo loro di scappare. Fu arrestato dalla Gestapo il 13 settembre 1944 e venne deportato a Dachau, dove morì il 10 febbraio 1945, pagando con la sua vita la "colpa" di aver salvato persone colpevoli solo di esistere, secondo le leggi del Reich. Il giovane Stato di Israele lo proclamò in breve tempo "Giusto tra i Giusti" e solo nel 1995, in Italia fu conferita una medaglia al valor civile alla memoria. Il caso della Danimarca La Danimarca è l'unico caso di nazione a cui venne conferita l'onoreficenza di "Giusta tra le nazioni". Tutto il popolo danese - compreso il Re Cristiano X e i capi delle chiese - si oppose in modo non violento ed efficace alla deportazione degli ebrei e alla loro ghettizzazione. Pur essendo la Danimarca una nazione sotto l'influenza del Reich, non solo non vi furono applicate le leggi razziali, ma non venne mai imposta la stella gialla ai cittadini ebrei, poiché il Re aveva minacciato di portarla lui per primo in segno di solidarietà. Quando i nazisti organizzarono la deportazione degli ebrei residenti in Danimarca per l'1 e il 2 ottobre 1943, le autorità danesi sottrassero alla cattura 7906 persone con un esodo via mare verso la neutrale Svezia. Quest'impresa coinvolse cittadini d'ogni genere e fece sì che di tutta la comunità ebraica danese venissero catturati dalle truppe del Terzo Reich solo circa 500 anziani, per la maggior parte deportati a Terezin e sopravvissuti grazie alle continue pressioni delle autorità danesi. L’EREDITÀ DI MOSHE BEJSKI E LA MEMORIA DEI GIUSTI NELLA SCUOLA I nostri percorsi di storia sui Giusti iniziano con la lettura e la riflessione di un testo base della memoria del bene: Il Tribunale del Bene, scritto da Gabriele Nissim, che narra la storia di Moshe Bejski, uno dei salvati da Oscar Schindler e Capo della Commissione dei Giusti di Yad Vashem dal 1970 al 1995. Moshe Bejski ha dedicato la propria vita a fare il pescatore di perle. I Giusti, come delle preziose perle, devono essere ricercati, vanno osservati con un occhio speciale perché ognuno di loro ha una storia che è unica e vale la pena di essere ricordata. Moshe Bejski ha saputo trarre dalla sua personale esperienza un significato universale e ne ha ricavato una missione per la propria vita. Moshe Bejski nacque nel Gennaio del 1921 a Dzialoszyce vicino Cracovia. Il primo settembre 1939 i tedeschi attaccarono la Polonia e iniziò per lui un periodo di fuga fino al settembre del 1942, quando ci fu la deportazione degli ebrei dal suo paese. Fuggì dal primo campo di lavoro e si rivolse ad un amico polacco, che però lo respinse. A Cracovia Marian Wlodarczyk, un suo ex collega, lo accolse in casa sua; dopo poco, Moshe, per non metterlo in pericolo, decise di tornare al campo di lavoro. Nel Gennaio del 1943 venne trasferito al campo di prigionia di Plaszow, la cui esperienza fu per lui decisiva. Infatti “l’esperienza nel campo di Plaszow - come racconta Nissim - gli aveva regalato una sensibilità che non tutti gli uomini possiedono. Di fronte al buio e alle macerie si era abituato a cogliere con rinnovato stupore la minima scintilla di bene, la più fragile parvenza di umanità”. 1 Decisivo per lui fu l’incontro con Oscar Schindler, nella cui lista riuscì fortuitamente ad entrare. Per Moshe fu molto difficile ottenere il riconoscimento di giusto per Schindler, lui che aveva salvato più di mille ebrei. Schindler non corrispondeva a quell’ ideale di giusto che la Commissione di Yad Vashem ricercava. Non era moralmente ineccepibile e coerente; spesso si ubriacava, sperperava i suoi soldi ed andava a donne. Era difficile comprendere che in una persona come Schindler era potuto intervenire un cambiamento, un’inversione di rotta. Quando Bejski divenne Giudice dei Giusti e esaminava ogni singolo caso,racconta Nissim che “…Considerava soltanto un elemento: la loro responsabilità nei confronti di un altro essere umano. Era l’unica forma di bene che contava che per quel tipo particolare di giudice, ed è forse l’unica che ogni uomo può rintracciare in un altro uomo.”2 Moshe così dedicò la propria esistenza alla memoria del bene, che rischiava di venire annullata dall’oblio dei contemporanei. Egli non ha dimenticato il male,di cui è stato vittima e testimone, ha semplicemente fatto vincere il Bene. Il “profilo” del Giusto è dovuto al lavoro svolto da Moshe Bejski negli anni in cui fu presidente della Commissione di Yad Vashem. Egli cercava uomini normali, non degli eroi e voleva sottolineare i piccoli passi che i Giusti avevano compiuto. Gli uomini che hanno ricevuto questo riconoscimento non sono persone perfette, ma uomini con i loro limiti e difetti, che di fronte ad eventi oscuri hanno deciso di agire in modo differente rispetto alla maggioranza. Non si sono voltati dall’altra parte. Giusto è “colui che non rinuncia ad essere uomo e non vuole accettare, per un meccanismo misterioso e indecifrabile, di rimuovere il sentimento interiore di compassione per l’altro.”3 1 G. Nissim il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski l’uomo che creò il giardino dei giusti, Mondadori,p. 147. Ivi, p.144 3 AA. VV Storia di uomini giusti nel gulag, Mondadori, Milano, 2004,p.4. 2 Partendo dalla riflessione sulla banalità del male di Hannah Arendt,abbiamo identificato questo “misterioso meccanismo” che spinge i Giusti ad agire. Essi, con le loro azioni, aiutano a capire cosa accade dentro all’uomo quando pensa e cosa spinge un uomo a dire “Questo non posso farlo”,così anche noi abbiamo potuto comprendere meglio noi stessi. “ La memoria è un compito ed una responsabilità. Conoscere il passato serve per capire che ognuno di noi ha un ruolo nella storia. I Giusti sono stati uomini normali che con gesti, verrebbe da dire usuali e ordinari, hanno fatto grandi cose per l’umanità,anche se con le loro azioni non sono riusciti a fermare il male di cui sono stati contemporanei. Ma se ci poniamo delle domande sulla nostra responsabilità morale di fronte agli avvenimenti, se reagiamo di fronte ad ogni espressione del Male, ad ogni accenno di disumanizzazione degli esseri umani, noi li facciamo rivivere e il loro insegnamento non è andato perduto. Quest’anno a Cracovia in un incontro pubblico che si è svolto il 9 di Aprile siamo riusciti a raccontare questa nostra esperienza, a portarla in Polonia. In questa occasione abbiamo voluto commemorare Moshe Bejski ad un anno dalla morte. Praticamente sconosciuto nel suo paese di origine,è ritornato attraverso di noi,che con il nostro impegno e la nostra passione siamo la migliore dimostrazione della verità della sua felice intuizione della memoria del Bene. LA STORIA ESEMPLARE DI GIOVANNI PALATUCCI La storia di Giovanni Palatucci è esemplare per comprendere a fondo le caratteristiche dell’uomo giusto. Il suo carattere straordinario non dipende dalla particolarità delle vicende di cui fu protagonista, ma dal modo in cui egli le ha vissute e in cui ha operato. Solo se collocata nel suo contesto essa può assumere il suo adeguato rilievo. Giovanni Palatucci nacque a Montella in provincia di Avellino il 31 Maggio 1909 da una famiglia agiata. Certamente è fondamentale l’aspetto religioso nella formazione di Palatucci: i principi cristiani che sono radicati in lui fin dalla primissima infanzia determinarono il codice di comportamento che lo contraddistinse rispetto a tanti altri italiani durante il fascismo e gli avvenimenti drammatici della seconda guerra mondiale. Da Genova, dove era stato assegnato al ruolo di vice commissario aggiunto,venne trasferito nella città di Fiume dove ricoprì gli incarichi di commissario e poi di questore reggente. Diventato responsabile dell’ufficio stranieri, entrò in contatto con la realtà degli ebrei di Fiume. Nel 1938 vennero emanate in Italia ( e a Fiume) le leggi razziali. Di fronte alla svolta antisemita Palatucci fu costretto a scegliere:come uomo e come cristiano rigettava queste disposizioni, ma come funzionario dello stato era obbligato a rispettarle. Egli decise di non essere partecipe dell’evolversi in senso razzista del fascismo. Palatucci riuscì a mantenere il suo ruolo,e a sfruttare le possibilità che gli venivano offerte dalla sua posizione per la sua opera di salvataggio. Lo aiutò in questo lo zio monsignor Giuseppe Maria Palatucci vescovo di Campagna. A Fiume egli continuò la sua opera di salvataggio e soccorso anche dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 a fianco della Germania. In Iugoslavia le zone di occupazione italiana diventarono ricettacolo di profughi,in gran parte ebrei, da tutto il Centro Europa e Fiume passaggio obbligato per la fuga in Italia,Palestina,la Svizzera. L’azione di Palatucci si rivelò decisiva per il salvataggio di migliaia di persone. Decise di legarsi proprio a quegli uomini che il regime desiderava eliminare,e unendosi ai perseguitati, non si limitò a salvar loro la vita, ma restituì loro la dignità necessaria per vivere, con la convinzione che anche loro avevano un ruolo e un posto nel mondo. L’azione di Palatucci è testimoniata dai salvati. Nel suo racconto Miriana Tramontina ci trasmette le sensazioni che le suscitava quell’uomo straordinario,non si limita a raccontare quello che faceva. La sua fede religiosa commuoveva chi lo circondava e manteneva viva in lui la coscienza e, quindi, la forza di continuare la sua opera. La Tramontina termina così il suo racconto: “Partecipava al dolore degli altri in prima persona. Il giudizio di mia madre per quest’uomo era che solo chi vive momento dopo momento il Vangelo della vita può diventare così importante per gli altri, perché una forza e un coraggio del genere si possiedono soltanto credendo in Dio”. Palatucci ha messo in gioco la sua persona. La sua scelta, la spinta irrefrenabile di compiere il bene, il suo impegno nell’opera di salvataggio era categorico, nato dal cuore. Questo dimostra che in lui l’evidenza del bene era dovuta a quell’abitudine di dialogare con se stessi che si chiama pensiero. Questo steso dialogo gli ha consentito di riscoprire come vere le sue convinzioni cristiane e di riconoscere il suo Dio in ogni circostanza. E’stato dunque possibile per noi scoprire quel meccanismo misterioso per cui un uomo, anziché voltarsi dall’altra parte, si fa carico del dolore altrui.. Certamente le iniziative di Palatucci non avrebbero avuto buoni esiti se al suo fianco non ci fossero stati individui disposti come lui a fare il bene come la guardia di finanza Giuseppe Veneroso e l’agente Americo Cucciniello, Cucciniello riferisce le parole con cui Palatucci gli affidava le persone da salvare:“trattale con spirito di umana solidarietà. Nonostante la segretezza che accompagnava il suo agire, Palatucci venne arrestato nella notte tra il 12 e il 13 settembre 1944 “per aver mantenuto contatto col servizio informativo nemico” ,non per aver salvato degli ebrei. Lo arrestarono con un pretesto, probabilmente perché non trovarono prove della sua opera di salvataggio, e lo deportarono a Dachau, dove morì poco dopo. Palatucci con il suo agire ha dimostrato che compiere il bene è sempre possibile, ma anche che non esistono scorciatoie , perché la via del rispetto e della giustizia richiedono senso di responsabilità, coraggio e costante senso di servizio verso gli altri esseri umani. Come afferma Roszi Neumann “egli è andato oltre il comandamento ama il prossimo tuo come te stesso. Palatucci ha amato il suo prossimo più di sé stesso”. Nella memoria i Giusti continuano a esistere Antonia Grasselli Shoah Attraverso il progetto di storia “I Giusti tra le Nazioni. Per una nuova memoria della Shoah” una nuova ipotesi interpretativa della storia e della nostra cultura «Proprio l’altro giorno ho ricevuto la sua cartolina (da Israele), e ho provato una forte emozione nel sapere che il nostro lavoro continua a svilupparsi anche “senza di noi”… come mi ha scritto, ha fatto un passo in avanti, un enorme passo avanti a mio parere… uno scambio culturale (a Yad Vashem) che sicuramente le avrà dato nuove idee e nuovi spunti per continuare questa iniziativa. La ringrazierò sempre per avermi fatto vivere la storia, per essere riuscita a trasmettermi l’importanza della memoria e per aver così rinnovato l’insegnamento di questa importante disciplina… Con sincero affetto. Enrica» (20 settembre 2005). Il lavoro a cui allude Enrica è quello per il progetto di storia “I Giusti tra le Nazioni. Per una nuova memoria della Shoah”, che ci ha consentito, studiando, non solo di assimilare una nuova ipotesi interpretativa della storia e di tutta la nostra cultura, ma soprattutto un modo di sentire noi stessi nel mondo, aprendo così la strada al cambiamento di sé. Il compito della memoria Dalla storia di Moshe Bejski (presidente della Commissione dei Giusti di Yad Vashem), a cui si deve il grande merito di aver trasformato il suo destino personale (lui, un salvato di Oskar Schindler) in un esempio universale, siamo giunti agli altri Giusti, a Odoardo Focherini, di Carpi, morto a Hersbruck nel dicembre 1944, di cui abbiamo ricostruito la vita, fino ad arrivare a tutti noi, chiamati a essere testimoni a nostra volta, assumendoci la responsabilità di un giudizio morale sugli avvenimenti. Abbiamo capito che fare memoria è un lavoro e un compito. La scuola può svolgere un ruolo decisivo in questo senso, perché nella relazione educativa la riscoperta del passato diviene esperienza presente e questa è esattamente la dinamica di trasmissione della memoria. Dal progetto sui Giusti che ha prodotto un importante convegno, a cui hanno partecipato diverse scuole di Bologna e provincia, alla costituzione della rete regionale “Storia e Memoria. La partecipazione della società civile agli eventi della Seconda Guerra mondiale”, al film Dalla memoria alla storia. Normandia: i luoghi dello sbarco. Lavoro straordinario In poco tempo, un lungo cammino. Ma dove l’origine? L’anno 2003/2004 mi ero avventurata, per la prima volta, in un progetto sulla applicazione a Bologna della legislazione antiebraica del 1938. Lavoro straordinario, i cui risultati e materiali sono stati appena pubblicati (Stranieri in patria. Gli ebrei bolognesi dalle leggi antiebraiche all’8 settembre 1943, Pendragon), che mi ha consentito di incontrare e di conoscere la comunità ebraica di Bologna. Ho conosciuto dei testimoni delle persecuzioni razziali, dei salvati da Giusti senza titolo. Ho condiviso il loro dolore, che si rinnova ogni volta che scelgono di raccontare, e la gratitudine piena di commozione per chi li ha salvati. Sono diventati parte di me. Ho conosciuto, per la prima volta, degli ebrei e qui è iniziata un’altra avventura, inaspettata, che mi ha condotto nel settembre scorso a Gerusalemme, a parlare dei Giusti in un Seminario per educatori italiani organizzato dalla Scuola Internazionale per gli studi dell’Olocausto di Yad Vashem, il Memoriale dell’Olocausto voluto dal Governo israeliano. L’amicizia con alcuni di loro, in Italia e in Israele, ma anche il semplice riferimento per il lavoro che insieme svolgiamo, ha la capacità di ricordarmi chi sono, mi dà forza e certezza. Siamo gente che si appartiene e che si può riconoscere reciprocamente, perché ognuno rimanda alla verità dell’altro e questo riconoscimento ci porta davanti a Dio. I Giusti e la Memoria del Bene Chi salva una vita salva il mondo intero a cura di Antonia Grasselli - Sante Maletta Numero speciale di Lineatempo Edizione Cusl Milano E 17,00 I contributi e le esperienze pubblicate in questo libro sono la documentazione del grande rilievo che, a ogni livello, può assumere la riflessione sui Giusti e la Memoria del Bene. Nella prima parte gli interventi di Gabriele Nissim, Moshe Bejski, Sante Maletta, Liliana Picciotto e Matteo Luigi Napolitano sono un contributo alla riflessione delle implicazioni morali, filosofiche e storiche della problematica dei Giusti. Nella seconda viene descritto nei suoi contenuti, metodologia e risultati un progetto didattico realizzato al liceo scientifico “E. Fermi” di Bologna. La terza parte contiene gli articoli pubblicati su Avvenire dal settembre 2005 al gennaio 2006, importanti per gli elementi di riferimento al contesto italiano che essi offrono. Per informazioni: > sito: www.lineatempo.org > e-mail: [email protected]; [email protected] I RAGAZZI EBREI DI VILLA EMMA A NONANTOLA (1942-1943) All’inizio della Seconda guerra mondiale, in Germania e in Austria (annessa al Terzo Reich) gli ebrei sono spogliati di ogni diritto e cacciati ai margini dalla società. Confiscati i loro patrimoni, esclusi da ogni impiego che non sia di tipo manuale, sono per la maggior parte ridotti in miseria. Dopo il pogrom del 9 novembre 1938, con sinagoghe incendiate e negozi devastati, circa 30.000 uomini erano stati deportati nei campi di concentramento, e l’emigrazione, che fino a quel momento aveva conosciuto timidi movimenti, si trasformò in fuga di massa. Si riducevano però sempre più i paesi disposti ad accogliere profughi ebrei. Con lo scoppio della guerra, si passa all’arresto e alla deportazione nei campi di Sachsenhausen, Buchenwald e Dachau di tutti gli ebrei polacchi maschi di età superiore ai sedici anni. Donne e bambini finiscono così abbandonati a se stessi, e le famiglie, spesso numerose, sprofondano nell’indigenza. In questa fase inizia ad intervenire in loro soccorso Recha Freier, fervente sionista e direttrice della “Jüdische Jugendhilfe” (Assistenza ebraica ai giovani), cui fa capo l’organizzazione di un’aliyah [letteralmente: elevazione; termine che designa l’emigrazione in terra d’Israele] giovanile. La Freier visita le famiglie di stanza a Berlino, procura mezzi di sostentamento e partecipa all’organizzazione di convogli clandestini per la Palestina. Ma nel luglio 1940 viene costretta a fuggire. A Zagabria, dove ripara, ottiene l’appoggio delle organizzazioni ebraiche locali per il suo progetto: portare in Jugoslavia quanti più ragazzi possibile, nonostante le difficoltà logistiche che ciò avrebbe comportato, lungo le strade da lei percorse. Così per 90 ragazzi, in gran parte berlinesi, si profila la possibilità di attraversare i Balcani e proseguire per la Palestina. Prima della partenza, Recha è però costretta ad affidare un gruppo di essi - che non può aggregare ai partenti - a tre giovani sionisti. Uno è Josef Indig di Osijek, membro dello “Hashomer Hazair”, un’associazione giovanile sionista di ispirazione laica e socialista. Nell’aprile 1941 le truppe tedesche e italiane aggrediscono la Jugoslavia, dividendosi il controllo del paese. Zagabria e gran parte della Croazia finiscono sotto l’occupazione tedesca e, con la conseguente ascesa al potere del regime nazionalista e razzista degli Ustascia, la situazione per i giovani esuli si fa minacciosa. Indig decide quindi di condurre 43 ragazze e ragazzi in età dai sei ai diciotto anni, provenienti da Berlino, Francoforte, Lipsia, Amburgo, Vienna e Graz, nella Slovenia controllata dall’Italia; qui trovano alloggio in un vecchio castello di caccia a Lesno Brdo, vicino a Lubiana. Le autorità italiane autorizzano l’ingresso e il soggiorno, nonostante la frontiera sia chiusa ai profughi ebrei. Gioca probabilmente a loro favore la giovanissima età. L’episodio rimane comunque un’eccezione, e falliranno tutti i tentativi successivi di ottenere, per altri ragazzi ebrei, autorizzazioni legali all’ingresso in territorio italiano. La permanenza a Lesno Brdo dura un anno, dal luglio 1941 al luglio 1942. La cura del gruppo viene dapprima garantita da sei adulti e poi da nove: Indig fa da guida, Marco Schoky (Marek Silberschatz) di Lodz si presta come economo, Georg Bories (Boris Jochvedson), pianista berlinese, insegna musica. Al loro mantenimento provvede innanzitutto la Delasem (Delegazione per l’assistenza agli emigranti) di Genova, fondata nel dicembre 1939 in sostituzione di precedenti comitati assistenziali ebraici. A dirigerla è Lelio Vittorio Valobra. L’organizzazione si trova ad assistere fino a 9.000 profughi, gran parte dei quali, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, vengono internati in campi o sottoposti al soggiorno obbligato. La vita al castello è però assai dura. Spesso i ragazzi non hanno di che sfamarsi; i viveri vengono acquistati in gran parte al mercato nero, oppure presso contadini dei dintorni. Tuttavia a Lesno Brdo, dopo una lunga interruzione, i ragazzi possono riprendere le lezioni scolastiche. Molta importanza viene assegnata, per la futura vita in Palestina, allo studio dell’ivrith [ebraico moderno], della storia ebraica, della letteratura e della musica. Nei primi tempi giungono ancora sporadiche notizie di madri, sorelle, fratelli deportati in località dell’Europa orientale annesse alla Germania, ma presto cesseranno. Nella primavera del 1942 nella zona ha inizio la lotta dei partigiani jugoslavi. Non passa molto tempo e i combattimenti toccano le vicinanze del castello: di notte spesso si fanno vivi i ribelli, di giorno si presentano soldati e ufficiali italiani. Vista la situazione, la Delasem decide di trasferire i ragazzi in Italia; suo rappresentante a Modena è Gino Friedmann, che in passato era stato sindaco di Nonantola. E proprio qui, in vista del loro arrivo, viene presa in affitto Villa Emma, una imponente residenza di campagna con 46 stanze, all’epoca disabitata e in condizioni precarie. E’ il ministero dell’Interno ad accordare l’ingresso in Italia del gruppo, che dalla Slovenia in treno, attraverso Trieste, Venezia, Bologna e Modena, giunge a Nonantola il 17 luglio. All’epoca del soggiorno dei ragazzi, Nonantola conta circa 10.000 abitanti. Villa Emma, costruita nel 1898 da Carlo Sacerdoti, un proprietario terriero ebreo, si trova ai margini dell’abitato, circondata da circa 7 ettari di terreno coltivato, in origine perlopiù adibiti a parco. Nulla era stato predisposto per la sistemazione dei ragazzi. All’inizio sono così costretti a dormire su improvvisati giacigli di paglia, e passano alcune settimane prima che arrivino cose indispensabili per la vita quotidiana: tra queste, insieme a oggetti di prima necessità, un pianoforte a coda, così possono riprendere gli insegnamenti di Bories. Anche a Villa Emma, infatti, i ragazzi seguiranno lezioni scolastiche e per molte ore al giorno saranno occupati nei lavori di casa; il terreno attorno alla villa permette inoltre di sviluppare una pratica formativa legata agli ideali sionisti, quella dei lavori agricoli. A istruire i ragazzi provvede Ernesto Leonardi, un contadino del luogo. Dopo qualche tempo viene anche attrezzato un laboratorio di falegnameria, affidato a Hersz Naftali Schuldenfrei (ebreo precedentemente internato a Campagna, nel salernitano), che può accogliervi fino a nove ragazzi per volta. Nel novembre 1942 il magazzino della Delasem si trasferisce da Genova a Nonantola: esso occupa l’intera soffitta di Villa Emma, raccoglie aiuti e provvede a inviare pacchi agli oltre 6.000 ebrei internati in varie località italiane. Ma ora la Delasem, diversamente da Lesno Brdo, dove Indig aveva avuto piena autonomia nel dirigere il gruppo, pretende di organizzare la vita dei ragazzi, secondo propri intendimenti e con propri uomini. Lelio Vittorio Valobra nomina così direttore un giovane laureato in lettere, Umberto Jacchia, al quale Indig dovrà rispondere. Egli introduce uno stile ispirato alle scuole italiane, decisamente burocratico, fatto di istruzioni rigide da impartire a collaboratori e ragazzi. Le regole della vita in comune e i compiti di ciascuno vengono fissati per iscritto. Per l’assistenza medica del gruppo arriva a Nonantola una giovane dottoressa, Laura Cavaglione, che lavorerà a contatto con Giuseppe Moreali, medico condotto in paese. Grande significato viene poi assegnato alla vita religiosa, praticamente assente a Lesno Brdo; viene così predisposta una stanza per le funzioni, con un rotolo della Torah; al sabato e per le festività la partecipazione ai riti sarà obbligatoria. In seguito si provvede a organizzare la cucina secondo regole kosher. Le novità introdotte dalla Delasem e lo stile dirigenziale di Jacchia provocano notevoli problemi a Indig, che si sente emarginato e vede messi a rischio i suoi principi educativi sionisti e democratici. Nel giro di due mesi si dimette da tutti gli incarichi, limitandosi a insegnare l’ivrith, ma continuando di fatto a esercitare un forte influsso sui ragazzi. Essendo vigenti in Italia le leggi razziali, la Delasem teme che contatti frequenti tra i ragazzi e gli abitanti di Nonantola possano indispettire le autorità locali. Viene perciò fissato un regolamento per le uscite, secondo il quale si può lasciare la villa soltanto accompagnati da un adulto o con un’autorizzazione scritta del direttore. Ma i ragazzi finiranno per rispettare sempre meno queste norme, anche perché da parte delle autorità non vi sono contestazioni. Nascono così numerose amicizie con i coetanei del luogo, accompagnate dalla benevolenza dei nonantolani. Nella primavera del 1943 prende corpo il progetto di accogliere a Villa Emma altri 33 ragazzi provenienti da Spalato (situata sulla fascia costiera dalmata annessa all’Italia). Quasi tutti orfani, arrivano a Nonantola il 14 aprile 1943, con due accompagnatori, facendo salire a 73 ragazzi e 13 adulti il numero dei rifugiati, e rendendo più precari gli spazi e gli equilibri interni. Sarà difficile integrare i due gruppi: pesano diversità culturali e di abitudini, l’età (mediamente più piccoli gli spalatini) e, soprattutto, la barriera linguistica. Il clima diventa in alcuni casi così aspro che Jacchia prova anche a separarli, manifestando evidenti difficoltà nel gestire la situazione. Così, su consiglio di Friedmann, Valobra dà corso ad una sorta di direzione collegiale, composta da Indig, Bories, Schoky e Armand Moreno (arrivato da Spalato). La caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, e la nomina di Pietro Badoglio a capo del governo gettano pochi riflessi sulla vita del gruppo; destano però inquietudine l’istituzione a Nonantola di un ospedale militare tedesco e la presenza sempre più frequente di soldati per le strade. L’8 settembre 1943 viene annunciata alla radio la firma dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati: con l’occupazione tedesca alle porte, a Villa Emma tutti sanno di avere nuovamente la vita in pericolo, così la sera stessa Indig si reca da Giuseppe Moreali; questi suggerisce di sistemare i ragazzi nel seminario dell’abbazia, in quel momento praticamente vuoto per le vacanze scolastiche, e si mette in contatto con l’amico don Arrigo Beccari, tramite fondamentale per convincere il rettore, don Ottaviano Pelati, ad accogliere i giovani minacciati. Il 9 settembre, con le truppe tedesche già a Nonantola, una trentina di ragazze e ragazzi raggiungono - per vie traverse, in modo da passare inosservati - il seminario. Nel giro di poco tempo, le ragazze vengono trasferite in un locale occupato da suore e tutti gli altri, specie i più grandi e la maggioranza degli adulti, distribuiti presso famiglie di contadini o in case del centro storico. Si realizza così un rifugio diffuso, che da un lato risponde ad esigenze pratiche, dall’altro si rivela strategico per l’organizzazione dei nascondigli. Questa fase dura circa cinque settimane. Indig, che stabilisce nel seminario il suo “quartier generale”, ammira l’aiuto prestato da sacerdoti e suore; tramite messaggeri, si tiene in contatto con i ragazzi sistemati nei dintorni; a volte azzarda delle uscite, per affrontare qualche problema o dirimere questioni urgenti. Molte famiglie, coraggiosamente e generosamente, si trovano a condividere l’abitazione e il desco con i ragazzi, che per lo più ospitano in condizioni di fortuna, facendoli dormire su giacigli di paglia, nei fienili o nelle stalle, e impiegandoli nelle attività quotidiane. Tutti gli scampati ricorderanno la solidarietà dei nonantolani come la pagina più commovente dei loro anni di fuga. Ma Indig conosce bene il rischio, e sa che questa situazione non può protrarsi a lungo, perché espone i suoi protetti al pericolo di arresti e retate. Si prende così in considerazione, dapprima, una fuga verso l’Italia meridionale, già liberata dagli Alleati. Ma a seguito dell’arrestarsi del fronte sulla linea Montecassino-Ortona, si guarda senza indugio alla Svizzera. Per valutare la situazione nei pressi del confine, Indig e Pacifici, unico collaboratore della Delasem rimasto a Nonantola, si recano a Ponte Tresa, dove intercettano dei contrabbandieri disposti, a pagamento, a guidare il gruppo lungo il fiume Tresa, fino a un punto agevole per il guado, che permetta di oltrepassare la frontiera (nei pressi della quale stazionano però militari tedeschi delZollgrenzschutz [guardie confinarie che presidiano le vie di fuga dall’Italia]). Per gli ebrei la procedura, dopo la cattura, prevede il passaggio dal comando di polizia tedesco di Como, prima della deportazione ad Auschwitz. L’atteggiamento delle autorità di frontiera elvetiche nei confronti dei profughi ebrei, inoltre, è spesso ambiguo. Da Nonantola nel frattempo si organizza la fuga. Prima si dirigono verso il confine tre-quattro gruppetti, a distanza di due giorni l’uno dall’altro. Ai ragazzi sotto i sedici anni viene concesso l’ingresso, secondo le norme vigenti in Svizzera, mentre i più grandi, con una sola eccezione, vengono rispediti in territorio italiano e tornano a Nonantola. Dopo questo parziale insuccesso, Indig e Pacifici si dirigono su Ponte Chiasso, dove entrano in contatto con organizzazioni sioniste che operano in Svizzera, le quali si mobilitano per ottenere dal governo elvetico la concessione del soggiorno per i ragazzi. Nuovamente, sulla scorta di precise garanzie, viene lasciata Nonantola, e tra il 6 e il 14 ottobre 1943 tre gruppi di 43, 26 e 6 persone raggiungono il confine, guadando nottetempo il fiume Tresa. Il gruppo più consistente, prima di avere la certezza dell’accoglienza, trascorrerà due giorni di angosciante attesa in un campo di accoglienza oltrefrontiera. Otto ragazzi e una ragazza, di età superiore ai diciassette anni, in accordo con Indig, in precedenza si erano separati dal gruppo per raggiungere gli Alleati in Italia meridionale. Tre riescono a passare il fronte; uno si legherà ai partigiani nelle Marche, dove combatterà fino alla liberazione; gli altri quattro e la ragazza raggiungeranno dapprima Roma, per poi tornare sul finire di novembre a Modena, dove si ricongiungeranno a Pacifici che li guiderà in Svizzera. Goffredo Pacifici non passerà la frontiera. Sceglierà di restare in Italia, accettando ancora una volta il ‘mestiere’ difficile e pericoloso del soccorso e dell’aiuto da dare ad altri fuggiaschi. Mestiere decisamente più duro se a svolgerlo è un ebreo, perché ci si espone all’arresto e alla deportazione. Verrà catturato dalla milizia fascista a Ponte Tresa, insieme al fratello Aldo, il 7 dicembre 1943. Incarcerati prima a Varese e poi a Genova, partiranno da Fossoli con l’ultimo convoglio per Auschwitz. Non faranno ritorno. Tutti i ragazzi si salvano. L’unico a essere deportato è Salomon Papo di Sarajevo, arrivato con il gruppo di Spalato. Dopo un breve soggiorno a Villa Emma, era stato ricoverato in un sanatorio sull’Appennino modenese, perché malato di tubercolosi. L’ultima notizia che si ha di lui è una lettera, inviata a Gino Friedmann il 3 novembre 1943. Cinque mesi dopo, il suo nome compare nella lista di un convoglio in partenza dal Campo di Fossoli per Auschwitz, dove sarà assassinato. In Svizzera ragazzi, ragazze e accompagnatori vengono dapprima distribuiti in diversi campi di internamento. Indig intende però riunirli nuovamente in un’unica località. Per questo, con l’appoggio di Nathan Schwalb, rappresentante dell’associazione giovanile sionista “Hechaluz”, e con l’aiuto dell’Associazione sionista svizzera, individua un albergo a Bex, nella valle del Rodano (con annessi edifici e terreni adatti per l’addestramento agricolo), dove, all’inizio del 1944, si registreranno i primi arrivi del gruppo. A guerra finita, il 29 maggio 1945, un primo convoglio lascia la Svizzera alla volta della Palestina: ne fanno parte 46 ragazzi accompagnati da Indig. Gli altri raggiungeranno la stessa meta in un secondo tempo. Non mancheranno altre destinazioni, come gli Stati Uniti e, in un caso, l’Inghilterra; pochissimi, con parenti ancora in vita, torneranno in Jugoslavia. Fino al 1947, Villa Emma fornirà periodicamente un approdo a circa cento ebrei che, dopo la liberazione dei campi di concentramento, attraverseranno clandestinamente il confine italiano nella speranza di potersi imbarcare per la Palestina. Ne assume la guida, in questo periodo, Marco Schoky, tornato a Nonantola insieme a Georg Bories e a due ragazze del gruppo originario. Il salvataggio dei ragazzi ebrei a Villa Emma resta un esempio di solidarietà e di coraggio civile pressoché unico nello scenario del secondo conflitto mondiale. Diversi e significativi segni ne portano memoria, nel corso degli ultimi decenni. Nel 1964 Don Arrigo Beccari e Giuseppe Moreali sono stati insigniti del riconoscimento di Giusti tra le Nazioni; nel 1998, in occasione del 50° anniversario della fondazione dello Stato di Israele, in onore dell’intera comunità di Nonantola, alcuni degli ex ragazzi hanno piantato cento alberi nel giardino dedicato all’ebraismo italiano; infine, nel 2003, il Sindaco di Haifa ha intitolato ai “cittadini di Nonantola” un parco pubblico, su iniziativa di un’ex ragazza di Villa Emma lì residente. Villa Emma: un racconto per immagini Progettata dal celebre architetto Vincenzo Maestri, Villa Emma fu costruita nel 1898 in via Mavora, alle porte di Nonantola, su commissione di Carlo Sacerdoti, un proprietario terriero ebreo di Modena che la volle come lussuosa residenza estiva di famiglia e la intitolò alla moglie. Già nel 1913, però, Sacerdoti fu costretto a venderla. Di seguito, due immagini della villa, risalenti al primo Novecento. Nella prima, si notano l’ampio giardino che la circondava e, in primo piano, il laghetto. Nella seconda, in basso, sulla sinistra, sono ripresi i proprietari (Famiglia Sacerdoti). Rimasta a lungo disabitata, al tempo del soggiorno dei ragazzi ebrei è di proprietà dell’Agenzia immobiliare Agellus di Milano, da cui la Delasem la prende in affitto. Nell’immagine a sinistra, del 1942-43, appaiono il colonnato e la terrazza (sulla quale si scorgono alcuni dei ragazzi) della facciata sud della Villa. Tra il 1946 e il 1947 (immagine a destra), l’edificio accolse reduci da campi di concentramento; nell’immagine vediamo un gruppo di ebrei dopo la liberazione. Villa Emma in un’immagine di oggi (a sinistra), dopo il restauro voluto dagli attuali proprietari (Famiglia Giacobazzi). A ridosso dell’ingresso laterale sud della villa, in occasione del 40° anniversario della Liberazione, è stata apposta una lapide a memoria del soggiorno dei ragazzi ebrei (a destra). Da sottolineare, nel testo, il richiamo agli ideali di solidarietà e al contributo della popolazione nonantolana come segno di unione “fra popoli diversi”. Il numero di “107 ragazzi” allude probabilmente ai passaggi e alla presenza complessiva di persone nel periodo 1942-43. Come pecore ci condussero [in ebraico nel testo] NEGLI ANNI 1942–1943 / 107 RAGAZZI EBREI / PERSEGUITATI E CACCIATI DAI PAESI EUROPEI / OPPRESSI DAL NAZIFACISMO / A VILLA EMMA E DINTORNI / TROVARONO RIFUGIO E PROTEZIONE / CON IL GENEROSO E SPONTANEO SOSTEGNO / DI UMANA SOLIDARIETA’ / DEI NONANTOLANI / RAGGIUNSERO LA SALVEZZA / I CITTADINI DI NONANTOLA / RICORDANO QUESTO EPISODIO DI AMICIZIA / E DI COLLABORAZIONE FRA POPOLI DIVERSI / CHE LOTTARONO UNITI / CONTRO GLI ORRORI DELLA GUERRA 21 APRILE 1985 - 40° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE FILM SULLA SHOAH LA TREGUA Anno: 1997 Nazione: Italia - Francia - Germania - Svizzera Durata: 127 m Regia: Francesco Rosi Dal libro (1963, premio Campiello) di Primo Levi (1919-87), sceneggiato da F. Rosi, S. Rulli, S. Petraglia con l'apporto di Tonino Guerra. Il 27-1-1945 i soldati russi arrivano a Buna-Monowitz (Polonia), una delle trentanove sezioni del lager di Auschwitz (Oswiecim). Alla fine di febbraio il chimico ebreo torinese Primo Levi (J. Turturro) comincia il lungo viaggio di ritorno che dura quasi otto mesi tra destinazioni incerte, derive, soste obbligate, peripezie, vagabondaggi. Dopo un viaggio in treno di 35 giorni il 19-10-1945 arriva a casa, a Torino. Era assai difficile cavare un film da un libro rapsodico e frammentario di 159 pagine con pochi dialoghi e trasferire in narrazione audiovisiva una scrittura precisa, concreta, sostenuta da riflessioni da un'alta tenuta morale, in continua oscillazione tra luce e tenebra, allegria e gravità, io e noi. Rosi e i suoi non ci sono riusciti. Quando segue il libro, il film è spesso impacciato o banale. Quando inventa, si sente il calcolo mercantile. Dove non c'è calcolo, subentra il formalismo lirico. Due volte trova la corda dell'epica, ma per rendere la dimensione di gaiezza, arguzia, gioia persino puerile che in Levi esiste si ricorre agli stereotipi della commedia italo-romanesca. Tra i personaggi le note positive sono il greco Mordo Nahum di R. Serbedzija, il Daniele di S. Dionisi e il Primo di Turturro, nonostante la differenza di età e di altezza e il fuoco interiore che cova, meridionale più che piemontese. Musiche di Luis Bacalov. Dedicato alla memoria di Pasqualino De Santis (fotografia) e di Ruggero Mastroianni (montaggio), morti durante la lavorazione e sostituiti da Marco Pontecorvo e Bruno Sarandrea. SCHINDLER'S LIST Anno: 1993 Nazione: Stati Uniti Durata: 195 m Regia: Steven Spielberg Dal libro dell'australiano Thomas Keneally La lista. L'industriale tedesco Oskar Schindler, in affari coi nazisti, usa gli ebrei dapprima come forza-lavoro a buon mercato, un'occasione per arricchirsi. Gradatamente, pur continuando a sfruttare i suoi intrallazzi, diventa il loro salvatore, strappando più di 1100 persone dalla camera a gas. E il film più ambizioso di S. Spielberg e il migliore: prodigo di emozioni forti, coinvolgente, ricco di tensione, sapiente nei passaggi dal documento al romanzesco, dai momenti epici a quelli psicologici. La partenza finale di Schindler è l'unica vera caduta del film, un cedimento alla drammaturgia hollywoodiana, alla sua retorica sentimentale. L. Neeson rende con grande efficacia le contraddizioni del personaggio. L'inglese R. Fiennes interpreta il paranoico comandante del campo Plaszow come l'avrebbe fatto Marlon Brando 40 anni fa. Memorabile B. Kingsley nella parte dell'ebreo polacco, contabile, suggeritore e un po' eminenza grigia di Schindler. 7 Oscar: film, regia, fotografia di Janusz Kaminski (in bianconero, tranne prologo ed epilogo), musica di John Williams, montaggio, scenografia e sceneggiatura. Quel rosso del cappottino della bambina che cerca di sfuggire al rastrellamento è una piccola invenzione poetica, un esempio del modo con cui gli effetti speciali possono diventare creativi. TRAIN DE VIE Anno: 1998 Nazione: Francia - Belgio - Paesi Bassi Durata: 101 m Regia: Radu Mihaileanu Nel 1941, per evitare la deportazione, gli abitanti di uno shetl (villaggio ebraico dell'Europa centrale) romeno allestiscono un finto convoglio ferroviario sul quale alcuni di loro sono travestiti da soldati tedeschi e partono nel folle tentativo di raggiungere il confine con l'URSS e di lì proseguire per la Palestina, Eretz/Israel, la terra promessa. Ci riescono, dopo tragicomiche peripezie tra cui l'incontro con un gruppo di gitani che, a bordo di autocarri, hanno avuto la stessa idea. 2? film del romeno Mihaileanu, attivo in Francia, è una tragicommedia di viaggio sotto la triplice insegna dell'umorismo yiddish (condito di una grottesca ironia critica verso gli stessi ebrei, i tedeschi, i comunisti), di una sana energia narrativa e di un ritmo di trascinante allegria cui molto contribuisce Goran Bregovic, il compositore preferito di E. Kusturica, che attinge alla musica klezmer ebraica dell'Europa orientale. Fotografia del greco Yorgos Arvanitis, l'operatore di Anghelopulos e di Laurent Daillant. Colorita galleria cosmopolita di interpreti, dialoghi italiani di Moni Ovadia. Non manca una dimensione poetica, incarnata in Schlomo (L. Abelanski), lo scemo del viaggio che funge da narratore. L'inquadratura finale può essere la chiave di lettura a ritroso. Grande successo di pubblico e premio Fipresci alla 55a Mostra di Venezia 1998. LA VITA E’ BELLA Anno: 1997 Nazione: Italia Produzione: Cecchi Gori Distribuzione: Cecchi Gori Durata: 120 m Regia: Roberto Benigni Guido Orefice, toscano montanino ed ebreo, s'innamora sul finire degli anni '30 della maestrina Dora, la corteggia in modi stravaganti, la sposa. Sei anni dopo nell'intervallo sono venute le leggi razziali (1938), la guerra e le deportazioni Guido con il figlioletto Giosuè parte per il campo di concentramento. Dora, che ebrea non è, li segue volontariamente. Per proteggere il figlio dall'orrore, Guido gli fa credere che quel che stanno vivendo è un gioco a premi con un carro armato in palio. 6? film di Benigni regista, è il più ambizioso, difficile e rischioso e il migliore: 2 film in 1, o meglio un film in 2 parti, nettamente separate per ambientazione, tono, luce e colori essenziali i contributi della fotografia ma complementari: la 1a spiega e giustifica la 2a. Una bella storia d'amore, scritta con Vincenzo Cerami: prima tra un uomo e una donna, poi per un figlio, ma l'una è la continuazione dell'altra. Il frenetico dinamismo di R. Benigni è felicemente sfogato, la sua torrentizia oralità ora debordante ora dimezzata. Un'elegante leggerezza distingue G. Durano nel più riuscito dei personaggi di contorno. 5 Nastri d'argento, 7 nomination agli Oscar e 3 statuette (film straniero, attore per Benigni, musica per Nicola Piovani). LA SETTIMA STANZA Anno: 1996 Produzione: Italia - Francia - Polonia - Ungheria Durata: 110' (colore) Regia: Marta Meszaros Film biografico che narra la vicenda di Edith Stein, ebrea convertita al cattolicesimo divenuta suora, uccisa in un Lager nazista nel '42 ed elevata agli altari da Giovanni Paolo II nel 1987. Un film pulito e appassionato, attento ad evitare le trappole della retorica. JONA CHE VISSE NELLA BALENA Anno: 1993 Produzione: Italia Regia: Roberto Faenza In Jona che visse nella balena il regista sceglie di osservare il mondo in una fase particolarmente drammatica della storia attraverso gli occhi di un bambino, Jona Oberski, ebreo olandese, deportato a quattro anni insieme ai genitori, sopravvissuto alla persecuzione antisemita e oggi autorevole scienziato, autore di Anni d’infanzia, in cui narra le sue memorie. ROSENSTRASSE Anno: 2003 Produzione: Germania Regia: Margarethe von Trotta Rosenstrasse, il nome della via in cui nel '43, quando le sorti della guerra erano ormai segnate, furono rinchiusi centinaia di ebrei provenienti dai matrimoni misti con ariani. Di fronte all'edificio, trasformato in prigione, i loro coniugi hanno dimostrato finché non sono riusciti ad ottenere la scarcerazione dei loro cari, o almeno dei sopravvissuti (incredibile!). Per rivivere questa drammatica pagina della storia, la regista, ci presenta Ruth Weinstein (Jutta Lampe) ormai settantenne che a New York, dove si è trasferita al termine della guerra, ha appena seppellito il marito. L'evento la riavvicina in maniera traumatica alla sua religione e per prima cosa decide di opporsi alle nozze della figlia, Hannah (Maria Schrader), con un uomo di religione non ebraica. Questo improvviso cambiamento della madre preoccupa Hannah che inizia ad indagare sul suo passato scoprendo come la nonna fosse stata una delle vittime della Rosenstrasse e di come sua madre fosse stata adottata da Lena (Katja Riemann) una delle tante anime disperate che lottava per la liberazione del marito. Lena, di estrazione nobiliare, vive con ancor maggior orrore gli eventi del nazismo. Ripudiata dal padre, fervente portabandiera degli ideali del Fuehrer, allontanata da una società che fino a pochi anni prima l'aveva idolatrata come una delle più promettenti pianiste della Germania, si trova a patire la fame e le umiliazioni di migliaia di altri disperati. I film sull'Olocausto hanno sempre una carica emotiva devastante, come potrebbe essere altrimenti, e questo della von Trotta non fa certo eccezione. Tra l'altro va ascritto alla cineasta di essere l'unica tedesca ad aver affrontato questo tema, che è particolarmente spinoso per i teutonici. La visione di Margarethe non è assolutamente parziale e mostra i due lati della Germania, quella oltran-a-zista e quella della gente comune che vede deportare persone con cui ha condiviso la vita fino a pochi giorni prima, senza spesso sapere quale fosse il reale destino di quegli sventurati. Un grande affresco realizzato con un budget hollywoodiano che si muove continuamente ed abilmente tra passato e presente, ma sofferente di una lunghezza eccessiva che allunga l'agonia dello spettatore per poi dargli lo zuccherino finale. JAKOB IL BUGIARDO (Jakob the Liar) Regia: Peter Kassovitz Produzione: USA Interpreti: Robin Williams, Alan Arkin, Mathieu Kassovitz Anno: 1999 Durata: 114' (col) Tratto dal romanzo di Jurek Becker , è una fiaba sul tema tragico della ghettizazione degli ebrei dell’Europa orientale ad opera dei nazisti. In un ghetto polacco, Jakob, nell’ufficio della Gestapo, ascolta per caso alla radio la notizia dell’avanzata dell’Armata Rossa. Quando comunica il fatto ai suoi conoscenti, tutti credono che egli abbia una radio nascosta. Nel tentativo di far nascere la speranza nel ghetto egli decide di dare via via delle notizie completamente inventate sull’esito positivo della guerra KAPO' Regia: Gillo Pontecorvo Produzione: Francia/Italia Interpreti: Susan Strasberg, Laurent Terzieff, Emmanuelle Riva, Didi Perego, Gianni Garko. Anno: 1960 Durata: 116' (b/n) Durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale, Edith, una giovane ebrea francese, viene deportata in un campo di sterminio. Dopo aver assistito all’uccisione dei genitori, decide di sopravvivere diventando la responsabile di una baracca. L’amore per un prigioniero russo le farà ricordare i valori dimenticati nella battaglia quotidiana per la vita. SWING KIDS - GIOVANI RIBELLI Regia: Thomas Carter) Produzione: USA Interpreti: Robert Sean Leonard, Christian Bale, Frank Whaley, Kenneth Branagh, Barbara Hershey Anno: 1993 Durata: 114' (col) Ci si può opporre al nazismo ballando? E’ successo a un gruppo di giovani legati da una forte amicizia e dalla comune passione per il Swing, la musica americana che venne proibita perché degenerata. Il film offre una convincente descrizione della condizione dei giovani, di fronte al tentativo di nazificazione della società tedesca, nella Germania degli anni ’30. ARRIVEDERCI RAGAZZI (Au revoir les enfants) Regia: Louis Malle Interpreti: Gaspard Manesse, Raphael Fejto, Francine Racette, Philippe MorierGenoud, François Berléand. Produzione: Francia Anno: 1987 Durata: 103' (col) E’ un ricordo di scuola dello stesso Malle. Francia, Collegio del Bambin Gesù di Fontainebleau, gennaio del ’44. Tra il ragazzo Louis Malle (Gaspard Manesse) e Jean Bonet (Raphael Fejto ), ebreo nascosto sotto falso nome, si stabilisce un delicato rapporto di amicizia che viene, però, stroncato sul nascere dalla deportazione del Padre rettore del Collegio insieme ai piccoli ebrei che aveva nascosto. L’ arrivederci straziante si rivelerà un irrimediabile addio. (Leone d'Oro alla Mostra di Venezia) L’AMICO RITROVATO (Reunion) Regia: Jerry Schatzberg Produzione: Gran Bretagna/Francia/Germania Interpreti: Jason Robards, Christian Anholt, Sam West, Françoise Fabian. Anno: 1989 Durata: 110' (col) Liberamente tratto dall'omonimo libro di Fred Uhlman (pubblicato in Italia dalla casa editrice Feltrinelli). Germania, anni ’30. Due adolescenti, uno figlio di uno stimato medico ebreo, l’altro rampollo di una famiglia aristocratica, gli Hohenfelds, frequentano lo stesso prestigioso ginnasio di Stoccarda. L’appassionata amicizia che nasce tra i due verrà stroncata dalla dilagante piaga dell’antisemitismo nazista. L'UOMO DEL BANCO DEI PEGNI (The Pawnbroker) Regia: Sidney Lumet Produzione: USA Interpreti: Rod Steiger, Geraldine Fitzgerald, Brock Peters Anno: 1965 Durata: 116' (b/n) Sol Nazerman (Rod Steiger), un ebreo polacco sopravvissuto allo sterminio nazista, vive in America gestendo un Banco dei Pegni. Ossessionato dal ricordo, vive chiuso in se stesso. Un evento traumatico scuoterà la sua apparente incapacità di soffrire e di amare. il film è ritenuto una delle poche produzioni holliwoodiane che abbiano affrontato il tema della Shoah con rigore, sia tematico che formale. DOTTOR KORCZAK Regia: Andrzej Wajda Interpreti: Wojciech Pszoniak, Ewa Dalkowska, Piotr Kozlowski. Produzione: Polonia/Germania/Francia Anno: 1990 Durata: 113' (b/n) La tragedia di un gruppo di 200 orfani ebrei nel Ghetto di Varsavia, affidati alle cure del Dottor Korczak, fino alla loro deportazione, nell’agosto del 1942, nel campo di sterminio di Treblinka IL CIELO CADE Regia: Andrea e Antonio Frazzi Interpreti: Isabella Rossellini, Lara Campoli, Veronica Niccolai, Jeroen Krabbé, Barbara Enrichi, Gianna Giachetti, Luciano Virgilio. Produzione: Italia Anno: 2000 Durata: 101' (col) Una storia liberamente tratta dalla vicenda vera di Alfred Einstein (cugino del grande fisico) e dei suoi, vittime delle SS in ritirata dopo aver rifiutato di fuggire "per rispetto della propria dignità" nei giorni successivi al 25 luglio 1943. IL GRANDE DITTATORE Regia : Charlie Chaplin Produzione: USA Interpreti: Charlie Chaplin, Paulette Goddard, Jack Oakie, Reginald Gardiner, Grace Hale. Anno 1940 Durata 126 ‘ (b/n) Un grandissimo Charlie Chapiln nel doppio ruolo del dittatore Hynkel (Hitler) e di un barbiere ebreo che lotta contro le persecuzioni antisemite e che, camuffato da nazista, viene scambiato per il primo e in questa veste pronuncia un grande discorso umanitario. Fu quasi l’unico film americano ad attaccare il nazismo prima di Pearl Harbor. Coraggiose le analogie, mai camuffate (Hering/Goering, Napoleone/Mussolini), così come le sequenze realistiche del Ghetto. A Chicago, città che contava una forte comunità tedesca, fu censurato IL PIANISTA Anno: 2002 Durata: h 2.28 Nazionalità: Francia/Germania/Polonia/Gran Bretagna Regia: Roman Polanski Il pianista sta suonando il Notturno in do diesis minore di Chopin, quando i bombardamenti interrompono l’esecuzione. I tedeschi occupano Varsavia. La famiglia ebrea Szpilman decide di non lasciare la città, fiduciosa nell’intervento degli alleati. Presto si comprende che i francesi non hanno intenzione di sfondare la linea Siegfried, come gli inglesi di bombardare Amburgo. È il settembre del 1939. Iniziano le violenze, le misure restrittive, i rastrellamenti. Gli Szpilman restano compatti e difendono, quanto possibile, la loro dignità. L’insensatezza degli eventi sembra garantirne la fine. S’impara che un calcio o un insulto da parte di un tedesco non è un’ignominia, è la regola. I cancelli del ghetto di Varsavia vengono chiusi il 15 dicembre del 1940. Nell’agosto del 1942, nell’Umschlagplatz, centro di raccolta ai confini del ghetto, Wladyslaw viene salvato da un membro della polizia ebrea, e dice addio alla famiglia che scompare su un carro bestiame. D’ora in avanti l’unico obiettivo è sopravvivere. Scappato dal ghetto, si sposta di rifugio in rifugio, finendo per aggirarsi, come il primo uomo, tra le macerie di una Varsavia rasa al suolo, alla ricerca di un tozzo di pane ammuffito. Il capitano della Werchmacht Wilm Hosenfeld scopre il suo nascondiglio, ma, dopo averlo sentito suonare, gli salva la vita. È il 1945, Varsavia viene liberata dall’Armata Rossa. A causa del pastrano nemico che indossa per ripararsi dal freddo, il pianista rischia di essere grottescamente ucciso dai soldati polacchi che inizialmente lo scambiano per un tedesco. Finita la guerra, Wladyslaw riprese a suonare per Radio Varsavia, che inaugurò la trasmissione col brano di Chopin che era stato eseguito dal vivo quell’ultimo giorno, come se la guerra e Hitler fossero stati soltanto un funesto intervallo. A nulla valse l’appassionata intercessione di Szpilman per aiutare il suo salvatore. Hosenfeld morì in un campo di concentramento a Stalingrado nel 1953, dopo sette anni di prigionia. “Ho iniziato la mia carriera di pianista durante la guerra, al Café Nowoczesna, che si trovava in via Nowolipki, proprio nel cuore del ghetto di Varsavia. Quando nel novembre del 1940 i cancelli del ghetto vennero chiusi, la mia famiglia ormai da molto tempo aveva venduto tutto quello che si poteva vendere, persino quello che noi consideravamo il nostro bene più prezioso: il pianoforte. La vita, alla quale quei tempi avevano tolto ogni valore, mi costrinse tuttavia a vincere la mia apatia e cercare un modo per guadagnarmi da vivere." Ufficiale della Wehrmacht, Wilm Hosenfeld. Scrive Hosenfeld: “Perché è dovuta scoppiare questa guerra? Perché bisognava mostrare all’umanità dove la stava conducendo la sua mancanza di fede. Innanzitutto il Bolscevismo ha ucciso milioni di uomini col pretesto di introdurre un nuovo ordine mondiale. Ma i bolscevichi potevano agire in questo modo solo perché si erano allontanati da Dio e dall’insegnamento cristiano. Ora il Nazionalsocialismo sta facendo lo stesso in Germania. Vieta alla gente di praticare la propria religione. I giovani vengono cresciuti senza fede, la Chiesa viene combattuta, espropriata dei propri beni. Tutti coloro che la pensano in modo diverso sono perseguitati. Lo spirito libero del popolo tedesco viene avvilito, uomini e donne sono ridotti a schiavi terrorizzati. La verità è bandita. Nessuno conta più nulla nel destino del proprio Paese.” APPARTAMENTO AD ATENE Tratto dal romanzo di Glenway Wescott "Apartment in Athens" del '45 ed edito in Italia da Adelphi solo nel 2003, Appartamento ad Atene, opera prima del regista Ruggero Di Paola (avvocato di professione e cineasta per hobby) con Laura Morante, Richard Sammel, Gerasimos Skiadaressis, Vincenzo Crea e Alba De Torrebruna. "Nel 1943, ad Atene, un appartamento viene requisito per ospitare un ufficiale tedesco. Nell'appartamento vivono gli Helianos, una coppia di mezza età un tempo agiata. Hanno un ragazzo di dieci anni, animato da melodrammatiche fantasie di vendetta, e una bambina di dodici. Con l'arrivo del capitano Kalter, tutto è cancellato. Metodico, ascetico, crudele, Kalter è un diosoldato che impone il terrore. E gli Helianos si sottomettono, remissivi. Sono servi, adesso, senza altra identità che la loro acquiescenza. La volontà del dio-soldato è il loro unico assillo. L'appartamento li avvolge come un'epidermide. Poi, di colpo, l'assenza. Il padrone parte per la Germania, e i servi scoprono che la libertà non ha alcun senso, che la tortura continua. Quando Kalter torna, è un sollievo. E' cambiato: più gentile, indulgente. Di un'indulgenza che disorienta. Ma è un fragile equilibrio. Correnti sotterranee di odio agiscono in segreto e preparano un'agghiacciante vendetta" Dachau, baracca 8, numero 123343: la testimonianza di un sopravvissuto FILM DOCUMENTARIO Gli orrori del campo nazista di Dachau nei ricordi di Enrico Vanzini LA CHIAVE DI SARA La chiave di Sara è un film del 2010 diretto da Gilles Paquet-Brenner. Tratto dall'omonimo romanzo di Tatiana de Rosnay e interpretato da Kristin Scott Thomas e dalla "bimba-prodigio" Mélusine Mayance, Regista: Gilles Paquet-Brenner Anteprima nazionale: 16 settembre 2010 Data di uscita DVD: 22 novembre 2011 Scritto da: Tatiana De Rosnay Cast: Kristin Scott Thomas, Mélusine Mayance, Niels Arestrup, Aidan Quinn, VENTO DI PRIMAVERA 1942. Estate. Dopo l’invasione da parte delle truppe della Germania hitleriana gli ebrei sono stati prima obbligati a portare la Stella di David sugli indumenti, e poi sono stati progressivamente esautorati dai loro impieghi e impediti ad accedere a scuole e luoghi pubblici. Ma ora Hitler ha deciso di procedere allo sterminio di massa e vuole che il governo collaborazionista insediato a Vichy gli procuri dalla sola Parigi almeno 20.000 dei 25.000 ebrei residenti. I suddetti verranno dapprima condotti in campi di raccolta in territorio francese e poi, una volta ultimati i lavori per i forni crematori nei lager, avviati a morire. Il maresciallo Pétain aderisce senza difficoltà alla richiesta e la notte del 16 luglio (i tedeschi avevano chiesto il 14 dimenticando la festa nazionale) la retata si svolge. Tredicimila uomini, donne e bambini ebrei vengono prelevati dalle loro abitazioni e portati nel Vélodromo d’Hiver, prima tappa del loro calvario. Il punto di vista che il film assume è quello di alcuni bambini che vivono nel quartiere di Montmartre e, in particolare quello del decenne Joseph. Vogliamo concentrarci sull’invito a vedere il film superando l’atteggiamento che è stato purtroppo fatto proprio da alcuni di quelli a cui il produttore Ilan Goldman si è rivolto perché partecipassero all’impresa. “È storia antica”, “Non importa a nessuno”. Non è storia antica e la regista Rose Bosch è riuscita nell’intento di farcela percepire come purtroppo attuale. Intendiamoci: tutto è filologicamente coerente con l’epoca con cui si sono svolti i fatti. Fatti che il cinema francese non aveva mai affrontato con tanta precisa e documentata forza se non in un documentario televisivo e che ora riemergono come memoria del passato ma anche come monito sul presente. La Bosch lavora su una tripartizione narrativa. Da un lato Hitler nel suo buen retiro del Berghof, dall’altro Pétain, Laval e i loro accoliti e, nel mezzo, le famiglie ebraiche colte nella loro quotidianità all’interno della quale sono stati inoculati ad arte (anche grazie al media più diffuso all’epoca, la radio) i germi del più irrazionale ma efficace disprezzo per l’altro. Alimentandolo con la ripetizione delle menzogne in modo da assuefare le menti all’idea della ‘normalità’ dell’emarginazione. Il film non accusa ‘i francesi’ tout court e anzi sottolinea il fatto che se dei 25.000 ebrei 12.000 sono sfuggiti alla retata lo si deve a parigini che li hanno aiutati mettendo a repentaglio la propria esistenza. Ma resta comunque impressa nelle retine la gestione dell’intera operazione da parte di uomini che non indossano le divise delle SS o della Wehrmacht ma quelle delle forze dell’ordine e militari francesi. Allora per quegli sguardi infantili diventa ancor più difficile anche solo tentare di darsi una spiegazione di quanto accade. Così quando si assiste alle scene delle migliaia di esseri umani ammassati con pochissime cure e senz’acqua nel Velodromo non possono non tornare alla mente le immagini dello stadio di Santiago del Cile dopo il colpo di stato di Pinochet. Ma c’è un momento in cui si percepisce lo iato che si è insediato tra realtà e pregiudizio. Quando il dottor Sheinbaum (interpretato da unJean Reno in cui solidità fisica e morale formano un tutt’uno) grida dinanzi all’ennesimo sopruso: “Non ne avete il diritto!” è la coscienza civile, è un’umanità vinta ma non piegata, è la Ragione che grida con lui. Ma in quello stesso istante lo spettatore ‘sente’ che si tratta di un appello irricevibile da chi sta dall’altra parte. Una parte per la quale la parola diritto ha perso qualsiasi valore, qualsiasi possibilità di confronto in cui essa torni a individuare un senso che sia davvero comune. Chiediamoci se questo svuotamento di significati fondamentali non abbia trovato anche nella nostra società contemporanea una sua consistenza. Chiediamocelo riflettendo sulla risposta che ci siamo dati e ringraziando questo film per avere suggerito la domanda L’UOMO CHE VERRA’ Alle pendici di Monte Sole, sui colli appenninici vicini a Bologna, la comunità agraria locale vede i propri territori occupati dalle truppe naziste e molti giovani decidono di organizzarsi in una brigata partigiana. Per una delle più giovani abitanti del luogo, la piccola Martina, tutte quelle continue fughe dai bombardamenti e quegli scontri a fuoco sulle vallate hanno poca importanza. Da quando ha visto morire il fratello neonato fra le sue braccia, Martina ha smesso di parlare e vive unicamente nell'attesa che arrivi un nuovo fratellino. Il concepimento avviene in una mattina di dicembre del 1943, esattamente nove mesi prima che le SS diano inizio al rastrellamento di tutti gli abitanti della zona. Quella di Monte Sole (BO) è la più grave delle stragi fatte dalle truppe tedesche dopo l'8-91943: 771 civili (216 bambini) massacrati dalle SS tra il 22-9 e il 5-10-1944 per aver aiutato i partigiani della Brigata Stella Rossa. Al centro del 2° film _ prodotto e diretto dal bolognese Diritti dopo Il vento fa il suo giro _ c'è la bambina Martina che fa da filtro alla vicenda storica. Da quando le è morto in braccio un fratellino, ha smesso di parlare. Tiene un diario. Nel dicembre 1943, la sua mamma rimane ancora incinta: quando il fratellino nasce in settembre, Martina s'impegna a salvarlo: è lui l'uomo che verrà. Il film si chiude sulla ninnananna che lei gli canta. È un'altra storia di una comunità montana, ma in tempi tragici. L'assillo del realismo spinge Diritti a far parlare le 2 attrici professioniste e gli altri interpreti nel dialetto bolognese di allora. Un film sulla Resistenza così non si era mai visto: senza eroi né eroismi, senza una divisione netta tra "buoni" e "cattivi", con un impianto antropologico che diventa epico: la guerra raccontata dal basso, dalle sue vittime. Non mancano gli spunti fantastici, un'ombra di fiabesco in una favola tragica. Non c'è traccia di militari italiani della Repubblica di Salò. Il puntiglio di verità retrospettiva permea la mobilissima fotografia di Roberto Cimatti e i costumi "invisibili" di Lia Francesca Morandini. Come in Olmi, il senso del sacro è profondamente legato alla cultura contadina e al rapporto con la Natura, ma con una netta dimensione femminile. Scritto con Giovanni Galavotti, Tania Pedroni. Prodotto da Aranciafilm/Rai Cinema. 3 David di Donatello: miglior film, produttore e fonico in presa diretta. Distribuito da Mikado. 200 giorni in cartellone al Mexico di Milano. DALL’ALTRA PARTE DEL MARE ….Sono un essere umano, un essere umano, sono un essere umano che vuole vivere…un essere umano. E' questo il grido disperato di Ka-Tzetnik 135633 nel suo libro dal titolo "Shiviti". E' la storia di un sopravvissuto ad Auschwitz (Yehil De-Nur) con il numero marchiato nella carne del braccio sinistro, arrivato all'estremo limite di degradazione umana che dopo 30 anni ha accettato di rivivere l'esperienza del campo di concentramento con una terapia a base di LSD, sottoponendosi a 5 sedute chiamate Cancelli della Memoria. E' uno dei due deportati di Auschwitz nella messa in scena sulla shoah da parte di una compagnia teatrale, l'altra è Tosca Marmor, ebrea-polacca intervistata all'inizio del film da Clara che aveva fatto un documentario su di lei a Parigi, dove entrambe vivevano ed erano diventate intime amiche. Tutto comincia ai giorni nostri quando Clara che vive ancora a Parigi, viene chiamata dal regista Abele a Roma per collaborare a questa messa in scena. Si porta con sé il vecchio documentario girato nel '79 e incontra altri attori che stanno provando. Insieme cercano di impostare i personaggi ma ben presto sorgono dei contrasti tra Abele e Clara sul modo di fare la rappresentazione: lei vorrebbe entrare dentro le esperienze singole, lui invece mantenere un tratto oggettivo. A Trieste dove dovrebbe effettuarsi la messa in scena Clara ne approfitta per cercare suo padre scomparso quando lei aveva 8 anni. Viene a sapere di un suo passato oscuro. Abele intanto cerca i luoghi adatti per il suo teatro itinerante, ma non trova più i segni del passato e l'orrore provato visitando San Sabba, lo fa desistere dall’impresa: non si può esprimere l'inesprimibile e neanche rappresentarlo. Clara con il padre ritrovato riesce a lasciarsi alle spalle i suoi fantasmi e può finalmente guardare dall'altra parte del mare… GENERE: Drammatico REGIA: Jean Sarto ATTORI: Galatea Ranzi, Vitaliano Trevisan, Viviana Di Bert, Alessandra Battisti, Fulvio Falzarano, Tony Allotta,Paolo Summaria, Dino Castelli DEFIANCE Nel 1941 gli ebrei dell'Europa Orientale vengono uccisi a migliaia da nazisti. Tre fratelli polacchi (interpretati da Daniel Craig, Liev Schreiber e Jamie Bell) riescono a sfuggire alla cattura nascondendosi nei boschi della vicina Bielorussia, dove si uniranno alla resistenza russa e costruiranno un villaggio che permetterà di salvare la vita a più di 1200 ebrei. Presto però tra due dei tre fratelli scoppierà una forte rivalità per la leadership del gruppo che hanno costituito mentre il terzo rimarrà nel mezzo di questa lotta intestina. Diretto da Edward Zwick, Defiance è tratto da una storia realmente accaduta. GENERE: Drammatico, Guerra REGIA: Edward Zwick SCENEGGIATURA: Clayton Frohman, Edward Zwick ATTORI: Daniel Craig, Liev Schreiber, Jamie Bell, Alexa Davalos, George McKay, Tomas Arana, Mark Feuerstein,Allan Corduner, Jodhi May, Mia Wasikowska OPERAZIONE VALKIRIA 1944: tornato in Germania dalla campagna d'Africa, dove è stato ferito gravemente, il colonnello Claus von Stauffenberg, un aristocratico tedesco, si unisce alla Resistenza ed entra a far parte dell'operazione Vakyrie, un piano che mira alla presa del potere da parte di un governo ombra una volta morto Hitler. Von Stauffenberg assumerà un ruolo centrale nel piano: sarà proprio lui a dover portare avanti il colpo di stato, uccidendo di sua mano il Führer. Il film è ispirato a fatti realmente accaduti: il vero von Stauffenberg fu a capo di un piano – noto come il Complotto del 20 luglio – che mirava ad abbattere il nazismo e a porre fine alla guerra assassinando Adolf Hitler. GENERE: Biografico, Drammatico, Storico REGIA: Bryan Singer SCENEGGIATURA: Christopher McQuarrie, Nathan Alexander ATTORI: Tom Cruise, Kenneth Branagh, Carice van Houten, Eddie Izzard, Bill Nighy, Terence Stamp, Thomas Kretschmann, Kevin McNally, David Bamber, Halina Reijn, David Schofield, Werner Daehn, Christian Berkel, Matthias Freihof, Gerhard HaaseHindenberg, Jamie Parker, Florian Panzner, Manfred-Anton Algrang, Karl-Alexander Seidel, Tom Wilkinson IL BAMBINO CON IL PIGIAMA A RIGHE regia: Mark Herman Asa Butterfield (Bruno); Jack Scanlon (Shmuel); Amber Beattie (Gretel); David Thewlis (Padre); Vera Farmiga (Madre); Richard Johnson (Nonno); Sheila Hancock (Nonna); Rupert Friend (Tenente Kotler) anno: 2008 Germania, anni '40. Bruno è un tranquillo bambino di otto anni che vive con la sua famiglia a Berlino. Quando suo padre, un ufficiale nazista molto apprezzato dai superiori, viene promosso con un nuovo incarico, Bruno, con suo grande disappunto, è costretto a trasferirsi con la famiglia in una desolata zona di campagna. Giunto nella nuova casa, il cambiamento per Bruno si rivela ancor più difficile del previsto. Solo e senza amici, ignorato anche dalla sorella Gretel, più interessata alla compagnia del giovane tenente Kotler, Bruno è sempre più triste e annoiato. Un giorno, spinto dalla curiosità e ignorando le indicazioni della madre che gli proibisce di esplorare il giardino dietro casa, Bruno si avvicina al recinto di filo spinato che divide la sua abitazione da una strana fattoria i cui residenti indossano un pigiama a righe. Lo stesso pigiama a righe che indossa Pavel, il cuoco di casa, che sembra essere l'unica persona in casa a prendersi cura di lui. Bruno entra così in contatto con Shmuel, un bambino che vive nella fattoria, con cui inizia ad incontrarsi frequentemente, in gran segreto. L'amicizia con Shmuel e una serie di avvenimenti e cambiamenti che matureranno nella sua casa, in sua sorella e nel rapporto tra i suoi genitori, porteranno Bruno verso la perdita dell'innocenza e a una maggiore consapevolezza del mondo degli adulti con drammatiche conseguenze. HOTEL MEINA regia: Carlo Lizzani Benjamin Sadler, Ursula Buschorn, Federico Costantini, Ivana Lolito, Nando Murolo, Adriano Wajskol, Federico Pacifici, Ralph Palka, Thierry Toscan. (110’) anno: 2007 Appena dopo l’8 settembre, presso l’Hotel Meina, sul Lago Maggiore, si consuma una delle più efferate stragi di civili ebrei, perpetrate dalle SS ai danni dei cittadini italiani. Regista, storico del Cinema, critico, sceneggiatore, attore (classe 1922), Carlo Lizzani è stato uno dei direttori della Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che, alla sua 64aedizione ha voluto omaggiare l’anziano Maestro con la proiezione “fuori concorso” della sua ultima opera: Hotel Meina. Quest’ultima si inserisce perfettamente in quel percorso di ricostruzione storico/letteraria/cinematografica dedicato alle tematiche del fascismo e dell’antifascismo, che ha caratterizzato l’intensa produzione di Lizzani da Achtung! Banditi, sino a Mussolini ultimo atto, passando per Fontamara; Cronache di poveri amanti; Il Gobbo; L’oro di Roma… Questa volta l’ispirazione viene dal romanzo omonimo di Marco Nozza cui Lizzani apporta qualche modifica, quel tanto per suggerire l’idea che anche in quegli anni terribili c’erano persone di nazionalità tedesca che si adoperavano, a costo della vita, per salvare vite umane e concorrere al riscatto della dignità e del futuro della Germania stessa. Da un punto di vista strettamente cinematografico si sottolinea la volontà di non voler calcare troppo su scelte linguistiche ricercate, bensì confinare il racconto entro i confini rassicuranti di un codice estetico molto vicino a quello della fiction televisiva. Buono il gruppo degli interpreti, quasi tutti sconosciuti ma credibili e in grado di restituire emozioni. SENZA DESTINO regia: LAJOS KOLTAI MARCELL NAGY (GYURI KOVES); ARON DIMENY (BANDI CITROM); ANDRAS M. KECSKES (FINN); JOZSEF GYABRONKA (L'UOMO SFORTUNATO); ENDRE HARKANYI (VECCHIO KOLLMANN) anno: 2005 Racconto doloroso e dettagliato dell'esistenza in un campo di concentramento attraverso lo sguardo di Gyuri, un giovane ebreo ungherese. Dopo la deportazione del padre in quelli che sono creduti semplicemente campi di lavoro, anche Gyuri viene rastrellato sull'autobus che lo sta portando a scuola. Dopo un periodo passato ad Auschwitz, viene spostato a Buchenwald, dove viene perseguitato da un kapò ungherese e dove inizia la sua routine di fatica, dolore, sottomissione e degrado: perde i lunghi riccioli neri, dimagrisce progressivamente, spala sassi, trasporta sacchi pesantissimi, si lava di rado, contrae la scabbia, gli va in cancrena un ginocchio, è costretto a dormire vicino ai moribondi e a passare intere giornate in piedi, al freddo o sotto la pioggia. Eppure riesce a non "perdere se stesso" - come dirà una volta uscito dal lager, prelevato per miracolo da una fossa comune dalle truppe alleate - né il contatto con la realtà. Una realtà fatta anche di piccole astuzie per sopravvivere e di momenti che definisce "piacevoli"... Critica: "Un ragazzino di buona famiglia che non sa niente della vita la scopre nel posto più lontano dalla vita che si possa immaginare: un lager nazista. E' il soggetto solo apparentemente paradossale di questo film tratto dal romanzo autobiografico del premio Nobel ungherese Imre Kertész. 'Tutti mi chiedono soltanto dell'orrore', dice il giovanissimo György quando torna a Budapest miracolosamente scampato alla morte, 'ma è della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare'. Nel film naturalmente questa felicità non c'è, non si vede, ma la si intuisce nei vuoti che il grande cineoperatore Lajos Koltaj, qui regista, lascia sapientemente fra le immagini studiatissime di un film fatto non solo di momenti forti ma di sguardi, silenzi, interstizi. (...) E' un modo del tutto diverso di affrontare la questione Shoah (lo stesso Kertész, che preferisce di gran lunga 'La vita è bella' al troppo fittizio 'Schindler's List', ha esitato a lungo prima di adattare il suo romanzo per lo schermo). Peccato che la musica di Morricone, così sentimentale, sia per una volta del tutto inadeguata. Ma il film è una vera sorpresa. Un viaggio al termine della notte che si chiude su una luce fioca e insieme penetrante. Per chi sappia e voglia vederla, naturalmente." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 26 gennaio 2006) "Dal romanzo dell'ungherese Imre Kertész, premio Nobel che ha dedicato la vita alla Shoah, diretto dal candidato all'Oscar Lajos Koltai, direttore di fotografia di Szabò e Tornatore, musicato con ardore da Morricone, interpretato da un giovane, Marcell Nagy, trovato sulla via Paal televisiva, il film è una testimonianza sugli orrori dell'Olocausto. Oleografico perché non sempre arriva nel fondo dell'angoscia ma si ferma alla sua rappresentazione, è diverso: la vittima, nonostante gli orrori, sopravvive e cerca di ricordare il "positivo" di quella mostruosità. È sempre utile ricordare, ci vorrebbe, di questi tempi, non un giorno, ma un anno di molte Memorie." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 27 gennaio 2006) "Il film di Lajos Koltai (debuttante come regista, già direttore della fotografia di grande livello: per esempio di Tornatore per 'La leggenda del pianista sull'Oceano') sceglie uno sguardo giustamente attonito, impassibile perché le cose, i volti, le situazioni parlano da soli, per trasferire sullo schermo l'autobiografica odissea di Gyuri: tra i rituali familiari anteguerra di un tradizionalismo ebraico indifeso e inconsapevole, quelli della quotidiana sopravvivenza nel lager, e l'infastidita indifferenza che il ragazzo con la divisa a strisce e il marchio sulla pelle trova tornando a casa." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 27 gennaio 2006) "'Senza destino' ('Fateless'), in concorso un anno fa a Berlino, ritorna sul tema dell'Olocausto in coincidenza con le celebrazioni della Giornata della memoria. Purtroppo, preso da un punto di vista specifico, il film è solo un'ennesima illustrazione enfatizzata dalle musiche di Morricone e funestata da una regia senza scatti degni di nota. Stabilendo che la nobiltà del tema procuri a prescindere un salvacondotto d'autore, ci sarebbe poco da disquisire: ma siccome esistono decine e decine di precedenti - tra cui 'Schindler's List' e il recente 'Il pianista' - era lecito attendersi una visione meno stereotipata, prevedibile e pretenziosa. Fotocopiata dal romanzo autobiografico del premio Nobel Imre Kertész ('Essere senza destino', Feltrinelli ed.), la superproduzione europea si è affidata a Lajos Koltai che, peraltro, non fa molto per dimostrarsi degno della promozione ossia maturato rispetto all'onorata carriera di direttore della fotografia." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 28 gennaio 2006) SOPHIE SCHOLL regia: Marc Rothemund Julia Jentsch, Alexander Held, Fabian Hinrichs, Johanna Gastdorf, André Hennicke, Florian Stetter anno: 2005 Nella Germania nazista, a cavallo degli anni 1942-43, un gruppo di studenti universitari di Monaco di Baviera si attiva per organizzare azioni di propaganda anti-nazista, denunciando apertamente, anche con volantinaggi, la crudeltà delle leggi razziali, l’inutilità e gli orrori della guerra, le angherie e i soprusi del regime. Subiranno un processo farsa e finiranno ghigliottinati. Gli episodi della Resistenza tedesca sono quasi assenti dalla memoria collettiva occidentale; eppure i fatti narrati ne La Rosa Bianca non sono del tutto estranei al sottobosco cinematografico (nel’82 ben due registi Percy Adlon e Michael Verhoeven producono rispettivamente: I cinque ultimi giorni e Rosa Bianca, mentre risale al 1971 una fiction televisiva italiana che tratta l’argomento). Giocando la carta di una ricostruzione scenica rigorosa, quasi totalmente giocata su interni, stringendo la focale sui personaggi; procedendo per contrasti – da un lato il soffermarsi continuo sulle simmetrie rigorose delle architetture (e sul significato reale cui queste alludono: l’Ordine), dall’altro mostrando gli slanci giovanili e l’entusiasmo di chi, quell’Ordine, vorrebbe abbatterlo – Rothemund realizza una pellicola di discreto spessore, nitida e pulita come quella gioventù che mette sulla scena. Il linguaggio cinematografico si impreziosisce di slanci teatrali (la lunga sequenza del “processo”, gli interrogatori di Sophie) e anche la connotazione dei personaggi rimanda più alla logica delle “maschere” che ad una vera e propria interpretazione. Si apprezza la bravura di tutto il cast che riesce a dare il meglio in termini di qualità attoriale in un’opera che costringe, per la sua struttura stile Kammerspiel, ad enfatizzare intensità espressiva e ripetuta vicinanza alla macchina da presa. OGNI COSA E’ ILLUMINATA regia: LIEV SCHREIBER Elijah Wood, Eugene Hutz, Boris Leskin, Laryssa Lauret. (102’) anno: 2005 Giovane ebreo americano arriva in Ucraina alla ricerca della donna che salvò suo nonno durante l’invasione nazista. Meritati consensi e applausi per il frizzante debutto alla regia dell’attore Liev Schreiber ("The Manchurian Candidate"; "Al vertice della tensione"; "Kate e Leopold") che, per l’occasione si è ispirato al romanzo omonimo di Jonathan Safran Foer e ha confessato curiose analogie fra la sua storia familiare e la trama del racconto. La cifra sottile è quella dell’on the road un po’ scanzonato e balcanico (cui si presta l’esuberante Eugene Huntz, da dieci anni sulla breccia col gruppo di musicisti-teatranti “Gogol Bordello”), che si colora, col precedere della narrazione, di sottolineature drammatiche sapientemente dosate sino alla rivelazione finale. Ed è proprio questo dosaggio calibrato fra ironia surreale e dramma fin troppo reale (anche se rimosso), assieme ad un taglio volutamente giovanile, a fare di "Ogni cosa è illuminata", una pellicola godibile, intrigante e, allo stesso tempo, necessaria per recuperare (o acquisire) quella memoria forse un po’ troppo relegata ai libri di storia o a manifestazioni ed eventi che si esauriscono nel tempo di una giornata. “Per la efficace ed emozionante descrizione di un percorso di ricerca giovanile, illuminato dal passato e dai valori della tradizione”, la pellicola di Schreiber ha ottenuto il riconoscimento, che da otto edizioni del Festival viene attribuito al film che “maggiormente ha colpito la fantasia dei ragazzi”, da parte dei Cinecircoli Giovanili Socioculturali e del Comitato per la Cinematografia dei Ragazzi. Premio “Lanterna Magica” dei Cinecircoli Giovanili Socioculturali e del Comitato per la Cinematografia dei Ragazzi. VINCITORI E VINTI Vincitori e vinti è un film del 1961 diretto da Stanley Kramer. Il film tratta del terzo Processo di Norimberga Regista: Stanley Kramer Anteprima nazionale: 19 dicembre 1961 Sceneggiatura: Abby Mann Premi: Oscar al miglior attore, Oscar alla migliore sceneggiatura non originale, CONCORRENZA SLEALE Dopo Una giornata particolare (1977), E. Scola ritorna all'anno della promulgazione delle leggi razziali contro gli ebrei, con un film scritto da lui e da Furio Scarpelli con i due rispettivi figli Silvia e Giacomo. Storia di due commercianti di stoffe che a Roma abitano e lavorano nella stessa strada: Umberto, sarto milanese di famiglia cattolica, e Leone, merciaio ebreo. L'ignominia, non priva di particolari assurdi, del decreto-legge 1728 (17-111938) "Provvedimenti per la difesa della razza italiana" si riflette nelle piccole vicende quotidiane dei due protagonisti e delle loro famiglie, dei parenti e degli amici. Due i punti di forza: il set della strada-quartiere, microcosmo di una società ignara prima ancora che indifferente, distratta o solidale, che racchiude la vicenda; la capacità di illustrare una legge infame quasi articolo per articolo, calandola in personaggi, casi, aneddoti, in altalena tra commedia e dramma, tenerezza e dolore, sarcasmo e indignazione. Il bozzettismo tipico di Scola non manca; c'è un puntiglio persino eccessivo nella ricostruzione d'epoca; convenzionale e pleonastico il punto di vista infantile, ma i momenti autentici esistono e il duo Abatantuono-Castellitto è ammirevole per misura e intensità. Premio per la regia al festival di Mosca; Globo d'oro per la musica (A. Trovajoli); Donatello a L. Ricceri (scene) CAMMINANDO SULL’ACQUA Storia di un'amicizia impossibile DI EYTAN FOX Tutto comincia con un’immagine da cartolina. La moschea blu con i suoi minareti e il ponte che unisce l’Europa e l’Asia. Istanbul, insomma. Su un traghetto che porta quattro personaggi. Eyal, il protagonista, e tre comprimari. Questi ultimi sono una famiglia, araba, sicuramente. Padre con barba, moglie con chador e figlioletto che ancora aspetta il suo futuro. Eyal si alza, va in bagno. Qui si chiude dentro e tira fuori una piccola valigetta. Dentro di sono della fiale e una siringa. Liquido rosso riempie uno strumento che di solito è di vita, ma che, è chiaro stavolta porterà a qualcosa di peggio. I quattro scendono dal traghetto, Eyal passa vicino all’arabo, lo urta, questo cade a terra. Morto, è chiaro. Le lacrime del bambino segnano la natività dell’orfano e del vendicatore di domani. Missione riuscita per l’agente del Mossad. Perfettamente riuscita. Ma quando torna a casa, lo aspetta la fine del mondo. O almeno la fine di un mondo. Sua moglie, a letto distesa, morbida come solo le mogli sanno essere. Ma non risponde al suo chiamare. Sul comodino un blister di pastiglie svuotato e una lettera. Segni che ancora non si vogliono comprendere. I segni del suicidio. Un mese dopo Eyal aspetta una nuova missione. Una missione che non arriverà. I servizi segreti israeliani lo giudicano troppo instabile ancora per affidargli qualcosa di serio. Eppure qualcosa c’è. Sta arrivando in Israele il nipote di un nazista. Eyal dovrà fargli da balia turistica per capire se il nonno è ancora vivo, per poter arrivare alla giustizia prima di Dio. Eytan Fox compone un film davvero strano, un oggetto non chiaramente definibile. Traveste di leggerezza un soggetto che poteva essere affrontato in modo assai pesante, gioca con le aspettative del pubblico, rivelando a poco a poco le vite e il carattere dei suoi personaggi. L’agente del Mossad duro e puro, messo a confronto con Alex, il ragazzo tedesco che si rivela essere gay e molto rispettoso sia d’Israele sia delle sofferenze palestinesi, comincia a perdere, molto lentamente, parte delle sue sicurezze. Ma il suo percorso era già cominciato, il cambiamento era partito con quella lettera di suicidio, il cui contenuto ci sarà rivelato solo alla fine del lungometraggio. Il film comunque è riuscito, anche se in certi momenti la sceneggiatura diventa inconsistente e incoerente. Ma questi difetti sono sopravanzati dal tono che l’autore mette in campo nel mostrare cosa significhi essere tedeschi in terra d’Israele e ebrei in Germania. I ruoli si scambiano, e ogni personaggio contribuisce alla crescita dell’altro. Anche se Eyal è quello che ha più da imparare. Entrambi i protagonisti maschili sono messi di fronte ad un passato che non gli appartiene. Eppure sul quale sentono di avere delle responsabilità. Il nipote del nazista e l’agente del Mossad. Un’amicizia complicata, ma possibile. Per questo l’happy end non stona più di tanto. Se è possibile che i due leghino, tutto è possibile nel mondo. Anche che, forse, il conflitto arabo – israeliano un giorno finisca. E tutto è legato ad una vicenda in cui entrambi non credono. Cristo che cammina sulle acque. Uno non cristiano, l’altro ebreo. Uno figlio di una cultura del perdono che non riesce a perdonare, l’altro figlio di un Dio vendicativo che non può più vendicare. Davvero una strana coppia. Ma una coppia che può camminare sulle acque, se la loro anima diventa lieve e le loro colpe espiate. Ma non c’è il senso del divino che può alleggerirli dal peccato. C’è solo la propria coscienza, una coscienza con la quale fare i conti giorno per giorno, un perdono che deve essere dato a se stessi, la redenzione più difficile. Allora sì, quando si è in grado di espiare di fronte al tribunale della coscienza che c’è in ognuno di noi i propri peccati, si può finalmente tenere il mare di Galilea sotto ai propri piedi, finalmente leggeri, finalmente liberi. Prima di Dio è la formula che il capo di Eyal gli ripete per uccidere il nonno di Alex. Prima di Dio ci sono gli uomini e non le vendette. L’agente del Mossad lo capisce attraverso la più grande sofferenza che possa essere inferta all’uomo. Una sofferenza forse non abbastanza sottolineata dal regista, molto preoccupato di dare al lungometraggio quell’alone pop che gli consente di uscire dal ghetto del cinema di autore. Ma comunque percepita, sfiorata, accarezzata. Un progetto strano, questo film. Colonna sonora davvero azzeccata che mischia Springsteen con Gigliola Cinquetti, per un dramma pop che aiuta a vedere la quotidianità di un paese, Israele, che non riesce a dimenticare la storia, e che porta sulle sue spalle il fardello di un presente durissimo. Ma è anche un’opera che non dimentica che ci sono anche gli altri, e le lacrime del figlio dell’agente di Hamas parlano più di mille dialoghi. Da quelle lacrime nasce la morte, nascono le bombe. Asciugare quelle lacrime non sarà facile. Ma, di certo, è necessario per camminare sulle acque. LA FUGA DEGLI INNOCENTI 'La Fuga degli Innocenti' è un film drammatico diretto da Leone Pampucci nel 2004. Il titolo originale del film è 'La Fuga degli Innocenti'. E' prodotto in Italia. 'La Fuga degli Innocenti ha una durata di circa 200 minuti. PERLASCA SCHEDA DEL FILM “PERLASCA, UN EROE ITALIANO” Il film “Perlasca, un eroe italiano” ben si inserisce nel tema del Progetto Comenius sulla libertà di religione e sulla libertà di coscienza. Il tema della libertà di religione viene toccato in quanto tratta della persecuzione degli ebrei che, sebbene fosse iniziata come persecuzione della razza ebrea, ben presto, vista la labilità e la difficoltà di definire un tale termine, “la razza” ebrea, venne ad identificarsi con la persecuzione di coloro che professavano la religione ebrea. Il culto dell’ ebraismo era consentito solo nei ristretti confini del ghetto, e nel film ci sono almeno due scene in questo viene chiaramente visto. Più interessante è forse però il tema della libertà di coscienza esemplificato dal percorso interiore di Giorgio Perlasca che dall’adesione incondizionata al fascismo passa ad una riflessione critica su di esso e, quando si trova nelle circostanze narrate dal film, non esita ad aiutare e a salvare la vita a migliaia di ebrei a pericolo della sua stessa vita e in contraddizione alle leggi di quel regime che aveva appoggiato e per il quale era anche andato a combattere volontario in Spagna. Ad un certo punto del film Farkas, l’avvocato dell’ambasciata spagnola gli chiede com’era finito a combattere volontario in Spagna e Perlasca risponde: “Volevo combattere il comunismo; avevo letto che i comunisti bruciavano le chiese e sono partito. Io credo che la gente abbia il diritto di pregare come e dove vuole e quello che pensavo allora delle chiese lo penso adesso delle sinagoghe. Questa frase esemplifica bene entrambi i temi di cui qui stiamo parlando, il diritto di ognuno di professare la religione in cui crede, ma anche il diritto di ognuno ad operare secondo coscienza quando le idee in cui ha creduto o che ha professato lo pongono in contraddizione con se stesso causando una crisi di coscienza. SCHEDA FILM TITOLO: PERLASCA, UN EROE ITALAINO ANNO DI PRODUZIONE:2002 REGISTA:Alberto Negrin NAZIONE: Italia LINGUA: Italiano con sottotitoli inglesi. DURATA: 123 minuti. SCENEGGIATORI: Enrico Deaglio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli. Il film “Perlasca, un eroe italiano” è stato girato dal regista Alberto Negrin nel 2002 ed è una co-produzione di Rai fiction, France 2 e Focus Film. Il film narra la vicenda reale, portandola alla luce dall’oblio in cui era caduta, di Giorgio Perlasca, un italiano che si trovava a Budapest per conto di una ditta italiana che importava carne per l’esercito italiano nel 1944, quando i nazisti ungheresi prendono il potere con l’aiuto dei tedeschi, e, spacciandosi per il Console spagnolo, riesce a salvare 5200 ungherese di religione ebraica. La parte principale, quella di Perlasca, è interpretata magistralmente da Luca Zingaretti, uno dei più validi attori italiani dei nostri tempi, ma altri interpreti degni di nota sono Amanda Sandrelli nel ruolo di Madga Levi, un’ebrea ungherese, Franco Castellano, nel ruolo di Adam, un altro fuggiasco ebreo-ungherese, Giuliana Loiodice nel ruolo della segretaria dell’ambasciata spagnola Madame Tournè, Jerome Hanger nel ruolo dell’avvocato dell’ambasciata spagnola Farkas, Mathilda May nel ruolo della Contessa ungherese Eleonora e GyorgyCserhalmi nel ruolo del tenente nazista Bleiber. Il film, come abbiamo detto, è ambientato in Ungheria negli ultimi mesi della II Guerra Mondiale, quando le Croci Frecciate, i nazisti ungheresi, prendono il potere con un colpo di stato appoggiato dai tedeschi e iniziano la persecuzione e deportazione in Germania di migliaia di ebrei ungheresi. Perlasca, che si trovava a Budapest come impiegato di una ditta italiana di Trieste che importava carne per l’esercito italiano, non avendo aderito alla Repubblica Sociale Italiana, ma essendo rimasto fedele al re, è ricercato dalle Croci Frecciate e cerca di fuggire. Viene aiutato da una contessa ungherese, Eleonora, che lo indirizza alla clinica del dottor Balsh, un suo amico medico che sta cercando di salvare la vita ad alcuni ebrei; qui anche Perlasca trova rifugio e viene in contatto con un gruppo di ebrei ungheresi, fra cui Madga Levi e sua figlia Lili. Scoperto dalle Croci frecciate e costretto di nuovo alla fuga, Perlasca si ricorda di un documento rilasciatogli dal Generale Franco come segno di gratitudine per la sua partecipazione alla guerra civile spagnola in cui si afferma che in qualunque momento e in qualunque circostanza ne avesse avuto bisogno avrebbe potuto avvalersi dell’aiuto della Spagna. Recuperato il documento, assieme ad altre sue cose e ai soldi della ditta per cui lavorava, si reca all’Ambasciata spagnola dove otterrà la cittadinanza spagnola, un regolare passaporto e una lettera d’accredito con qualifica di funzionario dell’ambasciata spagnola. E’ a questo punto però che Perlasca chiede anche una sistemazione per Madga Levi e sua figlia Lili in una delle case protette dell’ambasciata spagnola che godevano dell’extraterritorialità e in cui avevano trovato rifugio alcuni ebrei ungheresi (di queste case protette ne esistevano altre di altre nazioni quali la Svezia, il Portogallo, la Svizzera e la Città del Vaticano). Da questo momento in poi, non riuscirà più a sottrarsi a quello che sente come suo compito, quello cioè di salvare la vita a quanti più ebrei possibile. Quando un’incursione delle Croci frecciate nella casa protetta dell’ambasciata spagnola requisirà gli ebrei che avevano trovato rifugio in essa per deportarli in Germania, non esiterà a corrompere l’ufficiale addetto a questa operazione usando i soldi che la ditta per cui lavorava gli aveva dato per comprare del bestiame, cosi come corromperà un altro ufficiale per strappare altri ebrei da una casa di tortura. Quando l’ambasciatore spagnolo lascia Budapest per riparare in Svizzera, dal momento che lasciare aperta l’ambasciata spagnola in Ungheria equivaleva a riconoscere di fatto il governo dei nazisti ungheresi, Perlasca non esita a fingersi Console spagnolo per proteggere gli ebrei delle case protette dalle incursioni delle Croci frecciate. In un incontro con il loro comandante,Vaina, riesce anche a strappare l’incolumità per tutti gli ebrei sefarditi (cioè di antica origine spagnola e a cui era stata concessa la cittadinanza spagnola con la legge Rivera del 1924 a risarcimento dell’esodo causato 400 anni prima dalla regina Isabella) presenti nelle case protette spagnole in cambio dell’accredito di un diplomatico ungherese in Spagna. Ottenuta questa concessione, lui e la segretaria dell’ambasciata spagnola si mettono a scrivere quante più lettere di protezione possibile per cercare di salvare più ebrei possibile. Anche quando Perlasca otterrà dall’ambasciatore spagnolo in Svizzera un lasciapassare per tornare in Italia, preferirà rimanere a Budapest nel tentativo di portare quanti più ebrei possibile con sé in Italia. A questo punto però la situazione precipita, poiché i Russi sono ormai alle porte di Budapest e la stanno bombardando pesantemente. La città è in preda all’anarchia. Alcuni potenti ungheresi cercano la salvezza scappando, alcune bande di nazisti scorazzano per la città compiendo le ultime atrocità nei confronti degli ebrei. Perlasca viene a conoscenza dell’intenzione del comandante Vaina di minare le case del ghetto, di incendiarle e di uccidere gli ebrei che riescono a scappare mitragliandoli all’uscita dal ghetto. Perlasca riuscirà a sventare questo piano criminale patteggiando la salvezza degli ebrei del ghetto in cambio dell’incolumità che lui promette a Vaina e alla sua famiglia una volta che i Russi saranno entrati a Budapest (gli promette un salvacondotto per lasciare l’Ungheria e riparare in Spagna). Quando i Russi infine entrano a Budapest per Perlasca, dopo aver salvato migliaia di ebrei, è di nuovo tempo di fuggire perché né come italiano né come spagnolo è ben visto dai vincitori. Come gli dice il maggiore ungherese Gluckmar in una delle sequenze finali del film:” cambiano i vincitori, ma lei rimane sempre dalla parte degli sconfitti”. Particolarmente commoventi sono le parole con cui si chiude il film, pronunciate da Lili Levi, una delle bambine da lui salvate: Fin dalla prima volta che lo vidi fare quello che faceva, ho pensato che lui fosse uno dei trentasei Giusti. E’ una storia della Bibbia che mio padre mi raccontava quando ero piccola; diceva che in qualunque momento della storia nel mondo ci sono trentasei Giusti ed è per loro che Dio non distrugge il mondo. Nessuno sa chi sono e nemmeno lo sanno loro stessi che però sanno riconoscere la sofferenza degli altri e se la prendono sulle spalle.” Finito il film, vengono riproposte le battute finali dell’intervista che Giovanni Minoli aveva fatto al reale Perlasca in uno programma a lui dedicato dopo che le sue gesta, rimaste ignote per decenni, erano venute alla luce: “Vorrei che i giovani si interessassero a questa storia unicamente per pensare oltre a quello che è successo, a quello che potrebbe succedere e sapersi opporre, eventualmente, a violenze di questo genere”. Il rifugio - Haven Regia di John Gray La vera storia di una donna, Ruth Gruber che attraversa l'Europa per scortare 1000 ebrei, vittime della guerra negli Stati Uniti dove si batterà per i loro diritti. Genere: Drammatico Regia: John Gray Attori: William L. Petersen, Bruce Greenwood, Colm Feore, Hal Holbrook, Natasha Richardson, Anne Bancroft, Henry Czemy, Martin Landau Colori: Colori Anno di produzione: 2001 Area: Area 2 (Europa/Giappone) Durata: 120' Nazione: Stati Uniti IN DARKNESS “In Darkness” racconta la storia vera di Leopold Socha, operaio del sistema fognario e ladruncolo a Lvov, nella Polonia occupata dai Nazisti. Dopo essersi imbattuto in un gruppo di ebrei nelle fogne della città, Socha accetta di nasconderli per denaro. Quello che inizia come un mero accordo “economico” prende, però, una piega inaspettata. Tutti dovranno trovare un modo per scampare alla morte nei 14 mesi vissuti in un continuo stato di allerta. Regia:Agnieszka Holland Sceneggiatura:David F. Shamoon Musiche: Antoni Komasa-Lazarkiewicz Fotografia: Jolanta Dylewska Montaggio: Michal Czarnecki Scenografia: Erwin Prib Costumi: Katarzyna Lewinska, Jagna Janicka Soggetto: Robert Marshall Durata: 145 min Data uscita in Italia: 24 gennaio 2013