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27 Gennaio 2013

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27 Gennaio 2013
27 Gennaio 2013
GIORNO DELLA MEMORIA
TESTI SULLA SHOA
PRIMO LEVI
Se questo è un uomo
“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.1)
Si può ottenere secondo lei l’annullamento dell’umanità dell’uomo?
Purtroppo si, purtroppo si. E direi che è proprio la caratteristica del lager nazista - degli altri
non so , perché non li conosco, forse in quelli russi avviene altrettanto - è di annullare la
personalità dell’uomo, all’interno e all’esterno, e non soltanto del prigioniero, ma anche del
custode del Lager perde la sua umanità; sono due itinerari divergenti, ma che portano allo
stesso risultato: Direi che è toccata a pochi la fortuna di conservarsi consapevoli durante la
prigionia; alcuni hanno riacquistato la consapevolezza di cosa era stata questa esperienza
dopo, ma durante l’avevano persa. Molti hanno dimenticato tutto, non hanno registrato le
loro esperienze mentalmente, non le hanno incise nel nastro della memoria, per così dire.
Quindi avveniva si, sostanzialmente in tutti una profonda modificazione delle personalità, con
una attenuazione della sensibilità, soprattutto, per cui della casa, le memorie della famiglia,
passavano in secondo piano di fronte al bisogno urgente , alla fame, al bisogno di difendersi
dal freddo, al difendersi dalle percosse, al resistere alla fatica. Tutto questo portava a delle
condizioni che si potevano chiamare animalesche, come quelle degli animali da lavoro. […]
( “La Stampa”, Torino, domenica 26 gennaio 2003, p. 19)
PAUL CELAN
FUGA DI MORTE
Nero latte dell'alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell'aria là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini
fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda ora suonate alla danza.
Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell'aria là non si giace stretti
Lui grida vangate più a fondo il terreno voi e voi cantate e suonate
impugna il ferro alla cintura e lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza
Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti
Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell'aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti
Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell'aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
I tuoi capelli d'oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith.
Bertolt Brecht
A coloro che verranno
Davvero, vivo in tempi bui!
La parola innocente è stolta Una fronte distesa
vuoi dire insensibilità. Chi ride,
la notizia atroce
non l’ha saputa ancora.
Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!
E l’uomo che ora traversa tranquillo la via
io mai più potranno raggiungerlo dunque gli amici
che sono nell’affanno.
E vero: ancora mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è appena un caso. Nulla
di quel che fo m’autorizza a sfamarmi.
Per caso mi risparmiano. (Basta che il vento giri,
sono perduto).
«Mangia e bevi! », mi dicono: «E sii contento di averne».
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d'acqua?
Eppure mangio e bevo.
Vorrei anche essere un saggio.
Nei libri antichi è scritta la saggezza:
lasciar le contese del mondo e il tempo breve
senza tèma trascorrere.
Spogliarsi di violenza,
render bene per male,
non soddisfare i desideri, anzi
dimenticarli, dicono, è saggezza.
Tutto questo io non posso:
davvero, vivo in tempi bui!
Nelle città venni al tempo del disordine,
quando la fame regnava.
Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte
e mi ribellai insieme a loro.
Così il tempo passò
che sulla terra m'era stato dato.
Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Feci all'amore senza badarci
e la natura la guardai con impazienza.
Così il tempo passò
che sulla terra m'era stato dato.
Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude6.
La parola mi tradiva al carnefice.
Poco era in mio potere. Ma i potenti
posavano più sicuri senza di me ; o lo speravo.
Così il tempo passò
che sulla terra m'era stato dato.
Le forze erano misere. La meta
era molto remota.
La si poteva scorgere chiaramente, seppure anche per me
quasi inattingibile.
Così il tempo passò
che sulla terra m'era stato dato.
Voi che sarete emersi dai gorghi
dove fummo travolti
pensate
quando parlate delle nostre debolezze
anche ai tempi bui
cui voi siete scampati.
Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando solo ingiustizia c'era, e nessuna rivolta.
Eppure lo sappiamo:
anche l'odio contro la bassezza
stravolge il viso.
Anche l'ira per l'ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.
Ma voi, quando sarà venuta l'ora
che all'uomo un aiuto sia l'uomo,
pensate a noi
con indulgenza.
ELSA MORANTE
C'era una SS che, per i suoi delitti orrendi, un giorno, sul far dell'alba, veniva portato al
patibolo. Gli restavano ancora una cinquantina di passi fino al punto dell'esecuzione, che aveva
luogo nello stesso cortile del carcere. E in questa traversata, l'occhio per caso gli si posò sul
muro sbrecciato del cortile, dove era spuntato uno di quei fiori seminati dal vento, che nascono
dove capita e si nutrono, sembrerebbe, d'aria e di calcinaccio. Era un fiorellino misero,
composto di quattro petali violacei e di un paio di pallide foglioline, ma in quella prima luce
nascente, la SS ci vide, con suo stupore, tutta la bellezza e la felicità dell'universo e pensò: "Se
potessi tornare indietro, e fermare il tempo, sarei pronto a passare l'intera mia vita
nell'adorazione di quel fiorelluccio". Allora, come sdoppiandosi, sentì dentro di sè la sua propria
voce, che gli gridava: "In verità ti dico, per questo ultimo pensiero che hai fatto sul punto di
morte, sarai salvo dall'inferno." Tutto ciò a raccontartelo mi ha preso un certo intervallo di
tempo, ma là ebbe la durata di mezzo secondo. Fra la SS che passava in mezzo alle guardie e
il fiore che si affacciava al muro, c'era tuttora, più o meno, la stessa distanza iniziale, appena
un passo: "No! - gridò tra sé e sé la SS, voltandosi indietro con furia - Non ci ricasco, no, in
certi trucchi! E siccome aveva le mani legate impedite, staccò quel fiorellino coi denti poi lo
buttò in terra, lo pestò sotto i piedi. E ci sputò sopra".
(Elsa Morante "La Storia" Einaudi, Torino 1974, pp604-605)
ELIE WIESEL
Mai potrei dimenticare quel silenzio notturno che mi privò, per tutta l’eternità, del desiderio di
vivere. Mai dimenticherò quei momenti che uccisero il mio Dio e la mia anima, e ridussero i miei
sogni in polvere.
( da LA NOTTE, Giuntina editore)
Durante un raid aereo. Vicino alla cucina erano stati lasciati due calderoni mezzi pieni di zuppa
fumante. Due pentoloni di zuppa, nel bel mezzo del sentiero, e nessuno a sorvegliarli!…
All’improvviso, vedemmo la porta della baracca 37 aprirsi impercettibilmente. Apparve un uomo
che strisciava come un verme in direzione dei pentoloni.
Centinaia d’occhi seguirono i suoi movimenti. Centinaia d’uomini strisciarono con lui, sbucciandosi
i ginocchi insieme ai suoi sulla ghiaia. Ciascun cuore batteva all’impazzata, ma d’invidia sopra a
tutto. Quest’uomo aveva osato.
Raggiunse il primo calderone. I cuori accelerarono: gliel’aveva fatta. La gelosia ci consumava, ci
bruciava come paglia.
Non pensammo nemmeno per un attimo di ammirarlo. Povero eroe, suicidarsi per una razione di
zuppa! Nei nostri pensieri, lo stavamo uccidendo.
Sdraiato accanto al pentolone, cercava ora di sollevarsi verso il brodo. Per debolezza o per paura, se
ne stette lì, cercando senza dubbio di chiamare a raccolta le ultime forze. Alla fine riuscì a sporgersi
sulla superficie della pentola. Per un attimo sembrò che si guardasse, cercando il suo riflesso
spettrale nella zuppa. Poi, apparentemente senza ragione mandò un grido terribile, un rantolo quale
mai avevo udito prima, e, a bocca aperta, spinse il capo verso il liquido fumante. L’esplosione ci
fece sobbalzare. Ricadendo all’indietro sul terreno, con viso macchiato dalla zuppa, l’uomo si
contorse per pochi secondi ai piedi del calderone, poi non si mosse più.
( da LA NOTTE, Giuntina editore)
Le tre vittime montarono insieme sugli sgabelli.
I tre colli furono infilati nei cappi allo stesso momento.
“Viva la libertà!” gridarono i due adulti.
Ma il ragazzo rimase in silenzio.
“Dov’è Dio? Dov’è?” chiese qualcuno dietro di me.
Ad un segno del comandante del campo, i tre sgabelli rotolarono…
Cominciò la marcia dinanzi alle forche. I due grandi non vivevano più. Le lingue cianotiche
penzolavano gonfie. Ma la terza corda si muoveva ancora; così leggero, il ragazzo era ancora
vivo…
Stette là per più di mezz’ora, lottando tra la vita e la morte, morendo d’una lenta agonia sotto i
nostri occhi. E lo dovemmo guardare bene in faccia. Era ancora vivo quando io passai. La lingua
ancora rossa, gli occhi non ancora vitrei. Dietro di me, udii lo stesso di prima domandare:
“Dov’è Dio adesso?”
E udii una voce dentro di me rispondergli:
“Dov’è? Eccolo lì – appeso a quella forca…”
Quella notte la zuppa sapeva di morto.
( da LA NOTTE, Giuntina editore)
Ghetto di Terezin
Il ghetto di Terezin durante la seconda guerra mondiale fu il maggiore campo di
concentramento sul territorio dello Cecoslovacchia. Fu costruito come campo di
passaggio per tutti gli ebrei del cosiddetto "Protettorato di Boemia e Moravia", istituito
dai nazisti dopo l'occupazione della Cecoslovacchia, prima che gli stessi venissero
deportati nei campi di sterminio nei territori orientali. Più tardi vi furono deportati
anche gli ebrei della Germania, Austria, Olanda e Danimarca. Nel periodo in cui durò il
ghetto - dal 24 novembre 1941 fino alla liberazione avvenuta l'8 maggio 1945 passarono per lo stesso 140.000 prigionieri. Proprio a Terezin perirono circa 35.000
detenuti. Degli 87.000 prigionieri deportati a Est, dopo la guerra fecero ritorno solo
3.097 persone.
Fra i prigionieri del ghetto di Terezin ci furono all'incirca 15.000 bambini, compresi i
neonati. Erano in prevalenza bambini degli ebrei cechi, deportati a Terezin insieme ai
genitori, in un flusso continuo di trasporti fin dagli inizi dell'esistenza del ghetto. La
maggior parte di essi morì nel corso nel 1944 nelle camere a gas di Auschwitz. Dopo la
guerra non ne ritornò nemmeno un centinaio e di questi nessuno aveva meno di
quattordici anni. I bambini sopportarono il destino del campo di concentramento
assieme agli altri prigionieri di Terezin.
Dapprima i ragazzi e le ragazze che avevano meno di dodici anni abitavano nei
baraccamenti assieme alle donne; i ragazzi più grandi erano con gli uomini. Tutti i
bambini soffrirono assieme agli altri le misere condizioni igieniche e abitative e la
fame. Soffrirono anche per il distacco dalle famiglie e per il fatto di non poter vivere e
divertirsi come bambini. Per un certo periodo i prigionieri adulti riuscirono ad alleviare
le condizioni di vita dei ragazzi facendo si che venissero concentrati nelle case per i
bambini.
La permanenza nel collettivo infantile alleviò un tantino, specialmente sotto l'aspetto
psichico, l'amara sorte dei piccoli prigionieri. Nelle case operarono educatori e
insegnanti prigionieri che riuscirono, nonostante le infinite difficoltà e nel quadro di
limitate possibilità, a organizzare per i bambini una vita giornaliera e perfino
l'insegnamento clandestino. Sotto la guida degli educatori i bambini frequentavano le
lezioni e partecipavano a molte iniziative culturali preparate dai detenuti. E non furono
solo ascoltatori: molti di essi divennero attivi partecipanti a questi avvenimenti,
fondarono circoli di recitazione e di canto, facevano teatro per i bambini. I bambini di
Terezin scrivevano soprattutto poesie. Una parte di questa eredità letteraria si è
conservata.
L'educazione figurativa veniva organizzata nelle case dei bambini secondo un piano
preciso. Le ore di disegno erano dirette dall'artista Friedl Dicker Brandejsovà. Il
complesso dei disegni che si è riusciti a salvare e che fanno parte delle collezioni del
Museo statale ebraico di Praga, comprende circa 4.000 disegni. I loro autori sono per la
gran parte bambini dai 10 ai 14 anni.
Utilizzavano i più vari tipi e formati della pessima carta di guerra , ciò che potevano
trovare, spesso utilizzando i formulari già stampati di Terezin, le carte assorbenti. Per il
lavoro figurativo i sussidi a disposizione non bastavano e i bambini dovevano
prestarseli a vicenda.
Sotto l'aspetto tematico i disegni si possono suddividere in due gruppi fondamentali: da
una parte di disegni a tematica infantile, in cui i piccoli autori tornavano alla loro
infanzia perduta. Disegnavano giocattoli, piatti pieni di cose da mangiare,
raffiguravano l'ambiente della casa perduta.
Disegnavano e dipingevano prati pieni di fiori e farfalle in fiore e farfalle in volo,
motivi di fiaba, giochi di bambini. La maggior parte della collezione comprende questo
tipo di disegni. Il secondo gruppo è formato da disegni con motivi del ghetto di
Terezin.
Raffigurano la cruda realtà in cui i bambini erano costretti a vivere. Qui incontriamo i
disegni delle caserme di Terezin, dei blocchi e delle strade, dei baraccamenti di Terezin
con i letti a tre piani, i guardiani. Ma i bambini disegnavano anche i malati, l'ospedale,
il trasporto, il funerale o un'esecuzione.
Nonostante tutto però i piccoli di Terezin credevano in un domani migliore. Espressero
questa loro speranza in alcuni disegni in cui hanno raffigurato il ritorno a casa. Sui
disegni c'è di solito la firma del bambino, talvolta la data di nascita e di deportazione a
Terezin e da Terezin. La data di deportazione da Terezin è anche in genere l'ultima
notizia del bambino. Questo è tutto quanto sappiamo sugli autori dei disegni, ex
prigionieri bambini del ghetto nazista di Terezin. La stragrande maggioranza dei
bambini di Terezin morì. Ma è rimasto conservato il loro lascito letterario e figurativo
che a noi parla delle sofferenze e delle speranze perdute.
Dr. Anita Frankovà Direttore del museo ebraico di Praga
ALCUNE POESIE DEI BAMBINI DI TEREZIN
Voi, nuvole grigio acciaio
Voi, nuvole grigio acciaio, dal vento frustate,
che correte verso mete sconosciute
Voi, portatevi il quadro dell’azzurro cielo
Voi, portatevi il cinereo fumo
Voi, portatevi della lotta il risso spettro
Voi, difendeteci! Voi, che siete fatte solo di gas.
Veleggiate per i mondi, semplicemente, spazzate dai venti
come l’eterno viandante aspettando la morte
voglio una volta così come voi – i metri misurare
di lontananze future e non tornare più
Voi, cineree nuvole sull’orizzonte
Voi, siate speranza e sempiterno simbolo
Voi, che con il temporale il sole coprite
Vi incalza il tempo! E dietro a voi è il giorno!
Vedem, Hanu_ Hachenburg (1929 morto nel 1944)
Sono Ebreo
Sono ebreo ed ebreo resto
anche se dalla fame morirò
così al popolo non recherò sconfitta
sempre per il mio popolo sul mio onore combatterò
Orgoglioso del mio popolo sono
che onore ha questo popolo
sempre sarò appresso
sempre di nuovo vivrò
Franta Bass
Nostalgia della casa
E’ più di un anno che vivo al ghetto,
nella nera città di Terezin,
e quando penso alla mia casa
so bene di che si tratta.
O mia piccola casa, mia casetta,
perché m’hanno strappato da te,
perché m’hanno portato nella desolazione,
nell’abisso di un nulla senza ritorno?
Oh, come vorrei tornare
a casa mia, fiore di primavera!
Quando vivevo tra le sue mura
io non sapevo quanto l’amavo!
Ora ricordo quei tempi d’oro:
presto ritornerò, ecco, già corro.
Per le strade girano i reclusi
e in ogni volto che incontri
tu vedi che cos’è questo ghetto,
la paura e la miseria.
Squallore e fame, queste è la vita
che noi viviamo quaggiù,
ma nessuno si deve avvedere:
la terra gira e i tempi cambieranno.
Che arrivi dunque quel giorno
in cui ci rivedremo, mia piccola casa!
Ma intanto prezioso mi sei
perché mi posso sognare di te.
1943 Anonimo
Lacrime
e dopo di loro la rassegnazione giunge,
lacrime
senza le quali la vita non è,
lacrime
ispirazione alla tristezza
lacrime che scendono senza tregua
Alena Synkovà
Una volta
Una volta una volta arriva
Una volta la consolazione appare
Una volta compare la speranza
Una volta terribilmente si sfoga
Una volta una brocca di lacrime scoppia
Una volta alla morte dice “Taci ormai”
Una volta arriva il giorno giusto
Una volta d’acqua sarà il vino
Una volta di piangere smettiamo
Una volta le ferite si rimarginano
Una volta Giuseppe, Dio questo
vincolo di schiavitù getta
Una volta anche Erode
muore impazzendo dal terrore
Una volta Davide pastore
di porpora si colorirà la tunica
colui che lo inseguiva
diventa storpio il vecchio Re Saul.
Una volta ha fine anche il dolore
della malinconica esistenza
una volta arriva il salvatore
per levare il giogo ai soggiogati
Una volta saremo se vuole il Signore
A Canaan portati
Una volta l’aloe fiorirà
Una volta la palma i frutti dà
Una volta tutto quello che è paura
Una volta passa la nostra povertà
Una volta entriamo nella tenda di Dio
Una volta, una volta per noi germoglierà.
Ivo Katz
Lettera a papà
Mammina ha detto, che oggi debbo scriverti
ma ho avuto tempo, nuovi bimbi sono arrivati
dagli ultimi trasporti e giocare volevo
non mi accorgevo come fugge l’istante.
Mi sono sistemato, dormo sul materasso
per terra, per non cadere.
Almeno non c’è bisogno di farsi il letto
ed al mattino dalla finestra vedo il cielo.
Ho un po’ tossito, ma non voglio ammalarmi
così sono felice quando corro in cortile.
Oggi da noi una veglia si terrà
proprio come in estate al campo degli scout.
Canteremo canzoni conosciute
la signorina suonerà la fisarmonica.
So che ti meravigli di come stiamo bene
e che sicuramente ti rallegreresti di stare qui con me.
Qualcos’altro, papà: vieni qui presto
e sia più lieto il tuo volto!
Quando sei triste, mammina allora si dispiace
e dei suoi occhi mi manca lo splendore.
E hai promesso di portarmi i libri
che veramente da leggere non ho nulla,
per favore vieni domani prima che sia buio
del mio grazie puoi essere sicuro.
Ormai debbo finire. Da parte della mamma ti saluto
con impazienza aspetto il suono dei tuoi passi
nel corridoio. Prima che di nuovo con noi sarai
ti saluta e ti bacia il tuo fedele ragazzo.
Hajn
E’ così
In quella che è chiamata la piazza di Terezin
è seduto un piccolo vecchio
come se fosse in un giardino.
Ha la barba e un berretto in testa.
Col suo ultimo dente
mastica un pezzo di pane duro.
Mio Dio, col suo ultimo dente:
invece d’una zuppa di lenticchie
povero superstite!
"Koleba": M. Kosck nato il 30.3.32 morto il 19.10.44 ad Auschwitz
H. Loewy nato il 29.6.31 morto il 4.10.44 ad Auschwitz
Bachner (dati anagrafici non accertati)
Tutti questi bei momenti
si son persi senza rimedio
la mia vita non ha una meta
e per cercarla non ho più le forze.
Ancora una volta soltanto
la tua testa nelle mie mani, prendere
poi chiudere gli occhi
e nelle tenebre andarsene in silenzio.
Anonimo
La farfalla
L’ultima, proprio l’ultima,
Così ricca, smagliante, splendidamente gialla.
Se le lacrime del sole potessero cantare contro una pietra bianca…
Quella, quella gialla
E' portata lievemente in alto.
Se ne è andata, ne sono certo, perché voleva dare un bacio d’addio al mondo.
Per sette settimane ho vissuto qui,
Rinchiuso dentro questo ghetto
Ma qui ho trovato la mia gente.
Mi chiamano le margherite
E le candele che splendono sull’abete bianco nel cortile.
Solo che io non ho visto mai un’altra farfalla.
Quella farfalla era l’ultima.
Le farfalle non vivono qui, nel ghetto.
Pavel Friedmann. 4-6-1942
Paura
Oggi il ghetto prova una paura diversa,
Stretta nella sua morsa, la Morte brandisce una falce di ghiaccio.
Un male malvagio sparge il terrore nella sua scia,
Le vittime della sua ombra piangono e si contorcono.
Oggi il battito di un cuore di padre narra del suo terrore
E le madri nascondono la testa tra le mani.
Adesso qui i bimbi rantolano e muoiono di tifo
Il loro sudario sconta un’amara tassa.
Il mio cuore batte ancora nel mio petto
Mentre gli amici partono per altri mondi.
Forse è meglio – chi può saperlo? –
Assistere a ciò oppure morire oggi?
No, no, mio Dio, voglio vivere!
Senza vedere dissolversi i nostri numeri.
Vogliamo avere un mondo migliore,
Vogliamo lavorare – non dobbiamo morire!
Eva Pichová, dodici anni, Nymburk
Il giardino
Un piccolo giardino,
Fragrante e pieno di rose.
Il viale è stretto,
Lo percorre un piccolo bambino.
Un piccolo bambino, un dolce bambino,
Come quel fiore che sboccia.
Quando il fiore arriverà a fiorire
Il piccolo bambino non ci sarà più.
Franta Bass
GIORGIO PERLASCA
Il racconto di Giorgio Perlasca è una storia vera, l’incredibile vicenda di un commerciante
padovano che, nell’inverno 1944, a Budapest riuscì a salvare dallo sterminio migliaia di ebrei,
spacciandosi per il console spagnolo.
Era un fascista entusiasta e aveva combattuto in Spagna come volontario per Franco. L’8
settembre 1943 lo trovò lontano da casa, ricercato dalle SS. Avrebbe potuto mettersi in salvo.
Dal suo Diario, emerge l’azione straordinaria di un uomo solo, aiutato da uno sparuto gruppo
di persone, che sforna documenti falsi, organizza e difende otto “case rifugio”, trova cibo,
strappa ragazzi dai “treni della morte” di Adolf Eichmann inganna nazisti tedeschi e
ungheresi.
30 dicembre, sabato
La notte scorsa è successo un fatto terribile. Hanno preso un gruppo di ebrei del ghetto e li hanno
trucidati in piazza Ferenc Liszt e in via Eötvös. Abbiamo prima udito le grida e le suppliche di
centinaia di persone, e poco dopo gli spari.
All’alba mi sono recato sul posto e ho visto che i morti erano per la maggior parte donne e bambini.
La mattina sono andato all’hotel Hungaria per incontrare il delegato della Croce Rossa
Internazionale, Weyermann. Improvvisamente mi si è avvicinato un ufficiale ungherese,
pregandomi di andare con lui in riva al Danubio. I miei carabinieri hanno tentato di mandarlo via,
temendo un attentato. Poi si sono limitati a rimanermi vicino, ma con i mitra puntati sull’ufficiale.
Tutta la riva del fiume era ricoperta da neve, ma davanti ai caffè Hungaria e Negresco il colore era
diventato rosso sangue. Nel fiume si vedevano i corpi nudi di centinaia di morti, che l’acqua non
aveva potuto trascinare con sé a causa della presenza di blocchi di ghiaccio. Queste persone erano
state ammazzate durante la notte e poi gettate in acqua.
Ho detto all’ufficiale che avevo visto qualcosa di simile vicino al ponte Margherita e gli ho chiesto
perché mi avesse invitato qui. Il suo scopo era quello di convincere gli stranieri che l’esercito era
estraneo a questi fatti. E’ vero, gli ho risposto, ma l’esercito serve per far rispettare la legge e
tutelare i diritti dei cittadini, non per assistere a simili atrocità. Mi hanno raccontato che le vittime
erano state costrette a camminare per circa due chilometri, in fila per due, con le mani legate, a
piedi scalzi e completamente svestite. Le avevano poi fatte inginocchiare sulla riva del fiume e
avevano sparato loro alla nuca.
L’ufficiale mi ha consegnato una donna che si era salvata per essere caduta in acqua prima degli
spari. L’avevano slegata e la stavano frizionando con della canfora. L’ho portata con me
all’ambasciata.
Da: Enrico Deaglio, LA BANALITA’ DEL BENE Storia di Giorgio Perlasca,
Tempo ritrovato, Feltrinelli
76603
Il mio numero era 76603. Mentre agli ebrei glielo tatuavano sul braccio a noi politici davano il
numero inciso su un bracciale; pagando una minestra, te lo incidevano su un bracciale di cuoio
anziché di ferro.
(tratto da "C'era una volta la guerra" a cura di Sonia Brunetti e Fabio Levi. Silvio Zamorani
editore, Torino 2002.)
Rudolf Höss
(…) A Sachsenhausen vi erano parecchie personalità, e anche alcuni prigionieri speciali. Erano
indicati come “personalità” quei prigionieri che avevano sostenuto a suo tempo un certo ruolo nella
vita pubblica. Erano considerati per lo più prigionieri politici, e nel campo erano messi insieme ad
altri del loro tipo, senza particolari privilegi (…).
Desidero parlare ora più diffusamente di un prigioniero speciale, perché il suo comportamento in
prigionia fu del tutto peculiare, e io ebbi modo di osservarlo in ogni circostanza. Era il pastore
evangelico Martin Niemoeller. Durante la guerra era stato un famoso comandante di marina; dopo
la guerra divenne pastore. La Chiesa evangelica tedesca era suddivisa in numerosi gruppi, tra i quali
rivestiva particolare importanza la Bekenntniskirche, guidata da Niemöller. Il Führer, volendo
riunificate e raccogliere tutti i diversi tronconi, nominò un vescovo evangelico di Stato, ma molti
dei gruppi evangelici non lo riconobbero e lo osteggiarono violentemente, e tra essi anche
Niemöller. La sua congregazione era a Dahlem, un sobborgo di Berlino; qui si radunava tutta
l’opposizione reazionaria evangelica di Berlino e di Potsdam, tutta la vecchia aristocrazia imperiale
e tutti gli scontenti del regime nazionalsocialista. Ad essi Niemöller predicava la resistenza, e fu
questa appunto la causa del suo arresto. Venne condotto nel cellulare di Sachsenhausen, dove
godette di tutti i privilegi possibili. Poteva scrivere alla moglie a suo piacere, e la moglie fargli
visita ogni mese e portargli tutto ciò che desiderava quanto a libri, tabacco e viveri. Se lo
desiderava, poteva passeggiare nel cortile del cellulare, e la sua cella non era sfornita di comodità.
Insomma, gli fu concesso quanto era possibile. Il comandante era tenuto ad occuparsi di lui di
frequente e ad informarsi dei suoi desideri.
Era interesse personale del Führer riuscire a ottenere da Niemöller che rinunziasse alla sua
resistenza; personalità di primo piano si recarono a Sachsenhausen per convincerlo, perfino il suo
vecchio superiore e seguace della sua Chiesa, l’ammiraglio Lans, ma tutto fu vano. Niemöller non si
scostò d’un filo dal suo punto di vista, che cioè nessuno Stato ha il diritto di emanare leggi sulla
Chiesa, tanto meno, poi, leggi che la riguardino da vicino, poiché ciò è una faccenda di mera
pertinenza delle congregazioni ecclesiastiche. La Bekenntniskirche continuò così a prosperare e
Niemöller divenne ufficialmente il suo martire (…).
(…) Quando nel 1941, per ordine di Himmler tutti i religiosi dovettero essere trasferiti a Dachau,
anch’egli subì la stessa sorte (…).
(…) Himmler esigeva l’adempimento del dovere, l’impegno dell’intera personalità, fino al
sacrificio di sé. Ciascuno in Germania doveva impegnarsi fino in fondo perché potessimo vincere la
guerra. Per sua volontà, i campi di concentramento erano diventati vere fabbriche belliche, e a
questa attività si doveva subordinare ogni cosa, di fronte ad essa dovevano cadere tutte le
considerazioni di qualsiasi genere.
Era sintomatica, a questo riguardo, la sua assoluta e consapevole indifferenza verso le condizioni
generali dei campi, divenute ormai intollerabili. Lo sforzo bellico era la prima cosa:tutto ciò che
intralciava la strada doveva essere eliminato.non mi era lecito pensare diversamente; dovevo farmi
sempre più duro, più freddo, più inesorabile verso le sofferenze dei prigionieri. Vedevo ogni cosa
molto chiaramente, spesso anche troppo, ma non potevo lasciarmi vincere, non potevo permettere
che i miei sentimenti mi arrestassero. Ogni altra cosa era superflua di fronte allo scopo finale: la
vittoria in guerra. Così, a quel tempo, io vedevo il mio compito. Non potevo andare al fronte:
dunque, dovevo fare in patria il massimo sforzo per sostenere il fronte. Oggi mi accorgo che
nonostante i miei frenetici sforzi per lavorare e far lavorare, non potevamo comunque vincere la
guerra; ma a quel tempo credevo con assoluta convinzione nella vittoria finale, e ritenevo di dover
lavorare per questo fine, senza trascurare la minima cosa.
Per volontà di Himmler, Auschwitz divenne il più grande centro di sterminio di tutti i tempi.
Allorché, nell’estate del1941, mi comunicò personalmente l’ordine di allestire ad Auschwitz un
luogo che servisse allo sterminio in massa, e di realizzare io stesso tale operazione, non fui in grado
di immaginare minimamente la portata e gli effetti. In effetti, era un ordine straordinario e
mostruoso, ma le ragioni che mi fornì mi fecero apparire giusto questo processo di annientamento.
A quel tempo non riflettevo: avevo ricevuto un ordine ed era mio dovere eseguirlo. Non potevo
permettermi di giudicare se questo sterminio in massa degli ebrei fosse o no necessario, la mia
mente non arrivava tanto in là. Se il Führer in persona aveva ordinato la “soluzione finale della
questione ebraica”, un vecchio nazionalsocialista, e tanto più un ufficiale delle SS, non poteva
neppure pensare di entrare nel merito. “Il Führer comanda, noi obbediamo”, non era certo una frase
né uno slogan, per noi. Era un concetto preso terribilmente sul serio.
Dal momento del mio arresto, mi è stato detto ripetutamente che avrei potuto benissimo rifiutare di
eseguire questi ordini, che avrei potuto perfino assassinare Himmler. Non credo che, tra le migliaia
di ufficiali delle SS, ve ne fosse anche solo uno capace di formulare un simile pensiero.
Semplicemente, non sarebbe stato possibile.
Nel luglio del 1942, Himmler venne a visitare il campo. Gli feci percorrere in lungo e in largo il
campo degli zingari, ed egli esaminò attentamente ogni cosa: le baracche d'abitazione sovraffollate,
i malati colpiti da epidemie, vide i bambini colpiti dall'epidemia infantile Noma, che non potevo
mai guardare senza orrore e che mi ricordavano i lebbrosi che avevo visto a suo tempo in
Palesatine: i loro piccoli corpi erano consunti, e nella pelle delle guance grossi buchi permettevano
addirittura di guardare da parte a parte; vivi ancora, imputridivano lentamente.
Rudolf Höss ricorda und dialogo con Eichmann sulla gestione della soluzione finale
Quindi passammo a discutere le modalità per attuare il piano di sterminio. Il mezzo non poteva
essere che il gas, perché sarebbe stato senz’altro impossibile eliminare le masse di individui in
arrivo con le fucilazioni; e, oltretutto, sarebbe stata una fatica troppo pesante per i militi delle SS
incaricati di eseguirle.
( Tratto da: Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss
1960 Giulio Einaudi editore)
Martin Niemoeller
" Prima vennero per gli ebrei
e io non dissi nulla perché
non ero ebreo.
Poi vennero per i comunisti
e io non dissi nulla perché
non ero comunista.
Poi vennero per i sindacalisti
e io non dissi nulla perché
non ero sindacalista.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno
che potesse dire qualcosa."
ANNAH ARENDT
LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO
Il totalitarismo é un fenomeno " essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione
politica come il dispotismo, la tirannide e la dittatura. Dovunque é giunto al potere, esso ha creato
istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese.
A prescindere dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato
le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico ma con un
movimento di massa, trasferito il centro del potere dall'esercito alla polizia e perseguito una politica
estera apertamente diretta al dominio del mondo ".
"Estraniazione, che é il terreno comune del terrore, l'essenza del regime totalitario e, per l'ideologia,
la preparazione degli esecutori e delle vittime, é strettamente connessa allo sradicamento e alla
superfluità che dopo essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall'inizio della rivoluzione
industriale, si sono aggravati col sorgere dell'imperialismo alla fine del secolo scorso e con lo
sfascio delle istituzioni politiche e delle tradizioni sociali nella nostra epoca. Essere sradicati
significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non
appartenere al mondo " .
"Quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario é estraniazione che da
esperienza al limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, é
diventata un'esperienza quotidiana delle masse crescenti nel nostro secolo. L'inesorabile processo in
cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare come un'evasione suicida da questa
realtà "
“Il tentativo di rendere superflui gli uomini riflette l’esperienza delle masse moderne, costrette a
constatare la loro superfluità su una terra sovrappopolata. La società dei morenti – in cui la
punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un
profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto – è un luogo dove quotidianamente si crea
l’insensatezza. Eppure nel contesto dell’ideologia totalitaria, nulla potrebbe essere più sensato e
logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei
degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se hanno un’”anima da
schiavi”, non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Visti attraverso le lenti
dell’ideologia, i campi hanno quasi il difetto di aver troppo senso, di attuare la dottrina con troppa
coerenza”
”L'ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell'esistenza umana
né al riassetto rivoluzionario dell'ordinamento sociale, bensí alla trasformazione della natura umana
che, così com'è, si oppone al processo totalitario. I Lager sono i laboratori dove si sperimenta tale
trasformazione, e la loro infamia riguarda tutti gli uomini, non soltanto gli internati e i guardiani.
Non è in gioco la sofferenza, di cui ce n'è stata sempre troppa sulla terra, né il numero delle vittime.
È in gioco la natura umana in quanto tale; e anche se gli esperimenti compiuti, lungi dal cambiare
l'uomo, sono riusciti soltanto a distruggerlo, non si devono dimenticare le limitazioni di tali
esperimenti, che richiederebbero il controllo dell'intero globo terrestre per produrre risultati
conclusivi.”
"La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto coi loro simili e
con la realtà che li circonda; perché insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di
esperienza e di pensiero. Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il
comunista convinto, ma l'individuo per il quale la distinzione tra realtà e pensiero, fra vero e falso,
non esiste più"
"I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la
verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull'uomo".
“I lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l’orrendo
esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come
espressione del comportamento umano e di trasformare l’uomo in oggetto, in qualcosa che neppure
gli animali sono; perché il cane di Pavlov che, com’è noto, era ammaestrato a mangiare, non
quando aveva fame, ma quando suonava una campana, era un animale pervertito”
"La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme"
Nel libro "La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme" la Arendt raccoglie gli articoli che
aveva pubblicato sul giornale statunitense New Yorker, quando assistette, nel 1961, al processo di
Eichmann. Questi era stato un tedesco che, dopo aver aderito al nazionalsocialismo, aveva diretto la
sezione B della GESTAPO, IV ufficio del RSHA (servizio principale per la sicurezza del Reich),
che si occupava dei problemi ebraici. Eichmann organizzava quindi i treni che conducevano gli
ebrei ai campi di sterminio. Cercando di capire l'uomo che aveva di fronte e i suoi comportamenti,
la Arendt cambia la posizione sul male radicale che aveva espresso nel libro "le origini del
totalitarismo". Di fronte alla superficialità di Eichmann, né malvagio né stupido, l'autrice elabora
l'idea del male come mancanza di pensiero: il male non è più qualcosa di eccezionale ma fa parte di
noi e delle persone che ci sono vicine. Di fronte al giudice che lo accusava dello sterminio degli
ebrei, Eichmann sostenne che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini. Ad Eichmann mancò
quello che lei chiama "lo spazio pubblico", cioè lo spazio per giudicare quello che avviene. Tutta
la vita di Eichmann è un esempio di impossibilità di esprimere un giudizio. È la singolarità che
permette che permette che vi sia uno spazio pubblico ed egli non la ha mai raggiunta. Ed infatti la
sua è una esistenza impostata nell'obbedienza agli ingranaggi burocratici di potere, qualsiasi essi
siano. Dunque il suo non è un vero agire, ma una ripetizione degli ordini ricevuti. La sua incapacità
di arrivare alla singolarità si manifesta anche nel linguaggio adoperato, burocratico, intessuto di
luoghi comuni, con frasi fatte. Sono queste le radici del male, un male molto quotidiano. Le frasi
fatte sono modi di sottrarsi alla realtà. Il male è l'assenza, il rifiuto del pensiero. Pensare è infatti
dialogare con se stessi, cioè di porsi di fronte alla scelta fra il giusto e l'ingiusto.
"Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato che con il passare dei mesi
e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e
qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge."
"Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini che si erano trasformati in assassini, era
semplicemente l'idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo ("un
compito grande, che si presenta una volta ogni duemila anni") e perciò gravoso. Questo era molto
importante perché essi non erano sadici o assassini per natura; anzi, i nazisti si sforzarono sempre,
sistematicamente, di mettere in disparte tutti coloro che provavano un godimento fisico
nell'uccidere. (.). Perciò il problema era quello di soffocare non tanto la voce della loro coscienza,
quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica
degli altri. Il trucco usato da Himmler ( che a quanto pare era lui stesso vittima di queste reazioni
istintive) era molto semplice e molto efficace: consisteva nel deviare questi istinti , per così dire,
verso l'io. E così, invece di pensare: che cose orribili faccio al prossimo!, gli assassini pensavano:
che orribili cose devo vedere nell'adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle
mie spalle!"
"Il meccanismo dello sterminio era stato progettato e studiato in tutti i particolari.(.) All'inizio,
quando la gente poteva ancora avere una coscienza, le defezioni negli alti gradi e soprattutto tra gli
ufficiali superiori delle SS furono molto rare; cominciarono ad avere un peso soltanto quando ormai
era chiaro che la Germania avrebbe perso la guerra.Ma anche allora non assunsero mai proporzioni
tali da pregiudicare il funzionamento del meccanismo; furono atti individuali, dettati non dal
rimorso ma dalla corruzione, ispirati non dalla pietà ma dal desiderio di salvare un po' di denaro o di
crearsi un alibi per l'oscuro avvenire."
“Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né
perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali.
“Non era stupido, era semplicemente senza idee[...]. Quella lontananza dalla realtà e quella
mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono
innati nell'uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una spiegazione del
fenomeno, né una teoria.”
“E' anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non
possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e
devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E' una sfida al
pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle
cose, e nel momento che s'interessa al male viene frustrato, perché non c'è nulla. Questa è la
banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale.”
I volantini della "Rosa Bianca"
Il primo volantino
Non c’è nulla di più indegno per una nazione civilizzata che lasciarsi “governare” senza alcuna
opposizione da una cricca di irresponsabili dominati dai propri istinti. Certamente ogni onesto
tedesco oggi si vergogna del suo governo.
Chi tra di noi riesce a concepire le dimensioni dell’infamia che un giorno cadrà su di noi e sui
nostri figli quando dai nostri occhi cadrà il velo e il più orribile dei crimini - crimini che
infinitamente hanno superato ogni umana misura - sarà dinanzi a tutti alla luce del sole?
Se il popolo tedesco è già così corrotto e così spiritualmente distrutto da non saper alzare una
mano, se avventatamente si trova immerso nella fede sconsiderata che nutre verso la storia
come ordine legittimante, se ha rinunciato alla propria libera volontà che è principio supremo
dell’uomo e che lo eleva al disopra delle altre creature di Dio, se ha abbandonato la volontà di
compiere l’azione decisiva e di girare la ruota della storia assoggettandola alla propria
razionale volontà, se ha rinunciato alla propria individualità e ha percorso la strada che lo
conduce ad essere ormai una massa vile e priva di spirito, allora sì il popolo tedesco merita la
propria rovina.
Goethe parla dei tedeschi come di un popolo tragico, come gli ebrei ed i greci, ma oggi questo
sembra piuttosto un popolo privo di spina dorsale, gregge ubbidiente di parassiti, che ora
succhiato sino al midollo, privato del suo centro di stabilità sta attendendo di essere condotto
alla sua distruzione. Così sembra ma così non è.
Attraverso un graduale, ingannatore e sistematico abuso il sistema ha rinchiuso ogni uomo in
una prigione spirituale. Soltanto ora ha scoperto di essere stato ridotto in catene ed è
diventato cosciente del suo destino. Soltanto pochi hanno riconoscito l’incombente minaccia
della rovina ed il premio per il loro eroico allarme è stata la morte. Avremmo molto da dire sul
destino di queste persone.
Se ognuno aspetterà che sia l’altro uomo ad iniziare la lotta i messaggeri della Nemesi
vendicatrice si avvicineranno e allora l’ultima vittima sarà stata gettata inutilmente nelle fauci
del demone insaziabile. Per questo ogni singolo individuo cosciente della propria responsabilità
come membro della civiltà cristiana e occidentale, deve difendersi con tutte le sue forze sino
all’ultimo, deve lottare contro il flagello dell’umanità, contro il fascismo e contro ogni simile
sistema totalitario.
Resistete, opponete la resistenza passiva ovunque voi siate, impedite il funzionamento di
questa ateistica macchina da guerra prima che sia troppo tardi, prima che le altre città come
Colonia siano ridotte ad un cumulo di macerie, prima l’ultimo giovane della nazione versi il
proprio sangue su qualche campo di battaglia per l’orgoglio folle di un subumano (1).
Non dimenticate che ciascun popolo merita il regime che accetta di sopportare.
Da La legislazione di Licurgo e Solone di Friedrich Schiller
«La legislazione di Licurgo è un modello di politica e psicologia in relazione al fine che si
propone. Egli voleva uno stato potente, fondato su se stesso ed indistruttibile; forza politica e
durata erano gli obiettivi a cui egli mirava, e questo fine lo ha raggiunto nel grado che era
possibile nelle sue condizioni.
Ma quando si raffronti lo scopo che si proponeva Licurgo, agli scopi dell'umanità, una profonda
disapprovazione deve subentrare all' ammirazione che ci ha avvinti ad un primo superficiale
sguardo. Ogni cosa deve essere sacrificata al bene dello stato non è mai in se stesso un fine,
ma esso è importante solo come una condizione attraverso la quale può essere raggiunto il fine
dell'umanità non è altro che l'espressione di tutte le risorse dell'uomo, il progresso.
Se un ordinamento statale ostacola lo sviluppo di tutte quelle risorse che si trovano nell'uomo,
se esso impedisce lo sviluppo dello spirito, esso è deprecabile e dannoso, per quanto possa
essere elaborato e perfezionato nella sua forma. a sua stessa durata diventa più un motivo di
rimprovero che di successo; esso è solo un prolungamento del danno; infatti più dura nel
tempo, più danni comporta.
...Il merito politico e l' attitudine alla politica vennero sviluppati a scapito di tutti i sentimenti
morali. A Sparta non esisteva né l'amore coniugale, né l'amore materno, né l'amore filiale, né
l'amicizia. Esistevano soltanto dei cittadini e delle virtù civiche.
...Una legge di stato imponeva agli spartani di essere disumani verso i loro schiavi; in queste
infelici vittime delle guerre veniva insultata e maltrattata l'umanità. Nello stesso codice
giuridico spartano veniva insegnato il principio pericoloso di considerare gli uomini come mezzo
e non come fine. In tal modo i fondamenti dei diritti essenziali della legge naturale e della
morale venivano legalmente infranti.
...Quanto più bello fu l'esempio dato dal rude guerriero Caio Marcio nel suo accampamento
davanti a Roma, allorquando sacrificò la vendetta e la vittoria perché egli non poteva vedere
scorrere le lacrime della madre!
...Lo stato [di Licurgo] poteva sopravvivere ad una sola condizione: che lo spirito del popolo si
fosse estinto. Avrebbe potuto quindi durare solo se esso avesse mancato al più alto e unico
scopo dello stato».
Da Il risveglio di Epimenide di Goethe - Atto secondo, scena quarta
I Geni
Quello che audacemente è uscito fuori dall'abisso,
può per un ferreo destino
soggiogare metà della sfera terrestre,
ma nondimeno nell'abisso deve tornare.
Già minaccia un terribile timore:
egli invano cercherà di resistere!
E tutti coloro che a lui sono legati
dovranno perire con lui.
La speranza
Ora incontro i miei valorosi,
che si radunano nella notte,
per tacere, non per dormire;
e la bella parola "Libertà"
viene bisbigliata e sussurrata,
fino a che con insolita novità
sui gradini dei nostri templi
grideremo ancora con nuovo entusiasmo:
"Libertà! Libertà!".
Per favore fai più copie puoi di questo volantino e distribuiscilo.
Junge T., “Fino all’ultima ora”
Non possiamo correggere a posteriori la nostra biografia
Due anni fa ho conosciuto Melissa Miiller. Venne a trovarmi per fare a me, testimone di un’epoca,
qualche domanda su Adolf Hitler e sulle sue preferenze in campo artistico.
Fu la prima di molte conversazioni che avevano per tema la mia vita e l’effetto che, nel lungo
periodo, l’incontro con Hitler aveva avuto su di me. Melissa appartiene alla seconda generazione
del dopoguerra, il suo sguardo è segnato dalla conoscenza dei crimini del Terzo Reich, ma non fa
parte di quella categoria di persone che, col senno di poi, pretende di sapere tutto. Non crede che sia
così semplice. Ascolta ciò che abbiamo da raccontare noi, testimoni storici, un tempo ammaliati dal
Fuhrer, e tenta di indagare sulle origini di quanto è accaduto.
«Non possiamo correggere a posteriori la nostra biografia, siamo costretti a conviverci.
Possiamo però correggere noi stessi.» Questa citazione di Reiner Kunze, tratta da “Am Sonnenhang.
Tagebuch eines Jahres” (Sul pendio assolato. Diario di un anno), è diventata un principio
importante della mia vita. Continua così: «Solo non ci si aspetti sempre la pubblica umiliazione.
Esiste una vergogna silenziosa che è più eloquente di qualsiasi discorso, e talvolta più sincera.»
Alla fine, comunque, Melissa mi ha convinto a concedere l’autorizzazione a pubblicare il mio
manoscritto. Se sono riuscita a far capire a lei quanto sia stato facile cedere al fascino di Hitler e
quanto sia difficile vivere con la consapevolezza di aver servito l’autore di uno sterminio, ho
pensato, dovrebbe essere possibile renderlo comprensibile anche ai lettori. O almeno questa è la mia
speranza.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 5
La macchina da discorsi
Tutto lo stato maggiore doveva trasferirsi a Berchtesgaden, ossia nell’Obersalzberg, dove Hitler
desiderava trascorrere un periodo di riposo al suo Berghof e al tempo stesso ricevere alcune visite
ufficiali.
Così, negli ultimi giorni di marzo dell’anno 1943, assistei alla partenza e al trasferimento di un
gigantesco apparato. Era previsto un soggiorno di diverse settimane e fu sorprendente vedere i
preparativi svolgersi tranquillamente e senza difficoltà in un arco di tempo brevissimo.
Noi segretarie preparammo le valigie con i nostri effetti personali, ma dovevamo anche portare il
nostro ufficio da viaggio. Al Fuhrer poteva benissimo venire in mente di scrivere qualcosa lungo il
percorso e dunque ciò doveva essere possibile anche in treno. Impacchettammo pertanto nelle
apposite casse due macchine da scrivere Silenta, due con le maiuscole e una macchina da discorsi
(una macchina con caratteri da circa un centimetro per leggere meglio il dattiloscritto di un
discorso), perché al Berghof non ce n’erano. Un grosso baule conteneva la carta da lettere
occorrente e altro materiale da ufficio disposto in molti cassettini e scomparti.
Dovevamo fare attenzione a impacchettare tutti i tipi di carta da lettere, perché potevamo essere
certe che sarebbero serviti proprio quelli che avessimo dimenticato. C’erano, per esempio, i fogli
che Hitler usava per tutta la corrispondenza personale in qualità di capo di stato. Fogli bianchi con
l’emblema della nazione (l’aquila con la croce uncinata) nell’angolo in alto a sinistra e sotto
stampato in oro «Der Fuhrer». Per tutte le lettere di carattere privato, invece, si serviva di fogli
molto simili, con la differenza che sotto l’emblema della nazione spiccava il nome «Adolf Hitler» in
lettere maiuscole. Per ogni evenienza, dovevamo portare anche i fogli per gli affari di partito, con
l’impressione in rilievo, nonché alcuni fogli per la corrispondenza militare con la normale stampa in
nero.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 57
Fumare fa male
Il professor Blaschke, un signore sulla sessantina, era il tipo dello studioso. Aveva le tempie
ingrigite, mentre le folte sopracciglia e i baffi curati segnavano il suo volto pallido e sottile come
delle travi scure. Era un uomo di natura introversa e taciturna. Nelle ore passate davanti al camino,
tuttavia, di quando in quando veniva coinvolto da Hitler in una conversazione ed era uno dei pochi a
difendere con determinazione il proprio punto di vista, sebbene il suo parere fosse opposto a quello
del Fuhrer. Il professor Blaschke era anch’egli vegetariano, ma per un altro motivo. Sosteneva che
la dentatura umana fosse fatta per gli alimenti vegetali e che tale nutrimento fosse il più digeribile.
A questo proposito, dunque, concordava pienamente con Hitler, anche se spesso «danneggiava» il
proprio corpo con cibi a base di carne e non riteneva che il pollame rientrasse nella categoria
«carne». Ma quando Hitler pretese che il professor Blaschke gli confermasse che il fumo era uno
dei vizi più dannosi e che produceva effetti negativi soprattutto sui denti, incontrò un’opposizione
molto decisa. Blaschke era egli stesso un fumatore accanito e, forse per questo, più tollerante di
quanto non avrebbe dovuto essere sotto il profilo medico. Riteneva che il fumo fosse addirittura
benefico, in quanto disinfettava il cavo orale e stimolava l’irrorazione sanguigna, e che, in
condizioni normali, non fosse affatto nocivo. Hitler, però, non gli dava ascolto: «Il fumo è e rimane
una delle passioni più pericolose; al di là del fatto che personalmente trovo disgustoso l’odore del
fumo di sigaro e di sigaretta, non offrirei mai una sigaretta o un sigaro a una persona che stimo o
amo, perché gli renderei un cattivo servizio. È stato inequivocabilmente dimostrato che i non
fumatori vivono più a lungo dei fumatori e che sono molto più resistenti alle malattie».
Gretl Braun dichiarò di non volere affatto invecchiare se non poteva fumare, la vita non sarebbe
stata bella neanche la metà e in ogni caso lei era sana anche se fumava da anni. «Sì, Gretl, ma se
non fumasse, sarebbe ancora più sana, e vedrà che quando si sposerà non avrà bambini. E poi,
l’odore del tabacco non dona proprio alle signore. Una volta ero a Vienna al ricevimento di un
artista. Accanto a me sedeva Maria Holst (un’attrice viennese), davvero una bellissima donna.
Aveva dei magnifici capelli castani, ma quando mi chinai verso di lei, dalla sua chioma mi
arrivarono zaffate di nicotina. Le dissi: ma perché lo fa, dovrebbe cercare di mantenere la sua
bellezza e non fumare». Quando poi Hitler affermò che l’alcool era meno dannoso della nicotina,
suscitò l’opposizione compatta di tutti i fumatori, e non erano pochi nel suo entourage. Io dissi:
«Mio Fuhrer, l’alcool distrugge matrimoni, provoca incidenti e crimini. La nicotina, invece, al
massimo danneggia un poco la salute di chi fuma». Lui, tuttavia, non si lasciò convincere dalle
nostre argomentazioni e stabilì che nei pacchi di Natale distribuiti a suo nome ai soldati della
Leibstandarte fossero messi cioccolata e acquavite, ma non sigarette. Tentammo di spiegargli che
probabilmente, alla prima occasione, i soldati avrebbero scambiato la loro cioccolata con del
tabacco: fu tutto inutile. Himmler provvide poi personalmente a distribuire pacchetti di tabacco alle
truppe, altrimenti l’efficienza bellica delle SS ne avrebbe sofferto di sicuro.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 91
Hoffmann il buon compagno di lotta mai sobrio
Hoffmann, il buon compagno di lotta, anche nei suoi momenti migliori non aveva mai disdegnato
un goccetto; Hitler stesso, infatti, narrò alcuni aneddoti che provavano che Hoffmann non era mai
stato astemio.
Dall’inizio della guerra Hoffmann aveva avuto poche occasioni di incontrare il Fuhrer. Al quartier
generale non aveva motivo di recarsi, il Berghof, dunque, era la loro unica occasione d’incontro.
All’inizio il Fùhrer era sempre contento di rivedere, dopo lunghi mesi, il suo fedele sostenitore, ma
in poco tempo questi riusciva a irritarlo. «Hoffmann, il suo naso sembra una zucca andata a male;
credo che se si mettesse un fiammifero davanti al suo respiro, lei esploderebbe. Presto nelle sue
vene scorrerà vino rosso al posto del sangue» gli disse il giorno in cui si presentò a tavola senza
poter nascondere nemmeno al Fuhrer di avere alzato un po’ troppo il gomito, cosa che almeno,
prima, non aveva mai fatto. Era sempre apparso sobrio davanti a Hitler, che rimase impressionato e
sconvolto nel vedere il suo vecchio amico e confidente lasciarsi andare così.
Alla fine Hitler ordinò ai suoi aiutanti Schaub e Bormann: «Vi prego di provvedere che il professor
Hoffmann si presenti sobrio da me. L’ho invitato per conversare con
lui e non perché si desse alle sbronze». Da allora il buon Hoffmann ebbe qualche difficoltà a trovare
qualcuno che bevesse in sua compagnia. Improvvisamente, nessuno nell’entourage di Hitler aveva
la possibilità di procurargli una fiaschetta, né di tenergli compagnia con il vino. Più tardi, si portò
egli stesso l’occorrente, irritando Hitler a tal punto che non venne quasi più invitato.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 101
Un silenzio imbarazzante circa le persecuzioni degli ebrei
Di sera, davanti al camino, con Hitler si parlò a lungo dei galleristi e delle mostre allestite da
Hoffmann, un vecchio compagno di lotta di Monaco, presso la Haus der Deutschen Kunst. La
conversazione annoiò tutti tremendamente, ma Hitler amava la pittura e Hoffmann conosceva i suoi
gusti e, soprattutto, il valore materiale degli antichi maestri.
Un giorno era presente anche la figlia di Hoffmann, la moglie di Baldur von Schirach. Era una
viennese graziosa e schietta dalla conversazione incantevole, ma dovette interrompere molto presto
la sua visita per aver creato una situazione incresciosa durante una conversazione alla casa da tè. Io
non ero presente, ma me lo riferì Hans Junge. Mentre Hitler era seduto davanti al camino con i suoi
ospiti, a un tratto disse: «Mio Fuhrer, di recente ad Amsterdam ho visto un treno di ebrei deportati.
È terribile osservare l’aspetto di quelle povere persone, sono certamente trattate malissimo. Lei lo sa
e lo permette?».
Vi fu un silenzio imbarazzante.
Poco dopo Hitler si alzò, si congedò e si ritirò. Il giorno dopo la signora von Schirach tornò a
Vienna, e nessuno accennò più all’accaduto. Apparentemente, aveva oltrepassato il limite dei propri
diritti di ospite e non aveva adempiuto il suo compito di intrattenere il Fuhrer.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 102
Hitler racconta del suo viaggio in Italia ospite di Mussolini
«Il Duce è un eccellente statista. Conosce la mentalità del proprio popolo ed è davvero sorprendente
cosa sia riuscito a fare dell’Italia con il suo popolo pigro in così breve tempo. Ma non è in una
posizione facile, si trova tra la Chiesa e la Casa reale. Il re è un imbecille, ma ha molti seguaci.
Comunque è stato meraviglioso a Roma. L’Italia è un paese incantevole, però ha una popolazione
molto pigra.»
Hitler raccontò poi con entusiasmo delle grandi manifestazioni e dei fastosi allestimenti che il Duce
aveva preparato in onore dell’ospite. La popolazione fascista aveva tributato infinite ovazioni allo
statista alleato, mostrando molto temperamento e un entusiasmo incredibile. In seguito, Hitler definì
tutto quell’entusiasmo semplicemente un fuoco di paglia e disse che gli italiani erano gentaglia
priva di carattere. A quel tempo era stato con Mussolini all’opera e la disattenzione del pubblico nei
confronti degli interpreti lo aveva fatto inorridire. «La gente sedeva nei palchi e nelle gallerie
abbigliata in sontuose toilette e s’intratteneva in pettegolezzi personali mentre i cantanti davano il
loro meglio. Arrivammo solo a metà del secondo atto e non riuscivo a credere alle mie orecchie
quando all’improvviso, nel bel mezzo della rappresentazione, si interruppero per suonare l’inno
nazionale italiano, quello della Germania e lo Horst-Wessel-Lied [l’inno ufficiale del Partito
nazista, che dal 1933 veniva sempre cantato dopo l’inno nazionale]. Ero proprio imbarazzato e ho
trovato la faccenda molto sgradevole per gli attori.»
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 103.
La prima asserzione da megalomane che sentivo da Hitler
Un giorno, si parlava ancora di matrimonio e di nozze e domandai: «Perché non si è sposato, mio
Fuhrer?». Sapevo bene quanto gli piacesse combinare matrimoni. La risposta fu alquanto
strabiliante: «Non sarei un buon padre di famiglia e ritengo irresponsabile formare una famiglia se
non posso dedicarmi a mia moglie come si deve. Inoltre non vorrei avere dei figli miei. Credo che,
di solito, i discendenti dei geni abbiano una vita molto difficile. Da loro ci si aspetta la stessa
grandezza del famoso genitore e non se ne perdona la mediocrità. E poi, spesso diventano dei
cretini».
Era la prima seria asserzione da megalomane che sentivo da Hitler. Finora avevo avuto di tanto in
tanto l’impressione che fosse megalomane nella sua ideologia e nel suo fanatismo, ma la sua
persona era sempre stata esclusa dal gioco, mentre sottolineava piuttosto: «Sono uno strumento del
fato e devo percorrere il cammino predisposto per me da una volontà superiore». Ora, tuttavia, mi
disturbava enormemente l’idea che un essere umano si considerasse un genio.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 123
La convincente eloquenza di Hitler
A volte nascevano anche interessanti discussioni sulla Chiesa o sull’evoluzione dell’umanità.
Definirle discussioni forse è esagerato; partendo da una nostra domanda o osservazione cominciava
a sviluppare il proprio pensiero, e noi stavamo ad ascoltare. È un peccato che io rammenti ormai
solo minuscole schegge di queste teorie e purtroppo non possiedo neppure la convincente eloquenza
con cui Hitler ci esponeva le sue idee.
Tornando alle nostre baracche parlammo tra noi della conferenza di Hitler ed ero ben decisa a
riflettere ancora su queste cose e tenerle a mente. Purtroppo, già il giorno dopo, dovetti constatare
che riuscivo a riferire agli amici solo in maniera confusa e poco chiara tutto ciò che la sera
precedente mi aveva impressionato e persuaso. Ah, se fossi stata matura ed esperta come lo sono
oggi, non mi sarei semplicemente lasciata trascinare, non avrei subìto l’influsso di Hitler così, senza
scrupoli né sospetti! Mi sarei dovuta preoccupare del pericolo insito nella forza di una persona che
riusciva, con la propria oratoria e il proprio potere di suggestione, a stregare gli altri soffocandone la
volontà e le convinzioni.
Talvolta vidi consiglieri di Hitler, generali e collaboratori, uscire con espressioni perplesse da una
riunione con il Fuhrer, masticando grossi sigari e lambiccandosi il cervello. In seguito ho avuto
occasione di parlare con alcuni di loro e, sebbene fossero più forti, più saggi e più esperti di me,
spesso era capitato loro di presentarsi al Fuhrer armati di un fermo proposito e di documenti e
argomentazioni ineccepibili per convincerlo dell’impossibilità di un comando, dell’irrealizzabilità
di una disposizione, ma, ancor prima che avessero finito, lui attaccava a parlare e tutte le loro
obiezioni svanivano, perdevano senso di fronte alla sua logica. Sapevano che non poteva
funzionare, ma non riuscivano a trovare il bandolo della matassa. Lo lasciavano disperati,
scombussolati, resi insicuri delle proprie opinioni, prima tanto salde e irrefutabili, come ipnotizzati.
Credo che molti abbiano tentato di opporsi a questa influenza, ma tanti si sono stancati, arresi, e
hanno lasciato semplicemente perdere fino all’amaro epilogo.
Tuttavia ci sono voluti la completa e totale disfatta, un’amara fine e molte profonde delusioni
perché acquistassi lucidità e sicurezza.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 125
Un’ebrea nello staff di Hitler
In primavera partimmo di nuovo alla volta del Berghof, mentre nella Prussia orientale le costruzioni
dovevano essere sottoposte a ulteriori opere di fortificazione. Hitler voleva fare realizzare alcuni
bunker molto stabili e a prova di bomba.
Marlene von Exner non era della partita. Era rimasta nella Tana del Lupo per fare le valigie,
chiudere casa e tornare a Vienna. Il suo destino ebbe un che di tragicomico. Sebbene non potesse
soffrire i prussiani e odiasse le SS, si era innamorata del giovane aiutante delle SS Fritz Darges.
Anche Gretl Braun si era innamorata di lui, ma per il piccolo Fritz questo amore era un po’ troppo
pericoloso e troppo poco privato, dunque non aveva saputo decidersi ad accettarlo. Tuttavia c’era
qualcosa che non quadrava con gli avi di Marlene. All’inizio del servizio da Hitler, lei aveva
accennato al fatto che i documenti di sua madre non fossero a posto. La nonna era una trovatella e
non era possibile verificarne la discendenza. In virtù dei provati sentimenti nazionalsocialisti
dell’intera famiglia, Hitler aveva attribuito poca importanza alla faccenda, fino a quando l’efficiente
e solerte SDP constatò che effettivamente nella linea materna era presente del sangue ebraico. Lo
sgomento di Marlene fu grande, non tanto per il rischio di perdere il posto di lavoro, quanto per
l’impossibilità di sposare un soldato delle SS.
Hitler ebbe un colloquio con la signora von Exner, durante il quale disse: «Mi dispiace moltissimo
per lei, ma capirà che non posso fare altro che licenziarla dal mio servizio. È impossibile che io
faccia un’eccezione per me personalmente e annulli le mie stesse leggi quando mi fa comodo. Ma
quando sarà di nuovo a Vienna farò arianizzare tutta la sua famiglia e le pagherò lo stipendio per
altri sei mesi. Inoltre, prima di lasciarmi, la prego di venire una volta al Berghof come mia ospite».
E fu così che Marlene prese congedo. Il Reichsleiter Bormann ricevette in mia presenza l’incarico
di procedere all’arianizzazione della famiglia Exner. Era un compito che Bormann accettò
controvoglia, perché aveva tentato di corteggiare l’affascinante viennese e non le avrebbe mai
perdonato di averlo fatto invano.
La sua vendetta non mancò di colpire; alcune settimane più tardi, infatti, ricevetti da Vienna una
lettera molto infelice, secondo la quale ai membri della famiglia erano state ritirate le tessere del
partito e si trovavano tutti in grandi difficoltà. Quando interrogai Bormann in merito, dichiarò che
se ne sarebbe occupato lui. Trascorsero ancora settimane e settimane e alla fine ricevetti un
resoconto impressionante su quanto fosse diventata dura la vita per gli Exner. Marlene dovette
lasciare la clinica universitaria, sua sorella non poté studiare medicina, il fratello fu costretto a
chiudere il suo studio medico e il minore non ebbe la possibilità di intraprendere la carriera di
ufficiale.
Ero talmente furiosa e indignata che mi sedetti alla macchina da scrivere con i caratteri grandi,
trascrissi la lettera parola per parola e mi recai dal Fuhrer. Diventò tutto rosso dalla rabbia e
convocò Bormann. Anche il Reichsleiter era tutto rosso quando uscì dalla camera di Hitler e mi
squadrò furibondo. In marzo, però, ricevetti buone notizie: era tutto a posto, l’intera famiglia Exner
mi ringraziava moltissimo, finalmente l’arianizzazione era stata portata a termine. Quattro settimane
più tardi gli alleati erano a Vienna.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 135
Hitler ammalato
Qualche giorno più tardi ci fu comunicato: «Il Fúhrer si scusa, mangerà da solo». E anche il tè fu
sospeso. Finché, un giorno, Hitler rimase a letto. L’avvenimento fece scalpore. Nessuno lo aveva
mai visto giacere a letto. Perfino il suo cameriere lo svegliava restando dall’altra parte della porta
chiusa e appoggiava i fogli con le notizie del mattino fuori, su un tavolino. Il Fúhrer non aveva mai
ricevuto nessuno dei suoi collaboratori in vestaglia. A un tratto si era ammalato e nessuno sapeva
perché. Non era uscito indenne dall’attentato? I medici ritenevano che potesse forse essere l’effetto
ritardato di una commozione cerebrale che si manifestava soltanto ora. In ogni caso non lo
vedemmo per giorni. Gli aiutanti erano disperati. Il Fuhrer non voleva ricevere nessuno. Un giorno
Otto Gunsche venne a raccontarmi: «Il Fúhrer è completamente indifferente, non sappiamo cosa
fare. Nemmeno la situazione sul fronte orientale lo interessa, anche se lì siamo proprio messi male».
Dalla degenza, Morell impartiva al suo assistente istruzioni telefoniche sulle cure per Hitler. Ed
ecco che all’improvviso la sua vitalità si risvegliò, impartì ordini dal letto, chiese rapporti sulla
situazione e, dopo qualche giorno, riprese perfino l’abitudine del tè notturno. Credo che ricevere i
propri ospiti in camera, coricato, sia stato un evento unico nella sua vita. Devo dire che era molto
scomodo.
La stanzetta del bunker era ammobiliata in maniera squallida. Proprio come l’alloggio di un soldato
in una caserma. Inoltre Hitler aveva in camera anche una gigantesca cassa di legno per Blondi e la
sua famiglia, sicché lo spazio era davvero esiguo. Mi venivano in mente le preoccupazioni di Eva
Braun, che non sapeva mai cosa regalare a Hitler per il suo compleanno o per Natale. Lui indossava
una modesta vestaglia di flanella grigia, nessuna cravatta colorata, solo dei brutti calzini neri,
nemmeno il pigiama era moderno. Giaceva nel suo letto, ben pettinato e rasato, in una camicia da
notte bianca, così semplice che poteva essere stata disegnata solo dalla Wehrmacht. Non aveva
abbottonato le maniche perché l’avrebbero stretto e quindi vedevamo la pelle bianca delle sue
braccia. Un bianco cereo! Potevamo ben capire che non andasse volentieri in giro in pantaloni corti!
Davanti al letto era stato collocato un tavolino, intorno al quale ci riunivamo con fatica avvicinando
alcune sedie. Se uno degli ospiti (non erano molti, a parte le due segretarie, l’aiutante Bormann e
Hewel) voleva uscire, tutti dovevano alzarsi, e servire era difficoltoso.
Hitler non parlava ancora molto. Si fece raccontare cosa avevamo fatto negli ultimi giorni. Non
avevamo grandi novità da riferire. La nostra principale attività era consistita nel copiare intere pile
di comunicazioni sulle perdite. Era stato un lavoro avvilente e ci era parso inutile; negli ultimi
giorni Hitler non aveva nemmeno guardato i resoconti. Era terribile vedere l’unico uomo che
avrebbe potuto mettere fine a ogni miseria con un solo tratto di penna giacere nel suo letto quasi
indifferente e guardare fisso davanti a sé con occhi stanchi, mentre intorno si scatenava l’inferno.
Avevo l’impressione che il suo corpo avesse compreso all’improvviso la vanità di tutti gli sforzi
della sua mente e della sua forte volontà e avesse dichiarato sciopero, si fosse semplicemente
coricato dicendo: «Non ci sto più». Hitler non si era mai imbattuto in una simile insubordinazione e
si era lasciato cogliere di sorpresa.
Poco tempo dopo, tuttavia, ogni debolezza fu superata. La notizia che i russi sarebbero penetrati
nella Prussia orientale lo rimise in piedi e lo fece guarire in un amen.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 164
Il medico di Hitler faceva anche esperimenti medici sui detenuti dei campi di concentramento
e sull’eutanasia
Dal punto di vista professionale, nel frattempo, le si prospettano buone opportunità. A trent’anni
non ha ancora un obiettivo preciso, ma finisce sempre per imbattersi in persone che la stimano e
l’aiutano. Willi Brust, un conoscente che lavora come grafico per «Quick», la raccomanda alla
rivista, a quel tempo un apprezzato periodico di reportage, noto per le inchieste e gli accurati
servizi, spesso anche su persone con un passato nazista. Sebbene i reporter e i redattori di «Quick»
conoscano il passato della loro collega, non la interpellano mai sulle sue esperienze durante il Terzo
Reich.
Ricordo che, un martedì grasso, la redazione stava lavorando a un grande servizio su diversi
processi per crimini di guerra ed esecuzioni capitali a Landsberg. Allora, per la prima volta, ho
saputo che cosa avveniva dietro le quinte del Terzo Reich. E soprattutto ho conosciuto la vera
natura di quelle persone che ricordavo cortesi e raffinate. Il dottor Karl Brandt, per esempio, uno dei
medici al seguito di Hitler, che avevo considerato un uomo colto e umano. Nel 1948 fu impiccato
per aver partecipato agli esperimenti medici sui detenuti dei campi di concentramento e
sull’eutanasia. Ero esterrefatta.
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 243
Il confronto con una martire della “Rosa bianca”
Racconta Traudl Junge :
«A quel tempo, a Monaco, devo essere passata spesso senza farci caso davanti alla targa in
memoria di Sophie Scholl in Franz-Joseph-Strasse [Sophie Scholl (1921-1943) partecipò con il
fratello all’attività di propaganda antinazista del piccolo gruppo di resistenti della Rosa
bianca.]. Un giorno l’ho notata e, quando mi sono resa conto che è stata giustiziata nel 1943,
proprio nel momento in cui stava cominciando la mia vita accanto a Hitler, ne sono stata
profondamente scioccata. Anche Sophie Scholl all’inizio era stata una ragazza del BDM, di un
anno più giovane di me, e aveva capito benissimo di avere a che fare con un regime criminale.
La mia scusa perdeva ogni consistenza.»
Anni di presa di coscienza. Lunghe fasi depressive e colloqui terapeutici che non portano alcun
miglioramento, apatia anche nel lavoro. Tra il 1967 e il 1971 Traudl è responsabile della rivista di
settore «Drogerie Journal» per la casa editrice Wort und Bild.
«A un tratto non riuscivo più a scrivere. Anche la frase più semplice mi creava delle difficoltà. Al
pensiero di non essere più in grado di svolgere la mia professione le mie condizioni si erano
ulteriormente aggravate. Volevo fuggire in Australia, cercare rifugio da mia sorella. Ho dato le
dimissioni e ho affittato il mio appartamento.»
Per quanto possa suonare paradossale, Traudl Junge ha preso radicalmente le distanze dal
nazionalsocialismo, un sistema al quale non ha mai sentito di appartenere, ma che, ciononostante,
ha condiviso. Non si è costruita un’esistenza fittizia, bensì si è sforzata di essere sincera con il suo
prossimo. Gli anni del tormentoso confronto con se stessa hanno avuto un senso: l’hanno fatta
maturare.
«Mi sono ritirata e ho trangugiato i sensi di colpa, il lutto e il tormento. All’improvviso sono
diventata interessante perché sono una testimone della storia; ciò mi ha fatto entrare in un
pesante conflitto con i miei complessi di colpa. Perché in questi colloqui non si è mai parlato
della colpa, ma soltanto di fatti storici, e quindi potevo riferire senza dovermi giustificare.
Questa circostanza mi ha oppresso ancora di più e mi ha fornito ulteriore materia di
riflessione. Oggi rimpiango due cose: il destino di quei milioni di persone che sono state
assassinate dal nazionalsocialismo e la ragazza Traudl Humps, alla quale è mancata la
sicurezza di sé e l’accortezza di saper dire no al momento giusto.»
Junge T., “Fino all’ultima ora”, Mondadori, pag. 251
VIAGGIO APOSTOLICO
DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
IN POLONIA
DISCORSO DEL SANTO PADRE
VISITA AL CAMPO DI AUSCHWITZ
Auschwitz-Birkenau, 28 maggio 2006
Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro
l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente
difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un
luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito
silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto?
Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci
inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro
che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi
domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non
permettere mai più una simile cosa.
Ventisette anni fa, il 7 giugno 1979, era qui Papa Giovanni Paolo II; egli disse allora:
"Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui… Quante
volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono
fermato davanti al muro della morte e sono passato tra le macerie dei forni crematori di
Birkenau. Non potevo non venire qui come Papa". Papa Giovanni Paolo II stava qui
come figlio di quel popolo che, accanto al popolo ebraico, dovette soffrire di più in
questo luogo e, in genere, nel corso della guerra: "Sono sei milioni di Polacchi, che
hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione”,
ricordò allora il Papa. Qui egli elevò poi il solenne monito al rispetto dei diritti dell'uomo
e delle nazioni, che prima di lui avevano elevato davanti al mondo i suoi Predecessori
Giovanni XXIII e Paolo VI, e aggiunse: “Pronuncia queste parole […] il figlio della
nazione che nella sua storia remota e più recente ha subito dagli altri un molteplice
travaglio. E non lo dice per accusare, ma per ricordare. Parla a nome di tutte le nazioni, i
cui diritti vengono violati e dimenticati…”.
Papa Giovanni Paolo II era qui come figlio del popolo polacco. Io sono oggi qui come
figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui: Non potevo
non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di
quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di
Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco – figlio di quel popolo sul quale un
gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di
prospettive di grandezza, di ricupero dell'onore della nazione e della sua rilevanza, con
previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell'intimidazione, cosicché il
nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di
distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui. Il 7 giugno 1979 ero qui come
Arcivescovo di Monaco-Frisinga tra i tanti Vescovi che accompagnavano il Papa, che lo
ascoltavano e pregavano con lui. Nel 1980 sono poi tornato ancora una volta in questo
luogo di orrore con una delegazione di Vescovi tedeschi, sconvolto a causa del male e
grato per il fatto che sopra queste tenebre era sorta la stella della riconciliazione. È
ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della
riconciliazione – da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori;
dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti
coloro che, in quest'ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere
dell'odio e sotto la violenza fomentata dall'odio.
Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda:
Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso
di distruzione, questo trionfo del male? Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il
lamento dell'Israele sofferente: “…Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai
avvolti di ombre tenebrose… Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da
macello. Svégliati, perché dormi, Signore? Déstati, non ci respingere per sempre! Perché
nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati
nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la
tua misericordia!” (Sal 44,20.23-27). Questo grido d'angoscia che l'Israele sofferente
eleva a Dio in periodi di estrema angustia, è al contempo il grido d'aiuto di tutti coloro
che nel corso della storia – ieri, oggi e domani – soffrono per amor di Dio, per amor
della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi.
Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci
sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso,
l'uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No – in definitiva, dobbiamo
rimanere con l'umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua
creatura, l'uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che
penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio –
affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e
soffocato in noi dal fango dell'egoismo, della paura degli uomini, dell'indifferenza e
dell'opportunismo. Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso
nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove
sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le
forze oscure: da una parte, l'abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza
cieca contro persone innocenti; dall'altra, il cinismo che non conosce Dio e che
schernisce la fede in Lui. Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a
ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra
violenza – una spirale di distruzioni, in cui tutti in fin dei conti possono essere soltanto
perdenti. Il Dio, nel quale noi crediamo, è un Dio della ragione – di una ragione, però,
che certamente non è una neutrale matematica dell'universo, ma che è una cosa sola con
l'amore, col bene. Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché questa
ragione, la ragione dell'amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e
della pace prevalga sulle minacce circostanti dell'irrazionalità o di una ragione falsa,
staccata da Dio.
Il luogo in cui ci troviamo è un luogo della memoria, è il luogo della Shoa. Il passato
non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle
da prendere. Come Giovanni Paolo II ho percorso il cammino lungo le lapidi che, nelle
varie lingue, ricordano le vittime di questo luogo: sono lapidi in bielorusso, ceco,
tedesco, francese, greco, ebraico, croato, italiano, yiddish, ungherese, neerlandese,
norvegese, polacco, russo, rom, rumeno, slovacco, serbo, ucraino, giudeo-ispanico,
inglese. Tutte queste lapidi commemorative parlano di dolore umano, ci lasciano intuire
il cinismo di quel potere che trattava gli uomini come materiale non riconoscendoli come
persone, nelle quali rifulge l'immagine di Dio. Alcune lapidi invitano ad una
commemorazione particolare. C'è quella in lingua ebraica. I potentati del Terzo Reich
volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall'elenco dei popoli
della terra. Allora le parole del Salmo: "Siamo messi a morte, stimati come pecore da
macello" si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con
l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo,
che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno.
Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di
quel Dio che ha parlato all'uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente
essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i
forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele, con
la Shoa, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede
cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio
dell'uomo, del forte. C'è poi la lapide in lingua polacca: In una prima fase e innanzitutto
si voleva eliminare l'élite culturale e cancellare così il popolo come soggetto storico
autonomo per abbassarlo, nella misura in cui continuava ad esistere, a un popolo di
schiavi. Un'altra lapide, che invita particolarmente a riflettere, è quella scritta nella
lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive
migrando in mezzo agli altri popoli. Esso veniva annoverato tra gli elementi inutili della
storia universale, in una ideologia nella quale doveva contare ormai solo l'utile
misurabile; tutto il resto, secondo i loro concetti, veniva classificato
come lebensunwertes Leben – una vita indegna di essere vissuta. Poi c'è la lapide in
russo che evoca l'immenso numero delle vite sacrificate tra i soldati russi nello scontro
con il regime del terrore nazionalsocialista; al contempo, però, ci fa riflettere sul tragico
duplice significato della loro missione:hanno liberato i popoli da una dittatura, ma
sottomettendo anche gli stessi popoli ad una nuova dittatura, quella di Stalin e
dell'ideologia comunista. Anche tutte le altre lapidi nelle molte lingue dell'Europa ci
parlano della sofferenza di uomini dell'intero continente; toccherebbero profondamente il
nostro cuore, se non facessimo soltanto memoria delle vittime in modo globale, ma se
invece vedessimo i volti delle singole persone che sono finite qui nel buio del terrore. Ho
sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in
lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Benedicta a
Cruce: ebrea e tedesca scomparsa, insieme con la sorella, nell'orrore della notte del
campo di concentramento tedesco-nazista; come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire
insieme con il suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad AuschwitzBirkenau e qui sono morti, erano visti comeAbschaum der Nation – come il rifiuto della
nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del
bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone,
perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una
notte buia. Con profondo rispetto e gratitudine ci inchiniamo davanti a tutti coloro che,
come i tre giovani di fronte alla minaccia della fornace babilonese, hanno saputo
rispondere: "Solo il nostro Dio può salvarci. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re,
che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d'oro che tu hai eretto"
(cfr Dan 3,17s.).
Sì, dietro queste lapidi si cela il destino di innumerevoli esseri umani. Essi scuotono la
nostra memoria, scuotono il nostro cuore. Non vogliono provocare in noi l'odio: ci
dimostrano anzi quanto sia terribile l'opera dell'odio. Vogliono portare la ragione a
riconoscere il male come male e a rifiutarlo; vogliono suscitare in noi il coraggio del
bene, della resistenza contro il male. Vogliono portarci a quei sentimenti che si
esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all'orrore che
la circonda: "Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare".
Grazie a Dio, con la purificazione della memoria, alla quale ci spinge questo luogo di
orrore, crescono intorno ad esso molteplici iniziative che vogliono porre un limite al
male e dar forza al bene. Poco fa ho potuto benedire il Centro per il Dialogo e la
Preghiera. Nelle immediate vicinanze si svolge la vita nascosta delle suore carmelitane,
che si sanno particolarmente unite al mistero della croce di Cristo e ricordano a noi la
fede dei cristiani, che afferma che Dio stesso e sceso nell'inferno della sofferenza e
soffre insieme con noi. A Oświęcim esiste il Centro di san Massimiliano e il Centro
Internazionale di Formazione su Auschwitz e l'Olocausto. C'è poi la Casa Internazionale
per gli Incontri della Gioventù. Presso una delle vecchie Case di Preghiera esiste il
Centro Ebraico. Infine si sta costituendo l'Accademia per i Diritti dell'Uomo. Così
possiamo sperare che dal luogo dell'orrore spunti e cresca una riflessione costruttiva e
che il ricordare aiuti a resistere al male e a far trionfare l’amore.
L'umanità ha attraversato a Auschwitz-Birkenau una "valle oscura". Perciò vorrei,
proprio in questo luogo, concludere con una preghiera di fiducia – con un Salmo
d'Israele che, insieme, è una preghiera della cristianità: "Il Signore è il mio pastore: non
manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi
rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi
camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo
bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza … Abiterò nella casa del Signore per
lunghissimi anni" (Sal 23, 1-4. 6).
VISITA ALLA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA
PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Sinagoga di Roma
Domenica, 17 gennaio 2010
“Il Signore ha fatto grandi cose per loro”
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia” (Sal 126)
“Ecco, com’è bello e com’è dolce
che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133)
Signor Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma,
Signor Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane,
Signor Presidente della Comunità Ebraica di Roma
Signori Rabbini,
Distinte Autorità,
Cari amici e fratelli,
1. All’inizio dell’incontro nel Tempio Maggiore degli Ebrei di Roma, i Salmi che abbiamo ascoltato
ci suggeriscono l’atteggiamento spirituale più autentico per vivere questo particolare e lieto
momento di grazia: la lode al Signore, che ha fatto grandi cose per noi, ci ha qui raccolti con il
suoHèsed, l’amore misericordioso, e il ringraziamento per averci fatto il dono di ritrovarci assieme
a rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione
e della fraternità. Desidero esprimere innanzitutto viva gratitudine a Lei, Rabbino Capo, Dottor
Riccardo Di Segni, per l’invito rivoltomi e per le significative parole che mi ha indirizzato.
Ringrazio poi i Presidenti dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Avvocato Renzo Gattegna,
e della Comunità Ebraica di Roma, Signor Riccardo Pacifici, per le espressioni cortesi che hanno
voluto rivolgermi. Il mio pensiero va alle Autorità e a tutti i presenti e si estende, in modo
particolare, alla Comunità ebraica romana e a quanti hanno collaborato per rendere possibile il
momento di incontro e di amicizia, che stiamo vivendo.
Venendo tra voi per la prima volta da cristiano e da Papa, il mio venerato Predecessore
Giovanni Paolo II, quasi ventiquattro anni fa, intese offrire un deciso contributo al
consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e
pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo. Con
sentimenti di viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e l’affetto che il
Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l’intera Chiesa Cattolica, nutrono verso questa Comunità
e le Comunità ebraiche sparse nel mondo.
2. La dottrina del Concilio Vaticano II ha rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui
riferirsi costantemente nell’atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova
e significativa tappa. L’evento conciliare ha dato un decisivo impulso all’impegno di percorrere un
cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito e
sviluppato in questi quarant’anni con passi e gesti importanti e significativi, tra i quali desidero
menzionare nuovamente la storica visita in questo luogo del mio Venerabile Predecessore,
il 13 aprile 1986, i numerosi incontri che egli ha avuto con Esponenti ebrei, anche durante i
Viaggi Apostolici internazionali, il pellegrinaggio giubilare in Terra Santa nell’anno 2000, i
documenti della Santa Sede che, dopo la Dichiarazione Nostra Aetate, hanno offerto preziosi
orientamenti per un positivo sviluppo nei rapporti tra Cattolici ed Ebrei. Anche io, in questi anni di
Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell’Alleanza.
Conservo ben vivo nel mio cuore tutti i momenti del pellegrinaggio che ho avuto la gioia di
realizzare in Terra Santa, nel maggio dello scorso anno, come pure i tanti incontri con Comunità
e Organizzazioni ebraiche, in particolare quelli nelle Sinagoghe a Colonia e a New York.
Inoltre, la Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo
perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e
dell’antigiudaismo (cfr Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, Noi
Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998). Possano queste piaghe essere sanate
per sempre! Torna alla mente l’accorata preghiera al Muro del Tempio in Gerusalemme del
Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro
cuore: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia
portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso
della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo
impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell’Alleanza”.
3. Il passare del tempo ci permette di riconoscere nel ventesimo secolo un’epoca davvero tragica per
l’umanità: guerre sanguinose che hanno seminato distruzione, morte e dolore come mai era
avvenuto prima; ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l’idolatria dell’uomo, della
razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma
singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di
odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo.
Come dissi nella visita del 28 maggio 2006 al campo di concentramento di Auschwitz ,
ancora profondamente impressa nella mia memoria, “i potentati del Terzo Reich volevano
schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità” e, in fondo, “con l’annientamento di questo popolo,
intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri
orientativi dell’umanità che restano validi in eterno” ( Discorso al campo di AuschwitzBirkenau: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 1[2006], p. 727).
In questo luogo, come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti
a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i
loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del
popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato
nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo,
molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e
dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei
braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne.
Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta.
La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché
crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza.
4. La nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia – in ebraico Sifre Qodesh o
“Libri di Santità” – il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente
posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo.
E’ scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il
proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola
(cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 839). “A differenza delle altre religioni non cristiane, la
fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nella Antica Alleanza. E’ al popolo ebraico che
appartengono ‘l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i
patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne’ (Rm 9,4-5) perché ‘i doni e la chiamata di Dio
sono irrevocabili!’ (Rm 11,29)” (Ibid.).
5. Numerose possono essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla Legge e
dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo
ebraico “a livello della loro stessa identità” spirituale e che offre ai Cristiani l’opportunità di
promuovere “un rinnovato rispetto per l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento”
(cfrPontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella
Bibbia cristiana, 2001, pp. 12 e 55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di
valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità; l’impegno per preparare o
realizzare il Regno dell’Altissimo nella “cura del creato” affidato da Dio all’uomo perché lo coltivi
e lo custodisca responsabilmente (cfr Gen 2,15).
6. In particolare il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (cfr Es 20,1-17; Dt 5,1-21)
– che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo,
stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei
Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un “grande
codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il
falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana.
Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via
dei Comandamenti: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17). In questa
prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre
particolarmente importanti per il nostro tempo.
Le “Dieci Parole” chiedono di riconoscere l’unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri
idoli, di farsi vitelli d’oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo,
senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina.
Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è
un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono e devono offrire assieme.
Le “Dieci Parole” chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso,
riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante
volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i
diritti dell’essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è
offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo “shalom” auspicato
dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele.
Le “Dieci Parole” chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il “sì”
personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro,
per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita.
Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di
base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la
costruzione di un mondo dal volto più umano.
7. Come insegna Mosè nello Shemà (cfr. Dt 6,5; Lv 19,34) – e Gesù riafferma nel Vangelo
(cfr.Mc 12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso
il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità
speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella
tradizione ebraica c’è un mirabile detto dei Padri d’Israele: “Simone il Giusto era solito dire: Il
mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Aboth 1,2). Con l’esercizio
della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare
testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno
nella speranza.
8. In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra
noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla
chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra. I passi
compiuti in questi quarant’anni dal Comitato Internazionale congiunto cattolico-ebraico e, in anni
più recenti, dalla Commissione Mista della Santa Sede e del Gran Rabbinato d’Israele, sono un
segno della comune volontà di continuare un dialogo aperto e sincero. Proprio domani la
Commissione Mista terrà qui a Roma il suo IX incontro su “L’insegnamento cattolico ed ebraico sul
creato e l’ambiente”; auguriamo loro un proficuo dialogo su un tema tanto importante e attuale.
9. Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso
Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta a noi, in
risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del
reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del
nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio,
l’Onnipotente e il Misericordioso.
10. Infine un pensiero particolare per questa nostra Città di Roma, dove, da circa due millenni,
convivono, come disse il Papa Giovanni Paolo II, la Comunità cattolica con il suo Vescovo e la
Comunità ebraica con il suo Rabbino Capo; questo vivere assieme possa essere animato da un
crescente amore fraterno, che si esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un
valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da affrontare.
Invoco dal Signore il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa. Nel mio
pellegrinaggio del maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto a Colui
che può tutto: “manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana;
muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della
giustizia e della compassione” (Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, 12 maggio
2009).
Nuovamente elevo a Lui il ringraziamento e la lode per questo nostro incontro, chiedendo che Egli
rafforzi la nostra fraternità e renda più salda la nostra intesa.
[“Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti, cantate la sua lode,
perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura per sempre”.
Alleluia” (Sal 117)]
Ester, la speranza oltre la Shoah
di Elena Dini
Ha perso i genitori nello sterminio; un suo nipote è stato ucciso dai palestinesi a
Jenin. Eppure crede in una memoria che apre alla riconciliazione
CI SONO STORIE che, una volta raccontate, non lasciano il sapore amaro della
tristezza che le accompagna. Sono storie in cui l'amore che le ha guidate e la
speranza nel futuro giocano un ruolo fondamentale. Storie come quella di Ester
Go¬lan (nella foto), ebrea che ha vissuto sulla sua pelle le ferite della Shoah,
«troppo brutta per essere adottata in America e troppo magra per andare in
Palestina». Oggi ha qualche chilo in più rispetto alla sua adolescenza e una
bellezza che passa attraverso gli occhi di chi ne ha viste tante nella vita. A
ottantasei anni in Israele incontra gruppi di ogni religione (musulmani compresi)
per raccontare il dramma del¬l'Olo¬causto. E a rendere unica la sua
testimonianza è la capacità di trasformare la memoria in un'occasione di dialogo.
Nata in Germania nel novembre 1923, Ester Golan è sopravvissuta alla Shoah
emigrando in Gran Bretagna; ma entrambi i suoi genitori, Arno e Else
Dobrowsky, sono morti nei campi di sterminio. «Mia madre era sionista, so¬no
cresciuta con il sogno di andare in Palestina», racconta Ester. Fino al 1932, la
vita della famiglia Dobrowsky trascorreva in maniera abbastanza tranquilla ma
con l'ascesa al potere di Hitler la vita cambia drasticamente: «Un giorno sono
ar¬rivata a scuola - ricorda Ester - e la maestra mi ha detto: "Alzati, tu sei ebrea.
Vai a sederti all'ultima fila". Da quel giorno in poi nessuno mi ha più parlato».
Mamma Else cerca di far adottare la figlia negli Stati Uniti ma senza successo:
«Nessuno vuole adottare una bambina brutta», fu la risposta. A 15 anni Ester
parte per un campo di Youth Aliyah, un'associazione nata con lo scopo di
preparare i ragazzi e le ragazze a emigrare in Pale¬stina. Ma, alla prova medica
finale, Ester viene scartata perché sottopeso. Solo nell'aprile 1939 riesce a partire
per Whitin¬ge¬hame, la casa di Lord Balfour in Scozia, dove venivano ospitati
bambini ebrei in fuga dalle persecuzioni. Le ultime parole della mamma che
ancora risuonano nelle sue orecchie sono: «L'anno prossimo a Gerusalemme». Nel
1942 la coppia Dobrowsky è spedita al campo di Theresienstadt dove Arno muore
nel febbraio 1943. Mamma Else verrà trasferita ad Auschwitz dove morirà nel
luglio 1944.
FINITA LA GUERRA Ester si stabilisce nel nascente Stato di Israele. Per anni
condivide il silenzio di molti sopravvissuti alla Shoah; finché non arriva la svolta.
«È stato quando i miei figli hanno lasciato casa e ho avuto tem¬po per occuparmi
della mia formazione - racconta -. Mi sono iscrit¬ta all'università, dove ho
studiato psicologia educativa e sociologia. Ed è stato a quel punto che ho
raggiunto la maturità emotiva necessaria per fare qualcosa sulla Shoah».
Prendere coscienza del passato, rielaborarlo e anche raccontarlo è stato per Ester
un nuovo punto di partenza. Inseparabile dalla volontà di impegnarsi nella
conoscenza dell'altro, che in una terra come Israele ha il volto del¬l'arabo,
cristiano e musulmano. «Ho cominciato a essere coinvolta nel dialogo
interreligioso nel 1960 quando ero una guida turistica: studiavo religioni
comparate e mostravo alle persone di fedi differenti i loro luoghi sacri».
Da una parte, dunque, Ester comincia a lavorare all'interno della comunità
ebraica per mantenere la memoria di ciò che è stata la Shoah. Ma Ester è anche
ben cosciente di vivere in una società che ha tremendamente bisogno di pace e
riconciliazione. Nel 2000 Ester si unisce ad un gruppo di donne ebree, cristiane,
musulmane e armene per il dialogo interreligioso. Si in¬contrano mensilmente, si
scambiano visite, si telefonano. «Per vivere in pace la gente ha bisogno di
conoscersi. Deve sentire di avere qualcosa in comune con l'altro - insegna Ester e la base per una maggiore comprensione è la fiducia reciproca».
UN'APERTURA al¬l'altro particolarmente si¬gni¬ficativa in chi ha vissuto tan¬to
dolore. Ma anche questo atteggiamento do¬veva di nuovo essere messo alla prova.
Nel 2002 nello Yom Ha-Shoah - il giorno in cui Israele ricorda le vittime della
Shoah - Ester è allo Yad Va¬shem. Una telefonata di suo figlio le dà una nuova
notizia terribile: c'è stato un combattimento a Jenin, tredici soldati israeliani sono
morti. Suo nipote, Eyal Yoel, è uno di questi. «Per me la Shoah non era solo lì e
allora, ma qui e oggi - commenta Ester a sette anni di distanza da quel 9 aprile
2002 -. Non è stato semplice per me tornare alle mie attività. Ma le don¬ne del
mio gruppo di incontro mi hanno incoraggiata a farlo».
La sua conclusione è che bisogna lavorare ancora di più per il dialogo: «Prima
dell'intifada c'erano molti tentativi di incontro fra palestinesi e israeliani e fra
ebrei, cristiani e musulmani. Ma dopo, tutto sembrava bloccato». Ester incontra
padre Emile Shoufani, sacerdote greco-melchita e direttore di una scuola
cristiana a Nazareth, e Nasir Ma¬gali, un gior¬nalista musulmano. «Sono
un'israeliana, ebrea, sionista, so¬pravvissuta alla Shoah - si presenta Ester -. E
mi chiedo co¬sa conoscano gli altri in questo paese della Shoah. Secondo me
molto poco». Così parte una nuova avventura per Ester: parlare della Shoah non
solo al mondo ebraico, ma anche al di fuori.
Così, insieme a padre Shou¬fani e a Nasir Magali, Ester ha potuto organizzare nel
2003 un viaggio ad Auschwitz per una de¬legazione che ha visto unite 250
persone fra ebrei, cristiani e musulmani. È stata la prima vol¬ta che arabi cristiani e mu¬sulmani - ed ebrei hanno visitato insieme un campo di
concentramento. Per Ester, «ovunque la gente è incline a dimenticare ciò che
l'uomo è capace di fare all'altro». Per questo la sofferenza della Shoah può ancora
oggi insegnare tanto e parlare alle generazioni presenti anche di un conflitto come
quello israelo-palestinese. Conoscere l'altro, farsi conoscere da lui, ascoltarlo e
così scoprire qualcosa in più di noi stessi: questa è la strada per Ester, ieri come
oggi. E non c'è dolore, per quanto grande sia stato, che la chiuda di fronte alla
sfida di incontrarsi con chi è «pericolosamente» differente. «Se cristiani ed ebrei,
tedeschi e israeliani possono parlarsi dopo tutto quello che è successo fra di loro conclude Ester -, allora sicuramente anche palestinesi e israeliani, musulmani e
ebrei possono farlo. Bisogna solo volerlo».
I GIUSTI FRA LE NAZIONI
La storia dei Giusti è nella tradizione ebraica.
Si racconta che in qualsiasi momento della storia dell'umanità ci siano sempre 36 Giusti al
mondo. Nessuno sa chi siano, nemmeno loro stessi, ma sanno riconoscere le sofferenze e se
ne fanno carico, perché sono nati Giusti e non possono ammettere l'ingiustizia. E' per amor
loro che Dio non distrugge il mondo.
Nel buio della barbarie nazista, molte migliaia di non ebrei rischiarono e spesso persero la vita per salvare
quella di un ebreo, di una famiglia ebraica, o di intere comunità.
Donne e uomini come tanti, che sapevano perfettamente a che cosa andavano incontro, ma il cui senso di
giustizia e di amore per i loro simili fu più forte della paura e della morte. Ai Gentili (cioè non ebrei)
Giusti, gli ebrei d'Europa devono dunque particolare riconoscenza, poiché è anche merito loro se il piano
nazista di fare di loro una "razza estinta" non è riuscito fino in fondo.
Nel 1953 il Parlamento Israeliano ha incaricato l'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme, il museomonumento dedicato alla Shoah, di accordare il termine di "Giusti tra le Nazioni" agli uomini che
rischiarono le loro vite per salvare gli ebrei, come gesto di riconoscimento e ringraziamento a nome di
tutto il popolo ebraico.
Un giudice della Corte Suprema presiede un comitato di personalità pubbliche che assicura che i nominati
abbiano agito interamente a loro discrezione, in territori controllati dalle truppe tedesche o da loro alleati
e collaboratori, e mettendo a rischio la propria libertà e la propria vita, senza ricevere remunerazioni o
compensi di sorta.
Nel 1962, presso lo Yad Vashem è stato inaugurato il "Viale dei Giusti", dove vengono tutt'oggi piantati
alberi in loro onore e memoria. Dal 1963 al 2001 sono stati proclamati circa 20.000 Giusti. Fino al 2002,
gli italiani erano 295.
Giorgio Perlasca
Commerciante padovano ex fascista convinto, fingendosi
diplomatico di Spagna a Budapest, nell'Ungheria occupata dai
tedeschi, salvò migliaia di ebrei ungheresi nell'inverno del
1944, rilasciando loro dei salvacondotti e creando otto case
rifugio, protette dall'Ambasciata Iberica.
Coprendo ogni sua azione con la bandiera spagnola, quindi di
una nazione neutrale, Perlasca recitò la parte del diplomatico
internazionale dal 1° dicembre 1944 fino alla liberazione
dell'Ungheria, il 16 gennaio 1945.
Tutto ciò, però, avveniva senza che Madrid ne fosse al corrente. Così, grazie alle difficoltà di
comunicazione dovute alla guerra e all'intraprendenza di un uomo, migliaia di ebrei ungheresi vennero
sottratti a morte certa. Perlasca lasciò Budapest il 29 maggio del 1945, tra una piccola folla di salvati e il
ricordo
di
un
giornale
locale
che
salutava
con
affatto.
Perlasca venne rintracciato nel 1988 da alcuni ebrei ungheresi e per la sua opera fu insignito dell'Ordine
della Stella d'Oro in Ungheria. Il 25 settembre 1989 non solo venne nominato "Giusto tra i Giusti", ma gli
fu conferita la cittadinanza israeliana e infine, per decreto del Re Juan Carlos di Spagna, fu nominato
"Commendatore di numero dell'Ordine di Isabella"
Marcella Girelli
Nata a Roma il 13 maggio 1921, in una famiglia
borghese, Marcella Girelli frequentò tutte le scuole
presso le Suore di Sion, dove prese i voti poco più
che maggiorenne, assumendo il nome di suor Luisa.
Nel 1940 l'Italia entrò in guerra, ma la vita del
convento continuò a scorrere nei suoi binari di
sempre, anche quando nel 1942 il Vaticano affidò
all'Ordine di Sion il compito di trasformare in veri e
propri moduli le innumerevoli richieste di aiuto nella
ricerca di dispersi che arrivavano da tutta Italia.
Nell'ottobre del 1943, dopo che Roma fu occupata dalle truppe naziste, si ebbe una svolta radicale. Il 16
di quel mese si presentarono alle prote del convento alcune famiglie di ebrei scampati al primo tragico
rastrellamento del ghetto, che quella mattina aveva condannato oltre mille persone, bambini e vecchi
compresi, alla deportazione ad Auschwitz.
La Madre Superiora non ebbe esitazioni: il convento doveva accogliere e proteggere tutti i fuggiaschi.
Iniziò così una convivenza molto speciale. Ai rifugiati venne destinata una parte del convento per dormire
e cucinare, quando arrivavano nazisti o fascisti a perquisire il convento, le suore avevano ideato un
ingegnoso sistema d'allarme per avvisare gli ebrei nascosti, dar loro il tempo di far sparire le proprie
tracce e nascondersi.
Al momento della Liberazione, nel 1945, le Suore di Sion erano riuscite a proteggere e salvare 140 ebrei
fra cui molti bambini. Per questo loro atto di coraggio e abnegazione, hanno ricevuto il riconoscimento di
"Giuste tra le Nazioni". A ritirarlo, a nome di tutte, suor Luisa.
Odoardo Focherini
Carpigiano di nascita e trentino di origine, uomo
acuto, sensibile, estroverso, sostenuto da una
grande fede, Focherini ha vissuto intensamente la
sua vita, dedicandosi con passione al lavoro, agli
amici, al giornale "L'Avvenire d'Italia", all'Azione
Cattolica e, soprattutto alla sua famiglia: la moglie e
i sette figli.
Grazie al lavoro per la Società Cattolica di
Assicurazioni di Verona, che lo portava a muoversi
per molte province del nord-est d'Italia, poteva
vedere come si stava evolvendo la situazione
italiana, quali le difficoltà del Paese sotto la
dittatura.
Nel 1942 incontrò degli ebrei scappati dalla Polonia e riuscì ad organizzare per loro una via di fuga. Da
quel momento capì che poteva fare qualcosa, che disponeva di contatti e di persone fidate che avrebbero
potuto aiutarlo nel caso in cui, anche in Italia, la situazione per la minoranza ebraica fosse precipitata.
Con l'8 settembre 1943, arrivò la conferma ai peggiori timori. Focherini, con l'aiuto del sacerdote Don
Dante Sala, riuscì a mettere in piedi una struttura segreta per organizzare l'espatrio di ebrei in Svizzera.
Le persone che lo hanno conosciuto in quel periodo lo ricordano come una persona serena e sorridente,
che sapeva incoraggiare i profughi terrorizzati, che aveva sempre una buona parola per loro. Il rischio era
alto e lo sapeva: erano in gioco la sua vita e quella della sua famiglia.
Proprio al capezzale di un ebreo da salvare, in ospedale a Carpi, venne arrestato l'11 marzo 1944.
Fu portato prima in Questura a Modena, poi in carcere a Bologna, dove rimase fino al 5 luglio, quando
venne trasferito a Fossoli: non era più prigioniero, ma deportato.
A Fossoli sentiva ogni giorno di più che la situazione non si poteva risolvere così velocemente come aveva
sperato; infatti, i primi di agosto il campo si trasferì a Bolzano, pericolosamente a nord.
Il 5 settembre varcò il confine e arrivò al campo di Flossemburg, in Germania; da qui venne trasferito al
sottocampo di Hersbruck, dove morì il 27 dicembre 1944.
Tante volte aveva sperato e promesso ai propri famigliari il suo ritorno, ma la macchina nazista lo ha
intrappolato, togliendo a lui la vita e a noi il prezioso ritorno di un Giusto.
Aldo Brunacci
Nato nel 1914 da una povera famiglia di contadini, Aldo Brunacci
aveva studiato a Roma, nell'ambiente delle organizzazioni giovanili
cattoliche. All'interno dell'Azione Cattolica imparò a pensare con la
propria testa, senza subire la propaganda del fascismo. Tornato ad
Assisi, assistette ai pestaggi degli oppositori al regime, alle violenze e
agli arbitri, anche nei confronti dei giovani cattolici di cui si occupava
assiduamente.
Con l'Armistizio, nel settembre 1943, Assisi si riempì di ebrei in fuga, italiani e rifugiati dalla Germania,
dall'Austria, dalla Francia. I frati e il vescovo di Assisi, monsignor Giuseppe Placido Nicolini, non ebbero
esitazioni. Più di trecento ebrei vestiti da frati e da suore, nascosti nei sotterranei e nelle cantine,
mimetizzati tra li sfollati (italiani provenienti dalle città bombardate) con documenti falsi, trovarono asilo
nell'antica cittadina di San Francesco. Padre Brunacci, come collaboratore principale del vescovo, si trovò
a gestire questa massa di gente, a nutrirla, proteggerla, procurare documenti falsi, affrontare i nazisti e i
fascisti, spostare quelli più a rischio, curare gli ammalati, occuparsi dei non pochi bambini.
Una rete di solidarietà si estese a parroci e sacerdoti di altre zone dell'Umbria; i cittadini di Assisi
collaborarono in ogni modo; i fratelli Brizzi, proprietari di una tipografia stampavano documenti falsi per
tutti. In una giornata concitata, il vescovo di Assisi, insieme a Brunacci, si trasformò in muratore con
calce e cazzuola, per murare nei sotterranei del Vescovado libri di preghiere, oggetti rituali e preziosi
appartenenti agli ebrei.
Padre Brunacci fu arrestato dalle autorità fasciste, ma grazie all'intervento del Vaticano poté essere
rilasciato dopo un periodo di detenzione. Il vescovo lo spedì a Roma, al sicuro, alla Segreteria di Stato
vaticana.
Padre Brunacci è stato riconosciuto come "Giusto tra le Nazioni" dai Yad Vashem e due alberi, per lui e
per il vescovo Nicolini, ormai scomparso, sono stati piantati nel Viale dei Giusti.
Giovanni Palatucci
Come commissario aggiunto di polizia a Fiume, salvò molti
ebrei, disattendendo alle procedure di arresto per motivi razziali
nell'Italia occupata e non ottemperando agli ordini superiori
provenienti dai nazisti. Si hanno notizie del fatto che nel 1939
riuscì a far fuggire 800 ebrei tedeschi verso la palestina.
Quando dopo l'8 settembre 1943 i tedeschi annessero parte del
nord Italia, facendola diventare Adriatische Kustenland,
Palatucci restò al suo posto, continuando a contraffare i
documenti degli ebrei e permettendo loro di scappare.
Fu arrestato dalla Gestapo il 13 settembre 1944 e venne deportato a Dachau, dove morì il 10 febbraio
1945, pagando con la sua vita la "colpa" di aver salvato persone colpevoli solo di esistere, secondo le
leggi del Reich.
Il giovane Stato di Israele lo proclamò in breve tempo "Giusto tra i Giusti" e solo nel 1995, in Italia fu
conferita una medaglia al valor civile alla memoria.
Il caso della Danimarca
La Danimarca è l'unico caso di nazione a cui venne conferita l'onoreficenza di "Giusta tra le nazioni".
Tutto il popolo danese - compreso il Re Cristiano X e i capi delle chiese - si oppose in modo non violento
ed efficace alla deportazione degli ebrei e alla loro ghettizzazione. Pur essendo la Danimarca una nazione
sotto l'influenza del Reich, non solo non vi furono applicate le leggi razziali, ma non venne mai imposta la
stella gialla ai cittadini ebrei, poiché il Re aveva minacciato di portarla lui per primo in segno di
solidarietà.
Quando i nazisti organizzarono la deportazione degli ebrei residenti in Danimarca per l'1 e il 2 ottobre
1943, le autorità danesi sottrassero alla cattura 7906 persone con un esodo via mare verso la neutrale
Svezia.
Quest'impresa coinvolse cittadini d'ogni genere e fece sì che di tutta la comunità ebraica danese
venissero catturati dalle truppe del Terzo Reich solo circa 500 anziani, per la maggior parte deportati a
Terezin e sopravvissuti grazie alle continue pressioni delle autorità danesi.
L’EREDITÀ DI MOSHE BEJSKI E LA MEMORIA DEI GIUSTI NELLA SCUOLA
I nostri percorsi di storia sui Giusti iniziano con la lettura e la riflessione di un testo base della
memoria del bene: Il Tribunale del Bene, scritto da Gabriele Nissim, che narra la storia di Moshe
Bejski, uno dei salvati da Oscar Schindler e Capo della Commissione dei Giusti di Yad Vashem dal
1970 al 1995.
Moshe Bejski ha dedicato la propria vita a fare il pescatore di perle. I Giusti, come delle preziose
perle, devono essere ricercati, vanno osservati con un occhio speciale perché ognuno di loro ha una
storia che è unica e vale la pena di essere ricordata. Moshe Bejski ha saputo trarre dalla sua
personale esperienza un significato universale e ne ha ricavato una missione per la propria vita.
Moshe Bejski nacque nel Gennaio del 1921 a Dzialoszyce vicino Cracovia. Il primo settembre
1939 i tedeschi attaccarono la Polonia e iniziò per lui un periodo di fuga fino al settembre del 1942,
quando ci fu la deportazione degli ebrei dal suo paese. Fuggì dal primo campo di lavoro e si rivolse
ad un amico polacco, che però lo respinse. A Cracovia Marian Wlodarczyk, un suo ex collega, lo
accolse in casa sua; dopo poco, Moshe, per non metterlo in pericolo, decise di tornare al campo di
lavoro. Nel Gennaio del 1943 venne trasferito al campo di prigionia di Plaszow, la cui esperienza fu
per lui decisiva. Infatti “l’esperienza nel campo di Plaszow - come racconta Nissim - gli aveva
regalato una sensibilità che non tutti gli uomini possiedono. Di fronte al buio e alle macerie si era
abituato a cogliere con rinnovato stupore la minima scintilla di bene, la più fragile parvenza di
umanità”. 1
Decisivo per lui fu l’incontro con Oscar Schindler, nella cui lista riuscì fortuitamente ad entrare. Per
Moshe fu molto difficile ottenere il riconoscimento di giusto per Schindler, lui che aveva salvato
più di mille ebrei. Schindler non corrispondeva a quell’ ideale di giusto che la Commissione di Yad
Vashem ricercava. Non era moralmente ineccepibile e coerente; spesso si ubriacava, sperperava i
suoi soldi ed andava a donne. Era difficile comprendere che in una persona come Schindler era
potuto intervenire un cambiamento, un’inversione di rotta.
Quando Bejski divenne Giudice dei Giusti e esaminava ogni singolo caso,racconta Nissim che
“…Considerava soltanto un elemento: la loro responsabilità nei confronti di un altro essere umano.
Era l’unica forma di bene che contava che per quel tipo particolare di giudice, ed è forse l’unica
che ogni uomo può rintracciare in un altro uomo.”2
Moshe così dedicò la propria esistenza alla memoria del bene, che rischiava di venire annullata
dall’oblio dei contemporanei. Egli non ha dimenticato il male,di cui è stato vittima e testimone, ha
semplicemente fatto vincere il Bene.
Il “profilo” del Giusto è dovuto al lavoro svolto da Moshe Bejski negli anni in cui fu presidente
della Commissione di Yad Vashem. Egli cercava uomini normali, non degli eroi e voleva
sottolineare i piccoli passi che i Giusti avevano compiuto.
Gli uomini che hanno ricevuto questo riconoscimento non sono persone perfette, ma uomini con i
loro limiti e difetti, che di fronte ad eventi oscuri hanno deciso di agire in modo differente rispetto
alla maggioranza. Non si sono voltati dall’altra parte.
Giusto è “colui che non rinuncia ad essere uomo e non vuole accettare, per un meccanismo
misterioso e indecifrabile, di rimuovere il sentimento interiore di compassione per l’altro.”3
1
G. Nissim il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski l’uomo che creò il giardino dei giusti, Mondadori,p. 147.
Ivi, p.144
3
AA. VV Storia di uomini giusti nel gulag, Mondadori, Milano, 2004,p.4.
2
Partendo dalla riflessione sulla banalità del male di Hannah Arendt,abbiamo identificato questo
“misterioso meccanismo” che spinge i Giusti ad agire. Essi, con le loro azioni, aiutano a capire cosa
accade dentro all’uomo quando pensa e cosa spinge un uomo a dire “Questo non posso farlo”,così
anche noi abbiamo potuto comprendere meglio noi stessi. “
La memoria è un compito ed una responsabilità. Conoscere il passato serve per capire che ognuno
di noi ha un ruolo nella storia. I Giusti sono stati uomini normali che con gesti, verrebbe da dire
usuali e ordinari, hanno fatto grandi cose per l’umanità,anche se con le loro azioni non sono riusciti
a fermare il male di cui sono stati contemporanei. Ma se ci poniamo delle domande sulla nostra
responsabilità morale di fronte agli avvenimenti, se reagiamo di fronte ad ogni espressione del
Male, ad ogni accenno di disumanizzazione degli esseri umani, noi li facciamo rivivere e il loro
insegnamento non è andato perduto.
Quest’anno a Cracovia in un incontro pubblico che si è svolto il 9 di Aprile siamo riusciti a
raccontare questa nostra esperienza, a portarla in Polonia. In questa occasione abbiamo voluto
commemorare Moshe Bejski ad un anno dalla morte.
Praticamente sconosciuto nel suo paese di origine,è ritornato attraverso di noi,che con il nostro
impegno e la nostra passione siamo la migliore dimostrazione della verità della sua felice intuizione
della memoria del Bene.
LA STORIA ESEMPLARE DI GIOVANNI PALATUCCI
La storia di Giovanni Palatucci è esemplare per comprendere a fondo le caratteristiche dell’uomo
giusto. Il suo carattere straordinario non dipende dalla particolarità delle vicende di cui fu
protagonista, ma dal modo in cui egli le ha vissute e in cui ha operato. Solo se collocata nel suo
contesto essa può assumere il suo adeguato rilievo.
Giovanni Palatucci nacque a Montella in provincia di Avellino il 31 Maggio 1909 da una famiglia
agiata. Certamente è fondamentale l’aspetto religioso nella formazione di Palatucci: i principi
cristiani che sono radicati in lui fin dalla primissima infanzia determinarono il codice di
comportamento che lo contraddistinse rispetto a tanti altri italiani durante il fascismo e gli
avvenimenti drammatici della seconda guerra mondiale. Da Genova, dove era stato assegnato al
ruolo di vice commissario aggiunto,venne trasferito nella città di Fiume dove ricoprì gli incarichi di
commissario e poi di questore reggente. Diventato responsabile dell’ufficio stranieri, entrò in
contatto con la realtà degli ebrei di Fiume. Nel 1938 vennero emanate in Italia ( e a Fiume) le leggi
razziali.
Di fronte alla svolta antisemita Palatucci fu costretto a scegliere:come uomo e come cristiano
rigettava queste disposizioni, ma come funzionario dello stato era obbligato a rispettarle. Egli decise
di non essere partecipe dell’evolversi in senso razzista del fascismo. Palatucci riuscì a mantenere il
suo ruolo,e a sfruttare le possibilità che gli venivano offerte dalla sua posizione per la sua opera di
salvataggio. Lo aiutò in questo lo zio monsignor Giuseppe Maria Palatucci vescovo di Campagna.
A Fiume egli continuò la sua opera di salvataggio e soccorso anche dopo l’entrata in guerra
dell’Italia nel 1940 a fianco della Germania. In Iugoslavia le zone di occupazione italiana
diventarono ricettacolo di profughi,in gran parte ebrei, da tutto il Centro Europa e Fiume passaggio
obbligato per la fuga in Italia,Palestina,la Svizzera. L’azione di Palatucci si rivelò decisiva per il
salvataggio di migliaia di persone.
Decise di legarsi proprio a quegli uomini che il regime desiderava eliminare,e unendosi ai
perseguitati, non si limitò a salvar loro la vita, ma restituì loro la dignità necessaria per vivere, con
la convinzione che anche loro avevano un ruolo e un posto nel mondo.
L’azione di Palatucci è testimoniata dai salvati. Nel suo racconto Miriana Tramontina ci trasmette le
sensazioni che le suscitava quell’uomo straordinario,non si limita a raccontare quello che faceva. La
sua fede religiosa commuoveva chi lo circondava e manteneva viva in lui la coscienza e, quindi, la
forza di continuare la sua opera. La Tramontina termina così il suo racconto: “Partecipava al dolore
degli altri in prima persona. Il giudizio di mia madre per quest’uomo era che solo chi vive momento
dopo momento il Vangelo della vita può diventare così importante per gli altri, perché una forza e
un coraggio del genere si possiedono soltanto credendo in Dio”.
Palatucci ha messo in gioco la sua persona. La sua scelta, la spinta irrefrenabile di compiere il bene,
il suo impegno nell’opera di salvataggio era categorico, nato dal cuore. Questo dimostra che in lui
l’evidenza del bene era dovuta a quell’abitudine di dialogare con se stessi che si chiama pensiero.
Questo steso dialogo gli ha consentito di riscoprire come vere le sue convinzioni cristiane e di
riconoscere il suo Dio in ogni circostanza. E’stato dunque possibile per noi scoprire quel
meccanismo misterioso per cui un uomo, anziché voltarsi dall’altra parte, si fa carico del dolore
altrui..
Certamente le iniziative di Palatucci non avrebbero avuto buoni esiti se al suo fianco non ci fossero
stati individui disposti come lui a fare il bene come la guardia di finanza Giuseppe Veneroso e
l’agente Americo Cucciniello, Cucciniello riferisce le parole con cui Palatucci gli affidava le
persone da salvare:“trattale con spirito di umana solidarietà.
Nonostante la segretezza che accompagnava il suo agire, Palatucci venne arrestato nella notte tra il
12 e il 13 settembre 1944 “per aver mantenuto contatto col servizio informativo nemico” ,non per
aver salvato degli ebrei. Lo arrestarono con un pretesto, probabilmente perché non trovarono prove
della sua opera di salvataggio, e lo deportarono a Dachau, dove morì poco dopo.
Palatucci con il suo agire ha dimostrato che compiere il bene è sempre possibile, ma anche che non
esistono scorciatoie , perché la via del rispetto e della giustizia richiedono senso di responsabilità,
coraggio e costante senso di servizio verso gli altri esseri umani. Come afferma Roszi Neumann
“egli è andato oltre il comandamento ama il prossimo tuo come te stesso. Palatucci ha amato il suo
prossimo più di sé stesso”.
Nella memoria i Giusti continuano a esistere
Antonia Grasselli
Shoah
Attraverso il progetto di storia “I Giusti tra le Nazioni. Per una nuova memoria della Shoah” una nuova ipotesi
interpretativa della storia e della nostra cultura
«Proprio l’altro giorno ho ricevuto la sua cartolina (da Israele), e ho provato una forte emozione nel sapere
che il nostro lavoro continua a svilupparsi anche “senza di noi”… come mi ha scritto, ha fatto un passo in
avanti, un enorme passo avanti a mio parere… uno scambio culturale (a Yad Vashem) che sicuramente le
avrà dato nuove idee e nuovi spunti per continuare questa iniziativa. La ringrazierò sempre per avermi fatto
vivere la storia, per essere riuscita a trasmettermi l’importanza della memoria e per aver così rinnovato
l’insegnamento di questa importante disciplina… Con sincero affetto. Enrica» (20 settembre 2005). Il lavoro
a cui allude Enrica è quello per il progetto di storia “I Giusti tra le Nazioni. Per una nuova memoria della
Shoah”, che ci ha consentito, studiando, non solo di assimilare una nuova ipotesi interpretativa della storia e
di tutta la nostra cultura, ma soprattutto un modo di sentire noi stessi nel mondo, aprendo così la strada al
cambiamento di sé. Il compito della memoria
Dalla storia di Moshe Bejski (presidente della Commissione dei Giusti di Yad Vashem), a cui si deve il
grande merito di aver trasformato il suo destino personale (lui, un salvato di Oskar Schindler) in un esempio
universale, siamo giunti agli altri Giusti, a Odoardo Focherini, di Carpi, morto a Hersbruck nel dicembre
1944, di cui abbiamo ricostruito la vita, fino ad arrivare a tutti noi, chiamati a essere testimoni a nostra volta,
assumendoci la responsabilità di un giudizio morale sugli avvenimenti. Abbiamo capito che fare memoria è
un lavoro e un compito. La scuola può svolgere un ruolo decisivo in questo senso, perché nella relazione
educativa la riscoperta del passato diviene esperienza presente e questa è esattamente la dinamica di
trasmissione della memoria. Dal progetto sui Giusti che ha prodotto un importante convegno, a cui hanno
partecipato diverse scuole di Bologna e provincia, alla costituzione della rete regionale “Storia e Memoria. La
partecipazione della società civile agli eventi della Seconda Guerra mondiale”, al film Dalla memoria alla
storia. Normandia: i luoghi dello sbarco.
Lavoro straordinario
In poco tempo, un lungo cammino. Ma dove l’origine? L’anno 2003/2004 mi ero avventurata, per la prima
volta, in un progetto sulla applicazione a Bologna della legislazione antiebraica del 1938. Lavoro
straordinario, i cui risultati e materiali sono stati appena pubblicati (Stranieri in patria. Gli ebrei bolognesi
dalle leggi antiebraiche all’8 settembre 1943, Pendragon), che mi ha consentito di incontrare e di conoscere
la comunità ebraica di Bologna. Ho conosciuto dei testimoni delle persecuzioni razziali, dei salvati da Giusti
senza titolo. Ho condiviso il loro dolore, che si rinnova ogni volta che scelgono di raccontare, e la gratitudine
piena di commozione per chi li ha salvati. Sono diventati parte di me. Ho conosciuto, per la prima volta, degli
ebrei e qui è iniziata un’altra avventura, inaspettata, che mi ha condotto nel settembre scorso a
Gerusalemme, a parlare dei Giusti in un Seminario per educatori italiani organizzato dalla Scuola
Internazionale per gli studi dell’Olocausto di Yad Vashem, il Memoriale dell’Olocausto voluto dal Governo
israeliano. L’amicizia con alcuni di loro, in Italia e in Israele, ma anche il semplice riferimento per il lavoro che
insieme svolgiamo, ha la capacità di ricordarmi chi sono, mi dà forza e certezza. Siamo gente che si
appartiene e che si può riconoscere reciprocamente, perché ognuno rimanda alla verità dell’altro e questo
riconoscimento ci porta davanti a Dio.
I Giusti e la Memoria del Bene
Chi salva una vita salva il mondo intero
a cura di Antonia Grasselli - Sante Maletta Numero speciale di Lineatempo
Edizione Cusl Milano
E 17,00
I contributi e le esperienze pubblicate in questo libro sono la documentazione del grande rilievo che, a ogni
livello, può assumere la riflessione sui Giusti e la Memoria del Bene.
Nella prima parte gli interventi di Gabriele Nissim, Moshe Bejski, Sante Maletta, Liliana Picciotto e Matteo
Luigi Napolitano sono un contributo alla riflessione delle implicazioni morali, filosofiche e storiche della
problematica dei Giusti. Nella seconda viene descritto nei suoi contenuti, metodologia e risultati un progetto
didattico realizzato al liceo scientifico “E. Fermi” di Bologna. La terza parte contiene gli articoli pubblicati su
Avvenire dal settembre 2005 al gennaio 2006, importanti per gli elementi di riferimento al contesto italiano
che essi offrono.
Per informazioni:
> sito: www.lineatempo.org
> e-mail: [email protected];
[email protected]
I RAGAZZI EBREI DI VILLA EMMA A NONANTOLA
(1942-1943)
All’inizio della Seconda guerra mondiale, in Germania e in Austria (annessa al Terzo Reich) gli ebrei sono
spogliati di ogni diritto e cacciati ai margini dalla società. Confiscati i loro patrimoni, esclusi da ogni
impiego che non sia di tipo manuale, sono per la maggior parte ridotti in miseria.
Dopo il pogrom del 9 novembre 1938, con sinagoghe incendiate e negozi devastati, circa 30.000 uomini
erano stati deportati nei campi di concentramento, e l’emigrazione, che fino a quel momento aveva
conosciuto timidi movimenti, si trasformò in fuga di massa. Si riducevano però sempre più i paesi disposti
ad accogliere profughi ebrei.
Con lo scoppio della guerra, si passa all’arresto e alla deportazione nei campi di Sachsenhausen,
Buchenwald e Dachau di tutti gli ebrei polacchi maschi di età superiore ai sedici anni. Donne e bambini
finiscono così abbandonati a se stessi, e le famiglie, spesso numerose, sprofondano nell’indigenza. In
questa fase inizia ad intervenire in loro soccorso Recha Freier, fervente sionista e direttrice della
“Jüdische Jugendhilfe” (Assistenza ebraica ai giovani), cui fa capo l’organizzazione di
un’aliyah [letteralmente: elevazione; termine che designa l’emigrazione in terra d’Israele] giovanile. La
Freier visita le famiglie di stanza a Berlino, procura mezzi di sostentamento e partecipa all’organizzazione
di convogli clandestini per la Palestina. Ma nel luglio 1940 viene costretta a fuggire. A Zagabria, dove
ripara, ottiene l’appoggio delle organizzazioni ebraiche locali per il suo progetto: portare in Jugoslavia
quanti più ragazzi possibile, nonostante le difficoltà logistiche che ciò avrebbe comportato, lungo le strade
da lei percorse. Così per 90 ragazzi, in gran parte berlinesi, si profila la possibilità di attraversare i Balcani
e proseguire per la Palestina.
Prima della partenza, Recha è però costretta ad affidare un gruppo di essi - che non può aggregare ai
partenti - a tre giovani sionisti. Uno è Josef Indig di Osijek, membro dello “Hashomer Hazair”,
un’associazione giovanile sionista di ispirazione laica e socialista.
Nell’aprile 1941 le truppe tedesche e italiane
aggrediscono la Jugoslavia, dividendosi il controllo del paese. Zagabria e gran parte della Croazia
finiscono sotto l’occupazione tedesca e, con la conseguente ascesa al potere del regime nazionalista e
razzista degli Ustascia, la situazione per i giovani esuli si fa minacciosa. Indig decide quindi di condurre
43 ragazze e ragazzi in età dai sei ai diciotto anni, provenienti da Berlino, Francoforte, Lipsia, Amburgo,
Vienna e Graz, nella Slovenia controllata dall’Italia; qui trovano alloggio in un vecchio castello di caccia a
Lesno Brdo, vicino a Lubiana.
Le autorità italiane autorizzano l’ingresso e il soggiorno, nonostante la frontiera sia chiusa ai profughi
ebrei. Gioca probabilmente a loro favore la giovanissima età. L’episodio rimane comunque un’eccezione, e
falliranno tutti i tentativi successivi di ottenere, per altri ragazzi ebrei, autorizzazioni legali all’ingresso in
territorio italiano.
La permanenza a Lesno Brdo dura un anno, dal luglio 1941 al luglio 1942. La cura del gruppo viene
dapprima garantita da sei adulti e poi da nove: Indig fa da guida, Marco Schoky (Marek Silberschatz) di
Lodz si presta come economo, Georg Bories (Boris Jochvedson), pianista berlinese, insegna musica. Al
loro mantenimento provvede innanzitutto la Delasem (Delegazione per l’assistenza agli emigranti) di
Genova, fondata nel dicembre 1939 in sostituzione di precedenti comitati assistenziali ebraici. A dirigerla
è Lelio Vittorio Valobra. L’organizzazione si trova ad assistere fino a 9.000 profughi, gran parte dei quali,
dopo l’entrata in guerra dell’Italia, vengono internati in campi o sottoposti al soggiorno obbligato.
La vita al castello è però assai dura. Spesso i ragazzi non hanno di che sfamarsi; i viveri vengono
acquistati in gran parte al mercato nero, oppure presso contadini dei dintorni. Tuttavia a Lesno Brdo,
dopo una lunga interruzione, i ragazzi possono riprendere le lezioni scolastiche. Molta importanza viene
assegnata, per la futura vita in Palestina, allo studio dell’ivrith [ebraico moderno], della storia ebraica,
della letteratura e della musica.
Nei primi tempi giungono ancora sporadiche notizie di madri, sorelle, fratelli deportati in località
dell’Europa orientale annesse alla Germania, ma presto cesseranno.
Nella primavera del 1942 nella zona ha inizio la lotta dei partigiani jugoslavi. Non passa molto tempo e i
combattimenti toccano le vicinanze del castello: di notte spesso si fanno vivi i ribelli, di giorno si
presentano soldati e ufficiali italiani. Vista la situazione, la Delasem decide di trasferire i ragazzi in Italia;
suo rappresentante a Modena è Gino Friedmann, che in passato era stato sindaco di Nonantola. E proprio
qui, in vista del loro arrivo, viene presa in affitto Villa Emma, una imponente residenza di campagna con
46 stanze, all’epoca disabitata e in condizioni precarie.
E’ il ministero dell’Interno ad accordare l’ingresso in Italia del gruppo, che dalla Slovenia in treno,
attraverso Trieste, Venezia, Bologna e Modena, giunge a Nonantola il 17 luglio.
All’epoca del soggiorno dei ragazzi, Nonantola conta circa 10.000 abitanti. Villa Emma, costruita nel 1898
da Carlo Sacerdoti, un proprietario terriero ebreo, si trova ai margini dell’abitato, circondata da circa 7
ettari di terreno coltivato, in origine perlopiù adibiti a parco.
Nulla era stato predisposto per la sistemazione dei ragazzi.
All’inizio sono così costretti a dormire su improvvisati giacigli di paglia, e passano alcune settimane prima
che arrivino cose indispensabili per la vita quotidiana: tra queste, insieme a oggetti di prima necessità, un
pianoforte a coda, così possono riprendere gli insegnamenti di Bories. Anche a Villa Emma, infatti, i
ragazzi seguiranno lezioni scolastiche e per molte ore al giorno saranno occupati nei lavori di casa; il
terreno attorno alla villa permette inoltre di sviluppare una pratica formativa legata agli ideali sionisti,
quella dei lavori agricoli. A istruire i ragazzi provvede Ernesto Leonardi, un contadino del luogo. Dopo
qualche tempo viene anche attrezzato un laboratorio di falegnameria, affidato a Hersz Naftali
Schuldenfrei (ebreo precedentemente internato a Campagna, nel salernitano), che può accogliervi fino a
nove ragazzi per volta.
Nel novembre 1942 il magazzino della Delasem si trasferisce da Genova a Nonantola: esso occupa l’intera
soffitta di Villa Emma, raccoglie aiuti e provvede a inviare pacchi agli oltre 6.000 ebrei internati in varie
località italiane.
Ma ora la Delasem, diversamente da Lesno Brdo, dove Indig aveva avuto piena autonomia nel dirigere il
gruppo, pretende di organizzare la vita dei ragazzi, secondo propri intendimenti e con propri uomini. Lelio
Vittorio Valobra nomina così direttore un giovane laureato in lettere, Umberto Jacchia, al quale Indig
dovrà rispondere. Egli introduce uno stile ispirato alle scuole italiane, decisamente burocratico, fatto di
istruzioni rigide da impartire a collaboratori e ragazzi. Le regole della vita in comune e i compiti di
ciascuno vengono fissati per iscritto. Per l’assistenza medica del gruppo arriva a Nonantola una giovane
dottoressa, Laura Cavaglione, che lavorerà a contatto con Giuseppe Moreali, medico condotto in paese.
Grande significato viene poi assegnato alla vita religiosa, praticamente assente a Lesno Brdo; viene così
predisposta una stanza per le funzioni, con un rotolo della Torah; al sabato e per le festività la
partecipazione ai riti sarà obbligatoria. In seguito si provvede a organizzare la cucina secondo regole
kosher. Le novità introdotte dalla Delasem e lo stile dirigenziale di Jacchia provocano notevoli problemi a
Indig, che si sente emarginato e vede messi a rischio i suoi principi educativi sionisti e democratici. Nel
giro di due mesi si dimette da tutti gli incarichi, limitandosi a insegnare l’ivrith, ma continuando di fatto a
esercitare un forte influsso sui ragazzi.
Essendo vigenti in Italia le leggi razziali, la Delasem teme che contatti frequenti tra i ragazzi e gli abitanti
di Nonantola possano indispettire le autorità locali. Viene perciò fissato un regolamento per le uscite,
secondo il quale si può lasciare la villa soltanto accompagnati da un adulto o con un’autorizzazione scritta
del direttore. Ma i ragazzi finiranno per rispettare sempre meno queste norme, anche perché da parte
delle autorità non vi sono contestazioni. Nascono così numerose amicizie con i coetanei del luogo,
accompagnate dalla benevolenza dei nonantolani.
Nella primavera del 1943 prende corpo il progetto di accogliere a Villa Emma altri 33 ragazzi provenienti
da Spalato (situata sulla fascia costiera dalmata annessa all’Italia). Quasi tutti orfani, arrivano a
Nonantola il 14 aprile 1943, con due accompagnatori, facendo salire a 73 ragazzi e 13 adulti il numero
dei rifugiati, e rendendo più precari gli spazi e gli equilibri interni.
Sarà difficile integrare i due gruppi: pesano diversità culturali e di abitudini, l’età (mediamente più piccoli
gli spalatini) e, soprattutto, la barriera linguistica. Il clima diventa in alcuni casi così aspro che Jacchia
prova anche a separarli, manifestando evidenti difficoltà nel gestire la situazione. Così, su consiglio di
Friedmann, Valobra dà corso ad una sorta di direzione collegiale, composta da Indig, Bories, Schoky e
Armand Moreno (arrivato da Spalato).
La caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, e la nomina di Pietro Badoglio a capo del governo gettano pochi
riflessi sulla vita del gruppo; destano però inquietudine l’istituzione a Nonantola di un ospedale militare
tedesco e la presenza sempre più frequente di soldati per le strade.
L’8 settembre 1943 viene annunciata alla radio la firma dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati:
con l’occupazione tedesca alle porte, a Villa Emma tutti sanno di avere nuovamente la vita in pericolo,
così la sera stessa Indig si reca da Giuseppe Moreali; questi suggerisce di sistemare i ragazzi nel
seminario dell’abbazia, in quel momento praticamente vuoto per le vacanze scolastiche, e si mette in
contatto con l’amico don Arrigo Beccari, tramite fondamentale per convincere il rettore, don Ottaviano
Pelati, ad accogliere i giovani minacciati. Il 9 settembre, con le truppe tedesche già a Nonantola, una
trentina di ragazze e ragazzi raggiungono - per vie traverse, in modo da passare inosservati - il
seminario. Nel giro di poco tempo, le ragazze vengono trasferite in un locale occupato da suore e tutti gli
altri, specie i più grandi e la maggioranza degli adulti, distribuiti presso famiglie di contadini o in case del
centro storico. Si realizza così un rifugio diffuso, che da un lato risponde ad esigenze pratiche, dall’altro si
rivela strategico per l’organizzazione dei nascondigli.
Questa fase dura circa cinque settimane. Indig, che stabilisce nel seminario il suo “quartier generale”,
ammira l’aiuto prestato da sacerdoti e suore; tramite messaggeri, si tiene in contatto con i ragazzi
sistemati nei dintorni; a volte azzarda delle uscite, per affrontare qualche problema o dirimere questioni
urgenti. Molte famiglie, coraggiosamente e generosamente, si trovano a condividere l’abitazione e il
desco con i ragazzi, che per lo più ospitano in condizioni di fortuna, facendoli dormire su giacigli di paglia,
nei fienili o nelle stalle, e impiegandoli nelle attività quotidiane. Tutti gli scampati ricorderanno la
solidarietà dei nonantolani come la pagina più commovente dei loro anni di fuga.
Ma Indig conosce bene il rischio, e sa che questa
situazione non può protrarsi a lungo, perché espone i suoi protetti al pericolo di arresti e retate. Si prende
così in considerazione, dapprima, una fuga verso l’Italia meridionale, già liberata dagli Alleati. Ma a
seguito dell’arrestarsi del fronte sulla linea Montecassino-Ortona, si guarda senza indugio alla Svizzera.
Per valutare la situazione nei pressi del confine, Indig e Pacifici, unico collaboratore della Delasem
rimasto a Nonantola, si recano a Ponte Tresa, dove intercettano dei contrabbandieri disposti, a
pagamento, a guidare il gruppo lungo il fiume Tresa, fino a un punto agevole per il guado, che permetta
di oltrepassare la frontiera (nei pressi della quale stazionano però militari tedeschi
delZollgrenzschutz [guardie confinarie che presidiano le vie di fuga dall’Italia]). Per gli ebrei la procedura,
dopo la cattura, prevede il passaggio dal comando di polizia tedesco di Como, prima della deportazione
ad Auschwitz. L’atteggiamento delle autorità di frontiera elvetiche nei confronti dei profughi ebrei, inoltre,
è spesso ambiguo.
Da Nonantola nel frattempo si organizza la fuga. Prima si dirigono verso il confine tre-quattro gruppetti, a
distanza di due giorni l’uno dall’altro. Ai ragazzi sotto i sedici anni viene concesso l’ingresso, secondo le
norme vigenti in Svizzera, mentre i più grandi, con una sola eccezione, vengono rispediti in territorio
italiano e tornano a Nonantola.
Dopo questo parziale insuccesso, Indig e Pacifici si dirigono su Ponte Chiasso, dove entrano in contatto
con organizzazioni sioniste che operano in Svizzera, le quali si mobilitano per ottenere dal governo
elvetico la concessione del soggiorno per i ragazzi. Nuovamente, sulla scorta di precise garanzie, viene
lasciata Nonantola, e tra il 6 e il 14 ottobre 1943 tre gruppi di 43, 26 e 6 persone raggiungono il confine,
guadando nottetempo il fiume Tresa. Il gruppo più consistente, prima di avere la certezza
dell’accoglienza, trascorrerà due giorni di angosciante attesa in un campo di accoglienza oltrefrontiera.
Otto ragazzi e una ragazza, di età superiore ai
diciassette anni, in accordo con Indig, in precedenza si erano separati dal gruppo per raggiungere gli
Alleati in Italia meridionale. Tre riescono a passare il fronte; uno si legherà ai partigiani nelle Marche,
dove combatterà fino alla liberazione; gli altri quattro e la ragazza raggiungeranno dapprima Roma, per
poi tornare sul finire di novembre a Modena, dove si ricongiungeranno a Pacifici che li guiderà in
Svizzera.
Goffredo Pacifici non passerà la frontiera. Sceglierà di restare in Italia, accettando ancora una volta il
‘mestiere’ difficile e pericoloso del soccorso e dell’aiuto da dare ad altri fuggiaschi. Mestiere decisamente
più duro se a svolgerlo è un ebreo, perché ci si espone all’arresto e alla deportazione. Verrà catturato
dalla milizia fascista a Ponte Tresa, insieme al fratello Aldo, il 7 dicembre 1943. Incarcerati prima a
Varese e poi a Genova, partiranno da Fossoli con l’ultimo convoglio per Auschwitz. Non faranno ritorno.
Tutti i ragazzi si salvano.
L’unico a essere deportato è Salomon Papo di Sarajevo, arrivato con il gruppo di Spalato. Dopo un breve
soggiorno a Villa Emma, era stato ricoverato in un sanatorio sull’Appennino modenese, perché malato di
tubercolosi. L’ultima notizia che si ha di lui è una lettera, inviata a Gino Friedmann il 3 novembre 1943.
Cinque mesi dopo, il suo nome compare nella lista di un convoglio in partenza dal Campo di Fossoli per
Auschwitz, dove sarà assassinato.
In Svizzera ragazzi, ragazze e accompagnatori vengono dapprima distribuiti in diversi campi di
internamento. Indig intende però riunirli nuovamente in un’unica località. Per questo, con l’appoggio di
Nathan Schwalb, rappresentante dell’associazione giovanile sionista “Hechaluz”, e con l’aiuto
dell’Associazione sionista svizzera, individua un albergo a Bex, nella valle del Rodano (con annessi edifici
e terreni adatti per l’addestramento agricolo), dove, all’inizio del 1944, si registreranno i primi arrivi del
gruppo.
A guerra finita, il 29 maggio 1945, un primo convoglio
lascia la Svizzera alla volta della Palestina: ne fanno parte 46 ragazzi accompagnati da Indig. Gli altri
raggiungeranno la stessa meta in un secondo tempo. Non mancheranno altre destinazioni, come gli Stati
Uniti e, in un caso, l’Inghilterra; pochissimi, con parenti ancora in vita, torneranno in Jugoslavia.
Fino al 1947, Villa Emma fornirà periodicamente un approdo a circa cento ebrei che, dopo la liberazione
dei campi di concentramento, attraverseranno clandestinamente il confine italiano nella speranza di
potersi imbarcare per la Palestina. Ne assume la guida, in questo periodo, Marco Schoky, tornato a
Nonantola insieme a Georg Bories e a due ragazze del gruppo originario.
Il salvataggio dei ragazzi ebrei a Villa Emma resta un esempio di solidarietà e di coraggio civile pressoché
unico nello scenario del secondo conflitto mondiale. Diversi e significativi segni ne portano memoria, nel
corso degli ultimi decenni. Nel 1964 Don Arrigo Beccari e Giuseppe Moreali sono stati insigniti del
riconoscimento di Giusti tra le Nazioni; nel 1998, in occasione del 50° anniversario della fondazione dello
Stato di Israele, in onore dell’intera comunità di Nonantola, alcuni degli ex ragazzi hanno piantato cento
alberi nel giardino dedicato all’ebraismo italiano; infine, nel 2003, il Sindaco di Haifa ha intitolato ai
“cittadini di Nonantola” un parco pubblico, su iniziativa di un’ex ragazza di Villa Emma lì residente.
Villa Emma: un racconto per immagini
Progettata dal celebre architetto Vincenzo Maestri, Villa Emma fu costruita nel 1898 in via Mavora, alle
porte di Nonantola, su commissione di Carlo Sacerdoti, un proprietario terriero ebreo di Modena che la
volle come lussuosa residenza estiva di famiglia e la intitolò alla moglie. Già nel 1913, però, Sacerdoti fu
costretto a venderla.
Di seguito, due immagini della villa, risalenti al primo Novecento.
Nella prima, si notano l’ampio giardino che la circondava e, in primo piano, il laghetto.
Nella seconda, in basso, sulla sinistra, sono ripresi i proprietari (Famiglia Sacerdoti).
Rimasta a lungo disabitata, al tempo del soggiorno dei ragazzi ebrei è di proprietà dell’Agenzia
immobiliare Agellus di Milano, da cui la Delasem la prende in affitto.
Nell’immagine a sinistra, del 1942-43, appaiono il colonnato e la terrazza (sulla quale si scorgono alcuni
dei ragazzi) della facciata sud della Villa.
Tra il 1946 e il 1947 (immagine a destra), l’edificio accolse reduci da campi di concentramento;
nell’immagine vediamo un gruppo di ebrei dopo la liberazione.
Villa Emma in un’immagine di oggi (a sinistra), dopo il restauro voluto dagli attuali proprietari (Famiglia
Giacobazzi).
A ridosso dell’ingresso laterale sud della villa, in occasione del 40° anniversario della Liberazione, è stata
apposta una lapide a memoria del soggiorno dei ragazzi ebrei (a destra).
Da sottolineare, nel testo, il richiamo agli ideali di solidarietà e al contributo della popolazione
nonantolana come segno di unione “fra popoli diversi”.
Il numero di “107 ragazzi” allude probabilmente ai passaggi e alla presenza complessiva di persone nel
periodo 1942-43.
Come pecore ci condussero [in ebraico nel testo]
NEGLI ANNI 1942–1943 / 107 RAGAZZI EBREI / PERSEGUITATI E CACCIATI DAI PAESI EUROPEI /
OPPRESSI DAL NAZIFACISMO / A VILLA EMMA E DINTORNI / TROVARONO RIFUGIO E PROTEZIONE /
CON IL GENEROSO E SPONTANEO SOSTEGNO / DI UMANA SOLIDARIETA’ / DEI NONANTOLANI /
RAGGIUNSERO LA SALVEZZA / I CITTADINI DI NONANTOLA / RICORDANO QUESTO EPISODIO DI
AMICIZIA / E DI COLLABORAZIONE FRA POPOLI DIVERSI / CHE LOTTARONO UNITI /
CONTRO GLI ORRORI DELLA GUERRA
21 APRILE 1985 - 40° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE
FILM SULLA SHOAH
LA TREGUA
Anno: 1997
Nazione: Italia - Francia - Germania - Svizzera
Durata: 127 m
Regia: Francesco Rosi
Dal libro (1963, premio Campiello) di Primo Levi (1919-87), sceneggiato da F. Rosi, S. Rulli, S. Petraglia con
l'apporto di Tonino Guerra. Il 27-1-1945 i soldati russi arrivano a Buna-Monowitz (Polonia), una delle
trentanove sezioni del lager di Auschwitz (Oswiecim). Alla fine di febbraio il chimico ebreo torinese Primo Levi
(J. Turturro) comincia il lungo viaggio di ritorno che dura quasi otto mesi tra destinazioni incerte, derive, soste
obbligate, peripezie, vagabondaggi. Dopo un viaggio in treno di 35 giorni il 19-10-1945 arriva a casa, a
Torino. Era assai difficile cavare un film da un libro rapsodico e frammentario di 159 pagine con pochi dialoghi
e trasferire in narrazione audiovisiva una scrittura precisa, concreta, sostenuta da riflessioni da un'alta tenuta
morale, in continua oscillazione tra luce e tenebra, allegria e gravità, io e noi. Rosi e i suoi non ci sono riusciti.
Quando segue il libro, il film è spesso impacciato o banale. Quando inventa, si sente il calcolo mercantile.
Dove non c'è calcolo, subentra il formalismo lirico. Due volte trova la corda dell'epica, ma per rendere la
dimensione di gaiezza, arguzia, gioia persino puerile che in Levi esiste si ricorre agli stereotipi della commedia
italo-romanesca. Tra i personaggi le note positive sono il greco Mordo Nahum di R. Serbedzija, il Daniele di S.
Dionisi e il Primo di Turturro, nonostante la differenza di età e di altezza e il fuoco interiore che cova,
meridionale più che piemontese. Musiche di Luis Bacalov. Dedicato alla memoria di Pasqualino De Santis
(fotografia) e di Ruggero Mastroianni (montaggio), morti durante la lavorazione e sostituiti da Marco
Pontecorvo e Bruno Sarandrea.
SCHINDLER'S LIST
Anno: 1993
Nazione: Stati Uniti
Durata: 195 m
Regia: Steven Spielberg
Dal libro dell'australiano Thomas Keneally La lista. L'industriale tedesco Oskar Schindler, in affari coi nazisti,
usa gli ebrei dapprima come forza-lavoro a buon mercato, un'occasione per arricchirsi. Gradatamente, pur
continuando a sfruttare i suoi intrallazzi, diventa il loro salvatore, strappando più di 1100 persone dalla
camera a gas. E il film più ambizioso di S. Spielberg e il migliore: prodigo di emozioni forti, coinvolgente, ricco
di tensione, sapiente nei passaggi dal documento al romanzesco, dai momenti epici a quelli psicologici. La
partenza finale di Schindler è l'unica vera caduta del film, un cedimento alla drammaturgia hollywoodiana, alla
sua retorica sentimentale. L. Neeson rende con grande efficacia le contraddizioni del personaggio. L'inglese R.
Fiennes interpreta il paranoico comandante del campo Plaszow come l'avrebbe fatto Marlon Brando 40 anni fa.
Memorabile B. Kingsley nella parte dell'ebreo polacco, contabile, suggeritore e un po' eminenza grigia di
Schindler. 7 Oscar: film, regia, fotografia di Janusz Kaminski (in bianconero, tranne prologo ed epilogo),
musica di John Williams, montaggio, scenografia e sceneggiatura. Quel rosso del cappottino della bambina che
cerca di sfuggire al rastrellamento è una piccola invenzione poetica, un esempio del modo con cui gli effetti
speciali possono diventare creativi.
TRAIN DE VIE
Anno: 1998
Nazione: Francia - Belgio - Paesi Bassi
Durata: 101 m
Regia: Radu Mihaileanu
Nel 1941, per evitare la deportazione, gli abitanti di uno shetl (villaggio ebraico dell'Europa centrale) romeno
allestiscono un finto convoglio ferroviario sul quale alcuni di loro sono travestiti da soldati tedeschi e partono
nel folle tentativo di raggiungere il confine con l'URSS e di lì proseguire per la Palestina, Eretz/Israel, la terra
promessa. Ci riescono, dopo tragicomiche peripezie tra cui l'incontro con un gruppo di gitani che, a bordo di
autocarri, hanno avuto la stessa idea. 2? film del romeno Mihaileanu, attivo in Francia, è una tragicommedia di
viaggio sotto la triplice insegna dell'umorismo yiddish (condito di una grottesca ironia critica verso gli stessi
ebrei, i tedeschi, i comunisti), di una sana energia narrativa e di un ritmo di trascinante allegria cui molto
contribuisce Goran Bregovic, il compositore preferito di E. Kusturica, che attinge alla musica klezmer ebraica
dell'Europa orientale. Fotografia del greco Yorgos Arvanitis, l'operatore di Anghelopulos e di Laurent Daillant.
Colorita galleria cosmopolita di interpreti, dialoghi italiani di Moni Ovadia. Non manca una dimensione poetica,
incarnata in Schlomo (L. Abelanski), lo scemo del viaggio che funge da narratore. L'inquadratura finale può
essere la chiave di lettura a ritroso. Grande successo di pubblico e premio Fipresci alla 55a Mostra di Venezia
1998.
LA VITA E’ BELLA
Anno: 1997
Nazione: Italia
Produzione: Cecchi Gori
Distribuzione: Cecchi Gori
Durata: 120 m
Regia: Roberto Benigni
Guido Orefice, toscano montanino ed ebreo, s'innamora sul finire degli anni '30 della maestrina Dora, la
corteggia in modi stravaganti, la sposa. Sei anni dopo nell'intervallo sono venute le leggi razziali (1938), la
guerra e le deportazioni Guido con il figlioletto Giosuè parte per il campo di concentramento. Dora, che ebrea
non è, li segue volontariamente. Per proteggere il figlio dall'orrore, Guido gli fa credere che quel che stanno
vivendo è un gioco a premi con un carro armato in palio. 6? film di Benigni regista, è il più ambizioso, difficile
e rischioso e il migliore: 2 film in 1, o meglio un film in 2 parti, nettamente separate per ambientazione, tono,
luce e colori essenziali i contributi della fotografia ma complementari: la 1a spiega e giustifica la 2a. Una bella
storia d'amore, scritta con Vincenzo Cerami: prima tra un uomo e una donna, poi per un figlio, ma l'una è la
continuazione dell'altra. Il frenetico dinamismo di R. Benigni è felicemente sfogato, la sua torrentizia oralità
ora debordante ora dimezzata. Un'elegante leggerezza distingue G. Durano nel più riuscito dei personaggi di
contorno. 5 Nastri d'argento, 7 nomination agli Oscar e 3 statuette (film straniero, attore per Benigni, musica
per Nicola Piovani).
LA SETTIMA STANZA
Anno: 1996
Produzione: Italia - Francia - Polonia - Ungheria
Durata: 110' (colore)
Regia: Marta Meszaros
Film biografico che narra la vicenda di Edith Stein, ebrea convertita al cattolicesimo divenuta suora, uccisa in
un Lager nazista nel '42 ed elevata agli altari da Giovanni Paolo II nel 1987. Un film pulito e appassionato,
attento ad evitare le trappole della retorica.
JONA CHE VISSE NELLA BALENA
Anno: 1993
Produzione: Italia
Regia: Roberto Faenza
In Jona che visse nella balena il regista sceglie di osservare il mondo in una fase
particolarmente drammatica della storia attraverso gli occhi di un bambino, Jona Oberski,
ebreo olandese, deportato a quattro anni insieme ai genitori, sopravvissuto alla persecuzione
antisemita e oggi autorevole scienziato, autore di Anni d’infanzia, in cui narra le sue memorie.
ROSENSTRASSE
Anno: 2003
Produzione: Germania
Regia: Margarethe von Trotta
Rosenstrasse, il nome della via in cui nel '43, quando le sorti della guerra erano ormai segnate,
furono rinchiusi centinaia di ebrei provenienti dai matrimoni misti con ariani.
Di fronte all'edificio, trasformato in prigione, i loro coniugi hanno dimostrato finché non sono
riusciti ad ottenere la scarcerazione dei loro cari, o almeno dei sopravvissuti (incredibile!).
Per rivivere questa drammatica pagina della storia, la regista, ci presenta Ruth Weinstein
(Jutta Lampe) ormai settantenne che a New York, dove si è trasferita al termine della guerra,
ha appena seppellito il marito. L'evento la riavvicina in maniera traumatica alla sua religione e
per prima cosa decide di opporsi alle nozze della figlia, Hannah (Maria Schrader), con un uomo
di religione non ebraica.
Questo improvviso cambiamento della madre preoccupa Hannah che inizia ad indagare sul suo
passato scoprendo come la nonna fosse stata una delle vittime della Rosenstrasse e di come
sua madre fosse stata adottata da Lena (Katja Riemann) una delle tante anime disperate che
lottava per la liberazione del marito.
Lena, di estrazione nobiliare, vive con ancor maggior orrore gli eventi del nazismo. Ripudiata
dal padre, fervente portabandiera degli ideali del Fuehrer, allontanata da una società che fino a
pochi anni prima l'aveva idolatrata come una delle più promettenti pianiste della Germania, si
trova a patire la fame e le umiliazioni di migliaia di altri disperati.
I film sull'Olocausto hanno sempre una carica emotiva devastante, come potrebbe essere
altrimenti, e questo della von Trotta non fa certo eccezione. Tra l'altro va ascritto alla cineasta
di essere l'unica tedesca ad aver affrontato questo tema, che è particolarmente spinoso per i
teutonici. La visione di Margarethe non è assolutamente parziale e mostra i due lati della
Germania, quella oltran-a-zista e quella della gente comune che vede deportare persone con
cui ha condiviso la vita fino a pochi giorni prima, senza spesso sapere quale fosse il reale
destino di quegli sventurati.
Un grande affresco realizzato con un budget hollywoodiano che si muove continuamente ed
abilmente tra passato e presente, ma sofferente di una lunghezza eccessiva che allunga
l'agonia dello spettatore per poi dargli lo zuccherino finale.
JAKOB IL BUGIARDO
(Jakob the Liar)
Regia: Peter Kassovitz
Produzione: USA
Interpreti: Robin Williams, Alan Arkin, Mathieu Kassovitz
Anno: 1999
Durata: 114' (col)
Tratto dal romanzo di Jurek Becker , è una fiaba sul tema tragico della ghettizazione degli
ebrei dell’Europa orientale ad opera dei nazisti. In un ghetto polacco, Jakob, nell’ufficio
della Gestapo, ascolta per caso alla radio la notizia dell’avanzata dell’Armata Rossa.
Quando comunica il fatto ai suoi conoscenti, tutti credono che egli abbia una radio
nascosta. Nel tentativo di far nascere la speranza nel ghetto egli decide di dare via via
delle notizie completamente inventate sull’esito positivo della guerra
KAPO'
Regia: Gillo Pontecorvo
Produzione: Francia/Italia
Interpreti: Susan Strasberg, Laurent Terzieff, Emmanuelle Riva, Didi Perego, Gianni Garko.
Anno: 1960
Durata: 116' (b/n)
Durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale, Edith, una giovane ebrea francese, viene
deportata in un campo di sterminio. Dopo aver assistito all’uccisione dei genitori, decide di
sopravvivere diventando la responsabile di una baracca. L’amore per un prigioniero russo le farà
ricordare i valori dimenticati nella battaglia quotidiana per la vita.
SWING KIDS - GIOVANI RIBELLI
Regia: Thomas Carter)
Produzione: USA
Interpreti: Robert Sean Leonard, Christian Bale, Frank Whaley, Kenneth Branagh,
Barbara Hershey
Anno: 1993
Durata: 114' (col)
Ci si può opporre al nazismo ballando? E’ successo a un gruppo di giovani legati da
una forte amicizia e dalla comune passione per il Swing, la musica americana che
venne proibita perché degenerata. Il film offre una convincente descrizione della
condizione dei giovani, di fronte al tentativo di nazificazione della società tedesca,
nella Germania degli anni ’30.
ARRIVEDERCI RAGAZZI
(Au revoir les enfants)
Regia: Louis Malle
Interpreti: Gaspard Manesse, Raphael Fejto, Francine Racette, Philippe MorierGenoud, François Berléand.
Produzione: Francia
Anno: 1987
Durata: 103' (col)
E’ un ricordo di scuola dello stesso Malle. Francia, Collegio del Bambin Gesù di
Fontainebleau, gennaio
del ’44. Tra il ragazzo Louis Malle (Gaspard Manesse) e Jean Bonet (Raphael Fejto ),
ebreo nascosto sotto falso nome, si stabilisce un delicato rapporto di amicizia che
viene, però, stroncato sul nascere dalla deportazione del Padre rettore del Collegio
insieme ai piccoli ebrei che aveva nascosto.
L’ arrivederci straziante si rivelerà un irrimediabile addio.
(Leone d'Oro alla Mostra di Venezia)
L’AMICO RITROVATO
(Reunion)
Regia: Jerry Schatzberg
Produzione: Gran Bretagna/Francia/Germania
Interpreti: Jason Robards, Christian Anholt, Sam West, Françoise Fabian.
Anno: 1989
Durata: 110' (col)
Liberamente tratto dall'omonimo libro di Fred Uhlman (pubblicato in Italia dalla casa
editrice Feltrinelli). Germania, anni ’30. Due adolescenti, uno figlio di uno stimato
medico ebreo, l’altro rampollo di una famiglia aristocratica, gli Hohenfelds,
frequentano lo stesso prestigioso ginnasio di Stoccarda. L’appassionata amicizia che
nasce tra i due verrà stroncata dalla dilagante piaga dell’antisemitismo nazista.
L'UOMO DEL BANCO DEI PEGNI
(The Pawnbroker)
Regia: Sidney Lumet
Produzione: USA
Interpreti: Rod Steiger, Geraldine Fitzgerald, Brock Peters
Anno: 1965
Durata: 116' (b/n)
Sol Nazerman (Rod Steiger), un ebreo polacco sopravvissuto allo sterminio nazista, vive in
America gestendo un Banco dei Pegni. Ossessionato dal ricordo, vive chiuso in se stesso. Un
evento traumatico scuoterà la sua apparente incapacità di soffrire e di amare. il film è ritenuto una
delle poche produzioni holliwoodiane che abbiano affrontato il tema della Shoah con rigore, sia
tematico che formale.
DOTTOR KORCZAK
Regia: Andrzej Wajda
Interpreti: Wojciech Pszoniak, Ewa Dalkowska, Piotr Kozlowski.
Produzione: Polonia/Germania/Francia
Anno: 1990
Durata: 113' (b/n)
La tragedia di un gruppo di 200 orfani ebrei nel Ghetto di Varsavia, affidati alle cure
del Dottor Korczak, fino alla loro deportazione, nell’agosto del 1942, nel campo di
sterminio di Treblinka
IL CIELO CADE
Regia: Andrea e Antonio Frazzi
Interpreti: Isabella Rossellini, Lara Campoli, Veronica Niccolai, Jeroen Krabbé, Barbara
Enrichi, Gianna Giachetti, Luciano Virgilio.
Produzione: Italia
Anno: 2000
Durata: 101' (col)
Una storia liberamente tratta dalla vicenda vera di Alfred Einstein (cugino del grande
fisico) e dei suoi, vittime delle SS in ritirata dopo aver rifiutato di fuggire "per rispetto
della propria dignità" nei giorni successivi al 25 luglio 1943.
IL GRANDE DITTATORE
Regia : Charlie Chaplin
Produzione: USA
Interpreti: Charlie Chaplin, Paulette Goddard, Jack Oakie, Reginald Gardiner, Grace
Hale.
Anno 1940
Durata 126 ‘ (b/n)
Un grandissimo Charlie Chapiln nel doppio ruolo del dittatore Hynkel (Hitler) e di un
barbiere ebreo che lotta contro le persecuzioni antisemite e che, camuffato da nazista,
viene scambiato per il primo e in questa veste pronuncia un grande discorso
umanitario. Fu quasi l’unico film americano ad attaccare il nazismo prima di Pearl
Harbor. Coraggiose le analogie, mai camuffate (Hering/Goering, Napoleone/Mussolini),
così come le sequenze realistiche del Ghetto. A Chicago, città che contava una forte
comunità tedesca, fu censurato
IL PIANISTA
Anno: 2002
Durata: h 2.28
Nazionalità: Francia/Germania/Polonia/Gran Bretagna
Regia: Roman Polanski
Il pianista sta suonando il Notturno in do diesis minore di Chopin, quando i bombardamenti
interrompono l’esecuzione. I tedeschi occupano Varsavia.
La famiglia ebrea Szpilman decide di non lasciare la città, fiduciosa nell’intervento degli alleati.
Presto si comprende che i francesi non hanno intenzione di sfondare la linea Siegfried, come gli
inglesi di bombardare Amburgo.
È il settembre del 1939. Iniziano le violenze, le misure restrittive, i rastrellamenti. Gli Szpilman
restano compatti e difendono, quanto possibile, la loro dignità. L’insensatezza degli eventi sembra
garantirne la fine. S’impara che un calcio o un insulto da parte di un tedesco non è un’ignominia, è
la regola.
I cancelli del ghetto di Varsavia vengono chiusi il 15 dicembre del 1940. Nell’agosto del 1942,
nell’Umschlagplatz, centro di raccolta ai confini del ghetto, Wladyslaw viene salvato da un membro
della polizia ebrea, e dice addio alla famiglia che scompare su un carro bestiame. D’ora in avanti
l’unico obiettivo è sopravvivere.
Scappato dal ghetto, si sposta di rifugio in rifugio, finendo per aggirarsi, come il primo uomo, tra le
macerie di una Varsavia rasa al suolo, alla ricerca di un tozzo di pane ammuffito.
Il capitano della Werchmacht Wilm Hosenfeld scopre il suo nascondiglio, ma, dopo averlo sentito
suonare, gli salva la vita.
È il 1945, Varsavia viene liberata dall’Armata Rossa. A causa del pastrano nemico che indossa per
ripararsi dal freddo, il pianista rischia di essere grottescamente ucciso dai soldati polacchi che
inizialmente lo scambiano per un tedesco.
Finita la guerra, Wladyslaw riprese a suonare per Radio Varsavia, che inaugurò la trasmissione col
brano di Chopin che era stato eseguito dal vivo quell’ultimo giorno, come se la guerra e Hitler
fossero stati soltanto un funesto intervallo.
A nulla valse l’appassionata intercessione di Szpilman per aiutare il suo salvatore. Hosenfeld morì
in un campo di concentramento a Stalingrado nel 1953, dopo sette anni di prigionia.
“Ho iniziato la mia carriera di pianista durante la guerra, al Café Nowoczesna, che si trovava in via Nowolipki,
proprio nel cuore del ghetto di Varsavia. Quando nel novembre del 1940 i cancelli del ghetto vennero chiusi, la
mia famiglia ormai da molto tempo aveva venduto tutto quello che si poteva vendere, persino quello che noi
consideravamo il nostro bene più prezioso: il pianoforte. La vita, alla quale quei tempi avevano tolto ogni valore,
mi costrinse tuttavia a vincere la mia apatia e cercare un modo per guadagnarmi da vivere."
Ufficiale della Wehrmacht, Wilm Hosenfeld.
Scrive Hosenfeld: “Perché è dovuta scoppiare questa guerra? Perché bisognava mostrare all’umanità dove la stava
conducendo la sua mancanza di fede. Innanzitutto il Bolscevismo ha ucciso milioni di uomini col pretesto di
introdurre un nuovo ordine mondiale. Ma i bolscevichi potevano agire in questo modo solo perché si erano
allontanati da Dio e dall’insegnamento cristiano. Ora il Nazionalsocialismo sta facendo lo stesso in Germania. Vieta
alla gente di praticare la propria religione. I giovani vengono cresciuti senza fede, la Chiesa viene combattuta,
espropriata dei propri beni. Tutti coloro che la pensano in modo diverso sono perseguitati. Lo spirito libero del
popolo tedesco viene avvilito, uomini e donne sono ridotti a schiavi terrorizzati. La verità è bandita. Nessuno conta
più nulla nel destino del proprio Paese.”
APPARTAMENTO AD ATENE
Tratto dal romanzo di Glenway Wescott "Apartment in Athens" del '45 ed edito in Italia da
Adelphi solo nel 2003, Appartamento ad Atene, opera prima del regista Ruggero Di Paola
(avvocato di professione e cineasta per hobby) con Laura Morante, Richard Sammel,
Gerasimos Skiadaressis, Vincenzo Crea e Alba De Torrebruna.
"Nel 1943, ad Atene, un appartamento viene requisito per ospitare un ufficiale tedesco.
Nell'appartamento vivono gli Helianos, una coppia di mezza età un tempo agiata. Hanno un
ragazzo di dieci anni, animato da melodrammatiche fantasie di vendetta, e una bambina di
dodici.
Con l'arrivo del capitano Kalter, tutto è cancellato. Metodico, ascetico, crudele, Kalter è un diosoldato che impone il terrore. E gli Helianos si sottomettono, remissivi. Sono servi, adesso,
senza altra identità che la loro acquiescenza. La volontà del dio-soldato è il loro unico assillo.
L'appartamento li avvolge come un'epidermide. Poi, di colpo, l'assenza. Il padrone parte per la
Germania, e i servi scoprono che la libertà non ha alcun senso, che la tortura continua.
Quando Kalter torna, è un sollievo. E' cambiato: più gentile, indulgente. Di un'indulgenza che
disorienta. Ma è un fragile equilibrio. Correnti sotterranee di odio agiscono in segreto e
preparano un'agghiacciante vendetta"
Dachau, baracca 8, numero 123343: la testimonianza di
un sopravvissuto
FILM DOCUMENTARIO Gli orrori del campo nazista di Dachau nei ricordi di Enrico
Vanzini
LA CHIAVE DI SARA
La chiave di Sara è un film del 2010 diretto da Gilles Paquet-Brenner. Tratto dall'omonimo
romanzo di Tatiana de Rosnay e interpretato da Kristin Scott Thomas e dalla "bimba-prodigio"
Mélusine Mayance,
Regista: Gilles Paquet-Brenner
Anteprima nazionale: 16 settembre 2010
Data di uscita DVD: 22 novembre 2011
Scritto da: Tatiana De Rosnay
Cast: Kristin Scott Thomas, Mélusine Mayance, Niels Arestrup, Aidan
Quinn,
VENTO DI PRIMAVERA
1942. Estate. Dopo l’invasione da parte delle truppe della Germania hitleriana gli ebrei sono
stati prima obbligati a portare la Stella di David sugli indumenti, e poi sono stati
progressivamente esautorati dai loro impieghi e impediti ad accedere a scuole e luoghi
pubblici. Ma ora Hitler ha deciso di procedere allo sterminio di massa e vuole che il governo
collaborazionista insediato a Vichy gli procuri dalla sola Parigi almeno 20.000 dei 25.000 ebrei
residenti. I suddetti verranno dapprima condotti in campi di raccolta in territorio francese e
poi, una volta ultimati i lavori per i forni crematori nei lager, avviati a morire. Il maresciallo
Pétain aderisce senza difficoltà alla richiesta e la notte del 16 luglio (i tedeschi avevano chiesto
il 14 dimenticando la festa nazionale) la retata si svolge. Tredicimila uomini, donne e bambini
ebrei vengono prelevati dalle loro abitazioni e portati nel Vélodromo d’Hiver, prima tappa del
loro calvario.
Il punto di vista che il film assume è quello di alcuni bambini che vivono nel quartiere di
Montmartre e, in particolare quello del decenne Joseph. Vogliamo concentrarci sull’invito a
vedere il film superando l’atteggiamento che è stato purtroppo fatto proprio da alcuni di quelli
a cui il produttore Ilan Goldman si è rivolto perché partecipassero all’impresa. “È storia
antica”, “Non importa a nessuno”. Non è storia antica e la regista Rose Bosch è riuscita
nell’intento di farcela percepire come purtroppo attuale. Intendiamoci: tutto è filologicamente
coerente con l’epoca con cui si sono svolti i fatti. Fatti che il cinema francese non aveva mai
affrontato con tanta precisa e documentata forza se non in un documentario televisivo e che
ora riemergono come memoria del passato ma anche come monito sul presente.
La Bosch lavora su una tripartizione narrativa. Da un lato Hitler nel suo buen retiro del
Berghof, dall’altro Pétain, Laval e i loro accoliti e, nel mezzo, le famiglie ebraiche colte nella
loro quotidianità all’interno della quale sono stati inoculati ad arte (anche grazie al media più
diffuso all’epoca, la radio) i germi del più irrazionale ma efficace disprezzo per l’altro.
Alimentandolo con la ripetizione delle menzogne in modo da assuefare le menti all’idea della
‘normalità’ dell’emarginazione. Il film non accusa ‘i francesi’ tout court e anzi sottolinea il fatto
che se dei 25.000 ebrei 12.000 sono sfuggiti alla retata lo si deve a parigini che li hanno aiutati
mettendo a repentaglio la propria esistenza. Ma resta comunque impressa nelle retine la
gestione dell’intera operazione da parte di uomini che non indossano le divise delle SS o della
Wehrmacht ma quelle delle forze dell’ordine e militari francesi. Allora per quegli sguardi
infantili diventa ancor più difficile anche solo tentare di darsi una spiegazione di quanto
accade. Così quando si assiste alle scene delle migliaia di esseri umani ammassati con
pochissime cure e senz’acqua nel Velodromo non possono non tornare alla mente le immagini
dello stadio di Santiago del Cile dopo il colpo di stato di Pinochet.
Ma c’è un momento in cui si percepisce lo iato che si è insediato tra realtà e pregiudizio.
Quando il dottor Sheinbaum (interpretato da unJean Reno in cui solidità fisica e morale
formano un tutt’uno) grida dinanzi all’ennesimo sopruso: “Non ne avete il diritto!” è la
coscienza civile, è un’umanità vinta ma non piegata, è la Ragione che grida con lui. Ma in
quello stesso istante lo spettatore ‘sente’ che si tratta di un appello irricevibile da chi sta
dall’altra parte. Una parte per la quale la parola diritto ha perso qualsiasi valore, qualsiasi
possibilità di confronto in cui essa torni a individuare un senso che sia davvero comune.
Chiediamoci se questo svuotamento di significati fondamentali non abbia trovato anche nella
nostra società contemporanea una sua consistenza. Chiediamocelo riflettendo sulla risposta
che ci siamo dati e ringraziando questo film per avere suggerito la domanda
L’UOMO CHE VERRA’
Alle pendici di Monte Sole, sui colli appenninici vicini a Bologna, la comunità agraria locale
vede i propri territori occupati dalle truppe naziste e molti giovani decidono di organizzarsi
in una brigata partigiana. Per una delle più giovani abitanti del luogo, la piccola Martina,
tutte quelle continue fughe dai bombardamenti e quegli scontri a fuoco sulle vallate hanno
poca importanza. Da quando ha visto morire il fratello neonato fra le sue braccia, Martina
ha smesso di parlare e vive unicamente nell'attesa che arrivi un nuovo fratellino. Il
concepimento avviene in una mattina di dicembre del 1943, esattamente nove mesi prima
che le SS diano inizio al rastrellamento di tutti gli abitanti della zona.
Quella di Monte Sole (BO) è la più grave delle stragi fatte dalle truppe tedesche dopo l'8-91943: 771 civili (216 bambini) massacrati dalle SS tra il 22-9 e il 5-10-1944 per aver aiutato
i partigiani della Brigata Stella Rossa. Al centro del 2° film _ prodotto e diretto dal
bolognese Diritti dopo Il vento fa il suo giro _ c'è la bambina Martina che fa da filtro alla
vicenda storica. Da quando le è morto in braccio un fratellino, ha smesso di parlare. Tiene
un diario. Nel dicembre 1943, la sua mamma rimane ancora incinta: quando il fratellino
nasce in settembre, Martina s'impegna a salvarlo: è lui l'uomo che verrà. Il film si chiude
sulla ninnananna che lei gli canta. È un'altra storia di una comunità montana, ma in tempi
tragici. L'assillo del realismo spinge Diritti a far parlare le 2 attrici professioniste e gli altri
interpreti nel dialetto bolognese di allora. Un film sulla Resistenza così non si era mai
visto: senza eroi né eroismi, senza una divisione netta tra "buoni" e "cattivi", con un
impianto antropologico che diventa epico: la guerra raccontata dal basso, dalle sue vittime.
Non mancano gli spunti fantastici, un'ombra di fiabesco in una favola tragica. Non c'è
traccia di militari italiani della Repubblica di Salò. Il puntiglio di verità retrospettiva
permea la mobilissima fotografia di Roberto Cimatti e i costumi "invisibili" di Lia
Francesca Morandini. Come in Olmi, il senso del sacro è profondamente legato alla cultura
contadina e al rapporto con la Natura, ma con una netta dimensione femminile. Scritto con
Giovanni Galavotti, Tania Pedroni. Prodotto da Aranciafilm/Rai Cinema. 3 David di
Donatello: miglior film, produttore e fonico in presa diretta. Distribuito da Mikado. 200
giorni in cartellone al Mexico di Milano.
DALL’ALTRA PARTE DEL MARE
….Sono un essere umano, un essere umano, sono un essere umano che vuole vivere…un essere
umano. E' questo il grido disperato di Ka-Tzetnik 135633 nel suo libro dal titolo "Shiviti". E' la
storia di un sopravvissuto ad Auschwitz (Yehil De-Nur) con il numero marchiato nella carne del
braccio sinistro, arrivato all'estremo limite di degradazione umana che dopo 30 anni ha
accettato di rivivere l'esperienza del campo di concentramento con una terapia a base di LSD,
sottoponendosi a 5 sedute chiamate Cancelli della Memoria. E' uno dei due deportati di
Auschwitz nella messa in scena sulla shoah da parte di una compagnia teatrale, l'altra è Tosca
Marmor, ebrea-polacca intervistata all'inizio del film da Clara che aveva fatto un documentario
su di lei a Parigi, dove entrambe vivevano ed erano diventate intime amiche. Tutto comincia ai
giorni nostri quando Clara che vive ancora a Parigi, viene chiamata dal regista Abele a Roma per
collaborare a questa messa in scena. Si porta con sé il vecchio documentario girato nel '79 e
incontra altri attori che stanno provando. Insieme cercano di impostare i personaggi ma ben
presto sorgono dei contrasti tra Abele e Clara sul modo di fare la rappresentazione: lei vorrebbe
entrare dentro le esperienze singole, lui invece mantenere un tratto oggettivo. A Trieste dove
dovrebbe effettuarsi la messa in scena Clara ne approfitta per cercare suo padre scomparso
quando lei aveva 8 anni. Viene a sapere di un suo passato oscuro. Abele intanto cerca i luoghi
adatti per il suo teatro itinerante, ma non trova più i segni del passato e l'orrore provato
visitando San Sabba, lo fa desistere dall’impresa: non si può esprimere l'inesprimibile e neanche
rappresentarlo. Clara con il padre ritrovato riesce a lasciarsi alle spalle i suoi fantasmi e può
finalmente guardare dall'altra parte del mare…
GENERE: Drammatico
REGIA: Jean Sarto
ATTORI:
Galatea Ranzi, Vitaliano Trevisan, Viviana Di Bert, Alessandra Battisti, Fulvio
Falzarano, Tony Allotta,Paolo Summaria, Dino Castelli
DEFIANCE
Nel 1941 gli ebrei dell'Europa Orientale vengono uccisi a migliaia da nazisti. Tre fratelli polacchi
(interpretati da Daniel Craig, Liev Schreiber e Jamie Bell) riescono a sfuggire alla cattura
nascondendosi nei boschi della vicina Bielorussia, dove si uniranno alla resistenza russa e
costruiranno un villaggio che permetterà di salvare la vita a più di 1200 ebrei. Presto però tra
due dei tre fratelli scoppierà una forte rivalità per la leadership del gruppo che hanno costituito
mentre il terzo rimarrà nel mezzo di questa lotta intestina. Diretto da Edward Zwick, Defiance è
tratto da una storia realmente accaduta.
GENERE: Drammatico, Guerra
REGIA: Edward Zwick
SCENEGGIATURA: Clayton Frohman, Edward Zwick
ATTORI:
Daniel Craig, Liev Schreiber, Jamie Bell, Alexa Davalos, George McKay, Tomas Arana, Mark
Feuerstein,Allan Corduner, Jodhi May, Mia Wasikowska
OPERAZIONE VALKIRIA
1944: tornato in Germania dalla campagna d'Africa, dove è stato ferito gravemente, il colonnello
Claus von Stauffenberg, un aristocratico tedesco, si unisce alla Resistenza ed entra a far parte
dell'operazione Vakyrie, un piano che mira alla presa del potere da parte di un governo ombra
una volta morto Hitler. Von Stauffenberg assumerà un ruolo centrale nel piano: sarà proprio lui a
dover portare avanti il colpo di stato, uccidendo di sua mano il Führer. Il film è ispirato a fatti
realmente accaduti: il vero von Stauffenberg fu a capo di un piano – noto come il Complotto del
20 luglio – che mirava ad abbattere il nazismo e a porre fine alla guerra assassinando Adolf
Hitler.
GENERE: Biografico, Drammatico, Storico
REGIA: Bryan Singer
SCENEGGIATURA: Christopher McQuarrie, Nathan Alexander
ATTORI:
Tom Cruise, Kenneth Branagh, Carice van Houten, Eddie Izzard, Bill Nighy, Terence
Stamp, Thomas Kretschmann, Kevin McNally, David Bamber, Halina Reijn, David
Schofield, Werner Daehn, Christian Berkel, Matthias Freihof, Gerhard HaaseHindenberg, Jamie Parker, Florian Panzner, Manfred-Anton Algrang, Karl-Alexander
Seidel, Tom Wilkinson
IL BAMBINO CON IL PIGIAMA A RIGHE
regia: Mark Herman
Asa Butterfield (Bruno); Jack Scanlon (Shmuel); Amber Beattie (Gretel); David Thewlis (Padre); Vera
Farmiga (Madre); Richard Johnson (Nonno); Sheila Hancock (Nonna); Rupert Friend (Tenente Kotler)
anno: 2008
Germania, anni '40. Bruno è un tranquillo bambino di otto anni che vive con la sua famiglia a
Berlino. Quando suo padre, un ufficiale nazista molto apprezzato dai superiori, viene promosso
con un nuovo incarico, Bruno, con suo grande disappunto, è costretto a trasferirsi con la
famiglia in una desolata zona di campagna. Giunto nella nuova casa, il cambiamento per Bruno
si rivela ancor più difficile del previsto. Solo e senza amici, ignorato anche dalla sorella Gretel,
più interessata alla compagnia del giovane tenente Kotler, Bruno è sempre più triste e
annoiato. Un giorno, spinto dalla curiosità e ignorando le indicazioni della madre che gli
proibisce di esplorare il giardino dietro casa, Bruno si avvicina al recinto di filo spinato che
divide la sua abitazione da una strana fattoria i cui residenti indossano un pigiama a righe. Lo
stesso pigiama a righe che indossa Pavel, il cuoco di casa, che sembra essere l'unica persona
in casa a prendersi cura di lui. Bruno entra così in contatto con Shmuel, un bambino che vive
nella fattoria, con cui inizia ad incontrarsi frequentemente, in gran segreto. L'amicizia con
Shmuel e una serie di avvenimenti e cambiamenti che matureranno nella sua casa, in sua
sorella e nel rapporto tra i suoi genitori, porteranno Bruno verso la perdita dell'innocenza e a
una maggiore consapevolezza del mondo degli adulti con drammatiche conseguenze.
HOTEL MEINA
regia: Carlo Lizzani
Benjamin Sadler, Ursula Buschorn, Federico Costantini, Ivana Lolito, Nando Murolo, Adriano Wajskol,
Federico Pacifici, Ralph Palka, Thierry Toscan. (110’)
anno: 2007
Appena dopo l’8 settembre, presso l’Hotel Meina, sul Lago Maggiore, si consuma una delle più
efferate stragi di civili ebrei, perpetrate dalle SS ai danni dei cittadini italiani.
Regista, storico del Cinema, critico, sceneggiatore, attore (classe 1922), Carlo Lizzani è stato uno
dei direttori della Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, che, alla sua
64aedizione ha voluto omaggiare l’anziano Maestro con la proiezione “fuori concorso” della sua
ultima opera: Hotel Meina. Quest’ultima si inserisce perfettamente in quel percorso di ricostruzione
storico/letteraria/cinematografica dedicato alle tematiche del fascismo e dell’antifascismo, che ha
caratterizzato l’intensa produzione di Lizzani da Achtung! Banditi, sino a Mussolini ultimo atto,
passando per Fontamara; Cronache di poveri amanti; Il Gobbo; L’oro di Roma…
Questa volta l’ispirazione viene dal romanzo omonimo di Marco Nozza cui Lizzani apporta qualche
modifica, quel tanto per suggerire l’idea che anche in quegli anni terribili c’erano persone di
nazionalità tedesca che si adoperavano, a costo della vita, per salvare vite umane e concorrere al
riscatto della dignità e del futuro della Germania stessa. Da un punto di vista strettamente
cinematografico si sottolinea la volontà di non voler calcare troppo su scelte linguistiche ricercate,
bensì confinare il racconto entro i confini rassicuranti di un codice estetico molto vicino a quello
della fiction televisiva. Buono il gruppo degli interpreti, quasi tutti sconosciuti ma credibili e in
grado di restituire emozioni.
SENZA DESTINO
regia: LAJOS KOLTAI
MARCELL NAGY (GYURI KOVES); ARON DIMENY (BANDI CITROM); ANDRAS M. KECSKES (FINN);
JOZSEF GYABRONKA (L'UOMO SFORTUNATO); ENDRE HARKANYI (VECCHIO KOLLMANN)
anno: 2005
Racconto doloroso e dettagliato dell'esistenza in un campo di concentramento attraverso lo
sguardo di Gyuri, un giovane ebreo ungherese. Dopo la deportazione del padre in quelli che
sono creduti semplicemente campi di lavoro, anche Gyuri viene rastrellato sull'autobus che lo
sta portando a scuola. Dopo un periodo passato ad Auschwitz, viene spostato a Buchenwald,
dove viene perseguitato da un kapò ungherese e dove inizia la sua routine di fatica, dolore,
sottomissione e degrado: perde i lunghi riccioli neri, dimagrisce progressivamente, spala sassi,
trasporta sacchi pesantissimi, si lava di rado, contrae la scabbia, gli va in cancrena un
ginocchio, è costretto a dormire vicino ai moribondi e a passare intere giornate in piedi, al
freddo o sotto la pioggia. Eppure riesce a non "perdere se stesso" - come dirà una volta uscito
dal lager, prelevato per miracolo da una fossa comune dalle truppe alleate - né il contatto con
la realtà. Una realtà fatta anche di piccole astuzie per sopravvivere e di momenti che definisce
"piacevoli"...
Critica:
"Un ragazzino di buona famiglia che non sa niente della vita la scopre nel posto più lontano
dalla vita che si possa immaginare: un lager nazista. E' il soggetto solo apparentemente
paradossale di questo film tratto dal romanzo autobiografico del premio Nobel ungherese Imre
Kertész. 'Tutti mi chiedono soltanto dell'orrore', dice il giovanissimo György quando torna a
Budapest miracolosamente scampato alla morte, 'ma è della felicità dei campi di
concentramento che dovrei parlare'. Nel film naturalmente questa felicità non c'è, non si vede,
ma la si intuisce nei vuoti che il grande cineoperatore Lajos Koltaj, qui regista, lascia
sapientemente fra le immagini studiatissime di un film fatto non solo di momenti forti ma di
sguardi, silenzi, interstizi. (...) E' un modo del tutto diverso di affrontare la questione Shoah (lo
stesso Kertész, che preferisce di gran lunga 'La vita è bella' al troppo fittizio 'Schindler's List',
ha esitato a lungo prima di adattare il suo romanzo per lo schermo). Peccato che la musica di
Morricone, così sentimentale, sia per una volta del tutto inadeguata. Ma il film è una vera
sorpresa. Un viaggio al termine della notte che si chiude su una luce fioca e insieme
penetrante. Per chi sappia e voglia vederla, naturalmente." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 26
gennaio 2006)
"Dal romanzo dell'ungherese Imre Kertész, premio Nobel che ha dedicato la vita alla Shoah,
diretto dal candidato all'Oscar Lajos Koltai, direttore di fotografia di Szabò e Tornatore,
musicato con ardore da Morricone, interpretato da un giovane, Marcell Nagy, trovato sulla via
Paal televisiva, il film è una testimonianza sugli orrori dell'Olocausto. Oleografico perché non
sempre arriva nel fondo dell'angoscia ma si ferma alla sua rappresentazione, è diverso: la
vittima, nonostante gli orrori, sopravvive e cerca di ricordare il "positivo" di quella mostruosità.
È sempre utile ricordare, ci vorrebbe, di questi tempi, non un giorno, ma un anno di molte
Memorie." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 27 gennaio 2006)
"Il film di Lajos Koltai (debuttante come regista, già direttore della fotografia di grande livello:
per esempio di Tornatore per 'La leggenda del pianista sull'Oceano') sceglie uno sguardo
giustamente attonito, impassibile perché le cose, i volti, le situazioni parlano da soli, per
trasferire sullo schermo l'autobiografica odissea di Gyuri: tra i rituali familiari anteguerra di un
tradizionalismo ebraico indifeso e inconsapevole, quelli della quotidiana sopravvivenza nel
lager, e l'infastidita indifferenza che il ragazzo con la divisa a strisce e il marchio sulla pelle
trova tornando a casa." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 27 gennaio 2006)
"'Senza destino' ('Fateless'), in concorso un anno fa a Berlino, ritorna sul tema dell'Olocausto
in coincidenza con le celebrazioni della Giornata della memoria. Purtroppo, preso da un punto
di vista specifico, il film è solo un'ennesima illustrazione enfatizzata dalle musiche di Morricone
e funestata da una regia senza scatti degni di nota. Stabilendo che la nobiltà del tema procuri
a prescindere un salvacondotto d'autore, ci sarebbe poco da disquisire: ma siccome esistono
decine e decine di precedenti - tra cui 'Schindler's List' e il recente 'Il pianista' - era lecito
attendersi una visione meno stereotipata, prevedibile e pretenziosa. Fotocopiata dal romanzo
autobiografico del premio Nobel Imre Kertész ('Essere senza destino', Feltrinelli ed.), la
superproduzione europea si è affidata a Lajos Koltai che, peraltro, non fa molto per dimostrarsi
degno della promozione ossia maturato rispetto all'onorata carriera di direttore della
fotografia." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 28 gennaio 2006)
SOPHIE SCHOLL
regia: Marc Rothemund
Julia Jentsch, Alexander Held, Fabian Hinrichs, Johanna Gastdorf, André Hennicke, Florian Stetter
anno: 2005
Nella Germania nazista, a cavallo degli anni 1942-43, un gruppo di studenti universitari di
Monaco di Baviera si attiva per organizzare azioni di propaganda anti-nazista, denunciando
apertamente, anche con volantinaggi, la crudeltà delle leggi razziali, l’inutilità e gli orrori della
guerra, le angherie e i soprusi del regime. Subiranno un processo farsa e finiranno
ghigliottinati.
Gli episodi della Resistenza tedesca sono quasi assenti dalla memoria collettiva occidentale;
eppure i fatti narrati ne La Rosa Bianca non sono del tutto estranei al sottobosco
cinematografico (nel’82 ben due registi Percy Adlon e Michael Verhoeven producono
rispettivamente: I cinque ultimi giorni e Rosa Bianca, mentre risale al 1971 una fiction
televisiva italiana che tratta l’argomento).
Giocando la carta di una ricostruzione scenica rigorosa, quasi totalmente giocata su interni,
stringendo la focale sui personaggi; procedendo per contrasti – da un lato il soffermarsi
continuo sulle simmetrie rigorose delle architetture (e sul significato reale cui queste alludono:
l’Ordine), dall’altro mostrando gli slanci giovanili e l’entusiasmo di chi, quell’Ordine, vorrebbe
abbatterlo – Rothemund realizza una pellicola di discreto spessore, nitida e pulita come quella
gioventù che mette sulla scena. Il linguaggio cinematografico si impreziosisce di slanci teatrali
(la lunga sequenza del “processo”, gli interrogatori di Sophie) e anche la connotazione dei
personaggi rimanda più alla logica delle “maschere” che ad una vera e propria interpretazione.
Si apprezza la bravura di tutto il cast che riesce a dare il meglio in termini di qualità attoriale in
un’opera che costringe, per la sua struttura stile Kammerspiel, ad enfatizzare intensità
espressiva e ripetuta vicinanza alla macchina da presa.
OGNI COSA E’ ILLUMINATA
regia: LIEV SCHREIBER
Elijah Wood, Eugene Hutz, Boris Leskin, Laryssa Lauret. (102’)
anno: 2005
Giovane ebreo americano arriva in Ucraina alla ricerca della donna che salvò suo nonno
durante l’invasione nazista.
Meritati consensi e applausi per il frizzante debutto alla regia dell’attore Liev Schreiber ("The
Manchurian Candidate"; "Al vertice della tensione"; "Kate e Leopold") che, per l’occasione si è
ispirato al romanzo omonimo di Jonathan Safran Foer e ha confessato curiose analogie fra la
sua storia familiare e la trama del racconto. La cifra sottile è quella dell’on the road un po’
scanzonato e balcanico (cui si presta l’esuberante Eugene Huntz, da dieci anni sulla breccia col
gruppo di musicisti-teatranti “Gogol Bordello”), che si colora, col precedere della narrazione, di
sottolineature drammatiche sapientemente dosate sino alla rivelazione finale. Ed è proprio
questo dosaggio calibrato fra ironia surreale e dramma fin troppo reale (anche se rimosso),
assieme ad un taglio volutamente giovanile, a fare di "Ogni cosa è illuminata", una pellicola
godibile, intrigante e, allo stesso tempo, necessaria per recuperare (o acquisire) quella
memoria forse un po’ troppo relegata ai libri di storia o a manifestazioni ed eventi che si
esauriscono nel tempo di una giornata.
“Per la efficace ed emozionante descrizione di un percorso di ricerca giovanile, illuminato dal
passato e dai valori della tradizione”, la pellicola di Schreiber ha ottenuto il riconoscimento, che
da otto edizioni del Festival viene attribuito al film che “maggiormente ha colpito la fantasia dei
ragazzi”, da parte dei Cinecircoli Giovanili Socioculturali e del Comitato per la Cinematografia
dei Ragazzi.
Premio “Lanterna Magica” dei Cinecircoli Giovanili Socioculturali e del Comitato per la
Cinematografia dei Ragazzi.
VINCITORI E VINTI
Vincitori e vinti è un film del 1961 diretto da Stanley Kramer. Il film tratta del
terzo Processo di Norimberga
Regista: Stanley Kramer
Anteprima nazionale: 19 dicembre 1961
Sceneggiatura: Abby Mann
Premi: Oscar al miglior attore, Oscar alla migliore sceneggiatura non originale,
CONCORRENZA SLEALE
Dopo Una giornata particolare (1977), E. Scola ritorna all'anno della promulgazione delle
leggi razziali contro gli ebrei, con un film scritto da lui e da Furio Scarpelli con i due
rispettivi figli Silvia e Giacomo. Storia di due commercianti di stoffe che a Roma abitano e
lavorano nella stessa strada: Umberto, sarto milanese di famiglia cattolica, e Leone,
merciaio ebreo. L'ignominia, non priva di particolari assurdi, del decreto-legge 1728 (17-111938) "Provvedimenti per la difesa della razza italiana" si riflette nelle piccole vicende
quotidiane dei due protagonisti e delle loro famiglie, dei parenti e degli amici. Due i punti
di forza: il set della strada-quartiere, microcosmo di una società ignara prima ancora che
indifferente, distratta o solidale, che racchiude la vicenda; la capacità di illustrare una
legge infame quasi articolo per articolo, calandola in personaggi, casi, aneddoti, in altalena
tra commedia e dramma, tenerezza e dolore, sarcasmo e indignazione. Il bozzettismo tipico
di Scola non manca; c'è un puntiglio persino eccessivo nella ricostruzione d'epoca;
convenzionale e pleonastico il punto di vista infantile, ma i momenti autentici esistono e il
duo Abatantuono-Castellitto è ammirevole per misura e intensità. Premio per la regia al
festival di Mosca; Globo d'oro per la musica (A. Trovajoli); Donatello a L. Ricceri (scene)
CAMMINANDO SULL’ACQUA
Storia di un'amicizia impossibile
DI EYTAN FOX
Tutto comincia con un’immagine da cartolina. La moschea blu con i suoi minareti e il ponte che unisce l’Europa e
l’Asia. Istanbul, insomma. Su un traghetto che porta quattro personaggi. Eyal, il protagonista, e tre comprimari.
Questi ultimi sono una famiglia, araba, sicuramente. Padre con barba, moglie con chador e figlioletto che ancora
aspetta il suo futuro. Eyal si alza, va in bagno. Qui si chiude dentro e tira fuori una piccola valigetta. Dentro di sono
della fiale e una siringa. Liquido rosso riempie uno strumento che di solito è di vita, ma che, è chiaro stavolta
porterà a qualcosa di peggio. I quattro scendono dal traghetto, Eyal passa vicino all’arabo, lo urta, questo cade a
terra. Morto, è chiaro. Le lacrime del bambino segnano la natività dell’orfano e del vendicatore di domani.
Missione riuscita per l’agente del Mossad. Perfettamente riuscita. Ma quando torna a casa, lo aspetta la fine del
mondo. O almeno la fine di un mondo. Sua moglie, a letto distesa, morbida come solo le mogli sanno essere. Ma
non risponde al suo chiamare. Sul comodino un blister di pastiglie svuotato e una lettera. Segni che ancora non si
vogliono comprendere. I segni del suicidio.
Un mese dopo Eyal aspetta una nuova missione. Una missione che non arriverà. I servizi segreti israeliani lo
giudicano troppo instabile ancora per affidargli qualcosa di serio. Eppure qualcosa c’è. Sta arrivando in Israele il
nipote di un nazista. Eyal dovrà fargli da balia turistica per capire se il nonno è ancora vivo, per poter arrivare alla
giustizia prima di Dio.
Eytan Fox compone un film davvero strano, un oggetto non chiaramente definibile. Traveste di leggerezza un
soggetto che poteva essere affrontato in modo assai pesante, gioca con le aspettative del pubblico, rivelando a
poco a poco le vite e il carattere dei suoi personaggi. L’agente del Mossad duro e puro, messo a confronto con
Alex, il ragazzo tedesco che si rivela essere gay e molto rispettoso sia d’Israele sia delle sofferenze palestinesi,
comincia a perdere, molto lentamente, parte delle sue sicurezze. Ma il suo percorso era già cominciato, il
cambiamento era partito con quella lettera di suicidio, il cui contenuto ci sarà rivelato solo alla fine del
lungometraggio.
Il film comunque è riuscito, anche se in certi momenti la sceneggiatura diventa inconsistente e incoerente. Ma
questi difetti sono sopravanzati dal tono che l’autore mette in campo nel mostrare cosa significhi essere tedeschi
in terra d’Israele e ebrei in Germania. I ruoli si scambiano, e ogni personaggio contribuisce alla crescita dell’altro.
Anche se Eyal è quello che ha più da imparare.
Entrambi i protagonisti maschili sono messi di fronte ad un passato che non gli appartiene. Eppure sul quale
sentono di avere delle responsabilità. Il nipote del nazista e l’agente del Mossad. Un’amicizia complicata, ma
possibile. Per questo l’happy end non stona più di tanto. Se è possibile che i due leghino, tutto è possibile nel
mondo. Anche che, forse, il conflitto arabo – israeliano un giorno finisca.
E tutto è legato ad una vicenda in cui entrambi non credono. Cristo che cammina sulle acque. Uno non cristiano,
l’altro ebreo. Uno figlio di una cultura del perdono che non riesce a perdonare, l’altro figlio di un Dio vendicativo
che non può più vendicare. Davvero una strana coppia. Ma una coppia che può camminare sulle acque, se la loro
anima diventa lieve e le loro colpe espiate. Ma non c’è il senso del divino che può alleggerirli dal peccato. C’è solo
la propria coscienza, una coscienza con la quale fare i conti giorno per giorno, un perdono che deve essere dato a
se stessi, la redenzione più difficile. Allora sì, quando si è in grado di espiare di fronte al tribunale della coscienza
che c’è in ognuno di noi i propri peccati, si può finalmente tenere il mare di Galilea sotto ai propri piedi, finalmente
leggeri, finalmente liberi.
Prima di Dio è la formula che il capo di Eyal gli ripete per uccidere il nonno di Alex. Prima di Dio ci sono gli uomini
e non le vendette. L’agente del Mossad lo capisce attraverso la più grande sofferenza che possa essere inferta
all’uomo. Una sofferenza forse non abbastanza sottolineata dal regista, molto preoccupato di dare al
lungometraggio quell’alone pop che gli consente di uscire dal ghetto del cinema di autore. Ma comunque
percepita, sfiorata, accarezzata.
Un progetto strano, questo film. Colonna sonora davvero azzeccata che mischia Springsteen con Gigliola
Cinquetti, per un dramma pop che aiuta a vedere la quotidianità di un paese, Israele, che non riesce a dimenticare
la storia, e che porta sulle sue spalle il fardello di un presente durissimo. Ma è anche un’opera che non dimentica
che ci sono anche gli altri, e le lacrime del figlio dell’agente di Hamas parlano più di mille dialoghi. Da quelle
lacrime nasce la morte, nascono le bombe. Asciugare quelle lacrime non sarà facile. Ma, di certo, è necessario
per camminare sulle acque.
LA FUGA DEGLI INNOCENTI
'La Fuga degli Innocenti' è un film drammatico diretto da Leone Pampucci nel 2004. Il
titolo originale del film è 'La Fuga degli Innocenti'. E' prodotto in Italia. 'La Fuga degli
Innocenti ha una durata di circa 200 minuti.
PERLASCA
SCHEDA DEL FILM “PERLASCA, UN EROE ITALIANO”
Il film “Perlasca, un eroe italiano” ben si inserisce nel tema del Progetto Comenius sulla libertà di religione e
sulla libertà di coscienza. Il tema della libertà di religione viene toccato in quanto tratta della persecuzione
degli ebrei che, sebbene fosse iniziata come persecuzione della razza ebrea, ben presto, vista la labilità e la
difficoltà di definire un tale termine, “la razza” ebrea, venne ad identificarsi con la persecuzione di coloro
che professavano la religione ebrea. Il culto dell’ ebraismo era consentito solo nei ristretti confini del ghetto,
e nel film ci sono almeno due scene in questo viene chiaramente visto.
Più interessante è forse però il tema della libertà di coscienza esemplificato dal percorso interiore di
Giorgio Perlasca che dall’adesione incondizionata al fascismo passa ad una riflessione critica su di esso e,
quando si trova nelle circostanze narrate dal film, non esita ad aiutare e a salvare la vita a migliaia di ebrei a
pericolo della sua stessa vita e in contraddizione alle leggi di quel regime che aveva appoggiato e per il quale
era anche andato a combattere volontario in Spagna. Ad un certo punto del film Farkas, l’avvocato
dell’ambasciata spagnola gli chiede com’era finito a combattere volontario in Spagna e Perlasca risponde:
“Volevo combattere il comunismo; avevo letto che i comunisti bruciavano le chiese e sono partito.
Io credo che la gente abbia il diritto di pregare come e dove vuole e quello che pensavo allora delle
chiese lo penso adesso delle sinagoghe. Questa frase esemplifica bene entrambi i temi di cui qui stiamo
parlando, il diritto di ognuno di professare la religione in cui crede, ma anche il diritto di ognuno ad operare
secondo coscienza quando le idee in cui ha creduto o che ha professato lo pongono in contraddizione con se
stesso causando una crisi di coscienza.
SCHEDA FILM
TITOLO: PERLASCA, UN EROE ITALAINO
ANNO DI PRODUZIONE:2002
REGISTA:Alberto Negrin
NAZIONE: Italia
LINGUA: Italiano con sottotitoli inglesi.
DURATA: 123 minuti.
SCENEGGIATORI: Enrico Deaglio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli.
Il film “Perlasca, un eroe italiano” è stato girato dal regista Alberto Negrin nel 2002 ed è una co-produzione
di Rai fiction, France 2 e Focus Film. Il film narra la vicenda reale, portandola alla luce dall’oblio in cui era
caduta, di Giorgio Perlasca, un italiano che si trovava a Budapest per conto di una ditta italiana che
importava carne per l’esercito italiano nel 1944, quando i nazisti ungheresi prendono il potere con l’aiuto dei
tedeschi, e, spacciandosi per il Console spagnolo, riesce a salvare 5200 ungherese di religione ebraica. La
parte principale, quella di Perlasca, è interpretata magistralmente da Luca Zingaretti, uno dei più validi attori
italiani dei nostri tempi, ma altri interpreti degni di nota sono Amanda Sandrelli nel ruolo di Madga Levi,
un’ebrea ungherese, Franco Castellano, nel ruolo di Adam, un altro fuggiasco ebreo-ungherese,
Giuliana Loiodice nel ruolo della segretaria dell’ambasciata spagnola Madame Tournè, Jerome Hanger nel
ruolo dell’avvocato dell’ambasciata spagnola Farkas, Mathilda May nel ruolo della Contessa ungherese
Eleonora e GyorgyCserhalmi nel ruolo del tenente nazista Bleiber.
Il film, come abbiamo detto, è ambientato in Ungheria negli ultimi mesi della II Guerra Mondiale, quando le
Croci Frecciate, i nazisti ungheresi, prendono il potere con un colpo di stato appoggiato dai tedeschi e
iniziano la persecuzione e deportazione in Germania di migliaia di ebrei ungheresi. Perlasca, che si trovava a
Budapest come impiegato di una ditta italiana di Trieste che importava carne per l’esercito italiano, non
avendo aderito alla Repubblica Sociale Italiana, ma essendo rimasto fedele al re, è ricercato dalle Croci
Frecciate e cerca di fuggire. Viene aiutato da una contessa ungherese, Eleonora, che lo indirizza alla clinica
del dottor Balsh, un suo amico medico che sta cercando di salvare la vita ad alcuni ebrei; qui anche Perlasca
trova rifugio e viene in contatto con un gruppo di ebrei ungheresi, fra cui Madga Levi e sua figlia Lili.
Scoperto dalle Croci frecciate e costretto di nuovo alla fuga, Perlasca si ricorda di un documento rilasciatogli
dal Generale Franco come segno di gratitudine per la sua partecipazione alla guerra civile spagnola in cui si
afferma che in qualunque momento e in qualunque circostanza ne avesse avuto bisogno avrebbe potuto
avvalersi dell’aiuto della Spagna. Recuperato il documento, assieme ad altre sue cose e ai soldi della ditta per
cui lavorava, si reca all’Ambasciata spagnola dove otterrà la cittadinanza spagnola, un regolare passaporto e
una lettera d’accredito con qualifica di funzionario dell’ambasciata spagnola. E’ a questo punto però che
Perlasca chiede anche una sistemazione per Madga Levi e sua figlia Lili in una delle case protette
dell’ambasciata spagnola che godevano dell’extraterritorialità e in cui avevano trovato rifugio alcuni ebrei
ungheresi (di queste case protette ne esistevano altre di altre nazioni quali la Svezia, il Portogallo, la Svizzera
e la Città del Vaticano).
Da questo momento in poi, non riuscirà più a sottrarsi a quello che sente come suo compito, quello cioè di
salvare la vita a quanti più ebrei possibile. Quando un’incursione delle Croci frecciate nella casa protetta
dell’ambasciata spagnola requisirà gli ebrei che avevano trovato rifugio in essa per deportarli in Germania,
non esiterà a corrompere l’ufficiale addetto a questa operazione usando i soldi che la ditta per cui lavorava
gli aveva dato per comprare del bestiame, cosi come corromperà un altro ufficiale per strappare altri ebrei da
una casa di tortura.
Quando l’ambasciatore spagnolo lascia Budapest per riparare in Svizzera, dal momento che lasciare aperta
l’ambasciata spagnola in Ungheria equivaleva a riconoscere di fatto il governo dei nazisti ungheresi, Perlasca
non esita a fingersi Console spagnolo per proteggere gli ebrei delle case protette dalle incursioni delle Croci
frecciate. In un incontro con il loro comandante,Vaina, riesce anche a strappare l’incolumità per tutti gli ebrei
sefarditi (cioè di antica origine spagnola e a cui era stata concessa la cittadinanza spagnola con la legge
Rivera del 1924 a risarcimento dell’esodo causato 400 anni prima dalla regina Isabella) presenti nelle case
protette spagnole in cambio dell’accredito di un diplomatico ungherese in Spagna. Ottenuta questa
concessione, lui e la segretaria dell’ambasciata spagnola si mettono a scrivere quante più lettere di protezione
possibile per cercare di salvare più ebrei possibile.
Anche quando Perlasca otterrà dall’ambasciatore spagnolo in Svizzera un lasciapassare per tornare in Italia,
preferirà rimanere a Budapest nel tentativo di portare quanti più ebrei possibile con sé in Italia. A questo
punto però la situazione precipita, poiché i Russi sono ormai alle porte di Budapest e la stanno bombardando
pesantemente. La città è in preda all’anarchia. Alcuni potenti ungheresi cercano la salvezza scappando,
alcune bande di nazisti scorazzano per la città compiendo le ultime atrocità nei confronti degli ebrei.
Perlasca viene a conoscenza dell’intenzione del comandante Vaina di minare le case del ghetto, di
incendiarle e di uccidere gli ebrei che riescono a scappare mitragliandoli all’uscita dal ghetto. Perlasca
riuscirà a sventare questo piano criminale patteggiando la salvezza degli ebrei del ghetto in cambio
dell’incolumità che lui promette a Vaina e alla sua famiglia una volta che i Russi saranno entrati a Budapest
(gli promette un salvacondotto per lasciare l’Ungheria e riparare in Spagna). Quando i Russi infine entrano a
Budapest per Perlasca, dopo aver salvato migliaia di ebrei, è di nuovo tempo di fuggire perché né come
italiano né come spagnolo è ben visto dai vincitori. Come gli dice il maggiore ungherese Gluckmar in una
delle sequenze finali del film:” cambiano i vincitori, ma lei rimane sempre dalla parte degli sconfitti”.
Particolarmente commoventi sono le parole con cui si chiude il film, pronunciate da Lili Levi, una delle
bambine da lui salvate:
Fin dalla prima volta che lo vidi fare quello che faceva, ho pensato che lui fosse uno dei trentasei Giusti. E’
una storia della Bibbia che mio padre mi raccontava quando ero piccola; diceva che in qualunque momento
della storia nel mondo ci sono trentasei Giusti ed è per loro che Dio non distrugge il mondo. Nessuno sa chi
sono e nemmeno lo sanno loro stessi che però sanno riconoscere la sofferenza degli altri e se la prendono
sulle spalle.”
Finito il film, vengono riproposte le battute finali dell’intervista che Giovanni Minoli aveva fatto al reale
Perlasca in uno programma a lui dedicato dopo che le sue gesta, rimaste ignote per decenni, erano venute alla
luce: “Vorrei che i giovani si interessassero a questa storia unicamente per pensare oltre a quello che è
successo, a quello che potrebbe succedere e sapersi opporre, eventualmente, a violenze di questo genere”.
Il rifugio - Haven
Regia di John Gray
La vera storia di una donna, Ruth Gruber che attraversa l'Europa per scortare 1000 ebrei, vittime della
guerra negli Stati Uniti dove si batterà per i loro diritti.

Genere: Drammatico

Regia: John Gray

Attori: William L. Petersen, Bruce Greenwood, Colm Feore, Hal Holbrook, Natasha
Richardson, Anne Bancroft, Henry Czemy, Martin Landau

Colori: Colori

Anno di produzione: 2001

Area: Area 2 (Europa/Giappone)

Durata: 120'

Nazione: Stati Uniti
IN DARKNESS
“In Darkness” racconta la storia vera di Leopold Socha, operaio del sistema fognario e ladruncolo a Lvov,
nella Polonia occupata dai Nazisti. Dopo essersi imbattuto in un gruppo di ebrei nelle fogne della città,
Socha accetta di nasconderli per denaro. Quello che inizia come un mero accordo “economico” prende,
però, una piega inaspettata. Tutti dovranno trovare un modo per scampare alla morte nei 14 mesi vissuti
in un continuo stato di allerta.
Regia:Agnieszka Holland
Sceneggiatura:David F. Shamoon
Musiche:
Antoni Komasa-Lazarkiewicz
Fotografia:
Jolanta Dylewska
Montaggio:
Michal Czarnecki
Scenografia:
Erwin Prib
Costumi:
Katarzyna Lewinska, Jagna Janicka
Soggetto:
Robert Marshall
Durata:
145 min
Data uscita in Italia:
24 gennaio 2013
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