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Atti politici e tutela giurisdizionale. L`ultimo diritto

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Atti politici e tutela giurisdizionale. L`ultimo diritto
8 APRILE 2015
Atti politici e tutela giurisdizionale.
L’ultimo diritto
di Giusy Piacente
Dottoranda di ricerca in Teoria generale del processo amministrativo, civile, penale,
tributario e costituzionale – LUM Jean Monnet – Casamassima (Ba)
Atti politici e tutela giurisdizionale.
L’ultimo diritto*
di Giusy Piacente
Dottoranda di ricerca in Teoria generale del processo amministrativo, civile, penale,
tributario e costituzionale – LUM Jean Monnet – Casamassima (Ba)
Sommario: 1. Introduzione. 2. I passaggi giurisprudenziali. 3. Atto politico e profili di tutela
giurisdizionale. 4. Indirizzo politico e tutela giurisdizionale. 5. Il TAR entra nel merito. 6.
Conclusioni
1. Introduzione
La sindacabilità o insindacabilità degli atti politici e il discrimine con l’atto amministrativo pone
differenti questioni d’interpretazione e di tutela giurisdizionale. Il caso emblematico è dato dalla
vicenda riguardante l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti italiani (d’ora in poi UAAR),
che racchiude e solo in parte risolve l’annosa disputa relativa ai margini di discrezionalità
dell’attività politica ed amministrativa del Governo e dei relativi provvedimenti.
La questione si è imposta negli ultimi, ed è stata in particolare alimentata da numerosi interventi
giurisprudenziali e dottrinali, i quali hanno posto l’accento sulla portata normativa dell’art. 7 (c. 1,
ult. per.) del d.lgs. 2 luglio 2010 (n. 104), lì dove si afferma che «non sono impugnabili gli atti o
provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico». La disposizione riproduce
l’abrogato art. 31 del R.d. 26 giugno 1924 (n. 1054), Testo unico sulle leggi del Consiglio di Stato,
laddovve si disponeva che «il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non è ammesso
se trattasi di atti e provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico».
Il presente contributo, inquadrando dapprima il percorso seguito dall’UAAR in relazione alla
richiesta di avviare le trattative con il Governo italiano per la stipulazione di un’intesa con lo
Stato (ex art. 8, c. 3, Cost.), si soffermerà sulla natura di atto politico, tenendo anche conto della
giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (Corte EDU). Seguirà l’analisi dei profili di
tutela giurisdizionale sollevati dalla sentenza del TAR Lazio (Sezione Prima) del 3 luglio 2014 (n.
*
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Articolo sottoposto a referaggio.
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7068) che, al termine di un corposo filone giurisprudenziale, aggiunge un altro tassello ad una
vicenda che si trascina da più di ventitré anni.
2. I passaggi giurisprudenziali
L’UAAR è costituita nel 1987, e dal 13 luglio 2007 è legalmente qualificata come associazione di
promozione sociale. Nel proprio Statuto si definisce come associazione filosofica non
confessionale, mutuando palesemente la terminologia utilizzata dall’art. 17 del Trattato sul
Funzionamento dell’Unione europea (TFUE)1. Sin dai primi anni della sua costituzione, l’UAAR
ha cercato di inoltrare agli organi competenti la richiesta di intraprendere le trattative per la
stipulazione dell’intesa, ricevendo sempre risposte negative, fondate sulla non equiparabilità, ai
sensi dell’art. 8 Cost., tra confessioni religiose e organizzazioni ateistiche.
Il filone giurisprudenziale prende infatti avvio nel momento in cui l’associazione in questione
chiede di stipulare un’intesa con lo Stato. Tale richiesta risale al 1991 quando l’UAAR formula
una prima istanza, respinta con una determinazione del Sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio dei Ministri2. Segue il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con il quale
l’UAAR rileva che, in base all’art. 2 (lett. l) della legge 23 agosto 1988 n. 400, spetta al Governo il
compito di esprimersi con atto motivato sul diniego di avviare le trattative per la stipulazione di
una intesa con lo Stato3. Il ricorso viene accolto sulla base della rilevata incompetenza dell’organo
emanate l’atto di diniego: gli atti concernenti i rapporti previsti dall’art. 8 della Costituzione sono
soggetti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri. Nel 2003 il Consiglio dei Ministri con
delibera respinge la nuova richiesta, sulla base del fatto che l’UUAR non abbia natura di
confessione religiosa ex art. 8 Cost. In quest’occasione il Governo si sofferma sulla professione di
ateismo che, pur essendo tutelata dall’art. 19 Cost., non può essere regolata «in modo analogo a
quanto esplicitamente disposto dall’art. 8 Cost.», consacrato alle sole confessioni religiose. E
questo perché le confessioni sono definite come «un fatto di fede rivolto al divino e vissuto in
comune tra più persone che lo rendono manifesto alla società tramite una particolare struttura
istituzionale»4.
Su cui si veda da ultimo M. LUGATO, L’unione europea e le Chiese: l’art. 17 TFUE nella prospettiva del
principio di attribuzione, del rispetto delle identità nazionali e della libertà religiosa, in ivi, pp. 305-322. M.
VENTURA, L’articolo 17 TFUE come fondamento del diritto e della politica ecclesiastica dell’Unione europea, in
Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2014, n. 2, pp. 293-304.
2 Atto protocollato DAGL 1/2.5/4430/23 e comunicato all’UAAR con lettera datata 20 febbraio 1996.
3 Si veda sulla questione il Consiglio di Stato, Parere 29 ottobre 1997, n. 3048.
4 TAR Lazio, Sezione Prima, sentenza 03 luglio 2014, n. 7068
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La determinazione del Governo è così impugnata con ricorso al TAR Lazio che, con sentenza n.
12539 del 2008, la definisce un atto puramente politico, rispetto al quale rileva l’immunità
giurisdizionale5. Dopo tre anni interviene il Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 6083 del
2011, nega la natura esclusivamente politica alla decisione governativa, contestandone l’assoluta
discrezionalità. Secondo tale arresto giurisprudenziale il diniego di avviare negoziati ex art. 8
comma 3 Cost., non può sottrarsi al controllo del giudice. Ciò è possibile solo quando in un atto
si rinvengano, contestualmente, due requisiti a carattere soggettivo e oggettivo:
1)
quando l’atto proviene da un organo di vertice della Pubblica Amministrazione,
individuato fra quelli preposti all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica;
2)
quando l’atto riguarda la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei
pubblici poteri, nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione6.
Soddisfatto il primo attributo, quello soggettivo, il Consiglio di Stato ritiene il diniego di avviare le
trattative per la stipulazione di un’intesa non oggettivamente definibile come atto politico. Esso è
pertanto suscettibile di tutela giurisdizionale.
In seguito a tale pronuncia, il Consiglio dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato,
propone ricorso per Cassazione, insistendo sulla natura assolutamente discrezionale del diniego e,
conseguentemente, sulla violazione e/o falsa applicazione della disposizione di cui all’art. 31 R.d.
16 giugno 1924 n. 1054, i cui contenuti sono transitati nell’art. 7 (c. 1, ult. per.) del d.lgs 2 luglio
2010 n. 1047. L’Avvocatura ritiene che il rifiuto governativo di avviare i negoziati sia un atto
politico insindacabile, e che le intese siano una condizione di legittimità costituzionale della legge
che disciplina i rapporti tra Stato e confessioni religiose, ai sensi del comma 3 dell’art. 8 Cost.:
pertanto, le intese non sono valutabili sotto il profilo della conformità a preesistenti regole
giuridiche. L’Esecutivo sarebbe così libero di non dare corso in sede legislativa a un’intesa,
benché regolarmente stipulata. Si aggiunga che le confessioni sono libere di organizzarsi,
indipendentemente dagli accordi lo Stato ex art. 8 Cost.: la mancanza di quest’ultimo non
compromette la garanzia di eguale libertà religiosa e l’affermazione di un pluralismo confessionale
(art. 8, comma 1, Cost.).
L’art. 7, c. 1’ ultimo periodo del D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo)
dispone infatti che «non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del
potere politico). Questa disposizione ribadisce quanto già previsto dal previgente art. 31 del Regio decreto
26 giugno 1924, n. 1054.
6 Si veda Consiglio di Stato, sez. V, sent. 23 gennaio 2007, n. 209; Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 12
marzo 2001, n. 1397; Consiglio di Stato, sez. IV, sent., 29 febbraio 1996, n. 217.
7 «Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico».
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La Cassazione rigetta il ricorso e smentisce le «suggestioni utilizzate da parte ricorrente in
memoria» 8 . In questa sede, il Supremo giudice supera la portata specifica del contenzioso,
valorizzando la tradizionale funzione nomofilattica delle Sezioni Unite 9 . Così facendo, la
Cassazione fornisce un importante contributo nella comprensione del ruolo e della funzione
dell’istituto dell’intesa nel nostro ordinamento costituzionale.
L’ultimo passaggio giurisprudenziale viene segnato dalla sentenza del luglio 2014, attraverso la
quale il TAR Lazio si è confrontato con le determinazioni del Consiglio di Stato e della
Cassazione a Sezioni Unite, dovendo necessariamente intervenire nel merito della questione.
Prima però di affrontare le problematiche sottese a questa decisione, sembra opportuno
soffermarsi sulla qualificazione del provvedimento con cui il Governo rifiuta di avviare le
trattative per la stipulazione di un’intesa con l’UAAR.
3. Atto politico e profili di tutela giurisdizionale
Sotto quest’aspetto è importante richiamare le motivazioni delle Sezioni Unite che, nel caso di
specie, solcano l’orientamento largamente condiviso in giurisprudenza 10 . Tale orientamento
circoscrive l’area degli atti politici in ambiti notevolmente ristretti, come quelli che afferiscono ai
rapporti internazionali o a un’espressa disposizione costituzionale11.
Va detto che, sulla scorta della storia normativa francese, la nozione di atto politico si afferma
con la legge Crispi del 1889 relativa l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato12. Dagli
Corte Cass., Sez. Un. civ., sent. 28 giugno 2013, n. 16305/2013, su cui per tutti si veda N.
COLAIANNI, Ateismo de combat e intesa con lo Stato, in il Diritto ecclesiastico, 2013, p. 19 e ss..
9 Come ribadito dall’art. 65 del R.d. 30 gennaio 1941, n. 12, sull’Ordinamento giudiziario (secondo il quale «la
Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e
l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle
diverse giurisdizioni»), sulla cui attuazione in sede processo civile è di recente intervenuto il D.lgs 2
febbraio 20006, n. 40.
10 Su punto per tutti si veda S. FORASASSI, Rassegna della giurisprudenza dei Tribunali amministrativi regionali su
“l’atto politico, in «Nuove autonomie», 2009, n. 1, pp. 289 ss.;. M. DEL SIGNORE, Commento art. 31 del T.U.
del Consiglio di Stato, in Commentario breve leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di A. ROMANO, R.
VILLATA, Padova, CEDAM, 2009, p. 1484; D. PERUGINI, Sul c.d. atto politico come atto non impugnabile, in
L’invalidità amministrativa, a cura di V. CERULLI IRELLI, L. DE LUCIA, Torino, Giappichelli, 2009, pp.
528 ss
11 A. MARIA SANDULLI, Atto politico ed eccesso di potere, «Giurisprudenza completa della Corte suprema di
cassazione – Sezioni civili», XXII, 1946, II, pp. 521 ss. Cfr. il più recente D. VAIANO, Gli atti politici, in Codice
della giustizia amministrativa, a cura di G. MORBIDELLI, Milano, Giuffrè, 2005, p. 207.V. CERULLI
IRELLI, Politica e amministrazione tra atti “politici” e atti “di alta amministrazione”, «Diritto pubblico», 2009, n. 1,
p. 101-134, p. 121, nel quale si auspica l’abolizione dell’art. 31 T.U. del Consiglio di Stato.
12 Sezione effettivamente istituita con la relativa legge del 31 marzo 1889, n. 5992, su cui per tutti si veda
Atti del Convegno Celebrativo Cento Anni di Giurisdizione Amministrativa: per il centenario dell'istituzione della IV
Sezione del Consiglio di Stato, Torino 10-12 Novembre 1989, Napoli, Jovene, 1996, passim.
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atti preparatori emerge l’idea per cui l’attività del Governo non è vincolata al controllo
giurisdizionale in quanto i relativi atti, «essendo essenzialmente diretti a tutelare, sì nell’indirizzo
degli affari interni che nelle relazioni coi potentati stranieri, gli interessi e le necessità dello Stato,
hanno con gli interessi privati dei rapporti meramente occasionali o non ne hanno alcuno»:
escluso quindi «un interesse privato direttamente offeso, manca la materia del giudizio, manca la
persona cui possa riconoscersi l’azione per promuoverlo» 13 . Da tale discussione emergono
attualissimi i nodi problematici sottesi alla nozione di atto politico che, seppur a legislazione
invariata, da quel momento sarà soggetto a mutevoli orientamenti giurisprudenziali14.
Vero è che gli elementi essenziali della legge 31 marzo 1889 n. 5992, istitutiva della IV Sezione
del Consiglio di Stato, saranno recepiti nel R.d. 17 agosto 1907 n. 638, nel Testo Unico sul
Consiglio di Stato del 192415 e nel citato art. 7 della legge n. 104/2010 sul Codice del processo
amministrativo16. Purtuttavia risulta evidente che da queste disposizioni emerge la necessità di
chiarire la nozione di atto politico, allo scopo sia di delimitarne l’ambito applicativo che di
tracciarne una linea di confine con gli atti amministrativi in genere e, come si vedrà fra poco, con
quelli di alta amministrazione17. Difatti, su questa traiettoria normativa, che resta invariata per più
di un secolo, vengono negli anni elaborate varie teorie, ciascuna delle quali pone l’accento su
specifici attributi dell’atto politico, senza però fornirne una nozione completa e unitaria18.
Ad esempio, nei primi anni Trenta del secolo scorso si afferma la tesi della causa oggettiva,
fondata sull’idea secondo la quale l’atto politico assolve la funzione di cura dell’interesse generale
che, in una prospettiva volta a garantire il libero funzionamento dei pubblici poteri, si compendia
nei supremi e unitari compiti dello Stato19. È il prologo dell’orientamento, tuttora prevalente, che
qualifica come politici gli atti che, come già ricordato, soddisfano due requisiti essenziali, ossia
quello oggettivo (consistente nell’esercizio di un potere di rilievo costituzionale) e quello
Senato del Regno, Atti parlamentari dello Senato, Torino, E. Botta, 1888, vol. 1, p. 11.
Su cui si rinvia per tutti a G. TROPEA, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto:
l’atto politico, «Diritto amministrativo», 2012, fasc. 3, pp. 329-414.
15 R.d. 26 giugno 1924, n. 1054.
16 Legge 2 luglio 2010, n. 104.
17 Su cui per tutti si veda G. CUGURRA, L’attività di alta amministrazione, Padova, CEDAM, 1973, spec. p.
160 ss..
18 Sul punto si veda la ricostruzione storico-giuridica di F. ALICINO, Le intese con le confessioni religiose
alla prova delle organizzazioni ateistiche, in Il Diritto ecclesiastico, 2013, nn. 1-2, pp. 49-84.
19 E anche in questo caso si rileva l’influenza esercitata sul tema dalla giurisprudenza e dottrina francese,
per cui cfr. punto M. HAURIOU, La liberté politique et la personnalité morale de l’Etat, «Revue trimestrielle de
droit civil» 1923, pp. 329-346; M. HAURIOU, note sous CE 12 mai 1893, Elections de Pluguffan, Paris, Sirey,
1895, III, p. 17; J. DOUCET, Etude critique de la notion d’acte de gouvernemente et de son aplication aux matières
internationales, Grenoble, Aubert, 1910, pp. 84 ss.
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soggettivo (caratterizzato dalla provenienza dell’atto da un organo costituzionale o di governo).
Dotati di un contenuto altamente politico e, quindi, non riconducibili a parametri giuridici, questo
tipo di atti non sono sindacabili dal giudice e vanno considerati legittimi di per sé. In breve, essi
possono dirsi politici perché liberi nel fine e, a differenza degli atti amministrativi, tesi a realizzare
interessi generali e non settoriali.
Con l’affermazione dello Stato sociale e l’emersione della nozione d’indirizzo politico20, a partire
dalla prima metà del secolo passato tale problematica finisce per comprendere in modo sempre
più marcato il diritto costituzionale. Ciò è particolarmente evidente se si considera l’evoluzione
del principio dei poteri separati21: pur senza mutare la struttura normativa di base, l’atto politico
assurge a cartina di tornasole delle relazioni fra poteri e funzioni dello Stato. Il che si riflette, a sua
volta, sull’evoluzione dei rapporti tra il Governo e l’amministrazione22. Sicché, prima del 1948 la
categoria degli atti politici trovava, generalmente, il proprio fondamento nella ragion di Stato,
indipendentemente dai motivi specifici che in concreto ne avevano determinato l’adozione. Con
l’entrata in vigore della vigente Costituzione, la nozione di atto politico deve invece tener conto
del principio d’indefettibilità e pienezza della tutela giurisdizionale 23 . Si giunge in tal modo
all’attuale orientamento, che distingue gli atti politici dagli atti di alta amministrazione. Da notare
che l’area di applicazione di questi (atti di alta amministrazione) è inversamente proporzionale alla
restrizione di quelli (atti politici) che, come tali, restano immuni dal controllo giurisdizionale24.
Pertanto, gli atti politici costituiscono espressione della libertà politica commessa dalla
Costituzione ai supremi organi decisionali. Tali atti servono a implementare le esigenze unitarie
ed indivisibili dello Stato. Per questi motivi, essi sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti
amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati
agli obiettivi posti dalla legge.
Sulla questione dei rapporti tra indirizzo politico e indirizzo amministrativo si vedano per tutti E.
PICOZZA, L’attività di indirizzo della pubblica amministrazione, Padova, CEDAM, 1988, spec. pp. 70 ss.; e il
più recente M. P. GENESIN, L’attività di alta amministrazione fra indirizzo politico e ordinaria attività
amministrativa, cit., pp. 81 ss.
21 G. TROPEA, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, cit., p. 329.
22 F. CORVAJA, Il sindacato giurisdizionale sugli atti politici, in Giudice amministrativo e diritti costituzionali, a cura
di P. BONETTI, A. CASSATELLA, F. CORTESE, A. DEFFENU, A. GUAZZAROTTI, Torino,
Giappichelli 2012, pp. 74 ss.
23 F. ALICINO, Le intese con le confessioni religiose alla prova delle organizzazioni ateistiche, cit., p. 50.
24 Consiglio di Stato, Sez. V, sent. 12 luglio 2011, n. 4502, «Foro amm.», 2011, c. 2439; Consiglio di Stato,
Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209, «Foro amm.», 2007, c. 131. Per una recente riproposizione della tesi
dell’atto politico come atto libero nel fine S.COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e
di analisi sistematica, Torino, Giappichelli, 2011, p. 240.
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La ratio dell’insindacabilità dell’atto politico è stata variamente spiegata nel corso del tempo.
Infatti in un primo momento si riteneva che gli atti politici, in quanto finalizzati alla tutela degli
interessi primari dello Stato non potessero per definizione essere illegittimi. Successivamente
invece, è prevalso l’orientamento secondo cui anche gli atti politici sono assoggettabili al solo
controllo dell’autorità politica, competente ad individuare i fini dell’attività del governo. Inoltre il
fatto che gli atti politici siano sottratti al controllo giurisdizionale non esclude che gli stessi siano
assoggettati ad un controllo di tipo politico, del corpo elettorale, del Parlamento (ove essi siano
emanati dall’esecutivo) o della Corte Costituzionale ove si tratti di atti legislativi25.
Diversamente, l’atto di alta amministrazione, di regola adottato dall'organo politico, può essere
definito come il primo momento attuativo dell'indirizzo politico a livello amministrativo. A
differenza dell'atto politico, esso esprime un potere vincolato nel fine e soggetto al principio di
legalità 26 . Gli atti di alta amministrazione sono una species del più ampio genus degli atti
amministrativi e soggiacciono pertanto al relativo regime giuridico, ivi compreso il sindacato
giurisdizionale, sia pure con talune peculiarità connesse alla natura spiccatamente discrezionale
degli stessi27. Insomma, quanto agli atti di alta amministrazione il controllo del giudice non è della
stessa ampiezza di quello esercitato in relazione ad un qualsiasi atto amministrativo, ma è
circoscritto alla rilevazione di manifeste illogicità formali e procedurali. Sennonché, sono proprio
queste riflessioni a rimarcare che la Carta costituzionale italiana si caratterizza per il primato della
tutela giurisdizionale
28
, elevata dal giudice delle leggi a supremo principio dell’ordine
repubblicano29.
In effetti, lungo le coordinate normative tracciate dagli artt. 24 e 113 Cost., questo percorso
interpretativo si riflette sulla disciplina del processo amministrativo, ovvero sull’interpretazione
dell’art. 1 della legge n. 104/2010, per il quale «la giurisdizione amministrativa assicura una tutela
piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» 30. L’attenzione si
R. GAROFALI, Manuale di diritto amministrativo, I manuali superiori, Roma, Nel Diritto Editore, 2013, p.
936.
26 F. ALICINO, Le intese con le confessioni religiose alla prova delle organizzazioni ateistiche, cit., p. 52.
27 Ibidem.
28 ROBERTO CAVALLO PERIN, Il contenuto dell’art. 113 Costituzione fra riserva di legge e riserva di
giurisdizione, «Diritto processuale amministrativo», 1988, pp. 517-562; F. SAITTA, Il principio di giustiziabilità
dell’azione amministrativa, in Studi sui principi del diritto amministrativo, a cura di M. RENNA, F. SAITTA,
Milano, Giuffrè, 2012, p. 225.
29 Corte cost., sent. 2 febbraio 1982, n. 18, «Giust. civ.», 1982, con nota di C. CARDIA, Una ridefinizione del
matrimonio concordatario, p. 1448.
30 Sul punto è importante l’orientamento impresso alla questione dalla Grande Camera della Corte EDU,
così come ribadito dalla celebre decisione Markovic c. Italia del 14 dicembre 2006, emessa in relazione ai
danni causati dalla guerra del Kossovo. Una pronuncia che, come sottolineano le Sezioni Unite della
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focalizza in particolare sulla disposizione di cui all’art. 6 CEDU, riguardante il diritto al giudice e a
un processo equo31.
4. Indirizzo politico e tutela giurisdizionale
Queste riflessioni rendono più comprensibile l’orientamento impresso al caso di specie dalle
Sezioni Unite nella citata sentenza n. 16305/2013, laddove i giudici italiani sottolineano la portata
prescrittiva della disposizione di cui all’art. 113 Cost.: «la tutela giurisdizionale contro gli atti della
pubblica amministrazione non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o
per determinate categorie di atti»32.
Unitamente all’affermazione di un’idea nuova della rilevanza dell’indirizzo politico, il percorso
giurisprudenziale qui sommariamente evocato ha di fatto favorito un’esegesi altamente restrittiva
dei settori e delle materie disciplinabili con atti esclusivamente politici e, di conseguenza, delle
determinazioni governative dotate di un’assoluta immunità giurisdizionale. È quanto emerge dalla
Cassazione, non ha chiarito se il principio di insindacabilità dell’atto politico dia luogo a una limitazione
materiale del diritto rivendicato oppure a un limite procedurale del diritto di agire a difesa di una
situazione soggettiva tutelata. Del resto, ciò si evince dall’opinione dissenziente del giudice Vladimiro
Zagrebelsky, espressamente richiamata dalla Cassazione: un conto è la valutazione delle scelte operate da
uno Stato rispetto al come e se partecipare ad azioni belliche, scelte politicamente discrezionali; un altro è
invece negare il diritto ad agire per via giudiziaria per la pretesa al risarcimento di danni, la cui origine, pur
essendo estranea alle finalità proprie della partecipazione ad attività militare, a queste è comunque
collegata . Il riferimento all’orientamento della Corte di Strasburgo dimostra pertanto che «la – pur dubbia
– politicità estrema della casistica in materia bellica» può fungere «da chiave di lettura in senso riduttivo
degli ambiti sottratti alla giurisdizione». In questo modo, facendo leva sulla «tutela della posizione
soggettiva incisa», le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono in grado di estendere il sindacato
giurisdizionale in base alla ragionevolezza dei criteri predisposti e all’idoneità delle motivazioni adottate.
Tanto più nei casi in cui l’esercizio delle funzioni governative tocchi i diritti fondamentali. Come quelli
che, sia pure riferiti a moduli di espressione collettiva propria di un’organizzazione confessionale, fanno
capo all’art. 8 comma 3 Cost. che, come sottolineato da una corposa giurisprudenza costituzionale, non
può essere interpretata in modo disgiunto da quanto previsto nelle altre disposizioni del medesimo
articolo nonché dagli artt. 2, 3, 19 e 20 Cost.; tutti concorrendo a definire il principio supremo di laicità .
Se infatti a prevalere fosse la tesi del Governo e dell’Avvocatura erariale, tesi basata sull’estrema
discrezionalità dell’atto governativo di diniego all’avvio di trattative di cui all’art. 8 comma 3 Cost., con il
corollario della carenza assoluta di legittimazione ad agire, non rimarrebbe nessuno strumento giuridico
capace di rilevarne l’eventuale illiceità e, quindi, di censurare la violazione dei suddetti principi
costituzionali. Il che, come rileva il Consiglio di Stato, potrebbe tradursi nella legittimazione di un
orientamento improponibile sia sul piano logico sia su quello giuridico: un orientamento volto in sede
teorica ad affermare grandi e importanti principi (laicità, libertà religiosa, pluralismo confessionale, equo
processo, ecc. ecc.), salvo poi disattenderli in fase applicativa e pratica.
31 Anche se, con la sentenza 14 dicembre 2006, Markovic c. Italia, la Grande Camera della Corte CEDU ha
sul punto adottato una differente posizione, su cui infra.
32 Cass., Sez. Un. civ., sent. n. 16305/2013, cit.
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pronuncia del 5 aprile 2012 (n. 81) della Corte costituzionale 33 , estesamente richiamata nella
sentenza della Cassazione laddove si afferma che, quando vincolato a un fine desumibile dal
sistema normativo o da un obiettivo predeterminato dal diritto, e quantunque emesso
nell’esercizio di un potere dotato di ampia discrezionalità, l’atto è sempre sindacabile.
Allo stesso modo, pur consapevole della possibilità che la divergenza tra atti di diversi organi
statuali possa trovare soluzione in sede di conflitto di attribuzione, le Sezioni Unite ritengono che
nell’individuazione delle determinazioni governative assoggettabili al controllo giurisdizionale sia
il «parametro giuridico» a giocare un ruolo decisivo34.
Inoltre la legittimazione ad agire non è predeterminata dal legislatore, «ma è ed è stata quasi
sempre il frutto dell’attività ermeneutica del giudice. Tale attività deve avvenire sulla scorta di dati
normativi e di argomentazioni giuridiche, specialmente quando si tratta di determinarne il peso.
Altrimenti, potrebbero essere lese «situazioni giuridiche soggettive e interessi collettivi»35, come
quelli che scaturiscono dai principi costituzionali sopra richiamati. Tale presupposto chiarisce
come mai ad oggi, la questione del diritto all’azione giurisdizionale rileva soprattutto nell’ambito
del processo amministrativo, dove è problematica l’individuazione dei modi e delle procedure per
rendere giustiziabili «posizioni giuridiche sempre più standardizzate e sempre meno connotate di
individualismo in riferimento al profilo del pregiudizio subito»36. Ciò che, ampliando nei limiti del
possibile i confini dell’intervento processuale, estende la legittimazione ad agire a «una pluralità di
soggetti accomunati da un’identica situazione di danno»37. Come quella derivante da un’arbitraria
selezione dei gruppi ritenuti idonei a stipulare un’intesa con lo Stato.
Una selezione che, può di fatto essere operata dall’Esecutivo, in quanto si tratta di un atto
politico, e come tale, esso è politicamente discrezionale e, di conseguenza, sindacabile in sede di
rapporti fiduciari tra il Governo e il Parlamento e, se del caso, mediante un giudizio operato dai
cittadini con le elezioni politiche38.
Quest’ultima è la posizione sostenuta in concreto dall’Avvocatura dello Stato, la quale ritiene che
la giustiziabilità del diniego all’avvio dei negoziati non debba rilevare nel caso di specie, anche
Cfr. sul punto Cass., Sez. Un. civ., 19 ottobre 2011, n. 21581; Cass., Sez. Un. civ., 13 novembre 2000, n.
1170; Cass., Sez. Un. civ., ord. 5 giugno 2002, n. 8157. Sul punto si veda anche M. P. GENESIN,
L’attività di alta amministrazione fra indirizzo politico e ordinaria attività amministrativa. Riflessioni
critiche su un sistema di governo multilivello, cit., p. 69.
34 Cass., Sez. Un. civ., sent. n. 16305/2013, cit.
35 Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 4502/2011, cit.
36 Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 4502/2011, cit.
37 Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (Ad. Plen.), sent. 7 aprile 2011, n. 4.
38 Come rileva F. ALICINO, Le intese con le confessioni religiose alla prova delle organizzazioni ateistiche, cit., p. 54.
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perché essi possono dare un esito negativo «qualora il Governo, o per inconciliabilità di proposte,
o per volontà politica, non concludesse la trattativa o rifiutasse di dare impulso legislativo alla
intesa raggiunta»39. Di qui il richiamo alla disposizione di cui l’art. 2 comma 3, lett. l della legge n.
400/1988 che, tra gli atti sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, include quelli
relativi ai rapporti ex art. 8 Cost.: la non giustiziabilità dell’atto sarebbe supportata non solo e non
tanto dall’accostamento di questa disposizione con quella contenuta nella lett. i) – relativa agli atti
concernenti i rapporti fra Stato e Chiesa cattolica di cui all’art. 7 Cost. –, quanto dalla sua
prossimità con la norma di cui alla lett. h) riguardante «le linee di indirizzo in tema di politica
internazionale e comunitaria e i progetti dei Trattati e degli accordi internazionali, comunque
denominati, di natura politica o militare»; tutti sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei
Ministri40.
5. Il TAR entra nel merito
Da quanto sopraesposto emerge che a seguito delle pronunce del Consiglio di Stato e della
Cassazione a Sezioni Unite, il TAR Lazio è dovuto entrare nel merito della questione sollevata
dall’UAAR, riguardo al diniego perpetrato dal Governo di avviare le trattative per la stipulazione
di un’intesa ex art. 8, comma 3, Cost.
La sentenza n. 7068 del 2014 della Sezione Prima si articola su quattro punti. Nel primo si
afferma la violazione dell'art. 1, comma 1, lett. ii) della legge n. 13 del 1991 che prevede l'adozione
con decreto del Presidente della Repubblica valevole per tutti gli atti per i quali è intervenuta la
deliberazione del Consiglio dei Ministri41. Sembrerebbe pertanto che, pur essendo stato esternato
con nota del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (delegatario per prassi
costituzionale della funzione di condurre le trattative con le confessioni religiose per la
stipulazione di un’intesa), l’atto di diniego del Governo non mostrerebbe i necessari requisiti di
forma, in quanto non emanato con Decreto del Presidente della Repubblica. Purtuttavia, come si
desume dalla rubrica della legge n. 13/1991, e come confermato dall'esame delle tipologie
provvedimentali richiamate nell'art. 1, il Decreto del Presidente della Repubblica è previsto
esclusivamente per gli atti amministrativi, non per gli atti avente contenuto oggettivamente
Cass., Sez. Un. civ., sent. n. 16305/2013, cit.
J. PASQUALI CERIOLI, Il progetto di legge parlamentare di approvazione delle intese con le confessioni diverse dalla
cattolica: nuovi orientamenti e interessanti prospettive, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), marzo 2010, p. 6.
41 L’interpretazione proposta dell’art. 1 della legge n. 13 del 1991, si basa sul presupposto dell’esistenza in
di una nozione di atto amministrativo in senso oggettivo. Purtuttavia quando la legge si riferisce a tutti gli
atti adottati dal Consiglio dei Ministri potrebbe anche significare tutti gli atti “comunque” adottati dal
Coniglio dei Ministri.
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politico cui, secondo il TAR, è riconducibile la determinazione governativa in esame 42 . Ciò
significa che, nonostante il diniego dell’Esecutivo ha natura meramente politica che, come tale, si
sottrae al gravame amministrativo.
Successivamente, il TAR spiega che l’emanazione dell’atto di diniego del Governo è di
competenza del Presidente della Repubblica, che ne controlla l'opportunità politica e la legittimità
costituzionale43. Ciononostante, nel caso in esame l’intervento governativo non è inquadrabile in
una determinazione provvedimentale, poiché il Consiglio dei Ministri assume una determinazione
negativa, deliberando di non stipulare intesa con l'UAAR. Si tratta quindi di una decisione
(legittima e dotata di ampi margini di discrezionalità) che limita gli effetti modificativi della realtà
giuridica e fattuale. Ragione per la quale, questa decisione non vincola il Governo a particolari
formalità e procedure, come quelle che vengono emanate mediante il Decreto del Presidente della
Repubblica 44 . Anche perché, pur ammettendo il suo coinvolgimento, il Presidente della
Repubblica non avrebbe potuto esprimersi sulla mancata stipulazione dell'intesa ex art. 8, comma
3, Cost.: in questo settore, per parte statale ogni decisione è infatti riservata (dalla prassi
costituzionale e dalla legge 400/1988) al Governo. I giudici amministrativi evidenziano e
supportano così la legittimità dell’azione governativa espletata nell’iter procedurale che culmina
nell’atto di diniego45.
In un altro punto il TAR chiarisce che la valutazione compiuta dal Governo a proposito del
carattere non confessionale dell’Associazione ricorrente non sembra «manifestatamente
inattendibile o implausibile». A detta del giudice amministrativo, questa valutazione richiama una
«concezione di confessione religiosa avente contenuto positivo», basato su «un fatto di fede
rivolto al divino». Per converso, tale nozione di confessione «esclude un contenuto negativo»,
ossia le istanze di incredulità, tese a negare «l’esistenza del trascendente e del divino». Insomma,
per il TAR Lazio la valutazione governativa risulta «coerente con il significato che, nell’accezione
comune, ha la religione, quale insieme delle credenze e degli atti di culto che collegano la vita di
un individuo o di una comunità con ciò che ritiene un ordine superiore e divino»46.
42 T.a.r.
Lazio, Sezione Prima, sentenza 03 luglio 2014, n. 7068.
Ibidem.
44 Ibidem.
45 Nonostante quanto osservato dalla suindicata sentenza Tar, è pur vero che la circostanza che si sia in
presenza di una determinazione di contenuto negativo e non di una mera astensione dal decidere da parte
del Consiglio dei Ministri non potrebbe escludere totalmente l’emanazione di un decreto da parte del
Presidente della Repubblica. Infatti nella prassi del ricorso straordinario viene emanato un decreto del
Presidente della Repubblica (su proposta del Ministro competente in base al parere del Consiglio di Stato),
che può essere anche negativo e quindi di rigetto ove il ricorso sia ritenuto infondato.
46 Ibidem.
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In questo modo, il TAR e, soprattutto il Governo, smentiscono se stessi. Basti dire che, nella
storia normativa del dispositivo di cui all’art. 8 comma 3 Cost. emerge chiaramente come
l’Esecutivo, prima, e il Legislatore, dopo, abbiano riconosciuto il carattere di confessione religiosa
al Buddhismo alieno, come è noto, dal trascendente e dal divino. Pertanto, sia la linea governativa
sia l’indirizzo giurisprudenziale in parole appare quantomeno incoerente. Tato più che nel caso
dell’Unione Buddhista Italiana, con cui il governo ha stipulato un’intesa (4 aprile 2007) approvata
regolarmente per legge (31 dicembre 2012, n. 245) non è stata invocata quella definizione
restrittiva che sta alla base del rifiuto di trattare con l’UAAR. Si aggiunga che la stessa Corte di
Cassazione ha riconosciuto la natura di confessione religiosa un’altra organizzazione che non
asserisce l’esistenza di un essere supremo. Si tratta della decisione sul caso Scientology47.
Da notare che su questo specifico punto il TAR sostiene le sue motivazioni sulla base del fatto
nello suo Statuto l’UARR definisce se stessa come «organizzazione filosofica non confessionale»,
che si propone di «rappresentare le concezioni del mondo razionaliste, atee o agnostiche, come le
organizzazioni filosofiche non confessionali rappresentano le concezioni del mondo di carattere
religioso»48.
Ciò significa che in tema di intese e, più in generale, di rapporti fra Stato e confessioni religiose
non si possono operare delle irragionevoli discriminazioni, soprattutto quando si tratta di
discipline negoziate e di leggi di derivazione bilaterale (Stato-confessioni), le quali attribuiscono
importanti facoltà e benefici alle confessioni stipulanti e non altre. Ne consegue che pur essendo
garantito all’UAAR il diritto ex art. 19 Cost., visto lo stretto collegamento tra quest’ultimo e gli
artt. 3, 7 e 20 Cost., non si può dire che nel caso di specie si sia assicurata piena tutela della libertà
religiosa per l’UAAR e per i relativi aderenti49.
6. Conclusioni
L’iter processuale promosso dall’UAAR avverso l’atto governativo di diniego all’avvio delle
trattative per la stipulazione di un’intesa, così come disposto ex art. 8 comma 3 Cost, ha messo in
evidenza l’opinabilità del discrimine esistente tra un atto politico ed uno amministrativo. Tale
distinzione rileva per le peculiarità giuridiche dell’atto politico, rendendolo esente dai profili di
tutela giurisdizionale valevoli per gli atti amministrativi. Nonostante ciò, dottrina e giurisprudenza
hanno cercato di assottigliare tale margine di non impugnabilità e d’immunità giurisdizionale.
Corte Cass., Sez. VI pen., sent. 22 ottobre 1997, n. 1329.
TAR, Lazio, Sezione Prima, sent. n. 7068/2014, cit.
49 M. Croce, La nozione di confessione religiosa alla prova dell’ateismo organizzato nel contenzioso U.A.A.R.-Governo
in merito alla richiesta di un’Intesa ex art. 8, comma 3, Cost., in Nel Diritto , 2014, n. 12, pp. 2182 ss.
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Da ultimo, la citata sentenza del TAR Lazio del luglio 2014 ripercorre l’iter logico del Governo,
ritenendolo immune da vizi. La non impugnabilità degli atti politici è tuttora prevista dalla legge
contestualmente all’individuazione delle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa.
In particolare, prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, esisteva un
orientamento dottrinario che interpretava l’art. 31 t.u.C.S. come norma derogatoria rispetto all’art.
26 del medesimo t.u.C.S., in quanto assegnava al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale la
competenza a decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di
legge, contro atti o provvedimenti di una autorità amministrativa o di un corpo amministrativo
deliberante, che avessero per oggetto un interesse d’individui o di enti morali giuridici.
Nonostante l’entrata in vigore della Costituzione del 1948, una parte minoritaria della dottrina ha
affermato l’ammissibilità dell’esistenza di poteri amministrativi il cui esercizio è sottratto al
rispetto di parametri sostanziali, perdurando l’influenza della tesi del carattere politico di un atto
ove esista la contemporanea presenza del requisito di natura soggettiva e l’altro di natura
oggettiva.
Alla luce dei fatti esposti in narrativa, e dalle varie problematiche emerse anche in relazione alla
vicenda UAR, emerge che uno sforzo ermeneutico compiuto dalla giurisprudenza, volto ad
esplicitare gli elementi costitutivi dell’atto politico, si è imposto per rendere compatibile
l’insindacabilità di cui all’art. 31 del testo unico del 1924(ed ora all’art.7, comma 1, c.p.a.) con il
principio fissato successivamente dalla Costituzione all’art. 113, per il quale la “tutela
giurisdizionale non può essere esclusa o delimitata a particolari mezzi di impugnazione o per
determinate categorie di atti”. Avversando la posizione, in realtà minoritaria, che proponeva
l’abrogazione dell’art. 31 da parte dell’art. 113 Cost., tanto la giurisprudenza quanto la dottrina
prevalenti ritengono che il canone costituzionale vada riferito alla categoria dei provvedimenti
amministrativi, dalla quale, per loro natura, esorbitano gli atti politici, integrati dalla
funzionalizzazione del perseguimento di uno scopo politico.
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