...

owen pallett - SentireAscoltare

by user

on
Category: Documents
211

views

Report

Comments

Transcript

owen pallett - SentireAscoltare
digital magazine | giugno 2014 | n. 116
owen
pallett
Conflitti
sommario
tune in – p. 4
Arto Lindsay
50 anni di moog
Magellano
Forest Swords
Lo stato sociale
Squarcicatrici
Fennesz
drop out – p. 38
Frank Zappa
Owen Pallett
Skiantos
recensioni – p. 94
rubriche – p. 150
#116
giugno
Direttore
Edoardo Bridda
Ufficio Stampa
Alberto Lepri
Coordinamento promo
Gaspare Caliri, Stefano Pifferi
Art director
Nicolas Campagnari
A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito:
Tommaso Iannini, Elia Galli, Teresa Greco, Sebastian Procaccini, Edoardo Bridda, Andrea Napoli,
Stefano Pifferi, Nino Ciglio, Stefano Solventi, Giulio Pasquali, Christian Panzano, Gabriele Marino,
Fabrizio Zampighi, Alessandro Pogliani, Marco Braggion, Marco Frattaruolo, Gaspare Caliri,
Giulia Antelli, Luca Falzetti, Riccardo Zagaglia, Andrea Macrì, Emiliano Santoro, Andrea Murgia,
Marco Boscolo, Daniele Rigoli, Stefano Gaz, Enrica Selvini, Federico Pevere, Alessandro Liccardo
Copertina
Owen Pallett
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
Copyright © 2014 Edoardo Bridda.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo,
è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Abbiamo incontrato Arto Lindsay durante la promozione della raccolta Encyclopedia of
Arto, lavoro che contiene il meglio della sua carriera solista e un inedito disco dal vivo.
La pubblicazione del doppio CD antologico è stata lo spunto per una chiacchierata a
trecentosessanta gradi tra passato, presente, futuro, New York, il Brasile e gli oggetti che
producono suoni....
Testo di Tommaso Iannini
© Cesare Cicardini
Arto
Lindsay Artologia
4
Questa doppia antologia ha un bel titolo,
Encyclopedia of Arto. L’hai scelto tu?
L’ho scelto ma non sono stato io a suggerirlo,
l’idea è venuta da Titti Santini di Ponderosa.
Stavamo parlando di un concerto antologico e
non mi piaceva l’idea, ma ci siamo trovati d’accordo su una compilation retrospettiva. Il titolo
è piuttosto ironico.
La scelta di brani copre la tua carriera solista
dal 1996 al 2004. È anche un sunto della tua
idea di musica?
Sicuramente il rapporto tra i due CD significa
qualcosa.
Come hai scelto la tracklist per il CD antologico?
Ho scelto i brani migliori di ogni disco, come in
un tradizionale greatest hits. Ho preso le canzoni che mi piacevano di più o che consideravo
più forti. Piuttosto che imbastire un racconto,
un brano unico o un concept album, ho semplicemente selezionato i pezzi che mi sembravano
davvero buoni.
Nei brani scelti ci sono molti ospiti: in senso
lato, questa retrospettiva è anche un tributo
a chi ha collaborato con te sui tuoi dischi?
Non è una cosa voluta. Può darsi. Puoi vederla
così. Le collaborazioni sono qualcosa che faccio
normalmente.
Il secondo CD è una performance live in solitaria, solo voce e chitarra, molto minimalista,
molto rumorosa. Possiamo fare una sorta di
paragone con la musica nuda e spigolosa dei
tuoi esordi con i DNA?
Sì, certo, anche perché la chitarra è così predominante. Le idee musicali sono molto diverse ma
possiamo sicuramente fare un confronto.
Quali sono le maggiori differenze, invece?
Agli esordi avevo una band e qui sono da solo,
e questa è la grande differenza. Le strutture
una volta erano molto più serrate, le canzoni
più brevi, con i DNA cercavamo soprattutto di
concentrare e ridurre tutto all’osso, alcune delle
idee sono le stesse come l’“on/off” – cioè tutto
quello che serve per fare musica è premere “on”
o “off” –, princìpi molto semplici per sviluppare
una musica complessa, ma suono così da troppo
tempo per vantare una sorta di “innocenza”, se
capisci ciò che voglio dire.
“Accendere” e “spegnere” nel senso di una
chitarra accesa o spenta e niente altro?
Nel senso di suono/silenzio.
Il secondo disco fa pensare a un blues astratto e primitivo…
Sì, certo.
Mi chiedevo che rapporto hai con il blues, visto che delle tue fonti d’ispirazione ricordiamo sempre il jazz e la musica sudamericana…
Oh ma c’è anche il blues. Ci sono molte analogie
tra la musica della regione dove sono cresciuto in Brasile e il blues, oltre al fatto che sono
contemporanee. È una questione di suono, di
pattern ritmici, di variazioni su schemi che sono
abbastanza elastici, di fisicità, sono tutte e due
musiche tristi e contengono molti elementi di
origine africana. Sono cresciuto in Brasile ma
con mamma e papà americani, mio padre ascoltava quella che lui chiamava hillbilly music, che
è stata all’origine del country ma era anche molto vicina al blues. Mentre a mia madre piaceva
Nat King Cole…
Com’è stato crescere in Brasile in quel periodo?
Splendido, vivevo in una piccola città ed era
meravigliosa, sai. O meglio, nella cittadina dove
ho abitato prima di andare alle superiori stavo
benissimo ma sembrava quasi di vivere ancora
nell’Ottocento, c’era un solo padrone che possedeva un’enorme quantità di terra e tutti lavoravano per lui in uno stato di semi-schiavitù. Però
con l’inizio degli anni ’60 in Brasile si era diffuso
un clima di ottimismo, sembrava che davvero le
cose potessero cambiare. Poi è arrivato il golpe
militare e la dittatura ha bloccato tutto, anche se
5
non lo ha fatto subito in modo drastico. I militari
hanno preso il potere nel 1964 ma non hanno
inasprito la dittatura fino al 1968, quando la situazione ha cominciato davvero a prendere una
brutta piega. In quel periodo c’era molta musica
interessante, insieme all’arte.
Una rinascita dell’arte popolare, mi viene in
mente anche il cinéma nôvo…
Sì, c’erano molte cose interessanti nel mondo
dell’arte, della poesia, è stato un periodo entusiasmante.
Penso per esempio a Glauber Rocha, che cosa
ne pensi di lui?
Non ho guardato molti suoi film, se non più
tardi. Da giovane avevo visto solo Antonio Das
Mortes, che è fantastico. Alle superiori mi ricordo di aver guardato più che altro film americani
degli anni ’70 come Gangster Story ma anche
Teorema di Pasolini o Giulietta degli spiriti di
Fellini; sono questi i tre film che mi sono rimasti
più impressi nella memoria.
Come hai avuto l’intuizione di coniugare un
approccio concettuale alla chitarra con forme di musica folk e popolare come la samba
o la bossa nova? È stata una sfida o qualcosa
che ti è venuto naturale?
It’s just the way I do it, do you know what I
mean? Quando ho cominciato a suonare volevo creare qualcosa di veramente nuovo ma allo
stesso tempo trovo che sia naturale fare una cosa
del genere perché alla high school e al college ho
ascoltato Jimi Hendrix, Miles Davis – tantissimo
Miles Davis – e anche la bossa nova a suo modo
era molto radicale. Pensavo che la musica pop
dovesse essere innovativa, come i Beatles che
avevano un certo feeling d’avanguardia, era lo
spirito dei tempi e spesso ce ne dimentichiamo,
quella sembrava essere la via giusta. Ero anche
molto naïf, con i DNA pensavamo che ci avrebbero scoperti prima o poi perché eravamo un
grande gruppo ma non sapevamo niente di come
funziona il music business.
6
Come sei diventato un musicista?
Alle superiori cantavo in un gruppo, dopo il
college mi sono trasferito a New York. Ascoltavo
tantissima musica ma non suonavo più. Pensavo
di diventare un poeta, un artista concettuale o
un ballerino: mi interessavano tantissime cose
diverse; la musica mi sembrava un modo per
mettere tutto insieme, e intorno alla musica
c’era moltissima energia, si aprivano tantissime
possibilità.
Hai cominciato la tua carriera di musicista
alla fine degli anni ’70 nella scena no wave
newyorchese. Che ricordi hai di quel periodo
o che cosa ne pensi adesso?
È stato un periodo molto intenso. In parte sicuramente perché ero così giovane e agli esordi.
Sono stati anni intensi. Sembra tutto più grande,
ora, di quanto non lo fosse a quei tempi. È la
domanda che mi fanno in tutte le interviste, su
New York e gli anni ’70. Che cosa posso dire? È
stato intenso.
Ascoltando la tua musica più recente, che
cosa credi che ti abbiano lasciato in dote quegli anni, da compositore e da performer?
La fiducia in me stesso. Abbiamo lavorato sodo
e ce l’abbiamo fatta, in una stanza… perché non
abbiamo sfondato di certo nel business discografico o nelle classifiche. Abbiamo fatto tutto
in una stanza e l’impatto della nostra musica si è
fatto sentire molto al di là di New York, il che è
sorprendente. Qualche anno dopo, se non ricordo male era il 1984, sono stato per la prima volta
in Giappone. Non ci avevo mai suonato, né avevo
preso in considerazione l’idea, ma quando sono
arrivato lì mi sono accorto che tantissima gente
conosceva i DNA e ogni mio piccolo progetto,
sapevano tutto, e c’era un’ondata di gruppi noise
giapponesi straordinari che venivano da Tokyo,
Osaka e da tutto il Paese, ed erano stati ispirati
dalla scena di New York. E’ stato interessante
rendersi conto di come una scena così piccola abbia potuto avere un impatto così grande.
Suonavamo l’uno per l’altro in una stanza ma
c’era anche tantissima attenzione a New York
e su New York, in un modo molto stimolante
per i tempi. Oggi tutto è cambiato. Amo ancora
New York, è sempre una città interessante, ma è
come una Venezia o un’Amsterdam che rivende
il suo passato.
New York oggi?
Sì, se vai a New York ti raccontano che «qui è
successo questo» e «qui quest’altro». Ma una
volta non era così. Allora le cose semplicemente
accadevano. Non c’è più un posto che ti faccia
provare quella sensazione, specialmente oggi.
Erano altri tempi.
Ci sono musicisti giovani di cui sei un ammiratore e che consiglieresti di ascoltare?
Sì certo, ce ne sono tanti. Penso che l’ultimo ad
avere portato un grande cambiamento sia James
Blake. Il suono dei suoi primi dischi era davvero
eccitante, fresco. Adoro D’Angelo e il suo ultimo
disco suona in modo incredibile. Ci sono tantissimi bravi musicisti giovani. Kendrick Lamar,
mi piace molto, mi piace l’hip-hop. Non so se
conosci Earl Sweatshirt. Fa parte di un gruppo
californiano, gli Odd Future, è il più giovane di
loro ed è un genio. Frank Ocean. Mi piacciono
molto il soul e l’hip-hop.
Che cosa pensi del rock di oggi?
Non sento molti grandi gruppi, nuovi. Ma devo
anche dire che abito in una città dove non ho
molte opportunità. Non vivo a New York o Londra, negli States e neppure in Italia, dove è più
facile che vengano i gruppi a suonare rispetto al
Brasile.
Dove vivi adesso?
A Rio. È molto dura. Una città bellissima, meravigliosa, però il Brasile sta vivendo un momento
7
© Cesare Cicardini
difficile. Sembrava che le cose dovessero mettersi per il verso giusto ma ora si sta cominciando di nuovo a peggiorare, i Mondiali sono stati
un danno. Per carità, amo il calcio, ma la situazione generale è piuttosto brutta.
Davvero pensi che stia peggiorando?
È un brutto momento per il Brasile. Tutti si
aspettavano di stare molto meglio ma non sta
andando così.
Fino a poco tempo fa qui in Europa avevamo
la percezione di un Paese in crescita economica…
In effetti sta crescendo, qualcosa è cambiato in
meglio, ma la gente ora si sta rendendo conto di
essere stata troppo ottimista.
Ho scoperto che hai scritto una postfazione
per un libro sugli Einstürzende Neubauten.
Ti è mai capitato di collaborare con loro?
Ero amico, anzi, sono ancora amico di Blixa.
Non li incontro da un po’, sono stato a Berlino
8
da loro e abbiamo suonato insieme, non ricordo
se abbiamo registrato qualcosa. Sono bravi, un
gruppo incredibile.
Pensi di condividere lo stesso approccio alla
musica?
Abbiamo cose in comune. C’è una certa fisicità,
un’equivalenza che entrambi facciamo tra gli
oggetti e i suoni, gli oggetti grandi emettono
suoni forti, o suoni che hanno la concretezza
delle cose perché sono rumorosi e grezzi. Anche
un uso astratto del linguaggio. Eppure siamo diversissimi, loro sono lenti, tedeschi, non hanno
swing mentre i DNA erano molto ritmici in una
maniera un po’ americana e un po’ brasiliana.
Che cosa intendi con la parola physicality?
Musica che ti connette con il corpo, in parte
attraverso il volume ma anche con il ritmo. Il
ritmo è un riflesso delle relazioni interne tra i
diversi organi da cui è formato il tuo corpo. Una
musica sensuale, non troppo cerebrale o medi-
tativa. Non dipende solo dal registro, perché un
bordone può essere anche molto fisico.
Ma anche astratto…
Sì, è vero. I drones sono diventati molto popolari negli ultimi anni con diversi tipi di wall
of sound, dai SunnO))) ai giapponesi come
Merzbow. In tanti lavorano con queste idee.
Puoi darci qualche anticipazione sui tuoi
nuovi progetti?
Voglio registrare un disco nuovo. Ho sperimentato con i suoni in surround durante i concerti,
una cosa che non si può sempre fare quando sei
in tour con una band, ci vuole una situazione
speciale come Live City, per cui ho collaborato
con un musicista di Berlino che lavora per la
Cycling ‘74, la compagnia che produce il software Max MSP. Abbiamo sperimentato con
le nostre rispettive idee cercando di far muovere i suoni nello spazio ma connettendoli alla
musica. È un progetto a cui ho lavorato per un
po’, adesso vorrei mettere su una band e fare
un disco, anche se non so ancora che direzione
prenderà. Ho un po’ di idee da sviluppare.
Hai anche nuove canzoni?
Ho scritto dei testi e spero di farne delle canzoni una volta che avrò finito di lavorare alle
musiche che sto scrivendo con altri in stile
candomblé.
Stai scrivendo per qualcun altro?
Non proprio, c’è un musicista di Rio, Lucas
Santtana, con cui sto scrivendo dei pezzi, ma
per adesso sto pensando al gruppo che voglio
formare.
Hai già in mente che tipo di gruppo sarà?
Una big band?
No, solo cinque persone. Ho anche intrapreso
alcuni progetti insieme a percussionisti di candomblé, il culto di origine afro-brasiliana; è una
cosa molto interessante.
Quel genere di ritmo ha mai influenzato i
DNA?
Certamente. Con i DNA ho sperimentato an-
che sull’idea di possessione, sul come la musica
possa impartire ordini o porre delle domande.
Adesso ho voglia di formare un nuovo gruppo,
tra un po’ dovrei andare a New York a provare
con alcuni musicisti.
Suonerai dal vivo ora?
A luglio ci saranno sicuramente date in Italia,
anche se non so ancora dove [è previsto il 2 a La
Spezia, il 12 a Monforte (CN), il 13 a Modigliana
(FC), il 15 a Catania il 16 a Villa Arconati (Bollate, MI), il 18 a Roma, NdSA].
9
A 50 anni dal primo prototipo di sintetizzatore modulare, Moog Music annuncia il nuovo
Emerson Moog. Strumenti, quelli della compagnia americana, che hanno condizionato le sorti
della musica popolare, dalle sperimentazioni prog al pop da classifica.
Testo di Elia Galli
50 aNNI DI MOOG
in cinque tracce
1964, Robert Moog costruisce il primo prototipo di quella serie di sintetizzatori Modular
che avranno un impatto fondamentale sulla
musica degli anni a venire. Una creazione,
quella dell’ingegnere elettronico di New York,
che risulterà seminale per i successivi rilasci di
macchine come Minimoog, Polymoog, Voyager
e Little Phatty.
Cinquant’anni dopo, utilizzando le stesse procedure, riproducendo i moduli come fedeli copie
10
degli originali, dagli stabilimenti di Asheville,
North Carolina, risorge l’Emerson Modular
System, omaggio al famoso tastierista. Un
viaggio lungo cinque decadi, dalla metà degli
anni ‘60 ad oggi, durante il quale l’utilizzo degli
strumenti Moog è stato snodo cruciale delle sorti prog, innesto futurista nel pop, divagazione
paradigmatica nella musica colta.
Le celebrazioni di questo viaggio, però, troppo spesso si perdono nell’élite delle citazioni
convenzionali. L’assolo di Keith Emerson in Lucky Man, i Beatles di Abbey Road, Autobahn dei
Kraftwerk. La grandezza dei sintetizzatori Moog risiede nella capillarità della loro diffusione, e nel
loro conseguente utilizzo all’interno dei contesti musicali più diversi. David Borden, compositore
minimalista americano, disse infatti: “L’invenzione di Robert è onnipresente, ed ha avuto un impatto
pari, se non superiore, all’invezione del pianoforte“. Quelli che seguono, quindi, sono cinque pezzi,
uno per ogni dieci anni dell’ultima metà di secolo, meno considerati in sede apologetica, ma in ugual
misura indicativi della grande rivoluzione Moog.
1 969 / M ort G arson – Easy To B e H ard
Mort Garson è stato uno dei pionieri Moog. In Electronic Hair Pieces, album che contiene Easy
To Be Hard, il musicista canadese rivisita in chiave cosmica le canzoni del musical Hair, due anni
dopo la sua prima teatrale. Operazione consueta per un’epoca popolata di band che rielaborano
classici o hit del momento elevando a unico protagonista il sintetizzatore analogico.
1 973 / Roger P owell – T ensegrity: A Dymaxi o n T riptych
Dall’album Cosmic Furnace, un esempio in salsa western-prog del futurismo primordiale di Roger
Powell. Sintetizzatori Moog e Arp al servizio di un disco che Billboard, nel gennaio del ‘73, recensì
come “affascinante [...], caratterizzato da tutti quei misteri ipnotici tipici del recente approccio freeform di Miles Davis”.
1 98 1 / Syreeta – Can ’t Shake Yo ur Love (Larry Levan M i x)
Nel 1981 siamo in pieno fermento Paradise Garage, e Larry Levan scuote New York con la nuova
creatura garage-house. Giro di basso Minimoog sul disco-funk di Syreeta Wright.
1 997 / A ir – La Femme D’Argent
In apertura del capolavoro Moon Safari, La Femme D’Argent. Il pop elettronico del duo francese,
post-exotica per il nuovo millennio, non potrebbe esistere senza Robert Moog. Jean-Benoît Dunckel
lo sa, e lancia un assolo sintetico verso l’infinito.
20 0 9 / F ranz Ferdinand – Lucid D reams
Da sempre interessati alle sonorità vintage-analogiche, i Franz Ferdinand scoprono il Voyager con
il loro terzo album, Tonight: Franz Ferdinand. Già introdotta con Ulysses, la macchina marcata
Moog viene innescata dall’arpeggio acido-electroclash in coda a Lucid Dreams.
11
A tu per tu con il Pernazza - voce dei Magellano ed ex membro degli Ex Otago, ex Coniglio
rapper per Chiambretti e attuale presentatore su La3 - per una lunga chiacchierata su tutto, o
quasi.
Testo di Sebastian Procaccini
Magellano
Conigli, hashtag e calci: vita di un Pernazza
Anche senza conoscere approfonditamente il
mondo della musica e dei musicisti, quasi tutti
sono in grado di riconoscere il Pernazza, al secolo Alberto Argentesi, personaggio poliedrico dai
trascorsi televisivi più che noti. Stiamo infatti
parlando, per i pochi che non lo sapessero, del
coniglio del programma di Chiambretti, celebre
per i suoi versi rap a metà tra il parodistico e
l’imprevedibile. Il Pernazza però è anche altro.
12
Ad esempio, è una delle voci e delle menti dei
Magellano, uno dei vari gruppi di Garrincha
Dischi usciti proprio di recente con un secondo
disco il cui titolo è abbastanza eloquente: Calci in culo. Non solo, è stato anche un membro
fondatore degli Ex-Otago, le cui performance dal
vivo sono rimaste negli annali. E c’è dell’altro:
il Pernazza è anche il presentatore di uno show
all’avanguardia su La3, in cui è predominante la
presenza dei social network. Tantissima roba insomma, così tanta che la chiacchierata è durata
più di quanto una normale intervista preveda,
finendo per trattare argomenti anche non strettamente musicali, eppure attualissimi.
Sfidiamo la banalità affrontandola a muso
duro e facciamo subito la domanda più scontata: perché “Calci in culo”?
Ho sempre avuto una passione per i giochi di
parole, da tempi non sospetti, cioè da prima
che diventassero di moda sui social network, e
questo titolo per una canzone o per un disco l’ho
sempre avuto in mente.
Mi sembra che i giochi di parole siano un
elemento molto frequente nel tuo modo di
scrivere, fin dal precedente disco…
Sì certo, Tutti a spasso è un titolo che ha diversi
significati: da una parte voleva dire andare in
vacanza, divertirsi, dall’altra anche smettere di
lavorare o emigrare, ed era l’ideale per un brano con un mood adatto a descrivere un periodo
particolare (quello della riforma Fornero). Allo
stesso modo ci è sembrato perfetto Calci in
culo, che rimandava a più cose, dalla giostra dei
ragazzini alle raccomandazioni, che purtroppo
caratterizzano così tanto questo periodo storico.
Inoltre si adattava anche a perfetto hashtag per
il web, per descrivere tanto le situazioni positive, quanto quelle negative. Più semplicemente,
ci suonava molto bene, anche per la matrice
aggressiva che contiene.
Hai utilizzato il termine hashtag e hai parlato
di aggressività verbale: mi sembra inevitabile, a questo punto, chiederti se ti senti influenzato direttamente o indirettamente dalla “poetica” di Grillo e dell’invettiva violenta
e urlata, portata avanti proprio attraverso il
web e i social network…
É un ottima domanda e mi fa piacere che tu la
ponga, perché io sono genovese e ho più di 30
anni, quindi ho vissuto Grillo e ho avuto modo
di vederlo fin da quando faceva il comico. Con
lui hai la conferma dell’idea, presente anche in
Giambattista Vico, di come tutto sia circolare:
alla fine Grillo è passato dall’essere un personaggio televisivo a fare comizi a pagamento nei
teatri, aprendo anche dibattiti importanti e necessari, anche e soprattutto grazie all’uso della
parolaccia. Va comunque detto che al di là della
forza insita nella parolaccia, il suo utilizzo, così
come quello della bestemmia, ha perso buona
parte del suo potenziale, proprio perché è una
cosa che si verifica spesso. Però sì, è palese che
utilizzare la parolaccia a volte serva a portare
meglio un messaggio, anche considerando che
spesso il tramite è costituito dai social network.
A proposito dei social, mi pare che il tuo
rapporto con i social network sia parecchio
intenso e vada avanti ormai da tempo…
A dire il vero devo confessarti di essere arrivato colpevolmente in ritardo a due importanti
strumenti come Twitter e Instagram, sia per la
voglia di mantenere la privacy, sia per un’attitudine un po’ da struzzo, e credo sia stato un
errore, perché in certi ambiti i social sono un
ottimo modo per evitare i calci in culo di cui sopra. Ai tempi di Chiambretti, ad esempio, avrei
potuto sfruttare molto di più la forza dei social
network. In generale, i numeri delle visualizzazioni, sono spesso un lasciapassare verso certe
porte notoriamente chiuse, vedi ad esempio
molti dei fenomeni più recenti in ambito rap.
Per quello che mi riguarda credo che il segreto
di tutto sia la curiosità: voglio dire, al di là dei
corsi post laurea su social strategy e via dicendo
(che non ho mai frequentato), la voglia di documentarsi ti offre la possibilità di accedere a
molti universi non così facilmente raggiungibili.
Per lo meno è andata così nel mio caso e sono
abbastanza sicuro che lo stesso discorso valga
per tantissimi altri tipi di lavoro.
Entriamo nel vivo di questo ultimo lavoro. E’
ovviamente differente, personalmente l’ho
trovato addirittura cupo e pessimista. Lo hai
13
fatto con uno spirito diverso?
Sì, ma in realtà la diversità che mi sento di sottolineare è quella legata al modo in cui mi sono
approcciato al creare canzoni. In questo caso ho
preso lezioni di solfeggio, per migliorare l’aspetto metrico di alcune cose, visto che questo tipo
di canzoni costituivano una difficoltà maggiore
rispetto ai miei contributi ai lavori con gli ExOtago. Nello stesso tempo anche Filippo si è
applicato il più possibile alle macchine. Inoltre
tutto quello che senti suonato è stato affidato a
vere e proprie eccellenze locali qui in Liguria.
Riguardo al mood, lo riterrei più aggressivo e
disincantato che pessimistico, ma sicuramente
la migliore interpretazione degli stati d’animo
delle canzoni la potranno dare gli ascoltatori:
noi abbiamo scattato molte foto, a qualcuno
piacerà lo scatto, a qualcuno il soggetto, ad altri
la cornice. Si tratta sicuramente di un lavoro diverso rispetto a Tutti a spasso, anche perché ai
14
tempi non mi dedicai pienamente alle varie fasi
di realizzazione. Qui invece ho potuto seguire più o meno tutto, come anche Filippo; è un
disco assolutamente di noi tutti, malgrado tanti
impegni legati a lavoro (io) e famiglia (Danilo).
Fortunatamente tanti anni con gli Ex-Otago mi
hanno consentito di affrontare il lavoro con una
certa costanza fin dall’inizio della sua creazione,
alla fine del tour di Tutti a spasso. Un notevole apporto ci è stato dato anche dall’etichetta
(Garrincha Dischi, NdSA), che ritengo personalmente l’etichetta più hip hop tra le etichette non
hip hop.
In che senso?
Beh, Garrincha è un’etichetta talmente assurda
e naif, eppure organizzatissima, così tanto da
essere riuscita a far arrivare il proprio gruppo di
punta ai vertici della classifica iTunes, facendo
convivere al suo interno esperienze diversis-
sime come noi, L’Orso, i Chewingum, lo Stato
Sociale e vari altri. Credo che un’etichetta così,
con quell’attitudine a far collaborare così tanto
le band al suo interno, possa essere definita hip
hop nel suo non essere hip hop.
Beh sì, in effetti nel tuo disco, collegandoci
a questo discorso, c’è anche un brano fortissimamente hip hop, pur non avendo affatto
quella sonorità specifica: La canzone dell’Ukulele.
Esatto, ci hai preso in pieno. É una specie di
piacere restituito; a suo tempo avevo fatto
James Van Der Beek nel disco de L’Orso, che
registrammo in quel di Bologna e che, malgrado
alcune cose che ora cambierei, continua tuttora
a divertirmi e a soddisfarmi. Figurati che quel
brano ha ricevuto riscontro positivo dallo stesso
Van Der Beek. Comunque, a parte l’antefatto, il
brano di cui parli è decisamente hip hop nella
sua filosofia e nell’atteggiamento, tanto per la
questione della collaborazione, quanto per il
fatto che poi si parli dell’etichetta, quanto per
la prima strofa, che è fortemente “meta”, come
buona parte dei testi hip hop. Io alla fine ho vissuto la cosa da esterno, diciamo, ma ho seguito
con passione e attenzione molte delle sue evoluzioni grazie ad amici che erano nella cosa e che
a loro modo ci sono ancora. Va inoltre aggiunto
che grazie a Chiambretti, il mio ruolo di “rapper” è stato sempre percepito con simpatia da
buona parte di alcuni mc’s, anche insospettabili,
perfettamente consci di come il mio non fosse
uno scimmiottamento guidato dall’opportunismo.
Andando avanti nell’analisi dei brani più
intriganti, potresti dirmi qualcosa su E se
Einstein avesse ragione, che mi sembra abbastanza esemplare per quello che riguarda la
natura ibrida di tutto il disco, in cui i generi
si accavallano l’uno sull’altro?
Secondo me si tratta di un brano un po’ diverso rispetto al resto del disco. Il suo sviluppo è
un’idea di Filippo; inizialmente si era pensato a
tutt’altra struttura, doveva essere un brano prettamente strumentale, e infine è stato declinato
in una versione abbastanza hardcore (parlo sia
dell’attitudine, che del ritornello urlato). É un
brano che al di là delle interpretazioni, ha una
sua urgenza prettamente punk, molto diretta,
e parla della teoria di Einstein delle api, ma in
realtà è un modo per spiegare come noi tutti siamo soggetti a un vita in cellette e all’obbedienza
verso una regina. Credo che il mio apporto nel
ritornello sia stato azzeccato per i miei trascorsi negli Stalkers, un gruppo hardcore in cui ho
militato.
Sempre parlando di canzoni con più di un
significato, prendiamo in considerazione il
brano in cui la pluralità di significati è più
accentuata, ovvero Cerchi nel grano…
Sì, di significati lì ce ne sono parecchi: alcuni sono semplici topoi parecchio diffusi nelle
canzoni (di riferimenti al grano, la tradizione
italiana è piena), anche se in realtà i riferimenti
sono di vario tipo. Considera che sono legatissimo a questo brano; se mai ci sarà un terzo disco
dei Magellano, sarà proprio Cerchi nel grano il
brano da cui ripartiremo e con ogni probabilità
sarà anche il prossimo singolo. Mi piace molto,
parla di riferimenti pop come serie tv e film
trash, abitudini e vizi umani, alieni, amori non
corrisposti, stelle, spighe e addirittura di True
Detective. E poi ovvio, parla di soldi e di pane.
Parla di moltissime cose, insomma. E la cosa
migliore è che questa pluralità di significati non
è stata programmata, è qualcosa che, fatto salvo
il lavoro di limatura, è nata nella maniera più
spontanea possibile. Quando il gioco funziona, il
messaggio arriva, è quella la cosa che più mi interessa e che mi trattiene dal cercare riferimenti
più colti o dal ricorrere a sovrastrutture eccessivamente elaborate. Anzi, spesso il lavoro che
faccio è più togliere, che aggiungere elementi.
15
Arrivando verso il finale e conoscendoti un
po’, mi viene da chiederti qualcosa sui tuoi
ascolti di questo periodo. So che potresti
dare una risposta meno scontata di quanto si
possa immaginare…
Premetto che io amo comprare i dischi che amo,
e il fatto che non stia comprando ora dischi è
sintomatico di come qualcosa non vada; perciò
ho difficoltà a farti una eventuale top 5 dei miei
ascolti attuali, nonostante qualche sporadico
colpo di fulmine. Ascolto più o meno tutto, facendo serate in cui mi relaziono con personalità
musicali anche antitetiche tra loro, quindi posso
passare da Katy Perry, a Rick Ross, al rap italiano, ai Blue Sky Black Death o a vari gruppi emo.
Ho ascolti polivalenti, nell’ultimo periodo ad
esempio mi piacciono le canzoni di Sinigallia,
ho approfondito i Subsonica e rivalutato molte
cose reggae. In generale è comunque non consigliabile porsi troppi paletti per gli ascolti, evi-
16
tare soprattutto i discorsi “ideologici” del tipo
“musica per la massa e musica underground”.
Puoi trovare cagate in entrambi gli ambiti.
Parlando di massa, il mezzo di comunicazione
per eccellenza fino a qualche anno fa è stato la
televisione, mentre ora invece sembra essersi
spostato tutto verso il web, anche solo per lo
streaming delle serie tv.
Hai vissuto un’esperienza lavorativa con la
TV generalista per eccellenza, malgrado si
trattasse del programma di una delle personalità più anomale del settore (Chiambretti).
Ora stai invece lavorando a La3, in un programma che mette in primo piano l’elemento
social network, e nello specifico Twitter.
Com’è stato passare da una cosa all’altra e
come sta andando?
Il passaggio è stato assolutamente non traumatico, a parte il fatto che quando lavoravo con
Chiambretti spesso la gente mi fermava per
strada e ora succede molto di meno. Quindi, un
minimo di perdita di visibilità c’è stata. L’esperienza in quel collettivo, tuttavia, mi ha dato la
possibilità di vivere un’avanguardia che probabilmente si era vista prima solo con Arbore, è
stato decisamente stimolante. Parlando del presente, posso dirti che ho parecchia libertà. La3
è un canale costituito da persone molto attente
a quello che succede, ed è sembrato opportuno fare un programma che sottolineasse come
il web influenzi le nostre abitudini e il nostro
linguaggio, considerando anche che nel caso di
personaggi famosi questa influenza viene esercitata con molta più forza. Riguardo ai risultati
effettivi, parlo di ascolti, è difficile capire come
vada, anche perché ormai i programmi non
vengono più guardati in diretta o sulla tv, quindi
è difficile stabilire se un programma funziona
basandosi solo sugli spettatori televisivi.
17
Incontro con Forest Swords, alias di Matthew Barnes. Ritratto umano e professionale di una
delle icone di un movimento trasversale di producer e musicisti che hanno trovato nuovi modi
d’unire beat e melodie
Testo di Edoardo Bridda
© Daniele Casciari
Forest Swords
Feeling that resonance
Incontriamo Forest Swords, ovvero Matthew
Barnes, al Mattatoio di Carpi il pomeriggio
della stessa giornata che lo vedrà suonare in duo
nel locale, all’interno di un ottimo programma
di preview organizzato dal Node Festival. Di
Barnes conosciamo tutto o quasi, a livello mediatico. Sappiamo che al voltar della decade è
18
stato uno dei protagonisti più monitorati di una
scena dai nuovi ed inediti contorni crossover tra
melodia e ritmi, assieme a James Blake, Mount
Kimbie, Balam Acab e How to Dress Well, un
contesto tanto caratterizzato da un uso estensivo del laptop, tra layer e manipolazioni, quanto
dall’impiego di suoni concreti e di particolari
settaggi sulle voci, richiamate più come essenze
collaterali che come guide all’arrangiamento.
Il marchio Forest Swords, in particolare, sembra
veramente vincere tutto nel 2010, anno in cui,
a distanza di circa 12 mesi dalle prime immersive session compositive, il suo giovane autore
si ritrova Dagger Paths – EP d’esordio uscito
inizialmente su Olde English Spelling Bee e
poi riedito per la londinese No Pain In Pop con
l’aggiunta del 7”’ Rattling Cage - tra le migliori
uscite della stagione secondo Fact (che lo nomina album dell’anno), Pitchfork (che lo valuta
con un generoso 8.4), Drowned In Sound (ancora più alto, con 9/10) e per finire il popolare
Guardian (che lo indica tra le perle nascoste di
quell’anno). A livello di fama, e di conseguenza sul piano dell’agenda concerti, un giovane
poco più che ventenne, passa in un lampo dallo
strimpellare con una chitarra collegata ad un
portatile in una provincia ad ovest di Liverpool
a fenomeno di culto per le più importanti riviste
specializzate al di qua come al di là dell’Atlantico.
Giusto un anno più tardi la stessa sorte toccherà
all’amico e compagno d’etichetta Evian Christ,
che finirà in uno dei tanti co-crediti di Yeezus
di Kanye West, ma questa è un’altra storia, pur
con qualche analogia e un importante elemento
in comune, ovvero Tri Angle. Tri Angle non solo
è l’etichetta che accomuna i due ragazzi, ma anche un solido porto per suoni che si sono svincolati, in particolare negli ultimi due anni, dalle
tag e dai luoghi comuni hypnagogic e witch
house per abbracciare alcuni dei più freschi
mix di disparati elementi quali hip hop, wave,
ambient, ambient, noise, instustrial, techno, dub
ecc. All’interno del roster, Forest Swords – il cui
sound era già assolutamente ricettivo fin dall’esordio su Olde English Spelling Bee – fa la figura della matta nel mazzo, anche solo per l’uso
“rockabilly” (davidlynchiano? morriconiano?)
della chitarra, elemento che lo ha reso appeti-
bile per tutta una serie di ascoltatori e non solo
per gli aficionados dell’elettronica.
Premessa doverosa per introdurvi al racconto di
una chiacchierata con il ragazzo al di sotto degli
strati di paragoni, paralleli, contesti e sottocontesti. C’è una bella differenza tra il Matthew
Barnes sagoma in bianco e nero con il ciuffo arricciato sulla fronte delle foto press e il ragazzo
con i capelli rossicci che, di fronte a noi, braccia
incrociate e gambe accavallate, ci racconta di sé
seduto comodo e un po’ rigido su una poltrona
in pelle imbottita. E’ un bravo ragazzo, questo lo si capisce immediatamente. Pragmatico
e cortese nella media inglese, con un accento
non troppo marcato e già una certa pratica con
le interviste, dove senza sbottonarsi troppo fa
emergere fatti sui quali non c’è nessun segreto,
nessun riserbo e tanto meno colpi di scena. Il
progetto nasce in un momento un po’ buio. Perso il lavoro, nel 2009, Barnes, ancora piuttosto
fresco di studi alla scuola d’arte, ha un sacco di
tempo libero e con una chitarra che maneggia
già dall’età di 12 anni (un regalo di Natale) e un
laptop, impiegato sia per usi di grafica artistica
che per manipolazioni e stratificazioni sonore,
inizia ad immergersi in una serie di possibilità
arrangiative senza pensare a un domani né tanto
meno a chiudere questa o quella composizione.
“Poi le cose hanno iniziato a prendere forma e
un senso“, ci confessa “ho postato questi demo
su internet e qualcuno poco dopo mi ha chiesto
se volevo produrli“.
Foto di Daniele Casciari
La storia di Matthew sembra tra quelle che non
si scrivono, con il lieto fine all’inizio del film:
un breve abbattimento, l’escapismo creativo,
la svolta, il successo. “Nel mentre è stata dura
ma guardando le cose a posteriori, è stato un
processo naturale, organico“, ammette all’inizio
dell’intervista, eppure, man mano che la nostra
chiacchierata procede, è sempre più chiaro
parecchio ruvidi” nel suo lavoro, ma è evidente
che fare musica per lui è un processo che richiede moltissimo tempo. “Non direi di essere un
perfezionista nel senso di uno che vuole tutto
a puntino… …diciamo che quando sento quella
precisa risonanza in un brano solo allora sento
di poter andare avanti“.
Risonanza è forse una delle parole più rappresentative della musica di Forest Swords, è
qualcosa che vibra in spazi aperti, che possiede
carattere ed è refrattaria ai contenimenti, un
piccolo mondo dai confini non ben delimitati
eppur visibili che nasce magari da una scoperta,
da un particolare attorno a cui viene costruito
un insieme più o meno articolato e non gerarchico di elementi. I suoi remix, di fatto, vengono composti proprio in questo modo. “Quando
remisso un brano ho l’abitudine di trovare un
piccolo frammento o qualcosa di inusuale all’interno che mi colpisce e una volta individuato
cerco di costruirci un pezzo nuovo attorno. Così
invece di metterci un beat dietro come fanno
© Daniele Casciari
quanto dietro al risultato conseguito dal producer ci sia un lavoro enorme di concentrazione,
di metodo e di sintesi che non si traduce facilmente in un racconto di influenze. Certo, all’inizio è molto “interessato al reggae, al dub e al
rock“, e rivela di aver speso “un sacco di tempo
ascoltando interi box set della Trojan“. Eppure
Forest Swords è molto di più, riassume un range
di influenze di cui il suo autore non solo non è
consapevole al momento della composizione,
ma non è neppure interessato a discernere se
non, eventualmente, a posteriori.
Molto più interessante per lui è il racconto del
tempo speso per ottenere quel particolare effetto sui piatti e sulle percussioni, quel particolare
timbro nei suoni. Un po’ come Aphex Twin,
gli diciamo, e lui, ridendo, continua illuminato
descrivendoci questo processo come “quando metti una chiave in una serratura e trovi il
giusto click che fa girare gli ingranaggi“. Precisa
di non sentirsi un perfezionista nel senso comune del termine perché ci sono “suoni grezzi o
20
molti, lo rifaccio da capo. C’è molta più soddisfazione così ma può diventare molto stancante
e richiedere molto tempo“.
Una delle ragioni per le quali Barnes non dedica
più molto tempo a questi lavori su commissione
(“Devi stabilire delle priorità e quelle a un certo
punto sono per la tua musica“) rappresenta un
altro indizio della sua concretezza nell’approccio all’arte ma anche del suo modo di lavorare.
“Costruire ‘blocchi’ in una traccia è quasi come
fare un collage, mettere assieme elementi grafici
in photoshop e elementi musicali non è così
differente“. Ed in questo quadro finisce anche
l’interpretazione che Matthew dà dell’uso della
chitarra nella musica di Forest Swords. “Non
potrei dire di essere un buon chitarrista“, afferma “strimpello fuori dal pentagramma, trovo
suoni e melodie che suonano bene e stanno
bene tra di loro“.
Una delle strade che hanno portato la critica
a trovare paragoni con l’attività di Mark Nelson nei Pan American, per Forest Swords, sta
proprio qui, in questo uso svagato e vagamente
western della seicorde che fa un po’ post-postrock e finisce per tirar fuori un’altra passione di
Barnes, ovvero i Mogwai e i Sigur Rós. “Molti
hanno paragonato la mia musica a quella di Pan
American, non l’avevo mai sentito prima ma
ascoltandolo poi ho potuto trovare le somiglianze“. Un po’ come Jamie Stewart degli Xiu Xiu
con Mark Hollis, gli ribadiamo…
Altro aspetto interessante è il contesto geografico. Wirral, dove abita Matthew, è un piccolo
centro a 30 minuti da Liverpool, una penisola che è anche una città di mare senza scene
musicali e con poco da fare. Anche se i giri nella
grande città sono frequenti in occasione di
mostre, concerti ecc., è importante per lui continuare a stare lì anche per un discorso di concentrazione. Il suo ultimo album, Engravings, è
stato inciso tutto all’aperto, in particolare vicino
ad un fiume. “Ero stanco di comporre a casa
in camera da letto al buio, e così ho pensato di
cambiare scenario, mi sono poi reso conto che
stare all’aria aperta ha cambiato completamente il mio approccio“. E la melodia, per uno che
cresce vicino a Liverpool, come deve essere?
Barnes parte da lontano: non è molto interessato alla pura musica d’ambiente o al noise. Non si
sente un cantautore e non vuole scrivere canzoni, di sicuro però un certo livello d’attenzione
nei suoni che ascolta e produce deve portare
con sé un mood e dunque qualcosa di melodico
(“Un portato dall’abitare vicino alla città natale
dei Beatles, I guess so“).
Naturalmente la nostra chiacchierata, molto
lineare ma non per questo fredda o di routine,
finisce parlando del live: Matthew ha portato
con sé un amico fraterno, un compaesano, rosso
come lui ma con una folta barba. E’ il suo bassista, ma anche il suo compagno d’avventure. Alle
loro spalle, durante lo show, ci saranno dei visual coordinati e ideati da Sam Wheel, sempre
di Liverpool, video che sono stati creati specificatamente per le canzoni di Forest Swords e
hanno richiesto quattro o cinque mesi di lavoro. La sincronia tra video e musica impone un
set piuttosto strutturato che non lascia molto
spazio all’improvvisazione, anche se i due amici
garantiscono di poter dare il loro contributo
originale all’esibizione.
Finito il concerto, proprio il giorno dopo, Forest
Swords suonerà a Istanbul, in Turchia, all’interno di un festival stranamente molto brit con
Zomby e Evian Christ. “Non corre buon sangue tra di loro“, gli diciamo “Non mi stupisco,
Evian sui social è un autentico troll“, risponde
sardonico il ragazzo, che dei suoi compagni d’etichetta, e dei producer del giro di questi eventi,
sembra essere piuttosto informato. “A proposito,
in Italia ti si vedrà per Ypsigrock vero?“. Barnes:
“Yes mate, is gonna be amazing“.
21
Dopo un album e un tour lunghissimo e fortunatissimo, dopo litri d’inchiostro spesi dalla
critica al riguardo, tornano i Lo Stato sociale con il nuovo album “L’Italia peggiore”. Li
abbiamo incontrati e stuzzicati, non risparmiandoci alcune, scomode, domande.
Testo di Nino Ciglio
Lo stato sociale
la rivoluzione col polleggio
22
Lo stato sociale è una di quelle band che, se ci
fosse un concorso per “chi ha speso più inchiostro al riguardo”, vincerebbe facilmente il primo
premio. E in fondo piace, a noi “criticoni”, dire la
nostra con intelligenza (a volte con arroganza),
argomentando, nei più svariati modi, il perché
– come si scriveva su queste pagine in un articolo datato 2011 – “quel cazzeggio democratico,
in cui tutti si ritrovano a meraviglia, e con poco
sforzo cliccando su “mi piace” sia lo scopo finale
del quintetto bolognese. Assolutamente condivisibile. Come del resto scervellarsi sul come,
dove e quando tal dei tali, recensore di tal rivista, si sia sbilanciato un po’ troppo sul gruppo.
Nessuno si scandalizza e, se c’è il dibattito, vuol
dire che c’è coscienza musicale e sociale. Che
il fan medio de Lo stato sociale, poi, sia un fan
diseducato – come pure s’è detto in giro – è una
questione discutibile e per la quale ci vorrebbero altre sedi, che tocchino, per dirne una, il problema (?) dello stato di salute dell’indie italiano.
Un genere? Una marca? Un distintivo? Non c’è
bisogno di vederlo come un viatico artistico e il
sintagma, già di per sé vago, così affrontato finisce per perdersi in fumo.
Certo, è bene ricordare (a noi stessi, ai lettori, a
tutti) che altra cosa sono Brothers In Law, Iori’s
Eyes, Drink To Me, Ka Mate Ka Ora, Be Forest,
Echopark, His Electro Blue Voice, M+A, Porcelain Raft, Vaghe Stelle, ecc… (l’elenco completo
lo trovate nella nostra bella playlist) per l’indie
italiano. Sono cosa con un respiro più ampio e,
semplicemente, non paragonabile alla band in
oggetto. E non per forza per ragioni qualitative.
Poi, se si pretende di indicare Lo stato sociale come punta di diamante dell’indie italiano
o purga di tutti i suoi mali, allora, forse sì, l’ascoltatore medio è diseducato. Ma siamo certi
che i ragazzi della band non hanno mai avuto
quest’ambizione. Come, altresì, l’ambizione di
Brunori, ad esempio (come si diceva qui), non è
mai stata quella di essere “il cantautore dell’in-
die italiano”, ma, semmai, quella di suonare nei
falò o, al massimo, al concerto del Primo Maggio. Ma che razza di musicista indie può essere
uno che suona al primo maggio?
“Le canzoni sono quella cosa che chi non le scrive le prende tremendamente sul serio” ci è stato
detto. Vero, certe volte perdiamo la bussola del
reale. Ma legittimo è anche considerare la musica de Lo stato sociale come esegesi reale (e un
po’ grossolana) del nostro essere, ovvero “parti
di una comunità piccola e fin troppo legata a una
ritualità espressiva che per paura o per gioco
vogliamo sempre più riconoscibile, immediata
e infine divertente”. E quindi – come in sede di
recensione di Solventi – “la svaccata è sempre in
agguato”. E allora?
E allora abbiamo provato a sentire la loro opinione, in un pomeriggio soleggiato di maggio,
quando, prima di partire per l’ennesimo tour
affollatissimo, li abbiamo incontrati al Locomotiv Club di Bologna. Abbiamo provato a stuzzicarli, mettendoli in posizioni scomode, un po’
come fanno loro nei confronti di chi ha il compito – legittimo – di giudicarli. Abbiamo provato a
spostare il piano di scontro dalla pancia – il loro
luogo ideale, quello che, secondo alcuni, li fa
peccare di coerenza politica, artistica e sociale –
alla testa, argomentando una serie di possibili ed
effettive critiche.
Turisti della democrazia, in fin dei conti, aveva ricevuto più stroncature che approvazioni
da parte della critica. Come si riesce a mantenere la testa alta e a fare un secondo disco
che tenti di suonare “coerente” rispetto al
primo?
Lodo: Io non credo che esista la musica bella o
brutta, non credo in queste categorie. Abbiamo
avuto la fortuna che le nostre canzoni parlassero
a tante persone e che in due anni trasformassero
quello che rimane un gioco nel nostro lavoro.
Siamo stati per lo più incoraggiati da questo.
23
Sul piatto della bilancia pesa più questo delle
opinioni di un critico. Gli unici momenti in cui
le critiche pesano di più, sono quando si scende nel personale, discutendo la nostra etica, la
nostra coerenza politica.
Bebo: Secondo me va sempre circostanziato il
“chi” ti dice “cosa”. Per me, un perfetto sconosciuto che dice che la nostra musica è brutta ha
tutta la legittimità di farlo e, per quanto possa
dispiacerci, lo accetto come un dato di fatto.
Ma quando esco a prendere una birra col mio
migliore amico e mi confessa tranquillamente
che Lo stato sociale gli fa cagare, continuiamo
ad essere uno il fratello dell’altro, ma ci rimango
un po’ male. Mi fa venir voglia di fare qualcosa
che possa piacere anche a lui. Mi dà più soddisfazione.
Avete mai pensato che L’Italia peggiore
potesse rappresentare magari una reazione
artistica alle critiche?
Lodo: Non ho mai pensato di dover reagire alle
critiche della critica. Secondo me non è il nostro obiettivo. Ci interessa arrivare a sempre più
persone e cercare di farle stare bene, soprattutto
quando escono di casa e magari ci troviamo ad
un nostro concerto. Le canzoni sono uno strumento per creare un bel momento comunitario,
possibilmente felice e liberatorio. Se le stroncature ci hanno portato a suonare di fronte a
trenta o novemila persone, va benissimo.
Il che ci porta a quell’articolo – recentemente edito – che ha scritto: “La voce che parla
in questo disco, comunque, è quella di uno
che nutre un forte risentimento verso il
mondo esterno, sinistra compresa, antagonismo compreso, e verso il gioco di ipocrisia
e arrivismo sociale in cui tutto è completamente immerso”, accusandovi, in virtù della
vostra situazione privilegiata, di mettervi al
riparo da tali critiche…
Lodo: Io lo trovo un pensiero intelligente, fatto
da una posizione un po’ bislacca. Partendo dal
24
presupposto che ci viene da parlare, scrivere e
raccontare così, e che comunque questo metodo è arrivato a comunicare qualcosa ad un po’
di persone, qual è il passo in più che dobbiamo
fare? Credo che sia una critica asettica, perché,
in questa fase storica, va molto di moda fare
critiche reazionarie, dando dei reazionari agli
altri. È probabile che noi non spostiamo di un
centimetro il futuro di chi ci viene ad ascoltare,
ma quanto meno lo facciamo uscire di casa, che
forse è meglio che stare davanti a un computer…
Un prodotto vero del grillismo è che i nemici del
grillismo hanno assunto i linguaggi del grillismo. Seppur affinati, articolati e intelligenti…
Non sembra tanto diverso da quando dicevamo “berlusconismo” al posto di “grillismo”…
Lodo: Sì, ma lì la piattaforma non era internet,
erano altre cose… Ora succede che il ragazzo
sveglio e di sinistra, che ha delle cose da dire,
dopo vent’anni in cui un partito di centrosinistra non ha fatto una sola battaglia di sinistra, riesce meglio a lavarsi la coscienza stando
davanti a un computer e argomentando succulente supposizioni per cui il grillismo è protofascismo, e così via… Secondo me, queste stesse
persone, cinque anni fa, erano in Val Susa e ora
sono davanti al computer a parlare di Grillo.
Ripeto: è possibile che noi non spostiamo nulla,
ma indica una strada…
Già, ma perché non la indicate voi?
Lodo: Ovvio, ma faccio solo quello di cui sono
capace. Sono contento di riuscire a portare le
persone fuori di casa e a farle stare bene. Alla
base c’è una visione del mondo e delle persone
diversa. Ho scelto di non pensare che le persone facciano schifo più di quello che immagino
e che non ci sia speranza in loro. Credo che
le persone siano quanto meno meglio di me e
quindi, nel mio piccolo, credo che questa cosa
porti da qualche parte. Gli articoli come quello
che hai citato, sono articoli che hanno come sostanza il fatto che noi, come persone, non valia-
mo un cazzo, che il mondo è fatto di giovani che
non valgono un cazzo ed è tutto molto autoassolutorio. Se uno pensa così, o si ammazza o esce
di casa e fa la rivoluzione.
Però il dualismo – che riguarda da sempre la
canzone che vuol farsi impegno – fra ottima
rifinitura della pars destruens e gravi carenze della pars construens, è un fatto che
riguarda anche voi…
Lodo: Credo che il linguaggio espressivo – che
è un linguaggio sintetico – sia molto efficace nel
raccontare un’utopia o nel distruggere il mondo presente. Sul quale sia la pars construens
in questo Paese, possiamo parlare cinque ore,
dal momento che già fra di noi abbiamo cinque
opinioni diverse. Crediamo che una canzone
possa provare a dare una scossa, una voglia di
cambiare in piccolo. Non siamo dei ministri,
non abbiamo fondato un movimento politico e
non vogliamo elencare 57 emendamenti di una
riforma in una canzone. Duemila o venti per-
sone in un locale che portano a casa una mattonella di felicità o di consapevolezza che non
stanno vivendo nel modo giusto, per qualcuno
che fa le “canzonette” è una grandissima pars
construens.
Bebo: Aggiungo che è necessario capire che si
tratta di canzoni, altrimenti faremmo altro. Il
miglioramento del mondo passa per le cose che
si fanno quotidianamente. Ho lavorato in fabbrica per sette anni e il mio obiettivo giornaliero era condurre le ore di lavoro al meglio e far
sì che la mia vita fosse dignitosa, che il lavoro
fosse – e spesso non lo era – un motivo per svegliarsi la mattina. Quando non facevo le “canzonette” e facevo solo fabbrica, facevo comunque
del bene nell’Universo, senza essere un personaggio pubblico ed esporre le mie idee. Non ho
bisogno di una grande sovrastruttura per giustificare la mia vita; sono contento di mettermi
a letto la sera, convinto di aver migliorato un
minimo me stesso e le persone che ho di fianco.
25
Sembra gandhiano, ma è così: non siamo riusciti
a far di più in 50 anni di lotta, in 25 di sinistra
moderna. Vorrei trovare tutti i giorni le energie
giuste da investire in un futuro migliore, mio e
delle persone che mi stanno vicine.
Questo non vi rende un po’ “generazionali”?
Non pensate di essere una sorta di band a
scadenza?
Lodo: E’ possibile che sia così negli effetti, che
fra cinque anni nessuno si ricorderà de Lo stato
sociale. Dire che è insopportabile che nei centri
sociali o nei movimenti chiamino a suonare Lo
stato sociale, appoggiandosi ad una mentalità
che definisco reazionaria, è una sciocchezza.
Noi veniamo da lì. Le occupazioni le abbiamo
fatte, nei centri sociali ci siamo stati. Per noi è
più strano andare nei club! Abbiamo amici nei
centri sociali con cui abbiamo fatto battaglie, è
normale che suoniamo lì!
Però di battaglie ora ne fate un po’ meno…
Lodo: E’ una questione dolorosissima. Spesso
26
continuiamo ad esporci: un anno fa con il referendum per l’abolizione dei fondi alle scuole private a Bologna, io personalmente per la
candidatura di Claudio Riccio alle europee con
L’altra Europa. Cerchiamo tutt’ora di esporci.
La sinistra fuori dal parlamento poteva creare una splendida realtà di movimento, ma non
è successo e si è rigenerata una rincorsa alla
soluzione per rientrare in parlamento. Tutte le
grandi lotte di resistenza (Muos, Ilva, Tav, Sesto
S. Giovanni, Rossano Calabro) sono passate in
secondo piano perché ora si deve stigmatizzare
il fatto che i grillini hanno un atteggiamento
protofascista. E’ vero, ma quando lasci le battaglie importanti senza nessuno che se ne occupi,
se non arriva a prendersele un fascista, arriva un
protofascista.
Parliamo un po’ de L’Italia peggiore. Stessa
formazione di Turisti della democrazia, stesso produttore…
Bebo: Matteo (Romagnoli, che ha prodotto
il disco con la band, ndSA) è un fratello, non
poteva esserci soluzione migliore. Per un periodo abbiamo pensato di appoggiarci a Tommaso
Colliva per il mix, ma abbiamo preferito – per
una semplice questione di estetica sonora – continuare con Francesco Brini. Abbiamo investito
un po’ di più sul mastering a Londra, che fa
suonare tutto un po’ meglio.
Dal punto di vista compositivo, c’è meno
elettronica di genere e in alcuni casi sfiorate
il reggae e lo ska. Come mai?
Bebo: Come al solito facciamo un casino fotonico… (ride, ndSA)
Lodo: E’ compito mio quello di mettere degli
accordi sotto un testo, a prescindere da chi lo
abbia scritto. Mentre in passato scrivevo spesso
al piano, per questo disco ho scritto quasi tutto
alla chitarra. Ho ascoltato Libertines, Arctic
Monkeys e Specials ed è venuto fuori un po’
così… D’altro canto ci sono momenti – come Il
sulografo e la principessa ballerina – in cui non
ho messo mano alla parte musicale, e l’elettronica spicca.
Si sente molta vita da tour nei testi de L’Italia peggiore. Quali sono le cose che vi hanno
segnato di più in più di due anni su e giù per
lo stivale?
Bebo: La grande bellezza dell’Italia tutta. Abbiamo conosciuto in due anni l’altissimo e il
bassissimo che offre questo Stato e, all’interno
di entrambi i poli, abbiamo conosciuto persone
che si battono e cercano di far qualcosa per rendere il Paese più bello.
Però poi il disco si chiama L’Italia peggiore…
Lodo: Beh sì, ha la doppia valenza: da una parte
è orgogliosamente autoironico e dall’altra è
l’Italia di Brunetta, secondo la quale i ricercatori vanno all’estero perché qua non hanno voglia
di lavorare come colf. In un paese di provincia,
ad esempio, se vuoi fare un festival o una serata con un minimo di ambizione, hai bisogno
dell’appoggio dell’assessorato. Molto spesso è
del PD, ma le realtà locali sono diverse dalle
dirigenze. Noi siamo molto fighetti e, in una
città come Bologna che ha molte realtà diverse,
possiamo decidere se suonare al TPO, che è un
centro sociale, o altrove. Ma se abitassi a Rocca
d’Aspide (SA), forse non avrei questa possibilità.
Sono stronzi quelli che, appoggiandosi ad un’istituzione o ad un partito, creano un momento
di cultura in cui le persone si divertono? Quello
è il caso in cui un’istituzione fa una cosa buona.
Max Collini – ospite in un brano del disco
– e i suoi Offlaga Disco Pax hanno un ruolo
fondamentale per L’Italia peggiore e per la
musica de Lo stato sociale in generale. Parlatemi dell’ospitata e di Linea 30, un brano che
ricorda moltissimo la band emiliana…
Lodo: Max è un amico, un padre putativo. Quando è venuto all’Estragon, durante l’ultima data
del tour scorso, premeva perché gli facessimo
fare qualcosa nel disco nuovo. Non sapevamo
cosa, però. Alla fine è finito in Questo è un grande paese che, ovviamente, gli fa cagare.
Bebo: Quando ho registrato le voci di Linea 30,
ho detto a Lodo: “Non voglio che suoni come
gli Offlaga” (ride, ndSA). Non era perché volevo
prendere le distanze, ma solo perché gli Offlaga
sono stati importantissimi, fin dai loro primissimi concerti. È inevitabile: quando metti del recitato su una canzone, la cosa più prossima per
un emiliano che usa l’elettronica, sono gli Offlaga Disco Pax. Magari dieci anni fa potevano essere i Massimo Volume. Linea 30, secondo me,
fotografa uno dei simboli della vigliaccheria del
Novecento italiano: colpire la città, le persone
comuni con una bomba al simbolo dei trasporti
del Novecento. Sono morte persone che non
c’entravano nulla e il risultato è stato che tutti si
sono aiutati: le persone comuni sono diventate
soccorritrici di quelle colpite dallo Stato.
Leggo che C’eravamo tanto sbagliati è nato
da una notte travagliata… ci racconti quello
27
che si può raccontare?
Lodo: “Resilienza”: una parola che ho imparato
dalle telecronache NBA di Flavio Tranquillo,
spesso in relazione ai San Antonio Spurs. Negli ultimi mesi avevo una gran voglia di fuggire
dal progetto, ma le cose erano già partite e non
potevo più tirarmi indietro. Il pezzo è stato un
meccanismo di recupero: dalla difficoltà al colpo di reni. Parla delle cose che odio negli altri, e
di quanto mi ci riconosca. O, forse, riconosco le
fasi rare – ma importanti – di conflitto con mio
padre, che, non a caso, fa il professore. La mia
maschera (che è quella cosa che non nasconde ma rivela, dice Peter Brook) in commedia
nell’arte è quella del Dottore, del professore,
del trombone, di chi insegna. Avevo bisogno di
mandare affanculo il mondo delle mie proiezioni e di liberarmi.
Quindi non sbaglia chi dice che le vostre canzoni trasudano “risentimento” personale o
“sensi di colpa”…
Lodo: Non sbaglia, basta capire che si tratta di
una canzone, di cinque minuti che fotografano
uno stato d’animo. L’iper-identificazione di una
persona in una canzone è una cazzata.
Veramente sognate un mondo della musica
dove vivere e cantare, in serenità, ascoltando
musica reggae, come si evince in La musica
non è una cosa seria? ‘Mazza che palle…
(Ridono, ndSA) Lodo: Prima di La musica non è
una cosa seria avevo scritto un pezzo tipo Manu
Chao, tipo la rivoluzione col polleggio… poi tutti
mi hanno rivelato che il pezzo era veramente
brutto. Non riuscivo ad entrare nel personaggio,
poi l’ho riscritto pensando ad un modo diverso
di fare le ribellioni. Voglio dire: noi occidentali, a livello culturale, leghiamo le ribellioni alla
violenza, alla rabbia (e nel disco ci sono almeno
due brani che parlano di questo); ma esistono
altre culture che pensano alla ribellione pacificamente, come al raggiungimento di una dimensione altra rispetto al mondo. Volevo parlare di
28
quello, parlando di una mia fuga.
A proposito di ribellione: sapete che Pasolini
è sempre stato criticato dalla sinistra anche
perché non riusciva a parlare di rivoluzione senza metterci dentro sempre i rapporti
sentimentali?
Lodo: Io in realtà pensavo a Time For Heroes
dei Libertines, in cui ogni strofa finisce con “I
cherish you, my love”. O ad Harold Pinter, che
parla del fallimento dell’utopia della sua generazione in Tradimenti e lo fa non citando mai la
politica: si parla solo della perdita di entusiasmo
di un tradimento… Senza macchine che vadano
a fuoco non vuole chiamare la volata alla rivoluzione adesso, ma il fatto che la vibrazione che ti
dà lottare o prendere botte per difendere delle
idee, ti fa sentire vicino chi hai accanto in una
maniera diversa.
Bebo: io mi relaziono con il mondo della musica elettronica, soprattutto quella dance. Lì la
rivoluzione è stata vissuta in maniere differenti:
Detroit, con l’Underground Resistance, doveva
essere messa a ferro e fuoco dal black power.
D’altra parte l’house mi ha insegnato l’edonismo, che è un concetto classico che si è un po’
perso. La rivoluzione è passata da lì: i primi
party sono stati un modo per le comunità omosessuali di colore di rivendicare i loro diritti.
Anche loro le botte se le son prese, ma l’house ha parlato molto più della comunità gay di
quanto non abbiano fatto tantissimi movimenti.
La musica era liberatoria, non autoassolutoria:
tutti si è uguali. Ora si guarda male chi attacca la
propria nicchia…
Lodo: La parola rivoluzione, infatti, è stata
bandita dalla società e quando non è proprio
bandita, le viene fatto un torto peggiore: viene considerata come una cosa piccola fatta di
piccole azioni quotidiane. La rivoluzione non è
fare la raccolta differenziata: è qualcosa di forte
che passa attraverso momenti di liberazione e
identificazione collettiva.
Raramente si ha a che fare con tanta bella musica ammucchiata in un unico album.
Squarcicatrici è un progetto nato nel 2006 dalle mani di Jacopo Andreini, polistrumentista
eccellente, agitatore musicale attivissimo dentro e fuori le mura nostrane. Col tempo il
nocciolo iniziale dei musicisti, in un primo momento chiamati solo a collaborare, ha assunto
caratteri stabili, verà identità di gruppo, mischiandosi e provandosi collettivamente, infilando
le idee in libertà. L’alto grado di professionalità artistica unita ad un sano gusto nel fare
musica ha prodotto uno dei più bei lavori di quest’anno, nessun timore a dirlo.
Testo di Christian Panzano
Squarcicatrici
Sopra, sotto e in mezzo a tutto c’è il punk
29
Stilkunst (ovvero arte del padroneggiare ed
esercitare stili differenti), e che non si scomodi
la Baviera per questi tempi moderni. Bayreuth,
Darmstadt e Parigi, poi New York, che alla disciplina wagneriana impose il silenzio. La Grande
Mela funge tuttora da pietra di paragone – o
metro con cui misurarsi i calzoni – per pleiadi di
sperimentatori. Nel nostro caso di un ensemble
che vanta attributi ennevolte e pantaloni compresi. Squarcicatrici si prenota un posto in prima
classe sulle righe di fine anno, in netto anticipo
rispetto al panettone. Non se ne tragga forzatura, ma quel germanismo così poco amicale oggi,
stando alle frasi di Zen Crust – pregevole lascito
dei toscani – calza a pennello sulle prime anafore della loro agogica: “Non abbiamo una ricetta,
ci piace cambiare spesso le carte in tavola attraverso variazioni dinamiche, armoniche o di colore.
Questo approccio si legge anche nella scaletta del
disco: ci sono brani totalmente strutturati (New
World Border), o largamente improvvisati con un
tema a chiudere ( Fil Tunis), suggestioni da doppi
trii free jazz (Pont des arts), colori elettronici
(Saffo’s wedding party) e molto altro. La variazione è l’anima della nostra musica. Ci ritroviamo
attorno ad un repertorio che ogni volta rinasce, si
ricrea e cambia in base all’esperienza che cresce.
Siamo anche attenti a non offrire il fianco alla
noia, cambiamo strumenti, suoni, parti, intenzioni e strutture, specie dal vivo. Siamo un’orchestra
libera, un circo musicale: ognuno conosce i propri
ruoli e le proprie parti, ma fa comunque come gli
pare!
Ebbene, già il titolo è un ossimoro bello e buono,
per giunta di lunga gestazione, a quanto pare:
“lo è, ed è anche la nostra Nuova Religione. Ci
piace vivere gli estremi, tutti. Essere buoni e teste
di cazzo, avere a cuore i problemi del mondo e
sbattercene bruciando una quantità di gasolio per
spettatore raggiunto ridicolmente alta. Vegetariani, vegetariofili e carnivori impenitenti. Comunque, in sostanza, prenderci il diritto (again) di
30
fare che cazzo ci pare con la musica. MetalBossa?
AfroNoise? PunkFusion? Mettici il nome che ti
pare, domani faremo un’altra cosa ancora!” La
scelta di diradare il suono viene forse posta a
prima istanza. È stilkunst sfrondato, invece che
addizionato, quando si pone l’accento su duende
e dub o solo una ricerca che svela sbadatamente
una luce di scherno negli occhi di Jacopo, leader della combriccola. Gira che ti rigira, questi
Squarci appenninici fanno ciao ciao a downtown
e periferia: un dionisiaco che parte da una veste
di kolo macedone e si spoglia come avrebbe fatto
king Tubby sui voicing dei lati B di una volta, potenziando in carattere i lick. Un avanguardismo
che fra le mani di questi ragazzi diventa granaglia in filigrana: “sopra, sotto e in mezzo a tutto
c’è il punk. O comunque quel modo sudicio e di
pancia di trattare i suoni e gli strumenti. Quando
suona più jazz, world (che poi che significa world?
del “mondo” o soltanto “esotico”, come per i negri
degli zoo umani degli anni ’30? e quindi quando
uno fa punk non è world? o è extraterrestre?) o
comunque lo si voglia chiamare… è sempre quel
maledetto bastardo punk che vive dentro di noi. I
soli di Matteo, il whawha e la distorsione sui suoi
strumenti a quattro corde, il sound di sax di Andrea, l’approccio al contrabbasso di Piero, la batteria di Enzo, le mie chitarre o i temi di sax: tutto
punk. Spirito punk! Ché del genere, di nuovo, non
ce ne può fregare di meno! Se la parola “world”
ritorna al suo significato originale, liberandosi dal
fardello posticcio voluto da Peter Gabriel, possiamo essere d’accordo. Tutta la musica è world,
dai suonatori di Kora a Phil Ochs, dai Crass a
Cornelius Cardew: sono tutte musiche che nascono in determinati contesti e culture, e ciascuna
fa riferimento al proprio contesto ed alla propria
cultura. Viviamo in un mondo nel quale è possibile
ascoltare tanta musica diversa: senza pretese di
carattere etnomusicologico, ci piace essere parte
di un processo di mescolanza, contro ogni appartenenza nazionalista. E questo lo facciamo oggi,
quindi siamo contemporanei.
Ascoltando Zen Crust non è Pantagruel l’immagine più prossima, semmai le misure plastiche
del surrealismo e la scocca onirica rimessa in
funzione. Ma sono chili di berbero che accompagnano immagini o si contrappongono ad esse?
Leggiamo sul sito ufficiale del gruppo che Zen
Crust diventa, o diventerà, anche un documentario: “le fasi di realizzazione del disco sono state
filmate tutte da Jacopo, che si sta occupando anche del montaggio. Tra poco potrete vedere tutti
come abbiamo passato questo anno di lavoro, e
capire quanto seriamente ci divertiamo a fare
dischi. (PS. Un duetto lo abbiamo fatto, Jacopo
ed io: i soli a scambio su Pont des Arts! Ed è tutto
ripreso!)”. E pensare che come un buon vino
famoso, tutto ha origine daNipozzano: “è stato
il luogo dove Squarcicatrici ha potuto provare,
registrare ed incontrarsi sino all’anno scorso. La
realtà odierna ci vede ben più sparsi per lo stivale, in un arco che va da Reggio Calabria a Milano. Quelli di noi che a Nipozzano hanno vissuto
non sono mai stati fuori dal mondo, sia perché
uscivano spesso in cerca del mondo, sia perché
molte persone sono passate da Nipozzano: Mike
Watt, Thollem McDonas, Phil Minton, Theresa
Wong, tanto per dirne alcuni. In questa casa c’è
stato uno studio collettivo nel quale hanno lavorato realtà come il Jealousy Party, la Motociclica
Tellacci, gli Tsigoti, i Luther Blissett e molti altri.
Non sono mancate le occasioni di confronto col
resto del mondo, davvero. Molti di questi amici
hanno lasciato una traccia su Zen Crust: Francesco Di Mauro, Gi Gasparin, Mariuccia Minichino, Scott Rosenberg, Simone Tecla, Samuele
Venturin ed Andrea Di Lillo. Si evince una grossa
pancia schietta e popolaresca, piena di ritmo e
velocità, tempi stretti e poi dilatati. Un binario su cui far scorrere il treno di forme liber(at)
e.“L’improvvisazione fa bene quando è il risultato
di una ricerca e non la cronaca del suonare. Nuoce invece la dicotomia struttura-improvvisazione,
perché separa due cose che sono una: la composizione. Credo che l’improvvisazione sia il requisito
fondamentale della composizione e viceversa.
Molti dei progetti a noi comuni (come Tsigoti,
Motociclica Tellacci, Jealousy Party, L’Enfance
Rouge e – moltissimo – Squarcicatrici) hanno
avuto come comune denominatore questa fusione”.
Cogliamo l’occasione dell’uscita del suo recente, bellissimo, album Bécs, per ripercorrere la
densa carriera di Christian Fennesz, costellata di significative collaborazioni (tra cui David
Sylvian e Ryuichi Sakamoto) e segnata da traiettorie particolari, tra glitch e Beach Boys.
Testo di Alessandro Pogliani
Fennesz the Noise
and the Melodies
Nato il giorno di Natale del 1962 a Vienna, Christian Fennesz è cresciuto a Neusiedl Am See, piccola
città del Burgenland austriaco sul lago Neusiedler, verso il confine ungherese. Elementi salienti dei
suoi primi trent’anni: gli studi di chitarra classica (la padronanza del mezzo resterà uno degli elementi principali della sua particolare cifra stilistica), le prime esperienze nel periodo 1988-1992 con
il gruppo locale Maische (rock sperimentale con influenze My Bloody Valentine, tra i riferimenti
sotterranei di tutta la sua carriera), la frequentazione della scena elettronica viennese e delle sue
pioniere label (la Cheap di Patrick Pulsinger, la Mego di Peter Rehberg e Ramon Bauer), l’acquisto
32
dei primi campionatori. Con la pubblicazione per la Mego dell’EP Instrument nel 1995
e dell’album Hotel Paral.lel nel 1997 Fennesz
emerge tra i principali protagonisti della rivoluzione glitch. “Con l’errore elevato a forma il digitale si appropria dell’impurità accidentale della vita, e quindi simula – tenta di simulare – una
concretezza autonoma fin qui inedita. E’ un salto di livello impressionante” (E. Bridda). Filone
introdotto dagli Oval (ma con una lunga storia
che si svilupppa dagli Intonarumori di Russolo,
gli esperimenti di John Cage ed Edgar Varèse,
la musique concrète, i pionieri dell’elettroacustica, l’industrial noise degli anni ottanta…) il
glitch rappresenta il ponte programmatico tra
i due millenni, canonizzato dalle compilation
Clicks & Cuts uscite dal 2000 al 2004. Lì si può
trovare Fennesz in compagnia di tutti i nomi che
contano: Alva Noto e Ryoji Ikeda, Sasu Ripatti (aka Vladislav Delay e Luomo), Mika Vainio
dei Pansonic, Kid606, Matmos, Uwe “Atom™”
Schmidt (il pezzo è Menthol, uscito nel vol. 2,
nel suo annus mirabilis 2001). Di quest’ambito
Fennesz è al tempo stesso epigono (“All’interno
del processo compositivo l’austriaco individua
più modalità di crash del campionatore, sottoposto a varie situazioni di carico e controllando
questi “sonic accidents”, li utilizza come fonte
sonora: è l’errore che diventa input sonoro” - M.
Lorusso) e innovatore. Già in Hotel Paral.lel
(Aus), ma soprattutto nel fondamentale singolo
Plays (1998, dove l’austriaco destruttura e rimastica Rolling Stones e Beach Boys), emerge la
sua singolare sensibilità, alla ricerca di un’inaudita quadra tra melodia e rumore, tra organico e
sintetico.
Sarebbe semplicistico ridurre la carriera di
Fennesz ad una supposta “evoluzione” dall’elettronica più intransigentemente noise a soluzioni sempre più accessibili: più che di sviluppo
lineare, occorre parlare di allargamento dell’area
d’indagine, inglobando i nuovi risultati senza
abbandonare le esperienze precedenti. Questo primo periodo fennesziano è già segnato
dalla contemporanea battuta di piste parallele:
l’improvvisazione sperimentale di gruppo (le
collaborazioni con il collettivo MIMEO – Music
In Movement Electronic Orchestra, il progetto
Orchester 33 1/3, le esperienze di impronta più
dadaista del trio Fenn O’Berg – ovvero Fennesz,
Jim O’Rourke e Peter Rehberg – tra le altre) e
il glitch, da un lato già tendente al manierismo
(sintomatico il mini del 1998 Il Libro Mio – Recherchen Zum Manierismus, sonorizzazione di
una coreografia ispirata all’opera di Pontormo:
i titoli delle quattro tracce formano il nome
dell’artista del Cinquecento – ma dove pure
possono improvvisamente spuntare – in Tor –
accordi di chitarra acustica), e dall’altro ibridato
da tentazioni ambient-drone. Contaminazioni
evidenti nell’album uscito nel 1999, il suo primo
per la sofisticata etichetta inglese Touch: plus
forty seven degrees 56° 37° minus sixteen degrees 51° 08°. Le coordinate indicano precisamente
il giardino di casa di Neusiedl Am See, dove il
disco è stato pensato e realizzato esclusivamente al laptop (caso unico nella sua discografia): la
tappa più rigorosamente rumorista e “disfunzionale” dell’opus dell’austriaco.
Nel giugno 2001 ecco comparire il capolavoro (preconizzato poche settimane prima dalla
traccia C-Street, contenuta nell’EP Light, in
condivisione con Hazard e Biosphere): Endless
Summer (Mego) è oggettivamente da annoverare tra i più importanti album degli ultimi ventitrent’anni. Inedita commistione tra lirismo e
noise, tra sperimentazione e accessibilità, il
disco è ascolto irrinunciabile per comprendere
appieno gli sviluppi della musica contemporanea: “Pop che non è pop, Beach Boys che non
sono i Beach Boys, eppure nella magia della trasfigurazione quel che ritorna in cuffia è l’eterno
miraggio estivo, il mare magnum di suono che
ogni elettronico sogna di comporre” (E. Bridda).
33
Sfruttando la risonanza mediatica di Endless
Summer, la Touch (che dal 2002 al 2012 diventa
la label principale di riferimento di Fennesz) si
affretta a pubblicare l’antologica compilation
Field Recordings 1995:2002: riassunto di questa
prima fase necessariamente “frammentario ed
eterogeneo”, ma contenente solo materiale di
ottima scelta (tra cui tutto l’esordio analogico
Instrument, altrimenti di difficile reperibilità).
Nel 2002-2003 proseguono le collaborazioni più
sperimentali (solo per citare le principali: The
Return Of Fenn O’Berg, Invisible Architecture
con Vainio, Wrapped Island con i Polwechsel,
Live At The LU con Keith Rowe, lo splendido
GRM Experience a nome Fennesz, Vainio &
Zanési) e i live “one man band” in giro per il
mondo (tra cui quello registrato il 9 febbraio
2003 al Shibuyna Nest “che, a detta di molti, è il
miglior laptop act dell’artista nonché, per i più
entusiasti, il migliore mai fatto nel suo genere”
– E. Bridda). Il 2003 è anche l’anno della chiamata da parte di un David Sylvian alla ricerca di
nuovi stimoli e affascinato dalle inusuali prospettive offerte da Fennesz: la prima produzione della partnership è A Fire In The Forest, la
traccia che chiude Blemish.
Presentare Venice, il quarto album ufficiale
uscito nel 2004, come “lavoro di transizione”
non significa sminuirne il valore ma evidenziarne l’essenza: l’opera porta avanti le intuizioni di Endless Summer enfatizzandone il coté
impressionistico con suggestioni liquidamente
enoiane.Le chitarre sono sempre più presenti,
trattate digitalmente attraverso patch Max/Msp
o ipersaturate mediante effettistiche analogiche. L’album ospita lo sperimentatore Burkhard
Stangl dei Polwechsel e l’inaspettata voce dello
stesso Sylvian, che restituisce con Transit (nomen omen) il favore dell’anno precedente.
Continuano intanto le collaborazioni, espressione dell’incessante voglia di confronto e di
sperimentazione. Dal 2004 provengono le
34
registrazioni di quattro improvvisazioni live
(poi pubblicate nel 2005): Cloud, a nome 4g
(Four Gentlemen of The Guitar: Fennesz, Keith
Rowe, Oren Ambarchi e Toshimaru Nakamura), Untitled-Erstlive 004 (Fennesz, Sachiko M,
Otomo Yoshihide e il vecchio amico Rehberg),
Sala Santa Cecilia, primo incontro dell’austriaco
con Ryuichi Sakamoto e Live At Amann Studios,
dialogo privato ed emozionante con il sax avantjazz di Max Nagl (download disponibile sul sito
Touch Radio).
Il 2006 vede il primo incontro live con Mike
Patton, per un progetto che si è espresso per
un totale di 18 date in giro per il mondo fino al
2008 ma mai testimoniato da release ufficiali (qui un non entusiasmante video-bootleg).
Risalgono al 2006 le registrazioni live (pubblicate poi nel 2008 nell’album Town Down) del
progetto Regenorchester XII, collettivo freejazz condotto dal trombettista austriaco Franz
Hautzinger nelle cui fila troviamo, oltre a Fennesz, Otomo Yoshihide e Tony Buck (che ritroveremo alla batteria più avanti, in Knoxville e in
Bécs). Nel maggio 2007 esce per Touch cendre
(rigorosamente minuscolo), espressione sulla
lunga distanza della collaborazione con Sakamoto: diversamente dai 19 minuti della prima
uscita, qui è il pianoforte calligrafico del giapponese a dominare la scena, mentre gli interventi
sottopelle di Fennesz rimangono minimalmente
nelle retrovie. Il risultato è una ambient music in puro stile Eno/Budd: gradevole ma con
forte rischio di retrocessione a sottofondo. Nel
dicembre dello stesso anno Fennesz pubblica,
solo in digitale, On A Desolate Shore A Shadow
Passes By (solo qualche settimana dopo a questo brano si aggiungono due ulteriori tracce,
provenienti dalle stesse session, proposte nel 7”
Transition e chiamate una On A Desolate Shore
e l’altra A Shadow Passes By: interessanti nuovi
tagli dello stesso diamante): il titolo, la cover del
fido Jon Wozencroft (designer e co-fondatore
del progetto Touch) ma soprattutto i suoni
fanno già presagire l’approssimarsi del successivo album Black Sea. Ma prima c’è il tempo per
ulteriori uscite: nel 2008 esce l’omaggio ad Arvo
Pärt – attraverso la rielaborazione dell’organo
a canne di Charles Matthews – nel 7” Touch
Amoroso (marzo 2008), il 12” June, per la label
americana Table Of The Elements, pezzo che
verrà anni dopo riproposto come July in Seven
Stars (ulteriore dimostrazione che in casa Fennesz non si butta via mai niente), e l’album Till
The Old World’s Blown Up And A New One Is
Created (novembre 2008), progetto polimorfo
che vede il nostro in trio abstract-jazz elettroacustico con i Polwechsel Martin Brandlmayr
e Werner Dafeldecker (che ritroveremo poi
ancora nel 2014 in Static Kings, prima traccia di
Bécs).
Black Sea, pubblicato per la Touch nel dicembre
del 2008, rappresenta un ulteriore pietra miliare nella carriera di Fennesz. Non un fulmine a
ciel sereno, ma una splendida ricapitolazione di
tutte le esperienze precedenti, con una maggiore inclinazione verso lo sviluppo sinfonico che
non alla forma-canzone: “Christian Fennesz
suona sempre più come un classico del ventunesimo secolo” (V. Santarcangelo). Qui è possibile
parlare di ambient, se con questo termine si
intende non semplice musique d’ameublement,
bensì la creazione di un microcosmo emozionale, dove insieme alle chitarre acustiche, nylon ed
elettriche, più o meno filtrate, e ai droni rumoristi ormai marchio di fabbrica trovano perfetta
collocazione i suoni della natura (i gabbiani e
la risacca che introducono il brano iniziale ed
eponimo), il piano preparato di Antony Pateras
(in The Colour Of Three) e le improvvisazioni
elettroniche di Rosy Parlane (con il quale l’austriaco aveva già duettato nel mini CD del 2000
Live@Synaesthesia, e qui in Glide).
Nel 2009 esce il 7” A Girl & A Gun (in cui Fennesz accompagna, insieme a Burkhard Stangl
e Martin Siewert, la cantante Lucia Pulido per
stranianti versioni di due canzoni tradizionali
colombiane, tratte dalla colonna sonora di un
film di Gustav Deutsch), ma soprattutto il volume 15 della serie In The Fishtank (Konkurrent),
testimonianza di 40 minuti della collaborazione
con Mark Linkous aka Sparklehorse, sviluppata
a partire da una prima serie di concerti tenuti
insieme in Italia nel 2007, e pubblicata pochi
mesi prima della tragica morte di Linkous:
“astrazioni elettroniche, apocalissi angosciose,
sospensioni frugali, fantasmi folk, palpitazioni tenui di cuori affranti” (S. Solventi). Il 2009
è anche l’anno di Manafon, l’album più arduo
e ambizioso di David Sylvian, in cui l’apporto
di Fennesz e della corrente di sperimentatori
austro-nippo-britannica a cui appartiene (alle
sessions di improvvisazione registrate dal 2004
al 2007 che hanno dato vita al progetto partecipano tanti nomi noti, oltre al nostro: Stangl e
Dafeldecker dei Polwechsel, i 4g Keith Rowe e
Toshimaru Nakamura, Otomo Yoshihide, Sachiko M…) risulta determinante nel delinearne
le sonorità.
Nel 2010 esce Szampler (solo in musicassetta
per l’estremistica e snob label The Tapeworm),
una collezione di campioni vintage realizzati
da Fennesz dall’89 al ’96 (solo per completisti
compulsivo-ossessivi), In Stereo, il grande ritorno del trio Fenn O’Berg (Editions Mego: il loro
primo lavoro in studio, il loro esperimento più
estremo) e il minialbum Knoxville, highlights
di un live dell’anno prima, frutto dell’ennesima
collaborazione sperimentale, questa volta con
David Daniell e Tony Buck: improvvisazioni
shoegaze con crescendo densi e potenti.
Il periodo 2011-2012 è caratterizzato da un
maggiore interesse verso soluzioni musicali
definibili come “ambient soundscapes”, dove
il rumore lascia maggiormente spazio a droni
cosmici e sviluppi melodici di largo respiro. Il
live remix di Gustav Mahler, lo speciale evento
35
del marzo 2011 alla Radio Hall di Vienna (poi
pubblicato come DVD in un cofanetto dedicato
al centenario della morte del compositore austriaco, e replicato nel marzo 2014 alla Carnegie
Hall di New York) è l’occasione per evidenziare
gli aspetti più sinfonici della musica di Fennesz,
che già erano state notate in alcuni momenti di
Black Sea e che si ripropongono nell’EP Seven
Stars (luglio 2011, Touch), in particolare nella
traccia Shift, dall’incedere “elegiaco e crepuscolare”. Nel pezzo che dà il nome al disco,
suadente ballata brianwilsoniana, compaiono le
spazzole di una soffusa batteria jazz (by Steven
Hess): è la prima volta nella sua discografia
solista (ma per chi ha seguito gli sviluppi dei
progetti paralleli di Fennesz non si tratta di un
elemento così dirompente o inusuale). Oltre
alla già citata e cosmica July, il disco comprende Liminal, dove la chitarra effettata propone
una linea melodica che spesso riecheggerà nei
live fino ad essere ripresa e rielaborata in Bécs
(Liminality). Nel doppio CD Flumina, pubblicato poco dopo sempre per la Touch, ritroviamo
il duo Fennesz-Sakamoto, ma qui il risultato,
sempre nel territorio neutrale ambient dei
bozzetti pianistici di cendre, non aggiunge nulla
alle rispettive carriere né al dialogo tra i due. I
48 minuti di musica realizzata per la coreografia On Invisible Pause (pubblicata online nel
gennaio 2012 e scaricabile dal sito Touch Radio)
riassumono in maniera mirabile lo zeitgeist
fennesziano del periodo. La pubblicazione nel
marzo 2012 (su chiavetta USB) di Liquid Music,
sonorizzazione risalente al 2001 di un’installazione video di Wokzencroft, riapre il cerchio dei
rimandi temporali: le scariche glitch increspano
maggiormente la superficie cangiante creata dai
loop di chitarra acustica e synth, da cui improvvisamente emerge un frammento di Endless
Summer (Before I Leave).
Nel giugno 2012 esce a nome Christian Fennesz
la colonna Sonora di AUN: The Beginning And
36
The End Of All Things. L’atmosferica e sognante musica qui contenuta, comprendente anche
tre tracce da cendre, è assolutamente funzionale
al poetico film austro-nipponico diretto da Edgar Honetschläger, e fuori dal contesto cinematico risulta insapore e inodore. Tutta un’altra
storia In Four Parts, l’intenso tributo a John
Cage registrato live in duo con Patrick Pulsinger
nell’ottobre 2012 (e pubblicato nel 2013 per l’etichetta austriaca Col Legno): la reinterpretazione elettronica dello String Quartet In Four Parts
del compositore americano, pur così distante
musicalmente, ne rispetta profondamente il
senso, percorsa dalla stessa tensione verso il
trascendente e il silenzio. Impossibile rimanere
impassibili.
Il 2013 è caratterizzato da esperienze eclettiche
e disparate: tra le tante uscite live, si segnalano le partecipazioni a due diversi trii: “The
Kilowatt Hour” con David Sylvian e Stephan
Mathieu (alla ricerca delle atmosfere rarefatte
degli esperimenti fine anni ottanta di Sylvian
con Holger Czukay, esperimento a detta di molti
non del tutto riuscito) e la collaborazione con i
Food, progetto avant-jazz (con marchio di qualità ECM) di Iain Ballamy e Thomas Strønen,
con i quali il nostro aveva già lavorato per i loro
ultimi album, Quiet Inlet (2010) e Mercurial
Balm (2012). Ulteriori segnali dell’ecletticità
degli interessi di Fennesz: il remix per i Jensen
Sportag, duo americano alternative electropop (Rain Code, novembre 2013), e il team-up
estemporaneo con il giovane cantante nu-R’n’B’
Autre Ne Veut (Alive, dicembre 2013). Ma il
2013 è dedicato soprattutto alla preparazione
dell’album solista che a livello ufficiale si faceva
attendere dal 2008: Bécs esce a fine aprile 2014,
segnando il ritorno alle Editions Mego e confermando la vitalità dell’artista.
37
Un osso duro
38
Cosa resta di Frank Zappa oggi? Cerchiamo
di rispondere in questo lungo speciale del
nostro zappofilo Gabriele Marino
Testo di Gabriele Marino
Dopo le celebrazioni nel ventennale della morte (4 dicembre 2013),
il 27 maggio prossimo una giornata di studi alla Statale di Milano
ricorda Frank Zappa a partire dalla sua “weirdissima”produzione
audiovisiva. Qui di seguito un lungo excursus che vuole essere una
finestra possibile su “Frank Zappa oggi”, un punto della situazione
tra la rievocazione personale, l’aggiornamento bibliodiscografico e il
racconto di eventi e concerti, tra perle musicali e pasticci familiari.
Tutto nel segno del baffo e mosca – ancora oggi – meno compreso
del rock. Ampia selezione di ascolti e video ai link (Grooveshark,
Spotify, YouTube) e piccolo Zap-bignami (i “dieci dischi irrinunciabili”) in coda.
PART E U NO | I was a teenage z appaphile
A 14 anni cominciavo a capire i Simpson (prima non mi piacevano).
A 14 anni scoprivo il famoso complessino milanese (quando li avevo visti a Sanremo non mi erano piaciuti). A 14 anni mi ero fissato
a registrare collage di suoni e rumori col computer di famiglia. A
14 anni mi sono fatto regalare dai compagni di classe il Dizionario
del pop-rock Baldini e Castoldi (l’ha ripubblicato di recente Zanichelli), perché avevo deciso che non potevo continuare a essere così
ignorante su una cosa così grande come la musica. Dentro c’era una
scheda su un tizio chiamato Frank Zappa: “Ma che nome è?”. Di
lui si parlava come di un alieno, il testo era firmato “John Vignola”,
ma in realtà l’aveva scritto Marco Drago (questo lo avrei scoperto
solo anni dopo, perché gli zappofili sono una setta e finiscono col
conoscersi tutti, come i politici e i comici). A 14 anni sono passato
39
dai fumetti alle riviste non-solo-di-fumetti e tra queste “Linus”,
e il primo numero che ho comprato aveva dentro un articolo di
Bertoncelli su Zappa e Varèse. A 14 leggevo Penthotal e ci trovavo
dentro la citazione zappiana, leggevo Una matita a serramanico e
scoprivo che Tamburini si ispirava a Cal Schenkel per i suoi topi
junkie (per non dire della copertina con lo Zapperox). A 14 anni
aprivo un libro sulla musica e ci trovavo dentro non dico il capitolo o la pagina dedicata, ma anche solo il nome “Zappa”. Una
persecuzione, avevo lo Zeta detector. Aprivo la “Settimana Enigmistica” e ci trovavo lo “Strano ma vero” sui nomi dei suoi figli:
Moon Unit, Dweezil, Ahmet Emuukha Rodan, Diva. A 14 anni ho
sbattuto in tutti i modi contro questo Frank Zappa e sono andato
nel negozio di dischi più “giovane” dei due esistenti nel mio paese
– questo qui vendeva e vende anche souvenir (l’altro ha chiuso
anni fa) – per ordinare Hot Rats (una statistica mai raccolta ma
sicuramente veritiera mi dice che l’80% degli zappofili ha cominciato da lì). Vado, dico artista e titolo e il proprietario mi fa: “Zappa! Quello coi baffi come a Santana”. Ricordo quando ho scartato
il cellophane che avvolgeva il green tinted jewel box (caratteristico dei CD Ryko) e ho sentito il disco per la prima volta a casa
di un amico: “Sembra una discoteca di plastica viola”. Col tempo
40
tutti i cerchi si sono allargati, e si sono chiusi. Scoprivo Zorn, e
ci trovavo dentro cose “alla Zappa”? Bene, era naturale andare a
scomodare l’unico essere umano sulla faccia della terra che aveva
esplicitato il legame tra i due tanto da scriverci uno spettacolo, in
cui suonava composizioni dell’uno e dell’altro. Guarda caso era
italiano, per giunta di origini palermitane: era Giovanni Mancuso
(che su Zappa scriverà poi addirittura un’opera, Obra Maestra,
premiata come spesso capita qui da noi con una punizione: essere
allestita con la direzione di Pippo Delbono). Mi interessavo alla
critica musicale, cercando di leggerla e studiarla per imparare
a farla? Uno degli articoli più interessanti che mi era capitato
sott’occhio, sugli strafalcioni e i tic del linguaggio dei giornalisti,
era di uno che, pure lui, era sia zappofilo che zornofilo: Marco
Maurizi (sulla copertina del suo L’utopico e il mostruoso avrebbe
voluto poi un mio scarabocchio dei tempi del liceo, una specie di
Pachuco Zappa). Tutto si tiene. Strano ma vero.
“Strano ma vero”
The Strambo Variations | Ha fatto bene Eddy Cilìa a bastonare
gli zappofili, sulle pagine di “Blow Up” prima e del suo blog poi,
dipingendoli come dei presuntuosi monomaniaci: lo sono – lo siamo – sul serio. Sono anche affetti da una specie di smania convertitrice, proselitistica, che ripropone in tutto e per tutto lo schema
che lo stesso Zappa applicava ai suoi amici, ovvero il “Varèse
test”: il ragazzino Zappa trascinava gli sventurati nel tinello di
casa e, dopo averli allettati con dischi di rhythm’n’blues e doowop, sparava a palla l’orgia modernista di percussioni di Ionisation. Chi gradiva, bene, veniva accolto tra gli eletti tra mille allori.
Chi non gradiva, magari sì restava ancora amico, ma un po’ meno
di prima, perché non era poi così sveglio. Ecco, questa smania
divulgatrice, propinatrice, che manco i Testimoni o i Facebookvegani, mi ha spinto quando avevo 18 anni – era il settembre 2004,
erano già scoccati i dieci anni dalla morte di FZ – a infrattarmi tra
le pieghe degli eventi estivi locali e strappare agli organizzatori
una serata no-budget dedicata a Zappa (opportunamente, “Cheap
Thrills”), in cui ciarlavo gasatissimo, tra lo spocchioso e il pudico, introducendo una selezione di ascolti da schiaffi (ho davvero
messo a metà tracklist The Big Squeeze) e la proiezione di alcuni
video (Does Humor Belong in Music?, frammenti da Baby Snakes e dal live degli Elio a Lugano, in cui rileggevano un paio di
pezzi zappiani assieme a Ike Willis). Chi c’è dentro lo sa: quando
scopri, quando “arrivi” a Zappa (io ci arrivavo dai Doors e dai
Red Hot Chili Peppers) ti prende un sacro fuoco, perché scopri
41
un universo parallelo, oltre lo specchio, quello di un musicista
non certo infallibile, per carità, ma ricchissimo, sorprendente,
sul serio one of a kind, e allo stesso tempo tutto fuorché “alternativo”, non necessariamente “difficile”, ma proprio “strano”,
“altro”. Ricordo mio padre che faceva cucù dalla porta di camera
mia mentre lo stereo suonava Lumpy Gravy o We’re Only in It
for the Money e diceva: “Ma che ti ascolti, figlio mio?” (per poi
confessare però che lui e il suo gruppo avevano avuto il famigerato poster con la tazza del cesso appeso in “sala prove”). Zappa
è un artista capace di abissi di esagerazione e di kitschume programmatici spesso insondabili (Thing-Fish resta un oggetto da
metabolizzare; 200 Motels bello eh, molto interessante, durava
meno…), e altrettanto spesso irresistibilmente, disarmantemente
divertenti: quei cambi di ritmo repentini (si sa che la comicità è
tutta una questione di tempi), quelle melodie bislacche, quelle
marimbe sali-scendi, quei pastiche stilistici, quelle citazioni e
pseudocitazioni, quelle contraffazioni. Un artista gasante, nel
senso proprio dell’ossido di diazoto. Il Capitano, per dire, è uno
difficile, ma ha un suo rigore austero, monocromatico (tutt’al più
seppiato), ha una sua eleganza, è il padre del post-rock versante
post-hardcore, del pauperismo circense di Tom Waits, del blues
cubista/surrealista, di tanta art-brut sonora, ha una sua strapazzata nobiltà, ti dà qualche appiglio. Zappa è proprio strambo,
ma che roba è, e questo qua che c’entra, prende il doo-wop e ci
schiaffa dentro Stravinskij, a un certo punto si è fissato coi suoni
plasticosi, raramente è poetico, lirico, più spesso è proprio caciarone, sornionamente grottesco, è autoparodico, sotto le sue
mani non si salva niente, manco e soprattutto le sue stesse composizioni, quasi sempre ti strizza l’occhio, ma tu riesci a capire
dove sta ammiccando?, insomma non è uno “Serio”, un “Artista”,
un “Intellettuale”. È un osso duro. E di chi è padre, poi, Zappa?
Forse, suo malgrado, di certo ipertecnicismo da Berklee College,
di certo prog (penso a Portnoy dei Dream Theater), di certo jazzrock o certa fusion (penso a molti suoi alumni, penso a Steve Vai).
Ha lasciato tante suggestioni, tante schegge, questo sì. Anzi forse
soprattutto proprio l’idea di procedere per schegge. E su “Scheggia” si staglia gigante nel cielo di Cucamonga la scritta: “Postmoderno”. Termine abusato alla nausea, praticamente svuotato di
significato, usato alla cazzo com’è, e che però per Zappa come per
pochi ha un senso: non per il gusto della citazione e della parodia,
non solo per quello, ma per un rapporto con il passato, da una
parte, e con la sperimentazione, dall’altra, conciliato e conciliato
42
proprio dall’idea di potere fare di entrambi un bacino di materiali
da incrociare, da mischiare, da piegare alla propria idea di arte e
di godimento estetico (sostanzialmente, di risata), costruendo un
discorso leggibile a più livelli. Come a dire, da Tengo una minchia
tanta a Questi cazzi di piccione, giusto per limitarci a due degli
estremi possibili del continuum zappografico, in questo caso segnati – nobile stella polare – da quell’organo (senza corpo, direbbe Žižek) che tanto compare nell’immaginario, nei testi, nei titoli
e nelle forme plastiche della musica, se non priapesca, sicuramente satirica (nel senso dei satiri lascivi e insidiosi del corteo di
Bacco), del nostro. Bertoncelli, parafrasando Borges, ha detto che
Zappa è stata una delle gioie della sua vita. E io ci metto la firma.
Una volta ero in macchina con mia madre, ero ancora ragazzino,
ma ero già infognato con la sua musica, avevo appena comprato
43
un suo disco (40.000 lire, Tinseltown Rebellion) e mi ero messo
ad ascoltarlo in cuffia con il lettore CD portatile (li chiamavano
discman; esistono ancora?), accanto a lei, lato passeggero. Manco
era cominciato ‘sto disco, che già ridevo a crepapelle, come uno
scemo, inquietando mia madre che mi aveva chiesto “Ma che
fai?”. Ecco, è musica che fa ridere quella di Zappa, prima di tutto
e soprattutto questo (per la cronaca, a me fa ridere anche Naval
Aviation in Art). It’s just entertainment, diceva lui.
Il “Varèse test”. Complete Works Of Edgard Varèse, Volume 1
(EMS, 1950)
PARTE DUE | Frank Zappa oggi?
Ma perché questo pippone un po’ sentimentale, un po’ critico, e
in prima persona? Uno, perché, e lo sanno bene anche gli zappofili molto più seri di me, Zappa è sempre il tuo Zappa. Per parlarne,
44
siccome pare sia una esperienza mistica, devi parlare in prima
persona. E poi, due, perché il 4 dicembre 2013 erano vent’anni
esatti dalla morte, e il 21 era quello che sarebbe stato il settantatreesimo compleanno, e del baffuto forse mai si era parlato così
tanto qui da noi. Adesso, il 27 maggio 2014, alla Statale di Milano,
un day hospital zappologico si staglia all’orizzonte (“Freak ZAPPing. Scorci su Frank Zappa”), incentrato sull’audiovisivo zappiano (attivo, ovvero i film fatti da FZ, come 200 Motels, e passivo,
ovvero i documentari su FZ), con featuring doc come quelli, tra
gli altri, di Franco Fabbri, di Giordano Montecchi e di Veniero
Rizzardi. Dentro ci sono anche io, che porto i caffè e accendo il
proiettore. Prendendo spunto da questa cosa, volevo fare un po’
il punto della situazione, sempre in prima persona; come a dire,
parafrasando il titolo di uno dei più bei libri sull’uomo (curato da
Gianfranco Salvatore nel 2000 per Castelvecchi), cos’è e dov’è
Frank Zappa oggi. Ecco, che resta di Frank Zappa oggi? “Una settantina di dischi, molti dei quali doppi o tripli”, chiaro. “Un vuoto
incolmabile”, forse sì, forse no. Il vuoto sicuramente c’è, ma – io
la vedo così – soprattutto nel senso di un artista proprio ancora
tutto da scoprire, non integrato da nessuna parte, tantomeno in
nessun canone, pop o contemporaneo che sia. Zappa ininfluente,
bomba inesplosa? È un paradosso, ma in fondo poi non così tanto.
Per sua stessa colpa (tutta ‘sta roba dovevi fare, e tutta così?), per
colpa del nerdismo degli zappofili (qui ampiamente messo in
scena, direi), per la pigrizia di tutti gli altri (le dimensioni contano). Sarebbe interessante fare un’analisi dei contesti in cui ricorre
l’aggettivo “zappiano”, per capire cosa è arrivato nell’immaginario collettivo di Frank Zappa. A vent’anni dalla morte, anzi, nei
vent’anni dalla morte, di Zappa restano sicuramente le proskynesis sui social di quelli che postano tutti incolonnati Peaches en
Regalia (che da un momento all’altro mi aspettavo una tweetbaruffa tra Emanuele Filiberto e Wu Ming). Restano le divulgazioni
e le celebrazioni più o meno parziali (ma che ben vengano, sia
chiaro, e anche solo a scadenza di calendario; diceva sempre il
decano, meglio un gruppaccio che abbaia Sharleena in uno dei
peggiori bar di Caracas, che una generazione di – aggiorniamo
– Spotifyati che manco sa chi sia Zappa). Resta il premiatissimo
– bellissimo, nella sua versione deluxe veneziana – documentario
di Salvo Cuccia (Summer 82: When Zappa Came To Sicily, che,
guarda un po’, racconta tutto in prima persona) sul mitologico,
sventurato concerto palermitano dell’82 e sulla arricampata dei
figli di Zappa a Partinico. Restano i libri freschi di stampa: quello
45
curato da Paul Carr (Frank Zappa and the And, “the first academically focused volume exploring the creative idiolect of Frank
Zappa”, per la gioia – colpetto di tosse – degli adepti della “Esemplastic Zappology”) e quelli di Alessandra Izzo (Frank e il resto
del mondo), di Episch Porzioni (Delizie freak), di Stefano Marino
(La filosofia di Frank Zappa), di Massimo Del Papa, su cui spenderò adesso due parole (anche – perché nasconderlo – per un
affetto antico che, tra le altre cose, ha fatto sì che il logo del suo
“Babysnakes” social sia un mio Paint-ritrattino di FZ).
“FReak ZAPPing: scorci di Frank Zappa”, Università degli Studi
di Milano, 27 maggio 2014
Zappa en Del Papa | Massimo Del Papa lo conoscete tutti come
il polemista ferro e fuoco degli anni del “Mucchio” settimanale
e – oggi – delle polemiche contro lo stesso “Mucchio”, contro
Max Stèfani e compagnia. I più attenti anche per i suoi reading
assieme a Paolo Benvegnù, oltre ovviamente che per i suoi articoli. Massimo ha le sue asperità e, dicono gli informati, averci a che
fare non è facile. E però è sempre mosso da passione vera, genuina, bruciante, non incanalabile. Bene, il libro di Massimo l’ho letto col piglio con cui probabilmente è stato scritto: tutto d’un fiato,
forsennatamente, in flusso di coscienza, di notte. Massimo ha
fatto un po’ come Ben Watson (nel suo fondamentale, mai tradotto in italiano, The Negative Dialectics of Poodle Play), ha filtrato
Zappa con i suoi miti e riferimenti, che quindi non sono Rabelais
e T. W. Adorno, ma Carmelo Bene, Lucio Battisti, Giorgio Bocca,
Dr. House, Mohammed Alì e Renato Zero. Il libro di Massimo
è in a hurry, ci sono errori di stampa, ci sono distrazioni che al
tribunale degli zappofili parranno da pubblica gogna (quando citi
le sigarette di Zappa non puoi dire Marlboro, ma sempre e solo
Winston rosse), eppure c’è una lucida, lucidissima, per quanto a
tratti disordinata (e parimenti tagliente), analisi dell’uomo e della
sua musica, con illuminazioni notevoli su quel quid che essa e
solo essa possiede. E’ un pamphlet, il suo bersaglio non è ovviamente FZ (che però alla bisogna – e quindi, semplificando, sul
lato umano e nel rapporto coi musicisti – è bastonato adeguatamente), ma il pubblico che applaude sempre e solo per il motivo
sbagliato. Insomma, questa dovrebbe valere come mia recensione
positiva di Zappa en Regalia: vita complicata di un genio (uscito
il 4 dicembre 2013 su Smashwords), fatevela bastare e controllate
di persona.
Dedica di Ben Watson su una copia del suo The Negative Dialectics of Poodle Play
46
Italian Mutations | Continuando con quel che resta di Zappa,
resta la linfa vitale della zappofilia e della zappologia, con tutto il
patologico che queste due parole lasciano intendere. Sono stato al
“Frank Zappa Memorial Barbecue”, il 3 dicembre 2013, a Milano,
alla Fabbrica del Vapore, organizzato da Michele Pizzi, autore
di Frank Zappa for President (libro che riesce nel miracolo di
sviscerare la parte meno importante – a detta dello stesso Zappa – della sua musica, ovvero i testi; lo trovate recensito qui). Ed
è stata una festa di nerdismo sfrenato, con disordinata selezione
47
musicale e video, a ben vedere soprattutto una scusa per incontrarsi (chi si era, fino a quel momento, solo chattato o mailato) o
re-incontrarsi (i veterani zappofili già rete prima della rete, con in
mezzo quella che fu “Debra Kadabra”) e parlare. Vedere e toccare
picture discs e altri cimeli pazzeschi (tipo lo Zappa Paraphernalia
approntato da Roberto Zucconi nel 1994), vedere i bei disegni a
tema di Giorgio “Moltitudo” (un po’ Bacilieri, un po’ Clowes) e
quelli a lui donati da big ones come Silvia Ziche, Paolo Bacilieri
(appunto), Massimiliano Frezzato e Tanino Liberatore. Vedere
l’esibizione del duo Inventionis Mater, che riesce nel miracolo
di riarrangiare per chitarra classica e clarinetto ed eseguire in
maniera convincente e avvincente pezzi del repertorio zappiano
noti per la loro difficoltà tecnica (Zomby Woof, per esempio).
Ecco, al di là delle sbarre tirate su da Gail Zappa, che nell’ambiente tra il serio e il faceto chiamano “L’innominabile” (giusto per
capire in che considerazione si tenga la sua gestione del lascito
del marito, diciamo tutto fuorché oculata e diciamo pure uno
sfacelo, tra mille operazioni-minchiata – ci stiamo arrivando – e
48
qualche perla rara, per non dire appunto delle restrizioni folli
imposte a chi voglia suonare o anche solo studiare la musica di
FZ), oltre Gail quindi, restano proprio le cover band. Una vecchia
compilation chiamata Frank You Thank!, in due volumi, ne infilava le principali italiane e, tra cose trascurabili e cose notevoli
(ricordo l’Orchestra Spaziale di Giorgio Casadei e gli Ya Hozna, e
c’era ovviamente Sandro Oliva, che con gli ex Mothers – i Grandmothers – ci ha suonato e ci suona), spiccava una band di poco
più che bambini chiamata Ossi Duri, impegnata in una versione
kindergarten di Take Your Clothes Off When You Dance. Gli Ossi
Duri, da Givoletto (Torino), capitanati dai fratelli Bellavia, Martin
chitarrista, Ruben batterista, figli d’arte, sono cresciuti, ma sono
ancora decisamente giovani, e sono oggi tra le più accreditate
cover band zappiane, collaborano regolarmente con Elio e con
il cantante-chitarrista zappiano di fine anni Settanta/fine anni
Ottanta Ike Willis, ovvero il Joe del Garage e Thing-Fish himself.
Inventionis Mater al “Frank Zappa Memorial Barbecue”, Fabbrica del Vapore, Milano, 3 dicembre 2013 (dietro, Michele Pizzi)
Too much fish: Ossi Duri e Ike Willis | Gli Ossi hanno lanciato
un fundraising su Musicraiser per finanziare l’uscita simultanea
di tre dischi, uno di inediti, uno in cui rifanno classici del pop (e
quindi anche del prog, c’è Luglio, agosto, settembre (nero) degli
Area) italiano anni Settanta e uno di cover zappiane, e hanno festeggiato il traguardo raggiunto con una serie di concerti, l’ultimo
dei quali si è tenuto il 18 dicembre 2013 a Milano, ospite Elio. Io
sono stato a quello, in casa, al Lapsus di Torino, del 6 dicembre
2013, ospite Ike Willis. Sotto palco un piccolo ma tenacissimo
zoccolo duro di giovanissimi intenti a cantare ogni singolo pezzo,
gli Ossi hanno proposto qualche pezzo autografo e si sono poi
lanciati in una lunga rilettura di classici zappiani, particolarmente sul versante rock-blues così naturalmente congeniale a Willis.
Soldi facili è un crossoverone alla Rage Against the Machine,
Mozzarella trafelata un collage prog di pastiche stilistici, Heavy
Dente, con già Ike sul palco, accompagna le spericolatezze del
testo (e dei suoi avverbi) tra il reggae e il punk. Come si capisce
dai titoli (e dal fatto che nei dischi ospitino il nume tutelare Freak
Antoni), forte è la vena demenziale e giocosa dei Nostri, e non
potrebbe essere diversamente. All’inizio un po’ strascicato, più
che per l’età (58), per la quantità di pesce assunta a cena, se la
secret word for tonight è “Too much fish” (un’altra parola, protagonista di alcune delle routine di “lyrics mutanti” più divertenti,
sarà K-bab), Ike si accende quando si entra nel vivo del repertorio
49
che, tra dischi e live, fu il suo. Dopo Honey Don’t You Want a Man
Like Me?, arrivano Cosmic Debris, Caroline Hardcore Ecstasy e
tutta una lunga sequenza da Joe’s Garage, con Stick it Out, una
strepitosa Packard Goose, una intensissima Why Does it Hurt
When I Pee?, e una Keep it Greasy arrangiata a metà tra le versioni live del ‘78 (altezza Whe Don’t Mess Around) e quella – temibile – del disco. Fino ai picchi di intensità di Outside Now (forse
la Zap-canzone di Willis, che ne fece una delle versioni più belle
di sempre con la primissima apparizione dei Banned from Utopia,
ancora Band from Utopia, nel 1994, all’indomani della scomparsa
di Zappa) e il dittico The Son of the Orange County e More Trouble Every Day. Il bis spetta a una esplosiva Andy. Non appena si
è scaldato e ha digerito il pesce, Willis è sì rimasto sornione, ma
ha cantato come sa, meno incisivo dei tempi d’oro (o anche delle
rendition più recenti viste sul Tubo), ma divertendosi, divertendo, e regalando un paio di assoli veramente intensi. Gli Ossi
tecnicamente sono eccellenti; non essendo competente di nessun
altro strumento, non dico nulla sugli altri, ma spendo due parole, diciamo con spirito solidale da ex pseudo-proto-batterista su
Ruben. Strepitoso: spero di fargli un complimento dicendo che ne
ho intuito il piglio colaiutiano, soprattutto nel modo di intendere
l’approccio ai tempi dispari e nell’assottigliare indefinitamente
la distinzione tra accompagnamento e assolo, con un profluvio di
spezzettamenti e momenti suonati “contro” entusiasmante e mai
invadente, per quanto pure prominente.
Ike Willis con gli Ossi Duri sul palco del Lapsus, Torino, 6 dicembre 2013
PARTE TRE | 2004 -2014: dieci anni di Z F T
Non tutto il Gail e lo Zappa Family Trust vengono per nuocere.
Qualcosa si salva. Qui di seguito, le fast reviews delle principali
pubblicazioni zappiane degli ultimi dieci anni. Con l’implicito che si tratta quasi sempre di roba per hardcore fanatics only
(sono materiali d’archivio, sia in studio, che dal vivo). I voti sono
espressi in una scala di stellette, in omaggio al vecchio Dizionario
del pop-rock, che va da * a ***** (ma le cinque stelle non le trovate). Per qualsiasi approfondimento, si rimanda al fondamentale
“Information is Not Knowledge” (“Globalia”, per gli amici), sito
di riferimento dal 1998, gestito da Román García Albertos.
Frank Zappa, Wazoo (VAULTernative, 2007). L’immagine è un
dipinto a olio di Christopher Mark Brennan, Mundo Invisible
(2003)
50
Joe’s Corsage (VAULTernative, 2004) | ** | Link Grooveshark
| Compilata da Joe Travers (ovvero il “Vaultmeister”, il custode
degli archivi di casa Zappa), è praticamente una raccolta di demo
di alcune love songs che sarebbero poi finite su Freak Out!. Siamo
intorno al ’65, la band si chiama ancora Soul Giants, e in alcuni
pezzi alla chitarra c’è ancora il futuro Canned Heat, Herny Vestine. Le rendition, molto folk e flower power nella loro asciuttezza,
sono vivaci, ascoltarle è un piacere e c’è anche qualche chicca per
filologi zappiani. Ma non si va oltre.
51
quAUDIOPHILIAc (Barking Pumpkin/DTS, 2004) | ** | Link
Grooveshark | DVD audio da ascoltare in quadrifonia, con brani
(per lo più strumentali già noti) registrati o remissati da FZ tra
il ’70 e il ’78 in multichannel surround. Suono spettacolare, ma
solo gli inediti Rollo (composizione jazz-rock-prog orchestrale
già nota come sezione della Yellow Snow Suite), Chunga Basement (embrione di Chunga’s Revenge) e Basement Music #2 (tra
i primi esperimenti elettronici di Zappa) possono giustificare
l’acquisto.
Joe’s Domage (VAULTernative, 2004) | ** | Link Grooveshark
| Ricavato da una cassettina contenente frattaglie di prove in
studio della formazione Petit Wazoo del ’72, versione ridotta della
Grand Wazoo (ancora cospicua la sezione fiati, con Tony Duran
alla slide e Jim Gordon alla batteria). Materiali tra Waka Jawaka
e la megasuite Greggery Peccary (pezzi noti vengono maliziosamente rinominati). Molto parlato, qualità audio non eccezionale,
eppure interessantissimo per sbirciare dietro le quinte e calarsi
appieno nel metodo-Zappa.
Joe’s XMASage (VAULTernative, 2005) | ** | Link Grooveshark
| Materiali ’62-’65 pre-Mothers, Cucamonga era e dintorni, tra
52
audio vérité, stupid songs e underground lollipops. Alcune sovrapposizioni con Mystery Disc, come in GTR Trio, esercizio da cui poi
sarebbe venuta fuori la perla sbilenca Bossa Nova Pervertamento.
Imaginary Diseases (Zappa Records, 2006) | *** | Link Grooveshark | Ancora estratti live dell’orchestra elettrica Petit Wazoo,
ottobre-dicembre ‘72. Tre rock-blues e un funk-blues d’occasione,
Rollo, ma soprattutto la lunga e articolata Farther O’Blivion, che
ingloba frammenti da Greggery Peccary e Be-bop Tango, reperibile
prima solo sul bootleg – poi ufficializzato nella serie Beat the Boots
– Piquantique.
Trance-Fusion (Zappa Records, 2006) | **** | Link Grooveshark
| Annunciato da anni, già reperibile su bootleg, il terzo guitar
solo album compilato da FZ, concentrato sulle tournee dell’84 e
dell’88, con due puntate a fine Settanta. Oltre ai soli estratti da
brani noti, anche una Chunga’s Revenge e una jam improvvisata
(Bavarian Sunset) assieme a Dweezil. FZ fa sempre la differenza,
anche quando allunga troppo il brodo o si addentra nel cervellotico
spinto, con i suoi motivetti geniali e uno stile sempre vario eppure
personalissimo, che passa in rassegna blues, funky, reggae, fino al
quasi-metal.
AAAFNRAA–Birthday Bundle (Zappa Records/i-Tunes, 2006) |
mezza stelletta | Link iTunes | Pasticciaccio brutto in casa Zappa.
Disco in esclusiva per iTunes, mischia versioni inedite di brani di
FZ a prove dei suoi figli. Per quel che ci interessa, una Tryin’ to
Grow a Chin insolitamente lenta e scarna, una Dead Girls of London e una You Are What You Is carine.
The MOFO Project/Object (Zappa Records, 2006) | ** | Link
Grooveshark (4-disc version) | (2-disc version) | Ancora pasticci.
Celebrazione del quarantennale di Freak Out! in doppio formato,
un quadruplo e un doppio (Fazeedoh edition) CD, con l’assurdo
che quest’ultimo dovrebbe essere un condensato del primo e invece contiene sette pezzi “in esclusiva”. Versioni senza voce, versioni alternative, remix del ‘70 e dell’87, prove e dialoghi di studio,
frammenti d’intervista (non tutti d’epoca). Gli zappofili che hanno
prenotato per tempo il cofanettone si ritrovano il nome stampato
nel booklet. Le cose più interessanti sono la stupid song – inedito
assoluto – Groupie Bang Bang e cinque pezzi dei Mothers dal vivo
al Fillmore Auditorium di S. Francisco (anche se in esecuzioni un
po’ buttate lì).
Buffalo (VAULTernative, 2007) | **** | Link Grooveshark | Doppio CD per il concerto del 25 ottobre ‘80 a Buffalo (NY), formazione con Steve Vai e Vinnie Colaiuta. Repertorio di classici fine
53
Settanta-primi Ottanta, audio cristallino, performance eccezionale. Molti pezzi al fulmicotone, in particolare una Keep It Greasy
semplicemente da urlo.
The Dub Room Special! (Zappa Records, 2007) | zero stellette |
Link Grooveshark | Estratti dal concerto per la KCET TV di LA,
27 agosto ‘74 (lo stesso che fornì molte basic tracks per l’album
One Size Fits All) e da quello, trasmesso da MTV, al Palladium
di NY del 31 ottobre ‘81. Delitto: Montana, in una delle migliori
versioni di sempre, viene privata del suo solo di chitarra. Il video
omonimo, con gli stessi materiali, era stato da poco ripubblicato
su DVD (qui su YouTube): perché farne anche un CD?
Wazoo (VAULTernative, 2007) | **** | Link Grooveshark Wazoo
(Disc 1) | (Disc 2) | Doppio CD per il concerto del 14 settembre ‘72
a Boston, formazione Grand Wazoo. Repertorio jazz-rock-prog di
lusso: Appoximate sovrapposta a The Purple Lagoon, tutto Greggery Peccary e una embrionale Regyptian Strut sotto il nome di
Variant I Processional March.
One Shot Deal (Zappa Records, 2008) | *** | Link Grooveshark
| Strana collezione di inediti, soprattutto live, ’72-‘79, con una
puntata nell’81. Eppur funziona. Un paio di jam, un paio di esecuzioni orchestrali, il solo originale di Toad O’Line/On The Bus (poi
xenocronizzato su Joe’s Garage), il Solo from Heidelberg già sulla
rara cassetta allegata a “Guitar World” nell’87.
Joe’s Menage (VAULTernative, 2008) | ** | Link Grooveshark |
Estratti dal concerto del 1 novembre ‘75 a Williamsburg, Virginia.
Testimonia il veloce passaggio nelle fila zappiane della sassofonista e cantante Norma Jean Bell. Pezzi del periodo e ripescaggi Mothers, come una Take Your Clothes off when You Dance
che torna alle sue origini bossa (vedi The Lost Episodes) in una
rilettura reggae-latin. Ricavato da una cassetta, qualità audio non
eccezionale, tanto che in una Zoot Allures dilatatissima a un certo
punto l’audio “va e viene”.
AAAFNRAAA–Birthday Bundle 21.Dec.2008 (Zappa
Records/i-Tunes, 2008) | mezza stelletta | Link iTunes | Seconda release per questa specie di family-project allargato. Un po’
meglio della prima, ma non ci voleva molto. Sul versante FZ: la
versione spintamente disco, dal dodici pollici originale, di Dancin’ Fool, il solo Ancient Armaments (prima uscito solo come
lato B del singolo I Don’t Wanna Get Drafted) e una cover dalla
tournee ’88 (America the Beautiful) che pesca nel passato remoto
dei Mothers. Sono usciti altri volumi della serie. Quello del 2010
si apre con Talib Kweli che massacra Willie Pimp. Basta?
54
The Lumpy Money Project/Object (Zappa Records, 2009) | ***
| Link Grooveshark | Recensione su SA
Philly ’76 (VAULTernative, 2009) | *** | Link Grooveshark (Disc
1) | (Disc 2) | Recensione su SA
Greasy Love Songs (Zappa Records, 2010) | *** | Link Grooveshark | Recensione su SA
“Congress Shall Make No Law…” (Zappa Records, 2010) | zero
stellette | Recensione su SA
Hammersmith Odeon (VAULTernative, 2010) | *** | Link Grooveshark | Recensione su SA
Feeding The Monkies At Ma Maison (Zappa Records, 2011) | **
| Link playlist su YouTube | Praticamente l’anello mancante tra
Jazz from Hell e Civilization Phaze III. Si tratta di lunghi brani
per Synclavier tra il meditativo e l’inquietante. Due inediti assoluti (primo e ultimo brano) e in mezzo early versions di brani poi finiti su CPIII o già smangiucchiati altrove (Worms From Hell era
stato usato come sigla per il VHS Video from Hell). Sicuramente
interessanti, ma pur sempre work in progress degli esperimenti
home studio notturni di FZ.
Carnegie Hall (VAULTernative, 2011) | *** | Quadruplo CD per
55
documentare i due show del 31 ottobre ’71 al Carnegie Hall, NY
(con tanto di supporting act, ovvero i Persuasions, specializzati
in performance a cappella). Il repertorio è quello della vaudeville band con Flo and Eddie, tra ripescaggi Mothers (King Kong),
Peaches e pezzi specimen del periodo (come la lunga Billy the
Mountain).
Paul Buff Presents The Pal And Original Sound Studio Archives (Crossfire Publications, 2011) | 20 – v-e-n-t-i – dischi che raccolgono – molte? tutte? – le produzioni realizzate nel Pal Studio
di Paul Buff a Cucamonga (poi rilevato da FZ e ribattezzato Studio Z) e in cui FZ compare come collaboratore sotto diverse vesti:
autore, arrangiatore, ingegnere del suono, musicista, cantante. È
un’abbuffata di demo, gag, canzoncine surf, doo-wop e r’n’b, tra
cose note (su bootleg come Cucamonga, The Cucamonga Years,
Rare Meat), chicche sparse e brani giustamente dimenticati dalla
Storia.
Understanding America (Zappa Records/UMe, 2012) | * | Link
Spotify | Doppio CD che raccoglie lo Zappa “social commentator”, in sovrapposizione/sostituzione della vecchia raccolta Have
56
I Offended Someone? (1997), che ne intendeva condensare lo
spiritico politically uncorrect. Abbuffatona monodimensionale.
Road Tapes, Venue #1 (VAULTernative, 2012) | *** | Doppio CD
che inaugura una nuova serie di live d’archivio, con un concerto
a Vancouver del 25 agosto ’68. Classico concerto Mothers fine
anni Sessanta, con pezzi da Freak Out! a Uncle Meat per lo più in
versioni strumentali-cameristiche, improvvisazione, Octandre di
Varèse e King Kong a chiudere.
Finer Moments (Zappa Records/UMe,2012) | *** | Link Spotify
| Doppio CD per una compilation di “bei numeri” approntata
da FZ e rimasta come chissà quante altre cose nel cassetto. Soli,
gag in studio, ma soprattutto ritagli di conducted improvisation,
altezza ‘67-‘72. Nonostante sia una raccolta di frattaglie varie (e
ci siano pezzi già editi altrove), ha una sua organicità e l’ascolto
offre momenti molto interessanti.
AAAFNRAA–Baby Snakes–The Compleat Soundtrack (Zappa
Records, 2012) | zero stellette | Link iTunes | Considerando che
esiste il DVD di cui questo rappresenta letteralmente l’estratto
audio, mi piace considerarla l’ennesima marachella di Gail e compagnia.
Road Tapes, Venue #2 (VAULTernative, 2013) | *** | Link Grooveshark | Doppio CD sintesi dei concerti del 23 e 24 agosto ‘73 a
Helsinki. Siamo tra il concerto svedese dello stesso anno reperibile su video bootleg (anche su YouTube) e parzialmente finito
su Piquantique, e il live dell’anno successivo sempre a Helsinki
(YCDTOSA #2, 1988, uno dei migliori di sempre). Il repertorio
è un tour de force di strumentali prog-funk funambolici altezza
Roxy e Elsewhere e dintorni (ma c’è anche Brown Shoes), con
Ian Underwood al synth e Jean-Luc Ponty al violino, in rendition
forse meno fresche rispetto alle versioni svedesi, meno chirurgiche rispetto a quelle di Helsinki ’74.
A Token Of His Extreme Soundtrack (Zappa Records, 2013) |
–1 stelletta | Valga lo stesso discorso di cui sopra per Baby Snakes.
E poi: perché manca Approximate? Gail! (con lo stesso tono con
cui il rettore cazzia la Fraternità Robotica in Futurama).
Joe’s Camouflage (VAULTernative, 2014) | *** | Link Grooveshark | Ritagli agosto-settembre ‘75 – non ci è dato sapere
registrati esattamente dove – selezionati da Travers e Gail che
testimoniano il passaggio nelle file zappiane di Robert “Frog”
Camarena (chitarra e voce) e Novi Novog (tastiera, voce, viola):
una formazione che non arrivò mai sui palchi. Sono prove in studio, ricavate spesso da cassette, per testare early – ma veramente
57
early – versions di pezzi del periodo (sentire Honey e Illinois, per
esempio). Sorprendentemente, è un documento interessantissimo
e frizzante, anche se sempre e solo per FZ HC fanatics only.
Roxy By Proxy (Zappa Records, 2014) | ? | Oggetto – del contendere – che mette a nudo la frizione tra qualità dei materiali
(stellare) e intenzioni di chi si trova a gestirli (cattivissime). La
Zappa Records produce questo che è un audio sampler di quello che è ormai diventato il Sacro Graal dello Zappa fandom (un
DVD multiplo intitolato The Roxy Performances, l’integrale di
4 ore dei concerti del dicembre ’74 al Roxy di LA da cui sarebbe
venuto fuori Roxy and Elsewhere) e allo stesso tempo lo Zappa
Family Trust cerca 1000 fan disposti a pagare 1000 dollari a testa
per avere a casa propria un “Authentic Zappa Master Recording”,
che consentirebbe loro di stampare e vendere tutte le copie che
vogliono del disco (di cui, in pratica, i fan diventerebbero co-produttori e co-distributori). L’obiettivo di Gail è racimolare il milione di dollari (!) necessario per pubblicare finalmente il famoso
multiplo DVD (i 1000 fan ne diventerebbero gli sponsor). Bene,
Gail c’è riuscita? Il DVD uscirà? Non è dato sapere. Se questo
assurdo, che ha giustamente scandalizzato ogni Zappa fan dotato
di buon senso (“Glide Magazine” ha definito l’operazione “ridicola”), è quello che è necessario affrontare per vedere e sentire
The Roxy Performances, è vero che The Ocean Is the Ultimate
Solution. In tutto ciò, nel dicembre 2013 (quando in teoria avrebbe dovuto essere pubblicato il famoso The Roxy Performances),
è comparso su iTunes un breve video, venduto a 2 dollari, presentato come “a documentary of the making of a recording and
performance of Cheepnis”. Non ci si capisce più niente. Sicuramente gestire il patrimonio musicale e mediale di FZ non è cosa
facile e, in ogni caso, Gail e lo ZFT hanno animato iniziative belle
come Zappa Plays Zappa, ovvero Dweezil, l’ex Zappa sideman
Napoleon Murphy Brock e alcuni nuovi talentuosi musicisti (tra
cui Joe Travers alla batteria) che portano in giro la musica di
Frank. Sono stati coinvolti in prima persona nella realizzazione
del documentario di Cuccia. Hanno assicurato la continuità del
catalogo di FZ vendendo i diritti delle ristampe CD, ormai scaduti per la Rykodisc, alla Universal (molte ristampe, peraltro, sono
anche remaster) e aprendo al digitale. E però: oltre al pasticcio
grande delle pubblicazioni raffazzonate o inutili, oltre alla tela
di Penelope del Roxy affaire (o di altri delayed album come The
Rage and The Fury, le riletture di Varèse patrocinate da FZ), c’è
ancora qualcos’altro, qualcosa di più sottilmente creepy. Nel 2011
58
la Zappa crew ha pubblicato Bat Chain Puller, il lost album per
antonomasia di Captain Beefheart. Nell’aprile 2013 ha rimasterizzato e ristampato il diamante nero Trout Mask Replica. È saltato fuori che nel 2012 Gail abbia richiesto l’acquisizione dei diritti
sul nome “CAPTAIN BEEFHEART” e sia attualmente in attesa
dell’approvazione finale. Secondo Gary Lucas – sì, gli abbiamo
rotto le scatole per sapere la sua opinione – è difficile che Gail
riesca a spuntarla. In ogni caso: Grillo voleva brevettare “DIO”.
Gail, tu a situazionismo come stai messa?
Zappa / Mothers, Roxy by Proxy (Zappa Records, 2014)
PARTE QUATTR O | Dieci dischi c o i baffi
L’arbitrarietà delle poll, delle shortlist, delle top, dei canoni
eccetera a numero chiuso viene fuori in tutta la sua prepotenza
se si tratta di dovere scegliere numero ‘x’ di dischi di Zappa “per
cominciare”, a rappresentarne le diverse direzioni condensate
nell’immenso opus (con la paradossalità aggiunta della profonda
unità di fondo di quest’ultimo – la chiamano continuità concettuale). Un numero vale l’altro e allora ci arrestiamo al più classico
dei classici. Con la consapevolezza che questo elenco di dieci
dischi, in ordine sparso, ma secondo un criterio di alternanza democratica, taglia fuori cose clamorose in senso assoluto o comunque essenziali per la conoscenza dell’oggetto-Zappa come Black
Napkins e Zoot Allures (dall’omonimo album), Inca Roads (da
One Size Fits All), Bobby Brown, City of Tiny Lites e Yo’ Mama
(da Sheik Yerbouti), Brown Shoes Don’t Make It (uno dei picchi
precoci di Zappa, da Absolutely Free), la unpredictable smash
hit Valley Girl (da Ship Arriving Too Late to Save a Drowing
Witch), Sinister Footwear II (da Them or Us), The Dangerous
Kitchen (da The Man from Utopia), Put a Motor in Yourself e
N-Lite (capolavori austeri da quel catafalco mastodontico che
è Civilization Phaze III), per non dire dei gioiellini sparsi nella vaudeville band con Flo and Eddie (per esempio, Sharleena),
dell’intero Lumpy Gravy (il disco più scopertamente sperimentale di FZ, a partire dal formato, due lunghi brani collagistici) o
delle testimonianze live (da Roxy and Elsewhere, alla abbuffata
della serie celebrativa You Can’t Do That on Stage Anymore, al
guitarama di Shut Up’n Play Yer Guitar).
Frank Zappa, Läther (Rykodisc, 1996)
Läther (1996) | Link Spotify | Triplo CD edito nel 1996 che riproduce il progetto ideato da FZ a fine anni Settanta e finito spalma-
59
to, per imposizione della odiatissima Warner Bros., su 4 diversi
album (Zappa in New York, Studio Tan, Sleep Dirt, Orchestral
Favorites). Ampiamente bootlegato anche perché integralmente trasmesso per radio da Zappa, per ripicca. C’è tutto lo Zappa
post-freak e pre-Synclavier, in pratica. Non è cosa da poco. Inoltre, l’alternanza degli elementi e la loro giustapposizione e orchestrazione conferiscono valore aggiunto ai singoli materiali, di per
sé raramente meno che entusiasmanti. Ristampato nel 2012 con
una copertina differente (Zappa con la faccia ricoperta da schiuma da barba).
Uncle Meat (1969) | Link Spotify | La fantasmagorica summa
del primo Zappa, quello dei Mothers of Invention, quello freak,
quello “anarchico”. Non a caso è da sempre uno dei dischi fissi
nella elitarissima, idiosincratica super top di Piero Scaruffi. C’è
la follia dada e c’è il rigore cameristico, c’è il jazz (la lunghissima
suite King Kong) e ci sono le underground lollipops in odore di
un doo-wop risciacquato in rivoli underground. Il tutto montato
60
ad arte. Da godere di pancia, nel suo lucido furore musicoclasta
e, cervelloticamente, nei suoi turgidi intarsi geometrici (vedere la
copertina).
Over-Nite Sensation / Apostrophe (‘) (1973, 1974) | Over-Nite
su Spotify | Apostrophe su Spotify | Due dischi impossibili da
separare: nascono dalle stesse session e sono stati canonizzati
unitariamente, tra reissue superdeluxe (placcate oro 24 carati)
e documentari della serie Classic Album. Questo, che è il primo
Zappa “commerciale” e “canzonettaro”, a presa rapida, è anche
uno Zappa cesellatissimo, stratificato, generoso e – soprattutto –
profondamente zappiano. È un prog-funk-pop (con venature hard
che anticipano l’epifania Steve Vai) compatto, eppure pieno di
anse, di dettagli golosi (sempre la copertina), innervato da quelle
marimbe, da quei motivetti, da quegli avviluppamenti e spezzettamenti ritmici che sono solo zappiani.
Hot Rats (1969) | Link Spotify | Recensione su SA
We’re Only in It for the Money (1968) | Link Spotify | La satira
della psichedelia, del flower power, degli hippie e del Movement
in presa diretta. A partire dalla copertina – interna, nel vinile
originale – che prende per il culo quella del Sgt. Pepper’s (con
la complicità di Jimi Hendrix). Il disco è un’unica, travolgente
valanga di frammenti senza soluzione di continuità, di canzonette, jingle, gag sonore, parodie (Flower Punk è una Hey Joe geneticamente modificata), sfottò, voci pitchate, momenti sperimentali (legati a doppio filo all’immediatamente precedente Lumpy
Gravy). Troviamo qui uno dei rari momenti lirici della produzione zappiana, la elegiaca Mom and Dad. Un documento storico,
nonché un fantastico bordello.
Joe’s Garage (1979) | Link Spotify | Due volumi, di cui il secondo
doppio (Act I e Acts II e III), pubblicati a pochi mesi di distanza.
Zappa va avanti come un trattore rinnovando il proprio linguaggio (il disco è completamente diverso da Sheik Yerbouti, altro
lavoro importantissimo, uscito solo pochi mesi prima) e chiude
i Settanta già catapultato negli Ottanta. Con finalmente a disposizione uno studio di registrazione tutto suo (lo Utility Muffin
Research Kitchen ricavato nella taverna sotto casa), partorisce un
concept fantasticamente pretestuoso (un “Central Scrutinizer”
vieta la musica e il povero chitarrista Joe ne passa di cotte e di
crude) per sperimentare montando assieme, parimenti, nastri e
musicisti: è la “strana sincronizzazione” della xenocronia, che fa
jammare assieme parti neppure pensate per essere messe assieme, suonate da musicisti che non hanno mai interagito. È uno
61
Zappa ipertecnico, algido (ma capace di aperture “romantiche”
come Lucille Has Messed My Mind Up, Outside Now e Watermelon in Easter Hay), sempre più innamorato dei turnisti (“l’animale poliritmico” Vinnie Colaiuta), che comincia a sognare il Synclavier – Nondimeno affascinante.
Freak Out! (1966) | Link Spotify | Uno dei primi doppi e uno
dei primi concept della storia del rock, nettamente diviso tra
stupid songs che parodiano il pop, e in particolare le love songs
dell’epoca, dandone una rendition deformata e grottesca, e pezzi
programmaticamente sperimentali e rumoristici. A fare da cerniera tra le due parti, le illuminazioni weird annidate nel formato
canzone di Who Are the Brain Police? e Help I’m a Rock. Importante come documento storico e perché contiene in nuce molti
elementi della cosa-Zappa.
You Are What You Is (1981) | Link Spotify | Da tempo sostengo
che quello anni Ottanta sia, tra i tanti Zappa, quello più difficile da digerire. Per la discontinuità qualitativa dei dischi, per la
forma-canzone adottata (che mischia easy listening, black music,
musical e heavy metal in strutture complesse), per il suono: un
suono plasticoso, chiusissimo, ottuso (basti dire che Chad Wackerman, batterista del periodo ’81-‘88, usava pad e Rototom). E
se in almeno tutti i dischi del periodo si annida qualche chicca,
non è però facile sceglierne uno che sia, allo stesso tempo, un
disco rappresentativo e un buon disco in assoluto. La scelta allora
non può che cadere su YAWYI: un lungo carnevale di pop colorato, farsesco e studiatissimo, che è anche l’ennesimo statement politico del Nostro (le solite stoccate a religione, politica, music biz
e i soliti affondi a base di sessualità perversa). Unico disco della
zappografia in cui suona la batteria il versatile David Logeman.
Il videoclip della title-track mostrava un sosia di Reagan friggere
sulla sedia elettrica e per questo fu bannato da MTV.
Jazz From Hell (1986) | Link Spotify | Il disco con cui FZ presenta al mondo compiutamente (c’erano state avvisaglie su ThingFish e c’era stato il travestimento carpiato – il non-travestimento
– di Francesco Zappa) i suoi smanettamenti ossessivi con il
Synclavier, un costosissimo early digital, polyphonic, sampling
system. È un disco animato da un modernismo così lanciato,
programmatico, meccanico, luccicante (sembra di ascoltare
frammenti da un Uncle Meat o un Hot Rats futuristici), da non
potere non apparire oggi datato. Pezzi iperdinamici come Night
School, la forsennata G-Spot Tornado o l’assalto di Massaggio
Galore convivono con brani cupi, insinuanti, ansiogeni, inquie-
62
tanti (The Beltway Bandits, While You Were Art II, la title track,
Damp Ankles) – tutti cervellotici – e con uno splendido assolo di
chitarra catturato dal vivo (St. Etienne, come a dire, forse, che c’è
ancora posto per l’uomo oltre la macchina).
The Yellow Shark (1993) | Link Spotify | Alla fine – di tutto (è
questo l’ultimo album pubblicato con FZ in vita) – il nostro, che
da sempre si definiva un “American composer”, corona il sogno
di vedere eseguita la propria musica come dio comanda da un
ensemble orchestrale (prima era stata quasi sempre una storia di
incazzature nere o alla meglio frustrazioni, London Symphony
Orchestra e Boulez/Perfect Stranger inclusi). Malato da tempo,
Zappa sovrintende alle prove e agli allestimenti del francofortese
Ensemble Modern, diretto da Peter Rundel, che gli regala versioni rigorose e brillanti di classici vecchi e nuovi del suo repertorio
strumentale, cameristico e classico-contemporaneo. Una lettura
della musica di Zappa che apre uno squarcio decisivo sulla sua
intentio auctoris, nonché una via possibile alla ricezione di un
opus che, mettendo sempre il piede in più scarpe, trova i propri
interpreti sistematicamente impreparati.
L’ultimo sorriso, su The Yellow Shark
63
Conflitti
64
Il violinista canadese autore di “In
Conflict” si racconta in un’ampia
intervista. L’ultimo disco, la sua genesi e
molto altro.
Testo di Teresa Greco
Una lunga e illuminante chiacchierata con Owen Pallett: il senso
del nuovo disco In Conflict, un processo di maturazione avvenuta e di riappropriazione dell’io finora nascosto abilmente dietro i
tanti “personaggi” a cui il violinista e autore canadese aveva dato
vita nei suoi album. Ora si sente maggiormente sicuro, rivelando
di più su se stesso. L’ultimo album non è del tutto autobiografico
ma vi si avvicina molto, ponendo finalmente l’autore al centro
delle canzoni. La lunga gestazione del disco (a cui ha partecipato
Brian Eno, soprattutto ai cori), le tematiche, il processo creativo,
gli arrangiamenti, i testi, le ispirazioni, i conflitti con se stesso,
l’identità e molto altro. Molta melodia, una drammaticità non
retorica e tanta sincerità stanno dietro a un album compiuto.
In Conflict ha avuto una lunga gestazione. Ce ne puoi parlare?
Sì, è stato molto difficile, ha richiesto un bel po’ di tempo, circa
due anni tra una cosa e l’altra, direi un sette mesi di lavoro… troppo! (ride, ndSA)
E’ stato difficile, in termini di testi o di lavoro sugli arrangiamenti per la musica che avevi in mente?
Da parte mia, gli arrangiamenti arrivano in modo abbastanza veloce e le canzoni stesse sono state scritte piuttosto rapidamente;
la difficoltà è di solito capire come non verrà un pezzo, confrontandolo con il come verrà fuori, perché ho una concezione molto
datata e stupida, nel senso che voglio che la musica risulti nuova,
come qualcosa che avrei voglia di sentire. Se viene fuori qualcosa che suona troppo hard rock o house ’90 o simili, allora devo
ricominciare.
Oltre ai synth, quali altri strumenti sono stati utilizzati nel
disco?
Ho usato un solo sintetizzatore, l’Arp 2600, il vecchio synth del
1971. L’album è quasi per intero prodotto con l’Arp, niente drum
machine, fatto molto in modo artigianale. Ho altri synth, ma ho
iniziato a usare questo per ogni cosa che faccio.
65
Anche Brian Eno ha usato l’Arp? Che cosa ha fatto di preciso
in In Conflict?
Ha suonato alcune piccole parti di chitarra nella title track, nel
terzo verso si può sentire una chitarra che entra. Ha suonato un
po’ di synth in The Riverbed, che non si sente a meno che non si
tolga, e allora si avverte che il pezzo suona male. La canzone non
andava bene ritmicamente e Brian ha aggiunto questo synth molto sottile, che ha fatto sì che il pezzo andasse molto bene ritmicamente. A parte questo, per la maggior parte ha cantato i backing
vocal, in cinque pezzi. Gli ho mandato le tracce e lui le ha registrate a Londra, non eravamo precisamente nello stesso studio;
ci siamo incontrati parecchie volte di persona, anche se perlopiù
siamo mail friends (ride, ndSA).
Rispetto al penultimo album, Heartland, che differenze ci
sono nei testi?
In quest’ultimo ci sono differenze, perché la maggior parte dei testi non è fiction, anche se non direi che sono testi autobiografici,
pur arrivando comunque dalle mie esperienze. La stessa cosa era
vera anche per gli album precedenti, ma qui non descrivo ciò che
accade come se fosse successo ad altre persone, ma come se accadesse a me. In pratica ho messo me stesso nel mio disco. E’ come
se fossi sia lo scrittore che la star! (ride, ndSA). Suona piuttosto
sciocco dirlo, ma è stato differente il processo: parlare della mia
vita e mettermi come protagonista.
Ho letto i testi, sono molto poetici e anche molto diretti, hai
persino citato il tuo nome un paio di volte…
Esatto, ma anche nei dischi non autobiografici usavo citare il mio
nome, è una sorta di accenno a Jonathan Richman.
Jonathan Richman ti ha in qualche modo influenzato? Non
ha un approccio molto diverso dal tuo?
No, non credo che il suo approccio sia molto diverso dal mio,
abbiamo molto in comune; non tanto da una prospettiva sonora,
quanto dal punto di vista politico, veniamo dallo stesso ambiente.
Quando ho ascoltato l’album per la prima volta mi è venuto
in mente Rufus Wainwright…
E’ complicato parlare di musicisti a cui la propria musica assomiglia; vengo spesso paragonato a Rufus Wainwright, Andrew Bird
è un altro nome che si fa. Li conosco e sono molto, molto diversi
da me, sia come motivazioni che come contenuti. Mi piacciono
e mi piace la loro musica, ma quando faccio un disco e scrivo
canzoni, non ho niente in comune con loro e se sento che certe
66
BIOgrafia
Il violinista canadese Owen
Pallett, fino al 2009 conosciuto
con il moniker di Final Fantasy,
classe 1979, ha ormai un nutrito curriculum alle spalle, tra
dischi in proprio e numerose
collaborazioni. Pallett viene da
un piccolo sobborgo nei pressi
di Toronto, ha un background
classico intrapreso sin da
piccolo con un padre organista
di chiesa, studi di pianoforte,
pièce composte in pre-adolescenza per un videogame ideato dal fratello maggiore, per
approdare poi all’università di
Toronto a studiare composizione classica.
Fa parte del trio Les Mouches,
con Rob Gordon e Matt Smith,
con il quale pubblica due
album in studio e un EP, dal
2002 al 2004.
Il progetto Final Fantasy –
tributo alla sua anima nerd
– nasce un anno dopo la conclusione degli studi universitari, nel 2003, essenzialmente
come one-man band. Il Nostro
si è intanto unito ai Picastro e
ha iniziato la sua attività come
arrangiatore, per gli Hidden
Cameras e gli Arcade Fire tra
gli altri, di cui è violinista.
L’esordio con Has A Good
Home (2005) non convince, secondo il nostro Edoardo Bridda. Composizioni per violino
e pedale del loop conducono
l’album a snodarsi tra chamber
volte la mia musica inizia a suonare come la loro, cerco di allontanarmene. Non è una mancanza di rispetto nei loro confronti, sono
un grande fan di Rufus, The Art Teacher credo sia una delle più
belle canzoni che abbia mai sentito, e rispetto moltissimo Andrew
come musicista, è un favoloso violinista. Non sono però le persone più vicine a me; per esempio, quando si pensa a Jonathan
Richman, non vengono in mente i violini, ma esiste una più profonda motivazione che lo guida e che mi guida, non lo conosco,
probabilmente siamo molto diversi, ma esistono alcuni musicisti
nel mondo a cui mi sento molto vicino, anche se la loro musica
viene da posti diversi.
Hai lavorato con John Darnielle dei Mountain Goats tempo
fa. Ha qualcosa a che fare con In Conflict?
John non ha effettivamente collaborato al disco, abbiamo lavorato insieme su materiale dei Mountain Goats, non ha mai
lavorato sulla mia musica. Ha ispirato comunque enormemente
questo disco dall’inizio, perché subito dopo aver scritto Heartland e prima che uscisse, sto parlando del 2009, stavo cercando
di scrivere nuovi pezzi, ma non ero sicuro di volerli collocare in
un mondo di finzione, con questi personaggi fittizi. Non sapevo
cosa avrei scritto di lì a poco, avevo un sacco di idee e le stavo
provando. Una delle cose su cui stavo lavorando, consisteva nel
descrivere situazioni accadute nella mia vita, sono stato ispirato
molto dai Mountain Goats perché avevo visto come funzionava
con Darnielle, mentre ero in tour con lui. Lui ha trasformato situazioni successe in quel momento in tour in una canzone, e nello
stesso modo ho cercato di fare io. Ma non funzionava veramente.
Due pezzi del disco, Infernal Fantasy e Soldier’s Rock, erano due
canzoni tra le prime scritte, anche se largamente trasformate, ma
Soldier’s Rock e Infernal Fantasy sono entrambe canzoni su storie
d’amore che ho avuto da teenager e sono nate da questo processo. John è stato sempre molto influente, è un carissimo amico tra
l’altro.
Hai detto poco fa che arrangiare una canzone, creare un’atmosfera, ti viene molto facile. E’ sempre stato così?
No, ero molto lento, poi sono diventato molto veloce. Lavorando man mano sono diventato più svelto, riesco ad arrangiare un
pezzo per orchestra in un giorno. Posso farne anche due al giorno. Ma Nico Muhly è più rapido di me, ne può fare tre al giorno
(ride, ndSA). Non ho veramente problemi a essere veloce in tal
senso. Non mi mancano le idee melodiche, posso fondamentalmente sedermi al piano e fare grandi cose. La cosa più diffici-
pop e songwriting che ricordano Patrick Wolf, mentre certo
minimalismo riporta da un
lato alla Penguin Cafe Orchestra, dall’altro ad ascendenze
seventies, Nick Drake su tutte
(si ascolti l’accorata Adventure.exe); seguono riferimenti
Arcade Fire, Postal Service e
melodie eighties (This Is The
Dream Of Win & Regine), che
culminano nel lirismo della
sinfonia per archi di That’s
When The Audience Died.
La maturazione si concretizza
nel successivo He Poos Clouds
(2006), un concept album le
cui composizioni sono ispirate ai livelli di Dungeons And
Dragons, l’epico videogame
fantasy. Qui il minimalismo
del precedente lavoro lascia il
posto ad arrangiamenti stratificati ed a una riuscita unità
concettuale, tra pop e struttura
classica. Le canzoni sono arrangiate per quartetto d’archi,
pianoforte, harpsichord e percussioni, si insiste su composizioni piene ed enfatiche, che
occhieggiano al solito Wolf,
a Rufus Wainwright e a Xiu
Xiu, a Nick Drake e allo Scott
Walker più arty (If I Were A
Carp). Numerose le citazioni
testuali al mondo virtuale, dai
giochi Nintendo alle Cronache
di Narnia, mentre il sottotesto
è una autobiografica riflessione
intorno al rapporto tra ateismo
67
le, poi, è terminare i testi e, come dicevo prima, la produzione,
immaginare come registrare. Se facessi album per solo piano, ne
potrei probabilmente fare tre o quattro all’anno, ma nessuno vorrebbe sentirli, non sarebbero granché (ride, ndSA).
Quindi è questo il modo in cui componi, al piano?
Certo, ho tanti demo dove suono il piano mentre canto testi inventati, o apro un libro e canto le parole mentre suono il piano, mi
vengono fuori grandi idee in questo modo.
Qual è la canzone più autobiografica del disco?
E’ abbastanza difficile da dire, perché sento che ci sono due livelli
di autobiografia in In Conflict. Una è rappresentata da Soldier’s
Rock, molto autobiografica, non ci sono bugie. Ma nello stesso
tempo, credo non sia molto illuminante. Non credo sia un pezzo
che abbia molto da dire. Ne sono molto soddisfatto, ma perché
penso che sia molto vicina alle mie esperienze; mi chiedo se
qualcuno possa ricavarne qualcosa, come se ci fosse una sorta
di sentimento universale. La prima canzone invece, I Am Not
Afraid, è la meno immaginaria, la più teoretica, e so che la gente
ha avuto una reazione molto emotiva con questa canzone. Con
questa, hanno ritrovato molto della loro esperienza. Quindi è un
po’ come se ci fossero canzoni più autobiografiche e altre con un
più profondo significato.
Sei un fan di Games Of Thrones?
Sì molto!
Le serie TV ti hanno ispirato nel fare musica?
No, nel senso che Games Of Thrones è un fantasy ad ampio
respiro, che deriva da molte fonti mitologiche, che musicalmente sono generiche, per cui lo sarebbero anche la mia musica e
le mie ispirazioni. Invece la mia primaria influenza fantasy è in
effetti H. P. Lovecraft. Lovecraft è stato una grande influenza
per Heartland e continua ad ispirarmi. Ho letto molto di lui e
molto su di lui. Spero di cogliere una sorta di mitologia stratificata di cui lui tratta, il modo in cui fa sempre riferimento a libri che
non sono stati scritti. Un’altra mia ispirazione è la numerologia,
sono presenti molti riferimenti numerologici in questo disco e in
altri, per esempio In Conflict ha molto a che fare con il numero
7. Ci sono molte canzoni in settima, molte strutture compositive
costruite attorno agli stessi principi che Béla Bartok usava per
creare le strutture delle canzoni, con certe simmetrie. Ma preferisco non addentrarmi troppo in questo, la gente penserebbe che
sono più esoterico di quanto in realtà sia (ride, ndSA).
68
e morte.
Autobiografismo presente da
sempre in Pallett, che affronta
il tema dell’identità del queer
artist quale egli è in modo
defilato, non da attivista. Non
facendoci esattamente della
musica militante sopra, ma
affrontandolo da un punto di
vista dell’identità, piuttosto
che dell’affermazione, essendo
tra l’altro il Canada, da questo
punto di vista, uno stato piuttosto libertario.
Due EP annunciano Heartland
(2010): il primo è Spectrum,
14th Century EP (2008), una
collaborazione con i Beirut,
registrata durante le session
di The Flying Club Cup, e che
ha visto Pallett arrangiarne gli
archi. Un set di cinque pezzi
che proseguono la strada di He
Poos Clouds, largamente arrangiati con atmosfere jazzy e
ambient. Il secondo mini, Plays
To Please EP (Slender Means,
2008) cambia ancora le carte
in tavola: trattasi di cover di
sei pezzi di Alex Lukashevsky,
musicista di Toronto leader
del gruppo Deep Dark United.
In origine blues soprattutto
acustici, vengono qui rivisitati da Pallett, Andrew Bird e
altri ospiti, in un chamber jazz
cabaret drammatico, tra orchestrazioni classiche e musical
di Broadway, con il tocco del
Nostro e la sua voce a far da
Hai mai suonato qualcosa con la sequenza di Fibonacci?
(ride, ndSA). No, non che io sappia. Credo che la relazione tra le
teorie matematiche e la musica classica contemporanea sia molto
interessante; i miei giochi matematici, in quel che compongo,
sono molto più semplici. Per esempio, c’è un gioco in Song For
Five and Six. La canzone comincia con un accordo di quinta che
va in sesta ma entrambe le alterazioni in chiave sono per quinta e
sesta. Per così dire, il pezzo è in sesta ma poi c’è un breakdown di
violino che accade in cinque sedicesimi, sovrapposto. Usando il
looping, ho parecchie opportunità di suonare molti stupidi giochi
ritmici che spero divertano gli ascoltatori.
Parliamo della soundtrack del film di Spike Jonze, Her: si è
trattato di una collaborazione tra te e Win Butler degli Arcade Fire oppure è stato un lavoro che avete fatto separatamente?
No, niente del genere. E’ uno score degli Arcade, in effetti, io sono
entrato nel progetto solo alla fine per aiutarli a completare alcuni spunti. Il motivo per cui Will ed io siamo stati nominalmente
nominati dall’Accademy per l’Oscar è stato perché quando abbia-
collante.
Intanto Pallett a fine 2008
ha cambiato definitivamente
nome, abbandonando lo storico
moniker Final Fantasy a favore
del vero nome. In ballo questioni di copyright con l’omonimo videogioco che lo hanno
volontariamente convinto ad
affrancarsi definitivamente dal
marchio, togliendolo anche
dai dischi precedenti una volta
ristampati. Sintomo anche questo di quella precisione quasi
maniacale che lo contraddistingue.
Heartland (2010) è ampiamen-
69
mo presentato lo score, non poteva essere a nome di una band.
Dato che era degli Arcade Fire con Owen Pallett come musicista
addizionale, hanno messo il mio nome e quello di Will come rappresentante della band.
E’ pur vero che con gli Arcade Fire hai una storia lunga, hai
arrangiato come minimo tre dei loro album…
Vero, ma non del tutto. Cioé lavorare con loro presuppone molta
collaboratività, molta più di qualsiasi altro lavoro che ho fatto
finora con altri. Se guardi i credits di Funeral, per dire, gli archi
sono arrangiati da un gruppo di persone degli Arcade Fire, e io
sono uno di loro. La stessa cosa è successa con Neon Bible: io e
Régine abbiamo fatto uno specifico lavoro orchestrale, e così per
Reflektor. Gli archi sui dischi degli Arcade Fire sono arrangiati
collettivamente da me, Sarah e Richard, con un grande contributo di Win e Régine. Laddove c’è un’orchestra, questa è sempre
arrangiata da me e Régine.
Tuo zio è nel clip di The Riverbed…
Sì è vero, mio zio Jim è un attore, e abbiamo sempre scherzato sul
fatto che lui dovesse essere in un video. Se sei un musicista e un
po’ famoso, come lo sono io, sei sempre soggetto ai consigli dalla
famiglia sul mettere qualcuno dei tuoi parenti sulle copertine dei
dischi, in un video, è una specie di cosa ricorrente sai? Amo la mia
famiglia e perciò è sempre molto piacevole. Con Jimmy ho deciso
di prendere il suo scherzo sul serio e gli ho detto: “Sei un attore
e ti voglio nel video”. Volevo The Riverbed come primo singolo
e volevo che richiamasse la profondità emotiva del disco, e ho
sentito che Jimmy era molto adatto per il ruolo. Ho mandato il
trattamento iniziale a Eva Michon, la regista, e da lì lei e Jimmy
hanno girato il video, di cui sono molto orgoglioso; è probabilmente il miglior video di Owen Pallett. Di solito con i video non
ho molto input. I primi a cui ho fatto realmente attenzione e a
cui ho pensato veramente, sono quelli realizzati per In Conflict.
Come Song For Five and Six, On A Path e The Riverbed. Ne sono
molto contento e mi sono divertito. In passato, davo il pezzo a un
regista e gli davo carta bianca. Lavorare con M Blash per i video
precedenti è sempre stato un piacere, ma questa volta sono stato
più coinvolto in ogni senso per i clip, perché credo che nel 2014
ogni canzone debba avere un video. Mi piacerebbe realizzarne
uno per ogni brano del nuovo album, ma suppongo che dipenderà da quanto In Conflict avrà successo e da quanti soldi avremo
a disposizione. Fare video è costoso. Ne abbiamo girato un altro
e ho idee per il resto del disco, sia in high che in low budget. Mi
70
te orchestrato e stratificato
con la partecipazione della
Czech Symphony di Praga e di
Gentleman Reg, Nico Muhly e
Jeremy Gara (batterista degli
Arcade Fire) tra gli altri; l’album ha una base narrativa di
concept, e un’ambientazione in
un regno fittizio, Spectrum, ed
è basato su conversazioni tra la
divinità del posto e un giovane fondamentalista religioso,
Lewis. Argomenti, questi, che
sono metafore sul senso umano di appartenenza e/o non
appartenenza a un posto e sulla
xenofobia che ne può derivare.
Una personale “song cycle di
fiction contemporanea” che
deve molto all’amato Van Dyke
Parks, nella quale si passa dalle
marcette militari ottocentesche al synth e al chamber pop,
fino alla saturazione del suono,
in un mix di analogico e digitale. Il lavoro della maturità.
Numerose le collaborazioni di
Pallett nel corso della carriera:
ha registrato e suonato con Jim
Guthrie, Beirut, The Hidden
Cameras, Gentleman Reg,
Arcade Fire (ha scritto con loro
gli arrangiamenti degli album
Funeral, Neon Bible e poi The
Suburbs e Reflektor); ha realizzato remix per Stars, Grizzly
Bear, Death From Above 1979.
Ha composto le colonne sonore
dei film The Box di Richard
Kell (2009, insieme a Win
piacciono anche i prodotti low budget. On A Path è sorprendente,
amo quel video, fatto dal mio amico Steve in un weekend, è molto
riuscito.
Che mi dici della tua vecchia band Les Mouches e di come
siete tornati insieme?
Dal 2003 al 2004 eravamo insieme, abbiamo suonato 30-40 show,
tutti in Canada, tra Montreal e Toronto. Eravamo popolari in un
certo ambito, nella scena indie sperimentale, tutti noi poi eravamo coinvolti in progetti meno elitari. Io e il mio violino, Robbie
suonava la batteria in una band chiamata Front Fiction che ebbe
successo improvviso, e poi finì subito, c’era molto entusiasmo in
Canada. Les Mouches poi si sciolsero e ognuno di noi prese la
sua strada, pur essendo tutti molto amici. Avevamo poi parlato
di riunirci, ma eravamo tutti in posti diversi. Rob Gordon faceva
molta musica sperimentale minimal house. Io si sa, sono un tipo
più pop. Nel 2011 poi mi sono stati offerti un paio di concerti in
cui suonare Heartland per intero e sapevo che mi sarebbero
serviti un bassista e un batterista, così ho pensato subito a Robbie
e l’ho ingaggiato per suonare la batteria. Matt Smith non suonava
il basso, così gli ho comprato un basso e gli ho chiesto di imparare a suonarlo (ride, ndSA), e noi tre abbiamo imparato il disco.
Spero tu possa vederlo; non so se ti era piaciuto Heartland ma è
sorprendente sentire quelle canzoni – che ho suonato da solo per
molto tempo, o con l’accompagnamento minimale di un chitarrista – live con un arrangiamento da rock trio: suonano molto
potenti, siamo rimasti stupiti noi per primi dal buon risultato. E
sapevamo che avremmo dovuto ancora lavorare insieme e così è
stato per In Conflict. Mi sono scoraggiato, però, a metà. Avevamo
scritto e registrato circa sette pezzi come band, accreditandoci
tutti, nel disco, come co-autori, ma mi sono un po’ innervosito
perché volevo trovare il modo di legare il vecchio materiale al
nuovo. Così una volta scritte le prime sette canzoni, ho detto che
avrei scritto io l’altra metà dell’album, i brani che sarebbero poi
diventati Path, Chorale e Passions.
Che mi dici del prossimo tour?
Siamo in tour ora. Finora è stato davvero eccitante, solo noi tre
sul palco; io suono poche canzoni da solo, nel mezzo del set. Ma
perlopiù sono arrangiamenti per tre. Suoniamo poche canzoni
vecchie e più che altro i nuovi pezzi. Spero di continuare con
loro, perché per la maggior parte sono stato da solo in tour, così
c’è sempre stato tanto denaro (ride. ndSA), tipo che si torna a casa
con i soldi in tasca; ora è più difficile perché c’è da noleggiare la
Butler e Régine Chassagne) e
The Wait di M Blash. Con Win
Butler è stato candidato agli
Oscar 2014 per lo score di Her
di Spike Jonze.
Il 27 maggio 2014 è stato infine
pubblicato In Conflict, perfetta sintesi di quanto realizzato
finora dal musicista canadese.
Synth e percussioni predominano, Brian Eno partecipa
(synth, chitarra e cantato in
alcuni brani). Disco più personale dei precedenti: il punto
di vista di Pallett si sposta dai
vari personaggi dei precedenti
concept a se stesso, se non del
tutto autobiograficamente.
Melodico, drammatico, ma non
retorico.
71
batteria e comprare i voli per Matt e Rob, ma ne vale la pena perché insieme ci divertiamo molto!
Quindi per quanti mesi sarai in tour?
E’ sempre un po’ vago perché suono con gli Arcade Fire così
spesso; il loro tour è in corso e io suono con loro ad ogni concerto,
sono un membro della band per questo tour. È molto intenso, loro
si prendono un mese di pausa ma io non posso perché devo portare avanti i miei live. Avrò dormito nel mio letto, da capodanno,
un totale di cinque notti! Credo che avrò una settimana libera in
luglio, e poi sarò occupato fino a fine anno. Sto anche pensando,
giusto per stabilire un record, che una volta finito il tour potrei
andare in Giappone, così non ritorno del tutto a casa (ride, ndSA).
Suppongo proprio che tu non abbia il tempo per iniziare a
lavorare su nuovo materiale…
Beh, quando sono con gli Arcade comunque non devo portare la
mia attrezzatura, né fare interviste, perciò alla fine ho del tempo
libero. Non ho ancora scritto niente di nuovo ma sto arrangiando
dischi per altri e facendo remix. Credo di aver fatto quattro di-
72
schi quest’anno, mentre ero on the road, una cosa ottima. Sto già
pensando a nuovo materiale, in realtà, perché è bello non perdere
l’abitudine. Non ho scritto nessun pezzo quest’anno. Da quando
ho finito In Conflict, mi sono preso una pausa dal songwriting e
voglio riprendere.
Pensi di avere uno stile particolare quando fai remix?
Credo di averne fatti quattro, ogni volta che ne faccio uno scopro che non ho ancora capito il mio tipo di linguaggio. E’ come
quando sei un compositore e vai a scuola di composizione, il peso
maggiore di imparare ad essere un compositore è di scoprire il
tuo linguaggio, capirlo. Cosa comporre, per chi, in che stile, ecc.
Richiede molto lavoro anche mentale nel trovare se stessi. Sento che succede la stessa cosa con i remix. La maggior parte ha il
loro linguaggio e metodo. Io ho lavorato sugli archi, su remix con
molti synth e sono ancora al punto che sto cercando la mia voce.
Questo non è negativo essendo un musicista pop, ma lo è quando
sei un remixer. Devo capire davvero qual è il suono che mi piace, il 12” che ho prodotto per Caribou è probabilmente la cosa
migliore che ho fatto, che avrei voglia di ascoltare in privato. Ma
non sono ancora pronto a prendere queste grandi decisioni. Ho
lavorato nel nuovo album di Caribou, ma è tutto quello che posso
dirti, per ora (ride, ndSA).
73
Skiantos
Sbagliando nota. Parte seconda
74
In questa seconda parte della storia del
gruppo bolognese analizzeremo il passaggio
dal successo di “Mi piaccion le sbarbine” alla
crisi che negli anni ‘80 mette a rischio la sua
esistenza, tra dissapori interni e problemi coi
discografici.
Testo di Giulio Pasquali
III. 1 – L’avanguardia è molto dura
Nella romanza cantautorale è tutto così etereo, legato alla tradizione classica occidentale. Mentre il ritmo è qualcosa di molto
più tribale, è un’esigenza che ti viene se ascolti il blues, il rock e
tutti i suoi derivati. A me piaceva questo.
Freak Antoni, da Anni di pongo, in Aa.Vv., Gli altri ottanta
Una cosa va detta degli Skiantos: nonostante siano stati i testi a
caratterizzarli come identità artistica e come progetto, la musica
era tutt’altro che secondaria, per qualità e per la strana capacità
di essere, volenti o in futuro anche nolenti, in linea con la contemporaneità. Dopo il punk di Inascoltable e il punk-rock di
MONO Tono, infatti, anche il disco del ’79 riesce ad essere in sintonia con quanto accadeva in quegli anni, principalmente in UK.
Era l’anno della maturità del post-punk/new wave, termini quanto mai scivolosi e complicati da definire univocamente sia stilisticamente sia cronologicamente: dai Suicide che erano in giro
dalla prima metà dei ’70 a una Patti Smith definita a seconda dei
momenti “ultima rockstar anni ’70″, “madrina del punk”, o “poetessa new wave” (e che comincia nel ’75), dalle quadrature postCan e Low dei Joy Division (le cui origini punk sono evidenti)
alle spigolature al tempo tecniche e sguaiate dei Television, è
un universo complesso per definizione (per dire: che c’entrano i
Bauhaus con i Talking Heads?), nato com’era sull’onda liberatoria del punk che invitava a contaminazioni ed esperimenti, e che
nel tempo, anche per la successiva virata chart-friendly di alcuni
suoi esponenti, si fa sempre più sfuggente.
75
Per brevità, la koinè del genere si può riassumere in ritmi robotici, una vaga alienazione, l’abbandono della passione rock, l’uso dell’elettronica e di ritmi che sbiancano il funk e la disco cui
semmai si guarda nella sua versione Moroder, inquadrandola su
geometrie Kraftwerk (i quali, in un gioco di scambi e rimandi,
verranno campionati spesso dall’hip hop), pur senza dimenticare
le origini punk nell’abbandono dei virtuosismi per privilegiare
l’attitudine; se è vero questo, l’Italia non fa eccezione, anche se
sarebbe più esatto dire “Bologna”: i segnali da Firenze e Pordenone arriveranno dopo; per ora la lezione viene messa in pratica soprattutto in Emilia (e con ottimi frutti: con buona pace di
Battiato, “la new wave italiana” è in ottima salute…). È a Bologna
infatti che hanno origine realtà come, per limitarci a pochi nomi,
Gaznevada e Confusional Quartet, tempestivamente colti dalla
stessa Italian Records di Oderso Rubini la quale, nata prima come
tape label col nome di Harpo’s Bazar, aveva inizialmente prodotto
la cassetta di Inascoltable degli stessi Skiantos e poi, cambiata la
ragione sociale nel 1980, aveva saputo cogliere i vagiti della new
wave nostrana fino a imporsi come marchio di garanzia (prima
di assecondare la suddetta svolta pop/italo disco di tanti dei suoi
gruppi).
76
Sempre a proposito di etichette, se è vero che la rivolta settantasettina dei Nostri era rivolta contro i cantautori nella stessa
misura in cui lo era contro i tecnicismi del prog, la Cramps di
Gianni Sassi riusciva a tenere insieme tutto: il prog degli Area,
l’avanguardia di John Cage, un cantautore sia pur atipico come
Finardi, il primo Alberto Camerini e, a partire da MONO Tono,
anche Freak e soci. Intanto però Oderso Rubini continuava la
sua opera di organizzatore culturale: il 2 aprile 1979 va in scena
Bologna Rock, festival che vede sul palco numerosi gruppi della
scena del momento e occasione in cui gli Skiantos scrivono una
delle pagine più memorabili e simboliche della loro storia. È lì
infatti, davanti a 6.000 persone, che danno vita alla “Spaghetti
performance”, cucinando la pasta invece di suonare; e la reazione
del pubblico, piuttosto contrariato, dimostra che le età dell’oro
non esistono e che il fatto di attraversare un periodo di fermento creativo non significa automaticamente che tutto il pubblico
sia pronto a tutto, nemmeno in un’epoca di contestazione dei
meccanismi dello show business, nemmeno in anni in cui il culto
del musicista tecnicamente virtuoso promosso da tanti classici
gruppi ’70 veniva bollato come “nazista”. D’altronde “l’avanguardia fa paura”, e qui eravamo più nell’ambito del precedentemente
ricordato Living Theatre, che dei Sex Pistols.
La nomea di cui parlava Freak Antoni deve parecchio a quell’evento, epocale sia per la nuova scena rock, che per gli Skiantos.
III. 2 Forse mi credevi pi ù catti vo…
I testi inizialmente volevano essere in rima baciata,
da scuola elementare, e trattavano di tutto quello di cui
normalmente i cantautori non parlavano: cose comuni, banali,
come la pastasciutta, il cibo o i gelati, metafore delle cose
che più ti piacciono nella vita. L’importante era evitare i cliché.
Freak Antoni, ibid.
Vivo nel terrore dell’amore
ma ci godo a fare del rumore
Mi piace molto di suonare
e con la musica pestare
ma non mi guadagno il pane
perché suono come un cane
Skiantos, Sono un teppista (1979)
Nonostante l’assenza di Dandy Bestia, Kinotto (ad azione dissolvente) (Cramps, 1979) e il singolo Mi piaccion le sbarbine/Fa-
77
gioli (1980, la seconda esclusa
dall’album e reintegrata nella
ristampa del 2003) confermano il momento d’oro dell’ispirazione, e mostrano appunto
orecchie aperte e sensibili
al suono della new-wave: la
tipica pulizia sonora del genere
(che non tutti avevano ancora ben digerito) inizialmente
spaventò un poco i fans, che
intravedevano i sintomi di un
tradimento “commerciale”
(curiosamente, fu il successo
del singolo a dare impulso alle
vendite). Riascoltato oggi, il
cambiamento stilistico rispetto
al precedente album non è così
netto (anche se è lì che si sente
l’assenza di Dandy) e il disco in
realtà, come musica e testi, sa
tenere l’equilibrio tra le novità
e i terreni congeniali al gruppo. Non manca, per esempio,
il surrealismo, nelle storie di
passioni alimentari smodate
musicate su ritmi estivi di Gelati e Kinotto, dove si descrive
un mondo in cui, chissà perché, i gelati “costano milioni” e
dal lattaio un chinotto (pardon,
kinotto) costa “un puttanaio”
(più che immaginazione malata, previsione dei tempi dell’euro o procedimento della rima
casuale, è un modo di parlare
di passioni).
Quanto al linguaggio giovanile
(l’altra grande novità portata
dalle canzoni del gruppo), esso
ritorna nel rock (musicalmente
banalotto, però) di Non ti sop-
78
porto più (altrettanto romanticamente con “mi hai rotto i coglioni”) e, insieme a pose stradaiole, nella notevole Ti rullo di kartoni.
Abbiamo poi la trasformazione delle innumerevoli “I Wanna”
dei Ramones nel ritornello “voglio solo scaccolarmi, scaccolarmi,
scaccolarmi” del classico Kakkole (sorta di Waiting For The Man
diversamente grezza), le rielaborazioni da Inascoltable di Il rock
ti dà lo shock e Se mi ami, amami, il romanticismo a ruota libera (dai vincoli della logica) del frammento Tu sei bellissima, in
generale un basso di gomma che tira il tutto, e l’epica domestica
di Freezer, primo esperimento di electro-funk insieme al singolo
Fagioli, altra storia di passione alimentare smodata. Per finire,
anzi per cominciare visto che apre il disco, il classico Mi piaccion
le sbarbine, il loro brano più celebre, manifesto degli amori sgangherati messi spesso in scena dal gruppo, e la geniale Sono buono,
storia di una (finta, c’è da dirlo?) pace ritrovata, recitata più che
cantata con voce quasi indifferente su un arrangiamento rarefatto
di batteria, su cui la chitarra insinua un riff tra Peter Gunn e Love
Me Two Times.
Forse leggermente inferiore al precedente, Kinotto, oltre ad
essere più vario stilisticamente, è comunque l’altra pietra miliare
della loro carriera: i brani in esso contenuti sono diventati classici
mai esclusi dalle scalette dei concerti, anzi parte fondamentale
dei live assieme a quelli di MONO Tono.
Freak: le vendite
“Mono Tono e Kinotto sono andati molto bene, ma non abbiamo mai avuto i rendiconti reali. Nel senso che Gianni Sassi della
Cramps ha sempre occultato opportunamente tutti i rendiconti,
e non abbiamo mai saputo quanto abbiamo venduto realmente.
La prima tornata di vendite fu cinquemila copie, ma Gianni Sassi
stesso disse “guardate, al prossimo rendiconti avrete certamente
un aumento reale, notevole, ve lo preannuncio, sarà più veritiero
il prossimo rendiconti”. Il “prossimo rendiconti” non è mai arrivato, quindi non so cosa dire”.
IV. A d azione dissolvente: vad o fino a
Sanrem o
Scavando nella mente mi restano immagini sbiadite in bianco e
nero, più nere che bianche per la verità: la cantina umida di Via
San Vitale, le discussioni infinite sul taglio da dare alla band dopo
le dipartite eccellenti, le troppe siringhe che giravano, la testa di
tutti perennemente altrove, chi per un motivo chi per un altro,
una sorta di depressione strisciante, avvolgente.
79
Andrea Della Valle “Andy Bellombrosa”, traccia cd rom della
ristampa di Pesissimo!
Ad un certo punto il gruppo decide di provare ad andare a Sanremo, il che produce tensioni tra i suoi membri: Freak Antoni, per
esempio, è perplesso sulle modalità, teme che la macchina del
Festival annacqui e snaturi il messaggio della band. Ma una giuria
terrorizzata da quello che gli Skiantos avrebbero potuto fare in
diretta chiude la questione, estromettendoli. La ferita però resta,
e se le vendite del successivo Pesissimo! andranno bene (il pubblico ha fatto pace con le nuove sonorità e gli Skiantos un parziale
dietro front stilistico), la situazione nel gruppo non è per niente
pacifica. Come dice il non casuale titolo del disco, il clima non è
buono: oltre alla questione Sanremo, quello che era un gioco sta
diventando un mestiere (con gli ottusi consigli paternalisti di chi
dice loro “sì, ok, ora però dovreste diventare più ‘professionali’”)
e al posto del divertimento stanno subentrando le pressioni. Che
spesso fanno rima con “defezioni”, così oltre a Jimmy Bellafronte
anche Freak Antoni, fulcro delle pressioni interne ed esterne sulla band (sebbene questa si identifichi con lui molto meno di oggi),
la abbandona stressato e desideroso di dedicarsi ad altro (nella
traccia rom della ristampa di Pesissimo! i membri del gruppo
raccontano qualcosa al riguardo). Gli Skiantos rimasti non mollano, chiamano al suo posto Linda Linetti (unica donna della loro
storia) e cercano di reagire mettendosi al lavoro sull’album. Il
quale, però, paga le scarse vendite iniziali di Kinotto, meritandosi un budget è inferiore.
A livello di produzione, la performance è buona. Anche troppo:
il disco viene registrato con frequenze che poi devono essere
tagliate perché il vinile non riesce a riprodurle, col risultato di
un suono molto cupo (verrebbe da dire Pessimo). Solo la recente
ristampa ha reso giustizia al lavoro di Jimmy Villotti e Franco
Zorzi (anche i Pere Ubu hanno incontrato problemi simili: secondo loro, ai tempi del vinile, le chitarre “in controfase” – come
in Pesissimo! - erano “l’incubo dei discografici”).
Non ai livelli dei due dischi precedenti, invece, la performance
del gruppo, in calo d’ispirazione e tormentato dai detti problemi.
Certo, tra una notevole Mammaz, con la sua battuta elettronica
morbida, e la versione rock di X agosto di Giovanni Pascoli (sì,
proprio “Tornava una rondine al tetto…”) di cui si permettono
anche di cambiare qualche verso, gli Skiantos segnano ancora qualche punto. Il fatto poi che Stefano Sbarbo e la sua ugola
80
dolente siano voce guida in quasi tutti i brani dà un colore strano
e nervoso al disco (in qualche momento, anche un po’ inquietante), con particolari risultati, oltre che nei pezzi già nominati,
anche nella tesa Sono Veloce e, appunto, Ehi sbarbo: l’accoppiata
tra questa voce e il suono cupo finisce per rendere bene il clima
in cui l’album è nato, e in generale le performance strumentali
meritano, con svariati dettagli gustosi (inserti di elettronica, fluidi
fraseggi di chitarra e un’atmosfera da corsa frenetica resa con
efficace compattezza). Ed è in pieno stile Skiantos il fatto che tra
81
le poche canzoni di cui è voce guida “l’unica donna nella storia
degli Skiantos” ci siano Fat Girl e la versione punk di Ragazzo di
strada.
Ma i riff non particolarmente memorabili e una certa uniformità
stilistica non sono le carte migliori per far dimenticare gli assenti
e il disco sembra una versione tecnicamente migliore ma meno
importante della musica di Inascoltable (e i due pezzi finali ne
rielaborano proprio due dell’esordio). Né si capisce, se si annuncia “una facciata registrata dal vivo in studio”, perché inserire
le finte voci del pubblico. Colpa delle suddette tensioni, più che
dell’assenza di Freak Antoni e Dandy Bestia: negli anni i due diventeranno le icone e il centro creativo del gruppo, fino a rendere
impensabile un disco degli Skiantos senza di loro; ma benché
al centro del progetto ci fossero dall’inizio, è anche vero che il
gruppo era un collettivo di amici in cui le idee rimbalzavano tra
tutti ed il contributo degli altri non era secondario. In un clima
più leggero, anche gli Skiantos orfani dei due avrebbero potuto
senz’altro portare a casa un risultato migliore (e il titolo sarebbe
stato un altro).
Da ricordare che in quell’anno, poi, c’è anche l’arrivo a Bologna di
un ancora ignoto Johnson Righeira, che per il suo 45 giri d’esordio (una sorta di space twist, cantato in maglioncino giallo…) si fa
accompagnare dai Nostri: le loro strade si incroceranno indirettamente pochi anni dopo, in un contesto del tutto diverso.
Freak Antoni sulla sua uscita dal gruppo:
“Io ero andato via dal gruppo perché innanzitutto non volevo
essere il leader, la cosa mi procurava troppo stress, troppe telefonate di discografici, giornalisti, critici, troppe decisioni da prendere e quindi fine del divertimento spensierato, anche abbastanza
disimpegnato, così come l’avevo inteso negli Skiantos. Non che
gli Skiantos fossero disimpegnati, ma io volevo essere più libero,
meno al centro dell’attenzione, meno subissato, meno coinvolto
da processi di critica, di risposta, di presa di coscienza, di dibattito, ecc… volevo avere la mente e le mani più sciolte. Seconda cosa:
la partecipazione degli Skiantos nel 1980 al Festival di Sanremo
mi vide assolutamente contrario, e contrariato. Era una concessione al business: in quegli anni cercavo di essere il più duro e
puro possibile, all’interno naturalmente del progetto creativo
degli Skiantos, cercavo di essere il più irreprensibile possibile,
e quella partecipazione mi sembrò un calar le braghe, cedere le
armi, in sostanza un venire a patti col sistema di produzione del
consenso musicale e spettacolare, era una specie di occhiolino al
82
pubblico più smaliziato.
Mi chiedevo: gli Skiantos potrebbero andare a Sanremo, in linea di massima, come ipotesi? Certo che possono andarci. Però
come ci andranno? Riusciranno davvero a fare il loro discorso o
saranno imbottigliati, irregimentati, resi inoffensivi, appiattiti, da
tutta la mossa, da tutta la situazione, da tutta la sovrastruttura del
Festival che inghiotte e banalizza qualsiasi cosa? Diventeranno
un gruppetto banale che fa una canzoncina più o meno provocatoria come Fagioli? Il problema non si pose perché la giuria ebbe
una paura folle, era sicura che avremmo bestemmiato (questo
ce lo hanno detto poi alcuni membri della giuria con i giornalisti
presenti), che avremmo mostrato il sedere, scoreggiato in pubblico, fatto delle cose innominabili davanti alla camera televisiva e ci
eliminò immediatamente, nonostante manager e produttori artistici – in quel caso Gianni Sassi della Cramps – avessero tentato il
tutto per tutto, si fossero prodigati per far andare comunque sul
palco dell’Ariston gli Skiantos. E quindi decisi di fare un percorso
mio, avevo molte canzoni nel cassetto, di produrmi canzoni utilizzando i gruppi rock di Bologna”.
83
V – L’inc ontenibile
F reak A nt oni
Freak Antoni così va a Roma
per il progetto Beppe Starnazza e i Vortici, col quale esplora
il passato della canzone comica
italiana rileggendo classici di
Fred Buscaglione, Natalino
Otto e Rodolfo De Angelis
in chiave rock. “Fui invitato a
Roma da alcuni musicisti romani (tra cui Pasquale Minieri
e Lele Marchitelli) per dare
vita a questo progetto di Beppe
Starnazza e i Vortici, per tentare di andare alle origini della
comicità in musica, comicità
nella canzonetta popolare italiana dai primi del ’900 fino ai
giorni nostri, quindi passando
anche dai futuristi, dai comici
quali Pippo Starnazza, Carosone e soprattutto Fred Buscaglione, di cui abbiamo fatto
diverse cover. E quindi me ne
andai a Roma togliendomi un
po’ da questa fissazione monomaniacale sugli Skiantos che
comunque diventava pesante
e un po’ faticosa, e che vivevo
qui a Bologna. Fu una boccata
d’aria, un tentativo di prendere
ossigeno fuori da queste parole
d’ordine, che diventavano tutte
legate e indispensabili, tutte
legate al lavoro degli Skiantos”.
“Il lavoro su Beppe Starnazza
e i Vortici fu molto impegnativo, non lo nascondo, anche
faticoso, difficile. Però fu molto
stimolante: conobbi Pachito
Del Bosco, responsabile del
84
Fonografo Italiano quindi un grande ricercatore, un grande (etno)
musicologo. Mi informai sul teatro delle sorprese, sul teatro futurista, sulle canzoni dell’avanspettacolo, quindi ascoltai un sacco
di materiale, molte registrazioni dal vivo di Buscaglione, conobbi
Leo Chiosso, il suo paroliere, che mi raccontò un sacco di cose riguardo a Fred, e lì maturai l’idea di proporre al comune di Torino
una strada, una piazza dedicata alla sua memoria, progetto che
presentai ma che poi non fu minimamente preso in considerazione. Però sì, conobbi di prima mano, ascoltando molto e più volte
al giorno la sua produzione, quella di Natalino Otto, soprattutto di
Rodolfo De Angelis, questo grande artista canzonettista futurista
del teatro della sorpresa”.
“Parlammo a lungo di Pippo Starnazza, di cui io mi definivo l’erede (artistico, naturalmente). Pippo Starnazza era questo cantante
che aveva una voce piuttosto afona, priva di armonici, ma molto
interessante, molto jazz, faceva lo scat, imitando anche il verso
dell’anatra, ed ecco perché “Starnazza”. Ed era molto autoironico, tant’è che ebbe la modestia, benché fosse un musicista dotatissimo di un certo swing e di una certa verve anche lui comica
piuttosto esilarante, di definirsi così: innanzitutto per darsi un
ruolo originale, poi per non dare l’idea di essere un personaggio
molto “ufficiale”, molto paludato, molto presuntuoso. Tra l’altro
frequentava un genere per gli anni – parliamo degli anni ’20-’30 –
giudicato minore ed anche proibito quale era il jazz a quel tempo,
molto emarginato in quanto forma d’arte delle potenze plutocratiche, secondo il fascismo.
E anche del grande Rodolfo De Angelis, futurista, che come quasi
tutti i futuristi aderì al fascismo, un’adesione secondo me più
estetica, cultural-artistica, quindi con una certa dose di creatività
immaginativa. Sono convinto che i futuristi avessero delle ragioni
estetiche per aderire al fascismo, più che delle condivisioni politico sociali, ma questo è il mio parere (per Marinetti non era proprio così, l’adesione era piena, ndSA). Ma comunque, dico questo
perché Rodolfo De Angelis con il suo teatro della sorpresa era un
futurista, dunque legato anche al fascismo.
Lì lavorai parecchio e fu un toccasana perché, ripeto, avevo voglia
e bisogno di divagarmi, di distrarmi”.
Che ritmo! (CBS, 1981) è in effetti un’interessante rassegna di
quelle canzoncine talvolta sciocche, talvolta ironiche, di un tempo, le quali pur non possedendo la carica eversiva di quelle degli
Skiantos, si collocano nel percorso di Freak Antoni come viaggio
archeologico alla ricerca di predecessori. Nella scelta, Buscaglio-
85
ne la fa da padrone, con Teresa non sparare, Buonasera signorina,
una Il dritto di Chicago cui Antoni aggiunge qualche strofa con
personaggi contemporanei, e il medley tra Eri piccola così, Che
notte e Che bambola. Né mancano classici antichi come Maramao
perché sei morto del Trio Lescano o Mamma voglio anch’io la
fidanzata (la canzone di Natalino Otto campionata qualche anno
fa dagli Articolo 31), tutti riletti in chiave di un potente swingrock qua e là attualizzato alle più dure sonorità contemporanee.
Tra i reperti ce n’è uno clamoroso: Per fare una canzone del
suddetto Rodolfo De Angelis, ironico “manuale” sulle strategie
del pop industriale furbetto (concetti analoghi esprimerà Sandro
Oliva nella sua Canzone scema). Il brano sembra scritto ieri e
invece risale incredibilmente agli anni ’20: l’autore evidentemente era un futurista nel vero senso della parola, visto che aveva già
capito tutto con decenni di anticipo ed estrema lucidità.
Il gruppo ebbe anche visibilità televisiva e fumettistica (su Linus
ad opera di Giacon) poi, dopo un singolo dell’anno successivo,
“si fece un numero rilevante, non ricordo bene se dodici o tredici
puntate di Mister Fantasy, presentato da Carlo Massarini. Dopodiché il progetto è naufragato nelle indecisioni dei vari compo-
86
nenti la band, anche perché ognuno di loro era un professionista
di un certo livello che aveva moltissimi impegni per conto proprio, e quindi era difficile tenere uniti i Vortici. Però sì, il progetto
è stato divertente, dopo Mister Fantasy doveva andare avanti con
canzoni originali sulla falsariga di quei testi della tradizione della
canzonetta pop italiana (ecco, Beppe Starnazza e i Vortici erano
anche uno studio), doveva proseguire, e poi naufragò in mille
ripensamenti, in mille frustrazioni da mille ripensamenti, con
prove, riprove, cambi d’arrangiamento dei brani. E poi ripeto, con
la difficoltà di gestire musicisti professionisti che avevano mille
altri impegni”.
Insieme ad alcuni gruppi di Bologna, Antoni realizza poi un cofanetto di cinque 45 giri (ognuno attribuito ad uno pseudonimo
diverso e suonato con un diverso gruppo), L’incontenibile Freak Antoni. A sentirlo, si capisce dov’era andata l’ispirazione che
mancava in Pesissimo: cover deliranti e minimali di Arrivederci
Roma e Love in Portofino, la satira di Il governo ha ragione, l’alzata d’orgoglio punk di Mica male (not bad), la scorrettezza politica
di Negro, il punk-jazz di Posso farlo ovunque e un clima generale
di sperimentazione ed eclettismo stilistico.
“Cercai di coinvolgere quasi tutti i gruppi del movimento della
Bologna rock in questo progetto di cinque 45 giri in una scatola,
Five Records In One Box si intitolava il primo progetto, che poi
è diventato L’incontenibile Freak Antoni. Adesso è stato ristampato (con bonus tracks, nel 2004, da Astroman, tra l’altro nuova
etichetta con cui Oderso Rubini sta recuperando la new wave italiana di quegli anni, ndSA) da Oderso Rubini, che è il papà della
Bologna rock, del movimento rock bolognese: dell’Harpo’s Bazar
prima, poi ribattezzata Italian Records, quando ancora l’Italian
Recods produceva gruppi rock bolognesi, poi si è riciclata in
tante altre cose. Ma quando agli albori produceva rock autoctono,
cittadino, rock indigeno bolognese, Oderso Rubini ne era un po’
l’immagine, era un po’ il portavoce dell’Italian Records, e quindi
feci con loro questi cinque 45 giri”.
Curiosamente, nella ristampa Astroman dei primi anni 2000, due
canzoni di quelle incise con I Recidivi (nei quali c’erano degli ex
Skiantos, come ne I nuovi ’68) vengono sostituite con un’altra:
ci vorrà il cofanetto-raccolta dei singoli dell’Italian Records per
veder restaurata la scaletta originale.
Gli Skiantos nel frattempo finiscono di sfasciarsi: ai problemi del
gruppo si aggiungono quelli personali e quelli di relazione tra i
componenti, finché la pressione si fa insopportabile e tra la fine
87
del 1981 e l’inizio del 1982 cessano anche l’attività live. In realtà
non è la fine del gruppo, ma ripartire sarà dura. Ci vorrebbe una
hit; magari una di quelle estive…
V. D ovrei fare una canz one per l’ estate
Nel 1983 Dandy Bestia e Freak Antoni si rincontrano e ricominciano a scrivere insieme. I risultati li convincono a rimettere su la
banda, ma uscire dalla cantina è dura: il mondo discografico non
li ama e li isola nell’indifferenza. Tutto ciò che hanno è una proposta di Caterina Caselli per un disco di cover balneari prodotto
dai fratelli La Bionda e suonato da turnisti stranieri del giro, sul
quale il gruppo si dovrebbe limitare alle voci – con la promessa
poi di fargli fare un vero disco loro: in pratica l’operazione di Ivan
Cattaneo (il quale con Italian Graffiati finì per compromettere per sempre la sua immagine presso il pubblico che, prima dei
reality, ormai lo ricordava solo come quello delle cover: per gli
Skiantos il danno sarà minore). Da notare che i La Bionda avevano appena trasformato l’ex-sconosciuto Johnson Righeira in una
star insieme a suo “fratello” Michael, con lo spaccaclassifiche
Vamos a la playa: la situazione, rispetto a quattro anni prima, si
era completamente rovesciata.
La proposta viene accettata per pura mancanza di alternative e
dopo infinite discussioni ma i Nostri, sia pure al punto più basso
della loro carriera, hanno uno scatto d’orgoglio e riescono a comporre e a imporre due canzoni che diventano quelle trainanti del
disco: la title-track Ti spalmo la crema (che seppur scioccherella,
resta tuttora una delle canzoni più famose del gruppo) e la satira
di Una canzone per l’estate che, mentre prende in giro nel testo e
nella musica i tipici successi da spiaggia dell’epoca, in realtà parla
anche dell’album in cui è contenuta.
I due brani ripetono con successo il gioco di fare bene un genere
prendendolo in giro (in questo caso, il pop balneare), riuscendo
ad essere anche qui in linea con la musica del momento (benché
brutta). Da fuori però, tra l’ironia e la leggerezza fraintese della title-track e le cover in parte effettivamente brutte, in parte
inadatte agli Skiantos (sentire Stefano Sbarbo che canta Sapore
di sale su una base modaiola primi ’80, o Freak alle prese con una
Azzurro dalle parti del Bowie di Let’s Dance, oggi è archeologia
straniante, all’epoca poteva lasciare perplesso il loro pubblico), il
disco sembrava il peggior epitaffio possibile per una grande storia, impressione accentuata dalla copertina, dove le teste dei tre
che escono dalla sabbia ricordano vagamente tre lapidi.
88
Freak Antoni:
“Ti spalmo la crema è stato un disco-marchetta, lo abbiamo detto
fin dall’inizio. Figurati che agli inizi avrebbe dovuto essere per
volontà precisa e specifica di Caterina Caselli il disco del ritornoSkiantos, che dall’82 fino più o meno all’84 si erano fermati completamente. E poi riprendemmo con questa proposta di Caterina
Caselli, la quale voleva solo ed esclusivamente delle cover estive,
balneari. Avremmo avuto, per essere rilanciati, un certo battage
promozionale che non c’era mai stato concesso e invece lei ce lo
prometteva, però costringendoci a lavorare su brani già sentiti. Ci
dettero anzi una lista…
89
Noi provammo a fare queste due canzoni, che piacquero molto
ed entrarono a far parte delle canzoni probabili per questo disco;
e poi addirittura, siccome erano degli inediti, alla fine anche la
Caselli si convinse e ne fece un po’ i portabandiera del disco. Ci
furono i video con Eleonora Giorgi, ci fu tutta una spinta… questo
voluto da un impresario, che poi noi abbiamo abbandonato, cui
naturalmente nulla importava che fossimo noi gli autori dei vari
brani, che il disco ci rappresentasse da vicino, che fosse un disco nostro, che fosse difendibile o meno; a lui interessava il gran
90
battage promozionale, ci costrinse dicendo “O così o pomì, o così
oppure tornate in cantina, quello che io vi posso offrire è questo,
se volete tornare fuori, riaffacciarvi nel mercato discografico
queste sono le condizioni”. E dopo diverse riunioni, dopo estenuanti collettivi, chiacchiere, discorsi, confronti, decidemmo di
provarci: i tempi erano molto duri per noi anche perché dopo due
o tre anni di sosta è durissima, devi ricominciare praticamente da
capo, tra la diffidenza di tutti. Noi ci sentivamo un po’ con l’acqua
alla gola: girammo case discografiche, non ci voleva nessuno, e
quindi ci agganciammo a questo progetto di Caterina Caselli che
comunque fu molto generosa rispetto al resto della discografia
italiana, perché nessun discografico sembrò avere interesse per
gli Skiantos, quindi noi abboccammo all’unico amo che ci fu teso.
Andò a finire che il disco scontentò tutti; per noi, che però conoscevamo gli antefatti e il retro della questione, fu comunque motivo di soddisfazione perché valutammo le nostre energie, riuscimmo a fare ben due canzoni che mai e poi mai avrebbero dovuto
essere i due pezzi trainanti di quel disco. Però certamente il disco
fu accolto come una delusione: non sono gli Skiantos quelli, quelli
sono i La Bionda con i loro turnisti che fanno dei brani estivi
cantati dagli Skiantos, ma tieni presente che quelle due canzoni
originali noi le abbiamo sudate, sofferte, le abbiamo pagate col
sangue, veramente… (ride) E quindi per noi c’era motivo di soddisfazione per ricominciare, e infatti poi da lì abbiamo ripreso”.
Dandy Bestia:
“Io suonavo con Lucio Dalla in quel periodo, andai a suonare in
Gran Pavese Varietà che mi divertiva di più: non per Lucio, che
era un bravissimo artista, ma mi divertivo di più io, per cui passai
al Gran Pavese Varietà, con Siusy Blady, Patrizio Roversi, i Gemelli Ruggeri e tutta una serie di persone che poi sono diventate
famosissime. E ci rincontrammo lì perché Freak partecipava.
Abbiamo ricominciato a far canzoni insieme – perché tanto è
sempre stato così: le musiche le facevo io e i testi lui – durante il
Gran Varietà, che era diciamo così un circo, uno spettacolo, un varietà itinerante per l’Italia, per cui avevamo anche tempo, tra uno
spostamento e l’altro. Una volta che abbiamo imbastito una ventina di canzoni abbiamo detto “perché non riprovarci? Le canzoni
sono belle, proviamo a rimettere in piedi la banda”.
“Alla fine dell’83, ci trovavamo in cantina da un amico a far le prove di canzoni che poi sono uscite molto dopo, nell’87. Avevamo
preparato dei provini, li facemmo sentire a Paolo Guerra, lui ebbe
un contatto con la CGD e la Caselli, la quale si disinteressò com-
91
pletamente di noi, aveva bisogno di un gruppo per un’operazione
estiva prodotta dai La Bionda, che in quel momento andavano
fortissimo, avevano fatto i Righeira e poi anche loro facevano
dischi, per cui capitammo dentro a questo buglione che non ci apparteneva per nulla. Eravamo rimasti in 3: io, Freak e Stefano. Gli
altri si allontanarono quando si capì che non potevano suonare su
questo disco perché suonavano i musicisti dei La Bionda”.
Doveva essere, secondo l’idea del manager, “il rilancio degli
Skiantos”?
Sì, nel panorama più “ufficiale” della musica italiana, quello che
noi prima aborrivamo, e quindi si trattava di “entrare dentro” al
maccherone, una cosa dalla quale ci siamo sempre tenuti fuori
ma volutamente, anche se poi il successo discografico arrivò,
con Mono Tono e Kinotto, e quella era già una contraddizione in
termini per noi. Infatti il gruppo si è poi sciolto per questa ragione, oltre che per i vari casini che ci sono sempre in un gruppo di
sei-sette-otto persone.
È vero che Ti spalmo la crema resta comunque una delle vostre canzoni che il pubblico comune ricorda di più…
Vendette anche dei dischi, ahimè… (ride)
92
…però dette un’immagine del gruppo che non era esattamente quella vera…
Non era proprio! Sicuramente non corrispondeva alla realtà. Poi
era difficilissimo sostenere un ruolo che noi stessi quando abbiamo creato il gruppo aborrivamo, il modello che proprio a noi non
andava bene: sempre sull’ironia ma molto patinato, molto lustrini
e paillettes, insomma, cosa che a noi dava molto fastidio, essendo
comunque dei veri rocker, tutto sommato”.
“Dopo questa operazione, litigammo con Paolo Guerra, il nostro
manager, appunto per la cosa artistica e un po’ perché non ci
faceva lavorare, nonostante tutto questo investimento. Sì, il disco
vendette, ma non quanto un’operazione simile poteva far sperare,
perché comunque poi era difficile dal vivo sostenere questo ruolo, a) perché noi non avevamo suonato i pezzi, e quindi quando li
suonavamo dal vivo risultavano ovviamente diversi da com’erano sul disco e poi b) anche perché le canzoni pur essendo belle
non ci appartenevano, noi volevamo suonare le nostre, per cui il
discorso dal vivo subì un grosso rallentamento per questo motivo,
ma anche per colpa della inoperosità di Paolo Guerra, anzi soprattutto per quello. Poi ci staccammo, cosa che ci costò in termini di soldi parecchio: lui mise in piedi una causa pesantissima e
noi dovemmo pagare”.
Causa le vendite inferiori al previsto, la promessa di un successivo disco vero non avrà seguito: il compromesso era servito a poco,
col danno di credibilità non ripagato dalle vendite (la lezione di
De Angelis non era servita…). Per risalire, c’è ancora da fare.
93
Genere: psych, drone, experimental, electronica
A chi ha qualche primavera in più sulle spalle l’attacco di In Case We’ll Meet, esordio del
duo A Finnish Contact – Luca Freddi e Fabio
Valesini di Satan Is My Brother –, non potrà non ricordare i Mercury Rev che furono.
Quelli all’altezza di Yerself Is Steam / Lego My
Ego, con ancora il frontman David Baker in
formazione e una idea di psichedelia insieme
urbana ed agreste, cinematica e materica, sfatta
e sognante. Caratteristiche e coordinate che si
ritrovano tutte in questo dischetto notturno,
immaginifico e visionario, ma che nell’opener
Detachable Words/Tangled Numbers, in quelle
melodie vocali sfilacciate, quasi a mo’ di cut-up,
e in quell’alternanza tra rumori e suoni, diegetici ed extradiegetici, si fanno quasi evidenza,
innalzando la traccia ai livelli di quell’album
(seminascosto gioiello di psichedelia storta, per
chi scrive).
I rimandi alla cinematografia di cui sopra non
sono affatto casuali, visto che molto – se non
tutto – nell’immaginario creato da A Finnish
Contact rimanda alla dimensione filmica, onirica, visionaria. Che sia influenzato dal post rock
più evocativo e sognante (Carraxo Fronte Da
Neveira) o sporcato di glitcherie varie (Dance
Like Picciotto), minimale nell’approccio o acceso da una specie di krauteria cosmica oscura
come un buco nero (Clouds Eyes, Blue Days),
poco conta. Il senso del tutto – una malinconia che sfiora l’ipnagogia, un senso cinematico
molto Van Santiano, una modalità free d’ap-
94
proccio alla “imaginary soundtrack music” – è
racchiuso nelle bellissime immagini di copertina: silenzio, poetica dell’assenza, caducità
dell’esistenza.
Un disco (purtroppo) “minore”, di quelli che
passeranno quasi inosservati e che invece
appartengono di diritto alla poco frequentata
categoria “dischi che chiedono poco e danno
tantissimo”.
7/10
Stefano Pifferi
Andromeda Mega Express Orchestra
- Live On Planet Earth (Alien
Transistor,2014)
Genere: orchestrale_sinfonica, contemporanea, jazz
Una copertina dadaista e folle sottolinea il
patchwork di suoni raccolti in Live On Planet
Earth, primo disco dal vivo della Andromeda
Mega Express Orchestra, definendone anche
l’attitudine quasi fumettistica. Un’ironia cartoonesca – la stessa che spiccava anche sulle
cover e tra i solchi dei precedenti Take Off !
(2009) e soprattutto Bum Bum (2012) – che i
sei brani di questo live anomalo (il materiale è
quasi del tutto inedito) interpretano con piglio
ironico, ma tutt’altro che improvvisato, visto
l’incredibile lavoro di scrittura che i diciotto
musicisti (anche se il merito è soprattutto di
Daniel Glatzel) mettono in campo. Sei episodi
che mescolano jazz, classica, colonne sonore,
contemporanea, musica concreta, mondo dei
cartoon, per un suono talmente ricco e indecifrabile, da acquistare un senso e un’identità
proprio in virtù della sua natura.
r e c e n s i o n i
g i u g n o
A Finnish Contact - In Case We’ll Meet
(Under My Bed,2014)
Fabrizio Zampighi
Answer Code Request - Code (Ostgut
Ton,2014)
Genere: techno
Marcel Dettmann, Ben Klock, Nick
Höppner, Marcel Fengler, Efdemin, Norman Nodge, Steffi… Sono una ventina i DJ
che possono fregiarsi del titolo di Resident del
Berghain/Panorama Bar di Berlino, la Casa
Bianca della techno. Tra questi, dal 2012, c’è
anche Patrick Gräser, che dopo una serie di
r e c e n s i o n i
uscite tech-house a suo nome non memorabili
nel periodo 2008-2009, trova la chiave giusta
dal 2010 firmando le sue produzioni e i suoi set
come Answer Code Request.
Gräser proviene da Fürstenwalde, una piccola
città della Germania orientale, a mezz’ora di
macchina dal confine con la Polonia: la stessa
città natale di Marcel Fengler e Marcel Dettmann. Ed è proprio l’amicizia e la stima di
quest’ultimo ad instradare la carriera di Patrick
verso la direzione giusta. Nel settembre 2011
compare l’EP autoprodotto Subway Into, che
delinea la proposta di ACR: un non rivoluzionario ma efficace innesto su una solida base
berlin techno di soluzioni prese dalla IDM
inglese degli anni novanta (Warp docet: B-12,
Black Dog Productions e, ovviamente, Aphex
Twin, tutti espressamente riconosciuti come
eroi da Gräser) e dal dubsteb dark alla Burial,
con una spruzzata di nostalgici rimandi detroitiani. Nel novembre del 2011 Escape Myself,
tratta dall’EP, è tra le tracce selezionate da
Dettmann per il pregevole mix Conducted. I
due 12” usciti nel 2012 per la Marcel Dettmann
Records (Main Mode e The Host), così come
il successivo EP autoprodotto (Crack City),
ripropongono questa versatile impostazione:
sound che vince non si cambia.
L’esordio sulla lunga distanza di ACR segue di
pochi mesi la pubblicazione del primo EP per
Ostgut Ton, vivace e coerentemente rigorosa
etichetta di casa Berghain. Il collegamento di
Code con Breathe è forte, a partire dalle cover:
entrambe utilizzano immagini tratte dal lavoro
della fotografa Sarah Schoenfeld “All you can
feel”, ingrandimenti delle reazioni sul negativo
della pellicola di droghe come la ketamina o il
mefedrone, sostanze che volenti o nolenti sono
parte integrante della cultura techno. L’album
non interrompe il discorso, ma lo estende e un
po’ lo smussa, insistendo spesso su versanti
più ambient e cinematici (vedi la grande atten-
g i u g n o
Tutto comincia con una Opening paracula e
perfida, tanto riesce a nascondere il vero carattere dell’album con i suoi fiati allungati in un’aria davisiana in stile Sketches Of Spain, almeno quanto il primo minuto della successiva La
Prêtre Virè, brano a cui poi tocca il compito di
svelare le carte con un alternarsi di sincopati
e batterie libertine, “gattisilvestri” in punta di
clarinetto e chiuse di archi quasi hitchcockiane. Da lì in poi parte la scoperta di un universo
sghembo ma credibile, in cui una “techno”
artigianale entra in gioco con tagli orchestrali da musica contemporanea (Sozialbão), un
collassare quasi free di contrappunti tra i vari
strumenti preannuncia l’Harmagedon per poi
giocare di fino sulle poliritmie, certi Looney
Tunes in acido sbatacchiano a destra e a manca
ottoni, fiati e rumori assortiti (Overture). Fino
all’iconoclasta e conclusiva W. A. Mozart vs
Random Generator, in cui il celebre compositore si trova a concorrere con un generatore di
musiche casuali.
Divertente e intelligente, furiosa e raffinatissima: la Andromeda Mega Express Orchestra è la
dimostrazione vivente che gli ambienti classici
e i curricula annessi non sono sempre sinonimo
di conservatorismo o approccio alt-snob alla
materia musicale. Uno dei lavori più frizzanti
ascoltati quest’anno.
7.2/10
95
Genere: rock, post-punk, avant, impro, noise, blues
Tre personalità dell’underground (non solo, in realtà) italiano che uniscono le forze per creare in modalità impro un percorso musicale aspro e
destabilizzante, sviluppato quasi come fosse un racconto che si muove tra
sbuffi e surrealtà, stortume avant-rock e blues deformato, squarci noise e
destabilizzazione narrativa.
Dopotutto Stefano Pilia, Xabier Iriondo e Roberto Bertacchini – sommate le singole esperienze pregresse fanno una buona fetta dell’underground più coraggioso e stimato, non solo entro i confini patri – sono
perfettamente a loro agio nel mix su indicato: le due chitarre intarsiano e sbroccano, ricamano e
distorcono frasi e frasette che rimandano tanto al post-punk più acido quanto al blues rivisto sotto
la lente Beefheartiana, alla no-wave più aspra come al noise più astratto. Su queste trame volatili
e umorali spicca la vocalità iper-drammatizzata dello Starfuckers Bertacchini: asincrona, storta,
sfasata, sfalsata, che se ne fotte della metrica e si lancia in un flusso di (in)coscienza visionario e al
limite del grottesco, nei testi elaborati dallo stesso batterista e da Valentina Chiappini. Roba fatta
di visioni e allucinazioni, sempre borderline tra tragicomico sberleffo e sguardo surreale donchisciottesco, che rappresenta il miglior contrappunto possibile alle musiche delle due chitarre.
Un esordio che, come capita spesso con progetti estemporanei, mette a ferro e fuoco i numerosi
ambiti di riferimento di cui sopra e che, si spera, non resti un unicum.
7.5/10
Stefano Pifferi
zione al sound design sci-fi di Blue Russian, la
sospensione meditativa di Odissey Sequence
o l’aphexiana dub-techno di Relay Access). E’
solo con la quinta traccia che si torna in pista,
con gli energici 127 bpm di Zenith, e poi ancora con la trance tribale di Status, ma non è il
dancefloor l’obiettivo più diretto. Le risonanze
più forti sono con il mondo trance e melodico
della techno inglese più storica: in By The Bay
gabbiani boardsofcanadesi volano su una base
Global Communication, in Axif, con l’apporto dreamy della voce di Elizabeth Bernholz
(alias Gazelle Twin), siamo in pieno territorio
Orbital. Thermal Capacity riassume il tutto
e conclude un album di non spiacevole ma
neppure soverchiante ascolto: tutto sommato
96
la proposta originale di Answer Code Request
non risponde in pieno alle richieste di nuovi
stimoli, esprimendosi invece al meglio come
selector per i suoi precisi e funzionali DJ set
(ottimi esempi reperibili in rete sono i podcast
realizzati per Resident Advisor – RA.345,
gennaio 2013 – e per Slam Radio – 077, marzo
2014).
6.2/10
Alessandro Pogliani
Application - System Fork (Dust
Science Recordings,2014)
Genere: techno, idm
Martin e Richard Dust, che con questo album inaugurano il progetto Application, sono
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Cagna Schiumante - Cagna Schiumante (Tannen Records,2014)
Elia Galli
Archie Bronson Outfit - Wild Crush
(Domino,2014)
Genere: rock, psych
Abbiamo sempre pensato agli ultimi Archie
Bronson Outfit – per intenderci, quelli di
Derdang Derdang e di Coconut – come a una
sorta di via di mezzo tra dei Black Keys meno
impantanati nelle paludi del Delta e una versione indisciplinata e decisamente meno stentorea
dei Pontiak. O, magari, come a dei Cream un
r e c e n s i o n i
po’ svitati, non abbastanza virtuosi da eguagliare le gesta della band di Clapton, Ginger e Bruce, ma sufficientemente incasinati da cibarsi di
quel suono grazie a un gioco di sponda da loser
consumati e qualche imbastardimento in linea
con la contemporaneità. Gente da mercatino
dell’usato, insomma, se non da proprio da discarica, capace di esaltarsi per “cianfrusaglie”
stilistiche che a uno “normale” sembrerebbero
quantomeno fuori dal tempo (i suoni heavy dei
seventies, il lo-fi, il garage, la psichedelia, qualche accenno kraut, ecc…), tanto più assemblate
con un gusto weird piuttosto sui generis.
Il discorso vale soprattutto per l’ultimo Coconut, disco prodotto dal DFA, Tim Goldsworthy,
e uscito ormai quattro anni fa: la critica lo ha
visto di buon occhio, tendendo tuttavia (tra le
righe) a relegarlo tra gli album derivativi con
qualche colpo di teatro da outsider. Senza comprendere, a nostro avviso, la vera forma mentis
degli Archie Bronson Outfit, ovvero qualcosa di
abbastanza vicino all’ingenuità creativa tipica
delle formazioni psichedeliche inglesi e americane dei sixties. Artisti che non avevano grossi
debiti da saldare né correnti stilistiche a cui
dover rendere conto, e che facevano semplicemente di testa propria.
Se il disco precedente della formazione inglese
rappresentava un parto difficilmente circoscrivibile in un immaginario di riferimento
netto, Wild Crush punta dritto a un suono
chitarristico più canonico e solido (e chissà che
la scelta non abbia coinciso con l’abbandono
di Dorian Hobday e l’arrivo in formazione di
Kristian Robinson aka Capitol K). I Pontiak
che citavamo all’inizio – e in qualche maniera
anche i Cream – non sono poi così lontani (Two
Doves On A Lake), anche se gli Archie Bronson Outfit sono abbastanza bravi a mantenersi
lontani dagli stereotipi. Basti pensare al sax di
Duke Garwood, libero di spaziare tra le trame
a volte possenti, a volte lascive della band (Lori
g i u g n o
componenti fissi dei Black Dog dalla metà del
decennio scorso. Assieme a Ken Dowie, uno
dei primi Black Dog Productions, sono arrivati a tracciare – dopo qualche incertezza iniziale
– un disegno techno elegantemente ortodosso.
System Fork non è da meno. Techno di precisione scientifica, architetture di kickdrum
spezzate al servizio di scenari post-apocalittici.
Con una varietà timbrica volutamente spinta
vicina allo zero, i fratelli Dust portano all’estremo quella razionalità e quella freddezza
che pensavamo lascito caratteristico del solo
Dowie. Stomp in bianco e nero a metà tra cosmo e mondi subacquei (Flange 7, Siren), geometrie sintetiche (Steve Reich’ Ice Cream Van),
aperture ambient che si innestano su ritmiche
inflessibili (Swuth): quella degli Application è
la convergenza, allo stesso tempo nostalgica e
intransigente, dei prodromi intelligent marcati
Warp – non a caso, ancora da Sheffield – e degli
umori minimalisti a questi contemporanei (la
berlinese Basic Channel), qui deviati in direzione break.
Sia chiaro, niente che non sia già stato detto,
niente che altri (Black Dog compresi) non abbiano già saputo trasformare in musica. Numeri che, in prospettiva, meglio si presteranno alle
future esibizioni live, ma che conservano una
loro dignità anche su disco.
6.3/10
97
From The Outer Reaches), alternando un fare
quasi no wave a certe cavalcate ruffiane (intrigante, però, l’effetto finale).
Suono hard-blues, voci “stoned” (Cluster Up
and Hover), cadenze a metà strada tra Velvet
Underground e West Coast (Glory, Sweat And
Flow), ballad in bilico tra Arcade Fire e Neil
Young (Love To Pin You Down) e un’estetica, questa volta sì, riconoscibile e storicizzata
fanno il resto, consegnando ai posteri un album
meno deviante rispetto al predecessore – e in
qualche maniera, più intellegibile - ma fondamentalmente riuscito.
7/10
Fabrizio Zampighi
Genere: pop, indie
Febbricola italo disco a go-go, ed ecco il quinto album in undici anni per gli Architecture
In Helsinki, dopo ben tre anni di assenza dal
non esaltante Moment Bends. Ebbene, com’è
questo NOW + 4EVA? Frizzante. Lieve. Adesivo. Furbo. Del tutto inutile. Ma di un’inutilità
capace di guizzare oltre il bene e il male per
aggrapparsi al lato più giocoso della faccenda, e
da lì lanciarti freccette argute, virus mnemonici
che attivano circuiti sepolti dalle badilate degli
anni e della gravità. Insomma, i cinque ragazzi
australiani sono dei nerd sonori specializzati nell’organizzazione di happening a bassa
intensità ed alto volume. Buontemponi con la
chiavetta piena di intrighi a perdere. Ragionieri
del dancefloor in euforia da long-drink e vecchi
videoclip. Come volergli male?
Già la opening In the Future ti sbatte in faccia un giochicchiare funky plasticoso come se
avessero dissepolto Howard Jones dal museo
delle cere, poi è tutto un ringalluzzire fantasmi
80s con spirito oleografico e retrogusto Moroder, tipo le Mel And Kim di I Might Survive,
98
Stefano Solventi
Arto Lindsay - Encyclopedia Of Arto
(Ponderosa,2014)
Genere: pop, avant, tropicalia
Questa retrospettiva ha un titolo ironico.
Potrebbe apparire anche pretenzioso, ma non
è così. E soprattutto, guai a scambiare quel
secondo CD per un bonus.
Arto Lindsay è uno dei più curiosi artefici del
rock da più o meno trent’anni a questa parte,
un talento eccentrico nel vero senso della parola, anima migrante in seno alla no wave newyorchese di cui è stato tra i massimi esponenti
con i DNA, protagonista nelle file di Lounge
Lizards, Golden Palominos, Ambitious Lovers,
collaboratore di John Zorn e Laurie Anderson,
solo per citare una parte del suo ricco curriculum. Eccentrico perché le sue influenze “esotiche” sono state la chiave di volta per capire
molte delle sue inflessioni musicali, ereditate
da una storia personale che l’ha visto figlio di
missionari americani nel Brasile degli anni ’60,
l’età d’oro del tropicalismo. Queste influenze le
ha portate con sé nei DNA quando spiegava a
Ikue Mori la musica che aveva in mente usando
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Architecture in Helsinki - NOW + 4EVA
(Inertia,2014)
la Vivien Vee di Echo o il turgore Kim Wilde
di When You Walk In The Room. Certo, nessuna ossessione nostalgica può sfuggire al contagio dell’attualità, perciò capita di avvertire
particelle burlone Daft Punk in quella Boom
(4EVA) che pure strizza l’occhio ai Queen
moroderiani, per non dire degli Arcade fire
in sedicesimi di Born To Convince You e della
filigrana Notwist che nobilita la carezzevole
April.
E’ roba che si beve come un’analcolico colorato,
salvo poi scoprire che c’è qualche sostanza non
dichiarata nella lista degli ingredienti. Nulla di
permanente o pericoloso, eh, ma intanto può
capitarti un pizzico di euforia. Giusto quella.
5.8/10
r e c e n s i o n i
la parte forte dell’operazione, indispensabile
supporto per trasformare una pratica altrimenti di routine (antologia + live) in ciò che il titolo
vorrebbe significare senza dover scomodare
l’opera omnia…
7/10
Tommaso Iannini
Ben Harper - Childhood Home
(Prestige,2014)
Genere: folk
Torna, di nuovo. Dopo circa un anno dall’ultimo Get Up! siamo qui a parlare ancora una
volta di lui, Ben Harper. Ma come suo solito il
45enne americano non viaggia da solo. Se ad
accompagnarlo nella sua ultima avventura c’era
lo storico armonicista Charlie Musselwhite e
nei precedenti Give Till It’s Gone e White Lies
for Dark Times gli elettrici Relentless7, ecco
che in questa ultima fatica, Childhood Home,
troviamo al suo fianco niente di meno che la
madre Ellen. Ben Harper ormai si trova in una
posizione in cui tutto gli è permesso. Da questo
“trono” privilegiato, che negli anni il vecchio
Ben si è guadagnato grazie alla capacità di
reinventarsi e ripartire da zero (ma da una base
ben consolidata), Harper può perciò prendersi
il lusso di registrare un intero disco casalingo insieme a sua madre. Un album che se dal
punto di vista del potenziale commerciale potrebbe dire ben poco (solo i fan di vecchia data,
probabilmente, provvederanno all’acquisto),
rimane comunque tra i dischi che hanno coinvolto maggiormente dal punto di vista emotivo
il musicista californiano (Welcome To The Cruel
World resta in cima alla lista).
Le dieci tracce che compongono Childhood
Home, quattro delle quali scritte da Ellen, riassumono e riflettono perciò quella che è stata
la vita degli Harper: a partire dal 1958, quando nella cittadina californiana di Claremont
i genitori di Ellen diedero vita al Folk Music
g i u g n o
il linguaggio gestuale e un disco di percussioni
brasiliane, e le ha fatte poi uscire allo scoperto quando si è trattato di intraprendere una
carriera solista dopo l’avventura d’avanguardia
con l’omonimo trio.
Il primo CD della raccolta parte da qui. Una
selezione dagli album solisti pubblicati da Lindsay dal 1996 al 2004: la trilogia brasiliana formata da O Corpo Sutil, Mundo Civilizado e
Noon Chill, e i successivi Prize, Invoke e Salt
dove Arto ha lavorato sui codici della musica
sudamericana in un tappeto sonoro eclettico
che ambiva a una sorta di fusion cantautorale.
La sensazione generale che restituisce l’ascolto
della compilation è di una certa unità e anche
di un’idea forte di pop moderno e contaminato,
declinato secondo una formula di world music
d’autore che contempla ritmi latini, soft jazz,
soul, elettronica, melodie brasiliane e persino
qualche distorsione wave (in The Prize).
Ma, appunto, non di sola compilation si tratta.
E il volume 2, la registrazione di un concerto
live in solitaria a Brooklyn del 2012, è la vera
sorpresa. Una retrospettiva veramente completa non poteva perdersi per strada uno dei più
influenti chitarristi dell’underground postpunk americano e trova il modo più originale
per ricordarlo: una performance di sola voce e
chitarra. E quale chitarra. Abrasiva, picchiata
come uno strumento a percussione per trarne
singhiozzi atonali e glissati che somigliano a
coltellate. Sembra di ascoltare un incrocio tra
i DNA senza gli altri complementi strumentali e un bluesman primitivo; basta mettere a
confronto le The Prize, Invoke, Illuminated,
completamente decostruite con le originali,
per rendersi conto che è sempre lui, e le cover
di autori brasiliani per capire che alla base di
quell’approccio no wave c’erano l’origine mista
nord-sudamericana, l’influenza della bossanova e l’idea che la musica pop dovesse essere
anche d’avanguardia. Tutto torna. È questa
99
Genere: psych, drone, kraut, ambient, elettronica
Precursori o followers? Questo è il dilemma. Ha senso chiedersi nel
marasma di uscite che quotidianamente invadono il (ehm) mercato, chi
arriva prima e chi dopo? Se le gerarchie sono saltate a monte, a valle la
situazione com’è? Rispondere e rispondersi è ardua, pertanto accontentiamoci di scendere a valle seguendo questo Fiume Nero made in
Donato Epiro (mezzo Cannibal Movie, per chi non lo sapesse), sorta di
raccolta pubblicata per la prima volta in vinile dalla nostra Black Moss
che parrebbe ispirarsi al fiume dell’Aguirre Herzogiano e in cui il nostro
colleziona tracce sparse su CD-R e cassette (rispettivamente Supercontinent e Sounding The
Sun, entrambi per la benemerita Stunned). Materiale datato ma che dà la misura, a questo punto
possiamo dirlo, dell’anticipo sui tempi con cui Epiro si è (era) mosso (all’epoca) e della lucidità di
intenti alla base sia della propria ricerca sonora, sia del proprio immaginario.
Poche chiacchiere e dritto all’obbiettivo, Epiro smazza trasversalmente l’esotismo di risulta
che negli ultimi tempi si è segnalato come una delle traiettorie più frequentate e appassionanti
dell’underground non solo nostrano, innestando nella materia una tangibile evidenza proveniente dalle frequentazioni in casa Cannibal Movie – l’immaginario filmico e visivo/visionario di un
certo tipo – e dalla predilezione per la sempre più rilevante library music italiana. In un momento
in cui gli Aktuala - una parte, in realtà – ritornano “nel giro” per via delle bellissime ristampe dei
Futuro Antico pubblicate da Black Sweat e di Umiliani ricircola un box “non-ristampa”, si darà
atto a Epiro di aver incastonato in queste tracce fenomeni e suggestioni di lì a venire. Di esservisi
avvicinato per comune sensibilità e identiche finalità, oltre che per visione e attuazione musicale,
dimostrando di giocarsela alla pari, se non addirittura meglio, con tanti nomi celebrati come High
Wolf o Sun Araw.
È un vero “fiume nero” la cui umidità oscura e minacciosa si riverbera in ognuna delle suite,
questo disco, la cui una musica non è più primitivista, come venne catalogata all’epoca dell’uscita
in pieno trip “new-weird america”, ma naturale e naturalista. Che crea mondi infilandosi in una
tradizione consolidata, seppur nascosta. Tradizione che Epiro dimostra di conoscere approfonditamente e di saper replicare, o meglio, ricreare. Tra haunted, occult psych, etnomusicologia e
quant’altro, un lavoro che potrebbe fornire la spinta ad una nuova prova originale. A questo punto,
obbligatoria e attesa.
7.5/10
Stefano Pifferi
Center and Museum. Nel negozio dei nonni, tra
chitarre, banjo e ukulele, Ben passò gran parte
della sua infanzia e proprio all’interno di quelle
quattro mura ebbe modo di apprendere l’arte
100
e i segreti della musica americana. Childhood
Home rappresenta quindi, per forza di cose,
un disco intriso di storia e tradizione che trova
la sua naturale espressione nel classico suo-
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Donato Epiro - Fiume Nero (Black Moss,2014)
no americano a cavallo tra folk e country, con
chitarra e voce alla base dei dieci brani. Qui
l’intrecciarsi delle voci armoniose e delicate di
madre e figlio riescono a creare un’atmosfera
di totale intimità (Learn It All Again Tomorrow,
How Could We Not Believe), mentre nei testi
c’è spazio per gioia, amore, ma soprattutto per
malinconia e nostalgia (City of Dreams, Memories of Gold, Born to Love You), emozioni che
finiscono col permeare gran parte dei 34 minuti di musica.
Alla fine Childhood Home non chiede molto al
proprio ascoltatore, se non di farsi coinvolgere
ed emozionare dall’onestà e dalla delicatezza
con cui Ben and Ellen riescono ad evocare l’intimità dello spazio familiare.
7/10
Ben Frost - A U R O R A (Bedroom
Community,2014)
Genere: industrial, noise
Nonostante i suggerimenti delle note che ne
accompagnano l’uscita, A U R O R A non ha
nulla di alchemico. Niente di imprendibile. È
anzi terreno, semmai appena celeste, quando
lo spessore (leggi: l’affollamento) della musica
è tale da produrne una evoluzione verso l’alto.
Il potenziale esplosivo del crash culturale che
sta dietro la genealogia del disco – composto
in Congo, missato in Islanda – è rimasto sottotraccia, anzi si può dire che è stato quasi del
tutto neutralizzato dal risultato. Sarebbe ad
esempio stato interessante valutarne l’exploit
attraverso l’alternanza tra strumenti armonici e
macchine, ma qui sta il primo punto del disco:
A U R O R A è un mondo completamente sintetico, dove non c’è posto per strumentazioni
analogiche.
By The Throat aveva comunque qualcosa di
alieno, indecidibile. Diversamente, Frost qui
propone una versione noise ed elettronica
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Marco Frattaruolo
del post-rock emozionale che ha riempito gli
scaffali dei negozi di dischi fino a qualche anno
fa. Lavora proprio su quell’appiglio mainstream del crescendo e dell’arpeggio che fa presa
sulle orecchie più trascinabili (Venter). Flex
apre bene, o meglio fa presagire l’accensione
di un motore di compressione di battiti ancestrali (ma bianchi) e tastiere thriller. La tensione tiene per la gran parte di Nolan. C’è quasi
l’impressione che la narrazione vada al di là del
singolo brano, per coprire un album di concetto, un’aurora del rumore, che come qualsiasi
momento aurorale prevede uno scompaginamento reciproco tra veglia e sonno, tra notte
e giorno. Ma già la chiusura di Nolan lascia il
concetto e riporta il crescendo in facili orizzonti cinematici.
Nelle intenzioni di Ben Frost c’era la volontà di
“dare la prova della vita, della sopravvivenza.
Forme muscolari che sopravvivono, nient’altro”. C’è un presagio da visioni apocalittiche
(ma di seconda mano, figlie degli anni Ottanta
e di “quella” musica cosmica da film apocalittico), rette da suoni splendidi, una produzione eccellente (Ben è maestro in questo, come
dimostrato, insieme all’amico e qui sodale al
mixing Valgeir Sigurðsson, anche nell’ultimo
Tim Hecker) su un confine raffinatissimo tra
noise e tastiere cosmiche (Sola Fide).
A U R O R A è un mondo da cavalcare. Le pause – come in una Secant che sembra mettere
insieme Oneohtrix Point Never e i Fuck Buttons, questi ultimi veri competitor del disco di
Frost in oggetto, ma vincenti – valgono solo per
poi riprendere la corsa emozionale.
6.6/10
Gaspare Caliri
101
Genere: rock
Troppe le cose successe a Dan Auerbach e
Patrick Carney negli ultimi anni per non dare
adito a giudizi sommari sulla parabola artistica
del gruppo, a partire dalla crescita esponenziale di consensi raccolti da Attack and Release
in avanti fino ad arrivare al successo planetario dell’ultimo disco El Camino – con tanto di
Grammy Awards 2012 come Best Rock Album
– e, più di recente, a un Auerbach impegnato
nella controversa produzione artistica del nuovo album di Lana del Rey, Ultraviolence.
Verrebbe quasi naturale liquidare i due musicisti come i classici freak venduti al music biz un
tanto al chilo, considerato anche che i Nostri
non hanno mai badato a mantenere una parvenza di “integrità indie”, guadagnando invece
dei bei dollaroni con i diritti legati ai propri
brani. Ancora più facile sarebbe non lasciare al
qui presente Turn Blue nemmeno l’onere del
dubbio, considerata anche l’attitudine meno
garage e più “morbida” del disco, e additarlo
come il parto inevitabile di una band arrivata
alla canna del gas (ovvero in zona mainstream).
Potenza della “profezia che si autoavvera”,
direbbe qualcuno.
Turn Blue, in realtà, non rispetta le previsioni,
almeno quanto non lo fa una formazione a cui è
sempre importato poco dell’etica indipendente e molto della musica. Tanto da dichiarare
qualche tempo fa a NPR, per bocca di Carney
e in riferimento a quegli esordi tanto esaltati
ad ogni latitudine, che “suonare in cantina era
divertente, ma allo stesso tempo non siamo mai
stati capaci di ottenere i suoni che avevamo in
testa. Ai tempi non sapevamo cosa stavamo facendo, e in più non avevamo nemmeno il giusto
equipaggiamento per farlo”.
Turn Blue non è una copia sbiadita di El Camino, e non è nemmeno “il disco della band
102
pensato per il mainstream”. E’ invece invece
l’album psichedelico dei Black Keys (come si
intuiva dai teaser diffusi a suo tempo e dalla
copertina), ricco di stratificazioni, assoli acidi
e vaghe aure pinkfloydiane (Weight Of Love
e Bullet In The Brain), omaggi negli arrangiamenti al primo amore Motown (In Time), hard
blues lisergici (It’s Up To You Now) e le solite
venature soul sottopelle. Di concessioni al pubblico generalista ce n’è appena una, ovvero il
southern rock conclusivo – e in qualche maniera surreale e fuori posto, visti i canoni del gruppo – di Gotta Get Away; il resto è un album che
funziona, credibile, a cui il produttore Danger
Mouse dona un suono corposo ma non nostalgico, tra l’altro partecipando attivamente alla
scrittura dei brani (Auerbach sempre a NPR:
“quando siamo entrati in studio non avevamo
nemmeno una canzone. Così abbiamo iniziato
ogni giorno da una tela bianca”).
Ai Black Keys in fondo sta riuscendo quello
che non è riuscito in passato ai White Stripes,
ovvero portare disco dopo disco la formula
musicale della band verso qualcosa di inedito,
pur confermando i paletti stilistici che l’hanno
resa riconoscibile. Chi vorrebbe la formazione
americana cristallizzata nei riff di Lonely Boy
o di I Got Mine, può tranquillamente guardare
oltre.
7.1/10
Fabrizio Zampighi
Blind Thorns - Blind Thorns
(Offset,2014)
Genere: psych, art, avant, noise
Blind Thorns è l’evoluzione degli Ahleuchatistas, formazione american dedita ad un rock
strumentale che mischia(va) rock, metal, punk,
prog e quant’altro con una notevole dose di
schizofrenia e di autoironia. Da un paio d’anni
a questa parte il trio è diventato un duo formato dal batterista Ryan Oslance e dal chitarrista
r e c e n s i o n i
g i u g n o
The Black Keys - Turn Blue
(Nonesuch,2014)
Stefano Pifferi
Brace - Puledri nello stomaco
(Garrincha Dischi,2014)
Genere: cantautori, rock
Davide Rastelli ha raccolto questa dozzina
r e c e n s i o n i
di tracce in otto anni in giro a fare musica, lo
avevamo quasi perso dall’ultima uscita a nome
Mr. Brace nel 2006. A somma zero, difficile
distinguere fra quel progetto, probabilmente
già transeunte all’epoca, e l’attuale perchè, col
rispetto che si deve a tanto tempo trascorso,
Puledri nello stomaco, edito per Garrincha,
non si scosta poi così tanto dal passato: rockpop parecchio serrato, voce declinata seguendo
desinenze binarie anche se non così povera di
argomenti. Ad esempio il terzo brano, Buongiorno, si spinge su un cantautorato post-diaristico e Casa vuota prova ad indagare il senso di
isolamento e ristoro perduto con inclinazione
esotica. Caffè e Lattaio sostengono ansietà da
spazi vuoti, ottenendo discreti risultati in sdentato pub-rock. Probabilmente il Nostro vuole
avvicinarsi alla poetica alt-rivierasca (Granturismo) con brani come Piedini, Nausea e Bio,
purtroppo però il nesso e non solo (contributi
di Matteo Costa, Lo Stato Sociale, Enrico Farnedi, Chewingum) rimane con una bile che magari avrà pure sconfinato di provincia, ma resta
embrionalmente adolescenziale. C’è di buono
che nei brani in evidenza la scrittura è intima e
poco scialba. Solo questo segna, ora come ora,
un punto a favore di Brace.
5.8/10
g i u g n o
Shane Perlowin, con quest’ultimo che ha unito
gli sforzi con lo svizzero Antoine Läng (alla
voce ed elettronica) dando vita ai Blind Thorns
e coinvolgendo le ritmiche spezzate del sodale.
Sarà probabilmente per la presenza dello svizzero, ma qui le cose si fanno più serie e meno
dispersive rispetto alla casa madre, pur continuando nella linea del magma sonoro onnivoro,
schizzato e originato sub specie impro. Siamo
grossomodo su lande kraut-wave-psichedeliche
e pure un po’ noise, per quel che può valere,
ma a occhio e croce, incrociando i curricula dei
presenti, ci saremmo meravigliati del contrario.
Ottima summa e onnicomprensivo paradigma
del sentire musicale del neonato trio svizzeroamericano è la oceanica Gambling With The
Wrong Side, 19 e rotti minuti di tutto – tempesta ritmico-percussiva, deliqui sciamanici, prog
e curve a gomito, jazz impro, avant-rock, Canterbury sound imbastardito, western sfibrato e
sberleffi morriconiani, delirio posseduto, ecc.
ecc. – con una chiosa da 3 o 4 minuti che è una
eruzione noise letteralmente devastante, manco si trattasse di Merzbow.
Il resto, poi, non è che sia da meno, tra eruzioni
post-screamo (Orbital), etnopsych da giungla
ipnotica (Porque eu So sei Gustar), hauntedrock totalmente nero (An Explanation Of The
Birds), rifrazioni in libertà (Engulfing The Epigone), ma il citato monolite, per dimensioni e
prospettive, è il vero cuore pulsante dell’album,
oltre che un vero esercizio di stile. Di altissimo
stile. Le spine, dunque, sono cieche e acuminate come quelle di poche altre formazioni d’area
free-noise oggigiorno.
7.4/10
Christian Panzano
Cesare Cremonini - Logico
(Universal,2014)
Genere: pop, mainstream
Il giusto equilibrio fra mainstream e introspezione, quest’ultima concentrata più sui rapporti d’amore che su altro. Un po’ dove stanno
convergendo anche altri nomi importanti del
cantautorato pop italiano (vedi, ad esempio,
Riccardo Sinigallia). Il quinto album di Cremonini viaggia tra questa dicotomia, e se nelle
scanzonature ripesca le atmosfere dei suoi
lavori precendenti, è nelle confessioni private
103
Genere: folk
C’è un luogo della musica americana che oggi solo Jolie Holland riesce
ad abitare. Non che siano mancati i precedenti illustri, come per esempio
il Nick Cave dei Grinderman o il Tom Waits più polveroso e ingrugnito.
Ma la cantautrice texana, come nessun altro oggi, fa rilucere di abbagli
nerissimi e profondi la materia sonora che risulta dallo stritolare nelle
sue corde vocali dotatissime e duttilissime l’americana, il blues, il folk, il
country, il jazz. Insomma: il Sud in versione New Orleans in spasmo gotico. Ascoltate le chitarre del singolo Dark Days (che dà l’atmosfera a tutto il disco): mai così elettriche, mai così grasse, mai così “importanti” e necessarie.
Wine Dark Sea scontenterà chi ha ascoltato superficialmente la Holland finora, ritrovandosi
confortato da una reinterpretazione della tradizione americana che si configurava – apparentemente – come una rilettura colta, condita di elementi jazz e cantautoriale, di una solida sicurezza.
Quasi una coperta di Linus. Ma chi ha avuto la pazienza di scavare oltre la buccia di questi frutti
del Sud vi ha trovato sempre più, mano a mano che passavano gli anni e gli album, un’autrice solo
apparentemente pacificata, in realtà smossa da fuochi e ardori primigeni. Ascoltate l’attacco scheletrico di I Thought It Was The Moon: tutto è bilanciato perché sotto la forma semplice e archetipica si intravvedano tremori, scosse, passioni, paure e fantasmi. Oppure la potenza evocatrice di
Out On A Wine Dark Sea: tutte le bevute di tutti i marinai si ritrovano in quel procedere sghembo
ed elettrizzante. O ancora: sentite come la voce pennelli sui fiati di una Waiting For The Sun che
sembra la versione noir di Sitting On The Dock Of The Bay.
Registrato e prodotto in autonomia, e affidato come sempre alla ANTI-, Wine Dark Sea è un disco
che segnerà uno spartiacque nella carriera della Holland. Prima c’erano le premesse per l’arte. Ora
ci sono la vita e la morte del blues, del country, dell’americana, che hanno preso possesso della sua
chitarra e della sua voce (mai così ben sfruttata nelle sue sfaccettature e capacità timbriche, uno
strumento tra gli strumenti) e ne hanno fatto una realtà unica nel panorama del traditional (e non
solo). Ora Jolie Holland può interpretare quello che vuole: sarà sempre Jolie Holland.
7.5/10
Marco Boscolo
che dà il meglio.
Escludendo gli episodi più leggeri (una Grey
Goose vicina ai Cure di Close To Me, John
Wayne, Fare e disfare, Vent’anni per sempre),
composti per la frangia pop dei fan, sono tre le
canzoni che fanno crescere il peso di Cremonini come artista e songwriter. Il primo pezzo
è la ballad Se c’era una volta l’amore (ho dovuto
104
ammazzarlo), che racconta il rapporto con i
genitori in maniera adulta, una resa dei conti
con il tempo che passa e con gli amori che se
ne vanno. Il secondo pezzo è sempre un lento, Cuore di cane: nella cartella stampa si dice
che è l’unica vera canzone d’amore del disco.
Arrangiamento con archi e struttura pop perfetta. Il terzo quadro è Quando sarò milionario,
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Jolie Holland - Wine Dark Sea (ANTI-,2014)
r e c e n s i o n i
Quest’ultimo lavoro, nato da un incontro quasi
fortuito con Antonio Zambrini e Luca Lezziero ad una mostra d’arte di un’amica comune,
ripropone, in chiave lounge acoustic-jazz, una
combinazione per nulla invalsa: il livello medio
di cura profferta all’orchestrazione (Francesco Di Silvestro agli archi) come alle armonie
pianistiche, fa oscillare gli ambienti su un
mare remissivamente allettato, quasi da laguna, pazientando su genuini intrecci (Per noi)
e saldi rondò sincopati, quando nell’esordio ci
si prodigava invece sopra una più vasta gamma di percussività (Dodo Nkishi alla batteria,
Giovanni Ferrario al basso) che qui viene un
po’ meno o agevolmente tralasciata; i testi, ora
demandati al Lezziero e Vincenzo Costantino
Cinaski, sono meno audaci nel dialogare con
l’esterno, ma guadagnano passi fra i non detti e
i vis à vis.
Pedanteria da cui stare alla larga è un senso di
livellamento da atrii sonori dove l’autore tende
troppo a sfumare le immagini (Una casa che).
Sta qui capire il motivo di troppa stucchevolezza oppure pazientare ancora un po’.
6.4/10
Marco Braggion
Christian Panzano
Cesare Malfatti - [Una mia
distrazione]+2 (Adesiva
discografica,2014)
Genere: cantautori, jazz
Fidarsi di Cesare Malfatti vorrei divenisse un
obbligo. Capace di portare alla luce colori e vibrazioni, il cantautore milanese vaglia costantemente un sua prassi conoscitiva, disponendo
di sensibilità congenita e vellutata emozionalità. Come nelle ultime sue produzioni, spesso
un senso generale sfugge – un’idea di compattezza non è forse nei suoi canoni espressivi
– propendendo invece per una plasticità dei
contorni dove il singolo episodio spesso vale
più dell’intero lotto.
g i u g n o
dedicata al padre medico, con arrangiamenti
bandistico-jazz che ricordano alla lontana Sergio Caputo.
Un’altra tendenza percorsa dal cantante bolognese si trova in quello che già Jovanotti con
Tensione evolutiva e Raphael Gualazzi con
Bob Rifo aka Bloody Beetroots a San Remo
(Liberi o no) hanno già sperimentato. Il singolo che ha fatto da traino all’album usa infatti
il drop e lo innesta nella struttura classica del
pezzo pop da classifica, con rimandi pesanti
all’estetica piano-voce dei Coldplay. Chi l’avrebbe mai detto? L’EDM ‘de noantri’ funziona
benissimo e Logico #1 fa il suo lavoro con precisione, mettendo i drop dove ce li aspettiamo
e facendo commuovere gli everyman che ogni
mattina la sentono per radio andando al lavoro.
Il disco vede la collaborazione agli arrangiamenti di Alessandro Magnanini e Davide
Petrella, aggiungendo così un tocco jazz al
percorso musicale dell’artista bolognese, che
non perde di credibilità pur restando nelle
posizioni alte della classifica. Senza rottamare
il mainstream, un altro pop è possibile.
6.9/10
Chad VanGaalen - Shrink Dust (Sub
Pop,2014)
Genere: rock, indie, folk
È una cantautore decisamente atipico, questo
Chad VanGaalen, canadese, che troviamo ora
alla prese con il quinto album Shrink Dust,
prosieguo di una carriera da musicista ormai
decennale (il debut, Infiniheart, risale infatti
al 2004), accompagnata, anche se in misura
minore, da parallele attività come illustratore e
animatore.
Nonostante quella giovane faccia pulita che
farebbe pensare all’ennesimo stereotipo del
songwriter solo e un po’ depresso, le canzoni
di Shrink Dust ci fanno invece scoprire una
105
g i u g n o
106
chitarra acustica che, tra distorsioni, rumori e
sovraincisioni, rimane la sola a tenere a bada la
bella penna di Chad Van Gaalen.
7.3/10
Giulia Antelli
Chrome - Feel It Like A Scientist (King
of Spades,2014)
Genere: indie, wave, post-punk, noise
Con questo nuovo album dei Chrome (doppio
su vinile) Helios Creed ha raggiunto l’obiettivo
di evolvere il sound dei due album “mitologici”
del gruppo californiano, rendendolo sufficientemente attuale e ascoltabile anche nel presente e, allo stesso tempo, fedele allo stile della
creatura mutante che fu la band.
Hippie evoluti o punk che prendevano l’acido
ben prima che l’unione delle due culture diventasse una solida realtà, e scevri da tentazioni
revivaliste nonostante le loro radici affondassero nella cultura psichedelica californiana,
i Chrome condividevano lo stesso sostrato
garage e la stessa attitudine avanguardista dei
contemporanei Devo e Pere Ubu, lo sperimentalismo di Residents o Tuxedomoon, la vocazione al cut-up che ne ha fatto quasi dei precursori dell’industrial e le atmosfere sinistre
che anticipavano certa musica dark (soprattutto se contaminata con hard e l’elettronica, vedi
Killing Joke e Sisters of Mercy). E in più avevano l’immaginario da science fiction deviante
che si traduceva in suoni distorti, sfrigolanti,
psichedelicamente futuribili.
Da quando ha ripreso in mano i Chrome in seguito alla scomparsa di Damon Edge, con cui era
in parola per una possibile reunion, Creed ha
allestito una formazione giovane e competitiva
per andare “un passo oltre” il classico sound del
gruppo. Prospettiva un po’ ottimista, forse, ma
i risultati sono comunque confortanti: i nuovi Chrome riescono a essere riconoscibili e a
suonare con una grinta che promette bene per il
r e c e n s i o n i
personalità eclettica e a tratti bizzarra, alquanto debordante e fuori dagli schemi, che riesce
a offrire un paradigma country/blues (ma non
solo) tutt’altro che scontato. Se fino ad ora il
Nostro si era cimentato con un electro-folk rarefatto e minimale, più attento alla pura sperimentazione che alla costruzione di una formacanzone inserita e riconoscibile – pur con
l’enorme ombra di Neil Young alle spalle, che
troviamo ancora -, adesso qualcosa è cambiato.
È come se il buon Chad avesse addomesticato
la propria schizofrenia creativa, in primis pagando il suo debito con certi standard del folk
di ultima e penultima generazione (Vic Chesnutt, Daniel Johnston), senza dimenticare
l’amore per i Sonic Youth e un’attitudine punk
e garage in grado di arricchire l’essenzialità
della matrice cantautoriale.
In sintesi, dalla grazia sgangherata dell’iniziale
Cut Off My Hands alle atmosfere space/sixties
di Where Are You, ci troviamo di fronte ad un
riuscito equilibrio tra acustica e pedal steel,
fuzz-folk e surf-pop. Il tutto tenuto insieme
dall’esile voce di Chad, in grado però di intonare e trasmettere perfettamente le varie
sfumature emozionali dell’album: una qualità
non da poco, visto che, in fondo, parliamo di un
cantautore. E se in un paio di episodi è l’anima rock and roll a prevalere – ad esempio in
Leaning On Bells e All Will Combine, in cui si
avverte la lezione di Kinks e Beach Boys -, è
nelle ballate che il disco mostra i suoi pezzi migliori, come dimostrano l’invocazione gospel di
Lila o gli standard dylaniani di Weighted Sin e
Hangman’s Son, oppure la cadenza lenta e psichedelica di Monster. Quest’ultima traccia, collocata alla metà esatta del disco, sembra riassumerne anche l’essenza: un equilibrio – precario
e imprevedibile, e per questo affascinante – tra
la malinconia della tradizione folk americana e
un gusto per l’avanguardia e gli esperimenti sonori, la sincera scompostezza del lo-fi con una
Tommaso Iannini
Chromeo - White Women (Last Gang
Records,2014)
Genere: electro, funk
Quarto disco e dieci anni di onorata carriera,
per Dave 1 e P-Thugg. Il ritorno, dopo il deludente Business Casual, sprizza una rinnovata
voglia di far muovere il dancefloor a ritmo di
funk, disco e qualche puntatina di hipsterismo
r e c e n s i o n i
per le masse. È infatti doveroso notare il featuring di due mostri sacri della scena hip internazionale: uno è il pluripremiato e sciccosissimo
Toro Y Moi, che in Come Alive fa mostra di
stile sopraffino; l’altra è Solange, che in Lost
on the Way Home conquista con la sua voce
sensuale (ricordando stranamente negli acuti
Marie Fredriksson, la cantante dei Roxette).
A parte le comparsate aka specchietti-per-leallodole, la marcia in più l’hanno i pezzi che
puntano sul funky disco più vintage e saltano
gli ’80, andando a pescare direttamente nel
decennio precedente: cose da film di Tarantino, ritrovamenti di tastiere sporche, quelle con
la polvere fra i potenziometri, che vediamo
in qualche vecchia sala prove di provincia. I
Chromeo ci fanno sognare film di serie B a pastello slavato con Over Your Shoulder, sembrano riproporre i blues di Pino Daniele (chissà
se lo conoscono) nell’intro di Hard To Say No e
l’uptempo del miglior Michael Jackson in Somethingood. Basta, quindi, con i vocoder, pochi
laser electro-funk. Più microfoni d’antan e progressioni per giacche con paillettes e pantaloni
a zampa. Se nell’esordio She’s In Control e negli
album successivi sembrava che i due canadesi
fossero bene o male trainati da quello che stava
succedendo intorno, oggi – sarà l’età, sarà il
decennale di attività – hanno trovato una voce
credibile e personale. Qualcuno potrà dire che
sono stati i Daft Punk con RAM a riscoprire
le atmosfere da disco ’70, ma qui il suono non
è così filologico, è una pietanza da consumare
subito sul dancefloor, senza costruirci troppa
“retrofilia”. Insomma, due che fanno il loro lavoro per bene, pronti per feste di gente che ha
superato i trenta da qualche tempo (Play The
Fool numero uno, con il richiamo a Giorgio
Moroder). Non è più un gioco da ragazzi, ma
fa ballare lo stesso. Bravi, Chromeo.
7.3/10
g i u g n o
tour. Più che di punk, si tratta di un heavy metal
“trattato” con le solite freakerie fantascientifiche. L’iniziale Nephilims! Help Me attacca con
un riff stoogesiano corretto con inserti di gelidi
synth e una voce urlata in stile new metal. Con
Prophecy si passa a un metal “stellare” dai toni
minacciosamente dark e dalle aperture space
rock, con Lady Feline a un grunge androide – tra
il riffone e i fraseggi impazziti in wah-wah e un
vortice di background vocals distorte – e con Big
Brats a un hard rock da cyberspazio con tanto
di beats elettronici (su testo di Damon Edge).
I brani sono perentori nelle strutture di base
quanto arzigogolati come da copione negli arrangiamenti. Solidi riff di chitarra sono alla base
anche dei più sperimentali (Unbreakable Flouride Lithium Plastic, una sorta di collasso nervoso
in stile free jazz venuto dallo spazio intorno a un
unico riff ), ma c’è anche qualche interessante
eccezione: Captain Boson, guidata da basso e
batteria funk/dub punk con assoli iperspaziali di
chitarra, o i sette visionari minuti di Cyberchondria tra trip psichedelico e geroglifici rumoristi
in cui a tenere le redini è sempre la sezione
ritmica, oppure i soli effetti elettronici per Slave
Planet Institution. Neppure mancano pezzi
dalla semplice forza ipnotica (Lipstick) e canzoni da due minuti che potremmo definire quasi
pop (Six). Una buona panoramica sul sound dei
Chrome, che non suonano come una cover band
di se stessi, ed è – già questo – un buon risultato.
7.0/10
Marco Braggion
107
Genere: pop, wave, goth
Sempre attento alle forme più disturbanti e devianti dell’immaginario
“popular” tutto, il progetto Noise Trade Company è partito da lande electro-industrial-ebm per poi, nel corso dei quattro album fin qui pubblicati, via via raffinare le sonorità e, insieme, affinare le armi verso territori
“altri”: territori insieme algidi ed eleganti, figli della wave più ricercata
come di una sensibilità pop trasversale, oscura, provocante a volte, spesso
suadente ma al tempo stesso sottilmente minacciosa.
Quasi procedendo di trilogia in trilogia, questo Unfaithful Believers
persevera nella linea tracciata da Reformation, accentuandone se possibile alcune traiettorie
latamente “pop” e certi accenti su una visionarietà filmica maudit e perversa, da sempre parte integrante dell’immaginario NTC insieme a una neanche tanto nascosta tendenza al détournement
(si veda il disturbante artwork per farsi una idea). Merito della voce di Elena De Angeli, sempre
più nodo di scambio nelle dinamiche di NTC, in grado di rendere al meglio le atmosfere create dai
sodali Gianluca Becuzzi (sua l’elettronica, il programming e l’altra voce con cui spesso duetta in
modalità dicotomica: sognante e suadente lei, baritonale e profondo lui) e Fabrizio Biscontri (chitarra e basso), specie quando ci si approccia ad atmosfere romanticamente malate come nella bella
Fire o a lande badalamentiane come in Do Something Evil o Beauty.
È proprio questo senso lynchiano che i tre hanno sapientemente disseminato lungo tutto l’album a
mo’ di indizio di un legame profondo (si veda alla voce Innocence Is Lost) e impreziosito da derive
dub-wave o cold-wave che fa di Unfaithful Believers un album elegante e profondo, ricercato e
gloomy, che in molti momenti ricrea realisticamente una sorta di personalissima colonna sonora
“crooner” per film dalle atmosfere cupe e misteriche, esoteriche e dolcemente malvagie. Un po’
come nel mai troppo incensato Twin Peaks di cui buona parte di questo disco sembra essere ideale
riproposizione e, insieme, sottocutaneo e riverente omaggio.
7.3/10
Stefano Pifferi
Cocoanut Groove - How to Built a Maze
(Fortuna Pop!,2013)
Genere: folk
Il tempo vola. Sono passati già sei anni da
quando Cocoanut Groove, al secolo Olov Antonsson, dava alle stampe il suo debutto discografico, quel Madeleine Street che nel giro di
un batter d’occhio riusciva a meritarsi gli onori
della cronaca e candidava il cantautore svedese
a speranza per il futuro della musica scandi-
108
nava. Marchio di fabbrica di Antonsson era un
suono folk nostalgico, squisitamente pop, in cui
andavano a riflettersi tratti d’America e Regno
Unito dei tardi Sessanta.
In How to Build a Maze Antonsson decide di
non cambiare l’ordine dei fattori, scegliendo
però di farsi accompagnare da una vera e propria band per ripartire dalle ceneri del debutto.
Il risultato tuttavia non premia del tutto questa
scelta. Se da un lato il suono barocco e ultra-
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Noise Trade Company - Unfaithful Believers (Space Race,2014)
citazionista di un certo folk-pop targato Zombies, Donovan e Byrds rimane apprezzabile
e ben suonato, dall’altro le tracce del disco alla
lunga finiscono per appiattirsi e cedere il passo
alla stanchezza. Ed è un peccato, perché brani
come Fair-Weather Friend, On A Monday Morning, A Secret Tune, senza il fardello del disco
di debutto, avrebbero probabilmente finito
col prevalere sulla ripetitività e la pesantezza
che contraddistingue questo How to Build a
Maze.
5/10
Marco Frattaruolo
Genere: pop, rock
La scoperta più inverosimile che possiamo
fare, a proposito di Ghost Stories, sesto disco
dei Coldplay, è che rappresenta il primo vero
break-up album di un gruppo che ha basato il
proprio successo planetario e multi-milionario
su decine di break-up song malinconiche che
vanno da Shiver a The Scientist, passando per
gli episodi minori di ogni singola pubblicazione
fino al pomposo e frammentario Mylo Xyloto.
Qualcosa deve essere evidentemente cambiato,
perché Ghost Stories prende le distanze dalle
über-produzioni recenti e dai barocchismi di
Viva La Vida, tralascia i toni da stadio, per ritrovare un intimismo e una compattezza ormai
persi dai tempi di A Rush Of Blood To The
Head.
Se questo può bastare per far pensare a un
ritorno a casa, bisogna specificare che al tempo
stesso il tessuto sonoro messo insieme dallo
stuolo di produttori, tra i quali spicca Paul
Epworth, è significativamente differente da
quello dei precedenti episodi. Il disco si affida a
filtri sintetici e strutture essenzialmente elettroniche, in cui la band riesce ad incastonare
chitarre evanescenti e misurate che arrivano
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Coldplay - Ghost Stories
(Parlophone,2014)
leggere ed altrettanto leggermente svaniscono
nel torpore atmosferico – succede in Midnight
(co-prodotta da Jon Hopkins) o nella perfetta rotondità pop di Magic, l’ideale contraltare
maschile alla sobria aridità limpida offerta da
Lorde in Pure Heroine, praticamente la versione senza funk del Pharrell di Happy.
Ghost Stories è un album moderno perché
offre un design sonoro conciso e collaudato
che limita gli orpelli senza riuscire a ridimensionarli. In pratica tutto finisce per fare affidamento sulla voce narrante di Martin, al solito
nelle proverbiali vesti di menestrello querulo,
che nel pieno dei trent’anni si guarda indietro
per guardare avanti. Lo stesso frontman ha
spesso ripetuto, anche a Zane Lowe, che i suoi
testi non saranno mai ai livelli di Jay-Z o di
Morrissey, ma che al tempo stesso si diverte a
nascondere i manoscritti delle nuove canzoni
in nove biblioteche sparse per il mondo, manco
fossero sublimi poemi di Yeats pronti ad illuminare l’umanità. E, manco a dirlo, il tallone
d’Achille dell’intero lavoro sono proprio i suoi
testi.
Martin prende il concetto di semplicità per
riportarlo ai livelli artistici di una dedica in
sovrimpressione sul fondo dello schermo
di MTV. “All I know is that I love you so/So
much that it hurts“, canta struggente in Ink,
con “Late night watching TV/Used to be you
here beside me” di Another’s Arms a ricordarci
quanto analgesica possa essere l’offerta emozionale di una ricca (ex) coppia inglese alle
porte della mezza età. L’episodio sicuramente
più nostalgico delle produzioni passate rimane
la ballata acustica Oceans, cui segue l’unico
vero scivolone del disco, A Sky Full Of Stars,
numero in crescendo con cassa dritta prodotto
dalla sensation EDM svedese Avicii (paradossalmente, sembra funzionare più all’interno
della scaletta che come singolo portabandiera).
Partendo dall’idea di un interessante concept e
109
Genere: pop, elettronica
“Il frullo che tu senti non è un volo / ma il commuoversi dell’eterno grembo
/ vedi che si trasforma questo lembo / di terra solitario in un crogiuolo“. Rubiamo questa strofa a Eugenio Montale e alla sua In limine, poesia del 1924
che evoca segni, forze naturali in un paesaggio vivo, legato a doppia mandata
alla vita degli uomini, per il limite, il confine, il bordo evocato dalla parola
“krai”, che nel russo natio di Olga Bell dà il titolo al suo disco d’esordio. Per Montale l’Italia rurale
e assolata del primo dopoguerra, per Olga Bell le distanze enormi che passano dalla Krasnodar
dell’opener alla Kamchatka all’estremo orientale dell’Asia continentale, in atmosfere spesso oscure e primordiali. Una terra, quella russa, che Olga Bell ha lasciato in giovane età attraversando lo
stretto di Bering come gli antichi ominidi ed approdando in Alaska, USA. Il passaggio decisivo è
il sostegno come tastierista per il tour del fortunato Swing Lo Magellan dei Dirty Projector nel
2012-13 e poi l’esordio a un anno di distanza per One Little Indian.
Il disco si fonda sulla fusione di elementi folklorici (reali? inventati? evocati?) con un piglio artypop che fa pensare tanto a certi passaggi della prima Julia Holter, quanto alle voci del Trio Medieval. Canzoni che aleggiano nel synth/pop/folk ma che vivono su scheletri di forma-canzone. A
dare forza a una scrittura fatta di passaggi sghembi, cambi inattesi di ritmo e atmosfera è la voce
di Olga Bell, capace di forza ieratica rara (Krasnodar Krai), di toni ombrosi al limite del magico
(Perm Krai), di dolcezze algide (Stavropol Krai). Per l’effetto esotico che ci fa la lingua russa, in cui
sono cantati tutti i nove episodi, si torna spesso con il pensiero ai momenti più bucolici dei Sigur
Rós, ma anche alle atmosfere in bianco e nero di Iva Bittová.
Non si sa mai fino in fondo dove vadano a parare queste schegge arty, ora sottolineate da quelli che
sembrano nastri in reverse (probabilmente semplicemente effetti digitali), sovraincisioni, momenti orchestrali. Colpisce la capacità di creare un mondo sonoro vario, ma al contempo fortemente
connotato e personale già alla prima prova sulla lunga distanza, al confine tra il folk, il synth-pop e
la contemporanea da camera. Vi ritroverete vostro malgrado sotto un cielo spesso carico di pioggia, quasi sempre minaccioso, con canti erranti trasfigurati dagli elementi naturali nelle orecchie.
Lo sguardo vi si volgerà, senza che lo vogliate, alle spalle, per indugiare sulla civiltà urbana che
lasciate, ma di fronte a voi si apriranno squarci di natura indomabile: sarete perfettamente sul krai
anche voi.
7.5/10
Marco Boscolo
110
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Olga Bell - Krai (One Little Indian,2014)
lasciandosi ascoltare senza lungaggini, Ghost
Stories è un disco onesto che non riesce a
nascondere un debole songwriting, un lavoro
destinato ad essere dimenticato con la stessa
leggerezza con cui si presta all’ascolto.
5.7/10
Luca Falzetti
Genere: rock, folk
Conor Oberst, prolifico ex-enfant prodige
ormai trentaquattrenne, ritorna con un album a
suo nome, dopo essere di recente riapparso anche con il vecchio moniker Bright Eyes (The
People’s Key, 2011). Upside Down Mountain
rappresenta in qualche modo un ritorno al passato, anche se il Nostro sembra non essersene
mai particolarmente allontanato; registrato a
Nashville e coprodotto con Jonathan Wilson,
l’album vede l’artista americano alle prese con
materiale sostanzialmente più spoglio e intimo,
indie folk rock. “E’ un ritorno agli inizi, è più
personale” afferma infatti Oberst.
Album abbastanza disadorno, di un songwriting accorato e lirico, con un gran senso della
melodia, Upside Down Mountain vede il
musicista alle prese con alcune delle sue ossessioni (morte, fuga, disillusione, il tempo che
passa…), qui un po’ più pacificate, anche se un
senso di malinconia resta sempre. Il tempo che
scorre, per uno che ha ormai anni di carriera
alle spalle, sembra dilatarsi e Conor appare più
vecchio di quel che in realtà è.
Il disco è ricco di melodie e di qualche canzone che resta in testa (i soliti ispiratori, Neil
Young, Zizzagging Toward The Line, Bob Dylan, soprattutto nelle intense Governor’s Ball e
Time Forgot, Hundreds Of Ways). Brani onesti
quanto basta per farcelo apprezzare ancora.
7/10
Teresa Greco
Genere: cantautori, rock
In un momento storico in cui il live è diventato
il centro di gravità di tutto l’universo musica
(vedi alla voce: “crisi del supporto disco”), non
ci si stupisce più di tanto se novità gustose e
progetti originali arrivano da dischi dal vivo
come Ex Live. Tanto più che il qui presente album di Giancarlo Onorato e Cristiano
Godano – registrato il 28 dicembre 2013 presso
la Latteria Artigianale Molloy di Brescia – rappresenta un po’ un esempio di meta-linguaggio,
sorta di sviluppo pensato per il palco del libro
di Onorato del 2013, Ex. Semi di musica vivifica.
“Musica vivifica”, come quella che ha segnato
il percorso di entrambi gli artisti coinvolti, vuoi
perché legata ad ascolti comuni, vuoi perché
generata dalla creazione artistica dei diretti
interessati. Il filo rosso del disco sono i reading
estratti dal libro di Onorato (parole di un’intensità rara che vanno ben oltre la semplice
ricerca di un intellettualismo a basso costo,
sfociando invece nella poesia tout court), a cui
si legano a doppio filo brani di Beck (Lonesome
Tears), Lou Reed (Perfect Day), Neil Young
(Out On The Weekend), Velvet Underground
(Venus In Furs, Sunday Morning), Nick Cave
(The Ship Song) ed episodi autografi (per Onorato: Androide Mirna, Tutto il niente, Acqua di
Valium, L’illusione di salvezza; per Godano/
Marlene Kuntz: Notte, La canzone che scrivo
per te, Musa). Trattasi di celebrazione, ma non
delle rispettive carriere, quanto piuttosto del
concetto stesso di catarsi legato alla fruizione
musicale, ovvero quel mondo perfetto che alle
volte una canzone può generare senza un motivo preciso. Lo si capisce dal trasporto mostrato
nel reinterpretare le cover (tra le più efficaci,
Perfect Day, Out On The Weekend e Lonesome
Tears), dalla cura riservata agli arrangiamenti
minimali e a un suono corposo (il mastering è
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Conor Oberst - Upside Down Mountain
(Nonesuch,2014)
Giancarlo Onorato - Ex Live (Lilium
Produzioni,2014)
111
Genere: pop, indie
Al quarto album Owen Pallett, violinista canadese collaboratore degli
Arcade Fire ed ex-Final Fantasy – moniker sotto il quale ha pubblicato i primi due dischi -, mischia le carte in tavola, dando una svolta al
suo songwriting. L’avevamo lasciato, con l’album precedente, alle prese
con il regno immaginario di Heartland (2010), pretesto per sviluppare
un concept orchestral-pop polifonico, del quale era più che altro la voce
narrante.
In Conflict segna un importante cambiamento, non solo a livello musicale, ma soprattutto narrativo. Qui i testi sono abbastanza personali, anche se per sua ammissione non del tutto autobiografici; Pallett questa volta si lascia dietro i tanti personaggi, per rivelare un po’ più di sé, un procedimento “cantautorale”, se non ancora confessionale, al quale il Nostro approda ponendo se stesso
al centro delle canzoni. Racconto e cronaca biografica si fondono, con immagini e notazioni degne
del migliore Morrissey, del quale Owen è peraltro fan (gli Smiths citati in The Passions).
Musicalmente l’album vede una maggiore presenza di synth e percussioni (alla base ritmica ci
sono Matt Smith e Robbie Gordon, già insieme al Nostro in una vecchia band, Les Mouches, e
riunitisi nel 2011 come live band), oltre al consueto violino in loop e la partecipazione ancora una
volta della Czech Philarmonic Orchestra. Ospite d’eccezione Brian Eno, presente soprattutto a
livello di backing vocals, alla chitarra nella title track e al synth in The Riverbed. Presenza discreta
e si direbbe quasi impalpabile, se non fosse che la sua ubiquità si nota eccome.
Prevale un senso forte melodico e una drammaticità che non diventa mai retorica. Pallet mantiene
sempre il controllo e muove i fili delle (sue) varie anime, marionette docili nelle sue mani, plasmandole e adattandole alla sua elegante visione musicale. Sincera e diretta come non mai.
7.4/10
Teresa Greco
di Giovanni Versari), dalla bravura dei musicisti coinvolti (Guido Maria Grillo alla chitarra
elettrica, Meg Russo al pianoforte e alle tastiere, Alessio Russo alla batteria). 18 tracce che
riescono a costruire un’esperienza d’ascolto
emozionante, con la consapevolezza che “anche i migliori dischi finiscono. Fatti girare sino al
termine sul lettore, per quanto ti trasportino in
spazi irrinunciabili, lasciano prima o poi il posto
al suono del mondo che ti sta attorno”.
6.9/10
Fabrizio Zampighi
112
Davide Tosches - Luci della città
distante (Contro Records,2014)
Genere: cantautori
Formalmente c’è un più equo rapporto fra
segnali e rumori rispetto al passato, un nitore
senza coesione di stile che cede, nel filo antilirico di Tosches, a un refrattrario svilupparsi,
un gioco a coprirsi. Sensorialmente, Luci della
città distante è un titolo che dice tutto di un
filtrare immagini e rare collisioni in ore mediane, d’inizio o fine, ore inverosimili. A guidare
il cantautore piemontese in questa sua nuova
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Owen Pallett - In Conflict (Domino,2014)
Christian Panzano
Diamond Version - CI (Mute,2014)
Genere: techno, glitch
I curricula di Carsten Nicolai, aka Alva Noto,
e di Olaf Bender, aka Byetone, presentano
molti punti in condivisione: entrambi nati negli
anni sessanta a Chemnitz (ex Karl-Marx-Stadt)
nella Germania orientale, entrambi protagonisti della scena glitch a cavallo dei due millenni
(specialmente Noto, firmatario come solista di
capisaldi clicks and cuts, come la serie di produzioni “Trans-” del periodo 2001-2005), en-
r e c e n s i o n i
trambi con interessi che spaziano dalla computer music alle arti grafiche e visive (con il nome
di Nicolai sempre più in vista del panorama
dell’arte contemporanea come autore di macroinstallazioni audiovideo neo-optical, come
la recente α-pulse), entrambi responsabili della
Raster-Noton, preziosa etichetta specializzata
in lavori elettronici distillati in purezza. Amici
fin dall’adolescenza, non è la prima volta che i
due incrociano ufficialmente i rispettivi laptop:
insieme a Frank Bretschneider (anch’egli originariamente tra i gestori della label sassone, e
già negli anni ottanta membro degli AG Geige,
la prima band new wave di Bender) Alva Noto
e Byetone avevano dato vita al trio Signal, con
risultati sonicamente pregevoli ma tutto sommato di maniera (vedi gli album Centrum,
2000, e Robotron, 2007).
Il progetto Diamond Version prende forma
nel 2011 quando, su stimolo di Daniel Miller,
fondatore della gloriosa Mute Records, Nicolai e Bender trovano la chiave giusta per dare
un senso di lunga gittata alle estemporanee
improvvisazioni live in coppia che in qualche
occasione avevano aggiunto ai loro rispettivi
set solisti. L’impianto paratestuale è preso in
prestito dal mondo del marketing e dell’advertising: il nome Diamond Version gioca con
l’escalation parossistica delle nuove edizioni
dei software; il programmatico video Mission
Statement (giugno 2012) è costituito da claim e
payoff pubblicitari che, presentati in ordine alfabetico senza alcun riferimento ai brand d’origine, si mostrano nella loro pervasiva assurdità.
Anche i titoli delle tracce dei 5 EP sfornati per
la Mute in meno di un anno, dal settembre 2012
al luglio 2013, riprendono gli slogan delle multinazionali: Make.Believe (Sony), Sense And
Simplicity (Philips), Science For A Better Life
(Bayer), Turn On Tomorrow (Samsung), ecc. E
il titolo dell’album, culmine del lavoro del duo,
è l’acronimo di Corporate Identity. Il sound
g i u g n o
avventura, ancora la mano di GianCarlo Onorato e una band che ha raccolto avvisi di stima
già due anni fa ne Il lento disgelo. Scontate,
viste così, le giocate di luci, il ritiro cameristico
e forse anche un po’ impressionistico di brani
come Il canto del ghiro, Il calabrone, Mattino
presto, per cui importa poco una tranche de vie
abbozzata oppure lasciata in disparte.
Codificare una lega fra congiure elleniche
scavate, armonizzazioni e schubertiadi in lieve
dissonanza, diventa quell’allegro ma non troppo (anzi) che nelle mani dei chiamati in causa
(il flicorno di Ramon Moro, l’innesto elettrico
minimo di Hugo Race, l’idea d’arco di Catherine Graindorge) sigla la volta da creare per una
psicoacustica a pastello. Questa ricerca, sovente cangiante, diventa sempre più un bollo di
un Tosches piccolo co-direttore, un copyright
morale che accompagna parole, ma ancora di
più, scelte posate in produzione, senza paura
d’attentarsi. Sarebbe interessante una più viva
cura dell’aspetto contautorale: un testo più
coeso, meno fumè, meno a macchia di cerniere
e colori, si misurerebbe alla perfezione con i
progressi raggiunti sul versante sonoro. Questi
brani attestano comunque la maggiore età raggiunta da Tosches, cultore dell’arte tout court
fra grafica, fotografia, disegno e musica.
6.8/10
113
g i u g n o
114
bum troviamo la traccia finora più lontana
dal classico mondo Noto-Byetone: a cantare
lo spiritual tradizionale Were You There (che
troviamo nel repertorio di Johnny Cash, ma
anche di Diamanda Galás) viene chiamato
Neil Tennant. E il Pet Shop Boy officia il rito
in maniera elegante e precisa, supportato da
una base profonda e abrasiva, per un risultato
dalla forza straniante.
Delle dieci tracce dell’album (43 minuti in
totale), quattro sono nuove versioni di pezzi
già pubblicati negli EP, ridotti nel minutaggio
e smussati nell’equalizzazione. L’aggiunta in
Operate At Your Optimum del vento elettrico
generato dal neon fluorescente di Atsuhiro
Ito (già presente nel primo DV show al Sonar
2012) è parziale eccezione alla regola della
focalizzazione sui basics. Solo una track in CI
supera i 4 minuti, ed è la conclusiva Make.Believe, epica cavalcata techno-glitch già apparsa
in versione più estesa nell’EP 5, caratterizzata
dal progressivo shift degli accenti ritmici. I
tre nuovi pezzi strumentali impreziosiscono il
catalogo: Connecting People gioca con le voci
degli IVR del marketing telefonico, Access To
Excellence e Raising The Bar per una volta
mantengono le promesse pubblicitarie dei
rispettivi titoli, con soluzioni ritmiche dub e
noise techno ritmicamente impeccabili.
CI è un disco votato alla stortura dei nasi più
puristi e intransigenti, ma da interpretare come
un interessante esperimento di ibridazione
che, intervenendo su un genere da qualche
tempo a rischio di sterilità, può dar luogo a
nuove specie nel macroambiente della musica
elettronica.
7/10
Alessandro Pogliani
r e c e n s i o n i
Diamond Version è il risultato di una joint
venture (per rimanere in ambito corporativo)
tra la produzione ipnotica e squadratamente
techno di Byetone (vedi Symeta, 2011), e le
composizioni più scientificamente asettiche di
Alva Noto (che già con l’ottimo Univrs del 2011
aveva già dato nuovi segni di irrequietezza):
energico e fisico (anche se ad esempio meno
violento rispetto ai primi Pan Sonic), ammiccante al dancefloor ma sempre con urticanti
punte noise. La dimensione ideale è quella dei
live show, dove l’aspetto audio si lega perfettamente con le soluzioni video, per trascinanti
spettacoli digitali in bianco e nero.
Pur rappresentando il culmine del business
plan Diamond Version, CI testimonia un allargamento dell’estetica espressa dai cinque
12” precedenti verso nuovi orizzonti. Persiste
l’attenzione maniacale per ogni singolo suono
(ovviamente di derivazione kraftwerkiana), il
ritmo rimane l’elemento portante, ma qui Noto
e Byetone dimostrano un crescente interesse
per la forma-canzone, indirizzandosi verso una
maggiore, relativa, accessibilità anche attraverso l’inatteso apporto di inusuali vocalist
ospiti. L’album comincia con il botto: “Congratulations on being a big fu**ing deal!” recita
sarcasticamente la voce strascicata e vissuta
di Leslie Winer (mitica androgina modella/
poetessa, che qualcuno aveva scortesemente definito la “nonna del trip-hop” per il suo
album Witch registrato nel 1989 con l’alias ©)
in This Blank Action, potente, profonda ballata
dub-techno. L’hip-hop futurista di Feel The
Freedom presenta le frasi dada della giapponese Kyoka, nuova (e prima!) proposta femminile
Raster-Noton, per cui ha recentissimamente
pubblicato l’interessante Is (Is Superpowered), sintomatico del recente corso “glitch
goes pop” seguito dalla label (vedi anche HD
di Atom™, pubblicato nel 2013, che con CI
presenta più di un’affinità). Al centro dell’al-
Genere: avant, contemporanea, jazz
La poesia di Fabio Orecchini e i suoni dei Pane, uniti in un lavoro che
interpreta – perché di questo si tratta, di un teatro di vita vissuta rievocato da parole e note, e capace di una potenza evocativa enorme – la tragedia dell’Eternit, con tutto quello che il termine si porta appresso. Un libro
di poesie sommato alla musica della band di Claudio Orlandi, Maurizio
Polsinelli, Vito Andrea Arcomano, Claudio Madaudo e Ivan Macera, l’uno
parassita dell’altra e viceversa: le parole al centro di un folk sempre più
timbuckleyano ma anche di un impeto recitativo che ricorda gli Area di
Stratos, grazie anche a un approccio fondamentalmente jazzistico capace di dare al testo respiro e
di sorreggerne l’enfasi; la musica direttamente connessa agli “ambienti” che la narrazione riesce a
creare, e quindi libera di attorcigliarsi al parlato senza badare agli steccati di genere, tra crescendo
e minimalismi assortiti.
Nel libro allegato al CD (o viceversa), gli spazi e i silenzi della tragedia umana legata al tema
centrale dell’opera, quello che la musica lascia presagire nella sua voluta incostanza e variabilità, vengono resi con una libertà tipografica quasi futurista, come se anche la vista, oltre all’udito,
avesse il compito di circoscrivere, sottolineare, evocare la drammaticità dei contenuti (e non solo
con la comprensione dello scritto). I testi di Orecchini lavorano trasversalmente, mescolando un
lessico legato alla malattia, alla dimensione biologica dell’individuo, alla tecnologia dell’ambientefabbrica, e mimando la condizione esistenziale più profonda degli operai destinati alla lavorazione
dell’amianto. Un’esistenza in cui proprio la fabbrica violenta il corpo, declinandolo in malanno
prima e morte poi.
Quella di Dismissione è materia letteraria e musicale pulsante, che scortica dentro e non lascia
facili vie di fuga col suo realismo pisciato in faccia al lettore (e all’ascoltatore). Vengono in mente
certe cose di Marco Paolini, anche se qui l’inquadratura è un primo piano sui legami umani confinati nelle quattro mura di casa, che diventano il centro di una serie di cerchi concentrici a livello
sociale. Un’umanità che il “discolibro” veicola senza mezzi termini e in modo egregio.
7.3/10
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Pane - Dismissione (New Model Label,2014)
Fabrizio Zampighi
DJ Rashad - We On 1 EP (Southern
Belle,2014)
Genere: juke_footwork
Il footwork non sarebbe lo stesso senza Dj
Rashad e Cornelius Ferguson / Traxman. Sono
i lavori pubblicati negli ultimi due anni da
questi producer che ne hanno decretato il buon
riscontro mediatico e il piccolo, ma significa-
tivo, avanzamento di mercato, senza contare
l’enorme influenza esercitata su un trasversale
comparto elettronico. Certamente la scena aveva ed ha una vita propria, e sicuramente ognuno dei suoi protagonisti (vedi Dj Spinn, Manni,
Dj Diamond, Dj Nate, Rp Boo…) è parte di un
intricato dedalo di influenze e rimandi e può
vantare una parte nella scrittura di questa sto-
115
Genere: avant, grime
Ricollegandoci al nostro speciale Back to Eskimo Jungle, avevamo lasciato Peter Runge e Louis
Carnell, ovvero l’americano Sd Laika e il londinese Visionist, alle prese con due approcci piuttosto
distinti nella reinvenzione dei suoni grime strumentali. Il primo, sull’etichetta del secondo, Lost Codes, aveva lasciato aperto (nel 2012 con Unknown Vectors) un discorso riduzionista e frammentario, come se qualcuno si stesse divertendo a contrappuntare di bassi spugnosi alcuni lost file di Wiley
da un hard disk gettato in una discarica; il secondo, sull’etichetta di J Cush Lit City Trax, preferiva
un raffinato gioco di sintesi tra ghiacci londinesi, ritmi ghettotech e siderali synth newyorchesi,
come dire, l’incontro tra il citato godfather of grime, il giro di James Ferraro e di Traxman.
Li ritroviamo alle prese con due fasi di carriera altrettanto particolari e differenti. Sd Laika riemerge dopo due anni di assenza con un album d’esordio sulla prestigiosa Tri Angle, label che non
gli ha impedito di riprendere le fila di un discorso senza compromessi e rimettere mano a tracce
di un periodo turbolento della sua vita risalente a due anni prima; Visionist che, invece, porta a
termine un percorso sul dolore ed espiazione iniziato nell’EP precedente asciugando ancor più le
trame e concentrandosi sull’espressione.
That’s Harakiri, esordio del producer americano, è un oscuro e malato oggetto del desiderio,
l’eski beat dell’esordio che si è spaccato sul pavimento, con i frammenti ad acquistare traiettorie
imprevedibili. I’m Fine II, invece, è Visionist che si chiude in sé stesso ed osserva in solitudine le
sue statue di ghiaccio, questa volta da solo, senza la collaborazione con quella Fatima Al Qadiri
che nella prima parte – The Call – aveva lasciato aperte per lui alcune evoluzioni à la Asiatisch (il
fortunato esordio di lei).
E così, se Carnell pare un po’ incartato – unico momento degno di nota First Love – con un finale
di scaletta (Something Old, Something New) che tra passato e futuro lascia intravedere una non
inedita declinazione r’n’b e pop (voto: 6), il “taglio del ventre” di Peter Runge si risolve in uno di
quegli enigmatici lavori che dicono poco sul suo autore, e ancor meno sul futuro che lo attende,
ma lasciano addosso una morbosa voglia di scostare le tende dalla finestra, alzare la coperta del
letto e scoprire cosa si nasconde dietro a questo angoscioso angolo del nulla americano.
Tracce come Great God Pan configurano Sd Laika come una sorta di anti-Fatima Al Qadiri, o
meglio, è come se sui plastici affreschi digitali di Asiatish fosse cascata una bomba H. Altrove, il
ragazzo di Milwaukee mostra un sorriso feroce e ci ricorda Aphex Twin, ed è qui che i paragoni si
fanno interessanti: in comune tra loro, la riduzione brutalista tra smalti pop e tagli sul ritmo, come
anche uno sguardo feroce sull’utopia techno. Sempre a proposito di sgretolare il suono detroitiano, troviamo tracce degratate e puzzolenti come Meshes o episodi tribali da assenza di Dio come
Remote Heaven o It’s Ritual, entrambe facce di nessuna medaglia perché, differentemente da
James, Runge preferisce andar di sublimi dissimulazioni anche solo per regalarci diamanti grezzi
come una You Were Wrong tra illibertiane pianole 90s, bassi post-rave e garrule visioni Zomby.
Uno dei lavori più affascianti dell’anno.
7.4/10
Edoardo Bridda
116
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Sd Laika - That’s Harakiri (Tri Angle,2014)
r e c e n s i o n i
frammento di Chaka Khan (Somethin ‘Bout
The Thing U Do), Traxman che prende il riff al
synth di Computer World dei Kraftwerk triggerandolo su lallazioni vocali sempre di Ralf
Hutter e soci (Computer Ghetto); poi c’è tutto
il discorso sulla juke, con entrambi a serrare i
ranghi e mostrare i vicoli e le strettoie, il chicagoano di Double Cup che torna sui 160bpm
e gli incastri con la jungle (Come On Girl, con
l’aiuto di Spinn), che setta la 808 su territori
trap per parlare pur sempre di footwork (Do It
Again, con Spinn e Manny), che stende bassi tipo gomme sull’asfalto; e, dall’altra parte,
Ferguson che rende merito, come sa, alle storie
di Chicago, l’house naturalmente (I Wanna Be
High), ma anche il funk (U Got Me Running)
e il soul, un sacco di 70s ma anche 80s, tutti
campioni, che, per mano di entrambi, chiudono
epopee in semplici gesti, come strisciate con la
bomboletta.
Al netto di tutto il clamore suscitato dalla sua
scomparsa, Dj Rashad ci regala un più che
buon lavoro che riavvolge il nastro per srotolarlo su alcune – possibili – traiettorie (7.2),
mentre Traxman, consegna un altro gioiello di
produzione con alcune delle sue migliori zampate (7.4).
7.4/10
g i u g n o
ria; eppure, nessuno come Rashad e Ferguson è
riuscito a incidere sulle vite e sulle discografie
di chi ha poi finito per influenzare decine di
altri producer internazionali, condizionando
l’ascolto di un genere nato nei ghetti di Chicago
e rendendolo intrigante, esportabile e, cosa non
proprio scontata, potabile per un pubblico fino
a poco tempo fa impensabile.
Facciamo nomi e cognomi: Mike Paradinas,
boss di Planet Mu, e Steve Goodman / Kode9,
boss di Hyperdub, non avrebbero potuto traghettare queste sonorità senza i collanti giusti
al momento giusto. Non vogliamo sottovalutare
l’importanza di Rp Boo e della sua Legacy, ma
senza due lavori come Da Mind Of Traxman
prima e Double Cup dopo, la footwork di
Chicago e quella dei producer lungimiranti che
l’hanno assorbita e ricontestualizzata (non solo
Kode9, ma anche Machinedrum e Addison
Groove) non avrebbe goduto di una fondamnetale, viva, dialettica.
La conferma di tutto ciò la riscontriamo, oggi,
nelle recenti prove dei rispettivi producer:
We On 1, EP composto da Rashad prima della
morte (che ha visto la luce i primi di maggio, su
un’etichetta di Houston, la Southern Belle, di
un amico come Wheez-ie), e la seconda parte
di Da Mind Of, nuovo tassello del mosaico
sonoro di colui che della footwork può essere
considerato il più enciclopedico autore. Ascoltando i due lavori, è evidente tanto il guardarsi
attorno del primo, che torna nel ghetto per
trovare nuove strade e traiettorie, quanto l’abilità del secondo, che, in perfetta convergenza
parallela, si concentra per questa tracklist su
uno massimo due sample per traccia, lavorando
di fino sui tagli, sulla velocità dei loop, e naturalmente su tutto un parco ritmi.
Da entrambe le parti, ci sono i campioni “in
chiaro” provenienti da alcuni brani che hanno
fatto la storia della musica pop: Rashad che fa
volare una fisarmonica Stevie Wonder su un
Edoardo Bridda
Gallant - Zebra EP (Autoprodotto,2014)
Genere: pop, indie, soul, rnb
Negli ultimi quattro anni abbiamo assistito alla
grande rinascita della black music dopo un –
lungo – periodo caratterizzato più da ombre
che da luci, in cui sembrava essere svanita la
voglia di trasgredire le ferree e conformiste
regole del music business. Una fortissima contaminazione – con l’elettronica in primis – e
la contemporanea riscoperta/stravolgimento
della tradizione sono stati i due fattori chiave che hanno avuto il merito di riavvicinare
117
g i u g n o
118
singolo Forfeit, sia su quella dell’EP stesso.
Nonostante punti di contatto fin troppo evidenti e l’alto tasso di derivazione, Zebra EP si
fa apprezzare per alcuni dettagli che ne aumentano la varietà: i beat abstract/chill di Forfait (How to Dress Well ad un passo), la battuta pesante di Sirens, l’enorme eco-campana di
vetro dell’onirica Manhattan e un brano-bomba
come Sienna, fortemente influenzato dalla
scuola UK (bass-garage-dubstep).
Frutto in egual misura delle idee di Felix e dei
vocalizzi di Gallant, le nove tracce di Zebra EP
non hanno la pretesa di cambiare le carte in
tavola ma illustrano con dignità il potenziale di
un nome che a breve, con ogni probabilità, avrà
modo di trovare un ottimo compromesso tra
citazionismo e personalità.
6.6/10
Riccardo Zagaglia
Gentle Friendly - KAUA’I O’O A’A (Fat
Cat,2014)
Genere: pop, elettronica, experimental
Vengono da South London e si sono formati
perché hanno trovato un drum kit e del caffè
in un cassonetto dei rifiuti. Ecco, potremmo
fermarci qui, perché chi legge è in possesso di
tutti gli elementi per inquadrare il duo. Ma ci
sentiamo buoni e andiamo avanti. Sacerdoti
del drone-pop lo-fi e dell’electronic loop of
consciousness, i Gentle Friendly si erano già
affacciati sulla scena con il precedente Ride
Slow che gli era valso un po’ di fama (mica tanta, dicono i 600 followers su FB) e, soprattutto,
un contratto con Fat Cat. Come se non bastasse
la bizzarria dei suoni, i Nostri hanno deciso di
intitolare il disco (lo scriviamo solo una volta,
da qui in poi si chiamerà semplicemente “il
disco”) KAUA’I O’O A’A, cioè con il nome di
qualche uccello estinto congiunto al nome di
qualche isola delle Hawaii. Alla fine non sconvolge neanche più di tanto, perché il disco è
r e c e n s i o n i
il pubblico più smaliziato alle sonorità randb
e soul, facendo scattare quel circolo virtuoso
tra audience e media che ha permesso sia di
cambiare finalmente aria ai piani alti, sia di
alimentare quell’enorme sottobosco a ricambio
stagionale capace di sfornare freneticamente
materiale di culto: un fiume di grande portata
che, dalle vette più elevate (i debutti di James
Blake, Frank Ocean, How To Dress Well e
The Weeknd per citarne quattro) fino ai rilievi
minori di natura locale, continua ad autoalimentarsi e a far parlare di sé, aspettando che
arrivi il giorno di una nuova rivoluzione o della
– più concreta – saturazione.
In attesa degli album di debutto da novanta
di FKA Twigs e, in ottica mainstream, Banks
e Sam Smith, il 2014 ha già visto esordire
SOHN, Chet Faker, SZA e Lo-Fang. A questa
(già di suo) incompleta quanto eterogenea lista
di nomi si va ad aggiungere il meno conosciuto
Gallant. In un contesto sospeso tra New York
e la sua attuale dimora Los Angeles, il giovane
Gallant si è fatto strada grazie alla collaborazione con il producer Felix Snow (già al
lavoro con SZA), il quale nell’ultimo anno ha
modellato buzz-tracks quali Forfeit e Sirens:
chiari esemplari di quello che, per il momento, è l’universo sonoro del giovane americano.
Un universo che trova una fonte d’ispirazione
limpida nel primo – e migliore – The Weeknd,
tanto che Zebra EP concettualmente si avvicina a House of Balloons più del patinato – e già
dimenticato – passo falso Kiss Land. Condivide con House Of Balloons le stesse sonorità
oscure ed urbane, ovattate da un approccio
di finto lo-fi ed avviluppate attorno a falsetti
riverberati, stesse incursioni di chitarra elettrica, stessi omaggi “pericolosi” (in If It Hurts
si “tributa” Adam’s Song dei Blink 182) e, con
un po’ di malizia, stesso gusto visivo certificato
dagli artwork in bianco e nero e da quei famosi
palloncini rintracciabili sia nella copertina del
r e c e n s i o n i
Giuliano Dottori - L’arte della Guerra
Vol.1 (Musica Distesa,2014)
Genere: cantautori
Dopo l’importante esperienza come chitarrista
negli Amor Fou a fare da intermezzo (si veda
il bel I moralisti, 2010), il milanese Giuliano
Dottori arriva in proprio al terzo album solista,
primo capitolo come da titolo di un discorso
autorale già in parte intrapreso con il penultimo Temporali e Rivoluzioni (2009).
L’arte della Guerra Vol.1 (con Marco Ferrara
al basso e Mauro Sansone alla batteria) esce
su etichetta propria – la nuova Musica Distesa, fondata con il fratello Corrado -, dopo una
fortunata raccolta di finanziamento su Musicraiser a inizio anno; il songwriting lucido
ed essenziale di Dottori si affina ed asciuga
sempre di più, ricordando stilisticamente per
certi versi l’ultimo Paolo Benvegnù, ma è una
scrittura sempre più personale la sua. In punta di piedi fa un bilancio, prendendo spunto
dal manuale di saggezza e tattica bellica L’arte
della Guerra di Sun Zu; l’album rappresenta
un nuovo inizio, come una rinascita. Ci sono
solitudine, attesa, riflessioni e ricordi familiari, relazioni tra presente e passato, ma anche
guardare avanti, disincanto e ironia sottile sulla
contemporaneità e sulla propria generazione
over 35, il tutto colorato di un senso di speranza partecipato e palpabile.
L’arte della guerra o come sopravvivere all’oggi tumultuoso, riflettendo su se stessi e sulla
propria crescita. Con intelligenza e grazie a trame dipanate, tra chitarre, piano, melodie forti e
soluzioni sperimentali, con tocchi psych e folk.
Un bel disco che cresce ad ogni ascolto.
7.3/10
g i u g n o
un collage di suoni elettronici che mescolano
reminiscenze Neu! e kraut, industrial schizofrenia alla Death In Vegas con aggiornamenti
art sotto l’egida di Animal Collective, This
Heat, Health.
Fin dall’apertura, Wild Grass, un lunghissimo
stream of conciousness fatto di loop vocali
elettronici, accenni ritmici e molto organo,
siamo dentro ad atmosfere che di kraut hanno
solo l’impostazione, perché poi si impregnano
di tropicale schizzato sui muri. Un po’ come la
copertina di un disco che viene pubblicato in
vinile ma rappresenta una cassetta con relativa custodia. Ecco, impalpabile. Le successive
Autumn Nite, Channel One, 18 Wave Crash e
As In Wind fanno pensare a dei Fuck Buttons
scorporati dalla magniloquenza olimpica, perché qui stiamo sempre parlando di droni alle
prese con strumenti raccapezzati dalla spazzatura…. Poi ci sono poche (pochissime a dire il
vero) tentazioni pop, quando i ritmi scroscianti
delle percussioni si limitano ad accompagnare. E può succedere di risentirci un Four Tet
strigliato (Bury Um Deep), un french touch alla
Phoenix (No Future, Cloudbusting II), uno
schizzo psichedelico alla Panda Bear (Shake
Up).
Da ultimo, ci viene da sottolineare la grazia
analogica con cui i due si cimentano: dalle
percussioni acustiche al cantato monocorde e
asfissiante che, al tempo stesso, stanca e incanta. Pare proprio che in UK molti stiano seguendo la strada del neu-new wave o trash-folk o
new kraut che dir si voglia e i Gentle Friendly,
nel loro disordine ordinato che di diverso ha
solo un tocco electro in più, aggiungono un
godibile tassello al quadro.
6.9/10
Teresa Greco
Nino Ciglio
119
Genere: punk, hiphop
Se dici strafottenza e pensi alla musica, difficilmente non ti verrà in mente qualche anglosassone. Mark E. Smith, i fratelli Gallagher (uno un po’ di
più dell’altro, a dirla tutta), le pose di Ian Brown o dei vari appartenenti
alla genia made in Madchester, ma la lista potrebbe essere potenzialmente infinita, sono senza ombra di dubbio quanto di più arrogante, sfacciato
e diretto il panorama musicale mondiale abbia prodotto. Come un Begbie
di Trainspotting, questi Sleaford Mods, duo da Nottingham – grigio centro Albione e perciò potenzialmente concentrato di rabbia e depressione, sfacciataggine e incoscienza -, partono dritti come se fossero sempre in procinto di scatenare una rissa, di spaccarti un
bicchiere in faccia o semplicemente di urlare un piss off generico all’intero mondo della musica.
Più o meno patinata o hipsterizzata.
E musicalmente? Ecco, immaginate un incrocio tipicamente british tra The Streets e i Fall. Basi
scarnissime di tastiere spesso “spippolate” senza allontanarsi troppo dai preset standard, linee di
basso synthetiche tanto minimali quanto circolari, sporcizia strumentale che non è nemmeno di
matrice industriale, ma molto più povera, procedere hip hop bianco, storto e insieme ossessivo,
flow fluviale che ha in sé quel senso di cockney e di depauperamento fisico da degrado subrbano
anni ’80 made in Thatcher che ti fa pensare da subito “zero style ma tantissimo stile”. A dimostrazione, ora come allora, che essere “punk” non è questione di stile musicale o di spille in bocca o
di quello che tutto l’immaginario degli ultimi 30 e passa anni ha trasmesso. Per essere punk devi
essere come questi due qui.
Sì, perché i due – Jason Williamson, che ci mette la voce e la faccia, e Andrew Fearn, che smanetta, ma nemmeno troppo, con la tastiera – si sono pure scelti un nome veramente a cazzo di cane,
come a cazzo di cane è la loro musica, sboccata, irrispettosa, arrogante e urbanamente volgare;
aggiungete anche che non sono – e non sono mai stati – mods e non vengono affatto da Sleaford,
quanto da Grantham, cittadina (poco) ridente del Lincolnshire famosa per aver dato i natali alla
lady di ferro Maggy Thatcher, ed ecco che così, magicamente, tutto sembra tornare.
7.4/10
Stefano Pifferi
Godblesscomputers - Veleno (Sfera
Cubica,2014)
Genere: elettronica
Anni fa c’era la moda del wonky, poi sommersa
dalle vicissitudini post-soul di James Blake
e affini. Godblesscomputers, il progetto di
Lorenzo Nada, si accosta a questo filone in
maniera professionale e – cosa rara per un’ita-
120
liano – senza provincialismi, staccandosi subito
da essenze finto-intellettualoidi di nicchia ed
entrando a far parte di un’idea estetica di beat
internazionale che, come dice lui in una recente intervista, è intrisa di soul funk ed è stata
influenzata da DJ Shadow, Prefuse 73, Ninja
Tune, Warp, Def Jux e Anticon. Descrizione
perfetta per uno dei più promettenti italiani
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Sleaford Mods - Divide And Exit (Harbinger Sound,2014)
Marco Braggion
r e c e n s i o n i
Gruff Rhys - American Interior
(Turnstile,2014)
Genere: pop, rock, indie
Che Gruff Rhys fosse un tipo – come dire? –
bislacco, lo sapevamo: dalla leadership dei suoi
bizzarri Super Furry Animals fino ai concept
su cuccioli di leone zuccherosi (Candylion),
durante la sua carriera solista il Nostro non ha
mai rinunciato al gusto per lo sberleffo, meglio
se mascherato da opera finto-intellettualoide.
È il caso di questo American Interior, uscito
su Turnstile come il precedente Hotel Shampoo, e che con quello ha molti tratti in comune
dal punto di vista degli hook melodici e dell’impasto strumentale.
Ennesimo concept nella carriera di Gruffydd
Maredudd Bowen Rhys (nome che nella discografia inglese è forse secondo per complessità
solo a quello completo di Brian Eno), American Interior nasce dalla scoperta, da parte
dell’autore, di avere come antenato John Evans,
esploratore che attorno al 1790 si imbarcò
nella seguente impresa: attraversare l’America
per trovare una tribù di nativi collegata ad un
principe del Galles del dodicesimo secolo e
che, per questo, pare parlasse quella lingua. Ci
sarebbero tutti gli ingredienti per il pappone, e
invece no.
Rhys tira fuori un album tutt’altro che pesante:
fresco e mai banale, è un pop che pare sbarazzino (Lost Tribes) ma che in realtà si rivela
un artigianato di prim’ordine. E infatti, cos’è
Tiger’s Tale se non i Wilco dei dischi con Billy
Bragg che jammano con Costello a Memphis,
con una leggera sbornia da Metronomy? Nella
title track, poi, viene delineata la continuità
con la Vitamin K del lavoro precedente: il tono
è maturo, a volte malinconico, ma mai insostenibile, tratteggiando gran parte del mood
dell’album. Gruff utilizza un armamentario
strumentale varigato, mette assieme elementi disparati e riesce a tenerli insieme in una
g i u g n o
concentrati sul sound elettronico a più ampio
spettro di contaminazioni (insieme a Clap!
Clap!, Memory9, UXO e pochissimi altri) che
sembra veramente uscire da un’altro pianeta –
musicalmente parlando.
Sette tracce costruite con campioni di voci
soul, arricchiti di suoni d’ambiente che fanno
molto Four Tet, il tutto miscelato con una giusta dose di basso, pronta per il dancefloor slow.
Tattiche soniche su cui aveva già meditato nel
disco del 2012 Freedom Is O.K., ma che oggi
si consolidano su un’autorialità forte e decisa.
La formula del looping alla lunga può stancare,
ma qui le variazioni sul tema sono intriganti. Si
parte dai riferimenti ai rappresentanti più stellati dell’intimismo (Burial in What We’ve Lost,
Zomby in Seventh Floor, qualche cineseria
Gold Panda in Icry) e si arriva (Nothing to Me)
a una sintesi personale che rimanda alle estetiche Morr condite con suoni di sintesi e field
che non guastano, un Microcosmos (ricordate
il film sugli insetti?) di note e percussività che
cadono a fagiolo. Alta classe synthetica anche
in Collapse con suoni liquidi e ripetizioni minimal tagliate con percussività tribali. La tensione cade un po’ nella facile ripetitività ethnic
con filtraggi e voci world di Yuan (sembra di
sentire uno dei pezzi della Thievery Corporation mescolato con qualche taglio Kruder
and Dorfmeister, per capirci) e nei sentimenti
melò-lounge di Orange.
Stiamo comunque assistendo alla nascita di un
nuovo talento, che potrebbe esplodere a livello
mondiale, per la sua capacità di costruire melodie orecchiabili (e quindi pop, magari pure da
spot) in un sottobosco di ritmiche complesse.
Una lieta sorpresa, che non capita tutti i giorni.
Dacci dentro, Lorenzo. Giù il cappello.
7.4/10
121
maniera che, in alcuni frangenti, ha del miracoloso. Valga come esempio Iolo, sorta di yodel
innalzato dagli archi che sembra composto da
Morricone, anche per la base ritmica dal suono così spaghetti western.
American Interior si divide tra brani minori e
altri che, in un mondo ideale, potrebbero risultare veri e propri ordigni schiaccia-classifica,
come Liberty (is where we’ll be), ma che quasi
certamente non lo saranno. Vuoi per la complessità di alcune scelte – Allweddellau Allweddol sono i Talking Heads che fanno cantare dei pargoli fino a sfiorare George Clinton
-, vuoi per la stranezza dell’autore, che vede in
però così salvaguardato il suo status di weird.
7/10
Guy Littell - Whipping The Devil Back
(Autoprodotto,2014)
Genere: rock, alt, indie, folk
Dal centro-sud dello Stivale continuano ad
arrivare notizie interessanti riguardo un certo modo di fare rock, che prima di inseguire
strategie di successo (del resto improbabili)
tenta di tracciare coordinate profonde, di farne
cosa propria, di utilizzarlo cioè come fosse il
linguaggio più adatto per raccontare scazzi,
tormenti, trabocchi di rabbia e trepidazioni
dalla periferia dell’impero. Il napoletano Gaetano di Sarno è un classe ‘82 che si è scelto lo
pseudonimo di Guy Littell (un personaggio di
American Tabloid, epocale romanzo di James
Ellroy) e fa folk-rock intenso e asprigno guardando all’America di padri (Neil Young) e figli
(Sparklehorse), senza trascurare gli eroi di
mezzo, come ad esempio quello Steve Wynn
che non a caso è gradito nonché speciale ospite di questo Whipping The Devil Back, terzo
opus a due anni da Later e quattro dall’esordio
The Low Light and The Kitchen.
Immerse in un sound sparagnino che sposta
122
7/10
Stefano Solventi
Iggy Azalea - The New Classic
(Virgin,2014)
Genere: hiphop
Iggy Azalea ha occhi blu, biondi capelli e
sì, non è proprio roba nuova. Ha un passato
pietoso, ma ci sta lavorando su. Retroterra: due
mixtapes, un EP - Glory - e ora, ecco, il primo
disco, The New Classic, che appena uscito è
stato stroncato dalla critica. È forte nel titolo,
nello stile del flow, è trap, insomma, southern
hip-hop. Il messaggio passa efficace e si ascolta
senza fraintendimenti in strofe come questa:
You can’t break my heart / You can’t take my
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Andrea Macrì
l’ago della bilancia più sulla sostanza che sulla
forma, le undici tracce in programma mettono in evidenza buone qualità compositive e
il piglio dell’interprete che non si risparmia,
soprattutto nelle toccanti Cedar Forest (languori desertici e mestizia acustica quasi Jason
Molina) e Waiting For My Shift To Start (ebbrezza calda e vibrante tra Grant Lee Phillips
e Graham Nash). Se Maybe avvince azzeccando un’accorata mistura Low, fa ancora meglio
Lovely People inoltrando un folk a bassa fedeltà tra muggiti elettrici Yo La Tengo.
Barcamenandosi tra volatili suggestioni dreamy (si ascoltino le ascendenze wave di Need
You, Have You e Every Tiny Drop Of Light) e
asprezza da marciapiede, ogni canzone riesce
a disegnare un bozzetto vivido che fa vibrare i
contorni del cliché. Forse solo la title track, col
suo passo baldanzoso in stile no-depression (e
l’armonica di Wynn), non riesce a mediare tra
fragilità melodica e struttura malferma, ma si
salva in corner grazie ad un entusiasmo febbrile e indolenzito. Un disco che non lascia indifferenti: se saprà scalare la marcia giusta, di Guy
Littell sentiremo ancora parlare.
r e c e n s i o n i
fe del genere? È tutta spazzatura di contorno
necessaria, però, perché il fulcro non è questo.
Biograficamente Iggy Azalea a chi interessa?
Fondoschiena a parte, non di certo agli ammiratori/ammiratrici (e lo dice lei) che ambiscono solo a palparla, quando si getta dal palco; né
alla critica, che con la sua presunta stravaganza
ci combina ben poco, quasi nulla, se non una
copertina stile Penthouse. Per questo e molto
altro, la chiave di lettura del disco è un’altra:
l’esibizione costante di disinteresse da parte
di Iggy nei confronti del (relativamente) poco
successo di pubblico che la sua musica raccoglie. Lei si dice scettica, di sapere di valere, perciò “fanculo chi non mi comprende“. Ma Iggy
Azalea è una megalomane, lo è per davvero.
Senza pose, crede esattamente nell’opposto di
quel che dice, affamata di notorietà, consapevole che nulla è impossibile e altre amenità del
genere da parvenu.
La contraddizione di Iggy è che disprezza
costantemente/palesemente chi la odia e allo
stesso tempo confessa saltuariamente/silenziosamente il suo desiderio che queste persone (e
che il mondo tutto) si prostrino ai suoi piedi.
Azalea, in overdose da fama, chiede tempo e
pietà e ci muore incredula, che il mondo chieda più MCs donne e non sostenga lei, l’unica
e sola. Iggy si auto-proclama divinità del rap
mondiale-universale femminile in Goddess,
su prod. superba di The Invisible Men e The
Arcade, ma è un gesto disperato, per prendersi tutto-subito, di prepotenza. Work svela la
trama sottaciuta, su produzione di 1st Down
e The Invisible Men. Si passa dai versi “this
that new classic, ain’t this what annotate you
needed - I’m what amazing look like, you’ll
recognize it when you see it” di Walk The Line
ad una Azalea che torna indietro, ridimensiona
e corregge il tiro.
Iggy vuole andare oltre, è il suo momento.
Non ci crede nessuno, forse nemmeno il suo
g i u g n o
pride / Oh no, that love shit, I won’t do it. The
Invisible Men e The Arcade producono massivamente la maggior parte del corpo-tracce: il
suono è elettronico e malinconico, ripiegato su
di sé, ma scalpitante. È una combinazione perfetta e il flusso-rap di Iggy Azalea ci sguazza
senza affanno, anzi con personalità. Per il resto,
The New Classic esce su Island e chiarisce un
paio di questioni.
Il contenuto è bipartito e la polarizzazione è
vasta. Una sezione consistente segna luoghicomuni trap – il mito del more money – more
problems, a cui non crede più nessuno -, sciorinati a memoria su beat impeccabili: Mastermind di Rick Ross, a confronto, scompare;
nella sezione seconda, Azalea stringe i denti e
il mic, e scrive sul serio barriere a tema esistenziale, tipo: sono? Faccio? Farò? Voglio? The
New Classic prende la piega del disco personale, sentito e necessario, seppur di transizione. Culmina sul personale con Just Askin’,
ipotetica conversazione con l’ex-ragazzo,
A$AP Rocky, che si ascolta in simpatia, pur
oltrepassandola senza pensarci su troppo. Iggy
non cerca vendetta, la sua è una rivalsa rispetto
a un passato da genio incompreso, più una questione personale che artistica. Questa la cifra di
tutto il discorso: non si parla di musica, si parla
di lei, Iggy Azalea, una ragazza che sembra aver
capito piuttosto bene i meccanismi mainstream.
Patire la propria condizione accresce la simpatia. E’ un vecchio classico e alimenta le speranze di tutte coloro che sul globo terrestre sognano di arrivare a condividere un mic con T.I..
Dunque, lei sedicenne, senza soldi, a Miami, da
sola, che sbanca, funziona ed ha una propria
funzione. Di lì la storia dei soldi e dell’oro in
abbondanza e lei che (purtroppo sono parole
sue) può “fare compere ogni giorno“. Sono banalità, con cui la Nostra si auto-flagella, perché
chi la prenderebbe sul serio dopo due-tre stro-
123
g i u g n o
Emiliano Santoro
Il Pan del Diavolo - FolkRockaBoom (La
Tempesta Dischi,2014)
Genere: rocknroll, folk
Quattro anni fa, quando uscì il debut Sono
All’Osso, fu difficile rimanere indifferenti di
fronte all’irruenza sgangherata ma incendiaria
de Il Pan Del Diavolo: una formula costruita sulla scarna potenza di chitarre, sonaglio e
grancassa, combinata ad un lirismo combattivo
e ironico che ti si piantava subito in testa per
non uscirne più.
Sono appunto passati quattro anni, e dopo
quell’esordio al fulmicotone, nel mezzo c’è stato un altro album, il discreto Piombo, Polvere
E Carbone, che, a fronte di questo FolkRockaBoom, appare oggi come un intermezzo necessario per la crescita artistica di Alessandro
Alosi e Gianluca Bartolo. FolkRockaBoom è
infatti il terzo album del duo, quello che la vecchia guardia della critica musicale avrebbe definito un tempo come “il disco della maturità”.
124
Aldilà di ogni stereotipo o luogo comune, ascoltando i dodici brani di questa prova appare comunque evidente la ricerca di un’evoluzione, di
un percorso in grado di evitare la fossilizzazione entro i limiti di un genere ben preciso: quel
combat-folk estremamente immediato e riconoscibile che ci aveva fatto conoscere i musicisti palermitani al loro inizio. Così, l’attitudine
punk è stata smussata in favore di un approccio
maggiormente bluesy e cantautorale, debitore tanto agli orizzonti desertificati di Gomez,
Giant Sand, Calexico, quanto a una scrittura
ragionata e più profonda, tutta italiana, a cui si
aggiunge un certo gusto per il western morriconiano, iscritto da sempre nel DNA del duo.
Ne sono prova brani come la title-track, che potremmo considerare come il riassunto di tutto
l’album: canzone d’autore sporcata di polveri
folk-rock e vocalità sopra le righe, unita a testi
non-sense ispirati dagli strappi della vita quotidiana. Ricorrono ancora Tenco, Rino Gaetano,
Edoardo Bennato, oltre alla smania urlatrice
di Ghigo Agosti; quello che manca è semmai lo
sberleffo debitore alla lezione di Buscaglione.
Il tutto suona più serio e dunque più maturo,
come confermano i toni polemici di Mediterraneo, altro esempio di quel crepuscolarismo
meridionale ma imbevuto d’America che colora
tutto il disco, o nelle brume tex-mex di Cattive
idee, le stesse che ritroviamo in Un classico,
una canzone che potremmo definire d’amore,
anche se lontana dai soliti canoni.
A confermare la volontà di voler tracciare un
ponte ideale tra la fiera appartenenza italica e
gli orizzonti sconfinati dell’America, pensano
Aradia e Il domani, registrati rispettivamente con Andrew Douglas Rothbard (The VSS,
Pleasure Forever) e gli amici Sacri Cuori.
Due pezzi che chiudono FolkRockaBoom pagando il tributo a tanta tradizione roots e blues
d’oltreoceano, tirando inoltre le somme sulla
natura attuale de Il Pan Del Diavolo: esaurita,
r e c e n s i o n i
mentore T.I.. La storia reggerà a patto che il
prossimo disco sia un My Beautiful Dark
Twisted Fantasy. Il prossimo album sarà il
vero nodo della questione, e fino alla sua pubblicazione The New Classic rimarrà panacea.
In caso contrario, Azalea resterà intrappolata
nella propria costruzione ideologica, gravitante
attorno al principio valoriale: buono è chi mi
ama e cattivo chi mi odia. Un’esasperazione da
misantropia narcisista.
Tutto questo per arrivare a dire che il “nuovo classico” in realtà non è questo, ma quello
dietro l’angolo, che sta per arrivare e che prima
o poi Iggy Azalea butterà fuori dalla sua testa,
si spera. Per il momento ascoltate The New
Classic e dite in giro che è un bel disco, altrimenti lei potrebbe non sopportarlo. O meglio,
fate quel che vi pare.
7/10
come è giusto che sia, la prepotenza fragorosa
del primo e secondo album, rimangono stile e
sostanza, un nucleo riconoscibile e originale.
Un capitale ancora prezioso tra i nomi del panorama underground di casa nostra.
7.1/10
Giulia Antelli
Genere: pop
A proposito di Tutte Le Canzoni, debut de Il
Triangolo, vi parlavamo di “un esordio che
brilla di spinte 60s, in un mix ben prodotto di
sonorità vintage, drammaturgia glam e buon
cantautorato”. Adesso, invece, il trio varesino si
ripresenta sulla scena con Un’America, seconda prova che lo vede distaccarsi leggermente
da quel paradigma classic beat/cantautoriale
presentato in precedenza.
I nove brani di Un’America, infatti, pur essendo ancora debitori verso questa formula di
revivalismo pop italiano – laddove, per pop, si
intendono anche immaginari e suggestioni non
soltanto musicali -, si spostano verso territori
maggiormente rock e wave, improntati a testi
ben curati e melodie d’impatto che fondono i
pilastri della cultura pop del periodo alla verve
rumorosa e garagista propria di certi gruppi
nostrani. In sintesi, potremmo immaginare
i Verdena alle prese con la poesia di Lucio
Battisti, anche se le buonissime intenzioni che
animano il disco suonano poi diverse dal risultato finale.
Un risultato che, pur essendo in grado di offrire qualche episodio convincente, ad esempio
l’irresistibile nostalgia di Martedì di settembre,
oppure la melodia dolciastra di Avanti, non
riesce ad andare oltre un semplice intrattenimento. Parliamo infatti di brani che dimostrano
come i tre musicisti abbiano i mezzi tecnici per
maneggiare la materia rock (Varsavia, La Playa)
Giulia Antelli
Jamie Saft – Steve Swallow –
Bobby Previte - The New Standard
(RareNoise,2014)
Genere: jazz
Protagonista negli scorsi mesi degli interessanti progetti Plymouth, Metallic Taste of Blood
e Slobber Pup, il sempre più poliedrico Jamie
Saft torna con un nuovo progetto, questa volta
accompagnato da due mostri sacri del jazz e
della musica sperimentale: Bobby Previte e
Steve Swallow. Se le scorse produzioni – tutte
targate RareNoise – si erano distinte per una
verve decisamente sperimentale, The New
Standard vira verso sonorità più classiche e
meno ostiche, in un tentativo magari un po’
ambizioso e bonariamente presuntuoso di scrivere veri e propri nuovi standard jazz.
Sezione ritmica esperta, quella formata da Previte (Tom Waits, John Zorn e gli italiani Petrella e Salis, tra le sue collabaorazioni) e Swallow
(Paul Bley, Roy Haynes e John Scofield) si
sposa perfettamente con i tappeti costruiti da
un Saft che in questo episodio passa agilmente dal piano all’organo, alternando momenti
più “soft” (la title track, The New Standard), a
blues (Blue Shuffle e Step Lively) e episodi più
rock (All Things To All People) con gran classe
e gusto.
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Il Triangolo - Un’America (Ghost
Records,2014)
unendola ad un mood melanconico ma spesso scontato che, quando spogliato dell’enfasi
bohemien propria della lezione baustelliana, si
avvicina pericolosamente a una certa retorica
adolescenziale e generalista in aria Ministri.
Dunque, nel complesso la direzione del disco
non riesce a giungere ad una conclusione netta,
divisa com’è tra sonorità non originalissime e
una nostalgia manieristica per il mondo di ieri,
quest’ultimo ancora molto lontano da raggiungere.
5.9/10
125
Scorrevole e leggero (nella accezione più nobile del termine), The New Standard non riscriverà certamente la storia del jazz, ma offre
onestà e un’ora di buona musica.
6.8/10
Andrea Murgia
Genere: blues, country, folk
Dischi postumi come Out Among The Stars
hanno sempre un contorno. Nel nostro caso, il
contorno è rappresentato dalle dichiarazioni
del figlio di Johnny Cash, John Carter Cash,
sparse un po’ per tutto il globo terracqueo
virtuale della rete. Impariamo così che l’album
arriva dai primi anni Ottanta del man in black –
più precisamente, le tracce sono state registrate
tra il 1981 e il 1984 da Billy Sherrill – e che i
dodici (più uno) brani della scaletta latitavano
negli archivi della Columbia-Legacy da un bel
po’ di tempo. Il Cash di quel periodo esce da
una porzione di esistenza non troppo felice: le
vendite dei dischi sono in calo, il cinema e la
televisione lo affascinano (arriverà a partecipare a una puntata del Muppet Show, e quella
non sarà nemmeno l’esperienza peggiore tra
quelle collezionate) e storie di droga lo costringono a una riabilitazione forzata che tuttavia
dà i suoi frutti. E così oggi ritroviamo lo stesso
Cash Junior a sbandierare ai quattro venti il
buono stato di forma del padre durante queste
registrazioni, tanto da arrivare a scrivere in un
track by track per il Guardian che nulla ha di
informativo e molto di celebrativo.
E’ in effetti vero, però, che il Johnny di Out
Among The Stars ha il passo sicuro e una voce
ferma come forse si ascolterà solo nei dischi
con Rick Rubin nei Novanta. A cui questo, sia
ben chiaro, non aggiunge nulla ma non toglie
nemmeno nulla. Brani come la title track o She
Used To Love Me A Lot sono ottimi esempi di
126
Fabrizio Zampighi
Kasabian - 48:13 (Sony Music
Entertainment,2014)
Genere: pop, rock
È ormai opinione diffusa che i Kasabian siano
tra i gruppi più spocchiosi e altezzosi che il
rock di Sua Maestà sia riuscito ad offrirci negli
ultimi anni (l’eredità dei compianti Oasis è
passata in buone mani) e che l’avvicinamento
ad ogni loro nuovo album è contrassegnato da
roboanti annunci ai quali è sempre più difficile non abboccare. Così era stato per l’ultimo
(radiofonico) Velociraptor! (acclamato come
un disco dal suono “epico”) e per West Ryder
Pauper Lunatic Asylum (l’album “perfetto”
dei quattro di Leicester), e lo stesso accade per
48:13, il lavoro che segna il ritorno del gruppo
in vista dell’headlining per la chiusura di Gla-
r e c e n s i o n i
g i u g n o
Johnny Cash - Out Among the Stars
(Columbia Records,2014)
una poetica che ha l’autorevolezza per trascendere la nicchia del country (anche se ancora non lo sa), proprio in virtù di quella voce
intensa e imponente che tutti conosciamo e di
un’intensità nell’esecuzione da pelle d’oca. Il
resto è un compendio di crooning (After All),
sincopati blues/rockabilly (I’m Moovin On),
spoken-country (If I Told You Who It Was),
ballad acustiche (Call Your Mother), duetti con
la consorte June Carter e via dicendo, ovvero in
tutto e per tutto il campionario del Cash degli
eighties (ma non solo).
Il valore aggiunto dell’album sta forse nella
freschezza che si coglie in certi passaggi, negli
arrangiamenti impeccabili a base di slide guitar
e in linea con la tradizione, ma soprattutto
nella testimonianza storica che questo disco
rappresenta a undici anni dalla morte del cantante americano. I fan di stretta osservanza non
rinunceranno facilmente (ed è soprattutto a
loro che consigliamo il disco); per tutti gli altri,
la scelta non è obbligata.
6.7/10
r e c e n s i o n i
che allo stesso tempo strizza l’occhio alla tradizione e alle tendenze electrodance.
7/10
Marco Frattaruolo
The Kolors - I Want (Mr.Boost,2014)
Genere: pop, electro
La storia dei Kolors si sviluppa dall’incontro
dei due cugini Stash (voce, chitarra) e Alex
(batteria) Fiordispino con Daniele Mona
(synth), e con il trasferimento da Napoli a Milano, che porta la band a diventare rapidamente resident del locale Le Scimmie. Dopo alcuni
concerti in giro per l’Europa (Berlino, Stoccolma, Londra…) i primi risultati in patria iniziano
ad arrivare dopo il 2012, con il live di spalla a
Paolo Nutini e l’anno successivo agli Atoms
For Peace di Thom Yorke.
Registrato all’interno degli Exchange di Londra, il disco di debutto I Want può contare
sul mastering di un pezzo grosso come Mike
Marsh – già al lavoro con Depeche Mode,
Massive Attack e Chemical Brothers – e la
sezione arrangiamenti curata da Rocco Tanica, nome d’arte di Sergio Conforti di Elio E
Le Storie Tese. All’interno delle undici tracce
sono condensate tutte le passioni musicali del
gruppo, che non nasconde minimamente i propri percorsi di ascolto: se No More e Twisting
abbracciano completamente l’insegnamento
della scuola indie rock di inizio millennio, con
schitarrate che ricordano gli Strokes, il disco
vira poi essenzialmente verso derive electro
alla Chromeo, con giochi dance tutto synth e
tastiere (come la divertente Yeah Yeah Yeah – il
chorus è un collage di titoli di storici pezzi dei
Beatles), con tocchi funk (come suggerisce il
titolo di I Don’t Give a Funk, primissimo singolo prodotto nel 2011), e anche episodi blues
come Fear Of Loving, evidente tributo a Micheal Jackson, grande passione adolescenziale
di Stash.
g i u g n o
stonbury ’14.
Già dal titolo – quel 48:13 che corrisponde
al minutaggio totale dei 13 nuovi brani – e
dall’artwork minimalista impregnato di un
acido rosa shocking, è lecito domandarsi se
il gruppo di Serge Pizzorno e Tom Meighan
abbia esaurito le scorte di creatività. Dubbi
subito ridimensionati dall’avvio travolgente di
Bumblebeee, un vero e proprio scatto di reni
che si contraddistingue per un potente rock
dalle venature elettroniche che va dalle chitarre glitterate dei T-Rex a quelle sovrastate di
sintetizzatori di scuola Primal Scream. Basso
sontuoso, chitarre sferraglianti e synth rappresentano quindi la perfetta sintesi del suono a
cui i Kasabian stanno mirando, una traccia che
pertanto va a delineare e incendiare le successive. A partire da Stevie, in cui l’intro scandito
da una minacciosa orchestra ci catapulta nel
set di uno 007 in bianco e nero, passando dall’esplosione di colori di Doomsday, un carosello
di suoni burleschi, e dalle pareti electrorock di
Treat, in cui il gruppo inscena uno stordente, e
convincente, scenario da bad trip.
Poi l’incendio va lentamente attenuandosi
(l’ultima scintilla è quella Eez He, acida dance
anni ’90 che ha fatto da apripista all’album) e
i quattro di Leicester finiscono per rimanere
intrappolati in quello stesso vortice che li aveva
ispirati (Glass, Explodes, la meno convincete
del lotto e Clouds, brano che la stessa band definisce come una “Tomorrow Never Knows riarrangiata dai Soulwax”, per rimanere in tema
di modesti proclami). S.P.S, ballata acustica à la
Stones avvolta da calorose armonie orchestrali
sigla così una lieta e melanconica fine a un album ben riuscito e che dimostra come i quattro
siano ancora in grado di rinnovare quella formula electrorock che li ha portati alla ribalta.
I Kasabian sono riusciti a spingersi su territori
che i Gallagher sono sempre stati riluttanti a
percorrere: quel rock impregnato di elettronica
127
Il disco scorre in maniera rapida e piacevole,
nonostante la presenza di qualche momento
fuori posto come Me Minus You, in cui l’accoppiata piano-voce non produce l’effetto sperato.
I Kolors si dimostrano band in grado di poter dire la propria, seppur con la temporanea
mancanza di uno stile autentico. Li aspettiamo
fiduciosi al prossimo giro.
6.2/10
Daniele Rigoli
Genere: pop, dream
Fin dall’esordio omonimo, a Katy Goodman, ex
bassista delle defunte Vivian Girls, La Sera
non è mai sembrato un semplice side project.
Se solitamente impegni di questo tipo possono
essere visti come divertissement, qui la Nostra
porta semplicemente avanti in maniera decisa il discorso della casa madre. Hour of the
Dawn, marchiato Hardly Art, è il terzo album
in solitaria, ed è un centro pieno.
C’è sempre un riferimento atmosferico, in La
Sera. Dal nome della band, al titolo del precedente Sees The Light, fino a questo ultimo
riferimento all’alba, la ragazza sembra avere
sempre lo sguardo puntato al cielo. Ma dove il
precedente Sees The Light era un disco di transizione, una sorta di mezzodì del suo songwriting in cui la Goodman cercava di allargare
l’armamentario sonoro al folk, oggi il discorso
è leggermente cambiato. Viene abbandona del
tutto, o quasi, quella propensione cantautorale.
Del tutto o quasi, perché è innegabile come il
folk (anche se elettrificato) ogni tanto faccia
ancora capolino: la title track ne è testimone.
La lezione ricavata dagli album precedenti pare
metabolizzata: la scelta è quella di non strafare,
lavorando su ciò che si conosce meglio. Da qui
il nostro giudizio positivo. Fin dall’opening, con
la arrembante Losing to the Dark, è una corsa
128
Andrea Macrì
Jon Porras - Light Divide (Thrill
Jockey,2014)
Genere: rock, psych
Il deserto ha anche la sua nebbia: questa potrebbe essere la dichiarazione d’intenti che
sostiene il quarto full length a proprio nome di
Jon Porras, assieme a Evan Caminiti detentore della sigla Barn Owl. Per l’artista si tratta
del ritorno alla Thrill Jockey, dopo il passaggio
breve, con Orilla Oscura, alla Immune. Porras
fa drone music psichedelica: lo scheletro del
desert sound qui sembra raggiungere una dimensione sulfurea, anche se meno cupa rispetto ai precedenti lavori solisti o a quelli della
casa madre.
In alcuni momenti (vedi l’iniziale Apeiron) il
suono è ovattato, quasi hauntologico, ma senza
la componente ritmica tipica, ad esempio, del
dubstep: siamo in verità più dalle parti di Tim
Hecker. La trama sonora è infatti quella di un
ambient diluita, allungata: più che nel deserto,
sembra di stare al centro di un fumoso quadro
r e c e n s i o n i
g i u g n o
La Sera - Hour Of The Dawn (Hardly
Art,2014)
a perdifiato che non dimentica mai la melodia,
un album chitarristico godibile e divertente:
Kiss This Town Away, ad esempio, è un pezzo
in cui assolo, controcanti e melodia concorrono
all’unisono per creare puro piacere nell’ascoltatore, purché non si cerchi il gesto rivoluzionario o bislacco.
Scorre liscio, Hour of the dawn, e non annoia
grazie anche ai trucchi della scrittura pop di
matrice indie: a parte naturalmente le Vivian
Girls, in alcuni momenti viene da associare
quest’ultima alle Breeders anni Novanta, in
altri, addirittura ai Dinosaur Jr. (per i microassoli).
Un album solare, mai banale, forse un po’ ripetitivo, fatto con personalità, e mai pura carta
carbone di qualcos’altro.
7/10
Andrea Macrì
Lily Allen - Sheezus (Regal
Recordings,2014)
Genere: pop
Nonostante la pausa discografica di ben cinque anni, è innegabile come Lily Allen abbia
r e c e n s i o n i
l’innata capacità di far parlare di sé, nel bene o
nel male. Una vita privata costellata di gossip,
faide con le colleghe dello showbiz – famosa
la guerra a colpi di tweet con Azealia Banks –
classici eccessi da pop star tra alcool e droga, e,
purtroppo, anche episodi molto delicati, come
il secondo aborto spontaneo con successiva
rehab per depressione. Scampato il ritiro dalla
musica annunciato precedentemente, dopo l’uscita nel 2009 del sophomore It’s Not Me, It’s
You, la Allen torna con il terzo album Sheezus.
Il titolo, come facilmente intuibile, è un tributo
all’acclamato e discusso album di Kanye West.
Il disco è un attacco alla scena contemporanea
mainstream, a quel circolo comandato dalle
etichette discografiche di cui la stessa Lily è
vittima/carnefice: basta rileggere i tweet dello
scorso mese in cui Mrs. Smile risponde ad un
fan che la accusa di fare musica spazzatura:
“Faccio quello che posso, le label e le stazioni
radio non suonano prodotti di qualità”. Alla
faccia della sincerità. E proprio su queste coordinate si orienta un disco dalla chiara forma
“ascolto facile”. All’interno delle dodici tracce
troppe volte ci troviamo davanti a pezzi eccessivamente ruffiani, come l’infantile Air Ballon
con un ritornello al limite del sopportabile, o
un Our Time che potrebbe tranquillamente
rientrare nel frasario standard di Katy Perry.
La necessità di tenersi al passo con in tempi
traspare nell’auto-tune di Hard Out Here, con
facili rimandi EDM a stelle e strisce che non
alzano certamente l’asticella.
C’è però un lato che riesce sempre e comunque
a tenere la Allen a galla, ed è la qualità dei testi
(nell’ambiente pop, taglienti come pochi): URL
Badman è un irriverente sberleffo agli hater
da tastiera “Real talk, I put the world to rights,
and when I’m a big boy I’m going to write for
Vice”, che purtroppo non si lascia scappare il
tocco brostep un po’ fuori posto; Silver Spoon è
invece rivolta a chi le rinfaccia una vita ado-
g i u g n o
metropolitano, salvo per quei momenti in cui
la luce del titolo del disco e della sua copertina
fa capolino. È quel che accade in episodi come
Recollection, in cui Porras tiene sullo sfondo
una angelica, tenue melodia, e le contrappone
in primo piano il lavoro sul controllo del suono.
La componente chitarristica e blues (quella
che, per esempio, in V dei Barn Owl era ben
rappresentata da The Long Shadow) pare essere completamente evaporata in favore del lato
più drone. A questo si affiancano episodi più
onirici, come New Monument, brano lento, sospeso, diviso in quasi egual misura tra silenzio
e suono, punteggiato da inserti a volte concreti,
a volte aerei.
L’unico, parziale problema del disco è che
le idee sul suono non vengono approfondite
ma spalmate: alcune intuizioni che potevano
essere sintetizzate in un pezzo solo vengono
riutilizzate in altri brani. L’effetto è dunque
quello di una ripetitività di base che alla lunga
fa suonare alcune parti come poco funzionali
al risultato finale. E questo discorso sarebbe
riconducibile a tutto il programma, influenzandone negativamente il giudizio, se per fortuna
Porras non infilasse a volte dei dettagli che aumentano le sfumature: qui è un pattern ritmico
spezzettato, qui una spruzzata glitch. Tutti
elementi che potrebbero sembrare di poco
conto, ma che giocano alla fine una parte fondamentale, salvando un disco che, altrimenti,
verrebbe ricordato solo per l’abbandono (forse)
definitivo, da parte dell’autore, della componente chitarristica del passato.
6.4/10
129
g i u g n o
Daniele Rigoli
Little Dragon - Nabuma Rubberband
(Because,2014)
Genere: pop, dream
Inserito perfettamente in una tela del ragno
d’elettroniche in combutta soul, Ritual Union
nel 2011 aveva riassunto alcuni filoni dell’annata e del cambio decennio con una fresca e ancor di più elegante trama melodica che sapeva
inserirsi in molteplici macro discorsi di fruibilità ritmiche e dance senza rimanerne troppo
invischiata. In poche parole, aveva rappresentato l’apice di un quartetto dalla breve ma
intensa discografia (Machine Dreams e Little
130
Dragon) che in più occasioni aveva mostrato di
sapersi – e volersi – declinare in senso intimista (ed essenziale), dando cioé ampio spazio al
canto vellutato di Yukimi e riducendo l’arrangiamento ad organico accompagnamento.
Registrato durante l’inverno a Goteborg in
un contesto più rilassato e quindi non più nei
tour bus come il precedente, Nabuma Rubberband - quarto album del quartetto svedese
– approfondisce proprio quest’ultimo aspetto
in una tracklist che si sposa maggiormente con
le radici jazz di Yukimi e che si rifà, per stessa
ammissione del gruppo, anche alle ballad di
Janet Jackson e al catalogo più sperimentale
di Prince. Dominano le slow jam quindi, ma
la band tutta non si limita ad accompagnare e,
anche questa volta, pensa in grande. Stabilita
la rotta su un soul confidenziale non lontano
da Frank Ocean – altra influenza dichiarata –
la formazione arricchisce le trame con inserti
inediti. Pretty Girls, ad esempio, si avvale della
sezione d’archi della Gothenburg Symphony
Orchestra, Only One staglia un apreggio elettronico che pare venire dai lavori ambientali
di Aphex Twin per poi risolversi in una scura cassa dritta, mentre Mirror, scritta con la
collaborazione di Dave dei De La Soul, è un
coup de théâtre di tocchi noir quando anche
la titletrack apparecchia un ricco parterre di
trovate d’antan dalle parti di Amy Winehouse.
Altrove, ritroviamo riconoscibili, non banali ma
neppure memorabili, numeri synth-danzerecci
(Paris), un isolato espisodio melodicamente
debole come Underbart e in generale un canzoniere che per capacità e bravura dei Nostri
potrebbe tranquillamente venir replicato all’infinito.
Contrariamente a Dev Hynes / Blood Orange,
che ha dimostrato nell’ultimo Cupid Deluxe di
saper riassumere in una formula perfettamente
pop tutta una serie di eroi che sono anche quelli dei Dragon, Nabuma Rubberband scivola
r e c e n s i o n i
lescenziale troppo agiata, contro cui la Nostra
si scaglia con un tocco ironico ma non troppo: “Sucked dick, got signed to a major, I’ll do
anything just to entertain yer”. La title track è,
invece, uno dei dissing più espliciti degli ultimi
tempi, dove Lily non salva dalla scure praticamente nessuno: Lorde, Beyoncè, Rihanna,
Katy Perry e Lady Gaga.
Eppure la Allen dà il meglio di sé quando smette di prendersi sul serio, con tracce più genuine
e spontanee: ne è prova la divertente As Long
As I Got You, coinvolgente nel suo ritmo country-esotico, o Life For Me, che ricorda quell’affascinante ragazza londinese con la faccia
d’angelo di Smile e LDN, mentre l’ovattato r’n’b
da luce soffusa di Close Your Eyes resta l’episodio più convincente.
Un disco con troppe lacune e pochi sussulti
prova che Lily Allen ha voluto consapevolmente giocare dentro lo stesso sistema di regole
delle colleghe, ritagliandosi un ruolo di arguta
e spigliata ragazza “della porta accanto” senza riuscire a convincere noi e forse neppure
se stessa. Del resto le sue parole sono chiare:
“voglio semplicemente che il disco venda abbastanza da permettermi di farne un altro”.
6/10
troppo spesso in un lussuoso anonimato soul/
r’n’b che gli arrangiamenti riescono a equilibrare bene ma non ad invertire completamente
di polarità. Yukimi non suona affatto fredda
o poco appassionata, semplicemente ciò che
dice, anche con fare liricamente più diretto e
scoperto, non si traduce in quella memorabilità
pop che, sotto sotto, è tutto ciò che quest’album
cerca.
6.8/10
Edoardo Bridda
Lo stato sociale - L’Italia peggiore
(Garrincha Dischi,2014)
Genere: cantautori, indie, post-punk, spokenword_
A due anni dall’esordio Turisti della democrazia, che tra entusiasti e detrattori si guadagnò
una visibilità piuttosto consistente, ecco arrivare l’atteso sophomore de Lo stato sociale.
Sulla carta questo L’Italia peggiore potrebbe
fare anche meglio, almeno sul versante dell’airplay, rilanciando difatti la capacità della band
bolognese di azzeccare situazioni intriganti a
pronta presa. La formula è la stessa, sloganistica, arguta/acuta, servita su basi pop variegate,
si tratti ora d’un post-punk elettrizzato e sintetico, ora di reggae/ska plastificato o ancora di
electro-dance grossolana colta al crocicchio di
sparsi azzardi hip-hop.
Questa esuberanza stilistica sembra mirare
proprio all’indistinto musicale, come se l’aspetto sonoro della faccenda non fosse che il
reagente del principio attivo rappresentato dai
testi, ai quali spetta il compito di fustigare usi
e costumi (anche e soprattutto mentali) di un
(bel)Paese in balia della turbo-modernità. In
un certo senso è l’altra faccia della medaglia
Vasco Brondi o una declinazione meno adrenalinica de I Cani, rispetto ai quali la differenza principale è che l’epos resta sullo sfondo,
residuo fisso di un processo sì cannibalistica-
g i u g n o
r e c e n s i o n i
reading
mente emo(tivo) però vieppiù satirico, quando
non soltanto umoristico e comunque quasi
sempre divertente.
Pur ammettendo che questo ambito possa
rappresentare un limite fisiologico, va detto
che ai ragazzi non manca il talento: si ascolti
C’eravamo tanto sbagliati, sorta di Cosa sarà 2.0
corroborata da sdegno sfanculante Zen Circus,
oppure quella La rivoluzione non passerà in
TV che dietro la parafrasi dell’immarcescibile
assunto di Gil Scott-Heron cela una mitragliatrice di sentenze adesive (“l’inferno è il
paradiso prima che venga la gente“), mentre
Io, te e Carlo Marx azzecca l’equilibrio ideale
tra leggerezza strutturale e risvolto amaro (“lui
muore schiacciato dalle lamiere e non puoi
farci niente/ forse è per questo che continui a
cantare o a fare il deficiente“). In Questo è un
grande Paese poi il metodo viene spinto al limite, coinvolgendo la strana accoppiata PiottaMax Collini per un cortocircuito tra coatto
paraculo e sarcasmo disarmante che surfa sulla
spuma del trash, per inoculare lucidità neuronale all’auditorio: missione sostanzialmente compiuta, anche al netto del retrogusto di
paraculaggine.
La svaccata però è sempre in agguato, basta
poco per scivolare nel grossolano, vedi la latineria rock di In due è amore, in tre è una festa
(come un Paolo Zanardi depotenziato Pieraccioni) o Instant Classic con le sue scenette
anti-selfie snocciolate da Caterina Guzzanti
(vago effetto da Elio e le Storie Tese androidi). Altrove – peggio – si scivola nell’insulso,
come capita al reggaettino serafico di L’amore
non è una cosa seria (dalle parti del radiofonico astuto/ricercato, roba che potrebbe cantare
pure un’Arisa) ed al perculamento del romanticismo sgrammaticato vascorossista in Te per
canzone scritto ho. Su questi binari il gioco
perde efficacia, ha poca speranza di lasciare segni profondi e rischia di esaurire il potenziale
131
g i u g n o
Stefano Solventi
Lone - Reality Testing (R and S
Records,2014)
Genere: house, hiphop
Il nostro Gabriele Marino, a proposito di Galaxy Garden, precedente album di Lone, parlava di automatismi generalizzati, di isolate
stoccate di qualità all’interno di un contesto fin
troppo omogeneo tra beats e richiami melodici. Stessa cosa può dirsi per Reality Testing. Se
possibile, però, le intuizioni degne di nota sono
ancora meno.
Il disco si apre con Restless City, house ruvida
dal gusto Roulé-Crydamoure, ricordo sbiadito
degli antenati di Chicago e New York, ma comunque apprezzabile indicazione della direzione sporca e lo-fi seguita dal produttore di
Nottingham. Gli stilemi house dell’incipit, dice
lo stesso autore, si mescolano a quelli hip-hop,
sia per impostazione grezza, sia – aggiungiamo noi – per anonimità tendente muzak. Da
132
una parte quindi i numeri da club, risultati di
anni di oneste produzioni, ma che delineano
una parabola creativa vicina alla saturazione.
Si battono territori piano-house (Aurora Northern Quarter, Vengeance Video), si apre alla
pista più convenzionale con brass-synth digitali (Airglow Fires, Coincidences) per tornare
alla sporcizia in cassa dritta (Begin To Begin).
Poi i beats, poco convincenti come le tracce
pensate per il dancefloor, e che ugualmente a
queste non riescono ad invertire il senso di un
discorso fondato su basi troppo fragili, su trick
giocati sempre alla stessa maniera. Le atmosfere ovattate, i vocalizzi e gli arpeggi di Cutched
Under, per quanto cerchino di uscire dal segnale piatto delle collaudate linee sintetiche in
salsa west-coast (2 Is 8, Meeker Warm Energy,
Jaded), assomigliano troppo ad un altro colpo a
sparato a vuoto.
Per Reality Testing non può valere nemmeno il
cliché del buon artigianato. Sostanziale mancanza di idee, accompagnata da una produzione tutto sommato prevedibile.
5/10
Elia Galli
Luke Abbott - Wysing Forest (Border
Community,2014)
Genere: techno, idm
Dopo il collega James Holden, anche Luke
Abbott chiude il cerchio e pubblica il secondo
album, quattro anni dopo l’esordio. Se per il
fondatore di Border Community The Inheritors aveva segnato la secca deviazione dalle
microframmentazioni dancefloor verso ibridi
broken-electro, il passaggio da Holkham Drones a Wysing Forest non è cambio di segno
così radicale. Si riconoscono ancora le venature
tipiche di una matrice kraut-techno mai messa
da parte, ma questa volta i protagonisti sono i
giochi armonici di sintesi modulare. C’è ancora
spazio per la materia da club, ma è nascosta tra
r e c e n s i o n i
nel giro di pochissimi ascolti. Non è un difetto
da poco.
Se l’intenzione era insediarsi su una linea di
confine che permettesse al quintetto di galleggiare a piacimento tra gravità pseudo-cantautorale e cazzonismo sferzante, tirate le somme
non è andata benissimo. L’impressione è che
manchi un po’ di consistenza del vissuto, un
senso preciso di coinvolgimento, provenienza
e appartenenza rispetto a ciò di cui si parla.
C’è come una febbre di narrazione che soffoca
l’incisività del narrato (vedi come Linea 30 fa
ricalcomania Offlaga sterilizzando così il quid
drammatico ), del resto ben noto effetto collaterale – con tendenza a cronicizzarsi – della
logorrea blogger/social. In questo senso, val
bene chiudere il cerchio su un modello di riferimento come Rino Gaetano, per rimarcarne
però la distanza.
6/10
Elia Galli
Metrist - The People Without
(Resin,2014)
r e c e n s i o n i
definisce in maniera univoca il suo concetto di
techno. Nella musica del produttore di Cambridge, pensata quasi esclusivamente per la
pista, convergono i ricordi drum’n’bass degli
ascolti giovanili e le inflessioni più abrasive dei
magisteri detroitiani.
Doorman In Formant è uno sfregio in overdrive, sono schegge rave che si piantano sulle
drum machine spezzate (Third Law, Leviathanks) e sulla cassa dritta (Lofstrom). Una produzione scarna, diretta, essenziale. C’è Detroit,
dicevamo, non tanto a livello stilistico, quanto
piuttosto a livello ideale: la rivincita dell’uomo
sulla macchina. Abbiamo chiesto a Metrist da
dove venisse la sua musica, che cosa ci fosse
dietro, e ci ha risposto: “rappresento la reazione
techno alla recessione economica”. In questo
senso, quindi, si svela l’immagine elettronica
di un post-industrialismo umanizzato, di un
mondo ideale dove il rapporto di forza bracciacomputer è finalmente invertito (6.5/10).
The People Without, rilasciato da Resin – neonata etichetta londinese, già indirizzata verso
territori molto simili a quelli segnati da questi
lavori – è l’effettivo compimento delle intenzioni delineate con il disco precedente. Le
ritmiche break, ancora sporcate dalla polvere,
ancora tagliate dai sintetizzatori distorti, restituiscono tre tracce (Letch, Symphony For The
Palpitation, Cowlick) che sono take allo stesso
tempo più maturi e più autentici rispetto ai
numeri di Doorman In Formant. Poi, in chiusura, le kickdrum a battito regolare di Stanza For
The Weak, corsa galoppante sotto una pioggia
di scaglie sintetiche, infinito rettilineo techno
verso l’utopia dell’emancipazione dalla catena
di montaggio (7.0/10).
-1/10
g i u g n o
le malinconie sfumate ambient delle campagne
inglesi.
È da Cambridge, dalle desolazioni rurali del
Wysing Arts Centre che ha ospitato Abbott per
due settimane di residency, che nasce questo
disco. Quadretti bucolici (Two Degrees), escursioni analogiche (Tree Spirit), spleen di sintetizzatori e ritmiche sbilenche (The Balance Of
Power), Wysing Forest sembra la conseguenza
di un gusto ormai lontano dalle traxx, e più
vicino alle costruzioni immaginifiche di filtri
e oscillatori. Poi, dalla nebbia, emergono cose
come Free Migration, che tornano ai quattro
quarti sul velluto, con arpeggi e laser sintetici
a fare da cornice. Oppure Highrise, sensazione
trance di schegge impazzite sopra un tappeto
di delay. Aperture alla pista che potrebbero
facilmente suonare fuori contesto, ma che qui
sono perfettamente innestate sull’onirico flusso
downtempo. Un flusso introdotto con i 12 minuti di Amphis, secondo numero in tracklist,
compendio essenziale sul quale si basano le
forme soniche di tutto il lavoro. Improvvisazioni modulari e drum machine sincopate, esplorazioni sonore alla maniera kraut di Conrad
Schnitzler, manifesto utopico del nuovo corso.
Non dimentica le sue origini, Luke Abbott,
e non tenta nemmeno la difficile operazione
di ribaltamento totale di prospettiva rispetto
ad una discografia fino ad oggi impeccabile.
Wysing Forest riesce però a disegnare morbidi
elementi di rottura, inediti scenari electro-pastorali che confermano la qualità delle visioni di uno degli impulsi elettronici più vivaci
dell’ultima decade.
7.2/10
Elia Galli
Genere: techno
Attivo già da un paio d’anni, nel 2014 Metrist
133
g i u g n o
Nagel - Seven Songs For A Disaster
(Trovarobato Parade,2014)
Genere: post-punk, electro
Elettroclash e DIY cazzeggiometrico ed epicureo delimitano i bagordi dei Mitici Gorgi. Progetto che nasce fra Siena e Roma nel 2007, ma
solo quattro anni fa trova spazio nel circuito
indie con I demoni ½ uscito per la loro Millessei dischi fondata proprio in quegli anni. Puro
ritmo tardo sovietico (Musicalmente scarse,
Mungila, Boja) tra Dirty Projectors e CCCP,
pezzi dove non si capisce chi tiene la barra
dritta (Campacavallo, Tpoz, Piazza cretina),
potpourri grime (La sirenata, I Need the Wany)
e post punk congenito/dreamy (Il dadarock,
The Waiting Song) servono a chiarire che basta
niente per divertirsi oggigiorno.
Bravi a trattenere un proprio strutturalismo
nella gincana elettro punk svigorita, se la tirano
un po’ citando Skiantos, ben sapendo di andarvi oltre, senza staccare il culo dal proprio muretto a bere birra in comitiva. Oltre, nel senso
formale del termine, non sostanziale. Questa si
chiama attitudine. Cosa aggiunge In the Gorgi
Show, loro reale disco d’esordio? Tanta altra
attitudine! Maggiore assurdità imprigiona una
luce più glauca sui brani, un po’ remake del
demo di quattro anni fa, un po’ inediti. Senza
arrivare a citare “i cacai nelle cacaiete…” di
Ionesco, l’atteggiamento, pur nell’effimero e
incompiuto percorso artistico, inizia ad essere
quello, anche se in una versione fake-virale, e
non può non far piacere, soprattuto se, come
crediamo di aver capito, si ricerca un approccio
teatrale quanto più durevole all’azione scenica
(Chin chon, Venerdì film, Zenzero).
I Mitici Gorgi sanno rivolgersi ai generi con
vigorosa personalità, mostrandosi un buon
antidoto al penoso revival imperante che vuole
tutto dentro e niente fuori.
7/10
Genere: elettronica, contemporanea
Ambienti diluiti, ma senza cromia; ambienti
differiti, cooptati nelle colpe-espiazioni date
dal tempo perduto (la bellissima Three Days
Without), dai disastri che allontanano l’uomo
dalla natura; ambienti elettrostaticamente
lugubri, jazz, ipertensione, hard e hardcore,
ancora spazi screzianti e gonfianti (Spit It Out).
Esordio stiloso, quello di Nagel, duo composto
da Alberto Fiori e Francesco Guerri dietro il
marchio di Trovarovato, che colloca il progetto
nella collana Parade.
In realtà, in press sheet, lo si definisce un “solista bicefalo”, a detrimento di quanti potrebbero
pensare a due equidistanze. In questo debutto,
poco lineare, c’è una sostanza che attesta tenacemente le abilità del bicefalo più che una sua
brama espressiva. Prendiamo Open City, in cui
il violoncello graffia una nemesi grind per poi
svelarsi flessibile, acquoso, meditabondo. Dove
vuole andare a parare? Qui c’è sì molta classe,
ma poco discernimento e la tecnica finisce per
troppo prevalere. Meglio il finale che tratteggia
un destrutturato, uno sciogliersi preterintenzionale. Deep into: qui si passa oltre e attraverso la musica. Oltre un accademismo certo, ma
attraverso un camerismo ingentilito (come nella secca apocalittica di It Started In a Finger)
che non taglia mai, preferendo forme oblunghe
o la neoclassica sponda ambient (But First) giro
Erased tapes, che amoreggia con europeistico
jazz d’avanguardia (Nails).
Quello che invece fa fenomeno è la duttilità del
duo di cambiare spesso leitmotiv all’interno
dei sette episodi, da un registro-sezione ad un
cambio di timbri senza disdire un disegno che
tuttavia non si palesa emotivamente, nemmeno
nella sua prescienza di matrice teutonica.
6.5/10
Christian Panzano
Christian Panzano
134
r e c e n s i o n i
Mitici Gorgi - In The Gorgi Show
(Millesei,2014)
Genere: pop, rock, indie
Appena nati, già spaccano in quattro il capello di un indie pop accattivante ed energico.
I Nothing For Breakfast sono un quartetto
fiorentino col vizio del post-punk anni Ottanta
visto attraverso la lente del revival anni Zero,
vedi la grinta giocosa quasi Franz Ferdinand
di episodi come Yes, It’s Ok e Mrs Queen.
Malgrado il cantante e chitarrista (Jonathan
Shackelford) denunci origini americane, l’imprinting sonico è chiaramente britannico, col
gioco nervosetto delle chitarre a tessere intrecci effervescenti sempre però al servizio di una
vena melodica marcata (Pretty Girl), un po’
come dei cuginetti arguti degli A Toys Orchestra.
Malgrado la cifra accomodante e a tratti innocua, hanno il merito di non suonare banali, anzi
condiscono il piatto con humour, dinamismo e
modulazioni melodiche da band navigata. Un
ottimo biglietto da visita.
7.2/10
Stefano Solventi
Odonis Odonis - Hard Boiled soft Boiled
(Buzz Records,2014)
Genere: shoegaze, industrial
Hard Boiled Soft Boiled è il secondo disco degli Odonis Odonis, un lavoro in realtà
abbastanza tribolato. La storia è semplice ed è
questa: eccezion fatta per New Obsession, tutti
i brani del disco erano stati scritti nel 2009, ancor prima del debutto Hollandaze, e avrebbero
dovuto vedere luce nel 2012 per Fat Cat. Poi, la
freddezza dell’etichetta canadese ha costretto Dean Tzenos ha rivedere i propri piani e a
posticipare l’uscita in questo 2014, trovando la
sponda buona con Buzz records.
A complicare ulteriormente le cose c’è anche
il fatto che Hard Boiled Soft Boiled è disco
spaccato a metà, come dimostrano i due singoli Angus Mountain e Order in the Court. C’è,
per l’appunto, un lato hard boiled che conferma l’approccio lo-fi e l’aggressività industrial
gaze del leader Dean Tzenos, e uno soft boiled
leggermente predominante, in cui è di casa uno
shoegaze dream pop armato di malinconia.
Insomma, sarà per la gestazione particolare o
per questa scelta compromissoria di dividersi
in due anime, ma l’abum, pur producendo una
buona tracklist, è interlocutorio.
Le cose migliori arrivano subito, quando la
mano industrial è più pesante e le velocità più
elevate, mentre gira più stanca la sezione dream gaze, in cui si alternano episodi di buon pop
80s (Highnote e Angus Mountain) con inutilità
sul modello Transmission From the Moon, e in
questo senso poteva far comodo continuare a
flirtare la corrente surf che aveva dato vivacità
e originalità al debutto. Si giunge così alla conclusione che Hard Boiled Soft Boiled torni
utile per ampliare le schiere di fan (qualche
cuore gaze poppettaro cadrà sicuramente nella
rete) ma rappresenti un passettino indietro per
la band canadese.
67/10
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Nothing For Breakfast - Nothing IIII
Breakfast EP (Autoprodotto,2014)
Stefano Gaz
Pierre Ferrante - You, Babe
(Pippolamusic,2014)
Genere: cantautori, dream, folk
Uno dei difetti più comuni riscontrabili nella
fiumana di nuove proposte è la mancanza di
peculiarità, tanto dal punto di vista dei suoni
che – soprattutto – dell’interpretazione canora.
Di ottime idee melodiche e armoniche supportate da una buona preparazione tecnica ne
capitano abbastanza spesso, moltissime delle
quali però svalutate da una voce canonica, persino in possesso di buoni requisiti ma incapace
di oltrepassare gli steccati del già tracciato in
ambito rock, pop, folk eccetera. Una voce che
135
g i u g n o
136
momento il consiglio è: scopritelo.
7.1/10
Stefano Solventi
Pipers - Juliet Grove
(Pippolamusic,2014)
Genere: pop, brit, indie
Quando è stato pubblicato – lo scorso gennaio
– non ci abbiamo fatto caso. Colpa nostra, però
va detto che non è facile prendere atto di ogni
titolo in un mercato discografico tanto smagrito nelle risorse quanto affollato di uscite. Del
resto ci eravamo perduti anche il predecessore,
quel No One But Us che nel 2010 segnò il debutto dei Pipers. All’epoca il trio napoletano già
dimostrava un’attitudine indie pop ben strutturata, che difatti non mancò di meritarsi plausi e
attenzione in giro per l’Europa, nonché il ruolo
di opening band per calibri come Charlatans,
Turin Brakes e Ian Brown.
Il qui presente Juliet Grove prende il titolo da
una via di Wolverhampton, città dove i Nostri hanno soggiornato per le incisioni sotto la
supervisione del producer Gavin Monaghan
(Editors, Ocean Colour Scene, Paolo Nutini), che ha smistato gli ingredienti (oltre le
chitarre ci sono pianoforte, violini, mellotron,
armonica, vibrafono…) ottenendo una trama
sonora assieme accorta e generosa. Il risultato
è già apprezzabile per gli standard british, ma
diventa notevole se proiettato sullo scenario
nostrano.
E non perché i tre ragazzi s’inventino chissà
cosa, ma per la naturalezza con cui sciorinano ballate morbide o intriganti, denunciando
ascendenze dreamy che nobilitano l’approccio
NAM (il languore ricercato Left Banke di Just
A Lie, i miraggi Mojave 3/Clientele di Ask
Me For A Cigarette), senza però disdegnare
aperture emotive Elliott Smith (tra risvolti rag
agrodolci di What I Mean To Say), digressioni
cinematiche (le pennellate mariachi tra brume
r e c e n s i o n i
insomma sia QUELLA voce e non altre. Con
quella cosa precisa che gli rode in petto.
Ecco, nel caso di Pierre Ferrante invece si va
parecchio vicino all’inconfondibile. Il suo è
un timbro da chansonnier soul inciampato sul
vialetto ghiaioso della bossanova sotto le stelle
di un jazz friabile, più esausto che languido, in
bilico tra il querulo e lo sfrangiato, comunque
sempre abbastanza vitale e nervoso da non farti
abbassare la guardia. Non è la sola (gustosa)
stranezza nella faretra di questo cantautore
autarchico (all’anagrafe noto come Pietro Zazzarini). Le dieci tracce del qui presente You,
Babe – secondo album dopo l’esordio autoprodotto Annabelle di pochi mesi fa – smagliano
trame bossa e soul alla luce di un folk frugale,
cantato perlopiù in inglese (a dispetto dei titoli
spesso in italiano o francese) ed inciso in perfetto stile DIY a casa propria (voce e chitarra),
ma questa sobrietà strutturale non impedisce
l’innesco di situazioni affascinanti.
Vedi la title-track, col testo in francese e gli
sfasamenti assieme garbati ed enigmatici
come un Fabio Concato posseduto da John
Martyn, oppure quella specie di Nick Drake
con licenza di svariare gospel de Il profumo,
o ancora il Jeff Buckely ipnotizzato Vincent
Gallo di Non piangere, per non dire di Ehi, tu
– unico pezzo in italiano – che stiepidisce un
afflato soul Enzo Avitabile tra quarti di nobiltà malinconica Buckley (stavolta però Tim).
C’è posto anche per qualche azzardo, come la
fugace trasfigurazione electro/hip hop in Jodie
o il trapasso macchinoso tra strofe e chorus di
Ora..è, pezzo segmentato fino alla forzatura
eppure ugualmente suggestivo.
Un lavoro notevole, quindi, al di là della sensazione d’insolito o – se preferite – dell’aura cult.
Resta da capire quanto questa calligrafia possa
ambire a dimensione più nitide e compiute, o
semmai reiterare se stessa in questo godibile
limbo di piccoli budget e bassa fedeltà. Per il
desertiche di Outside Your Back Door) e contagi 80s (gli Echo and The Bunnymen pastello
di You and Me, il ritornello quasi Level 42 di
Something Wrong). Soprattutto, sembrano
riempirle di qualcosa di sentito, di vivo. Indie
pop sì, ma col piglio di chi ci si aggrappa come
ad una componente essenziale dello stare al
mondo. Questo, più di tutto il resto, fa la differenza.
7/10
Stefano Solventi
Genere: rock, kraut
L’occasione di questo Live3 è ottima per recuperare anche l’album “genitore” Cube, uscito
per Brigadisco, FromScratch e un’altra manciata di ottime label italiane qualche mese addietro e colpevolmente passato sotto silenzio da
queste parti. Album genitore dicevamo, perché
questo Live3 ne è la versione, anzi la visione,
live con una serie di aggiustamenti di tiro e sistemazioni di rotta che, paradossalmente, ce lo
fanno preferire. In Cube la materia noise-rock/
math-rock che sta alla base del progetto sin
dai primi vagiti – Kimidanzeigen e l’omonimo
esordio – viene ammantata da forti tinte kraute, dilatata e reiterata come d’ordinanza, resa
oblunga e “intrippante” sulle coordinate spacey
dei maestri tedeschi dei tempi che furono. Ma
a venire innervata nelle musiche chitarristiche
dei tre è anche una buona dose di “cassa dritta” alla maniera di certo p-funk dei tempi (la
seconda metà di Bombshell), che trasforma il
motorik in qualcosa di altro, così come altrove
a prendere il sopravvento è la kosmische materica a suon di wah wah seventies (Beacon) o
una idea krauta ringiovanita alla maniera – per
fare un nome – dei Moon Duo/Wooden Shjips,
tra rigidità e percussivismo atavico (Cube).
Strano a dirsi, ma il tutto sembra rimanere
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Plasma Expander - Live3 (Brigadisco
Records,2014)
sospeso in una sorta di stasi, che invece libera
tutto il suo potenziale “non consolatorio” nel
corrispettivo live. Sembrano emergere in una
materia ovviamente non dissimile – Beacon ed
Exploder provengono da Cube, mentre Hands
In Your Guts e Why Not dalla terra di mezzo
Kimidanzeigen; l’unica inedita è la conclusiva Otra Vez – slanci impro e aggressività
recuperate dal passato e dal proprio universo
di riferimento (Shellac o all’hard-rock mutato made in Bron Y Aur): il sound ne esce più
materico e roccioso, non perdendo in dilatazione krauta ma acquistando energia, tanto che
l’insieme risulta molto più vicino agli infuocati
live, appunto, della band. Territorio su cui
sempre più ci si conquista credibilità e rispetto.
Discorso a parte per la conclusiva, relativamente breve, Otra Vez: stato dell’arte e indizio di
ciò che sarà, la traccia – monotona, circolare,
shellacchiana nel suo incedere – sarà la pietra
di paragone su cui si baserà il prossimo lavoro
targato Plasma Expander: un album di remix a
cui parteciperanno, tra gli altri, Barry London
(Oneida), ZA!, Simon Balestrazzi, Luca Ciffo
(Fuzz Orchestra), Mattia Coletti, ecc.
7/10
Stefano Pifferi
Prins Thomas - Prins Thomas III (Full
Pupp,2014)
Genere: disco, spacey
Terzo capitolo formato album dell’opera del
Prins Thomas solista, rilasciato dall’etichetta
di casa Full Pupp. Il norvegese di Oslo – figura
di rilievo di quella scena space-disco che può
contare anche sulle teste di Hans-Peter Lindstrom, Diskjokke e Tood Terje, per citare i
più in vista – completa la sua personale trilogia
con un lavoro che rappresenta la solida conferma della sua cifra stilistica.
Un cocktail di disco-music, atmosfere spacey,
chillout ibizenchi e impostazioni chitarristiche
137
g i u g n o
Elia Galli
138
Röyksopp - Do It Again (Cherrytree
Records,2014)
Genere: pop, synthpop, elettronica
Robyn è la disco-diva svedese anni 2000: in un
possibile paragone con gli anni Settanta potrebbe essere Donna Summer, con gli anni ’90
Miss Kittin, mutatis mutandis, cioè senza la
sensualità della prima e senza le droghe della
seconda. I Röyksopp invece sono i re dell’indietronica anni Zero. Nel 2001, con Melody
A.M., hanno portato avanti un sentire glaciale e
slow che di lì in poi avrebbe influenzato tutta la
successiva decade synth-disco-pop. L’incontro
fra i due artisti era già avvenuto in varie collaborazioni sia da studio (The Girl and the Robot
su Junior e None of Dem da Body Talk) che dal
vivo, e la liaison sembra continuare a portare
frutti degni di nota.
Il nuovo disco – che è un EP con velleità da
album – riprende in maniera sopraffina i trucchi produttivi di Svein e Torbjørn, mescolando
il loro savoir faire con la voce della cantante
in un intreccio ben dosato, mai banale e godibilissimo sia per l’ascoltatore occasionale di
musica pop che per l’amante della softronica
nordica. La palette sonora spazia dal jazz slow
à la Morphine (l’estatica opener Monument)
alla techno progressiva con qualche ricordo
neanche troppo mascherato delle produzioni
di The Hacker (Sayit), dalla EDM-house da
stadio tipo Avicii (Do It Again farà sicuramente
il botto in America) all’electro pop bambolina
(Evey Little Thing), per chiudere con la malinconia ambient di uno Jori Hulkkonnen (Inside
the Idle Hour Club).
Insomma, un disco che non aggiunge molto
a quanto già detto dai due produttori e dalla
cantante, ma che si fa ascoltare anche in maniera ripetuta, se non altro per l’ottima capacità
di adattamento allo zeitgeist musicale contemporaneo dei due produttori, che usano la
voce di Robyn come un tool, lasciandole poche
r e c e n s i o n i
kraut d’ispirazione Michael Rother (Neu!).
Prima ancora degli insegnamenti di Bjorn
Torske, fulcro di tutta l’elettronica scandinava
di matrice dance dalla fine del secolo scorso
in poi, nei dischi di Prins Thomas si respira
il soffio minimale del Manuel Göttsching
(ex-Ash Ra Tempel) di E2-E4. Un minimalismo ipnotico di giochi di delay, echi armonici,
manipolazioni sonore fluide e graduali. Numeri che riescono anche a Thomas, non tanto
quando cerca di metterli in pratica sulla lunga
distanza (i 13 minuti di Luftspeiling, trascurabili), ma piuttosto quando concentra il tutto in
piccoli quadretti di chitarre in wah-wah e bassi
sintetici (Kavaler), oppure quando si improvvisano jam session virate funk con abuso di
effettistica (2000 Lysar Fra Morellveien). La
vena più disco, ma disco rigorosamente sui
100 bpm, si palesa nei tappeti di synth di Hans
Majestet, pezzo d’apertura, e nelle fascinazioni
mediorientali miste analogico di Arabisk Nutt
(Dub) e Kameloen. Sui 115 battiti, Trans: meticcio techno a cassa dritta, potenziale materia
da club, drum machine inflessibili sul fraseggio
sintetico. Meno marziali e più housey, invece,
i bleep di Labyrint e le ritmiche scomposte di
Apne Slusa.
In Prins Thomas III c’è quello che ci aspettavamo. Una miscela ben dosata di tutte le influenze di cui sopra, nata qualche anno fa come
free-form di marca balearica, e oggi auto-definita da confini che sembrano più circoscritti.
Cose comunque collaudate, che insieme alle
occasionali ricognizioni verso terreni meno
esplorati in passato, siglano un disco di buon
pregio.
6.8/10
aperture e costruendo una macchina tech quasi
senz’anima, glaciale e motorik. Una riconferma, quindi, ma senza il botto.
6.7/10
Marco Braggion
Genere: cantautori
Cosa farcene della nostra cara canzone popolar leggera, con quei bei declamati di seguitata
lode? E di mezzo secolo e oltre di musica che
ha, a ragion veduta, unito – nel conformismo? –
dove niente e nessuno mai, una nazione divisa
tra contado e macchine a vapore? Chiedetelo
pure a Mirco Mariani che nell’impresa denominata Shaloma locomotiva porta con sé
questo vulnus d’incisi e frattaglie, stile 45 giri
rotto e reincollato col nastro adesivo. Saluti da
Saturno è il progetto flexible-lunare che già
col lavoro precedente, Dancing Polonia, aveva
dato di che pensare: estetica hipster e allure da
pianobar, appeso fra cispose stradine di piccole
città. La particolarità del progetto dalle braccia
aperte, sta nella fugacità dei testi e nella ricerca elettroacustica: l’optigan, il cristallarmonio,
l’ondes Martenot, il transicord sono cose di
casa di questa sperimentazione che scandaglia
in un’aura di armonici.
Ma non c’è solo il Tajoli di Tango delle capinere, il Reverberi orchestrale cantato da Gino
Paoli in Sassi, il Casadei di Romagna mia e Ciao
mare, il Battisti di Io vorrei non vorrei ma se
vuoi; c’è la Cuba vista con gli occhi spagnoli
di Sebastian Iradier nella disincantata Paloma
Azul o quella di Jose Marti de La rosa bianca,
sua poesia musicata da Sergio Endrigo, pure
questo’ultimo omaggiato con una splendida
versione di Io che amo solo te. Dove certi master indugiavano in cortesie, languidi western e
moralità (demo)cristiana, il gruppo romagnolo
usa una veste pop dal tiro sognante: dove è il
Christian Panzano
Sam Smith - In the Lonely Hour
(Capitol,2014)
Genere: pop, mainstream, soul
La recente parabola artistica di Sam Smith
non lascia dubbi su quello che sarà l’impatto
del suo album di debutto In the Lonely Hour
nelle classifiche di mezzo mondo, specie in
un periodo storico in cui si sono (quasi) rotte
definitivamente le barriere tra USA e UK, come
dimostrano i recenti successi oltreoceano di
Arctic Monkeys, Bastille, Ellie Goulding,
Passenger e 1975.
Classe 1992, originario del Cambridgeshire,
Sam Smith sviluppa presto una passione per
il canto che in breve tempo diventa un vero
e proprio progetto di vita appoggiato da una
– agiata – situazione familiare che nel 2009
vide la madre coinvolta in un microscandalo,
accusata dai datori di lavoro di dedicare troppo
tempo alla nascente carriera artistica del figlio
– all’epoca sedicenne – Sam. Lontano cugino
di Lily Allen, Sam inizia ad essere oggetto di
importanti attenzioni mediatiche a cavallo tra
il 2012 e il 2013 come protagonista vocale di
due dei brani più trasmessi nelle radio inglesi
(e non solo) in quel periodo: Latch, il singolobomba che ha lanciato la carriera dei Disclosure e la numero uno La La La di Naughty Boy.
Un timbro che indubbiamente colpisce (forte
di un falsetto piuttosto riconoscibile) e le giuste
collaborazioni hanno permesso al ragazzone
inglese di imporsi su larga scala, portandosi a
casa i due premi più in vista a cui un newcomer
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Saluti da Saturno - Shaloma Locomotiva
(Labotron,2014)
ballabile rivierasco ad essere onorato, ecco che
viene in orario martoriato di lievi rumorismi,
quasi a indicare il transito previsto di una locomotiva del tempo. Come a dire “nulla si crea,
nulla si distrugge, tutto si trasforma” senza che
Lovoisier se la prenda a male.
6.8/10
139
g i u g n o
140
foniche poco in linea con il mood generale del
disco (Like I Can), abbassano ulteriormente il
livello di un lavoro che raramente respira contemporaneità e che quando lo fa fatica a decollare (Life Support).
Era lecito aspettarsi molto di più da Sam
Smith ed invece abbiamo tra le mani un disco
che prenderà polvere non nei negozi, ma tra
gli scaffali degli acquirenti meno smaliziati, di
fianco a vecchi CD di Celine Dion e Michael
Bolton.
4.7/10
Riccardo Zagaglia
Sick Tamburo - Senza Vergogna (La
Tempesta Dischi,2014)
Genere: cantautori, rock, electro
Dopo due dischi, un EP e l’esperienza Hardcore Tamburo, i Sick Tamburo (al secolo Gian
Maria Accusani ed Elisabetta Imelio, 2/3 dei fu
Prozac +) tornano con Senza Vergogna, disco
che –pur senza discostarsi del tutto nel suono
e nella poetica dai precedenti lavori– aggiunge
nuove coordinate al percorso del duo di Pordenone.
Se resta forte l’impronta di un rock sporcato di
elettronica e sferzate punk, le novità arrivano
tutte dalla ricerca di una dimensione più autoriale, oltre che da maggiori concessioni alla
melodia, come già lasciava presagire il precedente A.I.U.T.O. (La Tempesta, 2011). In questo
senso, appare non secondaria la scelta di affidare alla sola voce di Accusani l’intera scaletta.
I testi, come detto, segnano un deciso passo
verso una direzione quasi cantautorale, andando a formare acquarelli –dalle tinte ora forti e
crude ora tenui e delicate– capaci di raccontare
storie di disagio ed emarginazione (L’uomo
magro, una delle migliori del lotto) come di
tratteggiare improvvisi slanci sentimentali (la
dissonante Niente ti dipinge di blue, che sembra a tratti –e inaspettatamente– rimandare,
r e c e n s i o n i
dalle velleità mainstream possa puntare: il BBC
Sound Of (2014) e il Critics’ Choice Award ai
BRIT.
Un predestinato insomma. Ma oltre alla voce,
ai premi e ai numeri, c’è la sostanza? Nonostante alcuni segnali incoraggianti (vedi la live
cover di Berlin di RY X) è evidente come Sam
Smith sia oggi un mero prodotto discografico
al servizio di mamma Capitol, svuotato di quegli agganci alla club-culture che ce lo hanno
fatto conoscere (e apprezzare). Un percorso
che ricorda da vicino quello di Emeli Sandè,
tanto promettente nei singoli Heaven o Never
Be Your Woman in feat. con Wiley quanto piatta e conformista in formato album.
I discografici di Sam Smith sanno benissimo
che in terra d’Albione i singoli dancey spopolano come non mai, ma per fare grossi introiti
con gli album ci vuole un certo classicismo ed
un focus incentrato sulla voce. A differenza
però del più grande bestseller di questo secolo
(21 di Adele) dove eleganza e sfoggio vocale
erano ben equilibrate dall’intelligente songwriting e da un ottimo gusto melodico, nel debutto
In the Lonely Hour a trionfare è una patina
pop-soul figlia di noiose dimostrazioni canore
e di scelte stilistiche che potremmo definire
tutto tranne che coraggiose, oltre che di melodie non sempre vincenti.
Realizzato con l’aiuto di più co-autori e produttori (Jimmy Napes, Steve Fitzmaurice, Fraser T
Smith), In the Lonely Hour – escluso il singolo Money On My Mind dal retaggio breakbeat
– è un tripudio di melodrammi sentimentali
da mano sul cuore infranto (Leave your Lover)
che si muovono su apatiche coordinate prive di
spunti d’interesse, ancorate alla tradizione soul
meno genuina e meno graffiante. Inoltre tra le
dieci tracce del disco troviamo alcuni arrangiamenti pacchiani che speravamo di non dovere
più ascoltare nel 2014 (I’ve Told You Know) e
che, a braccetto con sfacciate aperture radio-
Enrica Selvini
Sybiann - Spore (Shit music for shit
people,2013)
Genere: psych, post-punk, elettronica
Già dal primo, omonimo, disco, ci schierammo
apertamente a favore dei Sybiann. Allora si
parlava di un cantiere aperto, in cui post punk
e psichedelia mantecavano passioni nemmeno
troppo velate per certe devianze in zona Animal Collective, Liars e Oneida. Eppure in
quell’album la mescolanza di input nascondeva
una “luccicanza” inedita, istintuale ma anche
r e c e n s i o n i
efficiente, caotica ma sostanziosa, sintomo di
un carattere tutt’altro che domo e di un suono
decisamente flessibile.
A tre anni di distanza, la band di Cesena torna
con un Spore fatto e finito. Il disco aggiusta il
tiro, scoprendo come le istanze psichedeliche
del passato possano accucciarsi comodamente
su un taglio elettronico sui generis, in cui inquieti scenari carpenteriani vadano a braccetto
con afro beat synthetico (Vortice), italo-disco
con ascendenze post-punk-wave (Gyilli Drugs),
misture Daft Punk da favela post-atomica in
salsa trance (Pangea Ultima), rigurgiti dreamypsych (Sambarama) e avvolgenti liquidità
krautrock tra Moroder e 1997 Fuga da New
York (Spore). Il cavallo di Troia per i magazine
dance è il re-work di Baldelli sul brano Cosmic
Favela (contenuto nel 12” Lunar Solar, assieme a riletture ad opera di Danny Benedettini e
Matta Pyramid), ma in realtà il secondo album
dei Sybiann è materia meno “di settore” di quel
che sembra. Attraversa invece trasversalmente
un terreno drenante almeno quanto lo era quello del primo album della band, con le dovute
differenze stilistiche e di approccio ma con la
stessa convinzione.
7.2/10
g i u g n o
come la conclusiva e notevolissima Pensiero,
alle Desert Sessions di Josh Homme).
L’impressione è di trovarsi di fronte al lavoro
più intimo, personale e sentito della creatura di
Gian Maria Accusani, che si riconferma come
uno degli autori più peculiari, efficaci e – forse
– sottovalutati della sua generazione, capace
di mantenere viva nel tempo la propria poetica, arricchendola con nuove sfumature senza
cadere mai nell’autoreferenzialità.
A confermare questa tesi il primo singolo estratto Il fiore per te, piccola gemma di
pop deviato, e la opening track Qualche volta
anch’io sorrido, dall’incedere marziale ed incalzante.
Impossibile poi non sentire echi dei Prozac +
in pezzi come l’ottima Ho bisogno di parlarti e
nelle rasoiate punk-rock di Quando bevo, che
pur rimandando chiaramente all’ex progetto
del duo di Pordenone riescono comunque a
non scadere nel già sentito.
Un disco sincero, capace di suonare tanto disturbante quanto delicato, che se a tratti appare
forse un po’ monocorde a livello di soluzioni
sonore convince invece appieno dal punto di
vista lirico, regalandoci una band e un autore
che hanno ancora molto da dare, e da dire, nonostante gli anni di militanza musicale.
7/10
Fabrizio Zampighi
Sylvan Esso - Sylvan Esso
(Partisan,2014)
Genere: pop, folk
Un altro duo female-male (come di consueto,
lei al microfono e lui al reparto elettronico)
pronto ad invadere per qualche settimana le
pagine delle principali webzine? Sì, ma non
solo.
Si chiamano Sylvian Esso, hanno casa a
Durham, North Carolina ed una storia raccontare: Amelia Meath faceva parte del trio cappella-folk Mountain Man quando casualmente
incontrò Nick Sanborn aka Made of Oak e gli
141
g i u g n o
Riccardo Zagaglia
142
Teleman - Breakfast (Moshi
Moshi,2014)
Genere: pop, indie, folk
Non si sa quanti piangano o piangeranno per i
Pete and The Pirates (la questione dello split
è ancora irrisolta), indie rock band che negli
anni delle indie rock band spopolava con un
sound tutto tagliente, un po’ più sbilenco e art
del classico rock, ma decisamente canonico.
Quello che però avevamo notato fin dall’ultimo
disco della band, era che i Nostri ribollivano
di cambiamenti, che la sola Mr Understanding
non poteva bastare a cucirgli addosso il vestito che andavano cercando e che possedevano
un’ironia potenzialmente sfruttabile, nella sua
versatilità, in decine di sound più gratificanti.
La strada da seguire dunque era quella di azzerare tutto e magari cambiare anche il nome. E
magari prendersi il valigione delle esperienze,
quello delle aspettative e indossare quei caschetti da DEVO che in un’altra vita si sarebbero potuti chiamare Teleman. A dar loro una
grossa mano ha pensato un altro maestro delle
produzioni, quel Bernard Butler che nei Suede e in decine di registrazioni ha contribuito a
definire un certo tipo di suono recente. Absolutely British. La novità più evidente nell’album
d’esordio del nuovo progetto, Breakfast, è che
il genere si è trasformato in synth pop, come
degli Hot Chip lontani dal dancefloor, come
degli XX più smielati, come i Pink Floyd di
Barrett alle prese con la cameretta di Emily.
Forti dell’appoggio, oltre che di Butler (che fa
un lavoro encomiabile sui suoni), anche di gente come Franz Ferdinand (con cui condividono il piglio cazzone) e Maximo Park (con cui
hanno condiviso il palco), i Teleman stanno già
battezzando le emittenti radiofoniche inglesi. E
se lo meritano. Perché il songwriting minimale
paga nelle ninnananne romantiche come Cristina o Redhead Saturday, nelle orchestrine di
giocattoli vintage di In Your Fur e Travel Song,
r e c e n s i o n i
chiese di mettere mano a Play It Right, uno dei
brani da lei scritti e in lavorazione dopo l’album
d’esordio Made the Harbor. Entrambi furono
talmente soddisfatti del risultato (su YouTube
si trova l’originale versione targata Mountain
Man) che in poco tempo decisero di continuare
la collaborazione e di dare vita al progetto Sylvian Esso lavorando intensivamente nei mesi
successivi nella camera di Sanborn.
Il risultato è un dieci tracce che condensa il
retaggio folkish di Amelia con le intuizioni
elettroniche di Nick creando un microcosmo a
metà strada tra paesaggi bucolici e dimensioni
da alt-club: il contesto sonoro in cui si muovono è quello di un art pop amante degli intrecci
vocali e ritmici (Dirty Projectors) e delle
tentazioni “freak” folk di una Amelia che non
sfigurerebbe in un quartetto formato da Joanna
Newsom, Anais Mitchell e Woodpecker Wooliams, ora metà dei Becky Becky.
Sotto la coltre vagamente artistoide scorre
però un sangue digitale che è la vera colonna
vertebrale del progetto, come testimoniano i
cinque assi nella manica nell’omonimo album
di debutto: l’iniziale Hey Mami costruita su
layer vocali, minimali clap e su poderosi microdrops, l’orecchiabile Coffee in cui Sanborn
sfoggia una spiccata intelligenza compositiva
manipolando chopped beats e piccoli sample
ritmici, Dress tutta loop e cadenze quasi r'n'b,
H.S.K.T., perfetta per essere remixata in battuta
house/Uk Funky e la versione definitiva di Play
It Right non troppo distante da certe creazioni
targate Purity Ring.
In questi giorni spalla di tUnE-yArDs, i Sylvian Esso hanno messo le fondamenta per un
futuro che si spera essere più roseo di quello
di molti colleghi che hanno raccolto meno di
quanto seminato (Niki and The Dove).
6.8/10
o quando la band fa la voce grossa di synth in
Steam Train Girl o Monday Morning o regala piccoli instant classic come 23 Floors Up e
Skeleton Dance.
Sebbene neanche questo sia più il tempo del
synth pop minimale, dei ricami elettronici al
piccolo trotto, del lo-fi da cameretta, Breakfast
è – come consiglia lo stesso titolo – un piccolo
gioiello che si lascia ascoltare con occhi stropicciati e dita scricchiolanti, magari accanto al
giornale del mattino, col sole sulla fronte e una
tazza di caffè bollente a portata di mano.
7.1/10
Nino Ciglio
Genere: pop, indie, folk
Non deve essere facile per gli Antlers portarsi
sul groppone il peso di aver pubblicato uno dei
più toccanti concept-album a – recente – memoria d’uomo, ovvero Hospice. Un punto di
arrivo e di non ritorno che per Peter Silberman
ha voluto dire vedersi in un certo senso costretto a rivedere le proprie ambizioni da cameretta, trasportandole in un maxi-formato che,
volontariamente o meno, ha cambiato il corso
evolutivo di un progetto sempre più consapevole dei propri mezzi e della propria – meritata
– posizione privilegiata.
Se Hospice – seppur limitatamente agli addetti
ai lavori – fu il classico breakthrough album, è
facile individuare nel successivo Burst Apart
il primo – riuscito – step verso l’idea di musica che oggi scorre nelle menti di Silberman e
compagni. Un’idea che nel quinto album Familiars (via ANTI- eTransgressive Records) assume connotazioni precise, altere ed articolate
ma comunque confinate in spazi ben precisi
che poco concedono alla forma canzone, preferendo lasciar spazio ad atmosfere strumentali
spesso avvolgenti e dalle asperità smussate.
g i u g n o
r e c e n s i o n i
The Antlers - Familiars
(Transgressive,2014)
In questo senso, l’iniziale e meravigliosa Palace, per quanto non priva delle scelte stilistiche
approfondite in seguito, inganna. Palace è LA
canzone, in cui tutto sembra essere al posto
giusto: i fatati scintillii iniziali, i fiati – quantomeno commoventi, quasi funerei – che eseguono proprio quella melodia che ti aspetti, la strofa modellata sapientemente e quel sapore epico
che solo un cuore cinico non apprezzerebbe.
Dopo Palace, escludendo Parade, ci si avventura però in un percorso ben lontano dall’essere
il più semplice che la band potesse seguire: un
percorso che rifiuta le melodie di facile assimilazione – Silberman non le trova, ma forse
non le cerca neppure – dilatandosi attraverso
ulteriori otto lunghi morbidi passaggi in cui
ad emergere, oltre alla solita incredibile voce
di Peter, sono le alchimie dei suoi fidi alleati
Darby Cicci e Michael Lerner. Il primo, uscito lo scorso anno con un EP sotto il moniker
di School of Night, è l’encomiabile tuttofare,
grande protagonista per i – mai così presenti –
fiati e per il prezioso suono del Fender Rhodes;
il secondo si avvicina sempre più ad un drumming di stampo jazzistico, non solo a livello di
ritmi ma anche di settaggio.
Da queste tre componenti (fiati, Rhodes e batteria jazzy) nasce quello che è il fulcro stilistico
di un disco anticipato a distanza dall’evitabile
parentesi di (together) EP e dal più apprezzabile Undersea EP del 2012. Non tutto è perfetto, però: se in Doppelgänger l’effetto sorpresa
garantito dalle atmosfere spettrali (“Can you
hear me when I’m trapped behind the mirror“)
tra i Talk Talk del periodo post- e sinistre dinamiche cinematiche funziona e convince, successivamente la situazione tende ad appiattirsi
su eccessi di sofisticherie non sempre bilanciate da altrettanti appigli in grado di catturare l’ascolto. La linea di confine tra giusta ambizione
e passo più lungo della gamba è labile in brani
curatissimi quanto leggermente inconcludenti
143
come Intruders o Hotel, mentre – complice anche l’ottimo mixaggio di Chris Coady – escono
meglio la ballatona d’altri tempi Director - Jeff
Buckley dietro l’angolo – e la raffinata epopea
da jazz-bar Revisited.
Familiars è quindi un disco che si farà apprezzare più per la meticolosa trama compositiva
che per i singoli episodi che ne incentivano il
piacevole riascolto: da qui in avanti gli Antlers
dovranno dimostrare di sapere riconquistare
un applauso che sia sì fragoroso, ma anche
completamente spontaneo.
7/10
Riccardo Zagaglia
Genere: indie
Si può realizzare nel 2014 un album utilizzando come unica moneta di scambio il baratto?
La risposta ce la forniscono i campani The
Gentlemen’s Agreement, che per produrre
Apocalypse Town si sono serviti di questo fascinoso e romantico sistema. Registrato al Sud
Est Studio di Guagnano gratis in cambio della
ristrutturazione dello stesso – tutto fissato
nel documentario disponibile su YouTube – , i
gentiluomini si sono divertiti a sperimentare,
buttandosi a capofitto in una miscela di ritmi
africani e brasiliani ribattezzata a ragione psycho/industrial/samba.
Tra strumenti selfmade – Psycho Sitar e Mollofono su tutti – di sapore futurista che tanto
rimandano alle creature di Luigi Russolo e attrezzi di uso comune come trapani e lucidatrici, i Gentlemen’s Agreement costruiscono, mattone dopo mattone, il concept che sta alla base
di Apocalypse Town, ovvero quello dell’operaio senza nome, vero e proprio ingranaggio
umano della fabbrica in cui lavora, maestoso
Moloch adorato come divinità. Un’esistenza
144
Andrea Murgia
The Lay Llamas - Ostro (Rocket
Recordings,2014)
Genere: psych, drone, kraut, elettronica, afrobeat
Da subito – e giustamente – inseriti nel calderone della “psichedelia occulta italiana” – di
cui hanno dato prova di essere, però, mosche
bianche durante l’ottima, energica, prova live
nell’ultimo Thalassa – i Lay Llamas arrivano
all’esordio mostrando molte più screziature di
quante finora erano state considerate anche da
chi li segue dai primi passi in cassetta. Firmando con la Rocket, casa della bomba Goat e di un
immaginario psych ad ampio spettro (Gnod,
Teeth Of The Sea, Hills, Anthroprophh), la
band di Nicola Giunta e Gioele Valenti mette in
chiaro da subito di avere zero preconcetti verso
r e c e n s i o n i
g i u g n o
The Gentlemen’s Agreement
- Apocalypse Town (Subcava
Sonora,2014)
scandita dai ritmi della catena di montaggio,
da cui l’eroe infine riuscirà a scappare distruggendo il delicato equilibrio su cui si regge il
sistema fabbrica, quasi come il protagonista
del capolavoro di Terry Gilliam, Brazil, Sam
Lowry, a cui Apocalypse Town sembra legato
da un invisibile ma consistente fil rouge.
Un tourbillon di sonorità e ritmi dal e del
mondo, tra progressive-rock (Moloch, Come
l’acqua), sonorità quasi marinaresche (Il Milione) in odor di Vinicio Capossela, echi dei
Morphine di Mark Sandman (Mordi! Prendi!
Vivi!), samba (Rumore sui Rumori) e afrobeat
(Adeus); il tutto reso in maniera personalissima
e con l’idioma italiano sempre in primo piano,
grazie a testi mai scontati.
Custodito dal prezioso package realizzato ad
hoc dalla tipografia Resistenza Artigiana, Apocalypse Town è un lavoro brillante e variegato,
realizzato con cura sotto tutti i punti di vista
e che garantisce, per i 40 minuti scarsi della
sua durata, divertimento e piacevoli sorprese.
Disco della maturità.
7.2/10
r e c e n s i o n i
più grossi. L’ostro sta dunque spirando sempre
più forte e dall’estremità della penisola è maturo per invadere l’intera Europa.
7.5/10
Stefano Pifferi
The Roots - And Then You Shoot Your
Cousin (Def Jam Recordings,2014)
Genere: soul, funk
Esce su Def Jam, ancora una volta, l’undicesimo disco degli statunitensi The Roots, complesso “miliare” hip-hop, fondato nell’1987
dall’MC Black Thought e dal batterista/
producer ?uestlove. …And Then You Shoot
Your Cousin riprende in mano le sorti del
complesso per un concept album di pregio, ma
incostante. La partenza è riuscita: Theme From
The Middle of the Night di Nina Simone come
intro, poi Never (con il feat. di Patty Crash),
che ricordano tanto le sonorità angeliche del
Ghost Stories dei Coldplay quanto la malinconia delle produzioni di Adrian Younge per
Ghostface Killah su Twelve Reasons To Die.
La cifra stilistica rimane in superficie, si perde
e non lascia il segno. Ma è solo l’inizio, perché
di brani che valgono, nel disco, fortunatamente
ce ne sono.
Il passaggio a When The People Cheer è gratificante: con i feat. di Modesty Lican e Greg
Porn il livello si alza vertiginosamente, tanto
nella strumentale, che nel rap dietro al mic:
l’intro è affidata al piano – che nel disco ha un
ruolo portante – poi entra sul beat Greg Porn in
echo, col break di batteria a irrobustire la produzione; su Black Rock il discorso è diverso: al
mic c’è Dice Raw – che in passato (dal 1995 al
2001) ha militato nel gruppo – mentre il pezzo
scorre costruito sul sample psych-soul acido
della band funk omonima (il brano originale è
Yeah Yeah). Dice inizia fin da qui a primeggiare con disinvoltura disarmante, il che sarà una
costante del disco, spiazzando Black Thought,
g i u g n o
le contrapposizioni mainstream/underground
e di parlare un linguaggio – finalmente scioltosi in una forma più corposa – capace di essere
recepito da più ascoltatori, non dai soliti adepti
al culto della psych di cui sopra.
In Ostro i Nostri spingono molto sul versante ritmico, allargando sorprendentemente la
tavolozza di colori verso lande madchesteriane, in connubi tra pulsione elettronica e
sfarfallii psichici (We Are You), etno-dub e
flauti trascendenti (Desert Of Lost Souls), ma
mantenendo ben presente quell’immaginario
sfatto, onirico e sognante (la nenia Voices Call
che accompagna verso la chiusura dell’album a
furia di ritualismo ancestrale) di matrice etnopsych (Ancient People Of The Stars) diluito su
lande kraut dall’afflato ipnotico e groovey che
fa di questo esordio un ponte tra medioriente
e cosmo, riflusso ancestrale e slancio avant,
retro-futurismo e ucronie musicali capaci di
(ri)creare mondi (im)possibili.
C’è tanto Mediterraneo com’è giusto che sia,
essendo il duo originario della Sicilia, ma è un
Mediterraneo psichico, uno stato della mente
che si manifesta nello stesso modo in cui dai
citati Goat veniva “riletto” l’immaginario misterico-mitologico (in quel caso, posticcio) su
cui hanno basato molta della propria fortuna.
Pertanto sottoposto a trattamento energizzante
– il gamelan mantrico e ossessivamente postpunk di Archaic Revival – e provvisto di un
approccio da melting-pot globale – Fela Kuti,
gli Oneida, la kosmische, le poliritmie africane,
Madchester e moltissimo ancora – il suono,
l’atmosfera, l’immaginario “mediterraneo”
offerto in Ostro diviene una moderna forma
di psych metafisica e trascendentale, come un
sabba post-moderno in grado di inglobare e risputare fuori input e suggestioni. Dimostrando
come alcune tendenze dell’underground italiano non siano soltanto esportabili, ma possano
tranquillamente giocarsela alla pari con nomi
145
g i u g n o
146
diviene analisi metaforico-introspettiva delle
scelte esistenziali dell’essere umano. Questi
trentotto secondi andrebbero anche bene, se
fossero un caso isolato e non bissato più in là da
ancora un altro psuedo-skit strumentale, che
diviene l’emblema dell’album tutto. Dies Irae
con Michel Chion non solo non ha una propria
ragione compositiva, ma all’interno dell’album
fa intendere quali fossero le reali intenzioni
della band per il disco e quale sia stato invece
il fallimento fondamentale. Scopriamo dunque
che l’aspirazione mancata era di creare una
sorta di hip-hop classico contaminato di spirito
left-field. Un dialogo tra approcci, che sarebbe
anche una potenziale strada per il futuro, solo
che per ora un risultato soddisfacente è ancora
molto lontano, e anzi ci si ritrova tra le mani
un ibrido che non sa da che parte andare, che
spesso punta sul sicuro e quindi esce vittorioso, vedi i pezzi di cui sopra, o che si avventura
nell’ignoto senza bussola e senza convinzione,
ma con molta spocchia.
In The Coming (con la vocalità non esaltante
di Mercedes Martinez), si ripresenta il problema del fallimento nel conciliare classicità
e avanguardia: ritorna il piano come elemento
centrale della struttura del pezzo, nel mentre c’è
la dissoluzione delle vibrazioni soulfully in un
crescendo di dissonanze prog che nemmeno gli
Yes, e che per lo più infastidiscono. A ulteriore
conferma di una scarsa convinzione, ecco a fine
scaletta, i due brani con feat. di Raheem DeVaughn. Il moralismo degli intenti e la denuncia
pseudo-sociale si riflettono in un hip-hop privo
di pulsione vitale-motrice, assolutamente impersonale e stagnante, che puzza di anonimato.
The Unraveling decade su una partitura di piano
strappalacrime, una batteria arrugginita (che
toglie al gruppo anche il suo lato caratteristico: il
battito ritmico) e il mic. di DeVaughn, che quando canta “a man with no future, a man with no
future” sembra davvero parlare di sé. Tomorrow
r e c e n s i o n i
cui inizia a crollare il terreno sotto i piedi e che
entra sul pezzo lento rincorrendo il compagno
per ristabilire le gerarchie (o almeno ci prova).
L’hook debole è l’unica pecca di Black Rock:
trasforma un potenziale capolavoro in un brano
imploso e privo di appetibilità.
Rimane al mic Dice Raw e ritornano Greg Porn
e la vertigine, per Understand: l’organo gospel
e l’hook di sentimento ascetico, hallelujah!, –
“People ask for god, ’till the day he comes / See
God’s face – turn around and run / God sees
the face of a man / Shaking his head then says,
‘man’ll never understand’ “- ci fanno pensare a
quanta poca cura ci sia stata in Black Rock da
parte dei Roots e cosa realmente questo concept sarebbe potuto diventare. Ancora Dice
Raw e Greg Porn su The Dark (Trinity) e le
vibrazioni sempre nel verso giusto, con il piano
che prende la strada dell’intimismo malinconico. Un pezzo fantastico, e qui le dissonanze non
vengono più esibite, ma accolte nella struttura
del pezzo. In questa posizione mediana c’è un
vero dialogo fra spirito tradizionale neo-soul e
la nuova carica sperimentale, cui la band sembra tendere da qualche disco a questa parte.
In quattro brani emerge tutto quello che ha
reso i The Roots “The world’s premiere hiphop band”, tutto quello che rende questo disco
godibile e tutto quello che i The Roots dovrebbero assorbire per determinare un nuovo punto
di partenza.
Arriviamo invece agli aspetti negativi, che
frantumano il piacere dell’ascolto. Per … And
Now You Shoot Your Cousin, i The Roots
hanno scelto di riempire i vuoti della scaletta
con alcune sottospecie di skits, che in realtà tali
non sono, e che per questo, nella loro vaghezza,
perdono ancora di più il ruolo che ricoprono
nelle sorti generali del lavoro. È il caso di The
Devil, feat. di Mary Lou Williams, che si limita
a definire il clima trascendentale del disco, in
cui il conflitto metafisico tra divino e diabolico
è l’opposto: il piano si articola su un motivetto
in allegria da pic-nic con tanto di fischiettìo e
la storiella del solito DeVaughn che si risolleva
solo sul finale à la Robert Glasper di Black
Radio, in cui il singhiozzare della batteria trova
il suo posto, il piano rinasce e Raheem si limita
a sillabare a ripetizione (“now … / … now / …
now”), compito che gli riesce benissimo.
Di … And Then You Shoot Your Cousin rimangono le prodezze dietro il mic di Dice Raw
e Greg Porn, che mandano in pensione Black
Thought, meno in forma del solito e ancora più
appesantito che in Undun. Tre/quattro brani
superbi e molto contorno, ma non abbastanza
per costruire un vero progetto di rinnovamento
per il futuro.
6/10
Tom Vek - Luck (Moshi Moshi,2014)
Genere: pop, indie, electro
Per quelli con le antenne più sviluppate di altri,
il nome Tom Vek non sarà così difficile da ricordare. Il giovane polistrumentista e tuttofare,
casa madre a Londra (sbattuto da East a West),
aveva esordito nel lontano 2005 con We Have
Sound, un post-rock/indie-rock in linea con i
tempi che però sembrava più estroso e creativo
di quello di colleghi che già stavano vendendo
le loro anime all’hipsteria. Nel 2011, dopo una
misteriosa pausa durata sei anni, il Nostro tornava con un Leisure Seizure dove l’indie-rock
si sporcava di synth, ritmi danzerecci e della
sua voce meravigliosamente sbilenca, tanto da
essere immediatamente catalogato alla voce
Talking Heads. E il peso di queste etichette
non è mai facile da sopportare.
Lo iato questa volta è più stretto – sono passati
solo tre anni dal precedente disco – ma Vek
sembra non essere cambiato molto. Luck è un
album che, proprio come Leisure Seizure, fonde il gusto tipicamente 00s di quattro quarti e
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Emiliano Santoro
giri di basso ingombranti con il pizzico di follia
80s che regala la splendida voce inadeguata del
musicista inglese. Ma questa volta si sente forte
e chiaro il richiamo dei Nineties, un elemento
che infetta un po’ tutti negli ultimi tempi. Basta
prendere Sherman (Animals in The Jungle) –
tra l’altro ispirata al famoso romanzo (poi film
di Brian De Palma) Il falò della Vanità – per
capire quanta base Sonic Youth, pre-emo,
grunge, sia nascosta nell’ispirazione di questo
terzo album. Se poi aggiungiamo il sapore lo-fi
e vintage che Vek cuce addosso a brani come
Broke (mezzo plagio di I’m No Good di Amy
Winehouse, a dire il vero), lo stoner “chitarroso” à la QOTSA di A Mistake, il dreamy pop
à la Cure di Ton Of Bricks, l’impostazione
sincopata e bass-oriented in stile Bloc Party
di Pushing Your Luck, ci accorgiamo di quanta varietà sia stata filtrata negli ascolti e nella
creatività di questo ragazzo.
Già, varietà, ma anche una naturale confusione che, se regala perle godibili (le già citate
Sherman, Pushing Your Luck e Ton Of Bricks),
ci lascia anche un disco piuttosto incostante,
sia dal punto di vista del suono che da quello
dell’attenzione. Il divertimento non dura tutti
gli undici brani, spesso spezzato da episodi monotoni (You’ll Stay) o estremamente derivativi
(Let’s Pray). Ciò non toglie che se è vero che
Vek non sarà il nuovo Byrne, la sua abilità nel
lavorare sulle proprie produzioni e nel filtrare
e flirtare con gli ascolti, la sua voce “sbagliata”, la sua aura da geek d’altri tempi, valgono
comunque una piena promozione.
6.8/10
Nino Ciglio
Topsy The Great - Fampor
(fromSCRATCH,2014)
Genere: noise, math-rock
Secondo disco per i Topsy the Great - trio pratese dedito a un math-noise che si era già fatto
147
g i u g n o
Stefano Gaz
Tori Amos - Unrepentant Geraldines
(Mercury,2014)
Genere: pop, cantautori
Col tempo Tori è diventata un classico, anche
se negli anni ha tentato di svariare, spiazzare,
sperimentare, rileggersi. Recentemente, ad
esempio, ha firmato un disco di musica colta
per la Deutsche Grammophon (Night of Hunters del 2011) e un musical (The Light Princess, del 2013) in collaborazione col London’s
National Theatre, senza scordare che nel mezzo c’è stato Gold Dust, nel quale ha riproposto
in chiave orchestrale alcuni cavalli di battaglia
del repertorio. Ma il dato più importante è
probabilmente un altro: lo scorso agosto Myra
148
Ellen Amos ha compiuto 50 anni, il che presuppone – anche dal punto di vista artistico – un
carico di esperienze preponderante sulle future
possibilità di scoperta.
Tempo di bilanci insomma, a cui ci si può
adeguare o rassegnare, in entrambi i casi con
diversi gradi d’intensità. Ebbene, con questo
Unrepentant Geraldines in effetti Tori sembra arrendersi al proprio repertorio, ovvero
alla se stessa come somma di “prestazioni”
espressive. Ma lo fa con determinazione, con
lucidità, senza preoccuparsi di tenere il passo
della contemporaneità né di tenere testa alle
vette del passato. Semplicemente, fa quello che
le è sempre riuscito meglio: traccia dopo traccia tenta di provocare subbuglio per mezzo di
una grande canzone. Talvolta (inevitabilmente?) scade nel cliché, ma il passo è quello delle
autrici di razza e delle interpreti che sanno di
poter contare su un quid forte.
Il suo tipico piano dal fraseggio liquido e penetrante, quella voce che si agita in un gioco di
ombre e lirismo affilato, il consueto apparato
di testi cui una recensione non può rendere
giustizia (tra i temi affrontati: libertà e dignità
delle donne, arte figurativa, l’affaire SnowdenNSA…), sono la struttura portante di quattordici pezzi – perlopiù ballate – che gravitano
attorno a suggestioni folk dal piglio traditional
venato di rapimenti Broadway e intrighi fiabeschi. Se Oysters bazzica incanto bizzarro
e cinematico e se Trouble’s Lament mastica
tremori folk-blues col veleno in gola nei modi
che ben conosciamo, Weatherman e Maids of
Elfen-Mere si rifanno con una certa evidenza
al femminino ipnotico e misterioso Kate Bush,
mentre Wedding Day e America si sgranano
elettroacustiche in punta di solennità come dei
Fairport strattonati Fleetwood Mac.
Poi ci sono le deviazioni, come una Giant’s Rolling Pin che innesca vampe rag da brass band
garbata e acidula (e dalle vaghe ascendenze
r e c e n s i o n i
apprezzare nel precedente Steffald - Fampor
è un lavoro che conferma praticamente in toto
la formula dei Nostri.
I Topsy the Great sono la faccia vera di un underground toscano fatto di poche chiacchiere
ma realizzato con idee e capacità. Il disco esce
sempre per Fromscrath e Santa Valvola ed è
schizofrenia sapientemente organizzata. Stessa
formula math-noise si diceva, è vero, ma rispetto a Steffald qui emergono con più veemenza
le canzoni: i Battles fuori giri di Usduk, l’incubo western/marziale di Coor – forse il miglior
brano del lotto – o ancora la minaccia (orientale?) de Lyndia.
Assomigliano sempre più a una versione nostrana dei Lightning Bolt i tre, un pò per l’artwork in sintonia con certe illustrazioni targate
Brian Chippendale, un po’ per la capacità di
sfornare ottima musica heavy in cui grande
attenzione è ancora una volta riposta sulla
ricerca di una filigrana sempre più in simbiosi
con il live. In attesa di ulteriori novità, il passo
dalla sorpresa alla riconferma è brevissimo e
compiuto.
70/10
Macca via Norah Jones), o ancora le nuances
e le pulsazioni digitali dell’estatica 16 Shades of
Blue, le astrazioni reggae della title track con le
accelerate radenti Police e infine quella Rose
Dover che svaria agile tra brume teatrali e ugge
glam come una piece compressa. Non mancano
le cadute, come la fin troppo indulgente Promise (cantata assieme alla figlia Tash) e una
diffusa tendenza al didascalico (si senta Wild
Way), ma nel complesso Unrepentant Geraldines resta una prova dignitosa con qualche
passaggio coinvolgente.
6.7/10
Party di Nick Cave (Obdurate Obscura), il
Mark Lanegan classico sono i nomi che vengono richiamati alla memoria più volte durante l’ascolto. Desolazione folk blues, memorie
metal (Salome, Hiss), alt-country e tutto l’american gothic che si possa immaginare.
In fondo è quello che vogliamo ancora dall’ex
leader dei 16 Horsepower: intensità e oscurità,
senza retorica.
7.2/10
Teresa Greco
Stefano Solventi
Genere: alt, country
L’alt-country gothic punk di ispirazione religiosa di David Eugene Edwards alias Wovenhand sembra non conoscere sosta. Refractory
Obdurate è il settimo album pubblicato sotto
questo moniker, con qualche cambio nella
formazione (Chuck French alle chitarre, Neil
Keener – Planes Mistaken For Stars – al basso,
Ordy Garrison alla batteria, più il leader a voce,
chitarre e banjo), per un suono che resta sostanzialmente nei canoni consueti, anzi qui diventa più “heavy” del solito. Non a caso l’album
è il prodotto di una partnership tra Glitterhouse e Deathwish (etichetta co-fondata da Jacob
Bannon dei Converge).
Pezzi mediamente lunghi, chitarre in primo
piano, anche sature, suono pieno e punk, anzi
post punk (Sonic Youth docet…), polvere,
oscurità e declamazioni: ecco il perfetto vademecum per questo disco, un lavoro che si
tiene bene, mostrando coesione e compattezza
nell’insieme. Un ritorno ai primi Wovenhand,
la ricerca delle radici più oscure alla base della
band.
Michael Gira e i redivivi Swans, i Birthday
g i u g n o
r e c e n s i o n i
Woven Hand - Refractory Obdurate
(Glitterhouse,2014)
149
G imme
S ome
I nc h es # 4 9
Il consueto giro mensile per formati strani questo
mese ci mostra tapes e vinili brevi per Neid e Agathocles, Rooms Delayed e Pueblo People, Mattia
Coletti e Powerdove, Bob Corn e My Dear Killer,
Sangre De Muerdago e The KVB
150
Riavvolto il nastro utilizzando una penna bic – questa la capiscono solo gli ultratrentenni
– ci accingiamo a partire col nostro solito campionamento nelle lande dei formati minori.
Cominciamo proprio dai tapes su cui Old Bycicle ha costruito una solida fama. L’ennesimo
volume della Tape Crash series, il numero 8 ad esser precisi, vede un doppio scontro: da
un lato Mattia Coletti col suo folk sporcato e screziato di polvere (warning: double senses
here) rumoristica e da pulviscolo elettronico-ambientale, si accoppia con Simon Skjodt
Jensen a.k.a. Own Road in una lunga traccia (Flower Names) ipnotica e sonnolenta in cui la
voce del danese è l’ideale contraltare delle atmosfere folkish create dalle due chitarre, così
come la lunga sezione “ambiental-rumorista” rammenta l’eterodossia Colettiana al meglio; dall’altra parte risponde Powerdove (al secolo, Annie Lewandowski) che si unisce a
Thomas Bonvalet (L’Ocelle Mare) e a John Dieterich dei Deerhoof, ma rimane sulla stessa
lunghezza d’onda di un folk “sporcato” – l’ottima opener When You’re Near – offrendone
poi, nelle restanti due tracce registrate live, una visione più spartana e pulita: in punta di
plettro e condita da voce celestiale e pura.
L’altra tape, invece, è tutta nostra ed è realizzata in combutta con Under My Bed e Grey
Sparkle. Protagonisti due grossi calibri del “folk” nostrano, My Dear Killer e Bob Corn,
che avevano unito le forze per un tour casalingo congiunto di cui questo nastro è l’estrapolazione. Se conoscete i soggetti, avrete già idea di cosa troverete: due bardi barbuti e solitari che si muovono sul crinale del folk più puro. Più malinconico e umorale quello offerto da
My Dear Killer e sulla falsariga dello splendido disco su Boring Machines; più viscerale e
sanguigno quello di Tizio, con quel piedino che batte il tempo e richiama all’attenzione per
gemme di puro cantautorato senza fronzoli. Edizione come al solito ipercurata e avvolta in
un cartoncino riciclato.
Su altre distanze e medium si muovono i Pueblo People, trio misto che annovera due ex
Vulturum (Lorenzo e Claudio) più Claudia delle Agatha alla batteria. Dimenticate le lande
toccate in passato dalle rispettive band, perché qui si va di distorsione spazio-temporale
e si è gettati di netto verso i sixties più psichedelici e desertificati che possiate immaginare: lunghe trame di chitarra inacidita a tirar dentro Replacements e 13th Floor Elevator,
Uncle Tupelo e zio Neil, ma incancrenite su un canto del caos e della morte che è sì, innervato di fuzz e, immaginiamo, droghe più o meno leggere – tornano su molte suggestioni
da summer of love andata a male, ma forse è solo un’allucinazione – ma mantiene sempre
# 4 9
I nc h es S ome
G imme
viva la grande tradizione dell’Americana. Anche se proviene dalla periferia della provincia
dell’impero. Sentieri Di Guerra, nomen omen, esce in vinile 12” per Solo, già noto negozio
di dischi di Milano.
A 45 giri viaggia invece l’infame split tra i grinders Neid e gli eroi del mince-core Agathocles. Tre tracce per i primi, più “chirurgici” e dall’impatto devastante, figlio del retaggio metal e hardcore, che sono tre schizzi in faccia di malessere e disagio cantato in italiano; quattro
tracce invece per i colleghi dal Belgio, che si propongono al solito con un sound più sporco e
maleodorante, in cui la registrazione è un optional e odio e violenza l’unica preoccupazione.
Vedi alla voce lyrics per una band che ha fatto dell’intransigenza il marchio di fabbrica.
Piccola parentesi immateriale e di decompressione con l’ultima “release” made in Laverna, netlabel d’ambito ambient che ci offre l’ottimo album di Rooms Delayed, al secolo
Vincenzo Nazzaro, Flickering Traces. In partenza quello di Rooms Delayed è un endlessmanipulated sound che “rivive” lontane suggestioni, rimodulandole in flutti sonori sospesi
e sognanti che fanno di questa loro “intangibilità” il punto di forza. Abbandonatevi al flusso
e non opponete resistenza.
Chiudiamo la puntata di questo mese con due 10 pollici, formato tanto discograficamente
bistratto quanto intrigante esteticamente. Il primo Nas Fragas do Río Eum vede il ritorno
degli spagnoli (ora di stanza in Germania) Sangre De Muerdago dopo il recente LP split
con gli americani Novemthree. Due brani, incisi solo sulla primi facciata, provenienti dalle
stesse recording session del secondo full-length Deixademe Morrer no Bosque, che vi
consigliamo caldamente qualora ve lo siate persi. Per chi ha già nelle orecchie il folk evocativo del gruppo capitanato da Pablo C. (ex Cop On Fire, Ekkaia e Leadershit) c’è poco
da aggiungere; per chi invece è nuovo alle sonorità del quartetto in questione, basterà dire
che anche qui ritroviamo la formula, personale e vincente, che ha caratterizzato le recenti
uscite dei Sangre: cristalline chitarre acustiche, cantato in lingua madre, timpani solenni,
malinconia a profusione. Una sorta di Ur-Folk in chiave gallega a metà strada tra gli Ulver
di Kveldssanger e i gruppi acustici del giro Ahnstern / Steinklang. Nello specifico, l’edizione in 10 pollici one-sided, su vinile color mattone con lato B serigrafato, inserto e copertina
su cartoncino ruvido color avana, impreziosiscono un’uscita che dal punto di vista prettamente musicale non si rende indispensabile, se non per i fan più die-hard.
L’ultimo 10 pollici è il nuovo dei britannici The KVB. Abbondantemente incensati online,
il duo londinese si è fatto conoscere grazie ad un efficace mix di cold-wave e shoe-gaze
piuttosto formale e fedele alla linea che, nonostante la mancanza di una forte personalità,
sembra attirare i fan di un revival che non accenna a voler cedere il passo. Per questo Out
Of Body, Nicholas Wood e Kat Day sono entrati per la prima volta in uno vero studio di
registrazione in compagnia di Joe Dilworth degli Stereolab e da quel che abbiamo potuto
sentire finora (l’EP esce il 2 giungo) il risultato è un sound sì più professionale, ma anche
più morbido e accomodante. Date un ascolto ad Across The Sea, l’unica traccia disponibile online al momento, e vi accorgerete di come ancora una volta siano gli 80s più pop ad
essere saccheggiati senza particolare ritegno o inventiva. Non ce ne vogliano i seguaci del
gruppo (e della new-wave in genere) ma c’era davvero bisogno di un ulteriore rip-off di
Cure, Slow Dive o Jesus And Mary Chain?
Andrea Napoli, Stefano Pifferi
151
Aphex Twin
classic
alb u m
Selected Ambient Works Volume II (Warner Music Group,1994)
152
Selected Ambient Works Volume II (SAW2) è il secondo disco di Aphex Twin, e anche
se il primo non era propriamente un Vol. 1 (il titolo era SAW 85-92), l’assonanza fa pensare
a un prosieguo dell’esordio. Il sophomore è un doppio lunghissimo: ben venticinque pezzi
(su CD uno di meno) per la durata complessiva di più di 150 minuti. Un monolite inarrivabile, che segna il successo e l’apice della nascente carriera di Richard D. James e che per
molti fan e critici non sarà più bissato.
Se la prima raccolta del musicista elettronico rappresentava una collezione di singoli da
ballare, questo secondo album esce dal tempo e si innalza come una pietra di Stonehenge sulla cultura rave, spiazzando tutti. Non più breakbeat, ma relax, non più ritmi serrati,
ma atmosfere sognanti e ritmi a passo più lento, anche se percorsi comunque da un brivido freddo, da una glacialità lancinante che è il marchio estetico dell’uomo. Un caso? Per
niente. Nel 1994 si respirava già aria di controrivoluzione. La stagione del rave aveva mietuto infatti troppe vittime e la cultura acid stava iniziando a perdere mordente soprattutto
in Inghilterra, dove era nata pochi anni prima. In quell’anno viene promulgato il famoso
Criminal Justice and Public Order Act, che vieta al popolo del rave di ritrovarsi a celebrare
il weekend liberamente.
La cultura della cosiddetta “Second Summer of Love” si trasforma per ordini dell’autorità
da rave a chill e proprio con questo disco aumenta d’importanza la cosiddetta Intelligent
Dance Music o IDM, termine – a volte abusato – con cui verranno taggati molti dei musicisti post-diaspora rave (tra gli altri Boards Of Canada, Plaid e Orb). Musica non più da
sballo MDMA-indotto, bensì più meditativa, magari aiutata da qualche sigaretta di cannabis. Memorabile, in questo senso, la collana di album (dal 1992 al 1994) Artificial Intelligence di Warp, etichetta inglese che pubblica guardacaso anche SAW2. Tra i nomi, gli
Autechre, lo stesso Richard D. sotto lo pseudonimo Polygon Window, i B12 e altre star
dell’elettronica in slow-motion. La caratteristica fondamentale dello zeitgeist che circonda
SAW2 è proprio questa voglia di frenare, di lasciarsi andare su velocità diverse da quelle
degli smile gialloneri che decoravano t-shirts e spillette dell’epoca. Qui, sebbene Aphex abbia poco più di vent’anni, inizia un percorso di ricerca che divide la sua storia produttiva in
due, da lì in poi in continua oscillazione fra techno più acida (vedi ad esempio il successivo
Ventolin EP) e ambient.
Venticinque tracce che non hanno nome e che i fan, nelle mailing list, si mettono a taggare
con oggetti e parole che descrivono le sensazioni all’ascolto: Cliffs (scogliere), Grass (erba),
Weathered Stone (pietra erosa), Lichen (lichene), piccole polaroid su mondi lunari che
cullano l’ascoltatore con voci lontane, con campioni onirici ed effettistiche ovattate. La leg-
genda narra che Aphex Twin avesse composto molto del materiale in stato di dormiveglia,
restando forzatamente sveglio e dormendo al massimo due ore per notte. Un’insonnia che
lo porta a costruire un disco di “Classic Techno” (come dice bene Simon Reynolds nella sua
recensione), che insiste più sulla componente timbrica che su quella ritmica, mescolando il
phasing di Steve Reich, qualche progressione à la Satie (esplorata più approfonditamente
nel successivo Drukqs) e suoni costruiti artigianalmente, e andando a modificare “a mano”
i circuiti dei synth analogici e le patch dei software di sintesi dell’epoca.
L’eredità di questo disco viene in parte raccolta da qualche artista elettronico contemporaneo: alcuni brani di Oneohtrix Point Never, Actress, GAS, molte produzioni di Ghostly
International, qualche traccia della scena vaporwave e più in generale un ritorno alla new
age, che con l’ambient aveva molto in comune. Sono solo brevi accenni e rimandi a un classico che ha fatto e che fa ancora scuola. Immortale.
9/10
Marco Braggion
153
Unwound
classic
alb u m
Rat Conspiracy (Numero Group,2014)
154
Questa ristampa a cura di Numero Group è un tuffo nel cuore della produzione Unwound,
quella più significativa della stagione indie ’90. Impossibile parlare del gruppo di Olympia
senza evocare il mondo indie: ora il termine vuol dire tutto e niente (basta guardare a casa
nostra: sono indie Le luci della centrale elettrica o gli Heroin in Tahiti, è indie la Tempesta
Dischi o Boring Machine? E se sono indie entrambi sono assimilabili come etiche stili e
risultati? Ovviamente no) ma in quel periodo un significato l’aveva. Si parlava di autonomia
artistica e do it yourself, di etichette e di subcultura giovanile, di un concetto ancora vago
dal punto di vista musicale (l’alt-rock) ma integro e condiviso a livello etico. A pensarci, tolto questo ultimo punto, non è che il discorso sia cambiato poi tanto.
Gli Unwound, comunque, sono stati tra i più fedeli alla linea. Hanno stampato quasi tutta la
loro discografia per Kill Rock Stars rinunciando alle sirene delle major che pure erano arrivate e sono rimasti in groppa a un’idea autogestita del proprio lavoro, finanche timida. Già
perché gli Unwound non erano al centro del mondo grunge come i Nirvana o i Melvins
(nomi tutelari del loro suono perché era quello che passava il circondario, visto che Olympia è a due passi da Seattle), non erano arty come certi Sonic Youth e nemmeno incazzati
come l’hardcore, o meglio, il post-hardcore targato DC. Eppure respirano tutto, presentandosi all’International Pop Underground Convention e contaminando i propri riff con quelli
di Bikini Kills e Nation of Ulysses, per poi accoppiarsi in tour con le band più disparate,
dai Green Day agli Half Japanese: detta in altri termini, studiano quel che sta succedendo
in America.
Da qui nasce la loro produzione, i cui primi vagiti sono stati già documentati nella prima
ristampa a cura Numero Group, Kid Is Gone, di cui Rat City rappresenta l’ideale proseguimento. Questo triplo LP racchiude il momento di massimo splendore della band, ovvero i
primi due album, a cui si aggiunge il solito bonus di singoli, radio session e materiale recuperato da compilation varie. Ne esce il ritratto di un gruppo che suona ostinatamente 90s, il
cui unico demerito è forse quello di essere arrivato secondo rispetto a molti dei sopracitati.
Ma il debutto su Kill Rock Stars, Fake Train (1993), è il noise rock perfetto. Ha un’esteica
DIY, è affiliato agli equilibri dei Sonic Youth targati Evol ma guarda anche ai Fugazi, gode
di un’intimismo in soffice headbanging: gente come i Blonde Redhead costruiranno una
discografia su questo disco, un lavoro retto da una scrittura indubbiamente pop, legata a
doppio filo con la forma canzone e i giochi pieno/vuoto tra basso e chitarra, ma non rigida
o schematica.
Il concetto è ribadito e se possibile ingigantito da New Plastic Ideas, disco fotocopia che
mantiene invariato lo scheletro Unwound, salvo ammorbidire leggermente gli spigoli con
l’aggancio alle strutture e all’inquietudine esistenziale del post-rock marca Codeine/Slint
(Abstraktions e Arboretum), dimostrandosi lavoro ragionato anche nei momenti punk e
feroci (dall’incipit Entirely Different Matters a What was Wound). La strada è tracciata.
Arriveranno una manciata di singoli qui documentati, utili per fare qualche esperimento
(vedi i fiati che compaiono in Negated/Said serial/Census) e trovare nuovi/vecchi punti
di riferimento (bella la cover dei Minutemen Plight e il funk di Another Practice), per poi
inanellare una serie di dischi che annacqueranno la matrice noise rock sul versante sentimentale, rimanendo comunque su standard più che accettabili. Ma tutto quello che dovete
sapere sugli Unwound è racchiuso in questo box.
Stefano Gaz
155
TRA I TANTISSIMI IN ARRIVO!
29 MAGGIO 2014: LOREDANA BERTE'
03 GIUGNO 2014: BOMBINO
05 GIUGNO 2014: CLOUD NOTHINGS
07 GIUGNO 2014: MULATU ASTATKE
11 GIUGNO 2014: ESTRA
22 GIUGNO 2014: PIERS FACCINI
24 GIUGNO 2014: MASSIMO VOLUME
26 GIUGNO 2014: CALIBRO 35
03 LUGLIO 2014: LEVANTE
07 LUGLIO 2014: NEW YORK SKA JAZZ ENSEMBLE
15 LUGLIO 2014: JOHN BUTLER TRIO
16 LUGLIO 2014: GORAN BREGOVIC
18 LUGLIO 20143: BANDABARDO'
22 LUGLIO 2014: PAOLA TURCI
24 LUGLIO 2014: WILLIAM FITZSIMMONS
27 LUGLIO 2014: EASY STAR ALL STARS
03 AGOSTO 2014: NOFX
Via Granelli 1, Sesto San Giovanni (MI)
www.carroponte.org
Prevendite disponibili sui circuiti TicketOne e VivaTicket
Fly UP