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owen pallett - SentireAscoltare
digital magazine | giugno 2014 | n. 116 owen pallett Conflitti sommario tune in – p. 4 Arto Lindsay 50 anni di moog Magellano Forest Swords Lo stato sociale Squarcicatrici Fennesz drop out – p. 38 Frank Zappa Owen Pallett Skiantos recensioni – p. 94 rubriche – p. 150 #116 giugno Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Tommaso Iannini, Elia Galli, Teresa Greco, Sebastian Procaccini, Edoardo Bridda, Andrea Napoli, Stefano Pifferi, Nino Ciglio, Stefano Solventi, Giulio Pasquali, Christian Panzano, Gabriele Marino, Fabrizio Zampighi, Alessandro Pogliani, Marco Braggion, Marco Frattaruolo, Gaspare Caliri, Giulia Antelli, Luca Falzetti, Riccardo Zagaglia, Andrea Macrì, Emiliano Santoro, Andrea Murgia, Marco Boscolo, Daniele Rigoli, Stefano Gaz, Enrica Selvini, Federico Pevere, Alessandro Liccardo Copertina Owen Pallett Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004) SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2014 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare. Abbiamo incontrato Arto Lindsay durante la promozione della raccolta Encyclopedia of Arto, lavoro che contiene il meglio della sua carriera solista e un inedito disco dal vivo. La pubblicazione del doppio CD antologico è stata lo spunto per una chiacchierata a trecentosessanta gradi tra passato, presente, futuro, New York, il Brasile e gli oggetti che producono suoni.... Testo di Tommaso Iannini © Cesare Cicardini Arto Lindsay Artologia 4 Questa doppia antologia ha un bel titolo, Encyclopedia of Arto. L’hai scelto tu? L’ho scelto ma non sono stato io a suggerirlo, l’idea è venuta da Titti Santini di Ponderosa. Stavamo parlando di un concerto antologico e non mi piaceva l’idea, ma ci siamo trovati d’accordo su una compilation retrospettiva. Il titolo è piuttosto ironico. La scelta di brani copre la tua carriera solista dal 1996 al 2004. È anche un sunto della tua idea di musica? Sicuramente il rapporto tra i due CD significa qualcosa. Come hai scelto la tracklist per il CD antologico? Ho scelto i brani migliori di ogni disco, come in un tradizionale greatest hits. Ho preso le canzoni che mi piacevano di più o che consideravo più forti. Piuttosto che imbastire un racconto, un brano unico o un concept album, ho semplicemente selezionato i pezzi che mi sembravano davvero buoni. Nei brani scelti ci sono molti ospiti: in senso lato, questa retrospettiva è anche un tributo a chi ha collaborato con te sui tuoi dischi? Non è una cosa voluta. Può darsi. Puoi vederla così. Le collaborazioni sono qualcosa che faccio normalmente. Il secondo CD è una performance live in solitaria, solo voce e chitarra, molto minimalista, molto rumorosa. Possiamo fare una sorta di paragone con la musica nuda e spigolosa dei tuoi esordi con i DNA? Sì, certo, anche perché la chitarra è così predominante. Le idee musicali sono molto diverse ma possiamo sicuramente fare un confronto. Quali sono le maggiori differenze, invece? Agli esordi avevo una band e qui sono da solo, e questa è la grande differenza. Le strutture una volta erano molto più serrate, le canzoni più brevi, con i DNA cercavamo soprattutto di concentrare e ridurre tutto all’osso, alcune delle idee sono le stesse come l’“on/off” – cioè tutto quello che serve per fare musica è premere “on” o “off” –, princìpi molto semplici per sviluppare una musica complessa, ma suono così da troppo tempo per vantare una sorta di “innocenza”, se capisci ciò che voglio dire. “Accendere” e “spegnere” nel senso di una chitarra accesa o spenta e niente altro? Nel senso di suono/silenzio. Il secondo disco fa pensare a un blues astratto e primitivo… Sì, certo. Mi chiedevo che rapporto hai con il blues, visto che delle tue fonti d’ispirazione ricordiamo sempre il jazz e la musica sudamericana… Oh ma c’è anche il blues. Ci sono molte analogie tra la musica della regione dove sono cresciuto in Brasile e il blues, oltre al fatto che sono contemporanee. È una questione di suono, di pattern ritmici, di variazioni su schemi che sono abbastanza elastici, di fisicità, sono tutte e due musiche tristi e contengono molti elementi di origine africana. Sono cresciuto in Brasile ma con mamma e papà americani, mio padre ascoltava quella che lui chiamava hillbilly music, che è stata all’origine del country ma era anche molto vicina al blues. Mentre a mia madre piaceva Nat King Cole… Com’è stato crescere in Brasile in quel periodo? Splendido, vivevo in una piccola città ed era meravigliosa, sai. O meglio, nella cittadina dove ho abitato prima di andare alle superiori stavo benissimo ma sembrava quasi di vivere ancora nell’Ottocento, c’era un solo padrone che possedeva un’enorme quantità di terra e tutti lavoravano per lui in uno stato di semi-schiavitù. Però con l’inizio degli anni ’60 in Brasile si era diffuso un clima di ottimismo, sembrava che davvero le cose potessero cambiare. Poi è arrivato il golpe militare e la dittatura ha bloccato tutto, anche se 5 non lo ha fatto subito in modo drastico. I militari hanno preso il potere nel 1964 ma non hanno inasprito la dittatura fino al 1968, quando la situazione ha cominciato davvero a prendere una brutta piega. In quel periodo c’era molta musica interessante, insieme all’arte. Una rinascita dell’arte popolare, mi viene in mente anche il cinéma nôvo… Sì, c’erano molte cose interessanti nel mondo dell’arte, della poesia, è stato un periodo entusiasmante. Penso per esempio a Glauber Rocha, che cosa ne pensi di lui? Non ho guardato molti suoi film, se non più tardi. Da giovane avevo visto solo Antonio Das Mortes, che è fantastico. Alle superiori mi ricordo di aver guardato più che altro film americani degli anni ’70 come Gangster Story ma anche Teorema di Pasolini o Giulietta degli spiriti di Fellini; sono questi i tre film che mi sono rimasti più impressi nella memoria. Come hai avuto l’intuizione di coniugare un approccio concettuale alla chitarra con forme di musica folk e popolare come la samba o la bossa nova? È stata una sfida o qualcosa che ti è venuto naturale? It’s just the way I do it, do you know what I mean? Quando ho cominciato a suonare volevo creare qualcosa di veramente nuovo ma allo stesso tempo trovo che sia naturale fare una cosa del genere perché alla high school e al college ho ascoltato Jimi Hendrix, Miles Davis – tantissimo Miles Davis – e anche la bossa nova a suo modo era molto radicale. Pensavo che la musica pop dovesse essere innovativa, come i Beatles che avevano un certo feeling d’avanguardia, era lo spirito dei tempi e spesso ce ne dimentichiamo, quella sembrava essere la via giusta. Ero anche molto naïf, con i DNA pensavamo che ci avrebbero scoperti prima o poi perché eravamo un grande gruppo ma non sapevamo niente di come funziona il music business. 6 Come sei diventato un musicista? Alle superiori cantavo in un gruppo, dopo il college mi sono trasferito a New York. Ascoltavo tantissima musica ma non suonavo più. Pensavo di diventare un poeta, un artista concettuale o un ballerino: mi interessavano tantissime cose diverse; la musica mi sembrava un modo per mettere tutto insieme, e intorno alla musica c’era moltissima energia, si aprivano tantissime possibilità. Hai cominciato la tua carriera di musicista alla fine degli anni ’70 nella scena no wave newyorchese. Che ricordi hai di quel periodo o che cosa ne pensi adesso? È stato un periodo molto intenso. In parte sicuramente perché ero così giovane e agli esordi. Sono stati anni intensi. Sembra tutto più grande, ora, di quanto non lo fosse a quei tempi. È la domanda che mi fanno in tutte le interviste, su New York e gli anni ’70. Che cosa posso dire? È stato intenso. Ascoltando la tua musica più recente, che cosa credi che ti abbiano lasciato in dote quegli anni, da compositore e da performer? La fiducia in me stesso. Abbiamo lavorato sodo e ce l’abbiamo fatta, in una stanza… perché non abbiamo sfondato di certo nel business discografico o nelle classifiche. Abbiamo fatto tutto in una stanza e l’impatto della nostra musica si è fatto sentire molto al di là di New York, il che è sorprendente. Qualche anno dopo, se non ricordo male era il 1984, sono stato per la prima volta in Giappone. Non ci avevo mai suonato, né avevo preso in considerazione l’idea, ma quando sono arrivato lì mi sono accorto che tantissima gente conosceva i DNA e ogni mio piccolo progetto, sapevano tutto, e c’era un’ondata di gruppi noise giapponesi straordinari che venivano da Tokyo, Osaka e da tutto il Paese, ed erano stati ispirati dalla scena di New York. E’ stato interessante rendersi conto di come una scena così piccola abbia potuto avere un impatto così grande. Suonavamo l’uno per l’altro in una stanza ma c’era anche tantissima attenzione a New York e su New York, in un modo molto stimolante per i tempi. Oggi tutto è cambiato. Amo ancora New York, è sempre una città interessante, ma è come una Venezia o un’Amsterdam che rivende il suo passato. New York oggi? Sì, se vai a New York ti raccontano che «qui è successo questo» e «qui quest’altro». Ma una volta non era così. Allora le cose semplicemente accadevano. Non c’è più un posto che ti faccia provare quella sensazione, specialmente oggi. Erano altri tempi. Ci sono musicisti giovani di cui sei un ammiratore e che consiglieresti di ascoltare? Sì certo, ce ne sono tanti. Penso che l’ultimo ad avere portato un grande cambiamento sia James Blake. Il suono dei suoi primi dischi era davvero eccitante, fresco. Adoro D’Angelo e il suo ultimo disco suona in modo incredibile. Ci sono tantissimi bravi musicisti giovani. Kendrick Lamar, mi piace molto, mi piace l’hip-hop. Non so se conosci Earl Sweatshirt. Fa parte di un gruppo californiano, gli Odd Future, è il più giovane di loro ed è un genio. Frank Ocean. Mi piacciono molto il soul e l’hip-hop. Che cosa pensi del rock di oggi? Non sento molti grandi gruppi, nuovi. Ma devo anche dire che abito in una città dove non ho molte opportunità. Non vivo a New York o Londra, negli States e neppure in Italia, dove è più facile che vengano i gruppi a suonare rispetto al Brasile. Dove vivi adesso? A Rio. È molto dura. Una città bellissima, meravigliosa, però il Brasile sta vivendo un momento 7 © Cesare Cicardini difficile. Sembrava che le cose dovessero mettersi per il verso giusto ma ora si sta cominciando di nuovo a peggiorare, i Mondiali sono stati un danno. Per carità, amo il calcio, ma la situazione generale è piuttosto brutta. Davvero pensi che stia peggiorando? È un brutto momento per il Brasile. Tutti si aspettavano di stare molto meglio ma non sta andando così. Fino a poco tempo fa qui in Europa avevamo la percezione di un Paese in crescita economica… In effetti sta crescendo, qualcosa è cambiato in meglio, ma la gente ora si sta rendendo conto di essere stata troppo ottimista. Ho scoperto che hai scritto una postfazione per un libro sugli Einstürzende Neubauten. Ti è mai capitato di collaborare con loro? Ero amico, anzi, sono ancora amico di Blixa. Non li incontro da un po’, sono stato a Berlino 8 da loro e abbiamo suonato insieme, non ricordo se abbiamo registrato qualcosa. Sono bravi, un gruppo incredibile. Pensi di condividere lo stesso approccio alla musica? Abbiamo cose in comune. C’è una certa fisicità, un’equivalenza che entrambi facciamo tra gli oggetti e i suoni, gli oggetti grandi emettono suoni forti, o suoni che hanno la concretezza delle cose perché sono rumorosi e grezzi. Anche un uso astratto del linguaggio. Eppure siamo diversissimi, loro sono lenti, tedeschi, non hanno swing mentre i DNA erano molto ritmici in una maniera un po’ americana e un po’ brasiliana. Che cosa intendi con la parola physicality? Musica che ti connette con il corpo, in parte attraverso il volume ma anche con il ritmo. Il ritmo è un riflesso delle relazioni interne tra i diversi organi da cui è formato il tuo corpo. Una musica sensuale, non troppo cerebrale o medi- tativa. Non dipende solo dal registro, perché un bordone può essere anche molto fisico. Ma anche astratto… Sì, è vero. I drones sono diventati molto popolari negli ultimi anni con diversi tipi di wall of sound, dai SunnO))) ai giapponesi come Merzbow. In tanti lavorano con queste idee. Puoi darci qualche anticipazione sui tuoi nuovi progetti? Voglio registrare un disco nuovo. Ho sperimentato con i suoni in surround durante i concerti, una cosa che non si può sempre fare quando sei in tour con una band, ci vuole una situazione speciale come Live City, per cui ho collaborato con un musicista di Berlino che lavora per la Cycling ‘74, la compagnia che produce il software Max MSP. Abbiamo sperimentato con le nostre rispettive idee cercando di far muovere i suoni nello spazio ma connettendoli alla musica. È un progetto a cui ho lavorato per un po’, adesso vorrei mettere su una band e fare un disco, anche se non so ancora che direzione prenderà. Ho un po’ di idee da sviluppare. Hai anche nuove canzoni? Ho scritto dei testi e spero di farne delle canzoni una volta che avrò finito di lavorare alle musiche che sto scrivendo con altri in stile candomblé. Stai scrivendo per qualcun altro? Non proprio, c’è un musicista di Rio, Lucas Santtana, con cui sto scrivendo dei pezzi, ma per adesso sto pensando al gruppo che voglio formare. Hai già in mente che tipo di gruppo sarà? Una big band? No, solo cinque persone. Ho anche intrapreso alcuni progetti insieme a percussionisti di candomblé, il culto di origine afro-brasiliana; è una cosa molto interessante. Quel genere di ritmo ha mai influenzato i DNA? Certamente. Con i DNA ho sperimentato an- che sull’idea di possessione, sul come la musica possa impartire ordini o porre delle domande. Adesso ho voglia di formare un nuovo gruppo, tra un po’ dovrei andare a New York a provare con alcuni musicisti. Suonerai dal vivo ora? A luglio ci saranno sicuramente date in Italia, anche se non so ancora dove [è previsto il 2 a La Spezia, il 12 a Monforte (CN), il 13 a Modigliana (FC), il 15 a Catania il 16 a Villa Arconati (Bollate, MI), il 18 a Roma, NdSA]. 9 A 50 anni dal primo prototipo di sintetizzatore modulare, Moog Music annuncia il nuovo Emerson Moog. Strumenti, quelli della compagnia americana, che hanno condizionato le sorti della musica popolare, dalle sperimentazioni prog al pop da classifica. Testo di Elia Galli 50 aNNI DI MOOG in cinque tracce 1964, Robert Moog costruisce il primo prototipo di quella serie di sintetizzatori Modular che avranno un impatto fondamentale sulla musica degli anni a venire. Una creazione, quella dell’ingegnere elettronico di New York, che risulterà seminale per i successivi rilasci di macchine come Minimoog, Polymoog, Voyager e Little Phatty. Cinquant’anni dopo, utilizzando le stesse procedure, riproducendo i moduli come fedeli copie 10 degli originali, dagli stabilimenti di Asheville, North Carolina, risorge l’Emerson Modular System, omaggio al famoso tastierista. Un viaggio lungo cinque decadi, dalla metà degli anni ‘60 ad oggi, durante il quale l’utilizzo degli strumenti Moog è stato snodo cruciale delle sorti prog, innesto futurista nel pop, divagazione paradigmatica nella musica colta. Le celebrazioni di questo viaggio, però, troppo spesso si perdono nell’élite delle citazioni convenzionali. L’assolo di Keith Emerson in Lucky Man, i Beatles di Abbey Road, Autobahn dei Kraftwerk. La grandezza dei sintetizzatori Moog risiede nella capillarità della loro diffusione, e nel loro conseguente utilizzo all’interno dei contesti musicali più diversi. David Borden, compositore minimalista americano, disse infatti: “L’invenzione di Robert è onnipresente, ed ha avuto un impatto pari, se non superiore, all’invezione del pianoforte“. Quelli che seguono, quindi, sono cinque pezzi, uno per ogni dieci anni dell’ultima metà di secolo, meno considerati in sede apologetica, ma in ugual misura indicativi della grande rivoluzione Moog. 1 969 / M ort G arson – Easy To B e H ard Mort Garson è stato uno dei pionieri Moog. In Electronic Hair Pieces, album che contiene Easy To Be Hard, il musicista canadese rivisita in chiave cosmica le canzoni del musical Hair, due anni dopo la sua prima teatrale. Operazione consueta per un’epoca popolata di band che rielaborano classici o hit del momento elevando a unico protagonista il sintetizzatore analogico. 1 973 / Roger P owell – T ensegrity: A Dymaxi o n T riptych Dall’album Cosmic Furnace, un esempio in salsa western-prog del futurismo primordiale di Roger Powell. Sintetizzatori Moog e Arp al servizio di un disco che Billboard, nel gennaio del ‘73, recensì come “affascinante [...], caratterizzato da tutti quei misteri ipnotici tipici del recente approccio freeform di Miles Davis”. 1 98 1 / Syreeta – Can ’t Shake Yo ur Love (Larry Levan M i x) Nel 1981 siamo in pieno fermento Paradise Garage, e Larry Levan scuote New York con la nuova creatura garage-house. Giro di basso Minimoog sul disco-funk di Syreeta Wright. 1 997 / A ir – La Femme D’Argent In apertura del capolavoro Moon Safari, La Femme D’Argent. Il pop elettronico del duo francese, post-exotica per il nuovo millennio, non potrebbe esistere senza Robert Moog. Jean-Benoît Dunckel lo sa, e lancia un assolo sintetico verso l’infinito. 20 0 9 / F ranz Ferdinand – Lucid D reams Da sempre interessati alle sonorità vintage-analogiche, i Franz Ferdinand scoprono il Voyager con il loro terzo album, Tonight: Franz Ferdinand. Già introdotta con Ulysses, la macchina marcata Moog viene innescata dall’arpeggio acido-electroclash in coda a Lucid Dreams. 11 A tu per tu con il Pernazza - voce dei Magellano ed ex membro degli Ex Otago, ex Coniglio rapper per Chiambretti e attuale presentatore su La3 - per una lunga chiacchierata su tutto, o quasi. Testo di Sebastian Procaccini Magellano Conigli, hashtag e calci: vita di un Pernazza Anche senza conoscere approfonditamente il mondo della musica e dei musicisti, quasi tutti sono in grado di riconoscere il Pernazza, al secolo Alberto Argentesi, personaggio poliedrico dai trascorsi televisivi più che noti. Stiamo infatti parlando, per i pochi che non lo sapessero, del coniglio del programma di Chiambretti, celebre per i suoi versi rap a metà tra il parodistico e l’imprevedibile. Il Pernazza però è anche altro. 12 Ad esempio, è una delle voci e delle menti dei Magellano, uno dei vari gruppi di Garrincha Dischi usciti proprio di recente con un secondo disco il cui titolo è abbastanza eloquente: Calci in culo. Non solo, è stato anche un membro fondatore degli Ex-Otago, le cui performance dal vivo sono rimaste negli annali. E c’è dell’altro: il Pernazza è anche il presentatore di uno show all’avanguardia su La3, in cui è predominante la presenza dei social network. Tantissima roba insomma, così tanta che la chiacchierata è durata più di quanto una normale intervista preveda, finendo per trattare argomenti anche non strettamente musicali, eppure attualissimi. Sfidiamo la banalità affrontandola a muso duro e facciamo subito la domanda più scontata: perché “Calci in culo”? Ho sempre avuto una passione per i giochi di parole, da tempi non sospetti, cioè da prima che diventassero di moda sui social network, e questo titolo per una canzone o per un disco l’ho sempre avuto in mente. Mi sembra che i giochi di parole siano un elemento molto frequente nel tuo modo di scrivere, fin dal precedente disco… Sì certo, Tutti a spasso è un titolo che ha diversi significati: da una parte voleva dire andare in vacanza, divertirsi, dall’altra anche smettere di lavorare o emigrare, ed era l’ideale per un brano con un mood adatto a descrivere un periodo particolare (quello della riforma Fornero). Allo stesso modo ci è sembrato perfetto Calci in culo, che rimandava a più cose, dalla giostra dei ragazzini alle raccomandazioni, che purtroppo caratterizzano così tanto questo periodo storico. Inoltre si adattava anche a perfetto hashtag per il web, per descrivere tanto le situazioni positive, quanto quelle negative. Più semplicemente, ci suonava molto bene, anche per la matrice aggressiva che contiene. Hai utilizzato il termine hashtag e hai parlato di aggressività verbale: mi sembra inevitabile, a questo punto, chiederti se ti senti influenzato direttamente o indirettamente dalla “poetica” di Grillo e dell’invettiva violenta e urlata, portata avanti proprio attraverso il web e i social network… É un ottima domanda e mi fa piacere che tu la ponga, perché io sono genovese e ho più di 30 anni, quindi ho vissuto Grillo e ho avuto modo di vederlo fin da quando faceva il comico. Con lui hai la conferma dell’idea, presente anche in Giambattista Vico, di come tutto sia circolare: alla fine Grillo è passato dall’essere un personaggio televisivo a fare comizi a pagamento nei teatri, aprendo anche dibattiti importanti e necessari, anche e soprattutto grazie all’uso della parolaccia. Va comunque detto che al di là della forza insita nella parolaccia, il suo utilizzo, così come quello della bestemmia, ha perso buona parte del suo potenziale, proprio perché è una cosa che si verifica spesso. Però sì, è palese che utilizzare la parolaccia a volte serva a portare meglio un messaggio, anche considerando che spesso il tramite è costituito dai social network. A proposito dei social, mi pare che il tuo rapporto con i social network sia parecchio intenso e vada avanti ormai da tempo… A dire il vero devo confessarti di essere arrivato colpevolmente in ritardo a due importanti strumenti come Twitter e Instagram, sia per la voglia di mantenere la privacy, sia per un’attitudine un po’ da struzzo, e credo sia stato un errore, perché in certi ambiti i social sono un ottimo modo per evitare i calci in culo di cui sopra. Ai tempi di Chiambretti, ad esempio, avrei potuto sfruttare molto di più la forza dei social network. In generale, i numeri delle visualizzazioni, sono spesso un lasciapassare verso certe porte notoriamente chiuse, vedi ad esempio molti dei fenomeni più recenti in ambito rap. Per quello che mi riguarda credo che il segreto di tutto sia la curiosità: voglio dire, al di là dei corsi post laurea su social strategy e via dicendo (che non ho mai frequentato), la voglia di documentarsi ti offre la possibilità di accedere a molti universi non così facilmente raggiungibili. Per lo meno è andata così nel mio caso e sono abbastanza sicuro che lo stesso discorso valga per tantissimi altri tipi di lavoro. Entriamo nel vivo di questo ultimo lavoro. E’ ovviamente differente, personalmente l’ho trovato addirittura cupo e pessimista. Lo hai 13 fatto con uno spirito diverso? Sì, ma in realtà la diversità che mi sento di sottolineare è quella legata al modo in cui mi sono approcciato al creare canzoni. In questo caso ho preso lezioni di solfeggio, per migliorare l’aspetto metrico di alcune cose, visto che questo tipo di canzoni costituivano una difficoltà maggiore rispetto ai miei contributi ai lavori con gli ExOtago. Nello stesso tempo anche Filippo si è applicato il più possibile alle macchine. Inoltre tutto quello che senti suonato è stato affidato a vere e proprie eccellenze locali qui in Liguria. Riguardo al mood, lo riterrei più aggressivo e disincantato che pessimistico, ma sicuramente la migliore interpretazione degli stati d’animo delle canzoni la potranno dare gli ascoltatori: noi abbiamo scattato molte foto, a qualcuno piacerà lo scatto, a qualcuno il soggetto, ad altri la cornice. Si tratta sicuramente di un lavoro diverso rispetto a Tutti a spasso, anche perché ai 14 tempi non mi dedicai pienamente alle varie fasi di realizzazione. Qui invece ho potuto seguire più o meno tutto, come anche Filippo; è un disco assolutamente di noi tutti, malgrado tanti impegni legati a lavoro (io) e famiglia (Danilo). Fortunatamente tanti anni con gli Ex-Otago mi hanno consentito di affrontare il lavoro con una certa costanza fin dall’inizio della sua creazione, alla fine del tour di Tutti a spasso. Un notevole apporto ci è stato dato anche dall’etichetta (Garrincha Dischi, NdSA), che ritengo personalmente l’etichetta più hip hop tra le etichette non hip hop. In che senso? Beh, Garrincha è un’etichetta talmente assurda e naif, eppure organizzatissima, così tanto da essere riuscita a far arrivare il proprio gruppo di punta ai vertici della classifica iTunes, facendo convivere al suo interno esperienze diversis- sime come noi, L’Orso, i Chewingum, lo Stato Sociale e vari altri. Credo che un’etichetta così, con quell’attitudine a far collaborare così tanto le band al suo interno, possa essere definita hip hop nel suo non essere hip hop. Beh sì, in effetti nel tuo disco, collegandoci a questo discorso, c’è anche un brano fortissimamente hip hop, pur non avendo affatto quella sonorità specifica: La canzone dell’Ukulele. Esatto, ci hai preso in pieno. É una specie di piacere restituito; a suo tempo avevo fatto James Van Der Beek nel disco de L’Orso, che registrammo in quel di Bologna e che, malgrado alcune cose che ora cambierei, continua tuttora a divertirmi e a soddisfarmi. Figurati che quel brano ha ricevuto riscontro positivo dallo stesso Van Der Beek. Comunque, a parte l’antefatto, il brano di cui parli è decisamente hip hop nella sua filosofia e nell’atteggiamento, tanto per la questione della collaborazione, quanto per il fatto che poi si parli dell’etichetta, quanto per la prima strofa, che è fortemente “meta”, come buona parte dei testi hip hop. Io alla fine ho vissuto la cosa da esterno, diciamo, ma ho seguito con passione e attenzione molte delle sue evoluzioni grazie ad amici che erano nella cosa e che a loro modo ci sono ancora. Va inoltre aggiunto che grazie a Chiambretti, il mio ruolo di “rapper” è stato sempre percepito con simpatia da buona parte di alcuni mc’s, anche insospettabili, perfettamente consci di come il mio non fosse uno scimmiottamento guidato dall’opportunismo. Andando avanti nell’analisi dei brani più intriganti, potresti dirmi qualcosa su E se Einstein avesse ragione, che mi sembra abbastanza esemplare per quello che riguarda la natura ibrida di tutto il disco, in cui i generi si accavallano l’uno sull’altro? Secondo me si tratta di un brano un po’ diverso rispetto al resto del disco. Il suo sviluppo è un’idea di Filippo; inizialmente si era pensato a tutt’altra struttura, doveva essere un brano prettamente strumentale, e infine è stato declinato in una versione abbastanza hardcore (parlo sia dell’attitudine, che del ritornello urlato). É un brano che al di là delle interpretazioni, ha una sua urgenza prettamente punk, molto diretta, e parla della teoria di Einstein delle api, ma in realtà è un modo per spiegare come noi tutti siamo soggetti a un vita in cellette e all’obbedienza verso una regina. Credo che il mio apporto nel ritornello sia stato azzeccato per i miei trascorsi negli Stalkers, un gruppo hardcore in cui ho militato. Sempre parlando di canzoni con più di un significato, prendiamo in considerazione il brano in cui la pluralità di significati è più accentuata, ovvero Cerchi nel grano… Sì, di significati lì ce ne sono parecchi: alcuni sono semplici topoi parecchio diffusi nelle canzoni (di riferimenti al grano, la tradizione italiana è piena), anche se in realtà i riferimenti sono di vario tipo. Considera che sono legatissimo a questo brano; se mai ci sarà un terzo disco dei Magellano, sarà proprio Cerchi nel grano il brano da cui ripartiremo e con ogni probabilità sarà anche il prossimo singolo. Mi piace molto, parla di riferimenti pop come serie tv e film trash, abitudini e vizi umani, alieni, amori non corrisposti, stelle, spighe e addirittura di True Detective. E poi ovvio, parla di soldi e di pane. Parla di moltissime cose, insomma. E la cosa migliore è che questa pluralità di significati non è stata programmata, è qualcosa che, fatto salvo il lavoro di limatura, è nata nella maniera più spontanea possibile. Quando il gioco funziona, il messaggio arriva, è quella la cosa che più mi interessa e che mi trattiene dal cercare riferimenti più colti o dal ricorrere a sovrastrutture eccessivamente elaborate. Anzi, spesso il lavoro che faccio è più togliere, che aggiungere elementi. 15 Arrivando verso il finale e conoscendoti un po’, mi viene da chiederti qualcosa sui tuoi ascolti di questo periodo. So che potresti dare una risposta meno scontata di quanto si possa immaginare… Premetto che io amo comprare i dischi che amo, e il fatto che non stia comprando ora dischi è sintomatico di come qualcosa non vada; perciò ho difficoltà a farti una eventuale top 5 dei miei ascolti attuali, nonostante qualche sporadico colpo di fulmine. Ascolto più o meno tutto, facendo serate in cui mi relaziono con personalità musicali anche antitetiche tra loro, quindi posso passare da Katy Perry, a Rick Ross, al rap italiano, ai Blue Sky Black Death o a vari gruppi emo. Ho ascolti polivalenti, nell’ultimo periodo ad esempio mi piacciono le canzoni di Sinigallia, ho approfondito i Subsonica e rivalutato molte cose reggae. In generale è comunque non consigliabile porsi troppi paletti per gli ascolti, evi- 16 tare soprattutto i discorsi “ideologici” del tipo “musica per la massa e musica underground”. Puoi trovare cagate in entrambi gli ambiti. Parlando di massa, il mezzo di comunicazione per eccellenza fino a qualche anno fa è stato la televisione, mentre ora invece sembra essersi spostato tutto verso il web, anche solo per lo streaming delle serie tv. Hai vissuto un’esperienza lavorativa con la TV generalista per eccellenza, malgrado si trattasse del programma di una delle personalità più anomale del settore (Chiambretti). Ora stai invece lavorando a La3, in un programma che mette in primo piano l’elemento social network, e nello specifico Twitter. Com’è stato passare da una cosa all’altra e come sta andando? Il passaggio è stato assolutamente non traumatico, a parte il fatto che quando lavoravo con Chiambretti spesso la gente mi fermava per strada e ora succede molto di meno. Quindi, un minimo di perdita di visibilità c’è stata. L’esperienza in quel collettivo, tuttavia, mi ha dato la possibilità di vivere un’avanguardia che probabilmente si era vista prima solo con Arbore, è stato decisamente stimolante. Parlando del presente, posso dirti che ho parecchia libertà. La3 è un canale costituito da persone molto attente a quello che succede, ed è sembrato opportuno fare un programma che sottolineasse come il web influenzi le nostre abitudini e il nostro linguaggio, considerando anche che nel caso di personaggi famosi questa influenza viene esercitata con molta più forza. Riguardo ai risultati effettivi, parlo di ascolti, è difficile capire come vada, anche perché ormai i programmi non vengono più guardati in diretta o sulla tv, quindi è difficile stabilire se un programma funziona basandosi solo sugli spettatori televisivi. 17 Incontro con Forest Swords, alias di Matthew Barnes. Ritratto umano e professionale di una delle icone di un movimento trasversale di producer e musicisti che hanno trovato nuovi modi d’unire beat e melodie Testo di Edoardo Bridda © Daniele Casciari Forest Swords Feeling that resonance Incontriamo Forest Swords, ovvero Matthew Barnes, al Mattatoio di Carpi il pomeriggio della stessa giornata che lo vedrà suonare in duo nel locale, all’interno di un ottimo programma di preview organizzato dal Node Festival. Di Barnes conosciamo tutto o quasi, a livello mediatico. Sappiamo che al voltar della decade è 18 stato uno dei protagonisti più monitorati di una scena dai nuovi ed inediti contorni crossover tra melodia e ritmi, assieme a James Blake, Mount Kimbie, Balam Acab e How to Dress Well, un contesto tanto caratterizzato da un uso estensivo del laptop, tra layer e manipolazioni, quanto dall’impiego di suoni concreti e di particolari settaggi sulle voci, richiamate più come essenze collaterali che come guide all’arrangiamento. Il marchio Forest Swords, in particolare, sembra veramente vincere tutto nel 2010, anno in cui, a distanza di circa 12 mesi dalle prime immersive session compositive, il suo giovane autore si ritrova Dagger Paths – EP d’esordio uscito inizialmente su Olde English Spelling Bee e poi riedito per la londinese No Pain In Pop con l’aggiunta del 7”’ Rattling Cage - tra le migliori uscite della stagione secondo Fact (che lo nomina album dell’anno), Pitchfork (che lo valuta con un generoso 8.4), Drowned In Sound (ancora più alto, con 9/10) e per finire il popolare Guardian (che lo indica tra le perle nascoste di quell’anno). A livello di fama, e di conseguenza sul piano dell’agenda concerti, un giovane poco più che ventenne, passa in un lampo dallo strimpellare con una chitarra collegata ad un portatile in una provincia ad ovest di Liverpool a fenomeno di culto per le più importanti riviste specializzate al di qua come al di là dell’Atlantico. Giusto un anno più tardi la stessa sorte toccherà all’amico e compagno d’etichetta Evian Christ, che finirà in uno dei tanti co-crediti di Yeezus di Kanye West, ma questa è un’altra storia, pur con qualche analogia e un importante elemento in comune, ovvero Tri Angle. Tri Angle non solo è l’etichetta che accomuna i due ragazzi, ma anche un solido porto per suoni che si sono svincolati, in particolare negli ultimi due anni, dalle tag e dai luoghi comuni hypnagogic e witch house per abbracciare alcuni dei più freschi mix di disparati elementi quali hip hop, wave, ambient, ambient, noise, instustrial, techno, dub ecc. All’interno del roster, Forest Swords – il cui sound era già assolutamente ricettivo fin dall’esordio su Olde English Spelling Bee – fa la figura della matta nel mazzo, anche solo per l’uso “rockabilly” (davidlynchiano? morriconiano?) della chitarra, elemento che lo ha reso appeti- bile per tutta una serie di ascoltatori e non solo per gli aficionados dell’elettronica. Premessa doverosa per introdurvi al racconto di una chiacchierata con il ragazzo al di sotto degli strati di paragoni, paralleli, contesti e sottocontesti. C’è una bella differenza tra il Matthew Barnes sagoma in bianco e nero con il ciuffo arricciato sulla fronte delle foto press e il ragazzo con i capelli rossicci che, di fronte a noi, braccia incrociate e gambe accavallate, ci racconta di sé seduto comodo e un po’ rigido su una poltrona in pelle imbottita. E’ un bravo ragazzo, questo lo si capisce immediatamente. Pragmatico e cortese nella media inglese, con un accento non troppo marcato e già una certa pratica con le interviste, dove senza sbottonarsi troppo fa emergere fatti sui quali non c’è nessun segreto, nessun riserbo e tanto meno colpi di scena. Il progetto nasce in un momento un po’ buio. Perso il lavoro, nel 2009, Barnes, ancora piuttosto fresco di studi alla scuola d’arte, ha un sacco di tempo libero e con una chitarra che maneggia già dall’età di 12 anni (un regalo di Natale) e un laptop, impiegato sia per usi di grafica artistica che per manipolazioni e stratificazioni sonore, inizia ad immergersi in una serie di possibilità arrangiative senza pensare a un domani né tanto meno a chiudere questa o quella composizione. “Poi le cose hanno iniziato a prendere forma e un senso“, ci confessa “ho postato questi demo su internet e qualcuno poco dopo mi ha chiesto se volevo produrli“. Foto di Daniele Casciari La storia di Matthew sembra tra quelle che non si scrivono, con il lieto fine all’inizio del film: un breve abbattimento, l’escapismo creativo, la svolta, il successo. “Nel mentre è stata dura ma guardando le cose a posteriori, è stato un processo naturale, organico“, ammette all’inizio dell’intervista, eppure, man mano che la nostra chiacchierata procede, è sempre più chiaro parecchio ruvidi” nel suo lavoro, ma è evidente che fare musica per lui è un processo che richiede moltissimo tempo. “Non direi di essere un perfezionista nel senso di uno che vuole tutto a puntino… …diciamo che quando sento quella precisa risonanza in un brano solo allora sento di poter andare avanti“. Risonanza è forse una delle parole più rappresentative della musica di Forest Swords, è qualcosa che vibra in spazi aperti, che possiede carattere ed è refrattaria ai contenimenti, un piccolo mondo dai confini non ben delimitati eppur visibili che nasce magari da una scoperta, da un particolare attorno a cui viene costruito un insieme più o meno articolato e non gerarchico di elementi. I suoi remix, di fatto, vengono composti proprio in questo modo. “Quando remisso un brano ho l’abitudine di trovare un piccolo frammento o qualcosa di inusuale all’interno che mi colpisce e una volta individuato cerco di costruirci un pezzo nuovo attorno. Così invece di metterci un beat dietro come fanno © Daniele Casciari quanto dietro al risultato conseguito dal producer ci sia un lavoro enorme di concentrazione, di metodo e di sintesi che non si traduce facilmente in un racconto di influenze. Certo, all’inizio è molto “interessato al reggae, al dub e al rock“, e rivela di aver speso “un sacco di tempo ascoltando interi box set della Trojan“. Eppure Forest Swords è molto di più, riassume un range di influenze di cui il suo autore non solo non è consapevole al momento della composizione, ma non è neppure interessato a discernere se non, eventualmente, a posteriori. Molto più interessante per lui è il racconto del tempo speso per ottenere quel particolare effetto sui piatti e sulle percussioni, quel particolare timbro nei suoni. Un po’ come Aphex Twin, gli diciamo, e lui, ridendo, continua illuminato descrivendoci questo processo come “quando metti una chiave in una serratura e trovi il giusto click che fa girare gli ingranaggi“. Precisa di non sentirsi un perfezionista nel senso comune del termine perché ci sono “suoni grezzi o 20 molti, lo rifaccio da capo. C’è molta più soddisfazione così ma può diventare molto stancante e richiedere molto tempo“. Una delle ragioni per le quali Barnes non dedica più molto tempo a questi lavori su commissione (“Devi stabilire delle priorità e quelle a un certo punto sono per la tua musica“) rappresenta un altro indizio della sua concretezza nell’approccio all’arte ma anche del suo modo di lavorare. “Costruire ‘blocchi’ in una traccia è quasi come fare un collage, mettere assieme elementi grafici in photoshop e elementi musicali non è così differente“. Ed in questo quadro finisce anche l’interpretazione che Matthew dà dell’uso della chitarra nella musica di Forest Swords. “Non potrei dire di essere un buon chitarrista“, afferma “strimpello fuori dal pentagramma, trovo suoni e melodie che suonano bene e stanno bene tra di loro“. Una delle strade che hanno portato la critica a trovare paragoni con l’attività di Mark Nelson nei Pan American, per Forest Swords, sta proprio qui, in questo uso svagato e vagamente western della seicorde che fa un po’ post-postrock e finisce per tirar fuori un’altra passione di Barnes, ovvero i Mogwai e i Sigur Rós. “Molti hanno paragonato la mia musica a quella di Pan American, non l’avevo mai sentito prima ma ascoltandolo poi ho potuto trovare le somiglianze“. Un po’ come Jamie Stewart degli Xiu Xiu con Mark Hollis, gli ribadiamo… Altro aspetto interessante è il contesto geografico. Wirral, dove abita Matthew, è un piccolo centro a 30 minuti da Liverpool, una penisola che è anche una città di mare senza scene musicali e con poco da fare. Anche se i giri nella grande città sono frequenti in occasione di mostre, concerti ecc., è importante per lui continuare a stare lì anche per un discorso di concentrazione. Il suo ultimo album, Engravings, è stato inciso tutto all’aperto, in particolare vicino ad un fiume. “Ero stanco di comporre a casa in camera da letto al buio, e così ho pensato di cambiare scenario, mi sono poi reso conto che stare all’aria aperta ha cambiato completamente il mio approccio“. E la melodia, per uno che cresce vicino a Liverpool, come deve essere? Barnes parte da lontano: non è molto interessato alla pura musica d’ambiente o al noise. Non si sente un cantautore e non vuole scrivere canzoni, di sicuro però un certo livello d’attenzione nei suoni che ascolta e produce deve portare con sé un mood e dunque qualcosa di melodico (“Un portato dall’abitare vicino alla città natale dei Beatles, I guess so“). Naturalmente la nostra chiacchierata, molto lineare ma non per questo fredda o di routine, finisce parlando del live: Matthew ha portato con sé un amico fraterno, un compaesano, rosso come lui ma con una folta barba. E’ il suo bassista, ma anche il suo compagno d’avventure. Alle loro spalle, durante lo show, ci saranno dei visual coordinati e ideati da Sam Wheel, sempre di Liverpool, video che sono stati creati specificatamente per le canzoni di Forest Swords e hanno richiesto quattro o cinque mesi di lavoro. La sincronia tra video e musica impone un set piuttosto strutturato che non lascia molto spazio all’improvvisazione, anche se i due amici garantiscono di poter dare il loro contributo originale all’esibizione. Finito il concerto, proprio il giorno dopo, Forest Swords suonerà a Istanbul, in Turchia, all’interno di un festival stranamente molto brit con Zomby e Evian Christ. “Non corre buon sangue tra di loro“, gli diciamo “Non mi stupisco, Evian sui social è un autentico troll“, risponde sardonico il ragazzo, che dei suoi compagni d’etichetta, e dei producer del giro di questi eventi, sembra essere piuttosto informato. “A proposito, in Italia ti si vedrà per Ypsigrock vero?“. Barnes: “Yes mate, is gonna be amazing“. 21 Dopo un album e un tour lunghissimo e fortunatissimo, dopo litri d’inchiostro spesi dalla critica al riguardo, tornano i Lo Stato sociale con il nuovo album “L’Italia peggiore”. Li abbiamo incontrati e stuzzicati, non risparmiandoci alcune, scomode, domande. Testo di Nino Ciglio Lo stato sociale la rivoluzione col polleggio 22 Lo stato sociale è una di quelle band che, se ci fosse un concorso per “chi ha speso più inchiostro al riguardo”, vincerebbe facilmente il primo premio. E in fondo piace, a noi “criticoni”, dire la nostra con intelligenza (a volte con arroganza), argomentando, nei più svariati modi, il perché – come si scriveva su queste pagine in un articolo datato 2011 – “quel cazzeggio democratico, in cui tutti si ritrovano a meraviglia, e con poco sforzo cliccando su “mi piace” sia lo scopo finale del quintetto bolognese. Assolutamente condivisibile. Come del resto scervellarsi sul come, dove e quando tal dei tali, recensore di tal rivista, si sia sbilanciato un po’ troppo sul gruppo. Nessuno si scandalizza e, se c’è il dibattito, vuol dire che c’è coscienza musicale e sociale. Che il fan medio de Lo stato sociale, poi, sia un fan diseducato – come pure s’è detto in giro – è una questione discutibile e per la quale ci vorrebbero altre sedi, che tocchino, per dirne una, il problema (?) dello stato di salute dell’indie italiano. Un genere? Una marca? Un distintivo? Non c’è bisogno di vederlo come un viatico artistico e il sintagma, già di per sé vago, così affrontato finisce per perdersi in fumo. Certo, è bene ricordare (a noi stessi, ai lettori, a tutti) che altra cosa sono Brothers In Law, Iori’s Eyes, Drink To Me, Ka Mate Ka Ora, Be Forest, Echopark, His Electro Blue Voice, M+A, Porcelain Raft, Vaghe Stelle, ecc… (l’elenco completo lo trovate nella nostra bella playlist) per l’indie italiano. Sono cosa con un respiro più ampio e, semplicemente, non paragonabile alla band in oggetto. E non per forza per ragioni qualitative. Poi, se si pretende di indicare Lo stato sociale come punta di diamante dell’indie italiano o purga di tutti i suoi mali, allora, forse sì, l’ascoltatore medio è diseducato. Ma siamo certi che i ragazzi della band non hanno mai avuto quest’ambizione. Come, altresì, l’ambizione di Brunori, ad esempio (come si diceva qui), non è mai stata quella di essere “il cantautore dell’in- die italiano”, ma, semmai, quella di suonare nei falò o, al massimo, al concerto del Primo Maggio. Ma che razza di musicista indie può essere uno che suona al primo maggio? “Le canzoni sono quella cosa che chi non le scrive le prende tremendamente sul serio” ci è stato detto. Vero, certe volte perdiamo la bussola del reale. Ma legittimo è anche considerare la musica de Lo stato sociale come esegesi reale (e un po’ grossolana) del nostro essere, ovvero “parti di una comunità piccola e fin troppo legata a una ritualità espressiva che per paura o per gioco vogliamo sempre più riconoscibile, immediata e infine divertente”. E quindi – come in sede di recensione di Solventi – “la svaccata è sempre in agguato”. E allora? E allora abbiamo provato a sentire la loro opinione, in un pomeriggio soleggiato di maggio, quando, prima di partire per l’ennesimo tour affollatissimo, li abbiamo incontrati al Locomotiv Club di Bologna. Abbiamo provato a stuzzicarli, mettendoli in posizioni scomode, un po’ come fanno loro nei confronti di chi ha il compito – legittimo – di giudicarli. Abbiamo provato a spostare il piano di scontro dalla pancia – il loro luogo ideale, quello che, secondo alcuni, li fa peccare di coerenza politica, artistica e sociale – alla testa, argomentando una serie di possibili ed effettive critiche. Turisti della democrazia, in fin dei conti, aveva ricevuto più stroncature che approvazioni da parte della critica. Come si riesce a mantenere la testa alta e a fare un secondo disco che tenti di suonare “coerente” rispetto al primo? Lodo: Io non credo che esista la musica bella o brutta, non credo in queste categorie. Abbiamo avuto la fortuna che le nostre canzoni parlassero a tante persone e che in due anni trasformassero quello che rimane un gioco nel nostro lavoro. Siamo stati per lo più incoraggiati da questo. 23 Sul piatto della bilancia pesa più questo delle opinioni di un critico. Gli unici momenti in cui le critiche pesano di più, sono quando si scende nel personale, discutendo la nostra etica, la nostra coerenza politica. Bebo: Secondo me va sempre circostanziato il “chi” ti dice “cosa”. Per me, un perfetto sconosciuto che dice che la nostra musica è brutta ha tutta la legittimità di farlo e, per quanto possa dispiacerci, lo accetto come un dato di fatto. Ma quando esco a prendere una birra col mio migliore amico e mi confessa tranquillamente che Lo stato sociale gli fa cagare, continuiamo ad essere uno il fratello dell’altro, ma ci rimango un po’ male. Mi fa venir voglia di fare qualcosa che possa piacere anche a lui. Mi dà più soddisfazione. Avete mai pensato che L’Italia peggiore potesse rappresentare magari una reazione artistica alle critiche? Lodo: Non ho mai pensato di dover reagire alle critiche della critica. Secondo me non è il nostro obiettivo. Ci interessa arrivare a sempre più persone e cercare di farle stare bene, soprattutto quando escono di casa e magari ci troviamo ad un nostro concerto. Le canzoni sono uno strumento per creare un bel momento comunitario, possibilmente felice e liberatorio. Se le stroncature ci hanno portato a suonare di fronte a trenta o novemila persone, va benissimo. Il che ci porta a quell’articolo – recentemente edito – che ha scritto: “La voce che parla in questo disco, comunque, è quella di uno che nutre un forte risentimento verso il mondo esterno, sinistra compresa, antagonismo compreso, e verso il gioco di ipocrisia e arrivismo sociale in cui tutto è completamente immerso”, accusandovi, in virtù della vostra situazione privilegiata, di mettervi al riparo da tali critiche… Lodo: Io lo trovo un pensiero intelligente, fatto da una posizione un po’ bislacca. Partendo dal 24 presupposto che ci viene da parlare, scrivere e raccontare così, e che comunque questo metodo è arrivato a comunicare qualcosa ad un po’ di persone, qual è il passo in più che dobbiamo fare? Credo che sia una critica asettica, perché, in questa fase storica, va molto di moda fare critiche reazionarie, dando dei reazionari agli altri. È probabile che noi non spostiamo di un centimetro il futuro di chi ci viene ad ascoltare, ma quanto meno lo facciamo uscire di casa, che forse è meglio che stare davanti a un computer… Un prodotto vero del grillismo è che i nemici del grillismo hanno assunto i linguaggi del grillismo. Seppur affinati, articolati e intelligenti… Non sembra tanto diverso da quando dicevamo “berlusconismo” al posto di “grillismo”… Lodo: Sì, ma lì la piattaforma non era internet, erano altre cose… Ora succede che il ragazzo sveglio e di sinistra, che ha delle cose da dire, dopo vent’anni in cui un partito di centrosinistra non ha fatto una sola battaglia di sinistra, riesce meglio a lavarsi la coscienza stando davanti a un computer e argomentando succulente supposizioni per cui il grillismo è protofascismo, e così via… Secondo me, queste stesse persone, cinque anni fa, erano in Val Susa e ora sono davanti al computer a parlare di Grillo. Ripeto: è possibile che noi non spostiamo nulla, ma indica una strada… Già, ma perché non la indicate voi? Lodo: Ovvio, ma faccio solo quello di cui sono capace. Sono contento di riuscire a portare le persone fuori di casa e a farle stare bene. Alla base c’è una visione del mondo e delle persone diversa. Ho scelto di non pensare che le persone facciano schifo più di quello che immagino e che non ci sia speranza in loro. Credo che le persone siano quanto meno meglio di me e quindi, nel mio piccolo, credo che questa cosa porti da qualche parte. Gli articoli come quello che hai citato, sono articoli che hanno come sostanza il fatto che noi, come persone, non valia- mo un cazzo, che il mondo è fatto di giovani che non valgono un cazzo ed è tutto molto autoassolutorio. Se uno pensa così, o si ammazza o esce di casa e fa la rivoluzione. Però il dualismo – che riguarda da sempre la canzone che vuol farsi impegno – fra ottima rifinitura della pars destruens e gravi carenze della pars construens, è un fatto che riguarda anche voi… Lodo: Credo che il linguaggio espressivo – che è un linguaggio sintetico – sia molto efficace nel raccontare un’utopia o nel distruggere il mondo presente. Sul quale sia la pars construens in questo Paese, possiamo parlare cinque ore, dal momento che già fra di noi abbiamo cinque opinioni diverse. Crediamo che una canzone possa provare a dare una scossa, una voglia di cambiare in piccolo. Non siamo dei ministri, non abbiamo fondato un movimento politico e non vogliamo elencare 57 emendamenti di una riforma in una canzone. Duemila o venti per- sone in un locale che portano a casa una mattonella di felicità o di consapevolezza che non stanno vivendo nel modo giusto, per qualcuno che fa le “canzonette” è una grandissima pars construens. Bebo: Aggiungo che è necessario capire che si tratta di canzoni, altrimenti faremmo altro. Il miglioramento del mondo passa per le cose che si fanno quotidianamente. Ho lavorato in fabbrica per sette anni e il mio obiettivo giornaliero era condurre le ore di lavoro al meglio e far sì che la mia vita fosse dignitosa, che il lavoro fosse – e spesso non lo era – un motivo per svegliarsi la mattina. Quando non facevo le “canzonette” e facevo solo fabbrica, facevo comunque del bene nell’Universo, senza essere un personaggio pubblico ed esporre le mie idee. Non ho bisogno di una grande sovrastruttura per giustificare la mia vita; sono contento di mettermi a letto la sera, convinto di aver migliorato un minimo me stesso e le persone che ho di fianco. 25 Sembra gandhiano, ma è così: non siamo riusciti a far di più in 50 anni di lotta, in 25 di sinistra moderna. Vorrei trovare tutti i giorni le energie giuste da investire in un futuro migliore, mio e delle persone che mi stanno vicine. Questo non vi rende un po’ “generazionali”? Non pensate di essere una sorta di band a scadenza? Lodo: E’ possibile che sia così negli effetti, che fra cinque anni nessuno si ricorderà de Lo stato sociale. Dire che è insopportabile che nei centri sociali o nei movimenti chiamino a suonare Lo stato sociale, appoggiandosi ad una mentalità che definisco reazionaria, è una sciocchezza. Noi veniamo da lì. Le occupazioni le abbiamo fatte, nei centri sociali ci siamo stati. Per noi è più strano andare nei club! Abbiamo amici nei centri sociali con cui abbiamo fatto battaglie, è normale che suoniamo lì! Però di battaglie ora ne fate un po’ meno… Lodo: E’ una questione dolorosissima. Spesso 26 continuiamo ad esporci: un anno fa con il referendum per l’abolizione dei fondi alle scuole private a Bologna, io personalmente per la candidatura di Claudio Riccio alle europee con L’altra Europa. Cerchiamo tutt’ora di esporci. La sinistra fuori dal parlamento poteva creare una splendida realtà di movimento, ma non è successo e si è rigenerata una rincorsa alla soluzione per rientrare in parlamento. Tutte le grandi lotte di resistenza (Muos, Ilva, Tav, Sesto S. Giovanni, Rossano Calabro) sono passate in secondo piano perché ora si deve stigmatizzare il fatto che i grillini hanno un atteggiamento protofascista. E’ vero, ma quando lasci le battaglie importanti senza nessuno che se ne occupi, se non arriva a prendersele un fascista, arriva un protofascista. Parliamo un po’ de L’Italia peggiore. Stessa formazione di Turisti della democrazia, stesso produttore… Bebo: Matteo (Romagnoli, che ha prodotto il disco con la band, ndSA) è un fratello, non poteva esserci soluzione migliore. Per un periodo abbiamo pensato di appoggiarci a Tommaso Colliva per il mix, ma abbiamo preferito – per una semplice questione di estetica sonora – continuare con Francesco Brini. Abbiamo investito un po’ di più sul mastering a Londra, che fa suonare tutto un po’ meglio. Dal punto di vista compositivo, c’è meno elettronica di genere e in alcuni casi sfiorate il reggae e lo ska. Come mai? Bebo: Come al solito facciamo un casino fotonico… (ride, ndSA) Lodo: E’ compito mio quello di mettere degli accordi sotto un testo, a prescindere da chi lo abbia scritto. Mentre in passato scrivevo spesso al piano, per questo disco ho scritto quasi tutto alla chitarra. Ho ascoltato Libertines, Arctic Monkeys e Specials ed è venuto fuori un po’ così… D’altro canto ci sono momenti – come Il sulografo e la principessa ballerina – in cui non ho messo mano alla parte musicale, e l’elettronica spicca. Si sente molta vita da tour nei testi de L’Italia peggiore. Quali sono le cose che vi hanno segnato di più in più di due anni su e giù per lo stivale? Bebo: La grande bellezza dell’Italia tutta. Abbiamo conosciuto in due anni l’altissimo e il bassissimo che offre questo Stato e, all’interno di entrambi i poli, abbiamo conosciuto persone che si battono e cercano di far qualcosa per rendere il Paese più bello. Però poi il disco si chiama L’Italia peggiore… Lodo: Beh sì, ha la doppia valenza: da una parte è orgogliosamente autoironico e dall’altra è l’Italia di Brunetta, secondo la quale i ricercatori vanno all’estero perché qua non hanno voglia di lavorare come colf. In un paese di provincia, ad esempio, se vuoi fare un festival o una serata con un minimo di ambizione, hai bisogno dell’appoggio dell’assessorato. Molto spesso è del PD, ma le realtà locali sono diverse dalle dirigenze. Noi siamo molto fighetti e, in una città come Bologna che ha molte realtà diverse, possiamo decidere se suonare al TPO, che è un centro sociale, o altrove. Ma se abitassi a Rocca d’Aspide (SA), forse non avrei questa possibilità. Sono stronzi quelli che, appoggiandosi ad un’istituzione o ad un partito, creano un momento di cultura in cui le persone si divertono? Quello è il caso in cui un’istituzione fa una cosa buona. Max Collini – ospite in un brano del disco – e i suoi Offlaga Disco Pax hanno un ruolo fondamentale per L’Italia peggiore e per la musica de Lo stato sociale in generale. Parlatemi dell’ospitata e di Linea 30, un brano che ricorda moltissimo la band emiliana… Lodo: Max è un amico, un padre putativo. Quando è venuto all’Estragon, durante l’ultima data del tour scorso, premeva perché gli facessimo fare qualcosa nel disco nuovo. Non sapevamo cosa, però. Alla fine è finito in Questo è un grande paese che, ovviamente, gli fa cagare. Bebo: Quando ho registrato le voci di Linea 30, ho detto a Lodo: “Non voglio che suoni come gli Offlaga” (ride, ndSA). Non era perché volevo prendere le distanze, ma solo perché gli Offlaga sono stati importantissimi, fin dai loro primissimi concerti. È inevitabile: quando metti del recitato su una canzone, la cosa più prossima per un emiliano che usa l’elettronica, sono gli Offlaga Disco Pax. Magari dieci anni fa potevano essere i Massimo Volume. Linea 30, secondo me, fotografa uno dei simboli della vigliaccheria del Novecento italiano: colpire la città, le persone comuni con una bomba al simbolo dei trasporti del Novecento. Sono morte persone che non c’entravano nulla e il risultato è stato che tutti si sono aiutati: le persone comuni sono diventate soccorritrici di quelle colpite dallo Stato. Leggo che C’eravamo tanto sbagliati è nato da una notte travagliata… ci racconti quello 27 che si può raccontare? Lodo: “Resilienza”: una parola che ho imparato dalle telecronache NBA di Flavio Tranquillo, spesso in relazione ai San Antonio Spurs. Negli ultimi mesi avevo una gran voglia di fuggire dal progetto, ma le cose erano già partite e non potevo più tirarmi indietro. Il pezzo è stato un meccanismo di recupero: dalla difficoltà al colpo di reni. Parla delle cose che odio negli altri, e di quanto mi ci riconosca. O, forse, riconosco le fasi rare – ma importanti – di conflitto con mio padre, che, non a caso, fa il professore. La mia maschera (che è quella cosa che non nasconde ma rivela, dice Peter Brook) in commedia nell’arte è quella del Dottore, del professore, del trombone, di chi insegna. Avevo bisogno di mandare affanculo il mondo delle mie proiezioni e di liberarmi. Quindi non sbaglia chi dice che le vostre canzoni trasudano “risentimento” personale o “sensi di colpa”… Lodo: Non sbaglia, basta capire che si tratta di una canzone, di cinque minuti che fotografano uno stato d’animo. L’iper-identificazione di una persona in una canzone è una cazzata. Veramente sognate un mondo della musica dove vivere e cantare, in serenità, ascoltando musica reggae, come si evince in La musica non è una cosa seria? ‘Mazza che palle… (Ridono, ndSA) Lodo: Prima di La musica non è una cosa seria avevo scritto un pezzo tipo Manu Chao, tipo la rivoluzione col polleggio… poi tutti mi hanno rivelato che il pezzo era veramente brutto. Non riuscivo ad entrare nel personaggio, poi l’ho riscritto pensando ad un modo diverso di fare le ribellioni. Voglio dire: noi occidentali, a livello culturale, leghiamo le ribellioni alla violenza, alla rabbia (e nel disco ci sono almeno due brani che parlano di questo); ma esistono altre culture che pensano alla ribellione pacificamente, come al raggiungimento di una dimensione altra rispetto al mondo. Volevo parlare di 28 quello, parlando di una mia fuga. A proposito di ribellione: sapete che Pasolini è sempre stato criticato dalla sinistra anche perché non riusciva a parlare di rivoluzione senza metterci dentro sempre i rapporti sentimentali? Lodo: Io in realtà pensavo a Time For Heroes dei Libertines, in cui ogni strofa finisce con “I cherish you, my love”. O ad Harold Pinter, che parla del fallimento dell’utopia della sua generazione in Tradimenti e lo fa non citando mai la politica: si parla solo della perdita di entusiasmo di un tradimento… Senza macchine che vadano a fuoco non vuole chiamare la volata alla rivoluzione adesso, ma il fatto che la vibrazione che ti dà lottare o prendere botte per difendere delle idee, ti fa sentire vicino chi hai accanto in una maniera diversa. Bebo: io mi relaziono con il mondo della musica elettronica, soprattutto quella dance. Lì la rivoluzione è stata vissuta in maniere differenti: Detroit, con l’Underground Resistance, doveva essere messa a ferro e fuoco dal black power. D’altra parte l’house mi ha insegnato l’edonismo, che è un concetto classico che si è un po’ perso. La rivoluzione è passata da lì: i primi party sono stati un modo per le comunità omosessuali di colore di rivendicare i loro diritti. Anche loro le botte se le son prese, ma l’house ha parlato molto più della comunità gay di quanto non abbiano fatto tantissimi movimenti. La musica era liberatoria, non autoassolutoria: tutti si è uguali. Ora si guarda male chi attacca la propria nicchia… Lodo: La parola rivoluzione, infatti, è stata bandita dalla società e quando non è proprio bandita, le viene fatto un torto peggiore: viene considerata come una cosa piccola fatta di piccole azioni quotidiane. La rivoluzione non è fare la raccolta differenziata: è qualcosa di forte che passa attraverso momenti di liberazione e identificazione collettiva. Raramente si ha a che fare con tanta bella musica ammucchiata in un unico album. Squarcicatrici è un progetto nato nel 2006 dalle mani di Jacopo Andreini, polistrumentista eccellente, agitatore musicale attivissimo dentro e fuori le mura nostrane. Col tempo il nocciolo iniziale dei musicisti, in un primo momento chiamati solo a collaborare, ha assunto caratteri stabili, verà identità di gruppo, mischiandosi e provandosi collettivamente, infilando le idee in libertà. L’alto grado di professionalità artistica unita ad un sano gusto nel fare musica ha prodotto uno dei più bei lavori di quest’anno, nessun timore a dirlo. Testo di Christian Panzano Squarcicatrici Sopra, sotto e in mezzo a tutto c’è il punk 29 Stilkunst (ovvero arte del padroneggiare ed esercitare stili differenti), e che non si scomodi la Baviera per questi tempi moderni. Bayreuth, Darmstadt e Parigi, poi New York, che alla disciplina wagneriana impose il silenzio. La Grande Mela funge tuttora da pietra di paragone – o metro con cui misurarsi i calzoni – per pleiadi di sperimentatori. Nel nostro caso di un ensemble che vanta attributi ennevolte e pantaloni compresi. Squarcicatrici si prenota un posto in prima classe sulle righe di fine anno, in netto anticipo rispetto al panettone. Non se ne tragga forzatura, ma quel germanismo così poco amicale oggi, stando alle frasi di Zen Crust – pregevole lascito dei toscani – calza a pennello sulle prime anafore della loro agogica: “Non abbiamo una ricetta, ci piace cambiare spesso le carte in tavola attraverso variazioni dinamiche, armoniche o di colore. Questo approccio si legge anche nella scaletta del disco: ci sono brani totalmente strutturati (New World Border), o largamente improvvisati con un tema a chiudere ( Fil Tunis), suggestioni da doppi trii free jazz (Pont des arts), colori elettronici (Saffo’s wedding party) e molto altro. La variazione è l’anima della nostra musica. Ci ritroviamo attorno ad un repertorio che ogni volta rinasce, si ricrea e cambia in base all’esperienza che cresce. Siamo anche attenti a non offrire il fianco alla noia, cambiamo strumenti, suoni, parti, intenzioni e strutture, specie dal vivo. Siamo un’orchestra libera, un circo musicale: ognuno conosce i propri ruoli e le proprie parti, ma fa comunque come gli pare! Ebbene, già il titolo è un ossimoro bello e buono, per giunta di lunga gestazione, a quanto pare: “lo è, ed è anche la nostra Nuova Religione. Ci piace vivere gli estremi, tutti. Essere buoni e teste di cazzo, avere a cuore i problemi del mondo e sbattercene bruciando una quantità di gasolio per spettatore raggiunto ridicolmente alta. Vegetariani, vegetariofili e carnivori impenitenti. Comunque, in sostanza, prenderci il diritto (again) di 30 fare che cazzo ci pare con la musica. MetalBossa? AfroNoise? PunkFusion? Mettici il nome che ti pare, domani faremo un’altra cosa ancora!” La scelta di diradare il suono viene forse posta a prima istanza. È stilkunst sfrondato, invece che addizionato, quando si pone l’accento su duende e dub o solo una ricerca che svela sbadatamente una luce di scherno negli occhi di Jacopo, leader della combriccola. Gira che ti rigira, questi Squarci appenninici fanno ciao ciao a downtown e periferia: un dionisiaco che parte da una veste di kolo macedone e si spoglia come avrebbe fatto king Tubby sui voicing dei lati B di una volta, potenziando in carattere i lick. Un avanguardismo che fra le mani di questi ragazzi diventa granaglia in filigrana: “sopra, sotto e in mezzo a tutto c’è il punk. O comunque quel modo sudicio e di pancia di trattare i suoni e gli strumenti. Quando suona più jazz, world (che poi che significa world? del “mondo” o soltanto “esotico”, come per i negri degli zoo umani degli anni ’30? e quindi quando uno fa punk non è world? o è extraterrestre?) o comunque lo si voglia chiamare… è sempre quel maledetto bastardo punk che vive dentro di noi. I soli di Matteo, il whawha e la distorsione sui suoi strumenti a quattro corde, il sound di sax di Andrea, l’approccio al contrabbasso di Piero, la batteria di Enzo, le mie chitarre o i temi di sax: tutto punk. Spirito punk! Ché del genere, di nuovo, non ce ne può fregare di meno! Se la parola “world” ritorna al suo significato originale, liberandosi dal fardello posticcio voluto da Peter Gabriel, possiamo essere d’accordo. Tutta la musica è world, dai suonatori di Kora a Phil Ochs, dai Crass a Cornelius Cardew: sono tutte musiche che nascono in determinati contesti e culture, e ciascuna fa riferimento al proprio contesto ed alla propria cultura. Viviamo in un mondo nel quale è possibile ascoltare tanta musica diversa: senza pretese di carattere etnomusicologico, ci piace essere parte di un processo di mescolanza, contro ogni appartenenza nazionalista. E questo lo facciamo oggi, quindi siamo contemporanei. Ascoltando Zen Crust non è Pantagruel l’immagine più prossima, semmai le misure plastiche del surrealismo e la scocca onirica rimessa in funzione. Ma sono chili di berbero che accompagnano immagini o si contrappongono ad esse? Leggiamo sul sito ufficiale del gruppo che Zen Crust diventa, o diventerà, anche un documentario: “le fasi di realizzazione del disco sono state filmate tutte da Jacopo, che si sta occupando anche del montaggio. Tra poco potrete vedere tutti come abbiamo passato questo anno di lavoro, e capire quanto seriamente ci divertiamo a fare dischi. (PS. Un duetto lo abbiamo fatto, Jacopo ed io: i soli a scambio su Pont des Arts! Ed è tutto ripreso!)”. E pensare che come un buon vino famoso, tutto ha origine daNipozzano: “è stato il luogo dove Squarcicatrici ha potuto provare, registrare ed incontrarsi sino all’anno scorso. La realtà odierna ci vede ben più sparsi per lo stivale, in un arco che va da Reggio Calabria a Milano. Quelli di noi che a Nipozzano hanno vissuto non sono mai stati fuori dal mondo, sia perché uscivano spesso in cerca del mondo, sia perché molte persone sono passate da Nipozzano: Mike Watt, Thollem McDonas, Phil Minton, Theresa Wong, tanto per dirne alcuni. In questa casa c’è stato uno studio collettivo nel quale hanno lavorato realtà come il Jealousy Party, la Motociclica Tellacci, gli Tsigoti, i Luther Blissett e molti altri. Non sono mancate le occasioni di confronto col resto del mondo, davvero. Molti di questi amici hanno lasciato una traccia su Zen Crust: Francesco Di Mauro, Gi Gasparin, Mariuccia Minichino, Scott Rosenberg, Simone Tecla, Samuele Venturin ed Andrea Di Lillo. Si evince una grossa pancia schietta e popolaresca, piena di ritmo e velocità, tempi stretti e poi dilatati. Un binario su cui far scorrere il treno di forme liber(at) e.“L’improvvisazione fa bene quando è il risultato di una ricerca e non la cronaca del suonare. Nuoce invece la dicotomia struttura-improvvisazione, perché separa due cose che sono una: la composizione. Credo che l’improvvisazione sia il requisito fondamentale della composizione e viceversa. Molti dei progetti a noi comuni (come Tsigoti, Motociclica Tellacci, Jealousy Party, L’Enfance Rouge e – moltissimo – Squarcicatrici) hanno avuto come comune denominatore questa fusione”. Cogliamo l’occasione dell’uscita del suo recente, bellissimo, album Bécs, per ripercorrere la densa carriera di Christian Fennesz, costellata di significative collaborazioni (tra cui David Sylvian e Ryuichi Sakamoto) e segnata da traiettorie particolari, tra glitch e Beach Boys. Testo di Alessandro Pogliani Fennesz the Noise and the Melodies Nato il giorno di Natale del 1962 a Vienna, Christian Fennesz è cresciuto a Neusiedl Am See, piccola città del Burgenland austriaco sul lago Neusiedler, verso il confine ungherese. Elementi salienti dei suoi primi trent’anni: gli studi di chitarra classica (la padronanza del mezzo resterà uno degli elementi principali della sua particolare cifra stilistica), le prime esperienze nel periodo 1988-1992 con il gruppo locale Maische (rock sperimentale con influenze My Bloody Valentine, tra i riferimenti sotterranei di tutta la sua carriera), la frequentazione della scena elettronica viennese e delle sue pioniere label (la Cheap di Patrick Pulsinger, la Mego di Peter Rehberg e Ramon Bauer), l’acquisto 32 dei primi campionatori. Con la pubblicazione per la Mego dell’EP Instrument nel 1995 e dell’album Hotel Paral.lel nel 1997 Fennesz emerge tra i principali protagonisti della rivoluzione glitch. “Con l’errore elevato a forma il digitale si appropria dell’impurità accidentale della vita, e quindi simula – tenta di simulare – una concretezza autonoma fin qui inedita. E’ un salto di livello impressionante” (E. Bridda). Filone introdotto dagli Oval (ma con una lunga storia che si svilupppa dagli Intonarumori di Russolo, gli esperimenti di John Cage ed Edgar Varèse, la musique concrète, i pionieri dell’elettroacustica, l’industrial noise degli anni ottanta…) il glitch rappresenta il ponte programmatico tra i due millenni, canonizzato dalle compilation Clicks & Cuts uscite dal 2000 al 2004. Lì si può trovare Fennesz in compagnia di tutti i nomi che contano: Alva Noto e Ryoji Ikeda, Sasu Ripatti (aka Vladislav Delay e Luomo), Mika Vainio dei Pansonic, Kid606, Matmos, Uwe “Atom™” Schmidt (il pezzo è Menthol, uscito nel vol. 2, nel suo annus mirabilis 2001). Di quest’ambito Fennesz è al tempo stesso epigono (“All’interno del processo compositivo l’austriaco individua più modalità di crash del campionatore, sottoposto a varie situazioni di carico e controllando questi “sonic accidents”, li utilizza come fonte sonora: è l’errore che diventa input sonoro” - M. Lorusso) e innovatore. Già in Hotel Paral.lel (Aus), ma soprattutto nel fondamentale singolo Plays (1998, dove l’austriaco destruttura e rimastica Rolling Stones e Beach Boys), emerge la sua singolare sensibilità, alla ricerca di un’inaudita quadra tra melodia e rumore, tra organico e sintetico. Sarebbe semplicistico ridurre la carriera di Fennesz ad una supposta “evoluzione” dall’elettronica più intransigentemente noise a soluzioni sempre più accessibili: più che di sviluppo lineare, occorre parlare di allargamento dell’area d’indagine, inglobando i nuovi risultati senza abbandonare le esperienze precedenti. Questo primo periodo fennesziano è già segnato dalla contemporanea battuta di piste parallele: l’improvvisazione sperimentale di gruppo (le collaborazioni con il collettivo MIMEO – Music In Movement Electronic Orchestra, il progetto Orchester 33 1/3, le esperienze di impronta più dadaista del trio Fenn O’Berg – ovvero Fennesz, Jim O’Rourke e Peter Rehberg – tra le altre) e il glitch, da un lato già tendente al manierismo (sintomatico il mini del 1998 Il Libro Mio – Recherchen Zum Manierismus, sonorizzazione di una coreografia ispirata all’opera di Pontormo: i titoli delle quattro tracce formano il nome dell’artista del Cinquecento – ma dove pure possono improvvisamente spuntare – in Tor – accordi di chitarra acustica), e dall’altro ibridato da tentazioni ambient-drone. Contaminazioni evidenti nell’album uscito nel 1999, il suo primo per la sofisticata etichetta inglese Touch: plus forty seven degrees 56° 37° minus sixteen degrees 51° 08°. Le coordinate indicano precisamente il giardino di casa di Neusiedl Am See, dove il disco è stato pensato e realizzato esclusivamente al laptop (caso unico nella sua discografia): la tappa più rigorosamente rumorista e “disfunzionale” dell’opus dell’austriaco. Nel giugno 2001 ecco comparire il capolavoro (preconizzato poche settimane prima dalla traccia C-Street, contenuta nell’EP Light, in condivisione con Hazard e Biosphere): Endless Summer (Mego) è oggettivamente da annoverare tra i più importanti album degli ultimi ventitrent’anni. Inedita commistione tra lirismo e noise, tra sperimentazione e accessibilità, il disco è ascolto irrinunciabile per comprendere appieno gli sviluppi della musica contemporanea: “Pop che non è pop, Beach Boys che non sono i Beach Boys, eppure nella magia della trasfigurazione quel che ritorna in cuffia è l’eterno miraggio estivo, il mare magnum di suono che ogni elettronico sogna di comporre” (E. Bridda). 33 Sfruttando la risonanza mediatica di Endless Summer, la Touch (che dal 2002 al 2012 diventa la label principale di riferimento di Fennesz) si affretta a pubblicare l’antologica compilation Field Recordings 1995:2002: riassunto di questa prima fase necessariamente “frammentario ed eterogeneo”, ma contenente solo materiale di ottima scelta (tra cui tutto l’esordio analogico Instrument, altrimenti di difficile reperibilità). Nel 2002-2003 proseguono le collaborazioni più sperimentali (solo per citare le principali: The Return Of Fenn O’Berg, Invisible Architecture con Vainio, Wrapped Island con i Polwechsel, Live At The LU con Keith Rowe, lo splendido GRM Experience a nome Fennesz, Vainio & Zanési) e i live “one man band” in giro per il mondo (tra cui quello registrato il 9 febbraio 2003 al Shibuyna Nest “che, a detta di molti, è il miglior laptop act dell’artista nonché, per i più entusiasti, il migliore mai fatto nel suo genere” – E. Bridda). Il 2003 è anche l’anno della chiamata da parte di un David Sylvian alla ricerca di nuovi stimoli e affascinato dalle inusuali prospettive offerte da Fennesz: la prima produzione della partnership è A Fire In The Forest, la traccia che chiude Blemish. Presentare Venice, il quarto album ufficiale uscito nel 2004, come “lavoro di transizione” non significa sminuirne il valore ma evidenziarne l’essenza: l’opera porta avanti le intuizioni di Endless Summer enfatizzandone il coté impressionistico con suggestioni liquidamente enoiane.Le chitarre sono sempre più presenti, trattate digitalmente attraverso patch Max/Msp o ipersaturate mediante effettistiche analogiche. L’album ospita lo sperimentatore Burkhard Stangl dei Polwechsel e l’inaspettata voce dello stesso Sylvian, che restituisce con Transit (nomen omen) il favore dell’anno precedente. Continuano intanto le collaborazioni, espressione dell’incessante voglia di confronto e di sperimentazione. Dal 2004 provengono le 34 registrazioni di quattro improvvisazioni live (poi pubblicate nel 2005): Cloud, a nome 4g (Four Gentlemen of The Guitar: Fennesz, Keith Rowe, Oren Ambarchi e Toshimaru Nakamura), Untitled-Erstlive 004 (Fennesz, Sachiko M, Otomo Yoshihide e il vecchio amico Rehberg), Sala Santa Cecilia, primo incontro dell’austriaco con Ryuichi Sakamoto e Live At Amann Studios, dialogo privato ed emozionante con il sax avantjazz di Max Nagl (download disponibile sul sito Touch Radio). Il 2006 vede il primo incontro live con Mike Patton, per un progetto che si è espresso per un totale di 18 date in giro per il mondo fino al 2008 ma mai testimoniato da release ufficiali (qui un non entusiasmante video-bootleg). Risalgono al 2006 le registrazioni live (pubblicate poi nel 2008 nell’album Town Down) del progetto Regenorchester XII, collettivo freejazz condotto dal trombettista austriaco Franz Hautzinger nelle cui fila troviamo, oltre a Fennesz, Otomo Yoshihide e Tony Buck (che ritroveremo alla batteria più avanti, in Knoxville e in Bécs). Nel maggio 2007 esce per Touch cendre (rigorosamente minuscolo), espressione sulla lunga distanza della collaborazione con Sakamoto: diversamente dai 19 minuti della prima uscita, qui è il pianoforte calligrafico del giapponese a dominare la scena, mentre gli interventi sottopelle di Fennesz rimangono minimalmente nelle retrovie. Il risultato è una ambient music in puro stile Eno/Budd: gradevole ma con forte rischio di retrocessione a sottofondo. Nel dicembre dello stesso anno Fennesz pubblica, solo in digitale, On A Desolate Shore A Shadow Passes By (solo qualche settimana dopo a questo brano si aggiungono due ulteriori tracce, provenienti dalle stesse session, proposte nel 7” Transition e chiamate una On A Desolate Shore e l’altra A Shadow Passes By: interessanti nuovi tagli dello stesso diamante): il titolo, la cover del fido Jon Wozencroft (designer e co-fondatore del progetto Touch) ma soprattutto i suoni fanno già presagire l’approssimarsi del successivo album Black Sea. Ma prima c’è il tempo per ulteriori uscite: nel 2008 esce l’omaggio ad Arvo Pärt – attraverso la rielaborazione dell’organo a canne di Charles Matthews – nel 7” Touch Amoroso (marzo 2008), il 12” June, per la label americana Table Of The Elements, pezzo che verrà anni dopo riproposto come July in Seven Stars (ulteriore dimostrazione che in casa Fennesz non si butta via mai niente), e l’album Till The Old World’s Blown Up And A New One Is Created (novembre 2008), progetto polimorfo che vede il nostro in trio abstract-jazz elettroacustico con i Polwechsel Martin Brandlmayr e Werner Dafeldecker (che ritroveremo poi ancora nel 2014 in Static Kings, prima traccia di Bécs). Black Sea, pubblicato per la Touch nel dicembre del 2008, rappresenta un ulteriore pietra miliare nella carriera di Fennesz. Non un fulmine a ciel sereno, ma una splendida ricapitolazione di tutte le esperienze precedenti, con una maggiore inclinazione verso lo sviluppo sinfonico che non alla forma-canzone: “Christian Fennesz suona sempre più come un classico del ventunesimo secolo” (V. Santarcangelo). Qui è possibile parlare di ambient, se con questo termine si intende non semplice musique d’ameublement, bensì la creazione di un microcosmo emozionale, dove insieme alle chitarre acustiche, nylon ed elettriche, più o meno filtrate, e ai droni rumoristi ormai marchio di fabbrica trovano perfetta collocazione i suoni della natura (i gabbiani e la risacca che introducono il brano iniziale ed eponimo), il piano preparato di Antony Pateras (in The Colour Of Three) e le improvvisazioni elettroniche di Rosy Parlane (con il quale l’austriaco aveva già duettato nel mini CD del 2000 Live@Synaesthesia, e qui in Glide). Nel 2009 esce il 7” A Girl & A Gun (in cui Fennesz accompagna, insieme a Burkhard Stangl e Martin Siewert, la cantante Lucia Pulido per stranianti versioni di due canzoni tradizionali colombiane, tratte dalla colonna sonora di un film di Gustav Deutsch), ma soprattutto il volume 15 della serie In The Fishtank (Konkurrent), testimonianza di 40 minuti della collaborazione con Mark Linkous aka Sparklehorse, sviluppata a partire da una prima serie di concerti tenuti insieme in Italia nel 2007, e pubblicata pochi mesi prima della tragica morte di Linkous: “astrazioni elettroniche, apocalissi angosciose, sospensioni frugali, fantasmi folk, palpitazioni tenui di cuori affranti” (S. Solventi). Il 2009 è anche l’anno di Manafon, l’album più arduo e ambizioso di David Sylvian, in cui l’apporto di Fennesz e della corrente di sperimentatori austro-nippo-britannica a cui appartiene (alle sessions di improvvisazione registrate dal 2004 al 2007 che hanno dato vita al progetto partecipano tanti nomi noti, oltre al nostro: Stangl e Dafeldecker dei Polwechsel, i 4g Keith Rowe e Toshimaru Nakamura, Otomo Yoshihide, Sachiko M…) risulta determinante nel delinearne le sonorità. Nel 2010 esce Szampler (solo in musicassetta per l’estremistica e snob label The Tapeworm), una collezione di campioni vintage realizzati da Fennesz dall’89 al ’96 (solo per completisti compulsivo-ossessivi), In Stereo, il grande ritorno del trio Fenn O’Berg (Editions Mego: il loro primo lavoro in studio, il loro esperimento più estremo) e il minialbum Knoxville, highlights di un live dell’anno prima, frutto dell’ennesima collaborazione sperimentale, questa volta con David Daniell e Tony Buck: improvvisazioni shoegaze con crescendo densi e potenti. Il periodo 2011-2012 è caratterizzato da un maggiore interesse verso soluzioni musicali definibili come “ambient soundscapes”, dove il rumore lascia maggiormente spazio a droni cosmici e sviluppi melodici di largo respiro. Il live remix di Gustav Mahler, lo speciale evento 35 del marzo 2011 alla Radio Hall di Vienna (poi pubblicato come DVD in un cofanetto dedicato al centenario della morte del compositore austriaco, e replicato nel marzo 2014 alla Carnegie Hall di New York) è l’occasione per evidenziare gli aspetti più sinfonici della musica di Fennesz, che già erano state notate in alcuni momenti di Black Sea e che si ripropongono nell’EP Seven Stars (luglio 2011, Touch), in particolare nella traccia Shift, dall’incedere “elegiaco e crepuscolare”. Nel pezzo che dà il nome al disco, suadente ballata brianwilsoniana, compaiono le spazzole di una soffusa batteria jazz (by Steven Hess): è la prima volta nella sua discografia solista (ma per chi ha seguito gli sviluppi dei progetti paralleli di Fennesz non si tratta di un elemento così dirompente o inusuale). Oltre alla già citata e cosmica July, il disco comprende Liminal, dove la chitarra effettata propone una linea melodica che spesso riecheggerà nei live fino ad essere ripresa e rielaborata in Bécs (Liminality). Nel doppio CD Flumina, pubblicato poco dopo sempre per la Touch, ritroviamo il duo Fennesz-Sakamoto, ma qui il risultato, sempre nel territorio neutrale ambient dei bozzetti pianistici di cendre, non aggiunge nulla alle rispettive carriere né al dialogo tra i due. I 48 minuti di musica realizzata per la coreografia On Invisible Pause (pubblicata online nel gennaio 2012 e scaricabile dal sito Touch Radio) riassumono in maniera mirabile lo zeitgeist fennesziano del periodo. La pubblicazione nel marzo 2012 (su chiavetta USB) di Liquid Music, sonorizzazione risalente al 2001 di un’installazione video di Wokzencroft, riapre il cerchio dei rimandi temporali: le scariche glitch increspano maggiormente la superficie cangiante creata dai loop di chitarra acustica e synth, da cui improvvisamente emerge un frammento di Endless Summer (Before I Leave). Nel giugno 2012 esce a nome Christian Fennesz la colonna Sonora di AUN: The Beginning And 36 The End Of All Things. L’atmosferica e sognante musica qui contenuta, comprendente anche tre tracce da cendre, è assolutamente funzionale al poetico film austro-nipponico diretto da Edgar Honetschläger, e fuori dal contesto cinematico risulta insapore e inodore. Tutta un’altra storia In Four Parts, l’intenso tributo a John Cage registrato live in duo con Patrick Pulsinger nell’ottobre 2012 (e pubblicato nel 2013 per l’etichetta austriaca Col Legno): la reinterpretazione elettronica dello String Quartet In Four Parts del compositore americano, pur così distante musicalmente, ne rispetta profondamente il senso, percorsa dalla stessa tensione verso il trascendente e il silenzio. Impossibile rimanere impassibili. Il 2013 è caratterizzato da esperienze eclettiche e disparate: tra le tante uscite live, si segnalano le partecipazioni a due diversi trii: “The Kilowatt Hour” con David Sylvian e Stephan Mathieu (alla ricerca delle atmosfere rarefatte degli esperimenti fine anni ottanta di Sylvian con Holger Czukay, esperimento a detta di molti non del tutto riuscito) e la collaborazione con i Food, progetto avant-jazz (con marchio di qualità ECM) di Iain Ballamy e Thomas Strønen, con i quali il nostro aveva già lavorato per i loro ultimi album, Quiet Inlet (2010) e Mercurial Balm (2012). Ulteriori segnali dell’ecletticità degli interessi di Fennesz: il remix per i Jensen Sportag, duo americano alternative electropop (Rain Code, novembre 2013), e il team-up estemporaneo con il giovane cantante nu-R’n’B’ Autre Ne Veut (Alive, dicembre 2013). Ma il 2013 è dedicato soprattutto alla preparazione dell’album solista che a livello ufficiale si faceva attendere dal 2008: Bécs esce a fine aprile 2014, segnando il ritorno alle Editions Mego e confermando la vitalità dell’artista. 37 Un osso duro 38 Cosa resta di Frank Zappa oggi? Cerchiamo di rispondere in questo lungo speciale del nostro zappofilo Gabriele Marino Testo di Gabriele Marino Dopo le celebrazioni nel ventennale della morte (4 dicembre 2013), il 27 maggio prossimo una giornata di studi alla Statale di Milano ricorda Frank Zappa a partire dalla sua “weirdissima”produzione audiovisiva. Qui di seguito un lungo excursus che vuole essere una finestra possibile su “Frank Zappa oggi”, un punto della situazione tra la rievocazione personale, l’aggiornamento bibliodiscografico e il racconto di eventi e concerti, tra perle musicali e pasticci familiari. Tutto nel segno del baffo e mosca – ancora oggi – meno compreso del rock. Ampia selezione di ascolti e video ai link (Grooveshark, Spotify, YouTube) e piccolo Zap-bignami (i “dieci dischi irrinunciabili”) in coda. PART E U NO | I was a teenage z appaphile A 14 anni cominciavo a capire i Simpson (prima non mi piacevano). A 14 anni scoprivo il famoso complessino milanese (quando li avevo visti a Sanremo non mi erano piaciuti). A 14 anni mi ero fissato a registrare collage di suoni e rumori col computer di famiglia. A 14 anni mi sono fatto regalare dai compagni di classe il Dizionario del pop-rock Baldini e Castoldi (l’ha ripubblicato di recente Zanichelli), perché avevo deciso che non potevo continuare a essere così ignorante su una cosa così grande come la musica. Dentro c’era una scheda su un tizio chiamato Frank Zappa: “Ma che nome è?”. Di lui si parlava come di un alieno, il testo era firmato “John Vignola”, ma in realtà l’aveva scritto Marco Drago (questo lo avrei scoperto solo anni dopo, perché gli zappofili sono una setta e finiscono col conoscersi tutti, come i politici e i comici). A 14 anni sono passato 39 dai fumetti alle riviste non-solo-di-fumetti e tra queste “Linus”, e il primo numero che ho comprato aveva dentro un articolo di Bertoncelli su Zappa e Varèse. A 14 leggevo Penthotal e ci trovavo dentro la citazione zappiana, leggevo Una matita a serramanico e scoprivo che Tamburini si ispirava a Cal Schenkel per i suoi topi junkie (per non dire della copertina con lo Zapperox). A 14 anni aprivo un libro sulla musica e ci trovavo dentro non dico il capitolo o la pagina dedicata, ma anche solo il nome “Zappa”. Una persecuzione, avevo lo Zeta detector. Aprivo la “Settimana Enigmistica” e ci trovavo lo “Strano ma vero” sui nomi dei suoi figli: Moon Unit, Dweezil, Ahmet Emuukha Rodan, Diva. A 14 anni ho sbattuto in tutti i modi contro questo Frank Zappa e sono andato nel negozio di dischi più “giovane” dei due esistenti nel mio paese – questo qui vendeva e vende anche souvenir (l’altro ha chiuso anni fa) – per ordinare Hot Rats (una statistica mai raccolta ma sicuramente veritiera mi dice che l’80% degli zappofili ha cominciato da lì). Vado, dico artista e titolo e il proprietario mi fa: “Zappa! Quello coi baffi come a Santana”. Ricordo quando ho scartato il cellophane che avvolgeva il green tinted jewel box (caratteristico dei CD Ryko) e ho sentito il disco per la prima volta a casa di un amico: “Sembra una discoteca di plastica viola”. Col tempo 40 tutti i cerchi si sono allargati, e si sono chiusi. Scoprivo Zorn, e ci trovavo dentro cose “alla Zappa”? Bene, era naturale andare a scomodare l’unico essere umano sulla faccia della terra che aveva esplicitato il legame tra i due tanto da scriverci uno spettacolo, in cui suonava composizioni dell’uno e dell’altro. Guarda caso era italiano, per giunta di origini palermitane: era Giovanni Mancuso (che su Zappa scriverà poi addirittura un’opera, Obra Maestra, premiata come spesso capita qui da noi con una punizione: essere allestita con la direzione di Pippo Delbono). Mi interessavo alla critica musicale, cercando di leggerla e studiarla per imparare a farla? Uno degli articoli più interessanti che mi era capitato sott’occhio, sugli strafalcioni e i tic del linguaggio dei giornalisti, era di uno che, pure lui, era sia zappofilo che zornofilo: Marco Maurizi (sulla copertina del suo L’utopico e il mostruoso avrebbe voluto poi un mio scarabocchio dei tempi del liceo, una specie di Pachuco Zappa). Tutto si tiene. Strano ma vero. “Strano ma vero” The Strambo Variations | Ha fatto bene Eddy Cilìa a bastonare gli zappofili, sulle pagine di “Blow Up” prima e del suo blog poi, dipingendoli come dei presuntuosi monomaniaci: lo sono – lo siamo – sul serio. Sono anche affetti da una specie di smania convertitrice, proselitistica, che ripropone in tutto e per tutto lo schema che lo stesso Zappa applicava ai suoi amici, ovvero il “Varèse test”: il ragazzino Zappa trascinava gli sventurati nel tinello di casa e, dopo averli allettati con dischi di rhythm’n’blues e doowop, sparava a palla l’orgia modernista di percussioni di Ionisation. Chi gradiva, bene, veniva accolto tra gli eletti tra mille allori. Chi non gradiva, magari sì restava ancora amico, ma un po’ meno di prima, perché non era poi così sveglio. Ecco, questa smania divulgatrice, propinatrice, che manco i Testimoni o i Facebookvegani, mi ha spinto quando avevo 18 anni – era il settembre 2004, erano già scoccati i dieci anni dalla morte di FZ – a infrattarmi tra le pieghe degli eventi estivi locali e strappare agli organizzatori una serata no-budget dedicata a Zappa (opportunamente, “Cheap Thrills”), in cui ciarlavo gasatissimo, tra lo spocchioso e il pudico, introducendo una selezione di ascolti da schiaffi (ho davvero messo a metà tracklist The Big Squeeze) e la proiezione di alcuni video (Does Humor Belong in Music?, frammenti da Baby Snakes e dal live degli Elio a Lugano, in cui rileggevano un paio di pezzi zappiani assieme a Ike Willis). Chi c’è dentro lo sa: quando scopri, quando “arrivi” a Zappa (io ci arrivavo dai Doors e dai Red Hot Chili Peppers) ti prende un sacro fuoco, perché scopri 41 un universo parallelo, oltre lo specchio, quello di un musicista non certo infallibile, per carità, ma ricchissimo, sorprendente, sul serio one of a kind, e allo stesso tempo tutto fuorché “alternativo”, non necessariamente “difficile”, ma proprio “strano”, “altro”. Ricordo mio padre che faceva cucù dalla porta di camera mia mentre lo stereo suonava Lumpy Gravy o We’re Only in It for the Money e diceva: “Ma che ti ascolti, figlio mio?” (per poi confessare però che lui e il suo gruppo avevano avuto il famigerato poster con la tazza del cesso appeso in “sala prove”). Zappa è un artista capace di abissi di esagerazione e di kitschume programmatici spesso insondabili (Thing-Fish resta un oggetto da metabolizzare; 200 Motels bello eh, molto interessante, durava meno…), e altrettanto spesso irresistibilmente, disarmantemente divertenti: quei cambi di ritmo repentini (si sa che la comicità è tutta una questione di tempi), quelle melodie bislacche, quelle marimbe sali-scendi, quei pastiche stilistici, quelle citazioni e pseudocitazioni, quelle contraffazioni. Un artista gasante, nel senso proprio dell’ossido di diazoto. Il Capitano, per dire, è uno difficile, ma ha un suo rigore austero, monocromatico (tutt’al più seppiato), ha una sua eleganza, è il padre del post-rock versante post-hardcore, del pauperismo circense di Tom Waits, del blues cubista/surrealista, di tanta art-brut sonora, ha una sua strapazzata nobiltà, ti dà qualche appiglio. Zappa è proprio strambo, ma che roba è, e questo qua che c’entra, prende il doo-wop e ci schiaffa dentro Stravinskij, a un certo punto si è fissato coi suoni plasticosi, raramente è poetico, lirico, più spesso è proprio caciarone, sornionamente grottesco, è autoparodico, sotto le sue mani non si salva niente, manco e soprattutto le sue stesse composizioni, quasi sempre ti strizza l’occhio, ma tu riesci a capire dove sta ammiccando?, insomma non è uno “Serio”, un “Artista”, un “Intellettuale”. È un osso duro. E di chi è padre, poi, Zappa? Forse, suo malgrado, di certo ipertecnicismo da Berklee College, di certo prog (penso a Portnoy dei Dream Theater), di certo jazzrock o certa fusion (penso a molti suoi alumni, penso a Steve Vai). Ha lasciato tante suggestioni, tante schegge, questo sì. Anzi forse soprattutto proprio l’idea di procedere per schegge. E su “Scheggia” si staglia gigante nel cielo di Cucamonga la scritta: “Postmoderno”. Termine abusato alla nausea, praticamente svuotato di significato, usato alla cazzo com’è, e che però per Zappa come per pochi ha un senso: non per il gusto della citazione e della parodia, non solo per quello, ma per un rapporto con il passato, da una parte, e con la sperimentazione, dall’altra, conciliato e conciliato 42 proprio dall’idea di potere fare di entrambi un bacino di materiali da incrociare, da mischiare, da piegare alla propria idea di arte e di godimento estetico (sostanzialmente, di risata), costruendo un discorso leggibile a più livelli. Come a dire, da Tengo una minchia tanta a Questi cazzi di piccione, giusto per limitarci a due degli estremi possibili del continuum zappografico, in questo caso segnati – nobile stella polare – da quell’organo (senza corpo, direbbe Žižek) che tanto compare nell’immaginario, nei testi, nei titoli e nelle forme plastiche della musica, se non priapesca, sicuramente satirica (nel senso dei satiri lascivi e insidiosi del corteo di Bacco), del nostro. Bertoncelli, parafrasando Borges, ha detto che Zappa è stata una delle gioie della sua vita. E io ci metto la firma. Una volta ero in macchina con mia madre, ero ancora ragazzino, ma ero già infognato con la sua musica, avevo appena comprato 43 un suo disco (40.000 lire, Tinseltown Rebellion) e mi ero messo ad ascoltarlo in cuffia con il lettore CD portatile (li chiamavano discman; esistono ancora?), accanto a lei, lato passeggero. Manco era cominciato ‘sto disco, che già ridevo a crepapelle, come uno scemo, inquietando mia madre che mi aveva chiesto “Ma che fai?”. Ecco, è musica che fa ridere quella di Zappa, prima di tutto e soprattutto questo (per la cronaca, a me fa ridere anche Naval Aviation in Art). It’s just entertainment, diceva lui. Il “Varèse test”. Complete Works Of Edgard Varèse, Volume 1 (EMS, 1950) PARTE DUE | Frank Zappa oggi? Ma perché questo pippone un po’ sentimentale, un po’ critico, e in prima persona? Uno, perché, e lo sanno bene anche gli zappofili molto più seri di me, Zappa è sempre il tuo Zappa. Per parlarne, 44 siccome pare sia una esperienza mistica, devi parlare in prima persona. E poi, due, perché il 4 dicembre 2013 erano vent’anni esatti dalla morte, e il 21 era quello che sarebbe stato il settantatreesimo compleanno, e del baffuto forse mai si era parlato così tanto qui da noi. Adesso, il 27 maggio 2014, alla Statale di Milano, un day hospital zappologico si staglia all’orizzonte (“Freak ZAPPing. Scorci su Frank Zappa”), incentrato sull’audiovisivo zappiano (attivo, ovvero i film fatti da FZ, come 200 Motels, e passivo, ovvero i documentari su FZ), con featuring doc come quelli, tra gli altri, di Franco Fabbri, di Giordano Montecchi e di Veniero Rizzardi. Dentro ci sono anche io, che porto i caffè e accendo il proiettore. Prendendo spunto da questa cosa, volevo fare un po’ il punto della situazione, sempre in prima persona; come a dire, parafrasando il titolo di uno dei più bei libri sull’uomo (curato da Gianfranco Salvatore nel 2000 per Castelvecchi), cos’è e dov’è Frank Zappa oggi. Ecco, che resta di Frank Zappa oggi? “Una settantina di dischi, molti dei quali doppi o tripli”, chiaro. “Un vuoto incolmabile”, forse sì, forse no. Il vuoto sicuramente c’è, ma – io la vedo così – soprattutto nel senso di un artista proprio ancora tutto da scoprire, non integrato da nessuna parte, tantomeno in nessun canone, pop o contemporaneo che sia. Zappa ininfluente, bomba inesplosa? È un paradosso, ma in fondo poi non così tanto. Per sua stessa colpa (tutta ‘sta roba dovevi fare, e tutta così?), per colpa del nerdismo degli zappofili (qui ampiamente messo in scena, direi), per la pigrizia di tutti gli altri (le dimensioni contano). Sarebbe interessante fare un’analisi dei contesti in cui ricorre l’aggettivo “zappiano”, per capire cosa è arrivato nell’immaginario collettivo di Frank Zappa. A vent’anni dalla morte, anzi, nei vent’anni dalla morte, di Zappa restano sicuramente le proskynesis sui social di quelli che postano tutti incolonnati Peaches en Regalia (che da un momento all’altro mi aspettavo una tweetbaruffa tra Emanuele Filiberto e Wu Ming). Restano le divulgazioni e le celebrazioni più o meno parziali (ma che ben vengano, sia chiaro, e anche solo a scadenza di calendario; diceva sempre il decano, meglio un gruppaccio che abbaia Sharleena in uno dei peggiori bar di Caracas, che una generazione di – aggiorniamo – Spotifyati che manco sa chi sia Zappa). Resta il premiatissimo – bellissimo, nella sua versione deluxe veneziana – documentario di Salvo Cuccia (Summer 82: When Zappa Came To Sicily, che, guarda un po’, racconta tutto in prima persona) sul mitologico, sventurato concerto palermitano dell’82 e sulla arricampata dei figli di Zappa a Partinico. Restano i libri freschi di stampa: quello 45 curato da Paul Carr (Frank Zappa and the And, “the first academically focused volume exploring the creative idiolect of Frank Zappa”, per la gioia – colpetto di tosse – degli adepti della “Esemplastic Zappology”) e quelli di Alessandra Izzo (Frank e il resto del mondo), di Episch Porzioni (Delizie freak), di Stefano Marino (La filosofia di Frank Zappa), di Massimo Del Papa, su cui spenderò adesso due parole (anche – perché nasconderlo – per un affetto antico che, tra le altre cose, ha fatto sì che il logo del suo “Babysnakes” social sia un mio Paint-ritrattino di FZ). “FReak ZAPPing: scorci di Frank Zappa”, Università degli Studi di Milano, 27 maggio 2014 Zappa en Del Papa | Massimo Del Papa lo conoscete tutti come il polemista ferro e fuoco degli anni del “Mucchio” settimanale e – oggi – delle polemiche contro lo stesso “Mucchio”, contro Max Stèfani e compagnia. I più attenti anche per i suoi reading assieme a Paolo Benvegnù, oltre ovviamente che per i suoi articoli. Massimo ha le sue asperità e, dicono gli informati, averci a che fare non è facile. E però è sempre mosso da passione vera, genuina, bruciante, non incanalabile. Bene, il libro di Massimo l’ho letto col piglio con cui probabilmente è stato scritto: tutto d’un fiato, forsennatamente, in flusso di coscienza, di notte. Massimo ha fatto un po’ come Ben Watson (nel suo fondamentale, mai tradotto in italiano, The Negative Dialectics of Poodle Play), ha filtrato Zappa con i suoi miti e riferimenti, che quindi non sono Rabelais e T. W. Adorno, ma Carmelo Bene, Lucio Battisti, Giorgio Bocca, Dr. House, Mohammed Alì e Renato Zero. Il libro di Massimo è in a hurry, ci sono errori di stampa, ci sono distrazioni che al tribunale degli zappofili parranno da pubblica gogna (quando citi le sigarette di Zappa non puoi dire Marlboro, ma sempre e solo Winston rosse), eppure c’è una lucida, lucidissima, per quanto a tratti disordinata (e parimenti tagliente), analisi dell’uomo e della sua musica, con illuminazioni notevoli su quel quid che essa e solo essa possiede. E’ un pamphlet, il suo bersaglio non è ovviamente FZ (che però alla bisogna – e quindi, semplificando, sul lato umano e nel rapporto coi musicisti – è bastonato adeguatamente), ma il pubblico che applaude sempre e solo per il motivo sbagliato. Insomma, questa dovrebbe valere come mia recensione positiva di Zappa en Regalia: vita complicata di un genio (uscito il 4 dicembre 2013 su Smashwords), fatevela bastare e controllate di persona. Dedica di Ben Watson su una copia del suo The Negative Dialectics of Poodle Play 46 Italian Mutations | Continuando con quel che resta di Zappa, resta la linfa vitale della zappofilia e della zappologia, con tutto il patologico che queste due parole lasciano intendere. Sono stato al “Frank Zappa Memorial Barbecue”, il 3 dicembre 2013, a Milano, alla Fabbrica del Vapore, organizzato da Michele Pizzi, autore di Frank Zappa for President (libro che riesce nel miracolo di sviscerare la parte meno importante – a detta dello stesso Zappa – della sua musica, ovvero i testi; lo trovate recensito qui). Ed è stata una festa di nerdismo sfrenato, con disordinata selezione 47 musicale e video, a ben vedere soprattutto una scusa per incontrarsi (chi si era, fino a quel momento, solo chattato o mailato) o re-incontrarsi (i veterani zappofili già rete prima della rete, con in mezzo quella che fu “Debra Kadabra”) e parlare. Vedere e toccare picture discs e altri cimeli pazzeschi (tipo lo Zappa Paraphernalia approntato da Roberto Zucconi nel 1994), vedere i bei disegni a tema di Giorgio “Moltitudo” (un po’ Bacilieri, un po’ Clowes) e quelli a lui donati da big ones come Silvia Ziche, Paolo Bacilieri (appunto), Massimiliano Frezzato e Tanino Liberatore. Vedere l’esibizione del duo Inventionis Mater, che riesce nel miracolo di riarrangiare per chitarra classica e clarinetto ed eseguire in maniera convincente e avvincente pezzi del repertorio zappiano noti per la loro difficoltà tecnica (Zomby Woof, per esempio). Ecco, al di là delle sbarre tirate su da Gail Zappa, che nell’ambiente tra il serio e il faceto chiamano “L’innominabile” (giusto per capire in che considerazione si tenga la sua gestione del lascito del marito, diciamo tutto fuorché oculata e diciamo pure uno sfacelo, tra mille operazioni-minchiata – ci stiamo arrivando – e 48 qualche perla rara, per non dire appunto delle restrizioni folli imposte a chi voglia suonare o anche solo studiare la musica di FZ), oltre Gail quindi, restano proprio le cover band. Una vecchia compilation chiamata Frank You Thank!, in due volumi, ne infilava le principali italiane e, tra cose trascurabili e cose notevoli (ricordo l’Orchestra Spaziale di Giorgio Casadei e gli Ya Hozna, e c’era ovviamente Sandro Oliva, che con gli ex Mothers – i Grandmothers – ci ha suonato e ci suona), spiccava una band di poco più che bambini chiamata Ossi Duri, impegnata in una versione kindergarten di Take Your Clothes Off When You Dance. Gli Ossi Duri, da Givoletto (Torino), capitanati dai fratelli Bellavia, Martin chitarrista, Ruben batterista, figli d’arte, sono cresciuti, ma sono ancora decisamente giovani, e sono oggi tra le più accreditate cover band zappiane, collaborano regolarmente con Elio e con il cantante-chitarrista zappiano di fine anni Settanta/fine anni Ottanta Ike Willis, ovvero il Joe del Garage e Thing-Fish himself. Inventionis Mater al “Frank Zappa Memorial Barbecue”, Fabbrica del Vapore, Milano, 3 dicembre 2013 (dietro, Michele Pizzi) Too much fish: Ossi Duri e Ike Willis | Gli Ossi hanno lanciato un fundraising su Musicraiser per finanziare l’uscita simultanea di tre dischi, uno di inediti, uno in cui rifanno classici del pop (e quindi anche del prog, c’è Luglio, agosto, settembre (nero) degli Area) italiano anni Settanta e uno di cover zappiane, e hanno festeggiato il traguardo raggiunto con una serie di concerti, l’ultimo dei quali si è tenuto il 18 dicembre 2013 a Milano, ospite Elio. Io sono stato a quello, in casa, al Lapsus di Torino, del 6 dicembre 2013, ospite Ike Willis. Sotto palco un piccolo ma tenacissimo zoccolo duro di giovanissimi intenti a cantare ogni singolo pezzo, gli Ossi hanno proposto qualche pezzo autografo e si sono poi lanciati in una lunga rilettura di classici zappiani, particolarmente sul versante rock-blues così naturalmente congeniale a Willis. Soldi facili è un crossoverone alla Rage Against the Machine, Mozzarella trafelata un collage prog di pastiche stilistici, Heavy Dente, con già Ike sul palco, accompagna le spericolatezze del testo (e dei suoi avverbi) tra il reggae e il punk. Come si capisce dai titoli (e dal fatto che nei dischi ospitino il nume tutelare Freak Antoni), forte è la vena demenziale e giocosa dei Nostri, e non potrebbe essere diversamente. All’inizio un po’ strascicato, più che per l’età (58), per la quantità di pesce assunta a cena, se la secret word for tonight è “Too much fish” (un’altra parola, protagonista di alcune delle routine di “lyrics mutanti” più divertenti, sarà K-bab), Ike si accende quando si entra nel vivo del repertorio 49 che, tra dischi e live, fu il suo. Dopo Honey Don’t You Want a Man Like Me?, arrivano Cosmic Debris, Caroline Hardcore Ecstasy e tutta una lunga sequenza da Joe’s Garage, con Stick it Out, una strepitosa Packard Goose, una intensissima Why Does it Hurt When I Pee?, e una Keep it Greasy arrangiata a metà tra le versioni live del ‘78 (altezza Whe Don’t Mess Around) e quella – temibile – del disco. Fino ai picchi di intensità di Outside Now (forse la Zap-canzone di Willis, che ne fece una delle versioni più belle di sempre con la primissima apparizione dei Banned from Utopia, ancora Band from Utopia, nel 1994, all’indomani della scomparsa di Zappa) e il dittico The Son of the Orange County e More Trouble Every Day. Il bis spetta a una esplosiva Andy. Non appena si è scaldato e ha digerito il pesce, Willis è sì rimasto sornione, ma ha cantato come sa, meno incisivo dei tempi d’oro (o anche delle rendition più recenti viste sul Tubo), ma divertendosi, divertendo, e regalando un paio di assoli veramente intensi. Gli Ossi tecnicamente sono eccellenti; non essendo competente di nessun altro strumento, non dico nulla sugli altri, ma spendo due parole, diciamo con spirito solidale da ex pseudo-proto-batterista su Ruben. Strepitoso: spero di fargli un complimento dicendo che ne ho intuito il piglio colaiutiano, soprattutto nel modo di intendere l’approccio ai tempi dispari e nell’assottigliare indefinitamente la distinzione tra accompagnamento e assolo, con un profluvio di spezzettamenti e momenti suonati “contro” entusiasmante e mai invadente, per quanto pure prominente. Ike Willis con gli Ossi Duri sul palco del Lapsus, Torino, 6 dicembre 2013 PARTE TRE | 2004 -2014: dieci anni di Z F T Non tutto il Gail e lo Zappa Family Trust vengono per nuocere. Qualcosa si salva. Qui di seguito, le fast reviews delle principali pubblicazioni zappiane degli ultimi dieci anni. Con l’implicito che si tratta quasi sempre di roba per hardcore fanatics only (sono materiali d’archivio, sia in studio, che dal vivo). I voti sono espressi in una scala di stellette, in omaggio al vecchio Dizionario del pop-rock, che va da * a ***** (ma le cinque stelle non le trovate). Per qualsiasi approfondimento, si rimanda al fondamentale “Information is Not Knowledge” (“Globalia”, per gli amici), sito di riferimento dal 1998, gestito da Román García Albertos. Frank Zappa, Wazoo (VAULTernative, 2007). L’immagine è un dipinto a olio di Christopher Mark Brennan, Mundo Invisible (2003) 50 Joe’s Corsage (VAULTernative, 2004) | ** | Link Grooveshark | Compilata da Joe Travers (ovvero il “Vaultmeister”, il custode degli archivi di casa Zappa), è praticamente una raccolta di demo di alcune love songs che sarebbero poi finite su Freak Out!. Siamo intorno al ’65, la band si chiama ancora Soul Giants, e in alcuni pezzi alla chitarra c’è ancora il futuro Canned Heat, Herny Vestine. Le rendition, molto folk e flower power nella loro asciuttezza, sono vivaci, ascoltarle è un piacere e c’è anche qualche chicca per filologi zappiani. Ma non si va oltre. 51 quAUDIOPHILIAc (Barking Pumpkin/DTS, 2004) | ** | Link Grooveshark | DVD audio da ascoltare in quadrifonia, con brani (per lo più strumentali già noti) registrati o remissati da FZ tra il ’70 e il ’78 in multichannel surround. Suono spettacolare, ma solo gli inediti Rollo (composizione jazz-rock-prog orchestrale già nota come sezione della Yellow Snow Suite), Chunga Basement (embrione di Chunga’s Revenge) e Basement Music #2 (tra i primi esperimenti elettronici di Zappa) possono giustificare l’acquisto. Joe’s Domage (VAULTernative, 2004) | ** | Link Grooveshark | Ricavato da una cassettina contenente frattaglie di prove in studio della formazione Petit Wazoo del ’72, versione ridotta della Grand Wazoo (ancora cospicua la sezione fiati, con Tony Duran alla slide e Jim Gordon alla batteria). Materiali tra Waka Jawaka e la megasuite Greggery Peccary (pezzi noti vengono maliziosamente rinominati). Molto parlato, qualità audio non eccezionale, eppure interessantissimo per sbirciare dietro le quinte e calarsi appieno nel metodo-Zappa. Joe’s XMASage (VAULTernative, 2005) | ** | Link Grooveshark | Materiali ’62-’65 pre-Mothers, Cucamonga era e dintorni, tra 52 audio vérité, stupid songs e underground lollipops. Alcune sovrapposizioni con Mystery Disc, come in GTR Trio, esercizio da cui poi sarebbe venuta fuori la perla sbilenca Bossa Nova Pervertamento. Imaginary Diseases (Zappa Records, 2006) | *** | Link Grooveshark | Ancora estratti live dell’orchestra elettrica Petit Wazoo, ottobre-dicembre ‘72. Tre rock-blues e un funk-blues d’occasione, Rollo, ma soprattutto la lunga e articolata Farther O’Blivion, che ingloba frammenti da Greggery Peccary e Be-bop Tango, reperibile prima solo sul bootleg – poi ufficializzato nella serie Beat the Boots – Piquantique. Trance-Fusion (Zappa Records, 2006) | **** | Link Grooveshark | Annunciato da anni, già reperibile su bootleg, il terzo guitar solo album compilato da FZ, concentrato sulle tournee dell’84 e dell’88, con due puntate a fine Settanta. Oltre ai soli estratti da brani noti, anche una Chunga’s Revenge e una jam improvvisata (Bavarian Sunset) assieme a Dweezil. FZ fa sempre la differenza, anche quando allunga troppo il brodo o si addentra nel cervellotico spinto, con i suoi motivetti geniali e uno stile sempre vario eppure personalissimo, che passa in rassegna blues, funky, reggae, fino al quasi-metal. AAAFNRAA–Birthday Bundle (Zappa Records/i-Tunes, 2006) | mezza stelletta | Link iTunes | Pasticciaccio brutto in casa Zappa. Disco in esclusiva per iTunes, mischia versioni inedite di brani di FZ a prove dei suoi figli. Per quel che ci interessa, una Tryin’ to Grow a Chin insolitamente lenta e scarna, una Dead Girls of London e una You Are What You Is carine. The MOFO Project/Object (Zappa Records, 2006) | ** | Link Grooveshark (4-disc version) | (2-disc version) | Ancora pasticci. Celebrazione del quarantennale di Freak Out! in doppio formato, un quadruplo e un doppio (Fazeedoh edition) CD, con l’assurdo che quest’ultimo dovrebbe essere un condensato del primo e invece contiene sette pezzi “in esclusiva”. Versioni senza voce, versioni alternative, remix del ‘70 e dell’87, prove e dialoghi di studio, frammenti d’intervista (non tutti d’epoca). Gli zappofili che hanno prenotato per tempo il cofanettone si ritrovano il nome stampato nel booklet. Le cose più interessanti sono la stupid song – inedito assoluto – Groupie Bang Bang e cinque pezzi dei Mothers dal vivo al Fillmore Auditorium di S. Francisco (anche se in esecuzioni un po’ buttate lì). Buffalo (VAULTernative, 2007) | **** | Link Grooveshark | Doppio CD per il concerto del 25 ottobre ‘80 a Buffalo (NY), formazione con Steve Vai e Vinnie Colaiuta. Repertorio di classici fine 53 Settanta-primi Ottanta, audio cristallino, performance eccezionale. Molti pezzi al fulmicotone, in particolare una Keep It Greasy semplicemente da urlo. The Dub Room Special! (Zappa Records, 2007) | zero stellette | Link Grooveshark | Estratti dal concerto per la KCET TV di LA, 27 agosto ‘74 (lo stesso che fornì molte basic tracks per l’album One Size Fits All) e da quello, trasmesso da MTV, al Palladium di NY del 31 ottobre ‘81. Delitto: Montana, in una delle migliori versioni di sempre, viene privata del suo solo di chitarra. Il video omonimo, con gli stessi materiali, era stato da poco ripubblicato su DVD (qui su YouTube): perché farne anche un CD? Wazoo (VAULTernative, 2007) | **** | Link Grooveshark Wazoo (Disc 1) | (Disc 2) | Doppio CD per il concerto del 14 settembre ‘72 a Boston, formazione Grand Wazoo. Repertorio jazz-rock-prog di lusso: Appoximate sovrapposta a The Purple Lagoon, tutto Greggery Peccary e una embrionale Regyptian Strut sotto il nome di Variant I Processional March. One Shot Deal (Zappa Records, 2008) | *** | Link Grooveshark | Strana collezione di inediti, soprattutto live, ’72-‘79, con una puntata nell’81. Eppur funziona. Un paio di jam, un paio di esecuzioni orchestrali, il solo originale di Toad O’Line/On The Bus (poi xenocronizzato su Joe’s Garage), il Solo from Heidelberg già sulla rara cassetta allegata a “Guitar World” nell’87. Joe’s Menage (VAULTernative, 2008) | ** | Link Grooveshark | Estratti dal concerto del 1 novembre ‘75 a Williamsburg, Virginia. Testimonia il veloce passaggio nelle fila zappiane della sassofonista e cantante Norma Jean Bell. Pezzi del periodo e ripescaggi Mothers, come una Take Your Clothes off when You Dance che torna alle sue origini bossa (vedi The Lost Episodes) in una rilettura reggae-latin. Ricavato da una cassetta, qualità audio non eccezionale, tanto che in una Zoot Allures dilatatissima a un certo punto l’audio “va e viene”. AAAFNRAAA–Birthday Bundle 21.Dec.2008 (Zappa Records/i-Tunes, 2008) | mezza stelletta | Link iTunes | Seconda release per questa specie di family-project allargato. Un po’ meglio della prima, ma non ci voleva molto. Sul versante FZ: la versione spintamente disco, dal dodici pollici originale, di Dancin’ Fool, il solo Ancient Armaments (prima uscito solo come lato B del singolo I Don’t Wanna Get Drafted) e una cover dalla tournee ’88 (America the Beautiful) che pesca nel passato remoto dei Mothers. Sono usciti altri volumi della serie. Quello del 2010 si apre con Talib Kweli che massacra Willie Pimp. Basta? 54 The Lumpy Money Project/Object (Zappa Records, 2009) | *** | Link Grooveshark | Recensione su SA Philly ’76 (VAULTernative, 2009) | *** | Link Grooveshark (Disc 1) | (Disc 2) | Recensione su SA Greasy Love Songs (Zappa Records, 2010) | *** | Link Grooveshark | Recensione su SA “Congress Shall Make No Law…” (Zappa Records, 2010) | zero stellette | Recensione su SA Hammersmith Odeon (VAULTernative, 2010) | *** | Link Grooveshark | Recensione su SA Feeding The Monkies At Ma Maison (Zappa Records, 2011) | ** | Link playlist su YouTube | Praticamente l’anello mancante tra Jazz from Hell e Civilization Phaze III. Si tratta di lunghi brani per Synclavier tra il meditativo e l’inquietante. Due inediti assoluti (primo e ultimo brano) e in mezzo early versions di brani poi finiti su CPIII o già smangiucchiati altrove (Worms From Hell era stato usato come sigla per il VHS Video from Hell). Sicuramente interessanti, ma pur sempre work in progress degli esperimenti home studio notturni di FZ. Carnegie Hall (VAULTernative, 2011) | *** | Quadruplo CD per 55 documentare i due show del 31 ottobre ’71 al Carnegie Hall, NY (con tanto di supporting act, ovvero i Persuasions, specializzati in performance a cappella). Il repertorio è quello della vaudeville band con Flo and Eddie, tra ripescaggi Mothers (King Kong), Peaches e pezzi specimen del periodo (come la lunga Billy the Mountain). Paul Buff Presents The Pal And Original Sound Studio Archives (Crossfire Publications, 2011) | 20 – v-e-n-t-i – dischi che raccolgono – molte? tutte? – le produzioni realizzate nel Pal Studio di Paul Buff a Cucamonga (poi rilevato da FZ e ribattezzato Studio Z) e in cui FZ compare come collaboratore sotto diverse vesti: autore, arrangiatore, ingegnere del suono, musicista, cantante. È un’abbuffata di demo, gag, canzoncine surf, doo-wop e r’n’b, tra cose note (su bootleg come Cucamonga, The Cucamonga Years, Rare Meat), chicche sparse e brani giustamente dimenticati dalla Storia. Understanding America (Zappa Records/UMe, 2012) | * | Link Spotify | Doppio CD che raccoglie lo Zappa “social commentator”, in sovrapposizione/sostituzione della vecchia raccolta Have 56 I Offended Someone? (1997), che ne intendeva condensare lo spiritico politically uncorrect. Abbuffatona monodimensionale. Road Tapes, Venue #1 (VAULTernative, 2012) | *** | Doppio CD che inaugura una nuova serie di live d’archivio, con un concerto a Vancouver del 25 agosto ’68. Classico concerto Mothers fine anni Sessanta, con pezzi da Freak Out! a Uncle Meat per lo più in versioni strumentali-cameristiche, improvvisazione, Octandre di Varèse e King Kong a chiudere. Finer Moments (Zappa Records/UMe,2012) | *** | Link Spotify | Doppio CD per una compilation di “bei numeri” approntata da FZ e rimasta come chissà quante altre cose nel cassetto. Soli, gag in studio, ma soprattutto ritagli di conducted improvisation, altezza ‘67-‘72. Nonostante sia una raccolta di frattaglie varie (e ci siano pezzi già editi altrove), ha una sua organicità e l’ascolto offre momenti molto interessanti. AAAFNRAA–Baby Snakes–The Compleat Soundtrack (Zappa Records, 2012) | zero stellette | Link iTunes | Considerando che esiste il DVD di cui questo rappresenta letteralmente l’estratto audio, mi piace considerarla l’ennesima marachella di Gail e compagnia. Road Tapes, Venue #2 (VAULTernative, 2013) | *** | Link Grooveshark | Doppio CD sintesi dei concerti del 23 e 24 agosto ‘73 a Helsinki. Siamo tra il concerto svedese dello stesso anno reperibile su video bootleg (anche su YouTube) e parzialmente finito su Piquantique, e il live dell’anno successivo sempre a Helsinki (YCDTOSA #2, 1988, uno dei migliori di sempre). Il repertorio è un tour de force di strumentali prog-funk funambolici altezza Roxy e Elsewhere e dintorni (ma c’è anche Brown Shoes), con Ian Underwood al synth e Jean-Luc Ponty al violino, in rendition forse meno fresche rispetto alle versioni svedesi, meno chirurgiche rispetto a quelle di Helsinki ’74. A Token Of His Extreme Soundtrack (Zappa Records, 2013) | –1 stelletta | Valga lo stesso discorso di cui sopra per Baby Snakes. E poi: perché manca Approximate? Gail! (con lo stesso tono con cui il rettore cazzia la Fraternità Robotica in Futurama). Joe’s Camouflage (VAULTernative, 2014) | *** | Link Grooveshark | Ritagli agosto-settembre ‘75 – non ci è dato sapere registrati esattamente dove – selezionati da Travers e Gail che testimoniano il passaggio nelle file zappiane di Robert “Frog” Camarena (chitarra e voce) e Novi Novog (tastiera, voce, viola): una formazione che non arrivò mai sui palchi. Sono prove in studio, ricavate spesso da cassette, per testare early – ma veramente 57 early – versions di pezzi del periodo (sentire Honey e Illinois, per esempio). Sorprendentemente, è un documento interessantissimo e frizzante, anche se sempre e solo per FZ HC fanatics only. Roxy By Proxy (Zappa Records, 2014) | ? | Oggetto – del contendere – che mette a nudo la frizione tra qualità dei materiali (stellare) e intenzioni di chi si trova a gestirli (cattivissime). La Zappa Records produce questo che è un audio sampler di quello che è ormai diventato il Sacro Graal dello Zappa fandom (un DVD multiplo intitolato The Roxy Performances, l’integrale di 4 ore dei concerti del dicembre ’74 al Roxy di LA da cui sarebbe venuto fuori Roxy and Elsewhere) e allo stesso tempo lo Zappa Family Trust cerca 1000 fan disposti a pagare 1000 dollari a testa per avere a casa propria un “Authentic Zappa Master Recording”, che consentirebbe loro di stampare e vendere tutte le copie che vogliono del disco (di cui, in pratica, i fan diventerebbero co-produttori e co-distributori). L’obiettivo di Gail è racimolare il milione di dollari (!) necessario per pubblicare finalmente il famoso multiplo DVD (i 1000 fan ne diventerebbero gli sponsor). Bene, Gail c’è riuscita? Il DVD uscirà? Non è dato sapere. Se questo assurdo, che ha giustamente scandalizzato ogni Zappa fan dotato di buon senso (“Glide Magazine” ha definito l’operazione “ridicola”), è quello che è necessario affrontare per vedere e sentire The Roxy Performances, è vero che The Ocean Is the Ultimate Solution. In tutto ciò, nel dicembre 2013 (quando in teoria avrebbe dovuto essere pubblicato il famoso The Roxy Performances), è comparso su iTunes un breve video, venduto a 2 dollari, presentato come “a documentary of the making of a recording and performance of Cheepnis”. Non ci si capisce più niente. Sicuramente gestire il patrimonio musicale e mediale di FZ non è cosa facile e, in ogni caso, Gail e lo ZFT hanno animato iniziative belle come Zappa Plays Zappa, ovvero Dweezil, l’ex Zappa sideman Napoleon Murphy Brock e alcuni nuovi talentuosi musicisti (tra cui Joe Travers alla batteria) che portano in giro la musica di Frank. Sono stati coinvolti in prima persona nella realizzazione del documentario di Cuccia. Hanno assicurato la continuità del catalogo di FZ vendendo i diritti delle ristampe CD, ormai scaduti per la Rykodisc, alla Universal (molte ristampe, peraltro, sono anche remaster) e aprendo al digitale. E però: oltre al pasticcio grande delle pubblicazioni raffazzonate o inutili, oltre alla tela di Penelope del Roxy affaire (o di altri delayed album come The Rage and The Fury, le riletture di Varèse patrocinate da FZ), c’è ancora qualcos’altro, qualcosa di più sottilmente creepy. Nel 2011 58 la Zappa crew ha pubblicato Bat Chain Puller, il lost album per antonomasia di Captain Beefheart. Nell’aprile 2013 ha rimasterizzato e ristampato il diamante nero Trout Mask Replica. È saltato fuori che nel 2012 Gail abbia richiesto l’acquisizione dei diritti sul nome “CAPTAIN BEEFHEART” e sia attualmente in attesa dell’approvazione finale. Secondo Gary Lucas – sì, gli abbiamo rotto le scatole per sapere la sua opinione – è difficile che Gail riesca a spuntarla. In ogni caso: Grillo voleva brevettare “DIO”. Gail, tu a situazionismo come stai messa? Zappa / Mothers, Roxy by Proxy (Zappa Records, 2014) PARTE QUATTR O | Dieci dischi c o i baffi L’arbitrarietà delle poll, delle shortlist, delle top, dei canoni eccetera a numero chiuso viene fuori in tutta la sua prepotenza se si tratta di dovere scegliere numero ‘x’ di dischi di Zappa “per cominciare”, a rappresentarne le diverse direzioni condensate nell’immenso opus (con la paradossalità aggiunta della profonda unità di fondo di quest’ultimo – la chiamano continuità concettuale). Un numero vale l’altro e allora ci arrestiamo al più classico dei classici. Con la consapevolezza che questo elenco di dieci dischi, in ordine sparso, ma secondo un criterio di alternanza democratica, taglia fuori cose clamorose in senso assoluto o comunque essenziali per la conoscenza dell’oggetto-Zappa come Black Napkins e Zoot Allures (dall’omonimo album), Inca Roads (da One Size Fits All), Bobby Brown, City of Tiny Lites e Yo’ Mama (da Sheik Yerbouti), Brown Shoes Don’t Make It (uno dei picchi precoci di Zappa, da Absolutely Free), la unpredictable smash hit Valley Girl (da Ship Arriving Too Late to Save a Drowing Witch), Sinister Footwear II (da Them or Us), The Dangerous Kitchen (da The Man from Utopia), Put a Motor in Yourself e N-Lite (capolavori austeri da quel catafalco mastodontico che è Civilization Phaze III), per non dire dei gioiellini sparsi nella vaudeville band con Flo and Eddie (per esempio, Sharleena), dell’intero Lumpy Gravy (il disco più scopertamente sperimentale di FZ, a partire dal formato, due lunghi brani collagistici) o delle testimonianze live (da Roxy and Elsewhere, alla abbuffata della serie celebrativa You Can’t Do That on Stage Anymore, al guitarama di Shut Up’n Play Yer Guitar). Frank Zappa, Läther (Rykodisc, 1996) Läther (1996) | Link Spotify | Triplo CD edito nel 1996 che riproduce il progetto ideato da FZ a fine anni Settanta e finito spalma- 59 to, per imposizione della odiatissima Warner Bros., su 4 diversi album (Zappa in New York, Studio Tan, Sleep Dirt, Orchestral Favorites). Ampiamente bootlegato anche perché integralmente trasmesso per radio da Zappa, per ripicca. C’è tutto lo Zappa post-freak e pre-Synclavier, in pratica. Non è cosa da poco. Inoltre, l’alternanza degli elementi e la loro giustapposizione e orchestrazione conferiscono valore aggiunto ai singoli materiali, di per sé raramente meno che entusiasmanti. Ristampato nel 2012 con una copertina differente (Zappa con la faccia ricoperta da schiuma da barba). Uncle Meat (1969) | Link Spotify | La fantasmagorica summa del primo Zappa, quello dei Mothers of Invention, quello freak, quello “anarchico”. Non a caso è da sempre uno dei dischi fissi nella elitarissima, idiosincratica super top di Piero Scaruffi. C’è la follia dada e c’è il rigore cameristico, c’è il jazz (la lunghissima suite King Kong) e ci sono le underground lollipops in odore di un doo-wop risciacquato in rivoli underground. Il tutto montato 60 ad arte. Da godere di pancia, nel suo lucido furore musicoclasta e, cervelloticamente, nei suoi turgidi intarsi geometrici (vedere la copertina). Over-Nite Sensation / Apostrophe (‘) (1973, 1974) | Over-Nite su Spotify | Apostrophe su Spotify | Due dischi impossibili da separare: nascono dalle stesse session e sono stati canonizzati unitariamente, tra reissue superdeluxe (placcate oro 24 carati) e documentari della serie Classic Album. Questo, che è il primo Zappa “commerciale” e “canzonettaro”, a presa rapida, è anche uno Zappa cesellatissimo, stratificato, generoso e – soprattutto – profondamente zappiano. È un prog-funk-pop (con venature hard che anticipano l’epifania Steve Vai) compatto, eppure pieno di anse, di dettagli golosi (sempre la copertina), innervato da quelle marimbe, da quei motivetti, da quegli avviluppamenti e spezzettamenti ritmici che sono solo zappiani. Hot Rats (1969) | Link Spotify | Recensione su SA We’re Only in It for the Money (1968) | Link Spotify | La satira della psichedelia, del flower power, degli hippie e del Movement in presa diretta. A partire dalla copertina – interna, nel vinile originale – che prende per il culo quella del Sgt. Pepper’s (con la complicità di Jimi Hendrix). Il disco è un’unica, travolgente valanga di frammenti senza soluzione di continuità, di canzonette, jingle, gag sonore, parodie (Flower Punk è una Hey Joe geneticamente modificata), sfottò, voci pitchate, momenti sperimentali (legati a doppio filo all’immediatamente precedente Lumpy Gravy). Troviamo qui uno dei rari momenti lirici della produzione zappiana, la elegiaca Mom and Dad. Un documento storico, nonché un fantastico bordello. Joe’s Garage (1979) | Link Spotify | Due volumi, di cui il secondo doppio (Act I e Acts II e III), pubblicati a pochi mesi di distanza. Zappa va avanti come un trattore rinnovando il proprio linguaggio (il disco è completamente diverso da Sheik Yerbouti, altro lavoro importantissimo, uscito solo pochi mesi prima) e chiude i Settanta già catapultato negli Ottanta. Con finalmente a disposizione uno studio di registrazione tutto suo (lo Utility Muffin Research Kitchen ricavato nella taverna sotto casa), partorisce un concept fantasticamente pretestuoso (un “Central Scrutinizer” vieta la musica e il povero chitarrista Joe ne passa di cotte e di crude) per sperimentare montando assieme, parimenti, nastri e musicisti: è la “strana sincronizzazione” della xenocronia, che fa jammare assieme parti neppure pensate per essere messe assieme, suonate da musicisti che non hanno mai interagito. È uno 61 Zappa ipertecnico, algido (ma capace di aperture “romantiche” come Lucille Has Messed My Mind Up, Outside Now e Watermelon in Easter Hay), sempre più innamorato dei turnisti (“l’animale poliritmico” Vinnie Colaiuta), che comincia a sognare il Synclavier – Nondimeno affascinante. Freak Out! (1966) | Link Spotify | Uno dei primi doppi e uno dei primi concept della storia del rock, nettamente diviso tra stupid songs che parodiano il pop, e in particolare le love songs dell’epoca, dandone una rendition deformata e grottesca, e pezzi programmaticamente sperimentali e rumoristici. A fare da cerniera tra le due parti, le illuminazioni weird annidate nel formato canzone di Who Are the Brain Police? e Help I’m a Rock. Importante come documento storico e perché contiene in nuce molti elementi della cosa-Zappa. You Are What You Is (1981) | Link Spotify | Da tempo sostengo che quello anni Ottanta sia, tra i tanti Zappa, quello più difficile da digerire. Per la discontinuità qualitativa dei dischi, per la forma-canzone adottata (che mischia easy listening, black music, musical e heavy metal in strutture complesse), per il suono: un suono plasticoso, chiusissimo, ottuso (basti dire che Chad Wackerman, batterista del periodo ’81-‘88, usava pad e Rototom). E se in almeno tutti i dischi del periodo si annida qualche chicca, non è però facile sceglierne uno che sia, allo stesso tempo, un disco rappresentativo e un buon disco in assoluto. La scelta allora non può che cadere su YAWYI: un lungo carnevale di pop colorato, farsesco e studiatissimo, che è anche l’ennesimo statement politico del Nostro (le solite stoccate a religione, politica, music biz e i soliti affondi a base di sessualità perversa). Unico disco della zappografia in cui suona la batteria il versatile David Logeman. Il videoclip della title-track mostrava un sosia di Reagan friggere sulla sedia elettrica e per questo fu bannato da MTV. Jazz From Hell (1986) | Link Spotify | Il disco con cui FZ presenta al mondo compiutamente (c’erano state avvisaglie su ThingFish e c’era stato il travestimento carpiato – il non-travestimento – di Francesco Zappa) i suoi smanettamenti ossessivi con il Synclavier, un costosissimo early digital, polyphonic, sampling system. È un disco animato da un modernismo così lanciato, programmatico, meccanico, luccicante (sembra di ascoltare frammenti da un Uncle Meat o un Hot Rats futuristici), da non potere non apparire oggi datato. Pezzi iperdinamici come Night School, la forsennata G-Spot Tornado o l’assalto di Massaggio Galore convivono con brani cupi, insinuanti, ansiogeni, inquie- 62 tanti (The Beltway Bandits, While You Were Art II, la title track, Damp Ankles) – tutti cervellotici – e con uno splendido assolo di chitarra catturato dal vivo (St. Etienne, come a dire, forse, che c’è ancora posto per l’uomo oltre la macchina). The Yellow Shark (1993) | Link Spotify | Alla fine – di tutto (è questo l’ultimo album pubblicato con FZ in vita) – il nostro, che da sempre si definiva un “American composer”, corona il sogno di vedere eseguita la propria musica come dio comanda da un ensemble orchestrale (prima era stata quasi sempre una storia di incazzature nere o alla meglio frustrazioni, London Symphony Orchestra e Boulez/Perfect Stranger inclusi). Malato da tempo, Zappa sovrintende alle prove e agli allestimenti del francofortese Ensemble Modern, diretto da Peter Rundel, che gli regala versioni rigorose e brillanti di classici vecchi e nuovi del suo repertorio strumentale, cameristico e classico-contemporaneo. Una lettura della musica di Zappa che apre uno squarcio decisivo sulla sua intentio auctoris, nonché una via possibile alla ricezione di un opus che, mettendo sempre il piede in più scarpe, trova i propri interpreti sistematicamente impreparati. L’ultimo sorriso, su The Yellow Shark 63 Conflitti 64 Il violinista canadese autore di “In Conflict” si racconta in un’ampia intervista. L’ultimo disco, la sua genesi e molto altro. Testo di Teresa Greco Una lunga e illuminante chiacchierata con Owen Pallett: il senso del nuovo disco In Conflict, un processo di maturazione avvenuta e di riappropriazione dell’io finora nascosto abilmente dietro i tanti “personaggi” a cui il violinista e autore canadese aveva dato vita nei suoi album. Ora si sente maggiormente sicuro, rivelando di più su se stesso. L’ultimo album non è del tutto autobiografico ma vi si avvicina molto, ponendo finalmente l’autore al centro delle canzoni. La lunga gestazione del disco (a cui ha partecipato Brian Eno, soprattutto ai cori), le tematiche, il processo creativo, gli arrangiamenti, i testi, le ispirazioni, i conflitti con se stesso, l’identità e molto altro. Molta melodia, una drammaticità non retorica e tanta sincerità stanno dietro a un album compiuto. In Conflict ha avuto una lunga gestazione. Ce ne puoi parlare? Sì, è stato molto difficile, ha richiesto un bel po’ di tempo, circa due anni tra una cosa e l’altra, direi un sette mesi di lavoro… troppo! (ride, ndSA) E’ stato difficile, in termini di testi o di lavoro sugli arrangiamenti per la musica che avevi in mente? Da parte mia, gli arrangiamenti arrivano in modo abbastanza veloce e le canzoni stesse sono state scritte piuttosto rapidamente; la difficoltà è di solito capire come non verrà un pezzo, confrontandolo con il come verrà fuori, perché ho una concezione molto datata e stupida, nel senso che voglio che la musica risulti nuova, come qualcosa che avrei voglia di sentire. Se viene fuori qualcosa che suona troppo hard rock o house ’90 o simili, allora devo ricominciare. Oltre ai synth, quali altri strumenti sono stati utilizzati nel disco? Ho usato un solo sintetizzatore, l’Arp 2600, il vecchio synth del 1971. L’album è quasi per intero prodotto con l’Arp, niente drum machine, fatto molto in modo artigianale. Ho altri synth, ma ho iniziato a usare questo per ogni cosa che faccio. 65 Anche Brian Eno ha usato l’Arp? Che cosa ha fatto di preciso in In Conflict? Ha suonato alcune piccole parti di chitarra nella title track, nel terzo verso si può sentire una chitarra che entra. Ha suonato un po’ di synth in The Riverbed, che non si sente a meno che non si tolga, e allora si avverte che il pezzo suona male. La canzone non andava bene ritmicamente e Brian ha aggiunto questo synth molto sottile, che ha fatto sì che il pezzo andasse molto bene ritmicamente. A parte questo, per la maggior parte ha cantato i backing vocal, in cinque pezzi. Gli ho mandato le tracce e lui le ha registrate a Londra, non eravamo precisamente nello stesso studio; ci siamo incontrati parecchie volte di persona, anche se perlopiù siamo mail friends (ride, ndSA). Rispetto al penultimo album, Heartland, che differenze ci sono nei testi? In quest’ultimo ci sono differenze, perché la maggior parte dei testi non è fiction, anche se non direi che sono testi autobiografici, pur arrivando comunque dalle mie esperienze. La stessa cosa era vera anche per gli album precedenti, ma qui non descrivo ciò che accade come se fosse successo ad altre persone, ma come se accadesse a me. In pratica ho messo me stesso nel mio disco. E’ come se fossi sia lo scrittore che la star! (ride, ndSA). Suona piuttosto sciocco dirlo, ma è stato differente il processo: parlare della mia vita e mettermi come protagonista. Ho letto i testi, sono molto poetici e anche molto diretti, hai persino citato il tuo nome un paio di volte… Esatto, ma anche nei dischi non autobiografici usavo citare il mio nome, è una sorta di accenno a Jonathan Richman. Jonathan Richman ti ha in qualche modo influenzato? Non ha un approccio molto diverso dal tuo? No, non credo che il suo approccio sia molto diverso dal mio, abbiamo molto in comune; non tanto da una prospettiva sonora, quanto dal punto di vista politico, veniamo dallo stesso ambiente. Quando ho ascoltato l’album per la prima volta mi è venuto in mente Rufus Wainwright… E’ complicato parlare di musicisti a cui la propria musica assomiglia; vengo spesso paragonato a Rufus Wainwright, Andrew Bird è un altro nome che si fa. Li conosco e sono molto, molto diversi da me, sia come motivazioni che come contenuti. Mi piacciono e mi piace la loro musica, ma quando faccio un disco e scrivo canzoni, non ho niente in comune con loro e se sento che certe 66 BIOgrafia Il violinista canadese Owen Pallett, fino al 2009 conosciuto con il moniker di Final Fantasy, classe 1979, ha ormai un nutrito curriculum alle spalle, tra dischi in proprio e numerose collaborazioni. Pallett viene da un piccolo sobborgo nei pressi di Toronto, ha un background classico intrapreso sin da piccolo con un padre organista di chiesa, studi di pianoforte, pièce composte in pre-adolescenza per un videogame ideato dal fratello maggiore, per approdare poi all’università di Toronto a studiare composizione classica. Fa parte del trio Les Mouches, con Rob Gordon e Matt Smith, con il quale pubblica due album in studio e un EP, dal 2002 al 2004. Il progetto Final Fantasy – tributo alla sua anima nerd – nasce un anno dopo la conclusione degli studi universitari, nel 2003, essenzialmente come one-man band. Il Nostro si è intanto unito ai Picastro e ha iniziato la sua attività come arrangiatore, per gli Hidden Cameras e gli Arcade Fire tra gli altri, di cui è violinista. L’esordio con Has A Good Home (2005) non convince, secondo il nostro Edoardo Bridda. Composizioni per violino e pedale del loop conducono l’album a snodarsi tra chamber volte la mia musica inizia a suonare come la loro, cerco di allontanarmene. Non è una mancanza di rispetto nei loro confronti, sono un grande fan di Rufus, The Art Teacher credo sia una delle più belle canzoni che abbia mai sentito, e rispetto moltissimo Andrew come musicista, è un favoloso violinista. Non sono però le persone più vicine a me; per esempio, quando si pensa a Jonathan Richman, non vengono in mente i violini, ma esiste una più profonda motivazione che lo guida e che mi guida, non lo conosco, probabilmente siamo molto diversi, ma esistono alcuni musicisti nel mondo a cui mi sento molto vicino, anche se la loro musica viene da posti diversi. Hai lavorato con John Darnielle dei Mountain Goats tempo fa. Ha qualcosa a che fare con In Conflict? John non ha effettivamente collaborato al disco, abbiamo lavorato insieme su materiale dei Mountain Goats, non ha mai lavorato sulla mia musica. Ha ispirato comunque enormemente questo disco dall’inizio, perché subito dopo aver scritto Heartland e prima che uscisse, sto parlando del 2009, stavo cercando di scrivere nuovi pezzi, ma non ero sicuro di volerli collocare in un mondo di finzione, con questi personaggi fittizi. Non sapevo cosa avrei scritto di lì a poco, avevo un sacco di idee e le stavo provando. Una delle cose su cui stavo lavorando, consisteva nel descrivere situazioni accadute nella mia vita, sono stato ispirato molto dai Mountain Goats perché avevo visto come funzionava con Darnielle, mentre ero in tour con lui. Lui ha trasformato situazioni successe in quel momento in tour in una canzone, e nello stesso modo ho cercato di fare io. Ma non funzionava veramente. Due pezzi del disco, Infernal Fantasy e Soldier’s Rock, erano due canzoni tra le prime scritte, anche se largamente trasformate, ma Soldier’s Rock e Infernal Fantasy sono entrambe canzoni su storie d’amore che ho avuto da teenager e sono nate da questo processo. John è stato sempre molto influente, è un carissimo amico tra l’altro. Hai detto poco fa che arrangiare una canzone, creare un’atmosfera, ti viene molto facile. E’ sempre stato così? No, ero molto lento, poi sono diventato molto veloce. Lavorando man mano sono diventato più svelto, riesco ad arrangiare un pezzo per orchestra in un giorno. Posso farne anche due al giorno. Ma Nico Muhly è più rapido di me, ne può fare tre al giorno (ride, ndSA). Non ho veramente problemi a essere veloce in tal senso. Non mi mancano le idee melodiche, posso fondamentalmente sedermi al piano e fare grandi cose. La cosa più diffici- pop e songwriting che ricordano Patrick Wolf, mentre certo minimalismo riporta da un lato alla Penguin Cafe Orchestra, dall’altro ad ascendenze seventies, Nick Drake su tutte (si ascolti l’accorata Adventure.exe); seguono riferimenti Arcade Fire, Postal Service e melodie eighties (This Is The Dream Of Win & Regine), che culminano nel lirismo della sinfonia per archi di That’s When The Audience Died. La maturazione si concretizza nel successivo He Poos Clouds (2006), un concept album le cui composizioni sono ispirate ai livelli di Dungeons And Dragons, l’epico videogame fantasy. Qui il minimalismo del precedente lavoro lascia il posto ad arrangiamenti stratificati ed a una riuscita unità concettuale, tra pop e struttura classica. Le canzoni sono arrangiate per quartetto d’archi, pianoforte, harpsichord e percussioni, si insiste su composizioni piene ed enfatiche, che occhieggiano al solito Wolf, a Rufus Wainwright e a Xiu Xiu, a Nick Drake e allo Scott Walker più arty (If I Were A Carp). Numerose le citazioni testuali al mondo virtuale, dai giochi Nintendo alle Cronache di Narnia, mentre il sottotesto è una autobiografica riflessione intorno al rapporto tra ateismo 67 le, poi, è terminare i testi e, come dicevo prima, la produzione, immaginare come registrare. Se facessi album per solo piano, ne potrei probabilmente fare tre o quattro all’anno, ma nessuno vorrebbe sentirli, non sarebbero granché (ride, ndSA). Quindi è questo il modo in cui componi, al piano? Certo, ho tanti demo dove suono il piano mentre canto testi inventati, o apro un libro e canto le parole mentre suono il piano, mi vengono fuori grandi idee in questo modo. Qual è la canzone più autobiografica del disco? E’ abbastanza difficile da dire, perché sento che ci sono due livelli di autobiografia in In Conflict. Una è rappresentata da Soldier’s Rock, molto autobiografica, non ci sono bugie. Ma nello stesso tempo, credo non sia molto illuminante. Non credo sia un pezzo che abbia molto da dire. Ne sono molto soddisfatto, ma perché penso che sia molto vicina alle mie esperienze; mi chiedo se qualcuno possa ricavarne qualcosa, come se ci fosse una sorta di sentimento universale. La prima canzone invece, I Am Not Afraid, è la meno immaginaria, la più teoretica, e so che la gente ha avuto una reazione molto emotiva con questa canzone. Con questa, hanno ritrovato molto della loro esperienza. Quindi è un po’ come se ci fossero canzoni più autobiografiche e altre con un più profondo significato. Sei un fan di Games Of Thrones? Sì molto! Le serie TV ti hanno ispirato nel fare musica? No, nel senso che Games Of Thrones è un fantasy ad ampio respiro, che deriva da molte fonti mitologiche, che musicalmente sono generiche, per cui lo sarebbero anche la mia musica e le mie ispirazioni. Invece la mia primaria influenza fantasy è in effetti H. P. Lovecraft. Lovecraft è stato una grande influenza per Heartland e continua ad ispirarmi. Ho letto molto di lui e molto su di lui. Spero di cogliere una sorta di mitologia stratificata di cui lui tratta, il modo in cui fa sempre riferimento a libri che non sono stati scritti. Un’altra mia ispirazione è la numerologia, sono presenti molti riferimenti numerologici in questo disco e in altri, per esempio In Conflict ha molto a che fare con il numero 7. Ci sono molte canzoni in settima, molte strutture compositive costruite attorno agli stessi principi che Béla Bartok usava per creare le strutture delle canzoni, con certe simmetrie. Ma preferisco non addentrarmi troppo in questo, la gente penserebbe che sono più esoterico di quanto in realtà sia (ride, ndSA). 68 e morte. Autobiografismo presente da sempre in Pallett, che affronta il tema dell’identità del queer artist quale egli è in modo defilato, non da attivista. Non facendoci esattamente della musica militante sopra, ma affrontandolo da un punto di vista dell’identità, piuttosto che dell’affermazione, essendo tra l’altro il Canada, da questo punto di vista, uno stato piuttosto libertario. Due EP annunciano Heartland (2010): il primo è Spectrum, 14th Century EP (2008), una collaborazione con i Beirut, registrata durante le session di The Flying Club Cup, e che ha visto Pallett arrangiarne gli archi. Un set di cinque pezzi che proseguono la strada di He Poos Clouds, largamente arrangiati con atmosfere jazzy e ambient. Il secondo mini, Plays To Please EP (Slender Means, 2008) cambia ancora le carte in tavola: trattasi di cover di sei pezzi di Alex Lukashevsky, musicista di Toronto leader del gruppo Deep Dark United. In origine blues soprattutto acustici, vengono qui rivisitati da Pallett, Andrew Bird e altri ospiti, in un chamber jazz cabaret drammatico, tra orchestrazioni classiche e musical di Broadway, con il tocco del Nostro e la sua voce a far da Hai mai suonato qualcosa con la sequenza di Fibonacci? (ride, ndSA). No, non che io sappia. Credo che la relazione tra le teorie matematiche e la musica classica contemporanea sia molto interessante; i miei giochi matematici, in quel che compongo, sono molto più semplici. Per esempio, c’è un gioco in Song For Five and Six. La canzone comincia con un accordo di quinta che va in sesta ma entrambe le alterazioni in chiave sono per quinta e sesta. Per così dire, il pezzo è in sesta ma poi c’è un breakdown di violino che accade in cinque sedicesimi, sovrapposto. Usando il looping, ho parecchie opportunità di suonare molti stupidi giochi ritmici che spero divertano gli ascoltatori. Parliamo della soundtrack del film di Spike Jonze, Her: si è trattato di una collaborazione tra te e Win Butler degli Arcade Fire oppure è stato un lavoro che avete fatto separatamente? No, niente del genere. E’ uno score degli Arcade, in effetti, io sono entrato nel progetto solo alla fine per aiutarli a completare alcuni spunti. Il motivo per cui Will ed io siamo stati nominalmente nominati dall’Accademy per l’Oscar è stato perché quando abbia- collante. Intanto Pallett a fine 2008 ha cambiato definitivamente nome, abbandonando lo storico moniker Final Fantasy a favore del vero nome. In ballo questioni di copyright con l’omonimo videogioco che lo hanno volontariamente convinto ad affrancarsi definitivamente dal marchio, togliendolo anche dai dischi precedenti una volta ristampati. Sintomo anche questo di quella precisione quasi maniacale che lo contraddistingue. Heartland (2010) è ampiamen- 69 mo presentato lo score, non poteva essere a nome di una band. Dato che era degli Arcade Fire con Owen Pallett come musicista addizionale, hanno messo il mio nome e quello di Will come rappresentante della band. E’ pur vero che con gli Arcade Fire hai una storia lunga, hai arrangiato come minimo tre dei loro album… Vero, ma non del tutto. Cioé lavorare con loro presuppone molta collaboratività, molta più di qualsiasi altro lavoro che ho fatto finora con altri. Se guardi i credits di Funeral, per dire, gli archi sono arrangiati da un gruppo di persone degli Arcade Fire, e io sono uno di loro. La stessa cosa è successa con Neon Bible: io e Régine abbiamo fatto uno specifico lavoro orchestrale, e così per Reflektor. Gli archi sui dischi degli Arcade Fire sono arrangiati collettivamente da me, Sarah e Richard, con un grande contributo di Win e Régine. Laddove c’è un’orchestra, questa è sempre arrangiata da me e Régine. Tuo zio è nel clip di The Riverbed… Sì è vero, mio zio Jim è un attore, e abbiamo sempre scherzato sul fatto che lui dovesse essere in un video. Se sei un musicista e un po’ famoso, come lo sono io, sei sempre soggetto ai consigli dalla famiglia sul mettere qualcuno dei tuoi parenti sulle copertine dei dischi, in un video, è una specie di cosa ricorrente sai? Amo la mia famiglia e perciò è sempre molto piacevole. Con Jimmy ho deciso di prendere il suo scherzo sul serio e gli ho detto: “Sei un attore e ti voglio nel video”. Volevo The Riverbed come primo singolo e volevo che richiamasse la profondità emotiva del disco, e ho sentito che Jimmy era molto adatto per il ruolo. Ho mandato il trattamento iniziale a Eva Michon, la regista, e da lì lei e Jimmy hanno girato il video, di cui sono molto orgoglioso; è probabilmente il miglior video di Owen Pallett. Di solito con i video non ho molto input. I primi a cui ho fatto realmente attenzione e a cui ho pensato veramente, sono quelli realizzati per In Conflict. Come Song For Five and Six, On A Path e The Riverbed. Ne sono molto contento e mi sono divertito. In passato, davo il pezzo a un regista e gli davo carta bianca. Lavorare con M Blash per i video precedenti è sempre stato un piacere, ma questa volta sono stato più coinvolto in ogni senso per i clip, perché credo che nel 2014 ogni canzone debba avere un video. Mi piacerebbe realizzarne uno per ogni brano del nuovo album, ma suppongo che dipenderà da quanto In Conflict avrà successo e da quanti soldi avremo a disposizione. Fare video è costoso. Ne abbiamo girato un altro e ho idee per il resto del disco, sia in high che in low budget. Mi 70 te orchestrato e stratificato con la partecipazione della Czech Symphony di Praga e di Gentleman Reg, Nico Muhly e Jeremy Gara (batterista degli Arcade Fire) tra gli altri; l’album ha una base narrativa di concept, e un’ambientazione in un regno fittizio, Spectrum, ed è basato su conversazioni tra la divinità del posto e un giovane fondamentalista religioso, Lewis. Argomenti, questi, che sono metafore sul senso umano di appartenenza e/o non appartenenza a un posto e sulla xenofobia che ne può derivare. Una personale “song cycle di fiction contemporanea” che deve molto all’amato Van Dyke Parks, nella quale si passa dalle marcette militari ottocentesche al synth e al chamber pop, fino alla saturazione del suono, in un mix di analogico e digitale. Il lavoro della maturità. Numerose le collaborazioni di Pallett nel corso della carriera: ha registrato e suonato con Jim Guthrie, Beirut, The Hidden Cameras, Gentleman Reg, Arcade Fire (ha scritto con loro gli arrangiamenti degli album Funeral, Neon Bible e poi The Suburbs e Reflektor); ha realizzato remix per Stars, Grizzly Bear, Death From Above 1979. Ha composto le colonne sonore dei film The Box di Richard Kell (2009, insieme a Win piacciono anche i prodotti low budget. On A Path è sorprendente, amo quel video, fatto dal mio amico Steve in un weekend, è molto riuscito. Che mi dici della tua vecchia band Les Mouches e di come siete tornati insieme? Dal 2003 al 2004 eravamo insieme, abbiamo suonato 30-40 show, tutti in Canada, tra Montreal e Toronto. Eravamo popolari in un certo ambito, nella scena indie sperimentale, tutti noi poi eravamo coinvolti in progetti meno elitari. Io e il mio violino, Robbie suonava la batteria in una band chiamata Front Fiction che ebbe successo improvviso, e poi finì subito, c’era molto entusiasmo in Canada. Les Mouches poi si sciolsero e ognuno di noi prese la sua strada, pur essendo tutti molto amici. Avevamo poi parlato di riunirci, ma eravamo tutti in posti diversi. Rob Gordon faceva molta musica sperimentale minimal house. Io si sa, sono un tipo più pop. Nel 2011 poi mi sono stati offerti un paio di concerti in cui suonare Heartland per intero e sapevo che mi sarebbero serviti un bassista e un batterista, così ho pensato subito a Robbie e l’ho ingaggiato per suonare la batteria. Matt Smith non suonava il basso, così gli ho comprato un basso e gli ho chiesto di imparare a suonarlo (ride, ndSA), e noi tre abbiamo imparato il disco. Spero tu possa vederlo; non so se ti era piaciuto Heartland ma è sorprendente sentire quelle canzoni – che ho suonato da solo per molto tempo, o con l’accompagnamento minimale di un chitarrista – live con un arrangiamento da rock trio: suonano molto potenti, siamo rimasti stupiti noi per primi dal buon risultato. E sapevamo che avremmo dovuto ancora lavorare insieme e così è stato per In Conflict. Mi sono scoraggiato, però, a metà. Avevamo scritto e registrato circa sette pezzi come band, accreditandoci tutti, nel disco, come co-autori, ma mi sono un po’ innervosito perché volevo trovare il modo di legare il vecchio materiale al nuovo. Così una volta scritte le prime sette canzoni, ho detto che avrei scritto io l’altra metà dell’album, i brani che sarebbero poi diventati Path, Chorale e Passions. Che mi dici del prossimo tour? Siamo in tour ora. Finora è stato davvero eccitante, solo noi tre sul palco; io suono poche canzoni da solo, nel mezzo del set. Ma perlopiù sono arrangiamenti per tre. Suoniamo poche canzoni vecchie e più che altro i nuovi pezzi. Spero di continuare con loro, perché per la maggior parte sono stato da solo in tour, così c’è sempre stato tanto denaro (ride. ndSA), tipo che si torna a casa con i soldi in tasca; ora è più difficile perché c’è da noleggiare la Butler e Régine Chassagne) e The Wait di M Blash. Con Win Butler è stato candidato agli Oscar 2014 per lo score di Her di Spike Jonze. Il 27 maggio 2014 è stato infine pubblicato In Conflict, perfetta sintesi di quanto realizzato finora dal musicista canadese. Synth e percussioni predominano, Brian Eno partecipa (synth, chitarra e cantato in alcuni brani). Disco più personale dei precedenti: il punto di vista di Pallett si sposta dai vari personaggi dei precedenti concept a se stesso, se non del tutto autobiograficamente. Melodico, drammatico, ma non retorico. 71 batteria e comprare i voli per Matt e Rob, ma ne vale la pena perché insieme ci divertiamo molto! Quindi per quanti mesi sarai in tour? E’ sempre un po’ vago perché suono con gli Arcade Fire così spesso; il loro tour è in corso e io suono con loro ad ogni concerto, sono un membro della band per questo tour. È molto intenso, loro si prendono un mese di pausa ma io non posso perché devo portare avanti i miei live. Avrò dormito nel mio letto, da capodanno, un totale di cinque notti! Credo che avrò una settimana libera in luglio, e poi sarò occupato fino a fine anno. Sto anche pensando, giusto per stabilire un record, che una volta finito il tour potrei andare in Giappone, così non ritorno del tutto a casa (ride, ndSA). Suppongo proprio che tu non abbia il tempo per iniziare a lavorare su nuovo materiale… Beh, quando sono con gli Arcade comunque non devo portare la mia attrezzatura, né fare interviste, perciò alla fine ho del tempo libero. Non ho ancora scritto niente di nuovo ma sto arrangiando dischi per altri e facendo remix. Credo di aver fatto quattro di- 72 schi quest’anno, mentre ero on the road, una cosa ottima. Sto già pensando a nuovo materiale, in realtà, perché è bello non perdere l’abitudine. Non ho scritto nessun pezzo quest’anno. Da quando ho finito In Conflict, mi sono preso una pausa dal songwriting e voglio riprendere. Pensi di avere uno stile particolare quando fai remix? Credo di averne fatti quattro, ogni volta che ne faccio uno scopro che non ho ancora capito il mio tipo di linguaggio. E’ come quando sei un compositore e vai a scuola di composizione, il peso maggiore di imparare ad essere un compositore è di scoprire il tuo linguaggio, capirlo. Cosa comporre, per chi, in che stile, ecc. Richiede molto lavoro anche mentale nel trovare se stessi. Sento che succede la stessa cosa con i remix. La maggior parte ha il loro linguaggio e metodo. Io ho lavorato sugli archi, su remix con molti synth e sono ancora al punto che sto cercando la mia voce. Questo non è negativo essendo un musicista pop, ma lo è quando sei un remixer. Devo capire davvero qual è il suono che mi piace, il 12” che ho prodotto per Caribou è probabilmente la cosa migliore che ho fatto, che avrei voglia di ascoltare in privato. Ma non sono ancora pronto a prendere queste grandi decisioni. Ho lavorato nel nuovo album di Caribou, ma è tutto quello che posso dirti, per ora (ride, ndSA). 73 Skiantos Sbagliando nota. Parte seconda 74 In questa seconda parte della storia del gruppo bolognese analizzeremo il passaggio dal successo di “Mi piaccion le sbarbine” alla crisi che negli anni ‘80 mette a rischio la sua esistenza, tra dissapori interni e problemi coi discografici. Testo di Giulio Pasquali III. 1 – L’avanguardia è molto dura Nella romanza cantautorale è tutto così etereo, legato alla tradizione classica occidentale. Mentre il ritmo è qualcosa di molto più tribale, è un’esigenza che ti viene se ascolti il blues, il rock e tutti i suoi derivati. A me piaceva questo. Freak Antoni, da Anni di pongo, in Aa.Vv., Gli altri ottanta Una cosa va detta degli Skiantos: nonostante siano stati i testi a caratterizzarli come identità artistica e come progetto, la musica era tutt’altro che secondaria, per qualità e per la strana capacità di essere, volenti o in futuro anche nolenti, in linea con la contemporaneità. Dopo il punk di Inascoltable e il punk-rock di MONO Tono, infatti, anche il disco del ’79 riesce ad essere in sintonia con quanto accadeva in quegli anni, principalmente in UK. Era l’anno della maturità del post-punk/new wave, termini quanto mai scivolosi e complicati da definire univocamente sia stilisticamente sia cronologicamente: dai Suicide che erano in giro dalla prima metà dei ’70 a una Patti Smith definita a seconda dei momenti “ultima rockstar anni ’70″, “madrina del punk”, o “poetessa new wave” (e che comincia nel ’75), dalle quadrature postCan e Low dei Joy Division (le cui origini punk sono evidenti) alle spigolature al tempo tecniche e sguaiate dei Television, è un universo complesso per definizione (per dire: che c’entrano i Bauhaus con i Talking Heads?), nato com’era sull’onda liberatoria del punk che invitava a contaminazioni ed esperimenti, e che nel tempo, anche per la successiva virata chart-friendly di alcuni suoi esponenti, si fa sempre più sfuggente. 75 Per brevità, la koinè del genere si può riassumere in ritmi robotici, una vaga alienazione, l’abbandono della passione rock, l’uso dell’elettronica e di ritmi che sbiancano il funk e la disco cui semmai si guarda nella sua versione Moroder, inquadrandola su geometrie Kraftwerk (i quali, in un gioco di scambi e rimandi, verranno campionati spesso dall’hip hop), pur senza dimenticare le origini punk nell’abbandono dei virtuosismi per privilegiare l’attitudine; se è vero questo, l’Italia non fa eccezione, anche se sarebbe più esatto dire “Bologna”: i segnali da Firenze e Pordenone arriveranno dopo; per ora la lezione viene messa in pratica soprattutto in Emilia (e con ottimi frutti: con buona pace di Battiato, “la new wave italiana” è in ottima salute…). È a Bologna infatti che hanno origine realtà come, per limitarci a pochi nomi, Gaznevada e Confusional Quartet, tempestivamente colti dalla stessa Italian Records di Oderso Rubini la quale, nata prima come tape label col nome di Harpo’s Bazar, aveva inizialmente prodotto la cassetta di Inascoltable degli stessi Skiantos e poi, cambiata la ragione sociale nel 1980, aveva saputo cogliere i vagiti della new wave nostrana fino a imporsi come marchio di garanzia (prima di assecondare la suddetta svolta pop/italo disco di tanti dei suoi gruppi). 76 Sempre a proposito di etichette, se è vero che la rivolta settantasettina dei Nostri era rivolta contro i cantautori nella stessa misura in cui lo era contro i tecnicismi del prog, la Cramps di Gianni Sassi riusciva a tenere insieme tutto: il prog degli Area, l’avanguardia di John Cage, un cantautore sia pur atipico come Finardi, il primo Alberto Camerini e, a partire da MONO Tono, anche Freak e soci. Intanto però Oderso Rubini continuava la sua opera di organizzatore culturale: il 2 aprile 1979 va in scena Bologna Rock, festival che vede sul palco numerosi gruppi della scena del momento e occasione in cui gli Skiantos scrivono una delle pagine più memorabili e simboliche della loro storia. È lì infatti, davanti a 6.000 persone, che danno vita alla “Spaghetti performance”, cucinando la pasta invece di suonare; e la reazione del pubblico, piuttosto contrariato, dimostra che le età dell’oro non esistono e che il fatto di attraversare un periodo di fermento creativo non significa automaticamente che tutto il pubblico sia pronto a tutto, nemmeno in un’epoca di contestazione dei meccanismi dello show business, nemmeno in anni in cui il culto del musicista tecnicamente virtuoso promosso da tanti classici gruppi ’70 veniva bollato come “nazista”. D’altronde “l’avanguardia fa paura”, e qui eravamo più nell’ambito del precedentemente ricordato Living Theatre, che dei Sex Pistols. La nomea di cui parlava Freak Antoni deve parecchio a quell’evento, epocale sia per la nuova scena rock, che per gli Skiantos. III. 2 Forse mi credevi pi ù catti vo… I testi inizialmente volevano essere in rima baciata, da scuola elementare, e trattavano di tutto quello di cui normalmente i cantautori non parlavano: cose comuni, banali, come la pastasciutta, il cibo o i gelati, metafore delle cose che più ti piacciono nella vita. L’importante era evitare i cliché. Freak Antoni, ibid. Vivo nel terrore dell’amore ma ci godo a fare del rumore Mi piace molto di suonare e con la musica pestare ma non mi guadagno il pane perché suono come un cane Skiantos, Sono un teppista (1979) Nonostante l’assenza di Dandy Bestia, Kinotto (ad azione dissolvente) (Cramps, 1979) e il singolo Mi piaccion le sbarbine/Fa- 77 gioli (1980, la seconda esclusa dall’album e reintegrata nella ristampa del 2003) confermano il momento d’oro dell’ispirazione, e mostrano appunto orecchie aperte e sensibili al suono della new-wave: la tipica pulizia sonora del genere (che non tutti avevano ancora ben digerito) inizialmente spaventò un poco i fans, che intravedevano i sintomi di un tradimento “commerciale” (curiosamente, fu il successo del singolo a dare impulso alle vendite). Riascoltato oggi, il cambiamento stilistico rispetto al precedente album non è così netto (anche se è lì che si sente l’assenza di Dandy) e il disco in realtà, come musica e testi, sa tenere l’equilibrio tra le novità e i terreni congeniali al gruppo. Non manca, per esempio, il surrealismo, nelle storie di passioni alimentari smodate musicate su ritmi estivi di Gelati e Kinotto, dove si descrive un mondo in cui, chissà perché, i gelati “costano milioni” e dal lattaio un chinotto (pardon, kinotto) costa “un puttanaio” (più che immaginazione malata, previsione dei tempi dell’euro o procedimento della rima casuale, è un modo di parlare di passioni). Quanto al linguaggio giovanile (l’altra grande novità portata dalle canzoni del gruppo), esso ritorna nel rock (musicalmente banalotto, però) di Non ti sop- 78 porto più (altrettanto romanticamente con “mi hai rotto i coglioni”) e, insieme a pose stradaiole, nella notevole Ti rullo di kartoni. Abbiamo poi la trasformazione delle innumerevoli “I Wanna” dei Ramones nel ritornello “voglio solo scaccolarmi, scaccolarmi, scaccolarmi” del classico Kakkole (sorta di Waiting For The Man diversamente grezza), le rielaborazioni da Inascoltable di Il rock ti dà lo shock e Se mi ami, amami, il romanticismo a ruota libera (dai vincoli della logica) del frammento Tu sei bellissima, in generale un basso di gomma che tira il tutto, e l’epica domestica di Freezer, primo esperimento di electro-funk insieme al singolo Fagioli, altra storia di passione alimentare smodata. Per finire, anzi per cominciare visto che apre il disco, il classico Mi piaccion le sbarbine, il loro brano più celebre, manifesto degli amori sgangherati messi spesso in scena dal gruppo, e la geniale Sono buono, storia di una (finta, c’è da dirlo?) pace ritrovata, recitata più che cantata con voce quasi indifferente su un arrangiamento rarefatto di batteria, su cui la chitarra insinua un riff tra Peter Gunn e Love Me Two Times. Forse leggermente inferiore al precedente, Kinotto, oltre ad essere più vario stilisticamente, è comunque l’altra pietra miliare della loro carriera: i brani in esso contenuti sono diventati classici mai esclusi dalle scalette dei concerti, anzi parte fondamentale dei live assieme a quelli di MONO Tono. Freak: le vendite “Mono Tono e Kinotto sono andati molto bene, ma non abbiamo mai avuto i rendiconti reali. Nel senso che Gianni Sassi della Cramps ha sempre occultato opportunamente tutti i rendiconti, e non abbiamo mai saputo quanto abbiamo venduto realmente. La prima tornata di vendite fu cinquemila copie, ma Gianni Sassi stesso disse “guardate, al prossimo rendiconti avrete certamente un aumento reale, notevole, ve lo preannuncio, sarà più veritiero il prossimo rendiconti”. Il “prossimo rendiconti” non è mai arrivato, quindi non so cosa dire”. IV. A d azione dissolvente: vad o fino a Sanrem o Scavando nella mente mi restano immagini sbiadite in bianco e nero, più nere che bianche per la verità: la cantina umida di Via San Vitale, le discussioni infinite sul taglio da dare alla band dopo le dipartite eccellenti, le troppe siringhe che giravano, la testa di tutti perennemente altrove, chi per un motivo chi per un altro, una sorta di depressione strisciante, avvolgente. 79 Andrea Della Valle “Andy Bellombrosa”, traccia cd rom della ristampa di Pesissimo! Ad un certo punto il gruppo decide di provare ad andare a Sanremo, il che produce tensioni tra i suoi membri: Freak Antoni, per esempio, è perplesso sulle modalità, teme che la macchina del Festival annacqui e snaturi il messaggio della band. Ma una giuria terrorizzata da quello che gli Skiantos avrebbero potuto fare in diretta chiude la questione, estromettendoli. La ferita però resta, e se le vendite del successivo Pesissimo! andranno bene (il pubblico ha fatto pace con le nuove sonorità e gli Skiantos un parziale dietro front stilistico), la situazione nel gruppo non è per niente pacifica. Come dice il non casuale titolo del disco, il clima non è buono: oltre alla questione Sanremo, quello che era un gioco sta diventando un mestiere (con gli ottusi consigli paternalisti di chi dice loro “sì, ok, ora però dovreste diventare più ‘professionali’”) e al posto del divertimento stanno subentrando le pressioni. Che spesso fanno rima con “defezioni”, così oltre a Jimmy Bellafronte anche Freak Antoni, fulcro delle pressioni interne ed esterne sulla band (sebbene questa si identifichi con lui molto meno di oggi), la abbandona stressato e desideroso di dedicarsi ad altro (nella traccia rom della ristampa di Pesissimo! i membri del gruppo raccontano qualcosa al riguardo). Gli Skiantos rimasti non mollano, chiamano al suo posto Linda Linetti (unica donna della loro storia) e cercano di reagire mettendosi al lavoro sull’album. Il quale, però, paga le scarse vendite iniziali di Kinotto, meritandosi un budget è inferiore. A livello di produzione, la performance è buona. Anche troppo: il disco viene registrato con frequenze che poi devono essere tagliate perché il vinile non riesce a riprodurle, col risultato di un suono molto cupo (verrebbe da dire Pessimo). Solo la recente ristampa ha reso giustizia al lavoro di Jimmy Villotti e Franco Zorzi (anche i Pere Ubu hanno incontrato problemi simili: secondo loro, ai tempi del vinile, le chitarre “in controfase” – come in Pesissimo! - erano “l’incubo dei discografici”). Non ai livelli dei due dischi precedenti, invece, la performance del gruppo, in calo d’ispirazione e tormentato dai detti problemi. Certo, tra una notevole Mammaz, con la sua battuta elettronica morbida, e la versione rock di X agosto di Giovanni Pascoli (sì, proprio “Tornava una rondine al tetto…”) di cui si permettono anche di cambiare qualche verso, gli Skiantos segnano ancora qualche punto. Il fatto poi che Stefano Sbarbo e la sua ugola 80 dolente siano voce guida in quasi tutti i brani dà un colore strano e nervoso al disco (in qualche momento, anche un po’ inquietante), con particolari risultati, oltre che nei pezzi già nominati, anche nella tesa Sono Veloce e, appunto, Ehi sbarbo: l’accoppiata tra questa voce e il suono cupo finisce per rendere bene il clima in cui l’album è nato, e in generale le performance strumentali meritano, con svariati dettagli gustosi (inserti di elettronica, fluidi fraseggi di chitarra e un’atmosfera da corsa frenetica resa con efficace compattezza). Ed è in pieno stile Skiantos il fatto che tra 81 le poche canzoni di cui è voce guida “l’unica donna nella storia degli Skiantos” ci siano Fat Girl e la versione punk di Ragazzo di strada. Ma i riff non particolarmente memorabili e una certa uniformità stilistica non sono le carte migliori per far dimenticare gli assenti e il disco sembra una versione tecnicamente migliore ma meno importante della musica di Inascoltable (e i due pezzi finali ne rielaborano proprio due dell’esordio). Né si capisce, se si annuncia “una facciata registrata dal vivo in studio”, perché inserire le finte voci del pubblico. Colpa delle suddette tensioni, più che dell’assenza di Freak Antoni e Dandy Bestia: negli anni i due diventeranno le icone e il centro creativo del gruppo, fino a rendere impensabile un disco degli Skiantos senza di loro; ma benché al centro del progetto ci fossero dall’inizio, è anche vero che il gruppo era un collettivo di amici in cui le idee rimbalzavano tra tutti ed il contributo degli altri non era secondario. In un clima più leggero, anche gli Skiantos orfani dei due avrebbero potuto senz’altro portare a casa un risultato migliore (e il titolo sarebbe stato un altro). Da ricordare che in quell’anno, poi, c’è anche l’arrivo a Bologna di un ancora ignoto Johnson Righeira, che per il suo 45 giri d’esordio (una sorta di space twist, cantato in maglioncino giallo…) si fa accompagnare dai Nostri: le loro strade si incroceranno indirettamente pochi anni dopo, in un contesto del tutto diverso. Freak Antoni sulla sua uscita dal gruppo: “Io ero andato via dal gruppo perché innanzitutto non volevo essere il leader, la cosa mi procurava troppo stress, troppe telefonate di discografici, giornalisti, critici, troppe decisioni da prendere e quindi fine del divertimento spensierato, anche abbastanza disimpegnato, così come l’avevo inteso negli Skiantos. Non che gli Skiantos fossero disimpegnati, ma io volevo essere più libero, meno al centro dell’attenzione, meno subissato, meno coinvolto da processi di critica, di risposta, di presa di coscienza, di dibattito, ecc… volevo avere la mente e le mani più sciolte. Seconda cosa: la partecipazione degli Skiantos nel 1980 al Festival di Sanremo mi vide assolutamente contrario, e contrariato. Era una concessione al business: in quegli anni cercavo di essere il più duro e puro possibile, all’interno naturalmente del progetto creativo degli Skiantos, cercavo di essere il più irreprensibile possibile, e quella partecipazione mi sembrò un calar le braghe, cedere le armi, in sostanza un venire a patti col sistema di produzione del consenso musicale e spettacolare, era una specie di occhiolino al 82 pubblico più smaliziato. Mi chiedevo: gli Skiantos potrebbero andare a Sanremo, in linea di massima, come ipotesi? Certo che possono andarci. Però come ci andranno? Riusciranno davvero a fare il loro discorso o saranno imbottigliati, irregimentati, resi inoffensivi, appiattiti, da tutta la mossa, da tutta la situazione, da tutta la sovrastruttura del Festival che inghiotte e banalizza qualsiasi cosa? Diventeranno un gruppetto banale che fa una canzoncina più o meno provocatoria come Fagioli? Il problema non si pose perché la giuria ebbe una paura folle, era sicura che avremmo bestemmiato (questo ce lo hanno detto poi alcuni membri della giuria con i giornalisti presenti), che avremmo mostrato il sedere, scoreggiato in pubblico, fatto delle cose innominabili davanti alla camera televisiva e ci eliminò immediatamente, nonostante manager e produttori artistici – in quel caso Gianni Sassi della Cramps – avessero tentato il tutto per tutto, si fossero prodigati per far andare comunque sul palco dell’Ariston gli Skiantos. E quindi decisi di fare un percorso mio, avevo molte canzoni nel cassetto, di produrmi canzoni utilizzando i gruppi rock di Bologna”. 83 V – L’inc ontenibile F reak A nt oni Freak Antoni così va a Roma per il progetto Beppe Starnazza e i Vortici, col quale esplora il passato della canzone comica italiana rileggendo classici di Fred Buscaglione, Natalino Otto e Rodolfo De Angelis in chiave rock. “Fui invitato a Roma da alcuni musicisti romani (tra cui Pasquale Minieri e Lele Marchitelli) per dare vita a questo progetto di Beppe Starnazza e i Vortici, per tentare di andare alle origini della comicità in musica, comicità nella canzonetta popolare italiana dai primi del ’900 fino ai giorni nostri, quindi passando anche dai futuristi, dai comici quali Pippo Starnazza, Carosone e soprattutto Fred Buscaglione, di cui abbiamo fatto diverse cover. E quindi me ne andai a Roma togliendomi un po’ da questa fissazione monomaniacale sugli Skiantos che comunque diventava pesante e un po’ faticosa, e che vivevo qui a Bologna. Fu una boccata d’aria, un tentativo di prendere ossigeno fuori da queste parole d’ordine, che diventavano tutte legate e indispensabili, tutte legate al lavoro degli Skiantos”. “Il lavoro su Beppe Starnazza e i Vortici fu molto impegnativo, non lo nascondo, anche faticoso, difficile. Però fu molto stimolante: conobbi Pachito Del Bosco, responsabile del 84 Fonografo Italiano quindi un grande ricercatore, un grande (etno) musicologo. Mi informai sul teatro delle sorprese, sul teatro futurista, sulle canzoni dell’avanspettacolo, quindi ascoltai un sacco di materiale, molte registrazioni dal vivo di Buscaglione, conobbi Leo Chiosso, il suo paroliere, che mi raccontò un sacco di cose riguardo a Fred, e lì maturai l’idea di proporre al comune di Torino una strada, una piazza dedicata alla sua memoria, progetto che presentai ma che poi non fu minimamente preso in considerazione. Però sì, conobbi di prima mano, ascoltando molto e più volte al giorno la sua produzione, quella di Natalino Otto, soprattutto di Rodolfo De Angelis, questo grande artista canzonettista futurista del teatro della sorpresa”. “Parlammo a lungo di Pippo Starnazza, di cui io mi definivo l’erede (artistico, naturalmente). Pippo Starnazza era questo cantante che aveva una voce piuttosto afona, priva di armonici, ma molto interessante, molto jazz, faceva lo scat, imitando anche il verso dell’anatra, ed ecco perché “Starnazza”. Ed era molto autoironico, tant’è che ebbe la modestia, benché fosse un musicista dotatissimo di un certo swing e di una certa verve anche lui comica piuttosto esilarante, di definirsi così: innanzitutto per darsi un ruolo originale, poi per non dare l’idea di essere un personaggio molto “ufficiale”, molto paludato, molto presuntuoso. Tra l’altro frequentava un genere per gli anni – parliamo degli anni ’20-’30 – giudicato minore ed anche proibito quale era il jazz a quel tempo, molto emarginato in quanto forma d’arte delle potenze plutocratiche, secondo il fascismo. E anche del grande Rodolfo De Angelis, futurista, che come quasi tutti i futuristi aderì al fascismo, un’adesione secondo me più estetica, cultural-artistica, quindi con una certa dose di creatività immaginativa. Sono convinto che i futuristi avessero delle ragioni estetiche per aderire al fascismo, più che delle condivisioni politico sociali, ma questo è il mio parere (per Marinetti non era proprio così, l’adesione era piena, ndSA). Ma comunque, dico questo perché Rodolfo De Angelis con il suo teatro della sorpresa era un futurista, dunque legato anche al fascismo. Lì lavorai parecchio e fu un toccasana perché, ripeto, avevo voglia e bisogno di divagarmi, di distrarmi”. Che ritmo! (CBS, 1981) è in effetti un’interessante rassegna di quelle canzoncine talvolta sciocche, talvolta ironiche, di un tempo, le quali pur non possedendo la carica eversiva di quelle degli Skiantos, si collocano nel percorso di Freak Antoni come viaggio archeologico alla ricerca di predecessori. Nella scelta, Buscaglio- 85 ne la fa da padrone, con Teresa non sparare, Buonasera signorina, una Il dritto di Chicago cui Antoni aggiunge qualche strofa con personaggi contemporanei, e il medley tra Eri piccola così, Che notte e Che bambola. Né mancano classici antichi come Maramao perché sei morto del Trio Lescano o Mamma voglio anch’io la fidanzata (la canzone di Natalino Otto campionata qualche anno fa dagli Articolo 31), tutti riletti in chiave di un potente swingrock qua e là attualizzato alle più dure sonorità contemporanee. Tra i reperti ce n’è uno clamoroso: Per fare una canzone del suddetto Rodolfo De Angelis, ironico “manuale” sulle strategie del pop industriale furbetto (concetti analoghi esprimerà Sandro Oliva nella sua Canzone scema). Il brano sembra scritto ieri e invece risale incredibilmente agli anni ’20: l’autore evidentemente era un futurista nel vero senso della parola, visto che aveva già capito tutto con decenni di anticipo ed estrema lucidità. Il gruppo ebbe anche visibilità televisiva e fumettistica (su Linus ad opera di Giacon) poi, dopo un singolo dell’anno successivo, “si fece un numero rilevante, non ricordo bene se dodici o tredici puntate di Mister Fantasy, presentato da Carlo Massarini. Dopodiché il progetto è naufragato nelle indecisioni dei vari compo- 86 nenti la band, anche perché ognuno di loro era un professionista di un certo livello che aveva moltissimi impegni per conto proprio, e quindi era difficile tenere uniti i Vortici. Però sì, il progetto è stato divertente, dopo Mister Fantasy doveva andare avanti con canzoni originali sulla falsariga di quei testi della tradizione della canzonetta pop italiana (ecco, Beppe Starnazza e i Vortici erano anche uno studio), doveva proseguire, e poi naufragò in mille ripensamenti, in mille frustrazioni da mille ripensamenti, con prove, riprove, cambi d’arrangiamento dei brani. E poi ripeto, con la difficoltà di gestire musicisti professionisti che avevano mille altri impegni”. Insieme ad alcuni gruppi di Bologna, Antoni realizza poi un cofanetto di cinque 45 giri (ognuno attribuito ad uno pseudonimo diverso e suonato con un diverso gruppo), L’incontenibile Freak Antoni. A sentirlo, si capisce dov’era andata l’ispirazione che mancava in Pesissimo: cover deliranti e minimali di Arrivederci Roma e Love in Portofino, la satira di Il governo ha ragione, l’alzata d’orgoglio punk di Mica male (not bad), la scorrettezza politica di Negro, il punk-jazz di Posso farlo ovunque e un clima generale di sperimentazione ed eclettismo stilistico. “Cercai di coinvolgere quasi tutti i gruppi del movimento della Bologna rock in questo progetto di cinque 45 giri in una scatola, Five Records In One Box si intitolava il primo progetto, che poi è diventato L’incontenibile Freak Antoni. Adesso è stato ristampato (con bonus tracks, nel 2004, da Astroman, tra l’altro nuova etichetta con cui Oderso Rubini sta recuperando la new wave italiana di quegli anni, ndSA) da Oderso Rubini, che è il papà della Bologna rock, del movimento rock bolognese: dell’Harpo’s Bazar prima, poi ribattezzata Italian Records, quando ancora l’Italian Recods produceva gruppi rock bolognesi, poi si è riciclata in tante altre cose. Ma quando agli albori produceva rock autoctono, cittadino, rock indigeno bolognese, Oderso Rubini ne era un po’ l’immagine, era un po’ il portavoce dell’Italian Records, e quindi feci con loro questi cinque 45 giri”. Curiosamente, nella ristampa Astroman dei primi anni 2000, due canzoni di quelle incise con I Recidivi (nei quali c’erano degli ex Skiantos, come ne I nuovi ’68) vengono sostituite con un’altra: ci vorrà il cofanetto-raccolta dei singoli dell’Italian Records per veder restaurata la scaletta originale. Gli Skiantos nel frattempo finiscono di sfasciarsi: ai problemi del gruppo si aggiungono quelli personali e quelli di relazione tra i componenti, finché la pressione si fa insopportabile e tra la fine 87 del 1981 e l’inizio del 1982 cessano anche l’attività live. In realtà non è la fine del gruppo, ma ripartire sarà dura. Ci vorrebbe una hit; magari una di quelle estive… V. D ovrei fare una canz one per l’ estate Nel 1983 Dandy Bestia e Freak Antoni si rincontrano e ricominciano a scrivere insieme. I risultati li convincono a rimettere su la banda, ma uscire dalla cantina è dura: il mondo discografico non li ama e li isola nell’indifferenza. Tutto ciò che hanno è una proposta di Caterina Caselli per un disco di cover balneari prodotto dai fratelli La Bionda e suonato da turnisti stranieri del giro, sul quale il gruppo si dovrebbe limitare alle voci – con la promessa poi di fargli fare un vero disco loro: in pratica l’operazione di Ivan Cattaneo (il quale con Italian Graffiati finì per compromettere per sempre la sua immagine presso il pubblico che, prima dei reality, ormai lo ricordava solo come quello delle cover: per gli Skiantos il danno sarà minore). Da notare che i La Bionda avevano appena trasformato l’ex-sconosciuto Johnson Righeira in una star insieme a suo “fratello” Michael, con lo spaccaclassifiche Vamos a la playa: la situazione, rispetto a quattro anni prima, si era completamente rovesciata. La proposta viene accettata per pura mancanza di alternative e dopo infinite discussioni ma i Nostri, sia pure al punto più basso della loro carriera, hanno uno scatto d’orgoglio e riescono a comporre e a imporre due canzoni che diventano quelle trainanti del disco: la title-track Ti spalmo la crema (che seppur scioccherella, resta tuttora una delle canzoni più famose del gruppo) e la satira di Una canzone per l’estate che, mentre prende in giro nel testo e nella musica i tipici successi da spiaggia dell’epoca, in realtà parla anche dell’album in cui è contenuta. I due brani ripetono con successo il gioco di fare bene un genere prendendolo in giro (in questo caso, il pop balneare), riuscendo ad essere anche qui in linea con la musica del momento (benché brutta). Da fuori però, tra l’ironia e la leggerezza fraintese della title-track e le cover in parte effettivamente brutte, in parte inadatte agli Skiantos (sentire Stefano Sbarbo che canta Sapore di sale su una base modaiola primi ’80, o Freak alle prese con una Azzurro dalle parti del Bowie di Let’s Dance, oggi è archeologia straniante, all’epoca poteva lasciare perplesso il loro pubblico), il disco sembrava il peggior epitaffio possibile per una grande storia, impressione accentuata dalla copertina, dove le teste dei tre che escono dalla sabbia ricordano vagamente tre lapidi. 88 Freak Antoni: “Ti spalmo la crema è stato un disco-marchetta, lo abbiamo detto fin dall’inizio. Figurati che agli inizi avrebbe dovuto essere per volontà precisa e specifica di Caterina Caselli il disco del ritornoSkiantos, che dall’82 fino più o meno all’84 si erano fermati completamente. E poi riprendemmo con questa proposta di Caterina Caselli, la quale voleva solo ed esclusivamente delle cover estive, balneari. Avremmo avuto, per essere rilanciati, un certo battage promozionale che non c’era mai stato concesso e invece lei ce lo prometteva, però costringendoci a lavorare su brani già sentiti. Ci dettero anzi una lista… 89 Noi provammo a fare queste due canzoni, che piacquero molto ed entrarono a far parte delle canzoni probabili per questo disco; e poi addirittura, siccome erano degli inediti, alla fine anche la Caselli si convinse e ne fece un po’ i portabandiera del disco. Ci furono i video con Eleonora Giorgi, ci fu tutta una spinta… questo voluto da un impresario, che poi noi abbiamo abbandonato, cui naturalmente nulla importava che fossimo noi gli autori dei vari brani, che il disco ci rappresentasse da vicino, che fosse un disco nostro, che fosse difendibile o meno; a lui interessava il gran 90 battage promozionale, ci costrinse dicendo “O così o pomì, o così oppure tornate in cantina, quello che io vi posso offrire è questo, se volete tornare fuori, riaffacciarvi nel mercato discografico queste sono le condizioni”. E dopo diverse riunioni, dopo estenuanti collettivi, chiacchiere, discorsi, confronti, decidemmo di provarci: i tempi erano molto duri per noi anche perché dopo due o tre anni di sosta è durissima, devi ricominciare praticamente da capo, tra la diffidenza di tutti. Noi ci sentivamo un po’ con l’acqua alla gola: girammo case discografiche, non ci voleva nessuno, e quindi ci agganciammo a questo progetto di Caterina Caselli che comunque fu molto generosa rispetto al resto della discografia italiana, perché nessun discografico sembrò avere interesse per gli Skiantos, quindi noi abboccammo all’unico amo che ci fu teso. Andò a finire che il disco scontentò tutti; per noi, che però conoscevamo gli antefatti e il retro della questione, fu comunque motivo di soddisfazione perché valutammo le nostre energie, riuscimmo a fare ben due canzoni che mai e poi mai avrebbero dovuto essere i due pezzi trainanti di quel disco. Però certamente il disco fu accolto come una delusione: non sono gli Skiantos quelli, quelli sono i La Bionda con i loro turnisti che fanno dei brani estivi cantati dagli Skiantos, ma tieni presente che quelle due canzoni originali noi le abbiamo sudate, sofferte, le abbiamo pagate col sangue, veramente… (ride) E quindi per noi c’era motivo di soddisfazione per ricominciare, e infatti poi da lì abbiamo ripreso”. Dandy Bestia: “Io suonavo con Lucio Dalla in quel periodo, andai a suonare in Gran Pavese Varietà che mi divertiva di più: non per Lucio, che era un bravissimo artista, ma mi divertivo di più io, per cui passai al Gran Pavese Varietà, con Siusy Blady, Patrizio Roversi, i Gemelli Ruggeri e tutta una serie di persone che poi sono diventate famosissime. E ci rincontrammo lì perché Freak partecipava. Abbiamo ricominciato a far canzoni insieme – perché tanto è sempre stato così: le musiche le facevo io e i testi lui – durante il Gran Varietà, che era diciamo così un circo, uno spettacolo, un varietà itinerante per l’Italia, per cui avevamo anche tempo, tra uno spostamento e l’altro. Una volta che abbiamo imbastito una ventina di canzoni abbiamo detto “perché non riprovarci? Le canzoni sono belle, proviamo a rimettere in piedi la banda”. “Alla fine dell’83, ci trovavamo in cantina da un amico a far le prove di canzoni che poi sono uscite molto dopo, nell’87. Avevamo preparato dei provini, li facemmo sentire a Paolo Guerra, lui ebbe un contatto con la CGD e la Caselli, la quale si disinteressò com- 91 pletamente di noi, aveva bisogno di un gruppo per un’operazione estiva prodotta dai La Bionda, che in quel momento andavano fortissimo, avevano fatto i Righeira e poi anche loro facevano dischi, per cui capitammo dentro a questo buglione che non ci apparteneva per nulla. Eravamo rimasti in 3: io, Freak e Stefano. Gli altri si allontanarono quando si capì che non potevano suonare su questo disco perché suonavano i musicisti dei La Bionda”. Doveva essere, secondo l’idea del manager, “il rilancio degli Skiantos”? Sì, nel panorama più “ufficiale” della musica italiana, quello che noi prima aborrivamo, e quindi si trattava di “entrare dentro” al maccherone, una cosa dalla quale ci siamo sempre tenuti fuori ma volutamente, anche se poi il successo discografico arrivò, con Mono Tono e Kinotto, e quella era già una contraddizione in termini per noi. Infatti il gruppo si è poi sciolto per questa ragione, oltre che per i vari casini che ci sono sempre in un gruppo di sei-sette-otto persone. È vero che Ti spalmo la crema resta comunque una delle vostre canzoni che il pubblico comune ricorda di più… Vendette anche dei dischi, ahimè… (ride) 92 …però dette un’immagine del gruppo che non era esattamente quella vera… Non era proprio! Sicuramente non corrispondeva alla realtà. Poi era difficilissimo sostenere un ruolo che noi stessi quando abbiamo creato il gruppo aborrivamo, il modello che proprio a noi non andava bene: sempre sull’ironia ma molto patinato, molto lustrini e paillettes, insomma, cosa che a noi dava molto fastidio, essendo comunque dei veri rocker, tutto sommato”. “Dopo questa operazione, litigammo con Paolo Guerra, il nostro manager, appunto per la cosa artistica e un po’ perché non ci faceva lavorare, nonostante tutto questo investimento. Sì, il disco vendette, ma non quanto un’operazione simile poteva far sperare, perché comunque poi era difficile dal vivo sostenere questo ruolo, a) perché noi non avevamo suonato i pezzi, e quindi quando li suonavamo dal vivo risultavano ovviamente diversi da com’erano sul disco e poi b) anche perché le canzoni pur essendo belle non ci appartenevano, noi volevamo suonare le nostre, per cui il discorso dal vivo subì un grosso rallentamento per questo motivo, ma anche per colpa della inoperosità di Paolo Guerra, anzi soprattutto per quello. Poi ci staccammo, cosa che ci costò in termini di soldi parecchio: lui mise in piedi una causa pesantissima e noi dovemmo pagare”. Causa le vendite inferiori al previsto, la promessa di un successivo disco vero non avrà seguito: il compromesso era servito a poco, col danno di credibilità non ripagato dalle vendite (la lezione di De Angelis non era servita…). Per risalire, c’è ancora da fare. 93 Genere: psych, drone, experimental, electronica A chi ha qualche primavera in più sulle spalle l’attacco di In Case We’ll Meet, esordio del duo A Finnish Contact – Luca Freddi e Fabio Valesini di Satan Is My Brother –, non potrà non ricordare i Mercury Rev che furono. Quelli all’altezza di Yerself Is Steam / Lego My Ego, con ancora il frontman David Baker in formazione e una idea di psichedelia insieme urbana ed agreste, cinematica e materica, sfatta e sognante. Caratteristiche e coordinate che si ritrovano tutte in questo dischetto notturno, immaginifico e visionario, ma che nell’opener Detachable Words/Tangled Numbers, in quelle melodie vocali sfilacciate, quasi a mo’ di cut-up, e in quell’alternanza tra rumori e suoni, diegetici ed extradiegetici, si fanno quasi evidenza, innalzando la traccia ai livelli di quell’album (seminascosto gioiello di psichedelia storta, per chi scrive). I rimandi alla cinematografia di cui sopra non sono affatto casuali, visto che molto – se non tutto – nell’immaginario creato da A Finnish Contact rimanda alla dimensione filmica, onirica, visionaria. Che sia influenzato dal post rock più evocativo e sognante (Carraxo Fronte Da Neveira) o sporcato di glitcherie varie (Dance Like Picciotto), minimale nell’approccio o acceso da una specie di krauteria cosmica oscura come un buco nero (Clouds Eyes, Blue Days), poco conta. Il senso del tutto – una malinconia che sfiora l’ipnagogia, un senso cinematico molto Van Santiano, una modalità free d’ap- 94 proccio alla “imaginary soundtrack music” – è racchiuso nelle bellissime immagini di copertina: silenzio, poetica dell’assenza, caducità dell’esistenza. Un disco (purtroppo) “minore”, di quelli che passeranno quasi inosservati e che invece appartengono di diritto alla poco frequentata categoria “dischi che chiedono poco e danno tantissimo”. 7/10 Stefano Pifferi Andromeda Mega Express Orchestra - Live On Planet Earth (Alien Transistor,2014) Genere: orchestrale_sinfonica, contemporanea, jazz Una copertina dadaista e folle sottolinea il patchwork di suoni raccolti in Live On Planet Earth, primo disco dal vivo della Andromeda Mega Express Orchestra, definendone anche l’attitudine quasi fumettistica. Un’ironia cartoonesca – la stessa che spiccava anche sulle cover e tra i solchi dei precedenti Take Off ! (2009) e soprattutto Bum Bum (2012) – che i sei brani di questo live anomalo (il materiale è quasi del tutto inedito) interpretano con piglio ironico, ma tutt’altro che improvvisato, visto l’incredibile lavoro di scrittura che i diciotto musicisti (anche se il merito è soprattutto di Daniel Glatzel) mettono in campo. Sei episodi che mescolano jazz, classica, colonne sonore, contemporanea, musica concreta, mondo dei cartoon, per un suono talmente ricco e indecifrabile, da acquistare un senso e un’identità proprio in virtù della sua natura. r e c e n s i o n i g i u g n o A Finnish Contact - In Case We’ll Meet (Under My Bed,2014) Fabrizio Zampighi Answer Code Request - Code (Ostgut Ton,2014) Genere: techno Marcel Dettmann, Ben Klock, Nick Höppner, Marcel Fengler, Efdemin, Norman Nodge, Steffi… Sono una ventina i DJ che possono fregiarsi del titolo di Resident del Berghain/Panorama Bar di Berlino, la Casa Bianca della techno. Tra questi, dal 2012, c’è anche Patrick Gräser, che dopo una serie di r e c e n s i o n i uscite tech-house a suo nome non memorabili nel periodo 2008-2009, trova la chiave giusta dal 2010 firmando le sue produzioni e i suoi set come Answer Code Request. Gräser proviene da Fürstenwalde, una piccola città della Germania orientale, a mezz’ora di macchina dal confine con la Polonia: la stessa città natale di Marcel Fengler e Marcel Dettmann. Ed è proprio l’amicizia e la stima di quest’ultimo ad instradare la carriera di Patrick verso la direzione giusta. Nel settembre 2011 compare l’EP autoprodotto Subway Into, che delinea la proposta di ACR: un non rivoluzionario ma efficace innesto su una solida base berlin techno di soluzioni prese dalla IDM inglese degli anni novanta (Warp docet: B-12, Black Dog Productions e, ovviamente, Aphex Twin, tutti espressamente riconosciuti come eroi da Gräser) e dal dubsteb dark alla Burial, con una spruzzata di nostalgici rimandi detroitiani. Nel novembre del 2011 Escape Myself, tratta dall’EP, è tra le tracce selezionate da Dettmann per il pregevole mix Conducted. I due 12” usciti nel 2012 per la Marcel Dettmann Records (Main Mode e The Host), così come il successivo EP autoprodotto (Crack City), ripropongono questa versatile impostazione: sound che vince non si cambia. L’esordio sulla lunga distanza di ACR segue di pochi mesi la pubblicazione del primo EP per Ostgut Ton, vivace e coerentemente rigorosa etichetta di casa Berghain. Il collegamento di Code con Breathe è forte, a partire dalle cover: entrambe utilizzano immagini tratte dal lavoro della fotografa Sarah Schoenfeld “All you can feel”, ingrandimenti delle reazioni sul negativo della pellicola di droghe come la ketamina o il mefedrone, sostanze che volenti o nolenti sono parte integrante della cultura techno. L’album non interrompe il discorso, ma lo estende e un po’ lo smussa, insistendo spesso su versanti più ambient e cinematici (vedi la grande atten- g i u g n o Tutto comincia con una Opening paracula e perfida, tanto riesce a nascondere il vero carattere dell’album con i suoi fiati allungati in un’aria davisiana in stile Sketches Of Spain, almeno quanto il primo minuto della successiva La Prêtre Virè, brano a cui poi tocca il compito di svelare le carte con un alternarsi di sincopati e batterie libertine, “gattisilvestri” in punta di clarinetto e chiuse di archi quasi hitchcockiane. Da lì in poi parte la scoperta di un universo sghembo ma credibile, in cui una “techno” artigianale entra in gioco con tagli orchestrali da musica contemporanea (Sozialbão), un collassare quasi free di contrappunti tra i vari strumenti preannuncia l’Harmagedon per poi giocare di fino sulle poliritmie, certi Looney Tunes in acido sbatacchiano a destra e a manca ottoni, fiati e rumori assortiti (Overture). Fino all’iconoclasta e conclusiva W. A. Mozart vs Random Generator, in cui il celebre compositore si trova a concorrere con un generatore di musiche casuali. Divertente e intelligente, furiosa e raffinatissima: la Andromeda Mega Express Orchestra è la dimostrazione vivente che gli ambienti classici e i curricula annessi non sono sempre sinonimo di conservatorismo o approccio alt-snob alla materia musicale. Uno dei lavori più frizzanti ascoltati quest’anno. 7.2/10 95 Genere: rock, post-punk, avant, impro, noise, blues Tre personalità dell’underground (non solo, in realtà) italiano che uniscono le forze per creare in modalità impro un percorso musicale aspro e destabilizzante, sviluppato quasi come fosse un racconto che si muove tra sbuffi e surrealtà, stortume avant-rock e blues deformato, squarci noise e destabilizzazione narrativa. Dopotutto Stefano Pilia, Xabier Iriondo e Roberto Bertacchini – sommate le singole esperienze pregresse fanno una buona fetta dell’underground più coraggioso e stimato, non solo entro i confini patri – sono perfettamente a loro agio nel mix su indicato: le due chitarre intarsiano e sbroccano, ricamano e distorcono frasi e frasette che rimandano tanto al post-punk più acido quanto al blues rivisto sotto la lente Beefheartiana, alla no-wave più aspra come al noise più astratto. Su queste trame volatili e umorali spicca la vocalità iper-drammatizzata dello Starfuckers Bertacchini: asincrona, storta, sfasata, sfalsata, che se ne fotte della metrica e si lancia in un flusso di (in)coscienza visionario e al limite del grottesco, nei testi elaborati dallo stesso batterista e da Valentina Chiappini. Roba fatta di visioni e allucinazioni, sempre borderline tra tragicomico sberleffo e sguardo surreale donchisciottesco, che rappresenta il miglior contrappunto possibile alle musiche delle due chitarre. Un esordio che, come capita spesso con progetti estemporanei, mette a ferro e fuoco i numerosi ambiti di riferimento di cui sopra e che, si spera, non resti un unicum. 7.5/10 Stefano Pifferi zione al sound design sci-fi di Blue Russian, la sospensione meditativa di Odissey Sequence o l’aphexiana dub-techno di Relay Access). E’ solo con la quinta traccia che si torna in pista, con gli energici 127 bpm di Zenith, e poi ancora con la trance tribale di Status, ma non è il dancefloor l’obiettivo più diretto. Le risonanze più forti sono con il mondo trance e melodico della techno inglese più storica: in By The Bay gabbiani boardsofcanadesi volano su una base Global Communication, in Axif, con l’apporto dreamy della voce di Elizabeth Bernholz (alias Gazelle Twin), siamo in pieno territorio Orbital. Thermal Capacity riassume il tutto e conclude un album di non spiacevole ma neppure soverchiante ascolto: tutto sommato 96 la proposta originale di Answer Code Request non risponde in pieno alle richieste di nuovi stimoli, esprimendosi invece al meglio come selector per i suoi precisi e funzionali DJ set (ottimi esempi reperibili in rete sono i podcast realizzati per Resident Advisor – RA.345, gennaio 2013 – e per Slam Radio – 077, marzo 2014). 6.2/10 Alessandro Pogliani Application - System Fork (Dust Science Recordings,2014) Genere: techno, idm Martin e Richard Dust, che con questo album inaugurano il progetto Application, sono r e c e n s i o n i g i u g n o Cagna Schiumante - Cagna Schiumante (Tannen Records,2014) Elia Galli Archie Bronson Outfit - Wild Crush (Domino,2014) Genere: rock, psych Abbiamo sempre pensato agli ultimi Archie Bronson Outfit – per intenderci, quelli di Derdang Derdang e di Coconut – come a una sorta di via di mezzo tra dei Black Keys meno impantanati nelle paludi del Delta e una versione indisciplinata e decisamente meno stentorea dei Pontiak. O, magari, come a dei Cream un r e c e n s i o n i po’ svitati, non abbastanza virtuosi da eguagliare le gesta della band di Clapton, Ginger e Bruce, ma sufficientemente incasinati da cibarsi di quel suono grazie a un gioco di sponda da loser consumati e qualche imbastardimento in linea con la contemporaneità. Gente da mercatino dell’usato, insomma, se non da proprio da discarica, capace di esaltarsi per “cianfrusaglie” stilistiche che a uno “normale” sembrerebbero quantomeno fuori dal tempo (i suoni heavy dei seventies, il lo-fi, il garage, la psichedelia, qualche accenno kraut, ecc…), tanto più assemblate con un gusto weird piuttosto sui generis. Il discorso vale soprattutto per l’ultimo Coconut, disco prodotto dal DFA, Tim Goldsworthy, e uscito ormai quattro anni fa: la critica lo ha visto di buon occhio, tendendo tuttavia (tra le righe) a relegarlo tra gli album derivativi con qualche colpo di teatro da outsider. Senza comprendere, a nostro avviso, la vera forma mentis degli Archie Bronson Outfit, ovvero qualcosa di abbastanza vicino all’ingenuità creativa tipica delle formazioni psichedeliche inglesi e americane dei sixties. Artisti che non avevano grossi debiti da saldare né correnti stilistiche a cui dover rendere conto, e che facevano semplicemente di testa propria. Se il disco precedente della formazione inglese rappresentava un parto difficilmente circoscrivibile in un immaginario di riferimento netto, Wild Crush punta dritto a un suono chitarristico più canonico e solido (e chissà che la scelta non abbia coinciso con l’abbandono di Dorian Hobday e l’arrivo in formazione di Kristian Robinson aka Capitol K). I Pontiak che citavamo all’inizio – e in qualche maniera anche i Cream – non sono poi così lontani (Two Doves On A Lake), anche se gli Archie Bronson Outfit sono abbastanza bravi a mantenersi lontani dagli stereotipi. Basti pensare al sax di Duke Garwood, libero di spaziare tra le trame a volte possenti, a volte lascive della band (Lori g i u g n o componenti fissi dei Black Dog dalla metà del decennio scorso. Assieme a Ken Dowie, uno dei primi Black Dog Productions, sono arrivati a tracciare – dopo qualche incertezza iniziale – un disegno techno elegantemente ortodosso. System Fork non è da meno. Techno di precisione scientifica, architetture di kickdrum spezzate al servizio di scenari post-apocalittici. Con una varietà timbrica volutamente spinta vicina allo zero, i fratelli Dust portano all’estremo quella razionalità e quella freddezza che pensavamo lascito caratteristico del solo Dowie. Stomp in bianco e nero a metà tra cosmo e mondi subacquei (Flange 7, Siren), geometrie sintetiche (Steve Reich’ Ice Cream Van), aperture ambient che si innestano su ritmiche inflessibili (Swuth): quella degli Application è la convergenza, allo stesso tempo nostalgica e intransigente, dei prodromi intelligent marcati Warp – non a caso, ancora da Sheffield – e degli umori minimalisti a questi contemporanei (la berlinese Basic Channel), qui deviati in direzione break. Sia chiaro, niente che non sia già stato detto, niente che altri (Black Dog compresi) non abbiano già saputo trasformare in musica. Numeri che, in prospettiva, meglio si presteranno alle future esibizioni live, ma che conservano una loro dignità anche su disco. 6.3/10 97 From The Outer Reaches), alternando un fare quasi no wave a certe cavalcate ruffiane (intrigante, però, l’effetto finale). Suono hard-blues, voci “stoned” (Cluster Up and Hover), cadenze a metà strada tra Velvet Underground e West Coast (Glory, Sweat And Flow), ballad in bilico tra Arcade Fire e Neil Young (Love To Pin You Down) e un’estetica, questa volta sì, riconoscibile e storicizzata fanno il resto, consegnando ai posteri un album meno deviante rispetto al predecessore – e in qualche maniera, più intellegibile - ma fondamentalmente riuscito. 7/10 Fabrizio Zampighi Genere: pop, indie Febbricola italo disco a go-go, ed ecco il quinto album in undici anni per gli Architecture In Helsinki, dopo ben tre anni di assenza dal non esaltante Moment Bends. Ebbene, com’è questo NOW + 4EVA? Frizzante. Lieve. Adesivo. Furbo. Del tutto inutile. Ma di un’inutilità capace di guizzare oltre il bene e il male per aggrapparsi al lato più giocoso della faccenda, e da lì lanciarti freccette argute, virus mnemonici che attivano circuiti sepolti dalle badilate degli anni e della gravità. Insomma, i cinque ragazzi australiani sono dei nerd sonori specializzati nell’organizzazione di happening a bassa intensità ed alto volume. Buontemponi con la chiavetta piena di intrighi a perdere. Ragionieri del dancefloor in euforia da long-drink e vecchi videoclip. Come volergli male? Già la opening In the Future ti sbatte in faccia un giochicchiare funky plasticoso come se avessero dissepolto Howard Jones dal museo delle cere, poi è tutto un ringalluzzire fantasmi 80s con spirito oleografico e retrogusto Moroder, tipo le Mel And Kim di I Might Survive, 98 Stefano Solventi Arto Lindsay - Encyclopedia Of Arto (Ponderosa,2014) Genere: pop, avant, tropicalia Questa retrospettiva ha un titolo ironico. Potrebbe apparire anche pretenzioso, ma non è così. E soprattutto, guai a scambiare quel secondo CD per un bonus. Arto Lindsay è uno dei più curiosi artefici del rock da più o meno trent’anni a questa parte, un talento eccentrico nel vero senso della parola, anima migrante in seno alla no wave newyorchese di cui è stato tra i massimi esponenti con i DNA, protagonista nelle file di Lounge Lizards, Golden Palominos, Ambitious Lovers, collaboratore di John Zorn e Laurie Anderson, solo per citare una parte del suo ricco curriculum. Eccentrico perché le sue influenze “esotiche” sono state la chiave di volta per capire molte delle sue inflessioni musicali, ereditate da una storia personale che l’ha visto figlio di missionari americani nel Brasile degli anni ’60, l’età d’oro del tropicalismo. Queste influenze le ha portate con sé nei DNA quando spiegava a Ikue Mori la musica che aveva in mente usando r e c e n s i o n i g i u g n o Architecture in Helsinki - NOW + 4EVA (Inertia,2014) la Vivien Vee di Echo o il turgore Kim Wilde di When You Walk In The Room. Certo, nessuna ossessione nostalgica può sfuggire al contagio dell’attualità, perciò capita di avvertire particelle burlone Daft Punk in quella Boom (4EVA) che pure strizza l’occhio ai Queen moroderiani, per non dire degli Arcade fire in sedicesimi di Born To Convince You e della filigrana Notwist che nobilita la carezzevole April. E’ roba che si beve come un’analcolico colorato, salvo poi scoprire che c’è qualche sostanza non dichiarata nella lista degli ingredienti. Nulla di permanente o pericoloso, eh, ma intanto può capitarti un pizzico di euforia. Giusto quella. 5.8/10 r e c e n s i o n i la parte forte dell’operazione, indispensabile supporto per trasformare una pratica altrimenti di routine (antologia + live) in ciò che il titolo vorrebbe significare senza dover scomodare l’opera omnia… 7/10 Tommaso Iannini Ben Harper - Childhood Home (Prestige,2014) Genere: folk Torna, di nuovo. Dopo circa un anno dall’ultimo Get Up! siamo qui a parlare ancora una volta di lui, Ben Harper. Ma come suo solito il 45enne americano non viaggia da solo. Se ad accompagnarlo nella sua ultima avventura c’era lo storico armonicista Charlie Musselwhite e nei precedenti Give Till It’s Gone e White Lies for Dark Times gli elettrici Relentless7, ecco che in questa ultima fatica, Childhood Home, troviamo al suo fianco niente di meno che la madre Ellen. Ben Harper ormai si trova in una posizione in cui tutto gli è permesso. Da questo “trono” privilegiato, che negli anni il vecchio Ben si è guadagnato grazie alla capacità di reinventarsi e ripartire da zero (ma da una base ben consolidata), Harper può perciò prendersi il lusso di registrare un intero disco casalingo insieme a sua madre. Un album che se dal punto di vista del potenziale commerciale potrebbe dire ben poco (solo i fan di vecchia data, probabilmente, provvederanno all’acquisto), rimane comunque tra i dischi che hanno coinvolto maggiormente dal punto di vista emotivo il musicista californiano (Welcome To The Cruel World resta in cima alla lista). Le dieci tracce che compongono Childhood Home, quattro delle quali scritte da Ellen, riassumono e riflettono perciò quella che è stata la vita degli Harper: a partire dal 1958, quando nella cittadina californiana di Claremont i genitori di Ellen diedero vita al Folk Music g i u g n o il linguaggio gestuale e un disco di percussioni brasiliane, e le ha fatte poi uscire allo scoperto quando si è trattato di intraprendere una carriera solista dopo l’avventura d’avanguardia con l’omonimo trio. Il primo CD della raccolta parte da qui. Una selezione dagli album solisti pubblicati da Lindsay dal 1996 al 2004: la trilogia brasiliana formata da O Corpo Sutil, Mundo Civilizado e Noon Chill, e i successivi Prize, Invoke e Salt dove Arto ha lavorato sui codici della musica sudamericana in un tappeto sonoro eclettico che ambiva a una sorta di fusion cantautorale. La sensazione generale che restituisce l’ascolto della compilation è di una certa unità e anche di un’idea forte di pop moderno e contaminato, declinato secondo una formula di world music d’autore che contempla ritmi latini, soft jazz, soul, elettronica, melodie brasiliane e persino qualche distorsione wave (in The Prize). Ma, appunto, non di sola compilation si tratta. E il volume 2, la registrazione di un concerto live in solitaria a Brooklyn del 2012, è la vera sorpresa. Una retrospettiva veramente completa non poteva perdersi per strada uno dei più influenti chitarristi dell’underground postpunk americano e trova il modo più originale per ricordarlo: una performance di sola voce e chitarra. E quale chitarra. Abrasiva, picchiata come uno strumento a percussione per trarne singhiozzi atonali e glissati che somigliano a coltellate. Sembra di ascoltare un incrocio tra i DNA senza gli altri complementi strumentali e un bluesman primitivo; basta mettere a confronto le The Prize, Invoke, Illuminated, completamente decostruite con le originali, per rendersi conto che è sempre lui, e le cover di autori brasiliani per capire che alla base di quell’approccio no wave c’erano l’origine mista nord-sudamericana, l’influenza della bossanova e l’idea che la musica pop dovesse essere anche d’avanguardia. Tutto torna. È questa 99 Genere: psych, drone, kraut, ambient, elettronica Precursori o followers? Questo è il dilemma. Ha senso chiedersi nel marasma di uscite che quotidianamente invadono il (ehm) mercato, chi arriva prima e chi dopo? Se le gerarchie sono saltate a monte, a valle la situazione com’è? Rispondere e rispondersi è ardua, pertanto accontentiamoci di scendere a valle seguendo questo Fiume Nero made in Donato Epiro (mezzo Cannibal Movie, per chi non lo sapesse), sorta di raccolta pubblicata per la prima volta in vinile dalla nostra Black Moss che parrebbe ispirarsi al fiume dell’Aguirre Herzogiano e in cui il nostro colleziona tracce sparse su CD-R e cassette (rispettivamente Supercontinent e Sounding The Sun, entrambi per la benemerita Stunned). Materiale datato ma che dà la misura, a questo punto possiamo dirlo, dell’anticipo sui tempi con cui Epiro si è (era) mosso (all’epoca) e della lucidità di intenti alla base sia della propria ricerca sonora, sia del proprio immaginario. Poche chiacchiere e dritto all’obbiettivo, Epiro smazza trasversalmente l’esotismo di risulta che negli ultimi tempi si è segnalato come una delle traiettorie più frequentate e appassionanti dell’underground non solo nostrano, innestando nella materia una tangibile evidenza proveniente dalle frequentazioni in casa Cannibal Movie – l’immaginario filmico e visivo/visionario di un certo tipo – e dalla predilezione per la sempre più rilevante library music italiana. In un momento in cui gli Aktuala - una parte, in realtà – ritornano “nel giro” per via delle bellissime ristampe dei Futuro Antico pubblicate da Black Sweat e di Umiliani ricircola un box “non-ristampa”, si darà atto a Epiro di aver incastonato in queste tracce fenomeni e suggestioni di lì a venire. Di esservisi avvicinato per comune sensibilità e identiche finalità, oltre che per visione e attuazione musicale, dimostrando di giocarsela alla pari, se non addirittura meglio, con tanti nomi celebrati come High Wolf o Sun Araw. È un vero “fiume nero” la cui umidità oscura e minacciosa si riverbera in ognuna delle suite, questo disco, la cui una musica non è più primitivista, come venne catalogata all’epoca dell’uscita in pieno trip “new-weird america”, ma naturale e naturalista. Che crea mondi infilandosi in una tradizione consolidata, seppur nascosta. Tradizione che Epiro dimostra di conoscere approfonditamente e di saper replicare, o meglio, ricreare. Tra haunted, occult psych, etnomusicologia e quant’altro, un lavoro che potrebbe fornire la spinta ad una nuova prova originale. A questo punto, obbligatoria e attesa. 7.5/10 Stefano Pifferi Center and Museum. Nel negozio dei nonni, tra chitarre, banjo e ukulele, Ben passò gran parte della sua infanzia e proprio all’interno di quelle quattro mura ebbe modo di apprendere l’arte 100 e i segreti della musica americana. Childhood Home rappresenta quindi, per forza di cose, un disco intriso di storia e tradizione che trova la sua naturale espressione nel classico suo- r e c e n s i o n i g i u g n o Donato Epiro - Fiume Nero (Black Moss,2014) no americano a cavallo tra folk e country, con chitarra e voce alla base dei dieci brani. Qui l’intrecciarsi delle voci armoniose e delicate di madre e figlio riescono a creare un’atmosfera di totale intimità (Learn It All Again Tomorrow, How Could We Not Believe), mentre nei testi c’è spazio per gioia, amore, ma soprattutto per malinconia e nostalgia (City of Dreams, Memories of Gold, Born to Love You), emozioni che finiscono col permeare gran parte dei 34 minuti di musica. Alla fine Childhood Home non chiede molto al proprio ascoltatore, se non di farsi coinvolgere ed emozionare dall’onestà e dalla delicatezza con cui Ben and Ellen riescono ad evocare l’intimità dello spazio familiare. 7/10 Ben Frost - A U R O R A (Bedroom Community,2014) Genere: industrial, noise Nonostante i suggerimenti delle note che ne accompagnano l’uscita, A U R O R A non ha nulla di alchemico. Niente di imprendibile. È anzi terreno, semmai appena celeste, quando lo spessore (leggi: l’affollamento) della musica è tale da produrne una evoluzione verso l’alto. Il potenziale esplosivo del crash culturale che sta dietro la genealogia del disco – composto in Congo, missato in Islanda – è rimasto sottotraccia, anzi si può dire che è stato quasi del tutto neutralizzato dal risultato. Sarebbe ad esempio stato interessante valutarne l’exploit attraverso l’alternanza tra strumenti armonici e macchine, ma qui sta il primo punto del disco: A U R O R A è un mondo completamente sintetico, dove non c’è posto per strumentazioni analogiche. By The Throat aveva comunque qualcosa di alieno, indecidibile. Diversamente, Frost qui propone una versione noise ed elettronica g i u g n o r e c e n s i o n i Marco Frattaruolo del post-rock emozionale che ha riempito gli scaffali dei negozi di dischi fino a qualche anno fa. Lavora proprio su quell’appiglio mainstream del crescendo e dell’arpeggio che fa presa sulle orecchie più trascinabili (Venter). Flex apre bene, o meglio fa presagire l’accensione di un motore di compressione di battiti ancestrali (ma bianchi) e tastiere thriller. La tensione tiene per la gran parte di Nolan. C’è quasi l’impressione che la narrazione vada al di là del singolo brano, per coprire un album di concetto, un’aurora del rumore, che come qualsiasi momento aurorale prevede uno scompaginamento reciproco tra veglia e sonno, tra notte e giorno. Ma già la chiusura di Nolan lascia il concetto e riporta il crescendo in facili orizzonti cinematici. Nelle intenzioni di Ben Frost c’era la volontà di “dare la prova della vita, della sopravvivenza. Forme muscolari che sopravvivono, nient’altro”. C’è un presagio da visioni apocalittiche (ma di seconda mano, figlie degli anni Ottanta e di “quella” musica cosmica da film apocalittico), rette da suoni splendidi, una produzione eccellente (Ben è maestro in questo, come dimostrato, insieme all’amico e qui sodale al mixing Valgeir Sigurðsson, anche nell’ultimo Tim Hecker) su un confine raffinatissimo tra noise e tastiere cosmiche (Sola Fide). A U R O R A è un mondo da cavalcare. Le pause – come in una Secant che sembra mettere insieme Oneohtrix Point Never e i Fuck Buttons, questi ultimi veri competitor del disco di Frost in oggetto, ma vincenti – valgono solo per poi riprendere la corsa emozionale. 6.6/10 Gaspare Caliri 101 Genere: rock Troppe le cose successe a Dan Auerbach e Patrick Carney negli ultimi anni per non dare adito a giudizi sommari sulla parabola artistica del gruppo, a partire dalla crescita esponenziale di consensi raccolti da Attack and Release in avanti fino ad arrivare al successo planetario dell’ultimo disco El Camino – con tanto di Grammy Awards 2012 come Best Rock Album – e, più di recente, a un Auerbach impegnato nella controversa produzione artistica del nuovo album di Lana del Rey, Ultraviolence. Verrebbe quasi naturale liquidare i due musicisti come i classici freak venduti al music biz un tanto al chilo, considerato anche che i Nostri non hanno mai badato a mantenere una parvenza di “integrità indie”, guadagnando invece dei bei dollaroni con i diritti legati ai propri brani. Ancora più facile sarebbe non lasciare al qui presente Turn Blue nemmeno l’onere del dubbio, considerata anche l’attitudine meno garage e più “morbida” del disco, e additarlo come il parto inevitabile di una band arrivata alla canna del gas (ovvero in zona mainstream). Potenza della “profezia che si autoavvera”, direbbe qualcuno. Turn Blue, in realtà, non rispetta le previsioni, almeno quanto non lo fa una formazione a cui è sempre importato poco dell’etica indipendente e molto della musica. Tanto da dichiarare qualche tempo fa a NPR, per bocca di Carney e in riferimento a quegli esordi tanto esaltati ad ogni latitudine, che “suonare in cantina era divertente, ma allo stesso tempo non siamo mai stati capaci di ottenere i suoni che avevamo in testa. Ai tempi non sapevamo cosa stavamo facendo, e in più non avevamo nemmeno il giusto equipaggiamento per farlo”. Turn Blue non è una copia sbiadita di El Camino, e non è nemmeno “il disco della band 102 pensato per il mainstream”. E’ invece invece l’album psichedelico dei Black Keys (come si intuiva dai teaser diffusi a suo tempo e dalla copertina), ricco di stratificazioni, assoli acidi e vaghe aure pinkfloydiane (Weight Of Love e Bullet In The Brain), omaggi negli arrangiamenti al primo amore Motown (In Time), hard blues lisergici (It’s Up To You Now) e le solite venature soul sottopelle. Di concessioni al pubblico generalista ce n’è appena una, ovvero il southern rock conclusivo – e in qualche maniera surreale e fuori posto, visti i canoni del gruppo – di Gotta Get Away; il resto è un album che funziona, credibile, a cui il produttore Danger Mouse dona un suono corposo ma non nostalgico, tra l’altro partecipando attivamente alla scrittura dei brani (Auerbach sempre a NPR: “quando siamo entrati in studio non avevamo nemmeno una canzone. Così abbiamo iniziato ogni giorno da una tela bianca”). Ai Black Keys in fondo sta riuscendo quello che non è riuscito in passato ai White Stripes, ovvero portare disco dopo disco la formula musicale della band verso qualcosa di inedito, pur confermando i paletti stilistici che l’hanno resa riconoscibile. Chi vorrebbe la formazione americana cristallizzata nei riff di Lonely Boy o di I Got Mine, può tranquillamente guardare oltre. 7.1/10 Fabrizio Zampighi Blind Thorns - Blind Thorns (Offset,2014) Genere: psych, art, avant, noise Blind Thorns è l’evoluzione degli Ahleuchatistas, formazione american dedita ad un rock strumentale che mischia(va) rock, metal, punk, prog e quant’altro con una notevole dose di schizofrenia e di autoironia. Da un paio d’anni a questa parte il trio è diventato un duo formato dal batterista Ryan Oslance e dal chitarrista r e c e n s i o n i g i u g n o The Black Keys - Turn Blue (Nonesuch,2014) Stefano Pifferi Brace - Puledri nello stomaco (Garrincha Dischi,2014) Genere: cantautori, rock Davide Rastelli ha raccolto questa dozzina r e c e n s i o n i di tracce in otto anni in giro a fare musica, lo avevamo quasi perso dall’ultima uscita a nome Mr. Brace nel 2006. A somma zero, difficile distinguere fra quel progetto, probabilmente già transeunte all’epoca, e l’attuale perchè, col rispetto che si deve a tanto tempo trascorso, Puledri nello stomaco, edito per Garrincha, non si scosta poi così tanto dal passato: rockpop parecchio serrato, voce declinata seguendo desinenze binarie anche se non così povera di argomenti. Ad esempio il terzo brano, Buongiorno, si spinge su un cantautorato post-diaristico e Casa vuota prova ad indagare il senso di isolamento e ristoro perduto con inclinazione esotica. Caffè e Lattaio sostengono ansietà da spazi vuoti, ottenendo discreti risultati in sdentato pub-rock. Probabilmente il Nostro vuole avvicinarsi alla poetica alt-rivierasca (Granturismo) con brani come Piedini, Nausea e Bio, purtroppo però il nesso e non solo (contributi di Matteo Costa, Lo Stato Sociale, Enrico Farnedi, Chewingum) rimane con una bile che magari avrà pure sconfinato di provincia, ma resta embrionalmente adolescenziale. C’è di buono che nei brani in evidenza la scrittura è intima e poco scialba. Solo questo segna, ora come ora, un punto a favore di Brace. 5.8/10 g i u g n o Shane Perlowin, con quest’ultimo che ha unito gli sforzi con lo svizzero Antoine Läng (alla voce ed elettronica) dando vita ai Blind Thorns e coinvolgendo le ritmiche spezzate del sodale. Sarà probabilmente per la presenza dello svizzero, ma qui le cose si fanno più serie e meno dispersive rispetto alla casa madre, pur continuando nella linea del magma sonoro onnivoro, schizzato e originato sub specie impro. Siamo grossomodo su lande kraut-wave-psichedeliche e pure un po’ noise, per quel che può valere, ma a occhio e croce, incrociando i curricula dei presenti, ci saremmo meravigliati del contrario. Ottima summa e onnicomprensivo paradigma del sentire musicale del neonato trio svizzeroamericano è la oceanica Gambling With The Wrong Side, 19 e rotti minuti di tutto – tempesta ritmico-percussiva, deliqui sciamanici, prog e curve a gomito, jazz impro, avant-rock, Canterbury sound imbastardito, western sfibrato e sberleffi morriconiani, delirio posseduto, ecc. ecc. – con una chiosa da 3 o 4 minuti che è una eruzione noise letteralmente devastante, manco si trattasse di Merzbow. Il resto, poi, non è che sia da meno, tra eruzioni post-screamo (Orbital), etnopsych da giungla ipnotica (Porque eu So sei Gustar), hauntedrock totalmente nero (An Explanation Of The Birds), rifrazioni in libertà (Engulfing The Epigone), ma il citato monolite, per dimensioni e prospettive, è il vero cuore pulsante dell’album, oltre che un vero esercizio di stile. Di altissimo stile. Le spine, dunque, sono cieche e acuminate come quelle di poche altre formazioni d’area free-noise oggigiorno. 7.4/10 Christian Panzano Cesare Cremonini - Logico (Universal,2014) Genere: pop, mainstream Il giusto equilibrio fra mainstream e introspezione, quest’ultima concentrata più sui rapporti d’amore che su altro. Un po’ dove stanno convergendo anche altri nomi importanti del cantautorato pop italiano (vedi, ad esempio, Riccardo Sinigallia). Il quinto album di Cremonini viaggia tra questa dicotomia, e se nelle scanzonature ripesca le atmosfere dei suoi lavori precendenti, è nelle confessioni private 103 Genere: folk C’è un luogo della musica americana che oggi solo Jolie Holland riesce ad abitare. Non che siano mancati i precedenti illustri, come per esempio il Nick Cave dei Grinderman o il Tom Waits più polveroso e ingrugnito. Ma la cantautrice texana, come nessun altro oggi, fa rilucere di abbagli nerissimi e profondi la materia sonora che risulta dallo stritolare nelle sue corde vocali dotatissime e duttilissime l’americana, il blues, il folk, il country, il jazz. Insomma: il Sud in versione New Orleans in spasmo gotico. Ascoltate le chitarre del singolo Dark Days (che dà l’atmosfera a tutto il disco): mai così elettriche, mai così grasse, mai così “importanti” e necessarie. Wine Dark Sea scontenterà chi ha ascoltato superficialmente la Holland finora, ritrovandosi confortato da una reinterpretazione della tradizione americana che si configurava – apparentemente – come una rilettura colta, condita di elementi jazz e cantautoriale, di una solida sicurezza. Quasi una coperta di Linus. Ma chi ha avuto la pazienza di scavare oltre la buccia di questi frutti del Sud vi ha trovato sempre più, mano a mano che passavano gli anni e gli album, un’autrice solo apparentemente pacificata, in realtà smossa da fuochi e ardori primigeni. Ascoltate l’attacco scheletrico di I Thought It Was The Moon: tutto è bilanciato perché sotto la forma semplice e archetipica si intravvedano tremori, scosse, passioni, paure e fantasmi. Oppure la potenza evocatrice di Out On A Wine Dark Sea: tutte le bevute di tutti i marinai si ritrovano in quel procedere sghembo ed elettrizzante. O ancora: sentite come la voce pennelli sui fiati di una Waiting For The Sun che sembra la versione noir di Sitting On The Dock Of The Bay. Registrato e prodotto in autonomia, e affidato come sempre alla ANTI-, Wine Dark Sea è un disco che segnerà uno spartiacque nella carriera della Holland. Prima c’erano le premesse per l’arte. Ora ci sono la vita e la morte del blues, del country, dell’americana, che hanno preso possesso della sua chitarra e della sua voce (mai così ben sfruttata nelle sue sfaccettature e capacità timbriche, uno strumento tra gli strumenti) e ne hanno fatto una realtà unica nel panorama del traditional (e non solo). Ora Jolie Holland può interpretare quello che vuole: sarà sempre Jolie Holland. 7.5/10 Marco Boscolo che dà il meglio. Escludendo gli episodi più leggeri (una Grey Goose vicina ai Cure di Close To Me, John Wayne, Fare e disfare, Vent’anni per sempre), composti per la frangia pop dei fan, sono tre le canzoni che fanno crescere il peso di Cremonini come artista e songwriter. Il primo pezzo è la ballad Se c’era una volta l’amore (ho dovuto 104 ammazzarlo), che racconta il rapporto con i genitori in maniera adulta, una resa dei conti con il tempo che passa e con gli amori che se ne vanno. Il secondo pezzo è sempre un lento, Cuore di cane: nella cartella stampa si dice che è l’unica vera canzone d’amore del disco. Arrangiamento con archi e struttura pop perfetta. Il terzo quadro è Quando sarò milionario, r e c e n s i o n i g i u g n o Jolie Holland - Wine Dark Sea (ANTI-,2014) r e c e n s i o n i Quest’ultimo lavoro, nato da un incontro quasi fortuito con Antonio Zambrini e Luca Lezziero ad una mostra d’arte di un’amica comune, ripropone, in chiave lounge acoustic-jazz, una combinazione per nulla invalsa: il livello medio di cura profferta all’orchestrazione (Francesco Di Silvestro agli archi) come alle armonie pianistiche, fa oscillare gli ambienti su un mare remissivamente allettato, quasi da laguna, pazientando su genuini intrecci (Per noi) e saldi rondò sincopati, quando nell’esordio ci si prodigava invece sopra una più vasta gamma di percussività (Dodo Nkishi alla batteria, Giovanni Ferrario al basso) che qui viene un po’ meno o agevolmente tralasciata; i testi, ora demandati al Lezziero e Vincenzo Costantino Cinaski, sono meno audaci nel dialogare con l’esterno, ma guadagnano passi fra i non detti e i vis à vis. Pedanteria da cui stare alla larga è un senso di livellamento da atrii sonori dove l’autore tende troppo a sfumare le immagini (Una casa che). Sta qui capire il motivo di troppa stucchevolezza oppure pazientare ancora un po’. 6.4/10 Marco Braggion Christian Panzano Cesare Malfatti - [Una mia distrazione]+2 (Adesiva discografica,2014) Genere: cantautori, jazz Fidarsi di Cesare Malfatti vorrei divenisse un obbligo. Capace di portare alla luce colori e vibrazioni, il cantautore milanese vaglia costantemente un sua prassi conoscitiva, disponendo di sensibilità congenita e vellutata emozionalità. Come nelle ultime sue produzioni, spesso un senso generale sfugge – un’idea di compattezza non è forse nei suoi canoni espressivi – propendendo invece per una plasticità dei contorni dove il singolo episodio spesso vale più dell’intero lotto. g i u g n o dedicata al padre medico, con arrangiamenti bandistico-jazz che ricordano alla lontana Sergio Caputo. Un’altra tendenza percorsa dal cantante bolognese si trova in quello che già Jovanotti con Tensione evolutiva e Raphael Gualazzi con Bob Rifo aka Bloody Beetroots a San Remo (Liberi o no) hanno già sperimentato. Il singolo che ha fatto da traino all’album usa infatti il drop e lo innesta nella struttura classica del pezzo pop da classifica, con rimandi pesanti all’estetica piano-voce dei Coldplay. Chi l’avrebbe mai detto? L’EDM ‘de noantri’ funziona benissimo e Logico #1 fa il suo lavoro con precisione, mettendo i drop dove ce li aspettiamo e facendo commuovere gli everyman che ogni mattina la sentono per radio andando al lavoro. Il disco vede la collaborazione agli arrangiamenti di Alessandro Magnanini e Davide Petrella, aggiungendo così un tocco jazz al percorso musicale dell’artista bolognese, che non perde di credibilità pur restando nelle posizioni alte della classifica. Senza rottamare il mainstream, un altro pop è possibile. 6.9/10 Chad VanGaalen - Shrink Dust (Sub Pop,2014) Genere: rock, indie, folk È una cantautore decisamente atipico, questo Chad VanGaalen, canadese, che troviamo ora alla prese con il quinto album Shrink Dust, prosieguo di una carriera da musicista ormai decennale (il debut, Infiniheart, risale infatti al 2004), accompagnata, anche se in misura minore, da parallele attività come illustratore e animatore. Nonostante quella giovane faccia pulita che farebbe pensare all’ennesimo stereotipo del songwriter solo e un po’ depresso, le canzoni di Shrink Dust ci fanno invece scoprire una 105 g i u g n o 106 chitarra acustica che, tra distorsioni, rumori e sovraincisioni, rimane la sola a tenere a bada la bella penna di Chad Van Gaalen. 7.3/10 Giulia Antelli Chrome - Feel It Like A Scientist (King of Spades,2014) Genere: indie, wave, post-punk, noise Con questo nuovo album dei Chrome (doppio su vinile) Helios Creed ha raggiunto l’obiettivo di evolvere il sound dei due album “mitologici” del gruppo californiano, rendendolo sufficientemente attuale e ascoltabile anche nel presente e, allo stesso tempo, fedele allo stile della creatura mutante che fu la band. Hippie evoluti o punk che prendevano l’acido ben prima che l’unione delle due culture diventasse una solida realtà, e scevri da tentazioni revivaliste nonostante le loro radici affondassero nella cultura psichedelica californiana, i Chrome condividevano lo stesso sostrato garage e la stessa attitudine avanguardista dei contemporanei Devo e Pere Ubu, lo sperimentalismo di Residents o Tuxedomoon, la vocazione al cut-up che ne ha fatto quasi dei precursori dell’industrial e le atmosfere sinistre che anticipavano certa musica dark (soprattutto se contaminata con hard e l’elettronica, vedi Killing Joke e Sisters of Mercy). E in più avevano l’immaginario da science fiction deviante che si traduceva in suoni distorti, sfrigolanti, psichedelicamente futuribili. Da quando ha ripreso in mano i Chrome in seguito alla scomparsa di Damon Edge, con cui era in parola per una possibile reunion, Creed ha allestito una formazione giovane e competitiva per andare “un passo oltre” il classico sound del gruppo. Prospettiva un po’ ottimista, forse, ma i risultati sono comunque confortanti: i nuovi Chrome riescono a essere riconoscibili e a suonare con una grinta che promette bene per il r e c e n s i o n i personalità eclettica e a tratti bizzarra, alquanto debordante e fuori dagli schemi, che riesce a offrire un paradigma country/blues (ma non solo) tutt’altro che scontato. Se fino ad ora il Nostro si era cimentato con un electro-folk rarefatto e minimale, più attento alla pura sperimentazione che alla costruzione di una formacanzone inserita e riconoscibile – pur con l’enorme ombra di Neil Young alle spalle, che troviamo ancora -, adesso qualcosa è cambiato. È come se il buon Chad avesse addomesticato la propria schizofrenia creativa, in primis pagando il suo debito con certi standard del folk di ultima e penultima generazione (Vic Chesnutt, Daniel Johnston), senza dimenticare l’amore per i Sonic Youth e un’attitudine punk e garage in grado di arricchire l’essenzialità della matrice cantautoriale. In sintesi, dalla grazia sgangherata dell’iniziale Cut Off My Hands alle atmosfere space/sixties di Where Are You, ci troviamo di fronte ad un riuscito equilibrio tra acustica e pedal steel, fuzz-folk e surf-pop. Il tutto tenuto insieme dall’esile voce di Chad, in grado però di intonare e trasmettere perfettamente le varie sfumature emozionali dell’album: una qualità non da poco, visto che, in fondo, parliamo di un cantautore. E se in un paio di episodi è l’anima rock and roll a prevalere – ad esempio in Leaning On Bells e All Will Combine, in cui si avverte la lezione di Kinks e Beach Boys -, è nelle ballate che il disco mostra i suoi pezzi migliori, come dimostrano l’invocazione gospel di Lila o gli standard dylaniani di Weighted Sin e Hangman’s Son, oppure la cadenza lenta e psichedelica di Monster. Quest’ultima traccia, collocata alla metà esatta del disco, sembra riassumerne anche l’essenza: un equilibrio – precario e imprevedibile, e per questo affascinante – tra la malinconia della tradizione folk americana e un gusto per l’avanguardia e gli esperimenti sonori, la sincera scompostezza del lo-fi con una Tommaso Iannini Chromeo - White Women (Last Gang Records,2014) Genere: electro, funk Quarto disco e dieci anni di onorata carriera, per Dave 1 e P-Thugg. Il ritorno, dopo il deludente Business Casual, sprizza una rinnovata voglia di far muovere il dancefloor a ritmo di funk, disco e qualche puntatina di hipsterismo r e c e n s i o n i per le masse. È infatti doveroso notare il featuring di due mostri sacri della scena hip internazionale: uno è il pluripremiato e sciccosissimo Toro Y Moi, che in Come Alive fa mostra di stile sopraffino; l’altra è Solange, che in Lost on the Way Home conquista con la sua voce sensuale (ricordando stranamente negli acuti Marie Fredriksson, la cantante dei Roxette). A parte le comparsate aka specchietti-per-leallodole, la marcia in più l’hanno i pezzi che puntano sul funky disco più vintage e saltano gli ’80, andando a pescare direttamente nel decennio precedente: cose da film di Tarantino, ritrovamenti di tastiere sporche, quelle con la polvere fra i potenziometri, che vediamo in qualche vecchia sala prove di provincia. I Chromeo ci fanno sognare film di serie B a pastello slavato con Over Your Shoulder, sembrano riproporre i blues di Pino Daniele (chissà se lo conoscono) nell’intro di Hard To Say No e l’uptempo del miglior Michael Jackson in Somethingood. Basta, quindi, con i vocoder, pochi laser electro-funk. Più microfoni d’antan e progressioni per giacche con paillettes e pantaloni a zampa. Se nell’esordio She’s In Control e negli album successivi sembrava che i due canadesi fossero bene o male trainati da quello che stava succedendo intorno, oggi – sarà l’età, sarà il decennale di attività – hanno trovato una voce credibile e personale. Qualcuno potrà dire che sono stati i Daft Punk con RAM a riscoprire le atmosfere da disco ’70, ma qui il suono non è così filologico, è una pietanza da consumare subito sul dancefloor, senza costruirci troppa “retrofilia”. Insomma, due che fanno il loro lavoro per bene, pronti per feste di gente che ha superato i trenta da qualche tempo (Play The Fool numero uno, con il richiamo a Giorgio Moroder). Non è più un gioco da ragazzi, ma fa ballare lo stesso. Bravi, Chromeo. 7.3/10 g i u g n o tour. Più che di punk, si tratta di un heavy metal “trattato” con le solite freakerie fantascientifiche. L’iniziale Nephilims! Help Me attacca con un riff stoogesiano corretto con inserti di gelidi synth e una voce urlata in stile new metal. Con Prophecy si passa a un metal “stellare” dai toni minacciosamente dark e dalle aperture space rock, con Lady Feline a un grunge androide – tra il riffone e i fraseggi impazziti in wah-wah e un vortice di background vocals distorte – e con Big Brats a un hard rock da cyberspazio con tanto di beats elettronici (su testo di Damon Edge). I brani sono perentori nelle strutture di base quanto arzigogolati come da copione negli arrangiamenti. Solidi riff di chitarra sono alla base anche dei più sperimentali (Unbreakable Flouride Lithium Plastic, una sorta di collasso nervoso in stile free jazz venuto dallo spazio intorno a un unico riff ), ma c’è anche qualche interessante eccezione: Captain Boson, guidata da basso e batteria funk/dub punk con assoli iperspaziali di chitarra, o i sette visionari minuti di Cyberchondria tra trip psichedelico e geroglifici rumoristi in cui a tenere le redini è sempre la sezione ritmica, oppure i soli effetti elettronici per Slave Planet Institution. Neppure mancano pezzi dalla semplice forza ipnotica (Lipstick) e canzoni da due minuti che potremmo definire quasi pop (Six). Una buona panoramica sul sound dei Chrome, che non suonano come una cover band di se stessi, ed è – già questo – un buon risultato. 7.0/10 Marco Braggion 107 Genere: pop, wave, goth Sempre attento alle forme più disturbanti e devianti dell’immaginario “popular” tutto, il progetto Noise Trade Company è partito da lande electro-industrial-ebm per poi, nel corso dei quattro album fin qui pubblicati, via via raffinare le sonorità e, insieme, affinare le armi verso territori “altri”: territori insieme algidi ed eleganti, figli della wave più ricercata come di una sensibilità pop trasversale, oscura, provocante a volte, spesso suadente ma al tempo stesso sottilmente minacciosa. Quasi procedendo di trilogia in trilogia, questo Unfaithful Believers persevera nella linea tracciata da Reformation, accentuandone se possibile alcune traiettorie latamente “pop” e certi accenti su una visionarietà filmica maudit e perversa, da sempre parte integrante dell’immaginario NTC insieme a una neanche tanto nascosta tendenza al détournement (si veda il disturbante artwork per farsi una idea). Merito della voce di Elena De Angeli, sempre più nodo di scambio nelle dinamiche di NTC, in grado di rendere al meglio le atmosfere create dai sodali Gianluca Becuzzi (sua l’elettronica, il programming e l’altra voce con cui spesso duetta in modalità dicotomica: sognante e suadente lei, baritonale e profondo lui) e Fabrizio Biscontri (chitarra e basso), specie quando ci si approccia ad atmosfere romanticamente malate come nella bella Fire o a lande badalamentiane come in Do Something Evil o Beauty. È proprio questo senso lynchiano che i tre hanno sapientemente disseminato lungo tutto l’album a mo’ di indizio di un legame profondo (si veda alla voce Innocence Is Lost) e impreziosito da derive dub-wave o cold-wave che fa di Unfaithful Believers un album elegante e profondo, ricercato e gloomy, che in molti momenti ricrea realisticamente una sorta di personalissima colonna sonora “crooner” per film dalle atmosfere cupe e misteriche, esoteriche e dolcemente malvagie. Un po’ come nel mai troppo incensato Twin Peaks di cui buona parte di questo disco sembra essere ideale riproposizione e, insieme, sottocutaneo e riverente omaggio. 7.3/10 Stefano Pifferi Cocoanut Groove - How to Built a Maze (Fortuna Pop!,2013) Genere: folk Il tempo vola. Sono passati già sei anni da quando Cocoanut Groove, al secolo Olov Antonsson, dava alle stampe il suo debutto discografico, quel Madeleine Street che nel giro di un batter d’occhio riusciva a meritarsi gli onori della cronaca e candidava il cantautore svedese a speranza per il futuro della musica scandi- 108 nava. Marchio di fabbrica di Antonsson era un suono folk nostalgico, squisitamente pop, in cui andavano a riflettersi tratti d’America e Regno Unito dei tardi Sessanta. In How to Build a Maze Antonsson decide di non cambiare l’ordine dei fattori, scegliendo però di farsi accompagnare da una vera e propria band per ripartire dalle ceneri del debutto. Il risultato tuttavia non premia del tutto questa scelta. Se da un lato il suono barocco e ultra- r e c e n s i o n i g i u g n o Noise Trade Company - Unfaithful Believers (Space Race,2014) citazionista di un certo folk-pop targato Zombies, Donovan e Byrds rimane apprezzabile e ben suonato, dall’altro le tracce del disco alla lunga finiscono per appiattirsi e cedere il passo alla stanchezza. Ed è un peccato, perché brani come Fair-Weather Friend, On A Monday Morning, A Secret Tune, senza il fardello del disco di debutto, avrebbero probabilmente finito col prevalere sulla ripetitività e la pesantezza che contraddistingue questo How to Build a Maze. 5/10 Marco Frattaruolo Genere: pop, rock La scoperta più inverosimile che possiamo fare, a proposito di Ghost Stories, sesto disco dei Coldplay, è che rappresenta il primo vero break-up album di un gruppo che ha basato il proprio successo planetario e multi-milionario su decine di break-up song malinconiche che vanno da Shiver a The Scientist, passando per gli episodi minori di ogni singola pubblicazione fino al pomposo e frammentario Mylo Xyloto. Qualcosa deve essere evidentemente cambiato, perché Ghost Stories prende le distanze dalle über-produzioni recenti e dai barocchismi di Viva La Vida, tralascia i toni da stadio, per ritrovare un intimismo e una compattezza ormai persi dai tempi di A Rush Of Blood To The Head. Se questo può bastare per far pensare a un ritorno a casa, bisogna specificare che al tempo stesso il tessuto sonoro messo insieme dallo stuolo di produttori, tra i quali spicca Paul Epworth, è significativamente differente da quello dei precedenti episodi. Il disco si affida a filtri sintetici e strutture essenzialmente elettroniche, in cui la band riesce ad incastonare chitarre evanescenti e misurate che arrivano g i u g n o r e c e n s i o n i Coldplay - Ghost Stories (Parlophone,2014) leggere ed altrettanto leggermente svaniscono nel torpore atmosferico – succede in Midnight (co-prodotta da Jon Hopkins) o nella perfetta rotondità pop di Magic, l’ideale contraltare maschile alla sobria aridità limpida offerta da Lorde in Pure Heroine, praticamente la versione senza funk del Pharrell di Happy. Ghost Stories è un album moderno perché offre un design sonoro conciso e collaudato che limita gli orpelli senza riuscire a ridimensionarli. In pratica tutto finisce per fare affidamento sulla voce narrante di Martin, al solito nelle proverbiali vesti di menestrello querulo, che nel pieno dei trent’anni si guarda indietro per guardare avanti. Lo stesso frontman ha spesso ripetuto, anche a Zane Lowe, che i suoi testi non saranno mai ai livelli di Jay-Z o di Morrissey, ma che al tempo stesso si diverte a nascondere i manoscritti delle nuove canzoni in nove biblioteche sparse per il mondo, manco fossero sublimi poemi di Yeats pronti ad illuminare l’umanità. E, manco a dirlo, il tallone d’Achille dell’intero lavoro sono proprio i suoi testi. Martin prende il concetto di semplicità per riportarlo ai livelli artistici di una dedica in sovrimpressione sul fondo dello schermo di MTV. “All I know is that I love you so/So much that it hurts“, canta struggente in Ink, con “Late night watching TV/Used to be you here beside me” di Another’s Arms a ricordarci quanto analgesica possa essere l’offerta emozionale di una ricca (ex) coppia inglese alle porte della mezza età. L’episodio sicuramente più nostalgico delle produzioni passate rimane la ballata acustica Oceans, cui segue l’unico vero scivolone del disco, A Sky Full Of Stars, numero in crescendo con cassa dritta prodotto dalla sensation EDM svedese Avicii (paradossalmente, sembra funzionare più all’interno della scaletta che come singolo portabandiera). Partendo dall’idea di un interessante concept e 109 Genere: pop, elettronica “Il frullo che tu senti non è un volo / ma il commuoversi dell’eterno grembo / vedi che si trasforma questo lembo / di terra solitario in un crogiuolo“. Rubiamo questa strofa a Eugenio Montale e alla sua In limine, poesia del 1924 che evoca segni, forze naturali in un paesaggio vivo, legato a doppia mandata alla vita degli uomini, per il limite, il confine, il bordo evocato dalla parola “krai”, che nel russo natio di Olga Bell dà il titolo al suo disco d’esordio. Per Montale l’Italia rurale e assolata del primo dopoguerra, per Olga Bell le distanze enormi che passano dalla Krasnodar dell’opener alla Kamchatka all’estremo orientale dell’Asia continentale, in atmosfere spesso oscure e primordiali. Una terra, quella russa, che Olga Bell ha lasciato in giovane età attraversando lo stretto di Bering come gli antichi ominidi ed approdando in Alaska, USA. Il passaggio decisivo è il sostegno come tastierista per il tour del fortunato Swing Lo Magellan dei Dirty Projector nel 2012-13 e poi l’esordio a un anno di distanza per One Little Indian. Il disco si fonda sulla fusione di elementi folklorici (reali? inventati? evocati?) con un piglio artypop che fa pensare tanto a certi passaggi della prima Julia Holter, quanto alle voci del Trio Medieval. Canzoni che aleggiano nel synth/pop/folk ma che vivono su scheletri di forma-canzone. A dare forza a una scrittura fatta di passaggi sghembi, cambi inattesi di ritmo e atmosfera è la voce di Olga Bell, capace di forza ieratica rara (Krasnodar Krai), di toni ombrosi al limite del magico (Perm Krai), di dolcezze algide (Stavropol Krai). Per l’effetto esotico che ci fa la lingua russa, in cui sono cantati tutti i nove episodi, si torna spesso con il pensiero ai momenti più bucolici dei Sigur Rós, ma anche alle atmosfere in bianco e nero di Iva Bittová. Non si sa mai fino in fondo dove vadano a parare queste schegge arty, ora sottolineate da quelli che sembrano nastri in reverse (probabilmente semplicemente effetti digitali), sovraincisioni, momenti orchestrali. Colpisce la capacità di creare un mondo sonoro vario, ma al contempo fortemente connotato e personale già alla prima prova sulla lunga distanza, al confine tra il folk, il synth-pop e la contemporanea da camera. Vi ritroverete vostro malgrado sotto un cielo spesso carico di pioggia, quasi sempre minaccioso, con canti erranti trasfigurati dagli elementi naturali nelle orecchie. Lo sguardo vi si volgerà, senza che lo vogliate, alle spalle, per indugiare sulla civiltà urbana che lasciate, ma di fronte a voi si apriranno squarci di natura indomabile: sarete perfettamente sul krai anche voi. 7.5/10 Marco Boscolo 110 r e c e n s i o n i g i u g n o Olga Bell - Krai (One Little Indian,2014) lasciandosi ascoltare senza lungaggini, Ghost Stories è un disco onesto che non riesce a nascondere un debole songwriting, un lavoro destinato ad essere dimenticato con la stessa leggerezza con cui si presta all’ascolto. 5.7/10 Luca Falzetti Genere: rock, folk Conor Oberst, prolifico ex-enfant prodige ormai trentaquattrenne, ritorna con un album a suo nome, dopo essere di recente riapparso anche con il vecchio moniker Bright Eyes (The People’s Key, 2011). Upside Down Mountain rappresenta in qualche modo un ritorno al passato, anche se il Nostro sembra non essersene mai particolarmente allontanato; registrato a Nashville e coprodotto con Jonathan Wilson, l’album vede l’artista americano alle prese con materiale sostanzialmente più spoglio e intimo, indie folk rock. “E’ un ritorno agli inizi, è più personale” afferma infatti Oberst. Album abbastanza disadorno, di un songwriting accorato e lirico, con un gran senso della melodia, Upside Down Mountain vede il musicista alle prese con alcune delle sue ossessioni (morte, fuga, disillusione, il tempo che passa…), qui un po’ più pacificate, anche se un senso di malinconia resta sempre. Il tempo che scorre, per uno che ha ormai anni di carriera alle spalle, sembra dilatarsi e Conor appare più vecchio di quel che in realtà è. Il disco è ricco di melodie e di qualche canzone che resta in testa (i soliti ispiratori, Neil Young, Zizzagging Toward The Line, Bob Dylan, soprattutto nelle intense Governor’s Ball e Time Forgot, Hundreds Of Ways). Brani onesti quanto basta per farcelo apprezzare ancora. 7/10 Teresa Greco Genere: cantautori, rock In un momento storico in cui il live è diventato il centro di gravità di tutto l’universo musica (vedi alla voce: “crisi del supporto disco”), non ci si stupisce più di tanto se novità gustose e progetti originali arrivano da dischi dal vivo come Ex Live. Tanto più che il qui presente album di Giancarlo Onorato e Cristiano Godano – registrato il 28 dicembre 2013 presso la Latteria Artigianale Molloy di Brescia – rappresenta un po’ un esempio di meta-linguaggio, sorta di sviluppo pensato per il palco del libro di Onorato del 2013, Ex. Semi di musica vivifica. “Musica vivifica”, come quella che ha segnato il percorso di entrambi gli artisti coinvolti, vuoi perché legata ad ascolti comuni, vuoi perché generata dalla creazione artistica dei diretti interessati. Il filo rosso del disco sono i reading estratti dal libro di Onorato (parole di un’intensità rara che vanno ben oltre la semplice ricerca di un intellettualismo a basso costo, sfociando invece nella poesia tout court), a cui si legano a doppio filo brani di Beck (Lonesome Tears), Lou Reed (Perfect Day), Neil Young (Out On The Weekend), Velvet Underground (Venus In Furs, Sunday Morning), Nick Cave (The Ship Song) ed episodi autografi (per Onorato: Androide Mirna, Tutto il niente, Acqua di Valium, L’illusione di salvezza; per Godano/ Marlene Kuntz: Notte, La canzone che scrivo per te, Musa). Trattasi di celebrazione, ma non delle rispettive carriere, quanto piuttosto del concetto stesso di catarsi legato alla fruizione musicale, ovvero quel mondo perfetto che alle volte una canzone può generare senza un motivo preciso. Lo si capisce dal trasporto mostrato nel reinterpretare le cover (tra le più efficaci, Perfect Day, Out On The Weekend e Lonesome Tears), dalla cura riservata agli arrangiamenti minimali e a un suono corposo (il mastering è g i u g n o r e c e n s i o n i Conor Oberst - Upside Down Mountain (Nonesuch,2014) Giancarlo Onorato - Ex Live (Lilium Produzioni,2014) 111 Genere: pop, indie Al quarto album Owen Pallett, violinista canadese collaboratore degli Arcade Fire ed ex-Final Fantasy – moniker sotto il quale ha pubblicato i primi due dischi -, mischia le carte in tavola, dando una svolta al suo songwriting. L’avevamo lasciato, con l’album precedente, alle prese con il regno immaginario di Heartland (2010), pretesto per sviluppare un concept orchestral-pop polifonico, del quale era più che altro la voce narrante. In Conflict segna un importante cambiamento, non solo a livello musicale, ma soprattutto narrativo. Qui i testi sono abbastanza personali, anche se per sua ammissione non del tutto autobiografici; Pallett questa volta si lascia dietro i tanti personaggi, per rivelare un po’ più di sé, un procedimento “cantautorale”, se non ancora confessionale, al quale il Nostro approda ponendo se stesso al centro delle canzoni. Racconto e cronaca biografica si fondono, con immagini e notazioni degne del migliore Morrissey, del quale Owen è peraltro fan (gli Smiths citati in The Passions). Musicalmente l’album vede una maggiore presenza di synth e percussioni (alla base ritmica ci sono Matt Smith e Robbie Gordon, già insieme al Nostro in una vecchia band, Les Mouches, e riunitisi nel 2011 come live band), oltre al consueto violino in loop e la partecipazione ancora una volta della Czech Philarmonic Orchestra. Ospite d’eccezione Brian Eno, presente soprattutto a livello di backing vocals, alla chitarra nella title track e al synth in The Riverbed. Presenza discreta e si direbbe quasi impalpabile, se non fosse che la sua ubiquità si nota eccome. Prevale un senso forte melodico e una drammaticità che non diventa mai retorica. Pallet mantiene sempre il controllo e muove i fili delle (sue) varie anime, marionette docili nelle sue mani, plasmandole e adattandole alla sua elegante visione musicale. Sincera e diretta come non mai. 7.4/10 Teresa Greco di Giovanni Versari), dalla bravura dei musicisti coinvolti (Guido Maria Grillo alla chitarra elettrica, Meg Russo al pianoforte e alle tastiere, Alessio Russo alla batteria). 18 tracce che riescono a costruire un’esperienza d’ascolto emozionante, con la consapevolezza che “anche i migliori dischi finiscono. Fatti girare sino al termine sul lettore, per quanto ti trasportino in spazi irrinunciabili, lasciano prima o poi il posto al suono del mondo che ti sta attorno”. 6.9/10 Fabrizio Zampighi 112 Davide Tosches - Luci della città distante (Contro Records,2014) Genere: cantautori Formalmente c’è un più equo rapporto fra segnali e rumori rispetto al passato, un nitore senza coesione di stile che cede, nel filo antilirico di Tosches, a un refrattrario svilupparsi, un gioco a coprirsi. Sensorialmente, Luci della città distante è un titolo che dice tutto di un filtrare immagini e rare collisioni in ore mediane, d’inizio o fine, ore inverosimili. A guidare il cantautore piemontese in questa sua nuova r e c e n s i o n i g i u g n o Owen Pallett - In Conflict (Domino,2014) Christian Panzano Diamond Version - CI (Mute,2014) Genere: techno, glitch I curricula di Carsten Nicolai, aka Alva Noto, e di Olaf Bender, aka Byetone, presentano molti punti in condivisione: entrambi nati negli anni sessanta a Chemnitz (ex Karl-Marx-Stadt) nella Germania orientale, entrambi protagonisti della scena glitch a cavallo dei due millenni (specialmente Noto, firmatario come solista di capisaldi clicks and cuts, come la serie di produzioni “Trans-” del periodo 2001-2005), en- r e c e n s i o n i trambi con interessi che spaziano dalla computer music alle arti grafiche e visive (con il nome di Nicolai sempre più in vista del panorama dell’arte contemporanea come autore di macroinstallazioni audiovideo neo-optical, come la recente α-pulse), entrambi responsabili della Raster-Noton, preziosa etichetta specializzata in lavori elettronici distillati in purezza. Amici fin dall’adolescenza, non è la prima volta che i due incrociano ufficialmente i rispettivi laptop: insieme a Frank Bretschneider (anch’egli originariamente tra i gestori della label sassone, e già negli anni ottanta membro degli AG Geige, la prima band new wave di Bender) Alva Noto e Byetone avevano dato vita al trio Signal, con risultati sonicamente pregevoli ma tutto sommato di maniera (vedi gli album Centrum, 2000, e Robotron, 2007). Il progetto Diamond Version prende forma nel 2011 quando, su stimolo di Daniel Miller, fondatore della gloriosa Mute Records, Nicolai e Bender trovano la chiave giusta per dare un senso di lunga gittata alle estemporanee improvvisazioni live in coppia che in qualche occasione avevano aggiunto ai loro rispettivi set solisti. L’impianto paratestuale è preso in prestito dal mondo del marketing e dell’advertising: il nome Diamond Version gioca con l’escalation parossistica delle nuove edizioni dei software; il programmatico video Mission Statement (giugno 2012) è costituito da claim e payoff pubblicitari che, presentati in ordine alfabetico senza alcun riferimento ai brand d’origine, si mostrano nella loro pervasiva assurdità. Anche i titoli delle tracce dei 5 EP sfornati per la Mute in meno di un anno, dal settembre 2012 al luglio 2013, riprendono gli slogan delle multinazionali: Make.Believe (Sony), Sense And Simplicity (Philips), Science For A Better Life (Bayer), Turn On Tomorrow (Samsung), ecc. E il titolo dell’album, culmine del lavoro del duo, è l’acronimo di Corporate Identity. Il sound g i u g n o avventura, ancora la mano di GianCarlo Onorato e una band che ha raccolto avvisi di stima già due anni fa ne Il lento disgelo. Scontate, viste così, le giocate di luci, il ritiro cameristico e forse anche un po’ impressionistico di brani come Il canto del ghiro, Il calabrone, Mattino presto, per cui importa poco una tranche de vie abbozzata oppure lasciata in disparte. Codificare una lega fra congiure elleniche scavate, armonizzazioni e schubertiadi in lieve dissonanza, diventa quell’allegro ma non troppo (anzi) che nelle mani dei chiamati in causa (il flicorno di Ramon Moro, l’innesto elettrico minimo di Hugo Race, l’idea d’arco di Catherine Graindorge) sigla la volta da creare per una psicoacustica a pastello. Questa ricerca, sovente cangiante, diventa sempre più un bollo di un Tosches piccolo co-direttore, un copyright morale che accompagna parole, ma ancora di più, scelte posate in produzione, senza paura d’attentarsi. Sarebbe interessante una più viva cura dell’aspetto contautorale: un testo più coeso, meno fumè, meno a macchia di cerniere e colori, si misurerebbe alla perfezione con i progressi raggiunti sul versante sonoro. Questi brani attestano comunque la maggiore età raggiunta da Tosches, cultore dell’arte tout court fra grafica, fotografia, disegno e musica. 6.8/10 113 g i u g n o 114 bum troviamo la traccia finora più lontana dal classico mondo Noto-Byetone: a cantare lo spiritual tradizionale Were You There (che troviamo nel repertorio di Johnny Cash, ma anche di Diamanda Galás) viene chiamato Neil Tennant. E il Pet Shop Boy officia il rito in maniera elegante e precisa, supportato da una base profonda e abrasiva, per un risultato dalla forza straniante. Delle dieci tracce dell’album (43 minuti in totale), quattro sono nuove versioni di pezzi già pubblicati negli EP, ridotti nel minutaggio e smussati nell’equalizzazione. L’aggiunta in Operate At Your Optimum del vento elettrico generato dal neon fluorescente di Atsuhiro Ito (già presente nel primo DV show al Sonar 2012) è parziale eccezione alla regola della focalizzazione sui basics. Solo una track in CI supera i 4 minuti, ed è la conclusiva Make.Believe, epica cavalcata techno-glitch già apparsa in versione più estesa nell’EP 5, caratterizzata dal progressivo shift degli accenti ritmici. I tre nuovi pezzi strumentali impreziosiscono il catalogo: Connecting People gioca con le voci degli IVR del marketing telefonico, Access To Excellence e Raising The Bar per una volta mantengono le promesse pubblicitarie dei rispettivi titoli, con soluzioni ritmiche dub e noise techno ritmicamente impeccabili. CI è un disco votato alla stortura dei nasi più puristi e intransigenti, ma da interpretare come un interessante esperimento di ibridazione che, intervenendo su un genere da qualche tempo a rischio di sterilità, può dar luogo a nuove specie nel macroambiente della musica elettronica. 7/10 Alessandro Pogliani r e c e n s i o n i Diamond Version è il risultato di una joint venture (per rimanere in ambito corporativo) tra la produzione ipnotica e squadratamente techno di Byetone (vedi Symeta, 2011), e le composizioni più scientificamente asettiche di Alva Noto (che già con l’ottimo Univrs del 2011 aveva già dato nuovi segni di irrequietezza): energico e fisico (anche se ad esempio meno violento rispetto ai primi Pan Sonic), ammiccante al dancefloor ma sempre con urticanti punte noise. La dimensione ideale è quella dei live show, dove l’aspetto audio si lega perfettamente con le soluzioni video, per trascinanti spettacoli digitali in bianco e nero. Pur rappresentando il culmine del business plan Diamond Version, CI testimonia un allargamento dell’estetica espressa dai cinque 12” precedenti verso nuovi orizzonti. Persiste l’attenzione maniacale per ogni singolo suono (ovviamente di derivazione kraftwerkiana), il ritmo rimane l’elemento portante, ma qui Noto e Byetone dimostrano un crescente interesse per la forma-canzone, indirizzandosi verso una maggiore, relativa, accessibilità anche attraverso l’inatteso apporto di inusuali vocalist ospiti. L’album comincia con il botto: “Congratulations on being a big fu**ing deal!” recita sarcasticamente la voce strascicata e vissuta di Leslie Winer (mitica androgina modella/ poetessa, che qualcuno aveva scortesemente definito la “nonna del trip-hop” per il suo album Witch registrato nel 1989 con l’alias ©) in This Blank Action, potente, profonda ballata dub-techno. L’hip-hop futurista di Feel The Freedom presenta le frasi dada della giapponese Kyoka, nuova (e prima!) proposta femminile Raster-Noton, per cui ha recentissimamente pubblicato l’interessante Is (Is Superpowered), sintomatico del recente corso “glitch goes pop” seguito dalla label (vedi anche HD di Atom™, pubblicato nel 2013, che con CI presenta più di un’affinità). Al centro dell’al- Genere: avant, contemporanea, jazz La poesia di Fabio Orecchini e i suoni dei Pane, uniti in un lavoro che interpreta – perché di questo si tratta, di un teatro di vita vissuta rievocato da parole e note, e capace di una potenza evocativa enorme – la tragedia dell’Eternit, con tutto quello che il termine si porta appresso. Un libro di poesie sommato alla musica della band di Claudio Orlandi, Maurizio Polsinelli, Vito Andrea Arcomano, Claudio Madaudo e Ivan Macera, l’uno parassita dell’altra e viceversa: le parole al centro di un folk sempre più timbuckleyano ma anche di un impeto recitativo che ricorda gli Area di Stratos, grazie anche a un approccio fondamentalmente jazzistico capace di dare al testo respiro e di sorreggerne l’enfasi; la musica direttamente connessa agli “ambienti” che la narrazione riesce a creare, e quindi libera di attorcigliarsi al parlato senza badare agli steccati di genere, tra crescendo e minimalismi assortiti. Nel libro allegato al CD (o viceversa), gli spazi e i silenzi della tragedia umana legata al tema centrale dell’opera, quello che la musica lascia presagire nella sua voluta incostanza e variabilità, vengono resi con una libertà tipografica quasi futurista, come se anche la vista, oltre all’udito, avesse il compito di circoscrivere, sottolineare, evocare la drammaticità dei contenuti (e non solo con la comprensione dello scritto). I testi di Orecchini lavorano trasversalmente, mescolando un lessico legato alla malattia, alla dimensione biologica dell’individuo, alla tecnologia dell’ambientefabbrica, e mimando la condizione esistenziale più profonda degli operai destinati alla lavorazione dell’amianto. Un’esistenza in cui proprio la fabbrica violenta il corpo, declinandolo in malanno prima e morte poi. Quella di Dismissione è materia letteraria e musicale pulsante, che scortica dentro e non lascia facili vie di fuga col suo realismo pisciato in faccia al lettore (e all’ascoltatore). Vengono in mente certe cose di Marco Paolini, anche se qui l’inquadratura è un primo piano sui legami umani confinati nelle quattro mura di casa, che diventano il centro di una serie di cerchi concentrici a livello sociale. Un’umanità che il “discolibro” veicola senza mezzi termini e in modo egregio. 7.3/10 g i u g n o r e c e n s i o n i Pane - Dismissione (New Model Label,2014) Fabrizio Zampighi DJ Rashad - We On 1 EP (Southern Belle,2014) Genere: juke_footwork Il footwork non sarebbe lo stesso senza Dj Rashad e Cornelius Ferguson / Traxman. Sono i lavori pubblicati negli ultimi due anni da questi producer che ne hanno decretato il buon riscontro mediatico e il piccolo, ma significa- tivo, avanzamento di mercato, senza contare l’enorme influenza esercitata su un trasversale comparto elettronico. Certamente la scena aveva ed ha una vita propria, e sicuramente ognuno dei suoi protagonisti (vedi Dj Spinn, Manni, Dj Diamond, Dj Nate, Rp Boo…) è parte di un intricato dedalo di influenze e rimandi e può vantare una parte nella scrittura di questa sto- 115 Genere: avant, grime Ricollegandoci al nostro speciale Back to Eskimo Jungle, avevamo lasciato Peter Runge e Louis Carnell, ovvero l’americano Sd Laika e il londinese Visionist, alle prese con due approcci piuttosto distinti nella reinvenzione dei suoni grime strumentali. Il primo, sull’etichetta del secondo, Lost Codes, aveva lasciato aperto (nel 2012 con Unknown Vectors) un discorso riduzionista e frammentario, come se qualcuno si stesse divertendo a contrappuntare di bassi spugnosi alcuni lost file di Wiley da un hard disk gettato in una discarica; il secondo, sull’etichetta di J Cush Lit City Trax, preferiva un raffinato gioco di sintesi tra ghiacci londinesi, ritmi ghettotech e siderali synth newyorchesi, come dire, l’incontro tra il citato godfather of grime, il giro di James Ferraro e di Traxman. Li ritroviamo alle prese con due fasi di carriera altrettanto particolari e differenti. Sd Laika riemerge dopo due anni di assenza con un album d’esordio sulla prestigiosa Tri Angle, label che non gli ha impedito di riprendere le fila di un discorso senza compromessi e rimettere mano a tracce di un periodo turbolento della sua vita risalente a due anni prima; Visionist che, invece, porta a termine un percorso sul dolore ed espiazione iniziato nell’EP precedente asciugando ancor più le trame e concentrandosi sull’espressione. That’s Harakiri, esordio del producer americano, è un oscuro e malato oggetto del desiderio, l’eski beat dell’esordio che si è spaccato sul pavimento, con i frammenti ad acquistare traiettorie imprevedibili. I’m Fine II, invece, è Visionist che si chiude in sé stesso ed osserva in solitudine le sue statue di ghiaccio, questa volta da solo, senza la collaborazione con quella Fatima Al Qadiri che nella prima parte – The Call – aveva lasciato aperte per lui alcune evoluzioni à la Asiatisch (il fortunato esordio di lei). E così, se Carnell pare un po’ incartato – unico momento degno di nota First Love – con un finale di scaletta (Something Old, Something New) che tra passato e futuro lascia intravedere una non inedita declinazione r’n’b e pop (voto: 6), il “taglio del ventre” di Peter Runge si risolve in uno di quegli enigmatici lavori che dicono poco sul suo autore, e ancor meno sul futuro che lo attende, ma lasciano addosso una morbosa voglia di scostare le tende dalla finestra, alzare la coperta del letto e scoprire cosa si nasconde dietro a questo angoscioso angolo del nulla americano. Tracce come Great God Pan configurano Sd Laika come una sorta di anti-Fatima Al Qadiri, o meglio, è come se sui plastici affreschi digitali di Asiatish fosse cascata una bomba H. Altrove, il ragazzo di Milwaukee mostra un sorriso feroce e ci ricorda Aphex Twin, ed è qui che i paragoni si fanno interessanti: in comune tra loro, la riduzione brutalista tra smalti pop e tagli sul ritmo, come anche uno sguardo feroce sull’utopia techno. Sempre a proposito di sgretolare il suono detroitiano, troviamo tracce degratate e puzzolenti come Meshes o episodi tribali da assenza di Dio come Remote Heaven o It’s Ritual, entrambe facce di nessuna medaglia perché, differentemente da James, Runge preferisce andar di sublimi dissimulazioni anche solo per regalarci diamanti grezzi come una You Were Wrong tra illibertiane pianole 90s, bassi post-rave e garrule visioni Zomby. Uno dei lavori più affascianti dell’anno. 7.4/10 Edoardo Bridda 116 r e c e n s i o n i g i u g n o Sd Laika - That’s Harakiri (Tri Angle,2014) r e c e n s i o n i frammento di Chaka Khan (Somethin ‘Bout The Thing U Do), Traxman che prende il riff al synth di Computer World dei Kraftwerk triggerandolo su lallazioni vocali sempre di Ralf Hutter e soci (Computer Ghetto); poi c’è tutto il discorso sulla juke, con entrambi a serrare i ranghi e mostrare i vicoli e le strettoie, il chicagoano di Double Cup che torna sui 160bpm e gli incastri con la jungle (Come On Girl, con l’aiuto di Spinn), che setta la 808 su territori trap per parlare pur sempre di footwork (Do It Again, con Spinn e Manny), che stende bassi tipo gomme sull’asfalto; e, dall’altra parte, Ferguson che rende merito, come sa, alle storie di Chicago, l’house naturalmente (I Wanna Be High), ma anche il funk (U Got Me Running) e il soul, un sacco di 70s ma anche 80s, tutti campioni, che, per mano di entrambi, chiudono epopee in semplici gesti, come strisciate con la bomboletta. Al netto di tutto il clamore suscitato dalla sua scomparsa, Dj Rashad ci regala un più che buon lavoro che riavvolge il nastro per srotolarlo su alcune – possibili – traiettorie (7.2), mentre Traxman, consegna un altro gioiello di produzione con alcune delle sue migliori zampate (7.4). 7.4/10 g i u g n o ria; eppure, nessuno come Rashad e Ferguson è riuscito a incidere sulle vite e sulle discografie di chi ha poi finito per influenzare decine di altri producer internazionali, condizionando l’ascolto di un genere nato nei ghetti di Chicago e rendendolo intrigante, esportabile e, cosa non proprio scontata, potabile per un pubblico fino a poco tempo fa impensabile. Facciamo nomi e cognomi: Mike Paradinas, boss di Planet Mu, e Steve Goodman / Kode9, boss di Hyperdub, non avrebbero potuto traghettare queste sonorità senza i collanti giusti al momento giusto. Non vogliamo sottovalutare l’importanza di Rp Boo e della sua Legacy, ma senza due lavori come Da Mind Of Traxman prima e Double Cup dopo, la footwork di Chicago e quella dei producer lungimiranti che l’hanno assorbita e ricontestualizzata (non solo Kode9, ma anche Machinedrum e Addison Groove) non avrebbe goduto di una fondamnetale, viva, dialettica. La conferma di tutto ciò la riscontriamo, oggi, nelle recenti prove dei rispettivi producer: We On 1, EP composto da Rashad prima della morte (che ha visto la luce i primi di maggio, su un’etichetta di Houston, la Southern Belle, di un amico come Wheez-ie), e la seconda parte di Da Mind Of, nuovo tassello del mosaico sonoro di colui che della footwork può essere considerato il più enciclopedico autore. Ascoltando i due lavori, è evidente tanto il guardarsi attorno del primo, che torna nel ghetto per trovare nuove strade e traiettorie, quanto l’abilità del secondo, che, in perfetta convergenza parallela, si concentra per questa tracklist su uno massimo due sample per traccia, lavorando di fino sui tagli, sulla velocità dei loop, e naturalmente su tutto un parco ritmi. Da entrambe le parti, ci sono i campioni “in chiaro” provenienti da alcuni brani che hanno fatto la storia della musica pop: Rashad che fa volare una fisarmonica Stevie Wonder su un Edoardo Bridda Gallant - Zebra EP (Autoprodotto,2014) Genere: pop, indie, soul, rnb Negli ultimi quattro anni abbiamo assistito alla grande rinascita della black music dopo un – lungo – periodo caratterizzato più da ombre che da luci, in cui sembrava essere svanita la voglia di trasgredire le ferree e conformiste regole del music business. Una fortissima contaminazione – con l’elettronica in primis – e la contemporanea riscoperta/stravolgimento della tradizione sono stati i due fattori chiave che hanno avuto il merito di riavvicinare 117 g i u g n o 118 singolo Forfeit, sia su quella dell’EP stesso. Nonostante punti di contatto fin troppo evidenti e l’alto tasso di derivazione, Zebra EP si fa apprezzare per alcuni dettagli che ne aumentano la varietà: i beat abstract/chill di Forfait (How to Dress Well ad un passo), la battuta pesante di Sirens, l’enorme eco-campana di vetro dell’onirica Manhattan e un brano-bomba come Sienna, fortemente influenzato dalla scuola UK (bass-garage-dubstep). Frutto in egual misura delle idee di Felix e dei vocalizzi di Gallant, le nove tracce di Zebra EP non hanno la pretesa di cambiare le carte in tavola ma illustrano con dignità il potenziale di un nome che a breve, con ogni probabilità, avrà modo di trovare un ottimo compromesso tra citazionismo e personalità. 6.6/10 Riccardo Zagaglia Gentle Friendly - KAUA’I O’O A’A (Fat Cat,2014) Genere: pop, elettronica, experimental Vengono da South London e si sono formati perché hanno trovato un drum kit e del caffè in un cassonetto dei rifiuti. Ecco, potremmo fermarci qui, perché chi legge è in possesso di tutti gli elementi per inquadrare il duo. Ma ci sentiamo buoni e andiamo avanti. Sacerdoti del drone-pop lo-fi e dell’electronic loop of consciousness, i Gentle Friendly si erano già affacciati sulla scena con il precedente Ride Slow che gli era valso un po’ di fama (mica tanta, dicono i 600 followers su FB) e, soprattutto, un contratto con Fat Cat. Come se non bastasse la bizzarria dei suoni, i Nostri hanno deciso di intitolare il disco (lo scriviamo solo una volta, da qui in poi si chiamerà semplicemente “il disco”) KAUA’I O’O A’A, cioè con il nome di qualche uccello estinto congiunto al nome di qualche isola delle Hawaii. Alla fine non sconvolge neanche più di tanto, perché il disco è r e c e n s i o n i il pubblico più smaliziato alle sonorità randb e soul, facendo scattare quel circolo virtuoso tra audience e media che ha permesso sia di cambiare finalmente aria ai piani alti, sia di alimentare quell’enorme sottobosco a ricambio stagionale capace di sfornare freneticamente materiale di culto: un fiume di grande portata che, dalle vette più elevate (i debutti di James Blake, Frank Ocean, How To Dress Well e The Weeknd per citarne quattro) fino ai rilievi minori di natura locale, continua ad autoalimentarsi e a far parlare di sé, aspettando che arrivi il giorno di una nuova rivoluzione o della – più concreta – saturazione. In attesa degli album di debutto da novanta di FKA Twigs e, in ottica mainstream, Banks e Sam Smith, il 2014 ha già visto esordire SOHN, Chet Faker, SZA e Lo-Fang. A questa (già di suo) incompleta quanto eterogenea lista di nomi si va ad aggiungere il meno conosciuto Gallant. In un contesto sospeso tra New York e la sua attuale dimora Los Angeles, il giovane Gallant si è fatto strada grazie alla collaborazione con il producer Felix Snow (già al lavoro con SZA), il quale nell’ultimo anno ha modellato buzz-tracks quali Forfeit e Sirens: chiari esemplari di quello che, per il momento, è l’universo sonoro del giovane americano. Un universo che trova una fonte d’ispirazione limpida nel primo – e migliore – The Weeknd, tanto che Zebra EP concettualmente si avvicina a House of Balloons più del patinato – e già dimenticato – passo falso Kiss Land. Condivide con House Of Balloons le stesse sonorità oscure ed urbane, ovattate da un approccio di finto lo-fi ed avviluppate attorno a falsetti riverberati, stesse incursioni di chitarra elettrica, stessi omaggi “pericolosi” (in If It Hurts si “tributa” Adam’s Song dei Blink 182) e, con un po’ di malizia, stesso gusto visivo certificato dagli artwork in bianco e nero e da quei famosi palloncini rintracciabili sia nella copertina del r e c e n s i o n i Giuliano Dottori - L’arte della Guerra Vol.1 (Musica Distesa,2014) Genere: cantautori Dopo l’importante esperienza come chitarrista negli Amor Fou a fare da intermezzo (si veda il bel I moralisti, 2010), il milanese Giuliano Dottori arriva in proprio al terzo album solista, primo capitolo come da titolo di un discorso autorale già in parte intrapreso con il penultimo Temporali e Rivoluzioni (2009). L’arte della Guerra Vol.1 (con Marco Ferrara al basso e Mauro Sansone alla batteria) esce su etichetta propria – la nuova Musica Distesa, fondata con il fratello Corrado -, dopo una fortunata raccolta di finanziamento su Musicraiser a inizio anno; il songwriting lucido ed essenziale di Dottori si affina ed asciuga sempre di più, ricordando stilisticamente per certi versi l’ultimo Paolo Benvegnù, ma è una scrittura sempre più personale la sua. In punta di piedi fa un bilancio, prendendo spunto dal manuale di saggezza e tattica bellica L’arte della Guerra di Sun Zu; l’album rappresenta un nuovo inizio, come una rinascita. Ci sono solitudine, attesa, riflessioni e ricordi familiari, relazioni tra presente e passato, ma anche guardare avanti, disincanto e ironia sottile sulla contemporaneità e sulla propria generazione over 35, il tutto colorato di un senso di speranza partecipato e palpabile. L’arte della guerra o come sopravvivere all’oggi tumultuoso, riflettendo su se stessi e sulla propria crescita. Con intelligenza e grazie a trame dipanate, tra chitarre, piano, melodie forti e soluzioni sperimentali, con tocchi psych e folk. Un bel disco che cresce ad ogni ascolto. 7.3/10 g i u g n o un collage di suoni elettronici che mescolano reminiscenze Neu! e kraut, industrial schizofrenia alla Death In Vegas con aggiornamenti art sotto l’egida di Animal Collective, This Heat, Health. Fin dall’apertura, Wild Grass, un lunghissimo stream of conciousness fatto di loop vocali elettronici, accenni ritmici e molto organo, siamo dentro ad atmosfere che di kraut hanno solo l’impostazione, perché poi si impregnano di tropicale schizzato sui muri. Un po’ come la copertina di un disco che viene pubblicato in vinile ma rappresenta una cassetta con relativa custodia. Ecco, impalpabile. Le successive Autumn Nite, Channel One, 18 Wave Crash e As In Wind fanno pensare a dei Fuck Buttons scorporati dalla magniloquenza olimpica, perché qui stiamo sempre parlando di droni alle prese con strumenti raccapezzati dalla spazzatura…. Poi ci sono poche (pochissime a dire il vero) tentazioni pop, quando i ritmi scroscianti delle percussioni si limitano ad accompagnare. E può succedere di risentirci un Four Tet strigliato (Bury Um Deep), un french touch alla Phoenix (No Future, Cloudbusting II), uno schizzo psichedelico alla Panda Bear (Shake Up). Da ultimo, ci viene da sottolineare la grazia analogica con cui i due si cimentano: dalle percussioni acustiche al cantato monocorde e asfissiante che, al tempo stesso, stanca e incanta. Pare proprio che in UK molti stiano seguendo la strada del neu-new wave o trash-folk o new kraut che dir si voglia e i Gentle Friendly, nel loro disordine ordinato che di diverso ha solo un tocco electro in più, aggiungono un godibile tassello al quadro. 6.9/10 Teresa Greco Nino Ciglio 119 Genere: punk, hiphop Se dici strafottenza e pensi alla musica, difficilmente non ti verrà in mente qualche anglosassone. Mark E. Smith, i fratelli Gallagher (uno un po’ di più dell’altro, a dirla tutta), le pose di Ian Brown o dei vari appartenenti alla genia made in Madchester, ma la lista potrebbe essere potenzialmente infinita, sono senza ombra di dubbio quanto di più arrogante, sfacciato e diretto il panorama musicale mondiale abbia prodotto. Come un Begbie di Trainspotting, questi Sleaford Mods, duo da Nottingham – grigio centro Albione e perciò potenzialmente concentrato di rabbia e depressione, sfacciataggine e incoscienza -, partono dritti come se fossero sempre in procinto di scatenare una rissa, di spaccarti un bicchiere in faccia o semplicemente di urlare un piss off generico all’intero mondo della musica. Più o meno patinata o hipsterizzata. E musicalmente? Ecco, immaginate un incrocio tipicamente british tra The Streets e i Fall. Basi scarnissime di tastiere spesso “spippolate” senza allontanarsi troppo dai preset standard, linee di basso synthetiche tanto minimali quanto circolari, sporcizia strumentale che non è nemmeno di matrice industriale, ma molto più povera, procedere hip hop bianco, storto e insieme ossessivo, flow fluviale che ha in sé quel senso di cockney e di depauperamento fisico da degrado subrbano anni ’80 made in Thatcher che ti fa pensare da subito “zero style ma tantissimo stile”. A dimostrazione, ora come allora, che essere “punk” non è questione di stile musicale o di spille in bocca o di quello che tutto l’immaginario degli ultimi 30 e passa anni ha trasmesso. Per essere punk devi essere come questi due qui. Sì, perché i due – Jason Williamson, che ci mette la voce e la faccia, e Andrew Fearn, che smanetta, ma nemmeno troppo, con la tastiera – si sono pure scelti un nome veramente a cazzo di cane, come a cazzo di cane è la loro musica, sboccata, irrispettosa, arrogante e urbanamente volgare; aggiungete anche che non sono – e non sono mai stati – mods e non vengono affatto da Sleaford, quanto da Grantham, cittadina (poco) ridente del Lincolnshire famosa per aver dato i natali alla lady di ferro Maggy Thatcher, ed ecco che così, magicamente, tutto sembra tornare. 7.4/10 Stefano Pifferi Godblesscomputers - Veleno (Sfera Cubica,2014) Genere: elettronica Anni fa c’era la moda del wonky, poi sommersa dalle vicissitudini post-soul di James Blake e affini. Godblesscomputers, il progetto di Lorenzo Nada, si accosta a questo filone in maniera professionale e – cosa rara per un’ita- 120 liano – senza provincialismi, staccandosi subito da essenze finto-intellettualoidi di nicchia ed entrando a far parte di un’idea estetica di beat internazionale che, come dice lui in una recente intervista, è intrisa di soul funk ed è stata influenzata da DJ Shadow, Prefuse 73, Ninja Tune, Warp, Def Jux e Anticon. Descrizione perfetta per uno dei più promettenti italiani r e c e n s i o n i g i u g n o Sleaford Mods - Divide And Exit (Harbinger Sound,2014) Marco Braggion r e c e n s i o n i Gruff Rhys - American Interior (Turnstile,2014) Genere: pop, rock, indie Che Gruff Rhys fosse un tipo – come dire? – bislacco, lo sapevamo: dalla leadership dei suoi bizzarri Super Furry Animals fino ai concept su cuccioli di leone zuccherosi (Candylion), durante la sua carriera solista il Nostro non ha mai rinunciato al gusto per lo sberleffo, meglio se mascherato da opera finto-intellettualoide. È il caso di questo American Interior, uscito su Turnstile come il precedente Hotel Shampoo, e che con quello ha molti tratti in comune dal punto di vista degli hook melodici e dell’impasto strumentale. Ennesimo concept nella carriera di Gruffydd Maredudd Bowen Rhys (nome che nella discografia inglese è forse secondo per complessità solo a quello completo di Brian Eno), American Interior nasce dalla scoperta, da parte dell’autore, di avere come antenato John Evans, esploratore che attorno al 1790 si imbarcò nella seguente impresa: attraversare l’America per trovare una tribù di nativi collegata ad un principe del Galles del dodicesimo secolo e che, per questo, pare parlasse quella lingua. Ci sarebbero tutti gli ingredienti per il pappone, e invece no. Rhys tira fuori un album tutt’altro che pesante: fresco e mai banale, è un pop che pare sbarazzino (Lost Tribes) ma che in realtà si rivela un artigianato di prim’ordine. E infatti, cos’è Tiger’s Tale se non i Wilco dei dischi con Billy Bragg che jammano con Costello a Memphis, con una leggera sbornia da Metronomy? Nella title track, poi, viene delineata la continuità con la Vitamin K del lavoro precedente: il tono è maturo, a volte malinconico, ma mai insostenibile, tratteggiando gran parte del mood dell’album. Gruff utilizza un armamentario strumentale varigato, mette assieme elementi disparati e riesce a tenerli insieme in una g i u g n o concentrati sul sound elettronico a più ampio spettro di contaminazioni (insieme a Clap! Clap!, Memory9, UXO e pochissimi altri) che sembra veramente uscire da un’altro pianeta – musicalmente parlando. Sette tracce costruite con campioni di voci soul, arricchiti di suoni d’ambiente che fanno molto Four Tet, il tutto miscelato con una giusta dose di basso, pronta per il dancefloor slow. Tattiche soniche su cui aveva già meditato nel disco del 2012 Freedom Is O.K., ma che oggi si consolidano su un’autorialità forte e decisa. La formula del looping alla lunga può stancare, ma qui le variazioni sul tema sono intriganti. Si parte dai riferimenti ai rappresentanti più stellati dell’intimismo (Burial in What We’ve Lost, Zomby in Seventh Floor, qualche cineseria Gold Panda in Icry) e si arriva (Nothing to Me) a una sintesi personale che rimanda alle estetiche Morr condite con suoni di sintesi e field che non guastano, un Microcosmos (ricordate il film sugli insetti?) di note e percussività che cadono a fagiolo. Alta classe synthetica anche in Collapse con suoni liquidi e ripetizioni minimal tagliate con percussività tribali. La tensione cade un po’ nella facile ripetitività ethnic con filtraggi e voci world di Yuan (sembra di sentire uno dei pezzi della Thievery Corporation mescolato con qualche taglio Kruder and Dorfmeister, per capirci) e nei sentimenti melò-lounge di Orange. Stiamo comunque assistendo alla nascita di un nuovo talento, che potrebbe esplodere a livello mondiale, per la sua capacità di costruire melodie orecchiabili (e quindi pop, magari pure da spot) in un sottobosco di ritmiche complesse. Una lieta sorpresa, che non capita tutti i giorni. Dacci dentro, Lorenzo. Giù il cappello. 7.4/10 121 maniera che, in alcuni frangenti, ha del miracoloso. Valga come esempio Iolo, sorta di yodel innalzato dagli archi che sembra composto da Morricone, anche per la base ritmica dal suono così spaghetti western. American Interior si divide tra brani minori e altri che, in un mondo ideale, potrebbero risultare veri e propri ordigni schiaccia-classifica, come Liberty (is where we’ll be), ma che quasi certamente non lo saranno. Vuoi per la complessità di alcune scelte – Allweddellau Allweddol sono i Talking Heads che fanno cantare dei pargoli fino a sfiorare George Clinton -, vuoi per la stranezza dell’autore, che vede in però così salvaguardato il suo status di weird. 7/10 Guy Littell - Whipping The Devil Back (Autoprodotto,2014) Genere: rock, alt, indie, folk Dal centro-sud dello Stivale continuano ad arrivare notizie interessanti riguardo un certo modo di fare rock, che prima di inseguire strategie di successo (del resto improbabili) tenta di tracciare coordinate profonde, di farne cosa propria, di utilizzarlo cioè come fosse il linguaggio più adatto per raccontare scazzi, tormenti, trabocchi di rabbia e trepidazioni dalla periferia dell’impero. Il napoletano Gaetano di Sarno è un classe ‘82 che si è scelto lo pseudonimo di Guy Littell (un personaggio di American Tabloid, epocale romanzo di James Ellroy) e fa folk-rock intenso e asprigno guardando all’America di padri (Neil Young) e figli (Sparklehorse), senza trascurare gli eroi di mezzo, come ad esempio quello Steve Wynn che non a caso è gradito nonché speciale ospite di questo Whipping The Devil Back, terzo opus a due anni da Later e quattro dall’esordio The Low Light and The Kitchen. Immerse in un sound sparagnino che sposta 122 7/10 Stefano Solventi Iggy Azalea - The New Classic (Virgin,2014) Genere: hiphop Iggy Azalea ha occhi blu, biondi capelli e sì, non è proprio roba nuova. Ha un passato pietoso, ma ci sta lavorando su. Retroterra: due mixtapes, un EP - Glory - e ora, ecco, il primo disco, The New Classic, che appena uscito è stato stroncato dalla critica. È forte nel titolo, nello stile del flow, è trap, insomma, southern hip-hop. Il messaggio passa efficace e si ascolta senza fraintendimenti in strofe come questa: You can’t break my heart / You can’t take my r e c e n s i o n i g i u g n o Andrea Macrì l’ago della bilancia più sulla sostanza che sulla forma, le undici tracce in programma mettono in evidenza buone qualità compositive e il piglio dell’interprete che non si risparmia, soprattutto nelle toccanti Cedar Forest (languori desertici e mestizia acustica quasi Jason Molina) e Waiting For My Shift To Start (ebbrezza calda e vibrante tra Grant Lee Phillips e Graham Nash). Se Maybe avvince azzeccando un’accorata mistura Low, fa ancora meglio Lovely People inoltrando un folk a bassa fedeltà tra muggiti elettrici Yo La Tengo. Barcamenandosi tra volatili suggestioni dreamy (si ascoltino le ascendenze wave di Need You, Have You e Every Tiny Drop Of Light) e asprezza da marciapiede, ogni canzone riesce a disegnare un bozzetto vivido che fa vibrare i contorni del cliché. Forse solo la title track, col suo passo baldanzoso in stile no-depression (e l’armonica di Wynn), non riesce a mediare tra fragilità melodica e struttura malferma, ma si salva in corner grazie ad un entusiasmo febbrile e indolenzito. Un disco che non lascia indifferenti: se saprà scalare la marcia giusta, di Guy Littell sentiremo ancora parlare. r e c e n s i o n i fe del genere? È tutta spazzatura di contorno necessaria, però, perché il fulcro non è questo. Biograficamente Iggy Azalea a chi interessa? Fondoschiena a parte, non di certo agli ammiratori/ammiratrici (e lo dice lei) che ambiscono solo a palparla, quando si getta dal palco; né alla critica, che con la sua presunta stravaganza ci combina ben poco, quasi nulla, se non una copertina stile Penthouse. Per questo e molto altro, la chiave di lettura del disco è un’altra: l’esibizione costante di disinteresse da parte di Iggy nei confronti del (relativamente) poco successo di pubblico che la sua musica raccoglie. Lei si dice scettica, di sapere di valere, perciò “fanculo chi non mi comprende“. Ma Iggy Azalea è una megalomane, lo è per davvero. Senza pose, crede esattamente nell’opposto di quel che dice, affamata di notorietà, consapevole che nulla è impossibile e altre amenità del genere da parvenu. La contraddizione di Iggy è che disprezza costantemente/palesemente chi la odia e allo stesso tempo confessa saltuariamente/silenziosamente il suo desiderio che queste persone (e che il mondo tutto) si prostrino ai suoi piedi. Azalea, in overdose da fama, chiede tempo e pietà e ci muore incredula, che il mondo chieda più MCs donne e non sostenga lei, l’unica e sola. Iggy si auto-proclama divinità del rap mondiale-universale femminile in Goddess, su prod. superba di The Invisible Men e The Arcade, ma è un gesto disperato, per prendersi tutto-subito, di prepotenza. Work svela la trama sottaciuta, su produzione di 1st Down e The Invisible Men. Si passa dai versi “this that new classic, ain’t this what annotate you needed - I’m what amazing look like, you’ll recognize it when you see it” di Walk The Line ad una Azalea che torna indietro, ridimensiona e corregge il tiro. Iggy vuole andare oltre, è il suo momento. Non ci crede nessuno, forse nemmeno il suo g i u g n o pride / Oh no, that love shit, I won’t do it. The Invisible Men e The Arcade producono massivamente la maggior parte del corpo-tracce: il suono è elettronico e malinconico, ripiegato su di sé, ma scalpitante. È una combinazione perfetta e il flusso-rap di Iggy Azalea ci sguazza senza affanno, anzi con personalità. Per il resto, The New Classic esce su Island e chiarisce un paio di questioni. Il contenuto è bipartito e la polarizzazione è vasta. Una sezione consistente segna luoghicomuni trap – il mito del more money – more problems, a cui non crede più nessuno -, sciorinati a memoria su beat impeccabili: Mastermind di Rick Ross, a confronto, scompare; nella sezione seconda, Azalea stringe i denti e il mic, e scrive sul serio barriere a tema esistenziale, tipo: sono? Faccio? Farò? Voglio? The New Classic prende la piega del disco personale, sentito e necessario, seppur di transizione. Culmina sul personale con Just Askin’, ipotetica conversazione con l’ex-ragazzo, A$AP Rocky, che si ascolta in simpatia, pur oltrepassandola senza pensarci su troppo. Iggy non cerca vendetta, la sua è una rivalsa rispetto a un passato da genio incompreso, più una questione personale che artistica. Questa la cifra di tutto il discorso: non si parla di musica, si parla di lei, Iggy Azalea, una ragazza che sembra aver capito piuttosto bene i meccanismi mainstream. Patire la propria condizione accresce la simpatia. E’ un vecchio classico e alimenta le speranze di tutte coloro che sul globo terrestre sognano di arrivare a condividere un mic con T.I.. Dunque, lei sedicenne, senza soldi, a Miami, da sola, che sbanca, funziona ed ha una propria funzione. Di lì la storia dei soldi e dell’oro in abbondanza e lei che (purtroppo sono parole sue) può “fare compere ogni giorno“. Sono banalità, con cui la Nostra si auto-flagella, perché chi la prenderebbe sul serio dopo due-tre stro- 123 g i u g n o Emiliano Santoro Il Pan del Diavolo - FolkRockaBoom (La Tempesta Dischi,2014) Genere: rocknroll, folk Quattro anni fa, quando uscì il debut Sono All’Osso, fu difficile rimanere indifferenti di fronte all’irruenza sgangherata ma incendiaria de Il Pan Del Diavolo: una formula costruita sulla scarna potenza di chitarre, sonaglio e grancassa, combinata ad un lirismo combattivo e ironico che ti si piantava subito in testa per non uscirne più. Sono appunto passati quattro anni, e dopo quell’esordio al fulmicotone, nel mezzo c’è stato un altro album, il discreto Piombo, Polvere E Carbone, che, a fronte di questo FolkRockaBoom, appare oggi come un intermezzo necessario per la crescita artistica di Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo. FolkRockaBoom è infatti il terzo album del duo, quello che la vecchia guardia della critica musicale avrebbe definito un tempo come “il disco della maturità”. 124 Aldilà di ogni stereotipo o luogo comune, ascoltando i dodici brani di questa prova appare comunque evidente la ricerca di un’evoluzione, di un percorso in grado di evitare la fossilizzazione entro i limiti di un genere ben preciso: quel combat-folk estremamente immediato e riconoscibile che ci aveva fatto conoscere i musicisti palermitani al loro inizio. Così, l’attitudine punk è stata smussata in favore di un approccio maggiormente bluesy e cantautorale, debitore tanto agli orizzonti desertificati di Gomez, Giant Sand, Calexico, quanto a una scrittura ragionata e più profonda, tutta italiana, a cui si aggiunge un certo gusto per il western morriconiano, iscritto da sempre nel DNA del duo. Ne sono prova brani come la title-track, che potremmo considerare come il riassunto di tutto l’album: canzone d’autore sporcata di polveri folk-rock e vocalità sopra le righe, unita a testi non-sense ispirati dagli strappi della vita quotidiana. Ricorrono ancora Tenco, Rino Gaetano, Edoardo Bennato, oltre alla smania urlatrice di Ghigo Agosti; quello che manca è semmai lo sberleffo debitore alla lezione di Buscaglione. Il tutto suona più serio e dunque più maturo, come confermano i toni polemici di Mediterraneo, altro esempio di quel crepuscolarismo meridionale ma imbevuto d’America che colora tutto il disco, o nelle brume tex-mex di Cattive idee, le stesse che ritroviamo in Un classico, una canzone che potremmo definire d’amore, anche se lontana dai soliti canoni. A confermare la volontà di voler tracciare un ponte ideale tra la fiera appartenenza italica e gli orizzonti sconfinati dell’America, pensano Aradia e Il domani, registrati rispettivamente con Andrew Douglas Rothbard (The VSS, Pleasure Forever) e gli amici Sacri Cuori. Due pezzi che chiudono FolkRockaBoom pagando il tributo a tanta tradizione roots e blues d’oltreoceano, tirando inoltre le somme sulla natura attuale de Il Pan Del Diavolo: esaurita, r e c e n s i o n i mentore T.I.. La storia reggerà a patto che il prossimo disco sia un My Beautiful Dark Twisted Fantasy. Il prossimo album sarà il vero nodo della questione, e fino alla sua pubblicazione The New Classic rimarrà panacea. In caso contrario, Azalea resterà intrappolata nella propria costruzione ideologica, gravitante attorno al principio valoriale: buono è chi mi ama e cattivo chi mi odia. Un’esasperazione da misantropia narcisista. Tutto questo per arrivare a dire che il “nuovo classico” in realtà non è questo, ma quello dietro l’angolo, che sta per arrivare e che prima o poi Iggy Azalea butterà fuori dalla sua testa, si spera. Per il momento ascoltate The New Classic e dite in giro che è un bel disco, altrimenti lei potrebbe non sopportarlo. O meglio, fate quel che vi pare. 7/10 come è giusto che sia, la prepotenza fragorosa del primo e secondo album, rimangono stile e sostanza, un nucleo riconoscibile e originale. Un capitale ancora prezioso tra i nomi del panorama underground di casa nostra. 7.1/10 Giulia Antelli Genere: pop A proposito di Tutte Le Canzoni, debut de Il Triangolo, vi parlavamo di “un esordio che brilla di spinte 60s, in un mix ben prodotto di sonorità vintage, drammaturgia glam e buon cantautorato”. Adesso, invece, il trio varesino si ripresenta sulla scena con Un’America, seconda prova che lo vede distaccarsi leggermente da quel paradigma classic beat/cantautoriale presentato in precedenza. I nove brani di Un’America, infatti, pur essendo ancora debitori verso questa formula di revivalismo pop italiano – laddove, per pop, si intendono anche immaginari e suggestioni non soltanto musicali -, si spostano verso territori maggiormente rock e wave, improntati a testi ben curati e melodie d’impatto che fondono i pilastri della cultura pop del periodo alla verve rumorosa e garagista propria di certi gruppi nostrani. In sintesi, potremmo immaginare i Verdena alle prese con la poesia di Lucio Battisti, anche se le buonissime intenzioni che animano il disco suonano poi diverse dal risultato finale. Un risultato che, pur essendo in grado di offrire qualche episodio convincente, ad esempio l’irresistibile nostalgia di Martedì di settembre, oppure la melodia dolciastra di Avanti, non riesce ad andare oltre un semplice intrattenimento. Parliamo infatti di brani che dimostrano come i tre musicisti abbiano i mezzi tecnici per maneggiare la materia rock (Varsavia, La Playa) Giulia Antelli Jamie Saft – Steve Swallow – Bobby Previte - The New Standard (RareNoise,2014) Genere: jazz Protagonista negli scorsi mesi degli interessanti progetti Plymouth, Metallic Taste of Blood e Slobber Pup, il sempre più poliedrico Jamie Saft torna con un nuovo progetto, questa volta accompagnato da due mostri sacri del jazz e della musica sperimentale: Bobby Previte e Steve Swallow. Se le scorse produzioni – tutte targate RareNoise – si erano distinte per una verve decisamente sperimentale, The New Standard vira verso sonorità più classiche e meno ostiche, in un tentativo magari un po’ ambizioso e bonariamente presuntuoso di scrivere veri e propri nuovi standard jazz. Sezione ritmica esperta, quella formata da Previte (Tom Waits, John Zorn e gli italiani Petrella e Salis, tra le sue collabaorazioni) e Swallow (Paul Bley, Roy Haynes e John Scofield) si sposa perfettamente con i tappeti costruiti da un Saft che in questo episodio passa agilmente dal piano all’organo, alternando momenti più “soft” (la title track, The New Standard), a blues (Blue Shuffle e Step Lively) e episodi più rock (All Things To All People) con gran classe e gusto. g i u g n o r e c e n s i o n i Il Triangolo - Un’America (Ghost Records,2014) unendola ad un mood melanconico ma spesso scontato che, quando spogliato dell’enfasi bohemien propria della lezione baustelliana, si avvicina pericolosamente a una certa retorica adolescenziale e generalista in aria Ministri. Dunque, nel complesso la direzione del disco non riesce a giungere ad una conclusione netta, divisa com’è tra sonorità non originalissime e una nostalgia manieristica per il mondo di ieri, quest’ultimo ancora molto lontano da raggiungere. 5.9/10 125 Scorrevole e leggero (nella accezione più nobile del termine), The New Standard non riscriverà certamente la storia del jazz, ma offre onestà e un’ora di buona musica. 6.8/10 Andrea Murgia Genere: blues, country, folk Dischi postumi come Out Among The Stars hanno sempre un contorno. Nel nostro caso, il contorno è rappresentato dalle dichiarazioni del figlio di Johnny Cash, John Carter Cash, sparse un po’ per tutto il globo terracqueo virtuale della rete. Impariamo così che l’album arriva dai primi anni Ottanta del man in black – più precisamente, le tracce sono state registrate tra il 1981 e il 1984 da Billy Sherrill – e che i dodici (più uno) brani della scaletta latitavano negli archivi della Columbia-Legacy da un bel po’ di tempo. Il Cash di quel periodo esce da una porzione di esistenza non troppo felice: le vendite dei dischi sono in calo, il cinema e la televisione lo affascinano (arriverà a partecipare a una puntata del Muppet Show, e quella non sarà nemmeno l’esperienza peggiore tra quelle collezionate) e storie di droga lo costringono a una riabilitazione forzata che tuttavia dà i suoi frutti. E così oggi ritroviamo lo stesso Cash Junior a sbandierare ai quattro venti il buono stato di forma del padre durante queste registrazioni, tanto da arrivare a scrivere in un track by track per il Guardian che nulla ha di informativo e molto di celebrativo. E’ in effetti vero, però, che il Johnny di Out Among The Stars ha il passo sicuro e una voce ferma come forse si ascolterà solo nei dischi con Rick Rubin nei Novanta. A cui questo, sia ben chiaro, non aggiunge nulla ma non toglie nemmeno nulla. Brani come la title track o She Used To Love Me A Lot sono ottimi esempi di 126 Fabrizio Zampighi Kasabian - 48:13 (Sony Music Entertainment,2014) Genere: pop, rock È ormai opinione diffusa che i Kasabian siano tra i gruppi più spocchiosi e altezzosi che il rock di Sua Maestà sia riuscito ad offrirci negli ultimi anni (l’eredità dei compianti Oasis è passata in buone mani) e che l’avvicinamento ad ogni loro nuovo album è contrassegnato da roboanti annunci ai quali è sempre più difficile non abboccare. Così era stato per l’ultimo (radiofonico) Velociraptor! (acclamato come un disco dal suono “epico”) e per West Ryder Pauper Lunatic Asylum (l’album “perfetto” dei quattro di Leicester), e lo stesso accade per 48:13, il lavoro che segna il ritorno del gruppo in vista dell’headlining per la chiusura di Gla- r e c e n s i o n i g i u g n o Johnny Cash - Out Among the Stars (Columbia Records,2014) una poetica che ha l’autorevolezza per trascendere la nicchia del country (anche se ancora non lo sa), proprio in virtù di quella voce intensa e imponente che tutti conosciamo e di un’intensità nell’esecuzione da pelle d’oca. Il resto è un compendio di crooning (After All), sincopati blues/rockabilly (I’m Moovin On), spoken-country (If I Told You Who It Was), ballad acustiche (Call Your Mother), duetti con la consorte June Carter e via dicendo, ovvero in tutto e per tutto il campionario del Cash degli eighties (ma non solo). Il valore aggiunto dell’album sta forse nella freschezza che si coglie in certi passaggi, negli arrangiamenti impeccabili a base di slide guitar e in linea con la tradizione, ma soprattutto nella testimonianza storica che questo disco rappresenta a undici anni dalla morte del cantante americano. I fan di stretta osservanza non rinunceranno facilmente (ed è soprattutto a loro che consigliamo il disco); per tutti gli altri, la scelta non è obbligata. 6.7/10 r e c e n s i o n i che allo stesso tempo strizza l’occhio alla tradizione e alle tendenze electrodance. 7/10 Marco Frattaruolo The Kolors - I Want (Mr.Boost,2014) Genere: pop, electro La storia dei Kolors si sviluppa dall’incontro dei due cugini Stash (voce, chitarra) e Alex (batteria) Fiordispino con Daniele Mona (synth), e con il trasferimento da Napoli a Milano, che porta la band a diventare rapidamente resident del locale Le Scimmie. Dopo alcuni concerti in giro per l’Europa (Berlino, Stoccolma, Londra…) i primi risultati in patria iniziano ad arrivare dopo il 2012, con il live di spalla a Paolo Nutini e l’anno successivo agli Atoms For Peace di Thom Yorke. Registrato all’interno degli Exchange di Londra, il disco di debutto I Want può contare sul mastering di un pezzo grosso come Mike Marsh – già al lavoro con Depeche Mode, Massive Attack e Chemical Brothers – e la sezione arrangiamenti curata da Rocco Tanica, nome d’arte di Sergio Conforti di Elio E Le Storie Tese. All’interno delle undici tracce sono condensate tutte le passioni musicali del gruppo, che non nasconde minimamente i propri percorsi di ascolto: se No More e Twisting abbracciano completamente l’insegnamento della scuola indie rock di inizio millennio, con schitarrate che ricordano gli Strokes, il disco vira poi essenzialmente verso derive electro alla Chromeo, con giochi dance tutto synth e tastiere (come la divertente Yeah Yeah Yeah – il chorus è un collage di titoli di storici pezzi dei Beatles), con tocchi funk (come suggerisce il titolo di I Don’t Give a Funk, primissimo singolo prodotto nel 2011), e anche episodi blues come Fear Of Loving, evidente tributo a Micheal Jackson, grande passione adolescenziale di Stash. g i u g n o stonbury ’14. Già dal titolo – quel 48:13 che corrisponde al minutaggio totale dei 13 nuovi brani – e dall’artwork minimalista impregnato di un acido rosa shocking, è lecito domandarsi se il gruppo di Serge Pizzorno e Tom Meighan abbia esaurito le scorte di creatività. Dubbi subito ridimensionati dall’avvio travolgente di Bumblebeee, un vero e proprio scatto di reni che si contraddistingue per un potente rock dalle venature elettroniche che va dalle chitarre glitterate dei T-Rex a quelle sovrastate di sintetizzatori di scuola Primal Scream. Basso sontuoso, chitarre sferraglianti e synth rappresentano quindi la perfetta sintesi del suono a cui i Kasabian stanno mirando, una traccia che pertanto va a delineare e incendiare le successive. A partire da Stevie, in cui l’intro scandito da una minacciosa orchestra ci catapulta nel set di uno 007 in bianco e nero, passando dall’esplosione di colori di Doomsday, un carosello di suoni burleschi, e dalle pareti electrorock di Treat, in cui il gruppo inscena uno stordente, e convincente, scenario da bad trip. Poi l’incendio va lentamente attenuandosi (l’ultima scintilla è quella Eez He, acida dance anni ’90 che ha fatto da apripista all’album) e i quattro di Leicester finiscono per rimanere intrappolati in quello stesso vortice che li aveva ispirati (Glass, Explodes, la meno convincete del lotto e Clouds, brano che la stessa band definisce come una “Tomorrow Never Knows riarrangiata dai Soulwax”, per rimanere in tema di modesti proclami). S.P.S, ballata acustica à la Stones avvolta da calorose armonie orchestrali sigla così una lieta e melanconica fine a un album ben riuscito e che dimostra come i quattro siano ancora in grado di rinnovare quella formula electrorock che li ha portati alla ribalta. I Kasabian sono riusciti a spingersi su territori che i Gallagher sono sempre stati riluttanti a percorrere: quel rock impregnato di elettronica 127 Il disco scorre in maniera rapida e piacevole, nonostante la presenza di qualche momento fuori posto come Me Minus You, in cui l’accoppiata piano-voce non produce l’effetto sperato. I Kolors si dimostrano band in grado di poter dire la propria, seppur con la temporanea mancanza di uno stile autentico. Li aspettiamo fiduciosi al prossimo giro. 6.2/10 Daniele Rigoli Genere: pop, dream Fin dall’esordio omonimo, a Katy Goodman, ex bassista delle defunte Vivian Girls, La Sera non è mai sembrato un semplice side project. Se solitamente impegni di questo tipo possono essere visti come divertissement, qui la Nostra porta semplicemente avanti in maniera decisa il discorso della casa madre. Hour of the Dawn, marchiato Hardly Art, è il terzo album in solitaria, ed è un centro pieno. C’è sempre un riferimento atmosferico, in La Sera. Dal nome della band, al titolo del precedente Sees The Light, fino a questo ultimo riferimento all’alba, la ragazza sembra avere sempre lo sguardo puntato al cielo. Ma dove il precedente Sees The Light era un disco di transizione, una sorta di mezzodì del suo songwriting in cui la Goodman cercava di allargare l’armamentario sonoro al folk, oggi il discorso è leggermente cambiato. Viene abbandona del tutto, o quasi, quella propensione cantautorale. Del tutto o quasi, perché è innegabile come il folk (anche se elettrificato) ogni tanto faccia ancora capolino: la title track ne è testimone. La lezione ricavata dagli album precedenti pare metabolizzata: la scelta è quella di non strafare, lavorando su ciò che si conosce meglio. Da qui il nostro giudizio positivo. Fin dall’opening, con la arrembante Losing to the Dark, è una corsa 128 Andrea Macrì Jon Porras - Light Divide (Thrill Jockey,2014) Genere: rock, psych Il deserto ha anche la sua nebbia: questa potrebbe essere la dichiarazione d’intenti che sostiene il quarto full length a proprio nome di Jon Porras, assieme a Evan Caminiti detentore della sigla Barn Owl. Per l’artista si tratta del ritorno alla Thrill Jockey, dopo il passaggio breve, con Orilla Oscura, alla Immune. Porras fa drone music psichedelica: lo scheletro del desert sound qui sembra raggiungere una dimensione sulfurea, anche se meno cupa rispetto ai precedenti lavori solisti o a quelli della casa madre. In alcuni momenti (vedi l’iniziale Apeiron) il suono è ovattato, quasi hauntologico, ma senza la componente ritmica tipica, ad esempio, del dubstep: siamo in verità più dalle parti di Tim Hecker. La trama sonora è infatti quella di un ambient diluita, allungata: più che nel deserto, sembra di stare al centro di un fumoso quadro r e c e n s i o n i g i u g n o La Sera - Hour Of The Dawn (Hardly Art,2014) a perdifiato che non dimentica mai la melodia, un album chitarristico godibile e divertente: Kiss This Town Away, ad esempio, è un pezzo in cui assolo, controcanti e melodia concorrono all’unisono per creare puro piacere nell’ascoltatore, purché non si cerchi il gesto rivoluzionario o bislacco. Scorre liscio, Hour of the dawn, e non annoia grazie anche ai trucchi della scrittura pop di matrice indie: a parte naturalmente le Vivian Girls, in alcuni momenti viene da associare quest’ultima alle Breeders anni Novanta, in altri, addirittura ai Dinosaur Jr. (per i microassoli). Un album solare, mai banale, forse un po’ ripetitivo, fatto con personalità, e mai pura carta carbone di qualcos’altro. 7/10 Andrea Macrì Lily Allen - Sheezus (Regal Recordings,2014) Genere: pop Nonostante la pausa discografica di ben cinque anni, è innegabile come Lily Allen abbia r e c e n s i o n i l’innata capacità di far parlare di sé, nel bene o nel male. Una vita privata costellata di gossip, faide con le colleghe dello showbiz – famosa la guerra a colpi di tweet con Azealia Banks – classici eccessi da pop star tra alcool e droga, e, purtroppo, anche episodi molto delicati, come il secondo aborto spontaneo con successiva rehab per depressione. Scampato il ritiro dalla musica annunciato precedentemente, dopo l’uscita nel 2009 del sophomore It’s Not Me, It’s You, la Allen torna con il terzo album Sheezus. Il titolo, come facilmente intuibile, è un tributo all’acclamato e discusso album di Kanye West. Il disco è un attacco alla scena contemporanea mainstream, a quel circolo comandato dalle etichette discografiche di cui la stessa Lily è vittima/carnefice: basta rileggere i tweet dello scorso mese in cui Mrs. Smile risponde ad un fan che la accusa di fare musica spazzatura: “Faccio quello che posso, le label e le stazioni radio non suonano prodotti di qualità”. Alla faccia della sincerità. E proprio su queste coordinate si orienta un disco dalla chiara forma “ascolto facile”. All’interno delle dodici tracce troppe volte ci troviamo davanti a pezzi eccessivamente ruffiani, come l’infantile Air Ballon con un ritornello al limite del sopportabile, o un Our Time che potrebbe tranquillamente rientrare nel frasario standard di Katy Perry. La necessità di tenersi al passo con in tempi traspare nell’auto-tune di Hard Out Here, con facili rimandi EDM a stelle e strisce che non alzano certamente l’asticella. C’è però un lato che riesce sempre e comunque a tenere la Allen a galla, ed è la qualità dei testi (nell’ambiente pop, taglienti come pochi): URL Badman è un irriverente sberleffo agli hater da tastiera “Real talk, I put the world to rights, and when I’m a big boy I’m going to write for Vice”, che purtroppo non si lascia scappare il tocco brostep un po’ fuori posto; Silver Spoon è invece rivolta a chi le rinfaccia una vita ado- g i u g n o metropolitano, salvo per quei momenti in cui la luce del titolo del disco e della sua copertina fa capolino. È quel che accade in episodi come Recollection, in cui Porras tiene sullo sfondo una angelica, tenue melodia, e le contrappone in primo piano il lavoro sul controllo del suono. La componente chitarristica e blues (quella che, per esempio, in V dei Barn Owl era ben rappresentata da The Long Shadow) pare essere completamente evaporata in favore del lato più drone. A questo si affiancano episodi più onirici, come New Monument, brano lento, sospeso, diviso in quasi egual misura tra silenzio e suono, punteggiato da inserti a volte concreti, a volte aerei. L’unico, parziale problema del disco è che le idee sul suono non vengono approfondite ma spalmate: alcune intuizioni che potevano essere sintetizzate in un pezzo solo vengono riutilizzate in altri brani. L’effetto è dunque quello di una ripetitività di base che alla lunga fa suonare alcune parti come poco funzionali al risultato finale. E questo discorso sarebbe riconducibile a tutto il programma, influenzandone negativamente il giudizio, se per fortuna Porras non infilasse a volte dei dettagli che aumentano le sfumature: qui è un pattern ritmico spezzettato, qui una spruzzata glitch. Tutti elementi che potrebbero sembrare di poco conto, ma che giocano alla fine una parte fondamentale, salvando un disco che, altrimenti, verrebbe ricordato solo per l’abbandono (forse) definitivo, da parte dell’autore, della componente chitarristica del passato. 6.4/10 129 g i u g n o Daniele Rigoli Little Dragon - Nabuma Rubberband (Because,2014) Genere: pop, dream Inserito perfettamente in una tela del ragno d’elettroniche in combutta soul, Ritual Union nel 2011 aveva riassunto alcuni filoni dell’annata e del cambio decennio con una fresca e ancor di più elegante trama melodica che sapeva inserirsi in molteplici macro discorsi di fruibilità ritmiche e dance senza rimanerne troppo invischiata. In poche parole, aveva rappresentato l’apice di un quartetto dalla breve ma intensa discografia (Machine Dreams e Little 130 Dragon) che in più occasioni aveva mostrato di sapersi – e volersi – declinare in senso intimista (ed essenziale), dando cioé ampio spazio al canto vellutato di Yukimi e riducendo l’arrangiamento ad organico accompagnamento. Registrato durante l’inverno a Goteborg in un contesto più rilassato e quindi non più nei tour bus come il precedente, Nabuma Rubberband - quarto album del quartetto svedese – approfondisce proprio quest’ultimo aspetto in una tracklist che si sposa maggiormente con le radici jazz di Yukimi e che si rifà, per stessa ammissione del gruppo, anche alle ballad di Janet Jackson e al catalogo più sperimentale di Prince. Dominano le slow jam quindi, ma la band tutta non si limita ad accompagnare e, anche questa volta, pensa in grande. Stabilita la rotta su un soul confidenziale non lontano da Frank Ocean – altra influenza dichiarata – la formazione arricchisce le trame con inserti inediti. Pretty Girls, ad esempio, si avvale della sezione d’archi della Gothenburg Symphony Orchestra, Only One staglia un apreggio elettronico che pare venire dai lavori ambientali di Aphex Twin per poi risolversi in una scura cassa dritta, mentre Mirror, scritta con la collaborazione di Dave dei De La Soul, è un coup de théâtre di tocchi noir quando anche la titletrack apparecchia un ricco parterre di trovate d’antan dalle parti di Amy Winehouse. Altrove, ritroviamo riconoscibili, non banali ma neppure memorabili, numeri synth-danzerecci (Paris), un isolato espisodio melodicamente debole come Underbart e in generale un canzoniere che per capacità e bravura dei Nostri potrebbe tranquillamente venir replicato all’infinito. Contrariamente a Dev Hynes / Blood Orange, che ha dimostrato nell’ultimo Cupid Deluxe di saper riassumere in una formula perfettamente pop tutta una serie di eroi che sono anche quelli dei Dragon, Nabuma Rubberband scivola r e c e n s i o n i lescenziale troppo agiata, contro cui la Nostra si scaglia con un tocco ironico ma non troppo: “Sucked dick, got signed to a major, I’ll do anything just to entertain yer”. La title track è, invece, uno dei dissing più espliciti degli ultimi tempi, dove Lily non salva dalla scure praticamente nessuno: Lorde, Beyoncè, Rihanna, Katy Perry e Lady Gaga. Eppure la Allen dà il meglio di sé quando smette di prendersi sul serio, con tracce più genuine e spontanee: ne è prova la divertente As Long As I Got You, coinvolgente nel suo ritmo country-esotico, o Life For Me, che ricorda quell’affascinante ragazza londinese con la faccia d’angelo di Smile e LDN, mentre l’ovattato r’n’b da luce soffusa di Close Your Eyes resta l’episodio più convincente. Un disco con troppe lacune e pochi sussulti prova che Lily Allen ha voluto consapevolmente giocare dentro lo stesso sistema di regole delle colleghe, ritagliandosi un ruolo di arguta e spigliata ragazza “della porta accanto” senza riuscire a convincere noi e forse neppure se stessa. Del resto le sue parole sono chiare: “voglio semplicemente che il disco venda abbastanza da permettermi di farne un altro”. 6/10 troppo spesso in un lussuoso anonimato soul/ r’n’b che gli arrangiamenti riescono a equilibrare bene ma non ad invertire completamente di polarità. Yukimi non suona affatto fredda o poco appassionata, semplicemente ciò che dice, anche con fare liricamente più diretto e scoperto, non si traduce in quella memorabilità pop che, sotto sotto, è tutto ciò che quest’album cerca. 6.8/10 Edoardo Bridda Lo stato sociale - L’Italia peggiore (Garrincha Dischi,2014) Genere: cantautori, indie, post-punk, spokenword_ A due anni dall’esordio Turisti della democrazia, che tra entusiasti e detrattori si guadagnò una visibilità piuttosto consistente, ecco arrivare l’atteso sophomore de Lo stato sociale. Sulla carta questo L’Italia peggiore potrebbe fare anche meglio, almeno sul versante dell’airplay, rilanciando difatti la capacità della band bolognese di azzeccare situazioni intriganti a pronta presa. La formula è la stessa, sloganistica, arguta/acuta, servita su basi pop variegate, si tratti ora d’un post-punk elettrizzato e sintetico, ora di reggae/ska plastificato o ancora di electro-dance grossolana colta al crocicchio di sparsi azzardi hip-hop. Questa esuberanza stilistica sembra mirare proprio all’indistinto musicale, come se l’aspetto sonoro della faccenda non fosse che il reagente del principio attivo rappresentato dai testi, ai quali spetta il compito di fustigare usi e costumi (anche e soprattutto mentali) di un (bel)Paese in balia della turbo-modernità. In un certo senso è l’altra faccia della medaglia Vasco Brondi o una declinazione meno adrenalinica de I Cani, rispetto ai quali la differenza principale è che l’epos resta sullo sfondo, residuo fisso di un processo sì cannibalistica- g i u g n o r e c e n s i o n i reading mente emo(tivo) però vieppiù satirico, quando non soltanto umoristico e comunque quasi sempre divertente. Pur ammettendo che questo ambito possa rappresentare un limite fisiologico, va detto che ai ragazzi non manca il talento: si ascolti C’eravamo tanto sbagliati, sorta di Cosa sarà 2.0 corroborata da sdegno sfanculante Zen Circus, oppure quella La rivoluzione non passerà in TV che dietro la parafrasi dell’immarcescibile assunto di Gil Scott-Heron cela una mitragliatrice di sentenze adesive (“l’inferno è il paradiso prima che venga la gente“), mentre Io, te e Carlo Marx azzecca l’equilibrio ideale tra leggerezza strutturale e risvolto amaro (“lui muore schiacciato dalle lamiere e non puoi farci niente/ forse è per questo che continui a cantare o a fare il deficiente“). In Questo è un grande Paese poi il metodo viene spinto al limite, coinvolgendo la strana accoppiata PiottaMax Collini per un cortocircuito tra coatto paraculo e sarcasmo disarmante che surfa sulla spuma del trash, per inoculare lucidità neuronale all’auditorio: missione sostanzialmente compiuta, anche al netto del retrogusto di paraculaggine. La svaccata però è sempre in agguato, basta poco per scivolare nel grossolano, vedi la latineria rock di In due è amore, in tre è una festa (come un Paolo Zanardi depotenziato Pieraccioni) o Instant Classic con le sue scenette anti-selfie snocciolate da Caterina Guzzanti (vago effetto da Elio e le Storie Tese androidi). Altrove – peggio – si scivola nell’insulso, come capita al reggaettino serafico di L’amore non è una cosa seria (dalle parti del radiofonico astuto/ricercato, roba che potrebbe cantare pure un’Arisa) ed al perculamento del romanticismo sgrammaticato vascorossista in Te per canzone scritto ho. Su questi binari il gioco perde efficacia, ha poca speranza di lasciare segni profondi e rischia di esaurire il potenziale 131 g i u g n o Stefano Solventi Lone - Reality Testing (R and S Records,2014) Genere: house, hiphop Il nostro Gabriele Marino, a proposito di Galaxy Garden, precedente album di Lone, parlava di automatismi generalizzati, di isolate stoccate di qualità all’interno di un contesto fin troppo omogeneo tra beats e richiami melodici. Stessa cosa può dirsi per Reality Testing. Se possibile, però, le intuizioni degne di nota sono ancora meno. Il disco si apre con Restless City, house ruvida dal gusto Roulé-Crydamoure, ricordo sbiadito degli antenati di Chicago e New York, ma comunque apprezzabile indicazione della direzione sporca e lo-fi seguita dal produttore di Nottingham. Gli stilemi house dell’incipit, dice lo stesso autore, si mescolano a quelli hip-hop, sia per impostazione grezza, sia – aggiungiamo noi – per anonimità tendente muzak. Da 132 una parte quindi i numeri da club, risultati di anni di oneste produzioni, ma che delineano una parabola creativa vicina alla saturazione. Si battono territori piano-house (Aurora Northern Quarter, Vengeance Video), si apre alla pista più convenzionale con brass-synth digitali (Airglow Fires, Coincidences) per tornare alla sporcizia in cassa dritta (Begin To Begin). Poi i beats, poco convincenti come le tracce pensate per il dancefloor, e che ugualmente a queste non riescono ad invertire il senso di un discorso fondato su basi troppo fragili, su trick giocati sempre alla stessa maniera. Le atmosfere ovattate, i vocalizzi e gli arpeggi di Cutched Under, per quanto cerchino di uscire dal segnale piatto delle collaudate linee sintetiche in salsa west-coast (2 Is 8, Meeker Warm Energy, Jaded), assomigliano troppo ad un altro colpo a sparato a vuoto. Per Reality Testing non può valere nemmeno il cliché del buon artigianato. Sostanziale mancanza di idee, accompagnata da una produzione tutto sommato prevedibile. 5/10 Elia Galli Luke Abbott - Wysing Forest (Border Community,2014) Genere: techno, idm Dopo il collega James Holden, anche Luke Abbott chiude il cerchio e pubblica il secondo album, quattro anni dopo l’esordio. Se per il fondatore di Border Community The Inheritors aveva segnato la secca deviazione dalle microframmentazioni dancefloor verso ibridi broken-electro, il passaggio da Holkham Drones a Wysing Forest non è cambio di segno così radicale. Si riconoscono ancora le venature tipiche di una matrice kraut-techno mai messa da parte, ma questa volta i protagonisti sono i giochi armonici di sintesi modulare. C’è ancora spazio per la materia da club, ma è nascosta tra r e c e n s i o n i nel giro di pochissimi ascolti. Non è un difetto da poco. Se l’intenzione era insediarsi su una linea di confine che permettesse al quintetto di galleggiare a piacimento tra gravità pseudo-cantautorale e cazzonismo sferzante, tirate le somme non è andata benissimo. L’impressione è che manchi un po’ di consistenza del vissuto, un senso preciso di coinvolgimento, provenienza e appartenenza rispetto a ciò di cui si parla. C’è come una febbre di narrazione che soffoca l’incisività del narrato (vedi come Linea 30 fa ricalcomania Offlaga sterilizzando così il quid drammatico ), del resto ben noto effetto collaterale – con tendenza a cronicizzarsi – della logorrea blogger/social. In questo senso, val bene chiudere il cerchio su un modello di riferimento come Rino Gaetano, per rimarcarne però la distanza. 6/10 Elia Galli Metrist - The People Without (Resin,2014) r e c e n s i o n i definisce in maniera univoca il suo concetto di techno. Nella musica del produttore di Cambridge, pensata quasi esclusivamente per la pista, convergono i ricordi drum’n’bass degli ascolti giovanili e le inflessioni più abrasive dei magisteri detroitiani. Doorman In Formant è uno sfregio in overdrive, sono schegge rave che si piantano sulle drum machine spezzate (Third Law, Leviathanks) e sulla cassa dritta (Lofstrom). Una produzione scarna, diretta, essenziale. C’è Detroit, dicevamo, non tanto a livello stilistico, quanto piuttosto a livello ideale: la rivincita dell’uomo sulla macchina. Abbiamo chiesto a Metrist da dove venisse la sua musica, che cosa ci fosse dietro, e ci ha risposto: “rappresento la reazione techno alla recessione economica”. In questo senso, quindi, si svela l’immagine elettronica di un post-industrialismo umanizzato, di un mondo ideale dove il rapporto di forza bracciacomputer è finalmente invertito (6.5/10). The People Without, rilasciato da Resin – neonata etichetta londinese, già indirizzata verso territori molto simili a quelli segnati da questi lavori – è l’effettivo compimento delle intenzioni delineate con il disco precedente. Le ritmiche break, ancora sporcate dalla polvere, ancora tagliate dai sintetizzatori distorti, restituiscono tre tracce (Letch, Symphony For The Palpitation, Cowlick) che sono take allo stesso tempo più maturi e più autentici rispetto ai numeri di Doorman In Formant. Poi, in chiusura, le kickdrum a battito regolare di Stanza For The Weak, corsa galoppante sotto una pioggia di scaglie sintetiche, infinito rettilineo techno verso l’utopia dell’emancipazione dalla catena di montaggio (7.0/10). -1/10 g i u g n o le malinconie sfumate ambient delle campagne inglesi. È da Cambridge, dalle desolazioni rurali del Wysing Arts Centre che ha ospitato Abbott per due settimane di residency, che nasce questo disco. Quadretti bucolici (Two Degrees), escursioni analogiche (Tree Spirit), spleen di sintetizzatori e ritmiche sbilenche (The Balance Of Power), Wysing Forest sembra la conseguenza di un gusto ormai lontano dalle traxx, e più vicino alle costruzioni immaginifiche di filtri e oscillatori. Poi, dalla nebbia, emergono cose come Free Migration, che tornano ai quattro quarti sul velluto, con arpeggi e laser sintetici a fare da cornice. Oppure Highrise, sensazione trance di schegge impazzite sopra un tappeto di delay. Aperture alla pista che potrebbero facilmente suonare fuori contesto, ma che qui sono perfettamente innestate sull’onirico flusso downtempo. Un flusso introdotto con i 12 minuti di Amphis, secondo numero in tracklist, compendio essenziale sul quale si basano le forme soniche di tutto il lavoro. Improvvisazioni modulari e drum machine sincopate, esplorazioni sonore alla maniera kraut di Conrad Schnitzler, manifesto utopico del nuovo corso. Non dimentica le sue origini, Luke Abbott, e non tenta nemmeno la difficile operazione di ribaltamento totale di prospettiva rispetto ad una discografia fino ad oggi impeccabile. Wysing Forest riesce però a disegnare morbidi elementi di rottura, inediti scenari electro-pastorali che confermano la qualità delle visioni di uno degli impulsi elettronici più vivaci dell’ultima decade. 7.2/10 Elia Galli Genere: techno Attivo già da un paio d’anni, nel 2014 Metrist 133 g i u g n o Nagel - Seven Songs For A Disaster (Trovarobato Parade,2014) Genere: post-punk, electro Elettroclash e DIY cazzeggiometrico ed epicureo delimitano i bagordi dei Mitici Gorgi. Progetto che nasce fra Siena e Roma nel 2007, ma solo quattro anni fa trova spazio nel circuito indie con I demoni ½ uscito per la loro Millessei dischi fondata proprio in quegli anni. Puro ritmo tardo sovietico (Musicalmente scarse, Mungila, Boja) tra Dirty Projectors e CCCP, pezzi dove non si capisce chi tiene la barra dritta (Campacavallo, Tpoz, Piazza cretina), potpourri grime (La sirenata, I Need the Wany) e post punk congenito/dreamy (Il dadarock, The Waiting Song) servono a chiarire che basta niente per divertirsi oggigiorno. Bravi a trattenere un proprio strutturalismo nella gincana elettro punk svigorita, se la tirano un po’ citando Skiantos, ben sapendo di andarvi oltre, senza staccare il culo dal proprio muretto a bere birra in comitiva. Oltre, nel senso formale del termine, non sostanziale. Questa si chiama attitudine. Cosa aggiunge In the Gorgi Show, loro reale disco d’esordio? Tanta altra attitudine! Maggiore assurdità imprigiona una luce più glauca sui brani, un po’ remake del demo di quattro anni fa, un po’ inediti. Senza arrivare a citare “i cacai nelle cacaiete…” di Ionesco, l’atteggiamento, pur nell’effimero e incompiuto percorso artistico, inizia ad essere quello, anche se in una versione fake-virale, e non può non far piacere, soprattuto se, come crediamo di aver capito, si ricerca un approccio teatrale quanto più durevole all’azione scenica (Chin chon, Venerdì film, Zenzero). I Mitici Gorgi sanno rivolgersi ai generi con vigorosa personalità, mostrandosi un buon antidoto al penoso revival imperante che vuole tutto dentro e niente fuori. 7/10 Genere: elettronica, contemporanea Ambienti diluiti, ma senza cromia; ambienti differiti, cooptati nelle colpe-espiazioni date dal tempo perduto (la bellissima Three Days Without), dai disastri che allontanano l’uomo dalla natura; ambienti elettrostaticamente lugubri, jazz, ipertensione, hard e hardcore, ancora spazi screzianti e gonfianti (Spit It Out). Esordio stiloso, quello di Nagel, duo composto da Alberto Fiori e Francesco Guerri dietro il marchio di Trovarovato, che colloca il progetto nella collana Parade. In realtà, in press sheet, lo si definisce un “solista bicefalo”, a detrimento di quanti potrebbero pensare a due equidistanze. In questo debutto, poco lineare, c’è una sostanza che attesta tenacemente le abilità del bicefalo più che una sua brama espressiva. Prendiamo Open City, in cui il violoncello graffia una nemesi grind per poi svelarsi flessibile, acquoso, meditabondo. Dove vuole andare a parare? Qui c’è sì molta classe, ma poco discernimento e la tecnica finisce per troppo prevalere. Meglio il finale che tratteggia un destrutturato, uno sciogliersi preterintenzionale. Deep into: qui si passa oltre e attraverso la musica. Oltre un accademismo certo, ma attraverso un camerismo ingentilito (come nella secca apocalittica di It Started In a Finger) che non taglia mai, preferendo forme oblunghe o la neoclassica sponda ambient (But First) giro Erased tapes, che amoreggia con europeistico jazz d’avanguardia (Nails). Quello che invece fa fenomeno è la duttilità del duo di cambiare spesso leitmotiv all’interno dei sette episodi, da un registro-sezione ad un cambio di timbri senza disdire un disegno che tuttavia non si palesa emotivamente, nemmeno nella sua prescienza di matrice teutonica. 6.5/10 Christian Panzano Christian Panzano 134 r e c e n s i o n i Mitici Gorgi - In The Gorgi Show (Millesei,2014) Genere: pop, rock, indie Appena nati, già spaccano in quattro il capello di un indie pop accattivante ed energico. I Nothing For Breakfast sono un quartetto fiorentino col vizio del post-punk anni Ottanta visto attraverso la lente del revival anni Zero, vedi la grinta giocosa quasi Franz Ferdinand di episodi come Yes, It’s Ok e Mrs Queen. Malgrado il cantante e chitarrista (Jonathan Shackelford) denunci origini americane, l’imprinting sonico è chiaramente britannico, col gioco nervosetto delle chitarre a tessere intrecci effervescenti sempre però al servizio di una vena melodica marcata (Pretty Girl), un po’ come dei cuginetti arguti degli A Toys Orchestra. Malgrado la cifra accomodante e a tratti innocua, hanno il merito di non suonare banali, anzi condiscono il piatto con humour, dinamismo e modulazioni melodiche da band navigata. Un ottimo biglietto da visita. 7.2/10 Stefano Solventi Odonis Odonis - Hard Boiled soft Boiled (Buzz Records,2014) Genere: shoegaze, industrial Hard Boiled Soft Boiled è il secondo disco degli Odonis Odonis, un lavoro in realtà abbastanza tribolato. La storia è semplice ed è questa: eccezion fatta per New Obsession, tutti i brani del disco erano stati scritti nel 2009, ancor prima del debutto Hollandaze, e avrebbero dovuto vedere luce nel 2012 per Fat Cat. Poi, la freddezza dell’etichetta canadese ha costretto Dean Tzenos ha rivedere i propri piani e a posticipare l’uscita in questo 2014, trovando la sponda buona con Buzz records. A complicare ulteriormente le cose c’è anche il fatto che Hard Boiled Soft Boiled è disco spaccato a metà, come dimostrano i due singoli Angus Mountain e Order in the Court. C’è, per l’appunto, un lato hard boiled che conferma l’approccio lo-fi e l’aggressività industrial gaze del leader Dean Tzenos, e uno soft boiled leggermente predominante, in cui è di casa uno shoegaze dream pop armato di malinconia. Insomma, sarà per la gestazione particolare o per questa scelta compromissoria di dividersi in due anime, ma l’abum, pur producendo una buona tracklist, è interlocutorio. Le cose migliori arrivano subito, quando la mano industrial è più pesante e le velocità più elevate, mentre gira più stanca la sezione dream gaze, in cui si alternano episodi di buon pop 80s (Highnote e Angus Mountain) con inutilità sul modello Transmission From the Moon, e in questo senso poteva far comodo continuare a flirtare la corrente surf che aveva dato vivacità e originalità al debutto. Si giunge così alla conclusione che Hard Boiled Soft Boiled torni utile per ampliare le schiere di fan (qualche cuore gaze poppettaro cadrà sicuramente nella rete) ma rappresenti un passettino indietro per la band canadese. 67/10 g i u g n o r e c e n s i o n i Nothing For Breakfast - Nothing IIII Breakfast EP (Autoprodotto,2014) Stefano Gaz Pierre Ferrante - You, Babe (Pippolamusic,2014) Genere: cantautori, dream, folk Uno dei difetti più comuni riscontrabili nella fiumana di nuove proposte è la mancanza di peculiarità, tanto dal punto di vista dei suoni che – soprattutto – dell’interpretazione canora. Di ottime idee melodiche e armoniche supportate da una buona preparazione tecnica ne capitano abbastanza spesso, moltissime delle quali però svalutate da una voce canonica, persino in possesso di buoni requisiti ma incapace di oltrepassare gli steccati del già tracciato in ambito rock, pop, folk eccetera. Una voce che 135 g i u g n o 136 momento il consiglio è: scopritelo. 7.1/10 Stefano Solventi Pipers - Juliet Grove (Pippolamusic,2014) Genere: pop, brit, indie Quando è stato pubblicato – lo scorso gennaio – non ci abbiamo fatto caso. Colpa nostra, però va detto che non è facile prendere atto di ogni titolo in un mercato discografico tanto smagrito nelle risorse quanto affollato di uscite. Del resto ci eravamo perduti anche il predecessore, quel No One But Us che nel 2010 segnò il debutto dei Pipers. All’epoca il trio napoletano già dimostrava un’attitudine indie pop ben strutturata, che difatti non mancò di meritarsi plausi e attenzione in giro per l’Europa, nonché il ruolo di opening band per calibri come Charlatans, Turin Brakes e Ian Brown. Il qui presente Juliet Grove prende il titolo da una via di Wolverhampton, città dove i Nostri hanno soggiornato per le incisioni sotto la supervisione del producer Gavin Monaghan (Editors, Ocean Colour Scene, Paolo Nutini), che ha smistato gli ingredienti (oltre le chitarre ci sono pianoforte, violini, mellotron, armonica, vibrafono…) ottenendo una trama sonora assieme accorta e generosa. Il risultato è già apprezzabile per gli standard british, ma diventa notevole se proiettato sullo scenario nostrano. E non perché i tre ragazzi s’inventino chissà cosa, ma per la naturalezza con cui sciorinano ballate morbide o intriganti, denunciando ascendenze dreamy che nobilitano l’approccio NAM (il languore ricercato Left Banke di Just A Lie, i miraggi Mojave 3/Clientele di Ask Me For A Cigarette), senza però disdegnare aperture emotive Elliott Smith (tra risvolti rag agrodolci di What I Mean To Say), digressioni cinematiche (le pennellate mariachi tra brume r e c e n s i o n i insomma sia QUELLA voce e non altre. Con quella cosa precisa che gli rode in petto. Ecco, nel caso di Pierre Ferrante invece si va parecchio vicino all’inconfondibile. Il suo è un timbro da chansonnier soul inciampato sul vialetto ghiaioso della bossanova sotto le stelle di un jazz friabile, più esausto che languido, in bilico tra il querulo e lo sfrangiato, comunque sempre abbastanza vitale e nervoso da non farti abbassare la guardia. Non è la sola (gustosa) stranezza nella faretra di questo cantautore autarchico (all’anagrafe noto come Pietro Zazzarini). Le dieci tracce del qui presente You, Babe – secondo album dopo l’esordio autoprodotto Annabelle di pochi mesi fa – smagliano trame bossa e soul alla luce di un folk frugale, cantato perlopiù in inglese (a dispetto dei titoli spesso in italiano o francese) ed inciso in perfetto stile DIY a casa propria (voce e chitarra), ma questa sobrietà strutturale non impedisce l’innesco di situazioni affascinanti. Vedi la title-track, col testo in francese e gli sfasamenti assieme garbati ed enigmatici come un Fabio Concato posseduto da John Martyn, oppure quella specie di Nick Drake con licenza di svariare gospel de Il profumo, o ancora il Jeff Buckely ipnotizzato Vincent Gallo di Non piangere, per non dire di Ehi, tu – unico pezzo in italiano – che stiepidisce un afflato soul Enzo Avitabile tra quarti di nobiltà malinconica Buckley (stavolta però Tim). C’è posto anche per qualche azzardo, come la fugace trasfigurazione electro/hip hop in Jodie o il trapasso macchinoso tra strofe e chorus di Ora..è, pezzo segmentato fino alla forzatura eppure ugualmente suggestivo. Un lavoro notevole, quindi, al di là della sensazione d’insolito o – se preferite – dell’aura cult. Resta da capire quanto questa calligrafia possa ambire a dimensione più nitide e compiute, o semmai reiterare se stessa in questo godibile limbo di piccoli budget e bassa fedeltà. Per il desertiche di Outside Your Back Door) e contagi 80s (gli Echo and The Bunnymen pastello di You and Me, il ritornello quasi Level 42 di Something Wrong). Soprattutto, sembrano riempirle di qualcosa di sentito, di vivo. Indie pop sì, ma col piglio di chi ci si aggrappa come ad una componente essenziale dello stare al mondo. Questo, più di tutto il resto, fa la differenza. 7/10 Stefano Solventi Genere: rock, kraut L’occasione di questo Live3 è ottima per recuperare anche l’album “genitore” Cube, uscito per Brigadisco, FromScratch e un’altra manciata di ottime label italiane qualche mese addietro e colpevolmente passato sotto silenzio da queste parti. Album genitore dicevamo, perché questo Live3 ne è la versione, anzi la visione, live con una serie di aggiustamenti di tiro e sistemazioni di rotta che, paradossalmente, ce lo fanno preferire. In Cube la materia noise-rock/ math-rock che sta alla base del progetto sin dai primi vagiti – Kimidanzeigen e l’omonimo esordio – viene ammantata da forti tinte kraute, dilatata e reiterata come d’ordinanza, resa oblunga e “intrippante” sulle coordinate spacey dei maestri tedeschi dei tempi che furono. Ma a venire innervata nelle musiche chitarristiche dei tre è anche una buona dose di “cassa dritta” alla maniera di certo p-funk dei tempi (la seconda metà di Bombshell), che trasforma il motorik in qualcosa di altro, così come altrove a prendere il sopravvento è la kosmische materica a suon di wah wah seventies (Beacon) o una idea krauta ringiovanita alla maniera – per fare un nome – dei Moon Duo/Wooden Shjips, tra rigidità e percussivismo atavico (Cube). Strano a dirsi, ma il tutto sembra rimanere g i u g n o r e c e n s i o n i Plasma Expander - Live3 (Brigadisco Records,2014) sospeso in una sorta di stasi, che invece libera tutto il suo potenziale “non consolatorio” nel corrispettivo live. Sembrano emergere in una materia ovviamente non dissimile – Beacon ed Exploder provengono da Cube, mentre Hands In Your Guts e Why Not dalla terra di mezzo Kimidanzeigen; l’unica inedita è la conclusiva Otra Vez – slanci impro e aggressività recuperate dal passato e dal proprio universo di riferimento (Shellac o all’hard-rock mutato made in Bron Y Aur): il sound ne esce più materico e roccioso, non perdendo in dilatazione krauta ma acquistando energia, tanto che l’insieme risulta molto più vicino agli infuocati live, appunto, della band. Territorio su cui sempre più ci si conquista credibilità e rispetto. Discorso a parte per la conclusiva, relativamente breve, Otra Vez: stato dell’arte e indizio di ciò che sarà, la traccia – monotona, circolare, shellacchiana nel suo incedere – sarà la pietra di paragone su cui si baserà il prossimo lavoro targato Plasma Expander: un album di remix a cui parteciperanno, tra gli altri, Barry London (Oneida), ZA!, Simon Balestrazzi, Luca Ciffo (Fuzz Orchestra), Mattia Coletti, ecc. 7/10 Stefano Pifferi Prins Thomas - Prins Thomas III (Full Pupp,2014) Genere: disco, spacey Terzo capitolo formato album dell’opera del Prins Thomas solista, rilasciato dall’etichetta di casa Full Pupp. Il norvegese di Oslo – figura di rilievo di quella scena space-disco che può contare anche sulle teste di Hans-Peter Lindstrom, Diskjokke e Tood Terje, per citare i più in vista – completa la sua personale trilogia con un lavoro che rappresenta la solida conferma della sua cifra stilistica. Un cocktail di disco-music, atmosfere spacey, chillout ibizenchi e impostazioni chitarristiche 137 g i u g n o Elia Galli 138 Röyksopp - Do It Again (Cherrytree Records,2014) Genere: pop, synthpop, elettronica Robyn è la disco-diva svedese anni 2000: in un possibile paragone con gli anni Settanta potrebbe essere Donna Summer, con gli anni ’90 Miss Kittin, mutatis mutandis, cioè senza la sensualità della prima e senza le droghe della seconda. I Röyksopp invece sono i re dell’indietronica anni Zero. Nel 2001, con Melody A.M., hanno portato avanti un sentire glaciale e slow che di lì in poi avrebbe influenzato tutta la successiva decade synth-disco-pop. L’incontro fra i due artisti era già avvenuto in varie collaborazioni sia da studio (The Girl and the Robot su Junior e None of Dem da Body Talk) che dal vivo, e la liaison sembra continuare a portare frutti degni di nota. Il nuovo disco – che è un EP con velleità da album – riprende in maniera sopraffina i trucchi produttivi di Svein e Torbjørn, mescolando il loro savoir faire con la voce della cantante in un intreccio ben dosato, mai banale e godibilissimo sia per l’ascoltatore occasionale di musica pop che per l’amante della softronica nordica. La palette sonora spazia dal jazz slow à la Morphine (l’estatica opener Monument) alla techno progressiva con qualche ricordo neanche troppo mascherato delle produzioni di The Hacker (Sayit), dalla EDM-house da stadio tipo Avicii (Do It Again farà sicuramente il botto in America) all’electro pop bambolina (Evey Little Thing), per chiudere con la malinconia ambient di uno Jori Hulkkonnen (Inside the Idle Hour Club). Insomma, un disco che non aggiunge molto a quanto già detto dai due produttori e dalla cantante, ma che si fa ascoltare anche in maniera ripetuta, se non altro per l’ottima capacità di adattamento allo zeitgeist musicale contemporaneo dei due produttori, che usano la voce di Robyn come un tool, lasciandole poche r e c e n s i o n i kraut d’ispirazione Michael Rother (Neu!). Prima ancora degli insegnamenti di Bjorn Torske, fulcro di tutta l’elettronica scandinava di matrice dance dalla fine del secolo scorso in poi, nei dischi di Prins Thomas si respira il soffio minimale del Manuel Göttsching (ex-Ash Ra Tempel) di E2-E4. Un minimalismo ipnotico di giochi di delay, echi armonici, manipolazioni sonore fluide e graduali. Numeri che riescono anche a Thomas, non tanto quando cerca di metterli in pratica sulla lunga distanza (i 13 minuti di Luftspeiling, trascurabili), ma piuttosto quando concentra il tutto in piccoli quadretti di chitarre in wah-wah e bassi sintetici (Kavaler), oppure quando si improvvisano jam session virate funk con abuso di effettistica (2000 Lysar Fra Morellveien). La vena più disco, ma disco rigorosamente sui 100 bpm, si palesa nei tappeti di synth di Hans Majestet, pezzo d’apertura, e nelle fascinazioni mediorientali miste analogico di Arabisk Nutt (Dub) e Kameloen. Sui 115 battiti, Trans: meticcio techno a cassa dritta, potenziale materia da club, drum machine inflessibili sul fraseggio sintetico. Meno marziali e più housey, invece, i bleep di Labyrint e le ritmiche scomposte di Apne Slusa. In Prins Thomas III c’è quello che ci aspettavamo. Una miscela ben dosata di tutte le influenze di cui sopra, nata qualche anno fa come free-form di marca balearica, e oggi auto-definita da confini che sembrano più circoscritti. Cose comunque collaudate, che insieme alle occasionali ricognizioni verso terreni meno esplorati in passato, siglano un disco di buon pregio. 6.8/10 aperture e costruendo una macchina tech quasi senz’anima, glaciale e motorik. Una riconferma, quindi, ma senza il botto. 6.7/10 Marco Braggion Genere: cantautori Cosa farcene della nostra cara canzone popolar leggera, con quei bei declamati di seguitata lode? E di mezzo secolo e oltre di musica che ha, a ragion veduta, unito – nel conformismo? – dove niente e nessuno mai, una nazione divisa tra contado e macchine a vapore? Chiedetelo pure a Mirco Mariani che nell’impresa denominata Shaloma locomotiva porta con sé questo vulnus d’incisi e frattaglie, stile 45 giri rotto e reincollato col nastro adesivo. Saluti da Saturno è il progetto flexible-lunare che già col lavoro precedente, Dancing Polonia, aveva dato di che pensare: estetica hipster e allure da pianobar, appeso fra cispose stradine di piccole città. La particolarità del progetto dalle braccia aperte, sta nella fugacità dei testi e nella ricerca elettroacustica: l’optigan, il cristallarmonio, l’ondes Martenot, il transicord sono cose di casa di questa sperimentazione che scandaglia in un’aura di armonici. Ma non c’è solo il Tajoli di Tango delle capinere, il Reverberi orchestrale cantato da Gino Paoli in Sassi, il Casadei di Romagna mia e Ciao mare, il Battisti di Io vorrei non vorrei ma se vuoi; c’è la Cuba vista con gli occhi spagnoli di Sebastian Iradier nella disincantata Paloma Azul o quella di Jose Marti de La rosa bianca, sua poesia musicata da Sergio Endrigo, pure questo’ultimo omaggiato con una splendida versione di Io che amo solo te. Dove certi master indugiavano in cortesie, languidi western e moralità (demo)cristiana, il gruppo romagnolo usa una veste pop dal tiro sognante: dove è il Christian Panzano Sam Smith - In the Lonely Hour (Capitol,2014) Genere: pop, mainstream, soul La recente parabola artistica di Sam Smith non lascia dubbi su quello che sarà l’impatto del suo album di debutto In the Lonely Hour nelle classifiche di mezzo mondo, specie in un periodo storico in cui si sono (quasi) rotte definitivamente le barriere tra USA e UK, come dimostrano i recenti successi oltreoceano di Arctic Monkeys, Bastille, Ellie Goulding, Passenger e 1975. Classe 1992, originario del Cambridgeshire, Sam Smith sviluppa presto una passione per il canto che in breve tempo diventa un vero e proprio progetto di vita appoggiato da una – agiata – situazione familiare che nel 2009 vide la madre coinvolta in un microscandalo, accusata dai datori di lavoro di dedicare troppo tempo alla nascente carriera artistica del figlio – all’epoca sedicenne – Sam. Lontano cugino di Lily Allen, Sam inizia ad essere oggetto di importanti attenzioni mediatiche a cavallo tra il 2012 e il 2013 come protagonista vocale di due dei brani più trasmessi nelle radio inglesi (e non solo) in quel periodo: Latch, il singolobomba che ha lanciato la carriera dei Disclosure e la numero uno La La La di Naughty Boy. Un timbro che indubbiamente colpisce (forte di un falsetto piuttosto riconoscibile) e le giuste collaborazioni hanno permesso al ragazzone inglese di imporsi su larga scala, portandosi a casa i due premi più in vista a cui un newcomer g i u g n o r e c e n s i o n i Saluti da Saturno - Shaloma Locomotiva (Labotron,2014) ballabile rivierasco ad essere onorato, ecco che viene in orario martoriato di lievi rumorismi, quasi a indicare il transito previsto di una locomotiva del tempo. Come a dire “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” senza che Lovoisier se la prenda a male. 6.8/10 139 g i u g n o 140 foniche poco in linea con il mood generale del disco (Like I Can), abbassano ulteriormente il livello di un lavoro che raramente respira contemporaneità e che quando lo fa fatica a decollare (Life Support). Era lecito aspettarsi molto di più da Sam Smith ed invece abbiamo tra le mani un disco che prenderà polvere non nei negozi, ma tra gli scaffali degli acquirenti meno smaliziati, di fianco a vecchi CD di Celine Dion e Michael Bolton. 4.7/10 Riccardo Zagaglia Sick Tamburo - Senza Vergogna (La Tempesta Dischi,2014) Genere: cantautori, rock, electro Dopo due dischi, un EP e l’esperienza Hardcore Tamburo, i Sick Tamburo (al secolo Gian Maria Accusani ed Elisabetta Imelio, 2/3 dei fu Prozac +) tornano con Senza Vergogna, disco che –pur senza discostarsi del tutto nel suono e nella poetica dai precedenti lavori– aggiunge nuove coordinate al percorso del duo di Pordenone. Se resta forte l’impronta di un rock sporcato di elettronica e sferzate punk, le novità arrivano tutte dalla ricerca di una dimensione più autoriale, oltre che da maggiori concessioni alla melodia, come già lasciava presagire il precedente A.I.U.T.O. (La Tempesta, 2011). In questo senso, appare non secondaria la scelta di affidare alla sola voce di Accusani l’intera scaletta. I testi, come detto, segnano un deciso passo verso una direzione quasi cantautorale, andando a formare acquarelli –dalle tinte ora forti e crude ora tenui e delicate– capaci di raccontare storie di disagio ed emarginazione (L’uomo magro, una delle migliori del lotto) come di tratteggiare improvvisi slanci sentimentali (la dissonante Niente ti dipinge di blue, che sembra a tratti –e inaspettatamente– rimandare, r e c e n s i o n i dalle velleità mainstream possa puntare: il BBC Sound Of (2014) e il Critics’ Choice Award ai BRIT. Un predestinato insomma. Ma oltre alla voce, ai premi e ai numeri, c’è la sostanza? Nonostante alcuni segnali incoraggianti (vedi la live cover di Berlin di RY X) è evidente come Sam Smith sia oggi un mero prodotto discografico al servizio di mamma Capitol, svuotato di quegli agganci alla club-culture che ce lo hanno fatto conoscere (e apprezzare). Un percorso che ricorda da vicino quello di Emeli Sandè, tanto promettente nei singoli Heaven o Never Be Your Woman in feat. con Wiley quanto piatta e conformista in formato album. I discografici di Sam Smith sanno benissimo che in terra d’Albione i singoli dancey spopolano come non mai, ma per fare grossi introiti con gli album ci vuole un certo classicismo ed un focus incentrato sulla voce. A differenza però del più grande bestseller di questo secolo (21 di Adele) dove eleganza e sfoggio vocale erano ben equilibrate dall’intelligente songwriting e da un ottimo gusto melodico, nel debutto In the Lonely Hour a trionfare è una patina pop-soul figlia di noiose dimostrazioni canore e di scelte stilistiche che potremmo definire tutto tranne che coraggiose, oltre che di melodie non sempre vincenti. Realizzato con l’aiuto di più co-autori e produttori (Jimmy Napes, Steve Fitzmaurice, Fraser T Smith), In the Lonely Hour – escluso il singolo Money On My Mind dal retaggio breakbeat – è un tripudio di melodrammi sentimentali da mano sul cuore infranto (Leave your Lover) che si muovono su apatiche coordinate prive di spunti d’interesse, ancorate alla tradizione soul meno genuina e meno graffiante. Inoltre tra le dieci tracce del disco troviamo alcuni arrangiamenti pacchiani che speravamo di non dovere più ascoltare nel 2014 (I’ve Told You Know) e che, a braccetto con sfacciate aperture radio- Enrica Selvini Sybiann - Spore (Shit music for shit people,2013) Genere: psych, post-punk, elettronica Già dal primo, omonimo, disco, ci schierammo apertamente a favore dei Sybiann. Allora si parlava di un cantiere aperto, in cui post punk e psichedelia mantecavano passioni nemmeno troppo velate per certe devianze in zona Animal Collective, Liars e Oneida. Eppure in quell’album la mescolanza di input nascondeva una “luccicanza” inedita, istintuale ma anche r e c e n s i o n i efficiente, caotica ma sostanziosa, sintomo di un carattere tutt’altro che domo e di un suono decisamente flessibile. A tre anni di distanza, la band di Cesena torna con un Spore fatto e finito. Il disco aggiusta il tiro, scoprendo come le istanze psichedeliche del passato possano accucciarsi comodamente su un taglio elettronico sui generis, in cui inquieti scenari carpenteriani vadano a braccetto con afro beat synthetico (Vortice), italo-disco con ascendenze post-punk-wave (Gyilli Drugs), misture Daft Punk da favela post-atomica in salsa trance (Pangea Ultima), rigurgiti dreamypsych (Sambarama) e avvolgenti liquidità krautrock tra Moroder e 1997 Fuga da New York (Spore). Il cavallo di Troia per i magazine dance è il re-work di Baldelli sul brano Cosmic Favela (contenuto nel 12” Lunar Solar, assieme a riletture ad opera di Danny Benedettini e Matta Pyramid), ma in realtà il secondo album dei Sybiann è materia meno “di settore” di quel che sembra. Attraversa invece trasversalmente un terreno drenante almeno quanto lo era quello del primo album della band, con le dovute differenze stilistiche e di approccio ma con la stessa convinzione. 7.2/10 g i u g n o come la conclusiva e notevolissima Pensiero, alle Desert Sessions di Josh Homme). L’impressione è di trovarsi di fronte al lavoro più intimo, personale e sentito della creatura di Gian Maria Accusani, che si riconferma come uno degli autori più peculiari, efficaci e – forse – sottovalutati della sua generazione, capace di mantenere viva nel tempo la propria poetica, arricchendola con nuove sfumature senza cadere mai nell’autoreferenzialità. A confermare questa tesi il primo singolo estratto Il fiore per te, piccola gemma di pop deviato, e la opening track Qualche volta anch’io sorrido, dall’incedere marziale ed incalzante. Impossibile poi non sentire echi dei Prozac + in pezzi come l’ottima Ho bisogno di parlarti e nelle rasoiate punk-rock di Quando bevo, che pur rimandando chiaramente all’ex progetto del duo di Pordenone riescono comunque a non scadere nel già sentito. Un disco sincero, capace di suonare tanto disturbante quanto delicato, che se a tratti appare forse un po’ monocorde a livello di soluzioni sonore convince invece appieno dal punto di vista lirico, regalandoci una band e un autore che hanno ancora molto da dare, e da dire, nonostante gli anni di militanza musicale. 7/10 Fabrizio Zampighi Sylvan Esso - Sylvan Esso (Partisan,2014) Genere: pop, folk Un altro duo female-male (come di consueto, lei al microfono e lui al reparto elettronico) pronto ad invadere per qualche settimana le pagine delle principali webzine? Sì, ma non solo. Si chiamano Sylvian Esso, hanno casa a Durham, North Carolina ed una storia raccontare: Amelia Meath faceva parte del trio cappella-folk Mountain Man quando casualmente incontrò Nick Sanborn aka Made of Oak e gli 141 g i u g n o Riccardo Zagaglia 142 Teleman - Breakfast (Moshi Moshi,2014) Genere: pop, indie, folk Non si sa quanti piangano o piangeranno per i Pete and The Pirates (la questione dello split è ancora irrisolta), indie rock band che negli anni delle indie rock band spopolava con un sound tutto tagliente, un po’ più sbilenco e art del classico rock, ma decisamente canonico. Quello che però avevamo notato fin dall’ultimo disco della band, era che i Nostri ribollivano di cambiamenti, che la sola Mr Understanding non poteva bastare a cucirgli addosso il vestito che andavano cercando e che possedevano un’ironia potenzialmente sfruttabile, nella sua versatilità, in decine di sound più gratificanti. La strada da seguire dunque era quella di azzerare tutto e magari cambiare anche il nome. E magari prendersi il valigione delle esperienze, quello delle aspettative e indossare quei caschetti da DEVO che in un’altra vita si sarebbero potuti chiamare Teleman. A dar loro una grossa mano ha pensato un altro maestro delle produzioni, quel Bernard Butler che nei Suede e in decine di registrazioni ha contribuito a definire un certo tipo di suono recente. Absolutely British. La novità più evidente nell’album d’esordio del nuovo progetto, Breakfast, è che il genere si è trasformato in synth pop, come degli Hot Chip lontani dal dancefloor, come degli XX più smielati, come i Pink Floyd di Barrett alle prese con la cameretta di Emily. Forti dell’appoggio, oltre che di Butler (che fa un lavoro encomiabile sui suoni), anche di gente come Franz Ferdinand (con cui condividono il piglio cazzone) e Maximo Park (con cui hanno condiviso il palco), i Teleman stanno già battezzando le emittenti radiofoniche inglesi. E se lo meritano. Perché il songwriting minimale paga nelle ninnananne romantiche come Cristina o Redhead Saturday, nelle orchestrine di giocattoli vintage di In Your Fur e Travel Song, r e c e n s i o n i chiese di mettere mano a Play It Right, uno dei brani da lei scritti e in lavorazione dopo l’album d’esordio Made the Harbor. Entrambi furono talmente soddisfatti del risultato (su YouTube si trova l’originale versione targata Mountain Man) che in poco tempo decisero di continuare la collaborazione e di dare vita al progetto Sylvian Esso lavorando intensivamente nei mesi successivi nella camera di Sanborn. Il risultato è un dieci tracce che condensa il retaggio folkish di Amelia con le intuizioni elettroniche di Nick creando un microcosmo a metà strada tra paesaggi bucolici e dimensioni da alt-club: il contesto sonoro in cui si muovono è quello di un art pop amante degli intrecci vocali e ritmici (Dirty Projectors) e delle tentazioni “freak” folk di una Amelia che non sfigurerebbe in un quartetto formato da Joanna Newsom, Anais Mitchell e Woodpecker Wooliams, ora metà dei Becky Becky. Sotto la coltre vagamente artistoide scorre però un sangue digitale che è la vera colonna vertebrale del progetto, come testimoniano i cinque assi nella manica nell’omonimo album di debutto: l’iniziale Hey Mami costruita su layer vocali, minimali clap e su poderosi microdrops, l’orecchiabile Coffee in cui Sanborn sfoggia una spiccata intelligenza compositiva manipolando chopped beats e piccoli sample ritmici, Dress tutta loop e cadenze quasi r'n'b, H.S.K.T., perfetta per essere remixata in battuta house/Uk Funky e la versione definitiva di Play It Right non troppo distante da certe creazioni targate Purity Ring. In questi giorni spalla di tUnE-yArDs, i Sylvian Esso hanno messo le fondamenta per un futuro che si spera essere più roseo di quello di molti colleghi che hanno raccolto meno di quanto seminato (Niki and The Dove). 6.8/10 o quando la band fa la voce grossa di synth in Steam Train Girl o Monday Morning o regala piccoli instant classic come 23 Floors Up e Skeleton Dance. Sebbene neanche questo sia più il tempo del synth pop minimale, dei ricami elettronici al piccolo trotto, del lo-fi da cameretta, Breakfast è – come consiglia lo stesso titolo – un piccolo gioiello che si lascia ascoltare con occhi stropicciati e dita scricchiolanti, magari accanto al giornale del mattino, col sole sulla fronte e una tazza di caffè bollente a portata di mano. 7.1/10 Nino Ciglio Genere: pop, indie, folk Non deve essere facile per gli Antlers portarsi sul groppone il peso di aver pubblicato uno dei più toccanti concept-album a – recente – memoria d’uomo, ovvero Hospice. Un punto di arrivo e di non ritorno che per Peter Silberman ha voluto dire vedersi in un certo senso costretto a rivedere le proprie ambizioni da cameretta, trasportandole in un maxi-formato che, volontariamente o meno, ha cambiato il corso evolutivo di un progetto sempre più consapevole dei propri mezzi e della propria – meritata – posizione privilegiata. Se Hospice – seppur limitatamente agli addetti ai lavori – fu il classico breakthrough album, è facile individuare nel successivo Burst Apart il primo – riuscito – step verso l’idea di musica che oggi scorre nelle menti di Silberman e compagni. Un’idea che nel quinto album Familiars (via ANTI- eTransgressive Records) assume connotazioni precise, altere ed articolate ma comunque confinate in spazi ben precisi che poco concedono alla forma canzone, preferendo lasciar spazio ad atmosfere strumentali spesso avvolgenti e dalle asperità smussate. g i u g n o r e c e n s i o n i The Antlers - Familiars (Transgressive,2014) In questo senso, l’iniziale e meravigliosa Palace, per quanto non priva delle scelte stilistiche approfondite in seguito, inganna. Palace è LA canzone, in cui tutto sembra essere al posto giusto: i fatati scintillii iniziali, i fiati – quantomeno commoventi, quasi funerei – che eseguono proprio quella melodia che ti aspetti, la strofa modellata sapientemente e quel sapore epico che solo un cuore cinico non apprezzerebbe. Dopo Palace, escludendo Parade, ci si avventura però in un percorso ben lontano dall’essere il più semplice che la band potesse seguire: un percorso che rifiuta le melodie di facile assimilazione – Silberman non le trova, ma forse non le cerca neppure – dilatandosi attraverso ulteriori otto lunghi morbidi passaggi in cui ad emergere, oltre alla solita incredibile voce di Peter, sono le alchimie dei suoi fidi alleati Darby Cicci e Michael Lerner. Il primo, uscito lo scorso anno con un EP sotto il moniker di School of Night, è l’encomiabile tuttofare, grande protagonista per i – mai così presenti – fiati e per il prezioso suono del Fender Rhodes; il secondo si avvicina sempre più ad un drumming di stampo jazzistico, non solo a livello di ritmi ma anche di settaggio. Da queste tre componenti (fiati, Rhodes e batteria jazzy) nasce quello che è il fulcro stilistico di un disco anticipato a distanza dall’evitabile parentesi di (together) EP e dal più apprezzabile Undersea EP del 2012. Non tutto è perfetto, però: se in Doppelgänger l’effetto sorpresa garantito dalle atmosfere spettrali (“Can you hear me when I’m trapped behind the mirror“) tra i Talk Talk del periodo post- e sinistre dinamiche cinematiche funziona e convince, successivamente la situazione tende ad appiattirsi su eccessi di sofisticherie non sempre bilanciate da altrettanti appigli in grado di catturare l’ascolto. La linea di confine tra giusta ambizione e passo più lungo della gamba è labile in brani curatissimi quanto leggermente inconcludenti 143 come Intruders o Hotel, mentre – complice anche l’ottimo mixaggio di Chris Coady – escono meglio la ballatona d’altri tempi Director - Jeff Buckley dietro l’angolo – e la raffinata epopea da jazz-bar Revisited. Familiars è quindi un disco che si farà apprezzare più per la meticolosa trama compositiva che per i singoli episodi che ne incentivano il piacevole riascolto: da qui in avanti gli Antlers dovranno dimostrare di sapere riconquistare un applauso che sia sì fragoroso, ma anche completamente spontaneo. 7/10 Riccardo Zagaglia Genere: indie Si può realizzare nel 2014 un album utilizzando come unica moneta di scambio il baratto? La risposta ce la forniscono i campani The Gentlemen’s Agreement, che per produrre Apocalypse Town si sono serviti di questo fascinoso e romantico sistema. Registrato al Sud Est Studio di Guagnano gratis in cambio della ristrutturazione dello stesso – tutto fissato nel documentario disponibile su YouTube – , i gentiluomini si sono divertiti a sperimentare, buttandosi a capofitto in una miscela di ritmi africani e brasiliani ribattezzata a ragione psycho/industrial/samba. Tra strumenti selfmade – Psycho Sitar e Mollofono su tutti – di sapore futurista che tanto rimandano alle creature di Luigi Russolo e attrezzi di uso comune come trapani e lucidatrici, i Gentlemen’s Agreement costruiscono, mattone dopo mattone, il concept che sta alla base di Apocalypse Town, ovvero quello dell’operaio senza nome, vero e proprio ingranaggio umano della fabbrica in cui lavora, maestoso Moloch adorato come divinità. Un’esistenza 144 Andrea Murgia The Lay Llamas - Ostro (Rocket Recordings,2014) Genere: psych, drone, kraut, elettronica, afrobeat Da subito – e giustamente – inseriti nel calderone della “psichedelia occulta italiana” – di cui hanno dato prova di essere, però, mosche bianche durante l’ottima, energica, prova live nell’ultimo Thalassa – i Lay Llamas arrivano all’esordio mostrando molte più screziature di quante finora erano state considerate anche da chi li segue dai primi passi in cassetta. Firmando con la Rocket, casa della bomba Goat e di un immaginario psych ad ampio spettro (Gnod, Teeth Of The Sea, Hills, Anthroprophh), la band di Nicola Giunta e Gioele Valenti mette in chiaro da subito di avere zero preconcetti verso r e c e n s i o n i g i u g n o The Gentlemen’s Agreement - Apocalypse Town (Subcava Sonora,2014) scandita dai ritmi della catena di montaggio, da cui l’eroe infine riuscirà a scappare distruggendo il delicato equilibrio su cui si regge il sistema fabbrica, quasi come il protagonista del capolavoro di Terry Gilliam, Brazil, Sam Lowry, a cui Apocalypse Town sembra legato da un invisibile ma consistente fil rouge. Un tourbillon di sonorità e ritmi dal e del mondo, tra progressive-rock (Moloch, Come l’acqua), sonorità quasi marinaresche (Il Milione) in odor di Vinicio Capossela, echi dei Morphine di Mark Sandman (Mordi! Prendi! Vivi!), samba (Rumore sui Rumori) e afrobeat (Adeus); il tutto reso in maniera personalissima e con l’idioma italiano sempre in primo piano, grazie a testi mai scontati. Custodito dal prezioso package realizzato ad hoc dalla tipografia Resistenza Artigiana, Apocalypse Town è un lavoro brillante e variegato, realizzato con cura sotto tutti i punti di vista e che garantisce, per i 40 minuti scarsi della sua durata, divertimento e piacevoli sorprese. Disco della maturità. 7.2/10 r e c e n s i o n i più grossi. L’ostro sta dunque spirando sempre più forte e dall’estremità della penisola è maturo per invadere l’intera Europa. 7.5/10 Stefano Pifferi The Roots - And Then You Shoot Your Cousin (Def Jam Recordings,2014) Genere: soul, funk Esce su Def Jam, ancora una volta, l’undicesimo disco degli statunitensi The Roots, complesso “miliare” hip-hop, fondato nell’1987 dall’MC Black Thought e dal batterista/ producer ?uestlove. …And Then You Shoot Your Cousin riprende in mano le sorti del complesso per un concept album di pregio, ma incostante. La partenza è riuscita: Theme From The Middle of the Night di Nina Simone come intro, poi Never (con il feat. di Patty Crash), che ricordano tanto le sonorità angeliche del Ghost Stories dei Coldplay quanto la malinconia delle produzioni di Adrian Younge per Ghostface Killah su Twelve Reasons To Die. La cifra stilistica rimane in superficie, si perde e non lascia il segno. Ma è solo l’inizio, perché di brani che valgono, nel disco, fortunatamente ce ne sono. Il passaggio a When The People Cheer è gratificante: con i feat. di Modesty Lican e Greg Porn il livello si alza vertiginosamente, tanto nella strumentale, che nel rap dietro al mic: l’intro è affidata al piano – che nel disco ha un ruolo portante – poi entra sul beat Greg Porn in echo, col break di batteria a irrobustire la produzione; su Black Rock il discorso è diverso: al mic c’è Dice Raw – che in passato (dal 1995 al 2001) ha militato nel gruppo – mentre il pezzo scorre costruito sul sample psych-soul acido della band funk omonima (il brano originale è Yeah Yeah). Dice inizia fin da qui a primeggiare con disinvoltura disarmante, il che sarà una costante del disco, spiazzando Black Thought, g i u g n o le contrapposizioni mainstream/underground e di parlare un linguaggio – finalmente scioltosi in una forma più corposa – capace di essere recepito da più ascoltatori, non dai soliti adepti al culto della psych di cui sopra. In Ostro i Nostri spingono molto sul versante ritmico, allargando sorprendentemente la tavolozza di colori verso lande madchesteriane, in connubi tra pulsione elettronica e sfarfallii psichici (We Are You), etno-dub e flauti trascendenti (Desert Of Lost Souls), ma mantenendo ben presente quell’immaginario sfatto, onirico e sognante (la nenia Voices Call che accompagna verso la chiusura dell’album a furia di ritualismo ancestrale) di matrice etnopsych (Ancient People Of The Stars) diluito su lande kraut dall’afflato ipnotico e groovey che fa di questo esordio un ponte tra medioriente e cosmo, riflusso ancestrale e slancio avant, retro-futurismo e ucronie musicali capaci di (ri)creare mondi (im)possibili. C’è tanto Mediterraneo com’è giusto che sia, essendo il duo originario della Sicilia, ma è un Mediterraneo psichico, uno stato della mente che si manifesta nello stesso modo in cui dai citati Goat veniva “riletto” l’immaginario misterico-mitologico (in quel caso, posticcio) su cui hanno basato molta della propria fortuna. Pertanto sottoposto a trattamento energizzante – il gamelan mantrico e ossessivamente postpunk di Archaic Revival – e provvisto di un approccio da melting-pot globale – Fela Kuti, gli Oneida, la kosmische, le poliritmie africane, Madchester e moltissimo ancora – il suono, l’atmosfera, l’immaginario “mediterraneo” offerto in Ostro diviene una moderna forma di psych metafisica e trascendentale, come un sabba post-moderno in grado di inglobare e risputare fuori input e suggestioni. Dimostrando come alcune tendenze dell’underground italiano non siano soltanto esportabili, ma possano tranquillamente giocarsela alla pari con nomi 145 g i u g n o 146 diviene analisi metaforico-introspettiva delle scelte esistenziali dell’essere umano. Questi trentotto secondi andrebbero anche bene, se fossero un caso isolato e non bissato più in là da ancora un altro psuedo-skit strumentale, che diviene l’emblema dell’album tutto. Dies Irae con Michel Chion non solo non ha una propria ragione compositiva, ma all’interno dell’album fa intendere quali fossero le reali intenzioni della band per il disco e quale sia stato invece il fallimento fondamentale. Scopriamo dunque che l’aspirazione mancata era di creare una sorta di hip-hop classico contaminato di spirito left-field. Un dialogo tra approcci, che sarebbe anche una potenziale strada per il futuro, solo che per ora un risultato soddisfacente è ancora molto lontano, e anzi ci si ritrova tra le mani un ibrido che non sa da che parte andare, che spesso punta sul sicuro e quindi esce vittorioso, vedi i pezzi di cui sopra, o che si avventura nell’ignoto senza bussola e senza convinzione, ma con molta spocchia. In The Coming (con la vocalità non esaltante di Mercedes Martinez), si ripresenta il problema del fallimento nel conciliare classicità e avanguardia: ritorna il piano come elemento centrale della struttura del pezzo, nel mentre c’è la dissoluzione delle vibrazioni soulfully in un crescendo di dissonanze prog che nemmeno gli Yes, e che per lo più infastidiscono. A ulteriore conferma di una scarsa convinzione, ecco a fine scaletta, i due brani con feat. di Raheem DeVaughn. Il moralismo degli intenti e la denuncia pseudo-sociale si riflettono in un hip-hop privo di pulsione vitale-motrice, assolutamente impersonale e stagnante, che puzza di anonimato. The Unraveling decade su una partitura di piano strappalacrime, una batteria arrugginita (che toglie al gruppo anche il suo lato caratteristico: il battito ritmico) e il mic. di DeVaughn, che quando canta “a man with no future, a man with no future” sembra davvero parlare di sé. Tomorrow r e c e n s i o n i cui inizia a crollare il terreno sotto i piedi e che entra sul pezzo lento rincorrendo il compagno per ristabilire le gerarchie (o almeno ci prova). L’hook debole è l’unica pecca di Black Rock: trasforma un potenziale capolavoro in un brano imploso e privo di appetibilità. Rimane al mic Dice Raw e ritornano Greg Porn e la vertigine, per Understand: l’organo gospel e l’hook di sentimento ascetico, hallelujah!, – “People ask for god, ’till the day he comes / See God’s face – turn around and run / God sees the face of a man / Shaking his head then says, ‘man’ll never understand’ “- ci fanno pensare a quanta poca cura ci sia stata in Black Rock da parte dei Roots e cosa realmente questo concept sarebbe potuto diventare. Ancora Dice Raw e Greg Porn su The Dark (Trinity) e le vibrazioni sempre nel verso giusto, con il piano che prende la strada dell’intimismo malinconico. Un pezzo fantastico, e qui le dissonanze non vengono più esibite, ma accolte nella struttura del pezzo. In questa posizione mediana c’è un vero dialogo fra spirito tradizionale neo-soul e la nuova carica sperimentale, cui la band sembra tendere da qualche disco a questa parte. In quattro brani emerge tutto quello che ha reso i The Roots “The world’s premiere hiphop band”, tutto quello che rende questo disco godibile e tutto quello che i The Roots dovrebbero assorbire per determinare un nuovo punto di partenza. Arriviamo invece agli aspetti negativi, che frantumano il piacere dell’ascolto. Per … And Now You Shoot Your Cousin, i The Roots hanno scelto di riempire i vuoti della scaletta con alcune sottospecie di skits, che in realtà tali non sono, e che per questo, nella loro vaghezza, perdono ancora di più il ruolo che ricoprono nelle sorti generali del lavoro. È il caso di The Devil, feat. di Mary Lou Williams, che si limita a definire il clima trascendentale del disco, in cui il conflitto metafisico tra divino e diabolico è l’opposto: il piano si articola su un motivetto in allegria da pic-nic con tanto di fischiettìo e la storiella del solito DeVaughn che si risolleva solo sul finale à la Robert Glasper di Black Radio, in cui il singhiozzare della batteria trova il suo posto, il piano rinasce e Raheem si limita a sillabare a ripetizione (“now … / … now / … now”), compito che gli riesce benissimo. Di … And Then You Shoot Your Cousin rimangono le prodezze dietro il mic di Dice Raw e Greg Porn, che mandano in pensione Black Thought, meno in forma del solito e ancora più appesantito che in Undun. Tre/quattro brani superbi e molto contorno, ma non abbastanza per costruire un vero progetto di rinnovamento per il futuro. 6/10 Tom Vek - Luck (Moshi Moshi,2014) Genere: pop, indie, electro Per quelli con le antenne più sviluppate di altri, il nome Tom Vek non sarà così difficile da ricordare. Il giovane polistrumentista e tuttofare, casa madre a Londra (sbattuto da East a West), aveva esordito nel lontano 2005 con We Have Sound, un post-rock/indie-rock in linea con i tempi che però sembrava più estroso e creativo di quello di colleghi che già stavano vendendo le loro anime all’hipsteria. Nel 2011, dopo una misteriosa pausa durata sei anni, il Nostro tornava con un Leisure Seizure dove l’indie-rock si sporcava di synth, ritmi danzerecci e della sua voce meravigliosamente sbilenca, tanto da essere immediatamente catalogato alla voce Talking Heads. E il peso di queste etichette non è mai facile da sopportare. Lo iato questa volta è più stretto – sono passati solo tre anni dal precedente disco – ma Vek sembra non essere cambiato molto. Luck è un album che, proprio come Leisure Seizure, fonde il gusto tipicamente 00s di quattro quarti e g i u g n o r e c e n s i o n i Emiliano Santoro giri di basso ingombranti con il pizzico di follia 80s che regala la splendida voce inadeguata del musicista inglese. Ma questa volta si sente forte e chiaro il richiamo dei Nineties, un elemento che infetta un po’ tutti negli ultimi tempi. Basta prendere Sherman (Animals in The Jungle) – tra l’altro ispirata al famoso romanzo (poi film di Brian De Palma) Il falò della Vanità – per capire quanta base Sonic Youth, pre-emo, grunge, sia nascosta nell’ispirazione di questo terzo album. Se poi aggiungiamo il sapore lo-fi e vintage che Vek cuce addosso a brani come Broke (mezzo plagio di I’m No Good di Amy Winehouse, a dire il vero), lo stoner “chitarroso” à la QOTSA di A Mistake, il dreamy pop à la Cure di Ton Of Bricks, l’impostazione sincopata e bass-oriented in stile Bloc Party di Pushing Your Luck, ci accorgiamo di quanta varietà sia stata filtrata negli ascolti e nella creatività di questo ragazzo. Già, varietà, ma anche una naturale confusione che, se regala perle godibili (le già citate Sherman, Pushing Your Luck e Ton Of Bricks), ci lascia anche un disco piuttosto incostante, sia dal punto di vista del suono che da quello dell’attenzione. Il divertimento non dura tutti gli undici brani, spesso spezzato da episodi monotoni (You’ll Stay) o estremamente derivativi (Let’s Pray). Ciò non toglie che se è vero che Vek non sarà il nuovo Byrne, la sua abilità nel lavorare sulle proprie produzioni e nel filtrare e flirtare con gli ascolti, la sua voce “sbagliata”, la sua aura da geek d’altri tempi, valgono comunque una piena promozione. 6.8/10 Nino Ciglio Topsy The Great - Fampor (fromSCRATCH,2014) Genere: noise, math-rock Secondo disco per i Topsy the Great - trio pratese dedito a un math-noise che si era già fatto 147 g i u g n o Stefano Gaz Tori Amos - Unrepentant Geraldines (Mercury,2014) Genere: pop, cantautori Col tempo Tori è diventata un classico, anche se negli anni ha tentato di svariare, spiazzare, sperimentare, rileggersi. Recentemente, ad esempio, ha firmato un disco di musica colta per la Deutsche Grammophon (Night of Hunters del 2011) e un musical (The Light Princess, del 2013) in collaborazione col London’s National Theatre, senza scordare che nel mezzo c’è stato Gold Dust, nel quale ha riproposto in chiave orchestrale alcuni cavalli di battaglia del repertorio. Ma il dato più importante è probabilmente un altro: lo scorso agosto Myra 148 Ellen Amos ha compiuto 50 anni, il che presuppone – anche dal punto di vista artistico – un carico di esperienze preponderante sulle future possibilità di scoperta. Tempo di bilanci insomma, a cui ci si può adeguare o rassegnare, in entrambi i casi con diversi gradi d’intensità. Ebbene, con questo Unrepentant Geraldines in effetti Tori sembra arrendersi al proprio repertorio, ovvero alla se stessa come somma di “prestazioni” espressive. Ma lo fa con determinazione, con lucidità, senza preoccuparsi di tenere il passo della contemporaneità né di tenere testa alle vette del passato. Semplicemente, fa quello che le è sempre riuscito meglio: traccia dopo traccia tenta di provocare subbuglio per mezzo di una grande canzone. Talvolta (inevitabilmente?) scade nel cliché, ma il passo è quello delle autrici di razza e delle interpreti che sanno di poter contare su un quid forte. Il suo tipico piano dal fraseggio liquido e penetrante, quella voce che si agita in un gioco di ombre e lirismo affilato, il consueto apparato di testi cui una recensione non può rendere giustizia (tra i temi affrontati: libertà e dignità delle donne, arte figurativa, l’affaire SnowdenNSA…), sono la struttura portante di quattordici pezzi – perlopiù ballate – che gravitano attorno a suggestioni folk dal piglio traditional venato di rapimenti Broadway e intrighi fiabeschi. Se Oysters bazzica incanto bizzarro e cinematico e se Trouble’s Lament mastica tremori folk-blues col veleno in gola nei modi che ben conosciamo, Weatherman e Maids of Elfen-Mere si rifanno con una certa evidenza al femminino ipnotico e misterioso Kate Bush, mentre Wedding Day e America si sgranano elettroacustiche in punta di solennità come dei Fairport strattonati Fleetwood Mac. Poi ci sono le deviazioni, come una Giant’s Rolling Pin che innesca vampe rag da brass band garbata e acidula (e dalle vaghe ascendenze r e c e n s i o n i apprezzare nel precedente Steffald - Fampor è un lavoro che conferma praticamente in toto la formula dei Nostri. I Topsy the Great sono la faccia vera di un underground toscano fatto di poche chiacchiere ma realizzato con idee e capacità. Il disco esce sempre per Fromscrath e Santa Valvola ed è schizofrenia sapientemente organizzata. Stessa formula math-noise si diceva, è vero, ma rispetto a Steffald qui emergono con più veemenza le canzoni: i Battles fuori giri di Usduk, l’incubo western/marziale di Coor – forse il miglior brano del lotto – o ancora la minaccia (orientale?) de Lyndia. Assomigliano sempre più a una versione nostrana dei Lightning Bolt i tre, un pò per l’artwork in sintonia con certe illustrazioni targate Brian Chippendale, un po’ per la capacità di sfornare ottima musica heavy in cui grande attenzione è ancora una volta riposta sulla ricerca di una filigrana sempre più in simbiosi con il live. In attesa di ulteriori novità, il passo dalla sorpresa alla riconferma è brevissimo e compiuto. 70/10 Macca via Norah Jones), o ancora le nuances e le pulsazioni digitali dell’estatica 16 Shades of Blue, le astrazioni reggae della title track con le accelerate radenti Police e infine quella Rose Dover che svaria agile tra brume teatrali e ugge glam come una piece compressa. Non mancano le cadute, come la fin troppo indulgente Promise (cantata assieme alla figlia Tash) e una diffusa tendenza al didascalico (si senta Wild Way), ma nel complesso Unrepentant Geraldines resta una prova dignitosa con qualche passaggio coinvolgente. 6.7/10 Party di Nick Cave (Obdurate Obscura), il Mark Lanegan classico sono i nomi che vengono richiamati alla memoria più volte durante l’ascolto. Desolazione folk blues, memorie metal (Salome, Hiss), alt-country e tutto l’american gothic che si possa immaginare. In fondo è quello che vogliamo ancora dall’ex leader dei 16 Horsepower: intensità e oscurità, senza retorica. 7.2/10 Teresa Greco Stefano Solventi Genere: alt, country L’alt-country gothic punk di ispirazione religiosa di David Eugene Edwards alias Wovenhand sembra non conoscere sosta. Refractory Obdurate è il settimo album pubblicato sotto questo moniker, con qualche cambio nella formazione (Chuck French alle chitarre, Neil Keener – Planes Mistaken For Stars – al basso, Ordy Garrison alla batteria, più il leader a voce, chitarre e banjo), per un suono che resta sostanzialmente nei canoni consueti, anzi qui diventa più “heavy” del solito. Non a caso l’album è il prodotto di una partnership tra Glitterhouse e Deathwish (etichetta co-fondata da Jacob Bannon dei Converge). Pezzi mediamente lunghi, chitarre in primo piano, anche sature, suono pieno e punk, anzi post punk (Sonic Youth docet…), polvere, oscurità e declamazioni: ecco il perfetto vademecum per questo disco, un lavoro che si tiene bene, mostrando coesione e compattezza nell’insieme. Un ritorno ai primi Wovenhand, la ricerca delle radici più oscure alla base della band. Michael Gira e i redivivi Swans, i Birthday g i u g n o r e c e n s i o n i Woven Hand - Refractory Obdurate (Glitterhouse,2014) 149 G imme S ome I nc h es # 4 9 Il consueto giro mensile per formati strani questo mese ci mostra tapes e vinili brevi per Neid e Agathocles, Rooms Delayed e Pueblo People, Mattia Coletti e Powerdove, Bob Corn e My Dear Killer, Sangre De Muerdago e The KVB 150 Riavvolto il nastro utilizzando una penna bic – questa la capiscono solo gli ultratrentenni – ci accingiamo a partire col nostro solito campionamento nelle lande dei formati minori. Cominciamo proprio dai tapes su cui Old Bycicle ha costruito una solida fama. L’ennesimo volume della Tape Crash series, il numero 8 ad esser precisi, vede un doppio scontro: da un lato Mattia Coletti col suo folk sporcato e screziato di polvere (warning: double senses here) rumoristica e da pulviscolo elettronico-ambientale, si accoppia con Simon Skjodt Jensen a.k.a. Own Road in una lunga traccia (Flower Names) ipnotica e sonnolenta in cui la voce del danese è l’ideale contraltare delle atmosfere folkish create dalle due chitarre, così come la lunga sezione “ambiental-rumorista” rammenta l’eterodossia Colettiana al meglio; dall’altra parte risponde Powerdove (al secolo, Annie Lewandowski) che si unisce a Thomas Bonvalet (L’Ocelle Mare) e a John Dieterich dei Deerhoof, ma rimane sulla stessa lunghezza d’onda di un folk “sporcato” – l’ottima opener When You’re Near – offrendone poi, nelle restanti due tracce registrate live, una visione più spartana e pulita: in punta di plettro e condita da voce celestiale e pura. L’altra tape, invece, è tutta nostra ed è realizzata in combutta con Under My Bed e Grey Sparkle. Protagonisti due grossi calibri del “folk” nostrano, My Dear Killer e Bob Corn, che avevano unito le forze per un tour casalingo congiunto di cui questo nastro è l’estrapolazione. Se conoscete i soggetti, avrete già idea di cosa troverete: due bardi barbuti e solitari che si muovono sul crinale del folk più puro. Più malinconico e umorale quello offerto da My Dear Killer e sulla falsariga dello splendido disco su Boring Machines; più viscerale e sanguigno quello di Tizio, con quel piedino che batte il tempo e richiama all’attenzione per gemme di puro cantautorato senza fronzoli. Edizione come al solito ipercurata e avvolta in un cartoncino riciclato. Su altre distanze e medium si muovono i Pueblo People, trio misto che annovera due ex Vulturum (Lorenzo e Claudio) più Claudia delle Agatha alla batteria. Dimenticate le lande toccate in passato dalle rispettive band, perché qui si va di distorsione spazio-temporale e si è gettati di netto verso i sixties più psichedelici e desertificati che possiate immaginare: lunghe trame di chitarra inacidita a tirar dentro Replacements e 13th Floor Elevator, Uncle Tupelo e zio Neil, ma incancrenite su un canto del caos e della morte che è sì, innervato di fuzz e, immaginiamo, droghe più o meno leggere – tornano su molte suggestioni da summer of love andata a male, ma forse è solo un’allucinazione – ma mantiene sempre # 4 9 I nc h es S ome G imme viva la grande tradizione dell’Americana. Anche se proviene dalla periferia della provincia dell’impero. Sentieri Di Guerra, nomen omen, esce in vinile 12” per Solo, già noto negozio di dischi di Milano. A 45 giri viaggia invece l’infame split tra i grinders Neid e gli eroi del mince-core Agathocles. Tre tracce per i primi, più “chirurgici” e dall’impatto devastante, figlio del retaggio metal e hardcore, che sono tre schizzi in faccia di malessere e disagio cantato in italiano; quattro tracce invece per i colleghi dal Belgio, che si propongono al solito con un sound più sporco e maleodorante, in cui la registrazione è un optional e odio e violenza l’unica preoccupazione. Vedi alla voce lyrics per una band che ha fatto dell’intransigenza il marchio di fabbrica. Piccola parentesi immateriale e di decompressione con l’ultima “release” made in Laverna, netlabel d’ambito ambient che ci offre l’ottimo album di Rooms Delayed, al secolo Vincenzo Nazzaro, Flickering Traces. In partenza quello di Rooms Delayed è un endlessmanipulated sound che “rivive” lontane suggestioni, rimodulandole in flutti sonori sospesi e sognanti che fanno di questa loro “intangibilità” il punto di forza. Abbandonatevi al flusso e non opponete resistenza. Chiudiamo la puntata di questo mese con due 10 pollici, formato tanto discograficamente bistratto quanto intrigante esteticamente. Il primo Nas Fragas do Río Eum vede il ritorno degli spagnoli (ora di stanza in Germania) Sangre De Muerdago dopo il recente LP split con gli americani Novemthree. Due brani, incisi solo sulla primi facciata, provenienti dalle stesse recording session del secondo full-length Deixademe Morrer no Bosque, che vi consigliamo caldamente qualora ve lo siate persi. Per chi ha già nelle orecchie il folk evocativo del gruppo capitanato da Pablo C. (ex Cop On Fire, Ekkaia e Leadershit) c’è poco da aggiungere; per chi invece è nuovo alle sonorità del quartetto in questione, basterà dire che anche qui ritroviamo la formula, personale e vincente, che ha caratterizzato le recenti uscite dei Sangre: cristalline chitarre acustiche, cantato in lingua madre, timpani solenni, malinconia a profusione. Una sorta di Ur-Folk in chiave gallega a metà strada tra gli Ulver di Kveldssanger e i gruppi acustici del giro Ahnstern / Steinklang. Nello specifico, l’edizione in 10 pollici one-sided, su vinile color mattone con lato B serigrafato, inserto e copertina su cartoncino ruvido color avana, impreziosiscono un’uscita che dal punto di vista prettamente musicale non si rende indispensabile, se non per i fan più die-hard. L’ultimo 10 pollici è il nuovo dei britannici The KVB. Abbondantemente incensati online, il duo londinese si è fatto conoscere grazie ad un efficace mix di cold-wave e shoe-gaze piuttosto formale e fedele alla linea che, nonostante la mancanza di una forte personalità, sembra attirare i fan di un revival che non accenna a voler cedere il passo. Per questo Out Of Body, Nicholas Wood e Kat Day sono entrati per la prima volta in uno vero studio di registrazione in compagnia di Joe Dilworth degli Stereolab e da quel che abbiamo potuto sentire finora (l’EP esce il 2 giungo) il risultato è un sound sì più professionale, ma anche più morbido e accomodante. Date un ascolto ad Across The Sea, l’unica traccia disponibile online al momento, e vi accorgerete di come ancora una volta siano gli 80s più pop ad essere saccheggiati senza particolare ritegno o inventiva. Non ce ne vogliano i seguaci del gruppo (e della new-wave in genere) ma c’era davvero bisogno di un ulteriore rip-off di Cure, Slow Dive o Jesus And Mary Chain? Andrea Napoli, Stefano Pifferi 151 Aphex Twin classic alb u m Selected Ambient Works Volume II (Warner Music Group,1994) 152 Selected Ambient Works Volume II (SAW2) è il secondo disco di Aphex Twin, e anche se il primo non era propriamente un Vol. 1 (il titolo era SAW 85-92), l’assonanza fa pensare a un prosieguo dell’esordio. Il sophomore è un doppio lunghissimo: ben venticinque pezzi (su CD uno di meno) per la durata complessiva di più di 150 minuti. Un monolite inarrivabile, che segna il successo e l’apice della nascente carriera di Richard D. James e che per molti fan e critici non sarà più bissato. Se la prima raccolta del musicista elettronico rappresentava una collezione di singoli da ballare, questo secondo album esce dal tempo e si innalza come una pietra di Stonehenge sulla cultura rave, spiazzando tutti. Non più breakbeat, ma relax, non più ritmi serrati, ma atmosfere sognanti e ritmi a passo più lento, anche se percorsi comunque da un brivido freddo, da una glacialità lancinante che è il marchio estetico dell’uomo. Un caso? Per niente. Nel 1994 si respirava già aria di controrivoluzione. La stagione del rave aveva mietuto infatti troppe vittime e la cultura acid stava iniziando a perdere mordente soprattutto in Inghilterra, dove era nata pochi anni prima. In quell’anno viene promulgato il famoso Criminal Justice and Public Order Act, che vieta al popolo del rave di ritrovarsi a celebrare il weekend liberamente. La cultura della cosiddetta “Second Summer of Love” si trasforma per ordini dell’autorità da rave a chill e proprio con questo disco aumenta d’importanza la cosiddetta Intelligent Dance Music o IDM, termine – a volte abusato – con cui verranno taggati molti dei musicisti post-diaspora rave (tra gli altri Boards Of Canada, Plaid e Orb). Musica non più da sballo MDMA-indotto, bensì più meditativa, magari aiutata da qualche sigaretta di cannabis. Memorabile, in questo senso, la collana di album (dal 1992 al 1994) Artificial Intelligence di Warp, etichetta inglese che pubblica guardacaso anche SAW2. Tra i nomi, gli Autechre, lo stesso Richard D. sotto lo pseudonimo Polygon Window, i B12 e altre star dell’elettronica in slow-motion. La caratteristica fondamentale dello zeitgeist che circonda SAW2 è proprio questa voglia di frenare, di lasciarsi andare su velocità diverse da quelle degli smile gialloneri che decoravano t-shirts e spillette dell’epoca. Qui, sebbene Aphex abbia poco più di vent’anni, inizia un percorso di ricerca che divide la sua storia produttiva in due, da lì in poi in continua oscillazione fra techno più acida (vedi ad esempio il successivo Ventolin EP) e ambient. Venticinque tracce che non hanno nome e che i fan, nelle mailing list, si mettono a taggare con oggetti e parole che descrivono le sensazioni all’ascolto: Cliffs (scogliere), Grass (erba), Weathered Stone (pietra erosa), Lichen (lichene), piccole polaroid su mondi lunari che cullano l’ascoltatore con voci lontane, con campioni onirici ed effettistiche ovattate. La leg- genda narra che Aphex Twin avesse composto molto del materiale in stato di dormiveglia, restando forzatamente sveglio e dormendo al massimo due ore per notte. Un’insonnia che lo porta a costruire un disco di “Classic Techno” (come dice bene Simon Reynolds nella sua recensione), che insiste più sulla componente timbrica che su quella ritmica, mescolando il phasing di Steve Reich, qualche progressione à la Satie (esplorata più approfonditamente nel successivo Drukqs) e suoni costruiti artigianalmente, e andando a modificare “a mano” i circuiti dei synth analogici e le patch dei software di sintesi dell’epoca. L’eredità di questo disco viene in parte raccolta da qualche artista elettronico contemporaneo: alcuni brani di Oneohtrix Point Never, Actress, GAS, molte produzioni di Ghostly International, qualche traccia della scena vaporwave e più in generale un ritorno alla new age, che con l’ambient aveva molto in comune. Sono solo brevi accenni e rimandi a un classico che ha fatto e che fa ancora scuola. Immortale. 9/10 Marco Braggion 153 Unwound classic alb u m Rat Conspiracy (Numero Group,2014) 154 Questa ristampa a cura di Numero Group è un tuffo nel cuore della produzione Unwound, quella più significativa della stagione indie ’90. Impossibile parlare del gruppo di Olympia senza evocare il mondo indie: ora il termine vuol dire tutto e niente (basta guardare a casa nostra: sono indie Le luci della centrale elettrica o gli Heroin in Tahiti, è indie la Tempesta Dischi o Boring Machine? E se sono indie entrambi sono assimilabili come etiche stili e risultati? Ovviamente no) ma in quel periodo un significato l’aveva. Si parlava di autonomia artistica e do it yourself, di etichette e di subcultura giovanile, di un concetto ancora vago dal punto di vista musicale (l’alt-rock) ma integro e condiviso a livello etico. A pensarci, tolto questo ultimo punto, non è che il discorso sia cambiato poi tanto. Gli Unwound, comunque, sono stati tra i più fedeli alla linea. Hanno stampato quasi tutta la loro discografia per Kill Rock Stars rinunciando alle sirene delle major che pure erano arrivate e sono rimasti in groppa a un’idea autogestita del proprio lavoro, finanche timida. Già perché gli Unwound non erano al centro del mondo grunge come i Nirvana o i Melvins (nomi tutelari del loro suono perché era quello che passava il circondario, visto che Olympia è a due passi da Seattle), non erano arty come certi Sonic Youth e nemmeno incazzati come l’hardcore, o meglio, il post-hardcore targato DC. Eppure respirano tutto, presentandosi all’International Pop Underground Convention e contaminando i propri riff con quelli di Bikini Kills e Nation of Ulysses, per poi accoppiarsi in tour con le band più disparate, dai Green Day agli Half Japanese: detta in altri termini, studiano quel che sta succedendo in America. Da qui nasce la loro produzione, i cui primi vagiti sono stati già documentati nella prima ristampa a cura Numero Group, Kid Is Gone, di cui Rat City rappresenta l’ideale proseguimento. Questo triplo LP racchiude il momento di massimo splendore della band, ovvero i primi due album, a cui si aggiunge il solito bonus di singoli, radio session e materiale recuperato da compilation varie. Ne esce il ritratto di un gruppo che suona ostinatamente 90s, il cui unico demerito è forse quello di essere arrivato secondo rispetto a molti dei sopracitati. Ma il debutto su Kill Rock Stars, Fake Train (1993), è il noise rock perfetto. Ha un’esteica DIY, è affiliato agli equilibri dei Sonic Youth targati Evol ma guarda anche ai Fugazi, gode di un’intimismo in soffice headbanging: gente come i Blonde Redhead costruiranno una discografia su questo disco, un lavoro retto da una scrittura indubbiamente pop, legata a doppio filo con la forma canzone e i giochi pieno/vuoto tra basso e chitarra, ma non rigida o schematica. Il concetto è ribadito e se possibile ingigantito da New Plastic Ideas, disco fotocopia che mantiene invariato lo scheletro Unwound, salvo ammorbidire leggermente gli spigoli con l’aggancio alle strutture e all’inquietudine esistenziale del post-rock marca Codeine/Slint (Abstraktions e Arboretum), dimostrandosi lavoro ragionato anche nei momenti punk e feroci (dall’incipit Entirely Different Matters a What was Wound). La strada è tracciata. Arriveranno una manciata di singoli qui documentati, utili per fare qualche esperimento (vedi i fiati che compaiono in Negated/Said serial/Census) e trovare nuovi/vecchi punti di riferimento (bella la cover dei Minutemen Plight e il funk di Another Practice), per poi inanellare una serie di dischi che annacqueranno la matrice noise rock sul versante sentimentale, rimanendo comunque su standard più che accettabili. Ma tutto quello che dovete sapere sugli Unwound è racchiuso in questo box. Stefano Gaz 155 TRA I TANTISSIMI IN ARRIVO! 29 MAGGIO 2014: LOREDANA BERTE' 03 GIUGNO 2014: BOMBINO 05 GIUGNO 2014: CLOUD NOTHINGS 07 GIUGNO 2014: MULATU ASTATKE 11 GIUGNO 2014: ESTRA 22 GIUGNO 2014: PIERS FACCINI 24 GIUGNO 2014: MASSIMO VOLUME 26 GIUGNO 2014: CALIBRO 35 03 LUGLIO 2014: LEVANTE 07 LUGLIO 2014: NEW YORK SKA JAZZ ENSEMBLE 15 LUGLIO 2014: JOHN BUTLER TRIO 16 LUGLIO 2014: GORAN BREGOVIC 18 LUGLIO 20143: BANDABARDO' 22 LUGLIO 2014: PAOLA TURCI 24 LUGLIO 2014: WILLIAM FITZSIMMONS 27 LUGLIO 2014: EASY STAR ALL STARS 03 AGOSTO 2014: NOFX Via Granelli 1, Sesto San Giovanni (MI) www.carroponte.org Prevendite disponibili sui circuiti TicketOne e VivaTicket