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Giuseppe Fabbri Sesto, alla sinistra del potere Giornali, politici, edilizia e cultura nella Sesto San Giovanni tra Filippo Penati e Giorgio Oldrini Giuseppe Fabbri, Sesto, alla sinistra del potere Copyright© 2012 Edizioni del Faro Gruppo Editoriale Tangram Srl Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizionidelfaro.it – [email protected] Prima edizione: aprile 2012 – Printed in Italy ISBN: 978-88-6537-095-7 In copertina: Ceci n’est pas un bâtiment Stampa su carta ecologica proveniente da zone in silvicoltura, totalmente priva di cloro. Non contiene sbiancanti ottici, è acid free con riserva alcalina Sommario Prefazione Una città senza ambizioni Ai sestesi 9 12 Città informale 15 Figli 19 Ti amministro e canto 21 Anonimi e furibondi 25 Sistema Sesto 29 Cementification 33 Giornaloni 37 I miei architetti 43 Svuotacity 49 Divide & impera 55 Vendo dunque Sesto 59 Paganini Superstar 63 Poesia & prosa 67 Teatro Gaber 71 Ciclopedonalità addio 75 Rifo 79 Via Forlì 85 Votati… alla sconfitta 91 Vulcano… che dorme 95 In house sto bene 101 Verdi… di rabbia 105 Pd 109 GiocaSesto 113 Ricorsi, sentenze e documenti 1. Bonifica Vulcano 2. Palazzo ABB 3. Legge Regionale 9/99 4. La ricetta di Legambiente 5. Il CoReCo vs Penati 6. Di Caterina concusso 7. Hueller alla città 8. No Pgt 9. Specializzazione: cimiteri 10. Di Caterina batte cassa Intervista a Orazio La Corte 117 121 127 130 133 139 143 145 152 154 159 Sesto, alla sinistra del potere Giornali, politici, edilizia e cultura nella Sesto San Giovanni tra Filippo Penati e Giorgio Oldrini Prefazione di Giuseppe Calabrese Una città senza ambizioni Ho conosciuto Giuseppe Fabbri ai primi del 2000. Ci incontravamo sempre alla Saint Denis: il mercoledì, nelle ore del nuoto libero. Forse era destino che la nostra amicizia si stringesse dentro un impianto comunale, in un bene comune, anche se in realtà s’è consolidata davvero successivamente al suo interesse per un mio romanzo, che recensì su Cittànostra. Da allora non abbiamo mai smesso di chiacchierare su tutto e, non ultimo, sulla nostra cara Sesto San Giovanni, oltre che sull’altrettanto cara Saint Denis, in stato di evidente decadimento e funzionante solo grazie al magistrale lavoro del grande Rosario. «Ma il Comune che fa?», chiedevo io; e Giuseppe puntualmente mi esprimeva la delusione nei confronti, in particolare, della leadership di Giorgio Oldrini, il nuovo sindaco dal 2002, da lui pure votato, ma che, dopo qualche illusione iniziale, aveva robustamente dimostrato d’avere in testa ben altre priorità che migliorare la qualità della vita ai sestesi. L’attenzione della maggioranza consigliare e della giunta era molto più impegnata a far fruttare le aree edificabili libere, non libere o da liberare della città esistente e poi delle fabbriche dismesse piuttosto che a riqualificare la nostra Sesto. E a riguardo di ciò i racconti di Giuseppe alternavano sempre lo sconforto e l’indignazione all’ironia, disposizione d’animo, quest’ultima, che non lo ha mai abbandonato, e infatti attraversa l’intera trama di Sesto, alla sinistra del potere, rendendone la lettura piacevole, malgrado il contenuto stimoli ben altre emozioni. Ebbene, siamo delusi in tanti. Anch’io. Quello che è accaduto a Sesto in questi anni già lo anticipava bene Pier Paolo Pasolini quando, negli anni set- 9 tanta, parlava di sviluppo senza progresso per denunciare l’incapacità italiana di governare l’avvento della civiltà dei consumi, che imponeva il tramonto di ogni tradizione, anche di quella operaia, e una crescita economica senza orizzonti e fine a se stessa. Sviluppo senza progresso nella sua forma attuale significa pensare solo al contingente, all’immediatezza del profitto che stimola l’affarismo delle banche, l’avidità di volumetrie dei costruttori, la preoccupazione dei politici di garantirsi risorse per le prossime campagne elettorali. Al contrario mantenere congiunti progresso e sviluppo significa impostare una prospettiva di crescita finalizzata a costruire un bene prezioso: l’identità, ossia quella consapevolezza di sé, che si fonda sul senso di appartenenza a un luogo, sulla trasmissione di una memoria storica alle successive generazioni. Sviluppo e progresso devono giustamente scontrarsi e disputarsi palmo a palmo il territorio sul quale vogliono affermare le proprie istanze ed esigenze, ma anche giungere a un accordo che li porti a un ri-conoscimento reciproco. Va da sé che le istanze del progresso dovevano essere incarnate dagli amministratori pubblici sestesi, in quanto espressione della democrazia elettiva e degli interessi della cittadinanza. Quanto allo sviluppo certamente non si è avuta l’impressione che i vari Zunino e Caltagirone fossero imprenditori granché illuminati, ma questo passa l’imprenditoria italiana. Scorrendo comunque le pagine di Sesto, alla sinistra del potere, non c’è alcuna evidenza che questo conflitto sia mai avvenuto in termini di parità; anzi si direbbe piuttosto che nel comune sestese in questi anni abbia operato un comitato d’affari più preoccupato a spartirsi la torta delle aree edificabili, non ultime quelle dismesse, che a migliorare la nostra vita. Sorge allora spontanea una domanda: come è stato possibile che gli eredi del grande Pci sestese, il partito al fianco delle lotte operaie del ’900 della città italiana, forse, più rappresentativa di queste lotte, non abbiano nutrito l’ambizione di riqualificare Sesto San Giovanni come una città postindustriale capace di mantenere ancora viva la propria identità storica? Perché così tante fabbriche sono state demolite senza che di esse rimanesse traccia se non delle patetiche targhe ricordo? Non era proprio possibile ristrutturarle e, magari, rilanciarle a nuove attività produttive? La risposta la si può cogliere nell’evidenza dei fatti riportati nel libro: per la Stalingrado d’Italia nessuno nutriva più un vero orgoglio dal quale far scaturire una rinnovata ambizione per il futuro, che avrebbe evitato al progresso di finire soggiogato dallo sviluppo. 10 Questa considerazione, però, ne provoca un’altra ancora più dolorosa. E cioè che quel passato sia stato volutamente rimosso perché Sesto, probabilmente, non è mai stata considerata dai suoi stessi abitanti come una vera città, ma solo come un sobborgo industriale dal quale andarsene il prima possibile. Una città mai amata veramente da chi la popolava proprio all’epoca della “città delle fabbriche”, perché irrimediabilmente brutta, triste, inospitale, dove il lavoro poteva uccidere, ferire, provocare malattie. Forse è in questa segreta vergogna per la sofferenza patita nelle e vicino alle fabbriche che va ricercata l’origine di quella silenziosa complicità culturale tra cittadini e mediocri amministratori pubblici, che ha reso accettabile che dismissione equivalesse a distruzione di un patrimonio e di un passato. La memoria della città andava costruita pezzo per pezzo, giorno dopo giorno. Conservare quanto più possibile della quotidianità operaia sarebbe stata la vera opera di testimonianza su come il lavoro era stato concepito e vissuto nell’arco di ben due rivoluzioni industriali. Allora sì che la fatica e l’alienazione della fabbrica si sarebbero riscattate nell’estetica delle fabbriche, luoghi di nuovo intrecciati nel tessuto urbano cittadino, ma ora disponibili a rinnovare e riattualizzare il racconto dell’Homo Faber e della sua fierezza. Un lascito non certo trascurabile, che Sesto San Giovanni avrebbe consegnato alla storia e che col tempo sarebbe stato lautamente ripagato. Ma le cose sono andate diversamente, e con la fine dell’orgoglio per il passato è morta anche ogni ambizione per un modello di crescita della città a misura d’uomo prima ancora che di consumatore. Il progresso ha preferito passare la mano ad architetti e costruttori che hanno acceso dei potenti fari sulle aree edificabili, su quelle dismesse in particolare, lasciando al buio il resto della città, dove la qualità della vita dei sestesi non ha conosciuto alcun miglioramento. Tema sul quale il testo di Giuseppe documenta a sufficienza. Ora, una città nella città sta per essere costruita. L’ha progettata un archistar, Renzo Piano e, per i fortunati che ci vivranno, sarà una “Sesto 2” con tutto quel che serve: servizi, verde pubblico, piste davvero ciclabili, e anche quel po’ di storia che nella città storica è stato o cancellato o stravolto. Ma era questa l’ambizione sul futuro sestese? Realizzare una città esclusiva solo per un certo numero di eletti? Qualcosa di simile alla berlusconiana “Milano 2?” Se sì, vuol dire che la storia si ripete con una monotonia sconcertante: i potenti e i ricchi vincono sempre. Anche nella ex Stalingrado d’Italia, medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza. 11 Ai sestesi La mia carriera di giornalista sestese è stata breve: non più di un decennio a partire dal 1999. Ma mi sono divertito. Ed è forse per questo, perché è stato tutto sommato un piacere, che nel 2006 scrissi per Cittànostra, il giornale per cui unicamente lavoravo, il prodotto che più mi piace ricordare di quella mia stagione, e che a questo libro allego: GiOCAsesto, un gioco dell’oca in cui chi gareggia deve arrivare alla casella numero 90, percorrendo tappe, ostacoli, premi e penalty coincidenti con gli eventi politici, sociali e anche economici, positivi, negativi o così così, di un’intera, come si dice oggi, consigliatura: quella sestese del 2002-2007. È il mio omaggio ai dieci lettori di questo libro che in città non ha trovato editori. Il libro non è propedeutico al gioco, meglio tuttavia leggerlo prima di “trarre i dadi”. Cittànostra, che ha chiuso nel 2007, era un tipico mini foglio sestese, un quindicinale di 8-16 pagine, sostenuto dalla pubblicità e distribuito nelle chiese gratis o in cambio dell’obolo. Poche migliaia di copie. Ancora di meno probabilmente i lettori; ma lo colloco in cima a tutti i giornali per cui ho lavorato, perché, occupandosi solo di Sesto San Giovanni, mi ha consentito in quei sette-otto anni, prima sotto la regia di Nino Pischetola, poi sotto il governo di Don Massimo Pavanello, di interessarmi della mia città nel modo che più desideravo: scrivendo su di essa. A Cittànostra infatti mi son giovato di una libertà d’azione che, son certo, nessun altro giornale sestese di quell’epoca mi avrebbe permesso, e molto probabilmente neppure di oggi. Era il giornale della chiesa sestese e il direttore un prete, Don Massimo appunto, della parrocchia di San Giuseppe, in via XX settembre. Misura e moderazione erano le prime due regole di stile. La terza, gerarchia: nel senso che il comando era tutto del direttore e a me come agli altri in linea di principio spettava solo, pur in un clima di rispetto e ascolto, e anche collaborazione, di portare a termine incarichi, cioè articoli. E questo appunto facevo anch’io: come gli altri, Giulio Franceschi o Rosy Matrangolo, Dario Martucci o Matteo Mazza, tutti giovani e molto più giovani di me. Nel corso delle riunioni di redazione il direttore ci dava le consegne, poi egli stesso disegnava il menabò, che consisteva nel predisporre gli spazi per ciascuno degli articoli in arrivo, e io tra il lunedì e il mercoledì della settimana nella cui domenica il giornale sarebbe stato offerto ai lettori nelle chiese e in altri pochi punti cittadini, inserivo i pezzi, aggiustandoli, correggendoli ed elaborando i titoli. Lavoravo al desk, come si dice. Lavoro per il quale, ed era a ben guardare la vera differenza rispetto agli altri collaboratori, ero retribuito 12 con un contratto cococo. Circa cinquecento euro al mese, escluso agosto. Matteo, Giulio, Rosy erano meno fortunati: erano pagati ad articoli, credo addirittura misurati a righe. Mentre però svolgevo le mie mansioni retribuite, mentre correggevo, impaginavo, partecipavo a conferenze stampa per gli articoli che Don Massimo mi ordinava, lavoravo anche ad articoli miei, indagando, chiedendo, leggendo e fiutando altrove. E sempre i miei lavori uscivano quanto gli altri, perché in un giornale c’è sempre bisogno di roba fresca e don Massimo sempre supervisionava, mai osteggiava o, peggio, censurava. Era del resto troppo prorompente la mia voglia di parlare della mia città senza riverenze. Credo l’abbia capito al volo, facendo, come si dice, di necessità virtù. Tutto per dire che Sesto, alla sinistra del potere nasce da quell’esperienza e comunque sulla scia di quell’esperienza lì: che appunto mi ha consentito di trasformarmi da tipico sestese che poco o niente sa della sua città, ad altrettanto tipico sestese profondamente immerso nel pastone di faccende politiche, sociali, culturali, economiche e urbanistiche locali. Peraltro, dopo Cittànostra, dopo la chiusura del quindicinale della chiesa sestese, ho scritto per lo Specchio. Non ho così perso il filo della narrazione e sono arrivato fino a qui: a questo faziosissimo libello. Che però, è giusto aggiungere, nasce soprattutto grazie a Sesto San Giovanni stessa. Questa piccola grande ex-capitale industriale tra Milano e Monza, seconda città della provincia di Milano, che oggi supera appena gli ottantamila abitanti, ma ha sfiorato i centomila tra la fine degli anni settanta e i primi degli ottanta quando peraltro era già parecchio avanzato il declino della presenza industriale che nel ’44, tra operai, tecnici e impiegati, dava lavoro a 43 mila persone, mentre oggi, anche secondo un’inchiesta del Sole 24 ore del febbraio 2011, gli operai a Sesto saranno non più di un migliaio. Questa piccola grande città, che offre al giornalista una cornucopia di notizie: una cornucopia di undici virgola otto chilometri quadrati, che percorri in lungo e in largo in bicicletta, e pure a piedi, se, come si diceva una volta, ami fare il giornalista consumando la suola delle scarpe, e non t’accontenti del telefono, di internet, delle conferenze stampa o, peggio, dei comunicati stampa, comunque preziosissimi. La ringrazi, perché Sesto senza dubbio ti fa scrivere articoli, ma anche inchieste, su argomenti complessi e d’avanguardia, pur stando in un medio centro europeo. È la giusta sede di un Master in giornalismo, in piazza Montanelli. W Sesto! A cui quindi dedico il libro. Che ha una principale finalità. Vorrebbe scuotere i sestesi d’ogni colore politico, età ed etnia, almeno quelli più interessati 13 alla cosa pubblica, affinché si impegnino di più per riappropriarsi di Sesto San Giovanni. Che è anche la nostra città. Questo in effetti vorrei che fosse il sottotitolo di questo lavoro: È anche la nostra città. Non solo la “loro”. Pretendano quindi di più, i sestesi, dai propri amministratori locali: almeno tanto quanto da quelli del proprio condominio. Non c’è altro modo oggi per ottenere reali miglioramenti nel vivere privato e collettivo. Indirettamente, quindi, Sesto, alla sinistra del potere è anche un po’ un testo di educazione civica: non tanto, o non solo, in quanto fornisce delle nozioni su quella parte di nazione e stato che ci sta più vicina, la città in cui viviamo; bensì soprattutto perché pretende di render edotti i sestesi di quanto questa stessa città abbia bisogno di uno sguardo magari affettuoso sì, ma sempre disincantato e critico. Una attenzione che non consenta mai a chi ne sta alla guida temporanea di riposare sugli allori, mistificare, trattarla come cosa propria: come è avvenuto nell’ultimo ventennio, e come le indagini della magistratura stanno dimostrando anche prescindendo dai risvolti penali. Trattarla come un feudo ottimo soprattutto per la carriera politica, ma anche professionale, dei propri campioni. Sperando, naturalmente, che in questo civico e impegnativo esercizio la stampa locale contribuisca in modo più disinteressato e coraggioso. E adesso lasciatemi dire come il giovane De Rastignac: a noi, Sesto San Giovanni! 14 Città informale Nel cimitero di Sesto San Giovanni, quello vecchio in via Crescenzago, in direzione di via Adriano, di Milano e del canale della Martesana, procedendo subito a sinistra dopo l’ingresso, si arriva a una struttura rossiccia, in mattoni, con due entrate. Pochi gradini e siete nella cappella dei giusti sestesi e cioè tra i colombari in marmo nero, nei quali riposano gli amministratori e i politici che dal secondo dopoguerra a oggi hanno retto il timone della città medaglia d’oro al valor militare. Ci trovate il primo sindaco Rodolfo Camagni Venanzio (1944-1946), il grande Abramo Oldrini, padre del sindaco uscente, che succedette a Camagni nel ’46, e Libero Biagi, partigiano, socialista e sindaco per quindici anni. Ma anche Monsignor Luigi Olgiati, il prete autore, ultimo suo libro, di un saggio sulla sestesità e amico… s’intende idealmente. Prete, ma inumato insieme a Noè Trezzi, presidente Anpi e assessore, morto nel 1977; Sergio Valmaggi, assessore e consigliere regionale, oltre che padre di Sara, ex assessore sestese e attuale vicepresidente regionale al posto del dimissionario Filippo Penati, del quale la madre di Sara, Ida Nora Radice, raccontano le carte dei magistrati monzesi che indagano sull’ex sindaco, è la tesoriera: raccoglie cioè le offerte a Faremetropoli, la fondazione di Penati, che però potrebbero, secondo gli inquirenti, essere tangenti. E poi Giuseppe Carrà, l’ultimo arrivato (gennaio 2012), che fu un vero colosso del Pci-Pd: partigiano, sindaco (1962-70), deputato, leader della mitica Geas, la società sportiva che con la pallacanestro femminile vinse negli anni settanta il trofeo europeo, e… pure detenuto a San Vittore nel 1994 per tangenti. Secondo i pm ne aveva consegnata una di 130 milioni di lire al sindaco di Segrate per conto dell’impresa De Bartolomeis che si era aggiudicata i lavoro di ristrutturazione del forno d’incenerimento dei rifiuti di via Manin, a Sesto, verso l’imbocco della tangenziale est, costato 65 miliardi di lire. Per non dire, tra gli ultimi qui approdati, di Carlo Talamucci, 15 operaio, assessore alla cultura e animatore culturale fino all’ultimo suo alito di vita. Ma poi, dopo l’immersione tra queste tombe dense di civici e politici onori, oltre che tra quelle altre vicine del tempietto dedicato ai caduti e alla patria, ai partigiani sestesi uccisi e ai deportati nei campi nazisti, tra cui il deportato ignoto, nomi tutti di vie e piazze e lapidi con la corona d’alloro e la luce rossa, che il giorno della liberazione la banda onora in solenne cerimonia: usciti insomma da via Crescenzago, non troverete mai a Sesto, in una piazza o dentro un parco, un oggetto artistico commemorativo o evocativo di un essere umano o di un’impresa eroica. Unica eccezione la statua di Salvo D’Acquisto, il vicebrigadiere, medaglia d’oro al valor militare, forgiata, come racconta l’assessore ai lavori pubblici Vincenzo Amato, grazie a una colletta dell’associazione dell’Arma. Non è però forse un caso se tre designer urbani a libro paga del Comune (preventivo di 22 mila euro) l’avrebbero volentieri tolta dallo slargo omonimo, tra via Adua e viale Gramsci, perché sta proprio in faccia al nuovo complesso Campari di Giancarlo Marzorati e Mario Botta. Non faceva pendant col nuovo arredo dai tre progettato tutto all’insegna del brand residenzial-produttivo che si erge sull’altro lato del viale. Amato li ha stoppati, i tre smemorati, ma una rondine non fa primavera. Infatti una regola misteriosa ma ferrea sembra nel tempo aver decretato che a presidio artistico di vie e piazze sestesi debbano fungere solo sculture informali o astratte. In piazza Abramo Oldrini, che è dei primi anni novanta, piuttosto di una creazione in qualche modo evocativa di un padre della città, la nomenclatura cittadina guidata allora dall’attuale senatrice Pd Fiorenza Bassoli, volle un fascio di aste di metallo emergenti dal parking sotterraneo della piazza oblique e pitturate di rosso in punta. Un’opera di Luigi Veronesi di scarsissima suggestione artistica, oltre che civile, che più fredda e indifferente non si potrebbe, anche se, a quanto pare, alluderebbe allo sviluppo della Sesto San Giovanni industriale o, secondo altri, all’ascesa della classe operaia. Recentemente è stata trasferita nel giardino di viale Marelli insieme a un altro monumento riesumato di Michele Festa: naturalmente anche questo esprimente un puro volume “precario”, “instabile”, primordiale. Tutto il nuovo a Sesto sembra infatti non debba spostare la mente più in là della protostoria. Come l’enorme logo in metallo e legno piazzato in piazza Caleffi, che il Centro d’iniziativa proletaria G. Tagarelli di via Magenta, impegnato nella battaglia civile a favore dei morti d’amianto in Breda, adottò a simbolo dei suoi martiri, non senza polemiche: sterili visto che quell’oggetto fino ad 16