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Il trasferimento illegittimo

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Il trasferimento illegittimo
SED LEX
Dossier anno 3 n. 2-2012
Il trasferimento illegittimo
Il trasferimento del lavoratore: definizione ........................................................................................................2
Trasferimento e trasferta.....................................................................................................................................................3
Gli aspetti procedurali e l’obbligo di motivazione
...........................................................................................4
Le ipotesi di non trasferibilità...................................................................................................................................5
Il problema del trasferimento “disciplinare”
Il trasferimento illegittimo: conseguenze
....................................................................................................6
..........................................................................................................7
Dossier SED Lex – anno 3, n.2 febbraio 2012
©Editore Zadig via Ampère 59, 20131 Milano
www.zadig.it - e-mail: [email protected]
tel.: 02 7526131 fax: 02 76113040
Direttore: Roberto Satolli
Redazione: Nicoletta Scarpa
Autore dossier: Marco Biasi
Il trasferimento illegittimo
1.
Il trasferimento del lavoratore: definizione
Il trasferimento è il provvedimento datoriale che prevede il cambiamento del luogo di esecuzione della pre stazione del lavoratore in modo – tendenzialmente – definitivo.
Proprio per questa sua peculiarità, il trasferimento può coinvolgere, e normalmente coinvolge, diversi e delicati aspetti della vita professionale e personale del lavoratore, anche comportare un cambio di residenza o di
dimora di quest’ultimo e della sua famiglia; a ciò si aggiungono le considerazioni inevitabili circa il fatto che,
spesso, tale provvedimento, nella pratica, cela o anticipa una risoluzione vera e propria del rapporto di lavoro, dovuta all’impossibilità o al rifiuto del lavoratore di ottemperare all'ordine datoriale.
L'istituto del trasferimento del lavoratore trova la propria disciplina nell'art. 2103, ultimo comma del codice
civile, così come modificato dall'art. 13 dello Statuto dei Lavoratori (L. 20.5.1970, n. 300): in particolare, si
legge nell’attuale formulazione del 2103 c.c. che il lavoratore “non può essere trasferito da una unità produttiva a un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
Il potere di modificare il luogo di lavoro rientra quindi tra i poteri direttivi e modificativi del datore di lavoro,
espressione del c.d. “ius variandi”, potere che il datore di lavoro, così come previsto dal richiamato art. 2103
c.c., può esercitare tanto nella scelta delle mansioni, con il limite dell’equivalenza e con il divieto di deman sionamento, quanto nella scelta del luogo della prestazione, in presenza, come detto, delle “comprovate ragioni” sopra richiamate (su cui v., più diffusamente, sub §5).
A integrare le piuttosto scarne previsioni legislative, di sovente la contrattazione collettiva si occupa dell’isti tuto in parola, disciplinando sia l'aspetto formale/procedurale (relativo, per esempio, alle modalità di preavviso e alla forma della comunicazione), sia l'aspetto patrimoniale: spesso, infatti, i contratti collettivi prevedono forme di rimborso spese o addirittura aumenti retributivi (c.d. “indennità di trasferimento”) a favore
del lavoratore trasferito, proprio per compensare i disagi normalmente derivanti al lavoratore per effetto dello spostamento del luogo di esecuzione della sua prestazione.
Tornando alla nozione di trasferimento, si osserva infatti che, come si dirà meglio infra, tale provvedimento è
connesso all'idea di un mutamento geografico-territoriale del luogo della prestazione di lavoro; sul punto va,
tuttavia, precisato che, come si legge nell’art. 2103 c.c., non tutti i mutamenti territoriali del luogo di lavoro
sono identificabili come un trasferimento, ma solo quelli da una “unità produttiva” all'altra.
Peraltro, lo stesso concetto di “unità produttiva”, richiamato da diverse disposizioni dello Statuto dei Lavoratori, tra cui, oltre all’18 S.L., anche il citato art. 13 S.L., è da tempo al centro di un dibattito che, per ragioni di
sintesi, non è consentito approfondire, pur dovendosi osservare che, con riferimento al trasferimento, la dottrina ha elaborato due diverse letture: secondo una prima tesi, c.d. “pluralista” e ritenuta maggiormente garantista per il lavoratore, il concetto di “unità produttiva” non deve essere letto in chiave sistematica all'interno delle norme dello Statuto dei Lavoratori, ma “decontestualizzato”, in modo da interpretarlo alla luce
dell'interesse che la singola norma protegge.
Posto, quindi, che l'interesse tutelato dall'art. 2103 c.c., così come modificato dall’13 S.L., è quello di proteggere il lavoratore da mutamenti del luogo di lavoro, secondo la teoria “pluralista” si dovrebbe configurare un
trasferimento in tutti i casi di rilevante mutamento del luogo di lavoro, ossia dell’“unità produttiva” di appartenenza.
Viceversa, secondo la teoria “unitaria”, il concetto di unità produttiva, anche ai fini della configurazione di un
trasferimento, andrebbe ricavato dalle disposizioni dello Statuto relative all’esercizio dei diritti sindacali, e in
particolare l’art. 35 S.L., venendo il lavoratore tutelato contro quegli spostamenti che lo sradicherebbero dal
gruppo di dipendenti nel quale e per il quale gode della tutela sindacale in azienda, oltre che della protezione
reale contro il licenziamento (Cass. 21.2.2002, n. 12121). Consistendo, allora, l’unità produttiva in quell’“articolazione autonoma dell'impresa avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità a esplicare, in tut to o in parte, l'attività di produzione di beni e di servizi dell'impresa medesima, della quale costituisce ele mento organizzativo” (così Cass. 22.3.2005, n. 6117), in alcuni casi è stata addirittura esclusa la rilevanza
geografica dello spostamento, così da ammettersi la possibilità di uno spostamento territoriale senza trasferimento (se l’unità produttiva comprende sedi separate), e, al contempo, l’ipotesi di trasferimento in senso tec nico senza spostamento topografico (Cass. 14.5.1985, n. 2995).
Tuttavia, si può da ultimo osservare come, sia pure con un certo grado di approssimazione, l'elemento della
distanza dello spostamento viene ritenuto normalmente determinante dalla giurisprudenza ai fini della configurazione di un trasferimento (da ultimo, Cass. 29.7.2003, n. 11660; Cass. 20.7.2001, n. 9881), tanto che si è
escluso, da un lato, che tale spostamento possa esaurirsi nell'ambito di un medesimo comune, dovendo implicare un percorso tale da non consentire un semplice cambio di itinerario per raggiungere il posto di lavoro
(così Cass. 25.5.1999, n. 5153), dall’altro lato, che lo spostamento di un lavoratore all’interno della stessa uni-2-
Il trasferimento illegittimo
tà produttiva possa configurare un trasferimento ex art. 2103 c.c. (ex multis, Cass. 3.6.2000, n. 7440;
Cass.26.3.1999, n. 2905).
Trasferimento e trasferta
Oltre all’elemento spaziale, l'elemento temporale assume particolare rilevanza ai fini della definizione e della
connotazione del trasferimento del lavoratore: tale elemento è, infatti, fondamentale per differenziarlo da un
altro istituto che, pur potendo concettualmente avvicinarsi al trasferimento per motivi legati al cambiamento
del luogo di lavoro, di fatto se ne discosta proprio per la sua natura temporanea (non definitiva), ovvero la
trasferta.
In assenza di una definizione, oltre che di una disciplina ex lege della trasferta (o missione), la giurisprudenza considera che nell’ambito di quest’ultima rientrino solo i casi di spostamento provvisorio del luogo di lavoro, la cui durata dipende dall’esaurimento dello scopo per il quale lo spostamento è stato disposto da parte
del datore di lavoro, e ciò a differenza della sostanziale “stabilità” del trasferimento (Cass. 6.10.2008, n.
24658).
E infatti, a differenza del trasferimento, il lavoratore inviato in trasferta ha l’assoluta certezza del rientro all’unità di partenza: di conseguenza, ad avviso della giurisprudenza, il provvedimento del datore di lavoro, an che se formalmente qualificato come “trasferta”, deve essere considerato alla stregua di un trasferimento se
non contiene l’indicazione di una precisa data di rientro, o se omette del tutto tale indicazione (v. Cass.
26.1.1989, n. 475).
Peraltro, secondo parte della giurisprudenza, oltre all’elemento temporale, è necessario, ai fini della distinzione tra trasferimento e trasferta, che, in quest’ultima ipotesi, il lavoratore mantenga “un permanente legame con l’originario luogo di lavoro, restando irrilevanti, a tal fine, la protrazione dello spostamento per un
lungo periodo di tempo e la eventuale coincidenza del luogo di trasferta con quello di un successivo trasfe rimento” (Cass. 21.3.2006, n. 6240; Cass. 19.11.2001, n. 14470).
A.2 Trasferimento e distacco
Un altro istituto che presenta alcune affinità con il trasferimento è il distacco (o “comando”) del lavoratore,
che, giusto il disposto dell’art. 30 D.Lgs. 276/2003, si configura quando “un datore di lavoro, per soddisfare
un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l'ese cuzione di una determinata attività lavorativa”.
Anche il distacco, così come la trasferta, si differenzia dal trasferimento per il requisito della temporaneità,
non essendo destinato a rimanere un provvedimento definitivo, anche se, a differenza di quest’ultima, il lavoratore distaccato si trova a prestare la propria attività presso e a favore di un altro soggetto giuridico e, dunque, non presso una diversa unità produttiva della medesima impresa (come nel trasferimento e nella tra sferta).
Come detto, alla base del distacco deve sussistere l'interesse del datore di lavoro distaccante, che normalmente si concreta nei casi di distacco a favore di una società appartenente al medesimo Gruppo, ovvero nei casi in
cui il lavoratore venga inviato presso un’impresa terza allo scopo di apprendere tecniche operative che poi
possano essere valorizzate al momento del rientro presso l'impresa distaccante; inoltre, a conferma della persistenza del legame del lavoratore distaccato con il proprio datore di lavoro, la legge prevede che in capo a
quest’ultimo rimanga la responsabilità del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore distaccato (art. 30 D.Lgs. 276/2003).
Da ultimo, similmente a quanto previsto per il trasferimento (v. infra), anche nel caso di distacco non è richiesto il consenso del lavoratore comandato, ma, qualora il provvedimento implichi uno spostamento del lavoratore verso una sede produttiva sita ad oltre 50 chilometri dall'originaria sede di lavoro, il distacco può
avvenire solo in presenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive”, o, in aggiunta a quanto previsto dall’art. 2103 c.c. per il trasferimento, “sostitutive”: risulta allora chiaro che, nonostante gli istituti del distacco e del trasferimento presentino notevoli divergenze, entrambe le discipline si prefiggono l’obiettivo di salvaguardare il lavoratore nel caso di un rilevante spostamento territoriale del luogo di lavoro.
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Il trasferimento illegittimo
2.
Gli aspetti procedurali e l’obbligo di motivazione
Data la delicatezza degli interessi su cui il trasferimento può incidere, tale provvedimento deve rispettare im prescindibili requisiti di tempo, di contenuto e di forma.
In primo luogo, il trasferimento deve essere comunicato in tempi congrui, ossia tempestivamente, per la cui
valutazione è possibile, secondo parte della giurisprudenza, fare riferimento in via analogica al termine di
preavviso previsto dalla contrattazione collettiva per il licenziamento individuale (Cass. S.U. 15.7.1986, n.
4572).
In secondo luogo, il contenuto del provvedimento deve presentare l'indicazione della nuova sede lavorativa e
le motivazioni per cui il lavoratore viene trasferito, ossia l’indicazione delle “ragioni tecniche, organizzative
e produttive” che l’art. 2103 c.c. richiede alla base dell’ordine datoriale: se l’enunciazione dei motivi non viene comunicata contestualmente da parte del datore di lavoro, il lavoratore ha facoltà di richiederli e sarà allo ra onere del datore di lavoro comunicarli tempestivamente, pena l'inefficacia del provvedimento (Cass.
15.5.2004, n. 9290), come nell’ipotesi di mancata comunicazione dei motivi del licenziamento, a fronte della
richiesta del lavoratore (art. 2 L. 604/1966); a ogni modo, non vi è dubbio circa il fatto che, nell’ipotesi di
contestazione del provvedimento in sede giudiziale da parte del lavoratore, sia comunque il datore di lavoro a
dover dimostrare la sussistenza e la congruità della motivazione del trasferimento (v., ex plurimis, Cass.
5.1.2007 n. 43), e ciò sempre con riferimento alla posizione del singolo lavoratore, anche nei casi di trasferi mento c.d. “collettivo” (Cass. 18.11.1999, n. 12181).
A proposito del delicato aspetto della motivazione del trasferimento, poi, si osserva che, ad avviso di parte
della giurisprudenza, le “ragioni tecniche, organizzative e produttive” debbono sussistere sia con riferimento
alla sede di destinazione che a quella di provenienza (Cass. 28.8.1976 n. 3065): in buona sostanza, il datore di
lavoro che intenda imporre un trasferimento dovrebbe provare, da un lato, l'impossibilità di una diversa col locazione nell'unità produttiva in cui il lavoratore che si intende trasferire è operante, dall’altro, la necessità
di un inserimento di quel lavoratore nell'unità produttiva cui pretende di destinarlo (v., di recente, Cass.
2.5.2011, n. 9619).
Diversamente, secondo un altro orientamento, il controllo circa la sussistenza delle ragioni tecnico-organizzative idonee a giustificare il trasferimento non si estenderebbe alla dimostrazione dell’inutilizzabilità del di pendente presso la sede a quo, pur restando “insindacabile la scelta discrezionale tra più soluzioni organizzative solo in quanto tutte ugualmente ragionevoli, anche in applicazione dei principi di correttezza e buona fede” (così, da ultimo, Cass. 2.3.2011, n. 5099); oltretutto, tali principi troverebbero applicazione, non tanto e non solo nel momento in cui il datore di lavoro si trovi a decidere il tipo di provvedimento da adottare
per far fronte alleesigenze aziendali (per esempio nella scelta tra un trasferimento e una trasferta, piuttosto
che un distacco), ma anche, e soprattutto, nella scelta del lavoratore da trasferire, da effettuarsi mediante
un’equilibrata valutazione degli interessi in gioco, secondo il canone della correttezza e buona fede, oltre che
nel rigoroso rispetto del divieto di discriminazione.
Peraltro, a prescindere dalla riferibilità delle ragioni dello spostamento alla sola sede di destinazione (ad
quem) o anche al luogo di lavoro originario (a quo), un’altra delicata questione riguarda la natura della scelta
dell’imprenditore: in giurisprudenza persistono, infatti notevoli dubbi sul fatto che si debba trattare di un
provvedimento “inevitabile” (così Cass. 02.05.2011, n. 9619), piuttosto che possa solo trattare di “una delle
possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano organizzativo, tecnico e
produttivo” (così Cass. 02.03.2011, n. 5099), anche alla luce del fatto che, in ogni caso, il controllo giudiziale
sulle ragioni del trasferimento “non può essere dilatato fino a ricomprendere, nel merito, la scelta operata
dall'imprenditore”, rientrante nell’alveo di protezione dell’art. 41 della Costituzione (Cass. 02.03.2011, n.
5099).
Da ultimo, per quanto riguarda la forma del provvedimento, la giurisprudenza maggioritaria sostiene che la
forma scritta sia la forma necessaria ad substantiam (v. Cass. 28.4.1998, n. 4347) e, dunque, a pena di inefficacia, pur dovendosi notare che è spesso la contrattazione collettiva a prevedere espressamente la forma
scritta della comunicazione come requisito di validità dell’ordine datoriale.
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Il trasferimento illegittimo
3.
Le ipotesi di non trasferibilità
Come detto, trattandosi di un potere del datore di lavoro, il trasferimento non necessita del consenso del lavoratore interessato dal provvedimento.
Vi sono, tuttavia, alcune ipotesi eccezionale per le quali non opera la regola descritta: si tratta, in particolare,
del trasferimento dei dirigenti sindacali, che, in base all’art. 22 S.L., può essere disposto “solo previo nulla
osta delle associazioni sindacali di appartenenza”; in caso contrario, il trasferimento viene considerato nullo
e la condotta del datore di lavoro può costituire un comportamento antisindacale ai sensi dell’art. 28 S.L.
Altre norme speciali disciplinano ipotesi di trasferimento di lavoratori in situazioni particolari: nello specifi co, l’art. 33, commi 3,5,6,7 L. 104/1992, che tutela le persone con handicap e le persone loro affidatarie o familiari, prevede necessariamente, nel caso di questi ultimi, il consenso del lavoratore ai fini della validità del
trasferimento: inoltre, anche in caso di trasferimento, il datore di lavoro ha ovviamente l’obbligo di adibire il
lavoratore con handicap a mansioni compatibili con la sua menomazione fisica.
Limitazioni speciali al potere datoriale di disporre un trasferimento vengono poi previste, a favore della lavo ratrice madre, che, ai sensi dell'art. 55 del d.lgs. 151/2001, ha diritto di rientrare in servizio nella medesima
unità produttiva cui era assegnata prima della maternità, dalla quale non può essere trasferita prima del decorso di un anno dalla nascita del bambino.
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4.
Il problema del trasferimento “disciplinare”
Si è molto discusso della possibilità di prevedere il trasferimento del lavoratore anche per motivi disciplinari;
la giurisprudenza si è interrogata sulla legittimità di tale provvedimento, dato che lo stesso sarebbe motivato
da ragioni evidentemente soggettive, invece che oggettive, come apparentemente voluto dall'art. 2103 c.c.
Si ricorda che le sanzioni disciplinari tipiche, elencate all'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, consistono nel
rimprovero verbale o scritto, nella multa o nella sospensione: pur ritenendosi generalmente che non si tratti
di un numero chiuso (non vi è infatti indicazione del licenziamento disciplinare, pacificamente ammesso), il
4° comma del medesimo articolo prescrive che è vietato irrogare sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro, proprio come avviene per effetto del trasferimento, che comporta, per
definizione, un mutamento definitivo del luogo di lavoro.
Se, quindi, la conclusione più immediata parrebbe quella di ritenere vietato il trasferimento del lavoratore
per motivi disciplinari, nella pratica la soluzione non pare così netta, tanto che la stessa giurisprudenza, da
circa un trentennio, tende a consentire il trasferimento per ragioni che siano, sia pure lato sensu, ricollegabili
al comportamento del lavoratore.
Ci si riferisce, in particolare, al caso del trasferimento del lavoratore per “incompatibilità ambientale”, che,
pur basato su ragioni soggettivamente connesse alla persona del lavoratore (per esempio, in caso di tensioni
nei rapporti personali e di contrasti nell'ambiente di lavoro con colleghi o con superiori), viene formalmente
assimilato all'ipotesi di trasferimento per oggettive esigenze aziendali.
Infatti, anche laddove l’incompatibilità ambientale sia dovuta a un comportamento “colpevole” del lavorato re, in particolare rispetto ai doveri di fedeltà e diligenza di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., tale condotta incide
pur sempre sull’andamento tecnico, produttivo e organizzativo dell'azienda, rientrando dunque nell’alveo
dell'art. 2103 c.c.
In definitiva, secondo tale interpretazione, le ragioni di cui all’art. 2103 c.c. non dovrebbero quindi avere natura strettamente oggettiva, sicché il trasferimento per “incompatibilità ambientale” rientrerebbe nelle ipotesi di “comprovate ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo” di cui alla norma citata, uscendo
quindi dall’ambito “disciplinare” dell’art. 7 S.L. (Cass. 2.9.2008, n. 22059; Cass. 2.4.2003, n. 5087).
Diversamente, altra parte della giurisprudenza ritiene invece ammissibile anche il trasferimento prettamente
disciplinare, con tutte le garanzie procedurali previste dall’art. 7 S.L., a fronte della natura “aperta” dell’elencazione delle sanzioni disciplinari contenuta in tale norma, sia pure in presenza di due requisiti, ovvero: a)
che la contrattazione collettiva abbia predeterminato e tipizzato tale sanzione (Cass. 24.3.2010, n.7045); b)
che il datore di lavoro la abbia irrogata a seguito di un adeguato bilanciamento tra il disvalore dell’illecito
commesso e la gravità della sanzione irrogata, ossia “alla luce della necessaria corrispondenza tra la misura
inflitta e le finalità tipiche dell'impresa” (Cass. 6.7.2011, n. 14875).
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Il trasferimento illegittimo
5.
Il trasferimento illegittimo: conseguenze
Dopo aver esaminato le caratteristiche e delle condizioni di validità dell’ordine di trasferimento, ci si chiede
quali siano le conseguenze in caso di trasferimento illegittimo.
Innanzitutto, qualora il lavoratore ritenga che l’ordine datoriale non sia conforme alle previsioni di legge, può
ricorrere alla tutela giurisdizionale, compresa naturalmente quella d’urgenza ex art. 700 c.p.c., al fine di ottenere la dichiarazione di nullità e/o di illegittimità e/o di inefficacia del provvedimento.
Ciò consente al lavoratore di ottenere una tutela di tipo sia ripristinatorio, sia risarcitorio, che tuttavia dipende dal comportamento del lavoratore successivo al trasferimento ritenuto illegittimo: nel caso, infatti, il lavoratore scelga di ottemperare comunque all’ordine datoriale, in attesa della pronuncia che ne accerti l’invalidità, lo stesso potrà chiedere al Giudice, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro originario ( sede a quo), anche il risarcimento dei danni (patrimoniali, professionali, biologici) patiti a causa del trasferimento illegittimo.
Ove, invece, il lavoratore rifiuti di ottemperare all’ordine datoriale del quale contesti la legittimità, la giuri sprudenza ritiene che tale condotta possa costituire un’ipotesi di eccezione di inadempimento ex art. 1460
c.c., dal momento che il rifiuto del lavoratore di recarsi al lavoro presso la sede ad quem (ma, si badi, non il
rifiuto tout court di prestare la propria attività) si giustificherebbe a fronte dell’inadempimento datoriale,
consistente nell’adottare un provvedimento illegittimo (ex multis Cass. 19.2.2008, n. 4060).
Sicché, nell’ipotesi, tutt’altro che infrequente nella pratica, in cui il lavoratore venga licenziato disciplinarmente per non aver ottemperato all’ordine di trasferimento, il giudizio in ordine alla legittimità di quest’ulti mo dipenderà inevitabilmente dalla verifica delle ragioni alla base del trasferimento, seguendone quindi la
medesima sorte; pertanto, la dichiarazione di illegittimità del trasferimento normalmente “travolge” anche il
successivo licenziamento (da ultimo, Cass. 24.3.2010, n. 7045), a meno che, come anticipato, il lavoratore si
sia rifiutato di rendere la propria prestazione anche presso la sede a quo, venendo così meno, illegittimamente, ai propri doveri (Cass. 28.3.1974, n. 849).
Diversamente, nel caso della trasferta, caratterizzata, come detto, da uno spostamento solo temporaneo del
lavoratore, la giurisprudenza valuta con maggiore rigore il rifiuto del lavoratore, qualificandolo alla stregua
di un “grave atto di insubordinazione passibile di licenziamento” (Pret. Milano 30.3.1999, Trib. Milano
26.3.1994).
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Riferimenti giurisprudenziali
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Cass. 23 marzo 2005, n. 6117, in Banca Dati Dejure : “Al fine di stabilire la "sede di lavoro" occorre aver riguardo, piuttosto che alla dislocazione urbana degli stabilimenti e degli uffici, alla nozione di "unità produttiva", che
va individuata in ogni articolazione autonoma dell'impresa, anche se composta da stabilimenti o uffici dislocati in
zone diverse dello stesso Comune, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in
parte, l'attività di produzione dell'impresa (cfr. Cass. n. 11660 del 2003). Spetta dunque al datore di lavoro di pro vare l'allegata esigenza tecnico produttiva con riferimento ad una unità produttiva nel senso sopra specificato, e
non genericamente ad una sede urbana di lavoro.”
Cass. 6 ottobre 2008, n. 24658, in Banca Dati Dejure : “In caso di trasferimento del lavoratore da una unità
produttiva all'altra, si realizza un mutamento definitivo e non temporaneo del luogo di lavoro, in ciò differenziando si dall'istituto della trasferta, che resta caratterizzato dalla temporaneità dell'assegnazione del lavoratore medesi mo ad una sede diversa da quella abituale; ne consegue che, ove la nuova assegnazione di sede del lavoratore sia
giustificata, nella prospettiva aziendale, da esigenze non transitorie, la modifica del luogo di lavoro costituisce tra sferimento, rilevante ai sensi dell'art. 2103 c.c.
Cass. 21 marzo 2006, n. 6240, in Banca Dati Dejure: “Ai fini della configurazione della trasferta del lavoratore
(da cui consegue il suo diritto a percepire la relativa indennità) che si distingue dal trasferimento (il quale compor ta l'assegnazione definitiva del lavoratore ad altra sede diversa dalla precedente), è necessaria la sussistenza del
permanente legame del prestatore con l'originario luogo di lavoro, mentre restano irrilevanti, a tal fine, la protra zione dello spostamento per un lungo periodo di tempo e la coincidenza del luogo della trasferta con quello di un
successivo trasferimento, anche se disposto senza soluzione di continuità al termine della trasferta medesima.
L'accertamento degli inerenti presupposti è riservato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità
se adeguatamente motivato”.
Cass. 15 maggio 2004, n. 9290, in Banca Dati Dejure: “Ai fini dell'efficacia del provvedimento di trasferimento
del lavoratore, non è necessario che vengano enunciate contestualmente le ragioni del trasferimento stesso, atteso
che l'art. 2103 c.c., nella parte in cui dispone che le ragioni tecniche, organizzative e produttive del provvedimento
siano comprovate, richiede soltanto che tali ragioni, ove contestate, risultino effettive e di esse il datore di lavoro
fornisca la prova. Pertanto, l'onere dell'indicazione delle ragioni del trasferimento, che, in caso di mancato adempi mento, determina l'inefficacia sopravvenuta del provvedimento, sorge a carico del datore di lavoro soltanto nel
caso in cui il lavoratore ne faccia richiesta - dovendosi applicare per analogia la disposizione di cui all'art. 2 l. 15 luglio 1966 n. 604, che prevede l'insorgenza di analogo onere nel caso in cui il lavoratore licenziato chieda al datore
di lavoro di comunicare i motivi del licenziamento - fermo restando che il suddetto onere di comunicazione, al pari
di quanto avviene in tema di licenziamento ai sensi della disposizione citata, non riguarda anche le fonti di prova
dei fatti giustificativi del trasferimento”.
Cass. 2 maggio 2011, n. 9619, in Banca Dati Dejure: “Se il datore di lavoro non è in grado di dimostrare in
maniera inequivocabile di dover usufruire dell'attività lavorativa del dipendente presso una nuova sede, il trasferi mento è invalido. Il trasferimento non può trovare giustificazione neanche nell'ulteriore circostanza che la sede del l'azienda in cui il dipendente lavorava sia stata in seguito soppressa, atteso che trattasi di un evento comunque
successivo al trasferimento”.
Cass. 2 marzo 2011, n. 5099, in Banca Dati Dejure: “Il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato deve essere diretto ad
accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa, non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore; quest'ultima, inol tre, non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento con creti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzati vo e produttivo”.
Cass. 2 settembre 2008, n. 22059, in Banca Dati Dejure: “In tema di esercizio del c.d. "ius variandi", deve
considerarsi legittimo il provvedimento adottato dal datore di lavoro che, al fine di conservare un clima sereno nel l'ambiente di lavoro, dispone il trasferimento di un lavoratore, il cui comportamento è origine di continui contrasti,
purché vengano garantite a quest’ultimo mansioni equivalenti”.
Cass. 2 aprile 2003, n. 5087, in Banca Dati Dejure: “Non determinano una situazione di incompatibilità ambientale, non costituendo apprezzamenti idonei a produrre tensioni nei rapporti personali e contrasti nell'ambiente
di lavoro, la deduzione, contenuta nel ricorso giudiziario del dipendente, di fatti idonei a dimostrare la propria
emarginazione professionale da parte del datore di lavoro, la rivendicazione del diritto al lavoro per il quale si rice ve la retribuzione ed alla promozione sulla base dei propri titoli professionali, nonché la specificazione dei motivi
per i quali si ritiene di non poter continuare a svolgere un lavoro infruttuoso, in quanto essi costituiscono legittimo
esercizio del diritto di difesa del lavoratore, costituzionalmente garantito, a meno che non si dimostri la falsità dei
fatti dedotti e dei comportamenti addebitati.”
Cass. 19 febbraio 2008, n. 4060, in Banca Dati Dejure: “È illegittimo il licenziamento per giustificato motivo
soggettivo irrogato al lavoratore che si sia rifiutato di trasferirsi a causa dell'assegnazione, contestuale al trasferi mento, di mansioni inferiori alla qualifica rivestita. In applicazione del principio di autotutela nel contratto a presta zioni corrispettive ex art. 1460 c.c., deve considerarsi legittimo il rifiuto opposto dal dipendente al trasferimento
laddove il provvedimento del datore si traduca in un palese demansionamento, sempre che la reazione del lavoratore risulti proporzionata e conforme a buona fede. Il rifiuto del lavoratore di ottemperare al provvedimento del da tore di lavoro di trasferimento ad una diversa sede, ove giustificato dalla contestuale assegnazione a mansioni as seritamente dequalificanti, impone una valutazione comparativa, da parte del giudice di merito, dei comportamenti
di entrambe le parti, onde accertare la congruità tra le mansioni svolte dal lavoratore nella sede di provenienza e
quelle assegnate nella sede di destinazione; queste ultime, peraltro, debbono essere vagliate indipendentemente
dal loro concreto svolgimento, non essendo accompagnati i provvedimenti aziendali da una presunzione di legitti mità che ne imponga l'ottemperanza fino ad un diverso accertamento in giudizio.”
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