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Bonomo: la diga del Gleno distrutta dagli anarchici

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Bonomo: la diga del Gleno distrutta dagli anarchici
L’ECO DI BERGAMO
44
MERCOLEDÌ 23 SETTEMBRE 2015
CulturaeSpettacoli
[email protected]
www.ecodibergamo.it
La diga nell’area sopra la frazione Dezzo di Colere prima del disastro
Immagine del disastro del Gleno DAL LIBRO «L’ACQUA, LA MORTE, LA MEMORIA»
Bonomo: la diga
del Gleno distrutta
dagli anarchici
Il caso. Un libro mette in discussione che il disastro
sia stato provocato da un errore tecnico: l’ipotesi
è quella del sabotaggio, messa a tacere dai fascisti
FRANCO CATTANEO
La ricostruzione della
tragedia e il processo hanno
detto che il disastro del Gleno,
alle 7 del mattino del primo dicembre 1923, è stato causato da
un errore tecnico. Una verità
mai contestata per quella che è
stata la più grande sciagura della Bergamasca: circa 500 morti
in seguito al crollo della diga
nell’area della frazione Dezzo di
Colere. Ma 92 anni dopo un libro, in uscita da Mursia, mette
in discussione quei risultati. La
ricostruzione, destinata a far dibattito anche perché si muove
su un terreno molto sensibile e
scivoloso, è firmata dall’avvocato Benedetto Maria Bonomo,
sindaco di Colere e appassionato di storia locale. In questi anni,
nel 2007, solo un saggio, ma dal
versante della meccanica del disastro, ha posto un interrogativo sull’errore tecnico: l’autore è
Umberto Barbisan, docente all’Università di Venezia.
Il penalista bergamasco va
oltre e ritiene che si possa parlare di sabotaggio, ipotesi che s’inserisce nella conflittualità sociale di quel periodo in Val di
Scalve all’indomani della presa
del potere dei fascisti. «Un attentato di matrice anarchica,
che aveva un nucleo in Val Camonica. Un sabotaggio con
l’obiettivo di svuotare la diga per
renderla inoperante e invece
quel sobbalzo è stato così potente da far crollare tutto», spiega
Bonomo: «Ho trovato nuovo
materiale negli archivi che non
era stato portato a processo, ho
riletto criticamente gli atti del
dibattimento e la documentazione nota e soprattutto mi sono soffermato sullo scontro sociale di quegli anni». Il processo,
nel ’27 a Bergamo, condanna
uno dei proprietari, l’industriale milanese Virgilio Viganò , e il
progettista Gianbattista San-
tangelo: un paio d’anni subito
condonati. Tesi dell’accusa: il risparmio di cemento e ferro aveva reso instabile la diga. Replica
di Bonomo: «L’opera aveva alcuni limiti, ma negli standard di
allora. Il processo dice che il
crollo è avvenuto per le infiltrazioni, ma erano nella normalità
e tenute sotto controllo già dal
’20. Tra ottobre e novembre del
’23, mesi piovosi, il sopralluogo
dell’ingegnere capo dice che è
tutto in regola». L’autore del libro allude in sostanza ad un
processo preconfezionato, giudica deboli le prove documentali e confuse quelle testimoniali,
in particolare le versioni dell’unico testimone oculare, il
guardiano: Francesco Morzenti. «Questa persona – ricostruisce l’avvocato –era chiamata
“Petesalt”, il salterino, perché
cambiava spesso idea e in effetti
le sue dichiarazioni sono mutate parecchie volte».
Ma perché attentato? La pista, che era sostenuta anche dalla difesa degli imputati, è il risultato innanzitutto della perizia
del colonnello Ottorino Cugini,
comandante del Genio del II
Corpo d’Armata, che parla di dinamite sistemata nella galleria
di scarico, mentre Bonomo osserva un aspetto tecnico: «Nella
diga c’erano delle passerelle di
ferro e il metallo risulta piegato
dalla parte opposta rispetto alla
direzione dell’acqua. Non solo: a
crollo avvenuto, qualcuno ha
cercato di manometterle». Di
un attentato ne fa cenno anche
un detenuto nel carcere di Breno, tale Betti, che riferisce una
confidenza ricevuta da un certo
Della Matera, uno dell’area
anarchica arrestato con altri in
quel periodo per una bomba alle
centrali dell’Adamello. Della
Matera, che però nega, avrebbe
riferito dell’imminenza di un
attentato alla diga del Gleno. Gli
episodi citati sono quasi tutti
noti, ma vengono riletti dal penalista in modo diverso rispetto
ai resoconti ufficiali per sottolineare che hanno ricevuto un
approccio superficiale e che
non sono stati indagati a fondo:
«Tra l’altro c’erano stati sabotaggi anche alla centralina che
dava corrente a Vilminore e un
furto in Valle di 75 chili di esplosivo. Negli archivi del Comune
di Colere ho trovato una lettera
di Viganò in cui si intimava al
sindaco di far smettere gli attentati, sennò avrebbe tolto la
luce al paese. Circolavano poi
lettere anonime e una è pubblicata il 19 agosto del ’25 da un solo giornale, “L’Eco di Bergamo”,
ed è firmata da un “docente di
meccanica di un Politecnico nazionale” in cui sono confutate le
tesi ufficiali». La parte più delicata del libro, anche sul piano
delle presunte connessioni po-
litiche, è il ruolo giocato dalla
tensione sociale: «I Viganò, che
avevano soffiato la costruzione
dell’opera agli imprenditori
bergamaschi e bresciani, non
erano affatto amati e usavano la
mano pesante, licenziando gli
operai “sovversivi” e sostituendo gran parte della manodopera
locale con quella milanese. Nell’agosto del ’20 si svolge un grande sciopero contro i proprietari.
La realizzazione della diga, a
partire dal ’17, è accompagnata
da un clima di grande contestazione e dalla convinzione popolare che fosse costruita male. A
mio giudizio i Viganò sono il capro espiatorio perfetto e funzionale un po’ a tutti, ma soprattutto al fascismo e anche alla stessa
area socialista, la prima ad essere nel mirino dei sospetti. Il regime non poteva tollerare di apparire incapace di prevenire un
attentato dopo quelli già avvenuti e gli industriali locali del
settore idroelettrico potevano
dire che la colpa non era dell’ingegneria delle dighe in quanto
tale e alla quale erano interessati: tutto, in conclusione, era riconducibile ad un errore tecnico. Il processo e la stessa lacunosa ricostruzione del ministro
Carnazza in Senato vanno in
questa direzione: la condanna
di Viganò ha risolto i problemi
di tutti».
diato. Quanto avrà scavato. Coi
danni, i morti… Zilocchi non era
certo uno che avrebbe trascurato un’ipotesi come l’attentato.
La ditta aveva commesso grosse
mancanze, andando al risparmio sui materiali. Questo mi diceva Zilocchi. Soprattutto, non
era certo l’uomo che, se non era
convinto, assumeva la parte civile contro chi non c’entrava. La
parte civile è una parte volontaria, non è la difesa. La prima cosa
per chi la rappresenta è essere
convinto. Non è una parte obbligatoria, c’è già la pubblica accusa. Non avrebbe mai fatto condannare qualcuno avendo anche il più piccolo sospetto». Zilocchi morì a Bergamo nel 1966.
Carlo Salvioni MARIA ZANCHI
scista bergamasco –. Zilocchi
aveva sostenuto con piena convinzione la tesi della responsabilità della ditta costruttrice. La
colpa, secondo lui, era di chi aveva costruito e manutenuto la diga».
Conferma l’avvocato Claudio
Zilioli, che, allo studio di Zilocchi ha lavorato e si è formato:
«Era senz’altro attendibile la tesi della parte civile. Avevano
messo dentro terra, invece del
cemento armato. Dico terra per
dire che erano materiali assolutamente non idonei. La diga è
andata giù per quello. Altre ipotesi, secondo l’idea che mi sono
fatto, sono fantasie, perché questo era stato il processo più importante di Zilocchi. Chissà
quanto l’avrà studiato e ristu-
Ma secondo la parte civile
la ditta lavorò al risparmio
Avvocato
Piacentino, classe 1884, Carlo
Zilocchi a Bologna era stato
segretario di Pascoli. Dal 1909
esercitava a Bergamo
Nel luglio del 1927, dopo un processo iniziato nel gennaio di tre anni prima, il Tribunale di Bergamo condanna Virgilio Viganò, titolare della ditta
costruttrice, e l’ingegner Giovan Battista Santangelo, re-
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sponsabile tecnico, a tre anni e
quattro mesi di reclusione: sono
ritenuti colpevoli del disastro
che, il primo dicembre del 1923,
ha causato la distruzione di
Bueggio, Dezzo e altri diversi
luoghi abitati fra Val di Scalve e
Valle Camonica, e la morte di
quasi 500 persone (stima ufficiale 356): il crollo della diga del
Gleno.
Rappresentante legale di
parte civile è l’avvocato Carlo Zilocchi, piacentino, classe 1884,
già segretario, a Bologna, dove
ha studiato, del poeta Giovanni
Pascoli, avvocato in Bergamo
dal 1909, socialista, deputato al
parlamento nazionale nella
XXV e XXVI legislatura.
«Zilocchi era convintissimo
che, a causare il crollo della diga,
fossero stati gli imputati: la ditta
Viganò e l’ingegner Santangelo,
e una pessima, del tutto irrituale, conduzione dei lavori – ricorda l’avvocato Carlo Salvioni,
presidente del Comitato antifa-
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Vincenzo Guercio
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