Opuscolo Informativo per l`assistenza ai malati affetti da demenza
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Opuscolo Informativo per l`assistenza ai malati affetti da demenza
Opuscolo Informativo per l’assistenza ai malati affetti da demenza Avvertenza: Per imprevisti o altre ragioni organizzative il contenuto del presente opuscolo potrebbe subire modifiche anche temporanee. Le osservazioni, i suggerimenti e i reclami possono essere presentati dai Cittadini stessi e/o dagli Organismi di Volontariato e Tutela attraverso: L’ Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP ) via Mazzini, 117 28887 Omegna: telefono 800 307114, e-mail [email protected] Stampa a cura di: U.O. URP ASL VCO novembre 2010 La Geriatria dell’ASL VCO per i familiari dei malati affetti da demenza PREFAZIONE Questo breve opuscolo è indirizzato ai familiari dei malati affetti da demenza di Alzheimer e altre demenze. Non ha la pretesa di essere di per sé esaustivo. Contiene comunque alcune indicazioni generali per migliorare la consapevolezza e la capacità dei familiari ad affrontare problemi di riscontro comune in questi malati. La stesura dell’opuscolo è stata realizzata con la preziosa collaborazione della sig.ra Vanna Zarini a cui si deve la stesura della parte dedicata alle informazioni sull’assistenza ai malati. Un particolare e sentito ringraziamento va alla prof.ssa Carla Rossi Bozzuto che ha curato la revisione linguistica e l’impostazione editoriale. La stampa è frutto dell’impegno e della particolare sensibilità dell’equipe dell’URP dell’ASL VCO a cui va la mia personale gratitudine. Omegna, 01.10.2009 Dr. Fabio Di Stefano Direttore S.O.C. Geriatria ASL VCO 4. BIBLIOGRAFIA 1. Castoldi R., Longoni B., Prendersi cura della persona con demenza, Editrice Ambrosiana, Milano 2005. 2. Galli R., Liscio M., L’operatore e il malato Alzheimer, McGrawHill, Milano 2007. 3. AA.VV., La famiglia e il malato di Alzheimer, NextHealt, Milano 2002. 4. Censis, La mente rubata, FrancoAngeli, Milano 1999. 5. Centro italiano per lo studio dell’Alzheimer e della longevità, Come assistere i pazienti affetti da demenza, Aldo Primerano, Roma 1989. 6. Pettinati C., Spadin P., Villani D., Vademecum Alzheimer, A.I.M.A., Milano 1996. 7. AA.VV., Manuale per prendersi cura del malato di Alzheimer, Federazione Alzheimer Italia, Milano 1989 1. LA MALATTIA DI ALZHEIMER Fino ad un paio di decenni fa la demenza non ha rappresentato per la medicina un capitolo di particolare interesse ed è stata relegata ad entità quasi inesistente, commistione fra ignoto e vecchiaia, rivelandosi come un incomprensibile spesso inaccettabile evento solo a chi è stato vicino a questi malati. Ora però gli atteggiamenti della scienza nei confronti di questa malattia non sono più rinunciatari e la medicina moderna si sta muovendo per trovare un ruolo attivo accanto ai malati e alle famiglie. La parola demenza indica una malattia caratterizzata da progressiva perdita delle capacità cognitive, con un costante coinvolgimento della memoria oltre alla contemporanea presenza di almeno una delle seguenti alterazioni: afasia (disturbi del linguaggio), aprassia (incapacità a eseguire attività motorie nonostante l’integrità della comprensione e della motricità), agnosia (incapacità a riconoscere o identificare oggetti in assenza di deficit sensoriali), deficit del pensiero astratto e delle capacità di critica (pianificare, organizzare, fare ragionamenti astratti). I deficit cognitivi devono essere di entità tale da interferire significativamente con le attività lavorative, le relazioni sociali e l’autonomia dell’individuo che ne è colpito. La diagnosi di demenza è clinica e fa riferimento alla presenza di una sindrome definita da criteri. I più diffusi sono quelli del cosiddetto DSM IV, un Manuale di riferimento per le malattie mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria (Tab. 1). Gli esami di laboratorio, la TAC o la Risonanza Magnetica sono indagini di supporto e non consentono, se non associati alla valutazione clinica, di diagnosticare una demenza. Tabella 1 Criteri diagnostici della demenza secondo il DSM-IV Presenza di deficit cognitivi multipli caratterizzati da: A1) compromissione della memoria; A2) almeno uno dei seguenti deficit cognitivi: afasia, aprassia, agnosia, deficit del pensiero astratto e delle capacità di critica. I deficit cognitivi dei criteri A1 e A2 interferiscono significativamente e negativamente nel lavoro, nelle attività sociali o nelle relazioni con gli altri, con un peggioramento significativo rispetto al precedente livello funzionale. I deficit non si manifestano esclusivamente durante un delirium. Esistono oltre cento forme di demenza, ma essenzialmente si possono suddividere in forme degenerative caratterizzate da un danno che coinvolge primariamente il cervello e in forme secondarie nelle quali i danni al cervello sono conseguenza di un’altra malattia. Tra queste ultime forme, circa l’8-10% del totale è potenzialmente guaribile trattando la malattia sottostante. 800 mila persone circa oggi in Italia sono affette da demenza, circa il 6-7% degli ultrasessantacinquenni. La demenza più frequente è senza dubbio la Malattia di Alzheimer (AD) (60-70% dei casi), seguita dalla demenza vascolare (15-25%). In questa breve trattazione l’AD viene considerata come modello generale. Questa demenza è più frequente nell’età avanzata (>65 anni) per cui, in seguito al progressivo invecchiamento della popolazione cui stiamo assistendo in questi anni, è facile comprendere come stia diventando, di fatto, una delle emergenze sociosanitarie del nostro tempo ed è prevedibile che il numero dei malati sia destinato ad aumentare sensibilmente nei prossimi anni. Secondo proiezioni epidemiologiche, Allora è importante tener presente che si sta facendo qualcosa per una persona che non ci riconosce più, ma che per noi è stata importante e cara. La malattia ha il suo decorso ed è più forte di noi, dobbiamo accettarne l’ineluttabilità e accompagnare il malato con amore, con fiducia nell’aiuto dei farmaci e con disponibilità ad accettare la presenza invadente di malattie nel percorso della vita. Se seguiamo un malato di A. dobbiamo riconoscere che le nostre forze non sono illimitate; dobbiamo imparare a prendere le distanze prima di crollare, cercando aiuto. E’ importante che non perdiamo il contatto con le nostre esigenze di vita e rispondiamo alla fatica concedendoci ogni tanto una pausa rigeneratrice d’energia. Sforziamoci di non sentirci indispensabili, gli unici capaci, prendiamoci spazio e lasciamone anche ad altre persone disponibili. La malattia rischia di metterci in uno stato di continua preoccupazione o ancor peggio di depressione. E’ un pericolo che dobbiamo evitare, perché rischiamo di perdere tutte le risorse che ci possono servire per accompagnare il malato, ma anche per non dimenticare noi stessi e il mondo circostante. Dobbiamo anche essere attenti a non farci opprimere dai sensi di colpa nel caso in cui l’aggravarsi della malattia contempli la necessità di ricoverare il malato in una struttura specializzata per persone non autosufficienti quando è a rischio la sua e l’altrui incolumità. Indispensabili in questo caso la comprensione e la condivisione di chi ha vissuto prima di noi la stessa esperienza. La condivisione aiuterà a comprendere che la decisione ultima è determinata dalla natura della malattia e non da un rifiuto della persona che abbiamo accudito con assiduità e dedizione. Il comportamento sconveniente solitamente non costituisce un problema per lui, perché inconsapevole di aver agito in modo imbarazzante. L’imbarazzo è soltanto delle persone che lo attorniano. Chi lo assiste deve saper controllare la situazione, dominando le proprie emozioni e cercando di spiegare ai presenti che la malattia spinge il malato a comportamenti inadeguati Anche se siamo imbarazzati, ricordiamo sempre che questo atteggiamento è generato dalla malattia: la persona non è consapevole e non agisce intenzionalmente per turbare o infastidire qualcuno. In questi casi occorre essere il più possibile garbati per non provocare reazioni aggressive. Possiamo gentilmente allontanarlo e distrarlo, proponendo un’attività a lui gradita. Non è sempre possibile evitare o bloccare un atteggiamento sconveniente, ma se consideriamo che tutto ciò è causato dalla patologia, affronteremo questi episodi senza offenderci né turbarci troppo. È comunque opportuno segnalare al medico tali comportamenti per eventuali terapie ad hoc. 3. FATICA E DOLORE DI CHI ASSISTE L’assistenza ad una persona ammalata crea sempre fatica, turbamenti, paure e talvolta assurdi sensi di colpa. Sempre, per qualsiasi malattia, ma quando ci si trova ad assistere un malato di A., a queste emozioni si aggiunge un grande disorientamento, perché nel corso della malattia si altera la comunicazione fino quasi a scomparire. E questo diventa via via insostenibile, perché chi accudisce ha bisogno di sentirsi riconosciuto. Il vuoto che si crea, nel rallentamento dei gesti, nello scomparire della parola genera uno stato d'angoscia mista a rabbia e paura. Che fatica accudire un ammalato, che fatica condividere giorni e notti con una persona che non solo si spegne nel fisico, ma soprattutto si spegne nella mente! nel 2025 nel mondo 34 milioni di persone saranno affette da questa malattia! Già adesso i costi di questa malattia sono elevatissimi: si calcola che negli USA si spendono 100 miliardi di $ all’anno. È facile quindi ipotizzare come l’impegno economico nei prossimi decenni sarà ancor più massiccio. La malattia di Alzheimer prende il nome da Alois Alzheimer (1864-1915), un patologo tedesco che nel 1907 pubblicò i rilievi post-mortem di una donna di 51 anni con una grave forma di demenza. Fu soltanto nel 1910 che la malattia ebbe un nome, quando Emil Kraepelin, un famoso psichiatra di lingua tedesca, pubblicò il suo trattato "Psichiatria", nel quale definiva una nuova forma di demenza scoperta da Alzheimer, chiamandola appunto Malattia di Alzheimer. Nella caratterizzazione della malattia ebbe però un ruolo chiave anche un ricercatore italiano: Gaetano Perusini (1879-1915), tanto che la malattia è nota anche come Malattia di Alzheimer-Perusini. In questi malati, i neuroni, che sono le cellule del cervello, subiscono delle alterazioni specifiche: all’esterno del neurone si assiste alla formazione di caratteristiche placche, frutto della deposizione di una sostanza chiamata beta amiloide, mentre all’interno si producono particolari strutture anomale chiamate grovigli neurofibrillari. Queste alterazioni, che possono essere accertate soltanto esaminando direttamente al microscopio il tessuto cerebrale, impediscono alle cellule del cervello di trasmettere gli impulsi nervosi e ne determinano progressivamente la morte. Le cause di questa malattia non sono accertate. Si sa che al 3-5% dei casi è sottesa una causa genetica, mentre per gli altri casi vi sono differenti teorie che individuano più fattori di rischio o causali. Esiste una fase nella quale la malattia è caratterizzata dal solo danno biologico, senza manifestazioni cliniche, e una fase nella quale i sintomi sono così sfumati e lievi da rendere molto difficile la diagnosi sindromica di demenza. Questo rende conto del ritardo, che in media è di 3 anni, tra l’insorgenza dei primi segni di malattia e la diagnosi. Il quadro clinico dell’AD si caratterizza per il graduale, progressivo ed inarrestabile declino delle funzioni cognitive. Oltre ai sintomi cognitivi sono presenti sintomi non cognitivi, che riguardano cioè la sfera della personalità, l’affettività, le funzioni vegetative ed il comportamento. Il deficit mnesico nella AD è spesso così precoce e rilevante da costituire l’unico evidente disturbo cognitivo; questo inizialmente si caratterizza per essere essenzialmente anterògrado, portando a rapida perdita delle nuove informazioni, ad esempio nomi di persone, luoghi e cose. La perdita di queste informazioni correnti compromette il ricordo di buona parte dei piccoli fatti quotidiani, ad esempio cosa si è mangiato il giorno prima o dove è stato riposto un oggetto, ecc.. Con il tempo vengono dimenticati anche fatti di maggiore rilievo e subentra un difetto della cosiddetta memoria del futuro, quali appuntamenti e scadenze. Si evidenziano anche disturbi della memoria semantica, ossia conoscenze generali del mondo, conoscenze enciclopediche o significati di parole, e, più tardivamente, della memoria autobiografica (permette di rievocare eventi del proprio trascorso autobiografico) e procedurale (include tutti i comportamenti appresi ed automatizzati, che si realizzano senza un intervento della coscienza e che governano le azioni quotidiane, come vestirsi, lavarsi, cucinare e guidare, ecc.). A causa di questi deficit il malato di AD presenta spesso una condotta incerta anche nelle situazioni più banali. L’afasia è definibile come un deterioramento delle funzioni del linguaggio. Nelle fasi molto precoci dell’AD si osserva una generica difficoltà ad evocare nomi di uso non frequente; nella conversazione si può, inoltre, riconoscere un impoverimento del contenuto informativo, con incertezze nella costruzione sintattica del periodo. In una fase più avanzata della malattia, il linguaggio spontaneo risulta ancora più impoverito, aumentano le anomie, le frasi "fatte" e le parole passe-partout (es. coso, cosa, fare, ecc.); i concetti sono espressi in modo confuso e possono emergere deficit della scrittura. Nella fase finale, la comunicazione risulta spesso del tutto impossibile per un grave disturbo della comprensione, e l’espressione spontanea è nulla o estremamente ridotta. I processi di lettura e scrittura sono compromessi. I pazienti con AD presentano anche aprassia, ossia incapacità ad eseguire comportamenti motori, nonostante siano preservate le funzioni motorie e sensoriali. Si possono distinguere: l’aprassia manifestare la convinzione che visitatori immaginari vivano nella sua casa. Per un’errata percezione, le immagini televisive potrebbero essere vissute come reali e costituire dunque motivo di disturbo. Deliri e allucinazioni possono essere fonte di grande angoscia per la persona. E’ utile pertanto conservare, da parte di chi assiste, una serena modalità di contatto: toccare il malato con una mano, parlargli con tranquillità e soprattutto non mettere in discussione la sua convinzione delirante. Con il progredire della malattia, il malato potrebbe diventare incapace di riconoscere sia i familiari che se stesso. Vedendo la sua immagine riflessa in uno specchio potrebbe reagire come di fronte ad un estraneo. E’ possibile cercare di limitare la frequenza di questi episodi intervenendo sull’ambiente abitativo, togliendo gli oggetti che possono alimentare le allucinazioni: specchi, quadri con immagini di persone o animali. Questi provvedimenti non elimineranno del tutto il problema e si dovrà porre maggiore attenzione nell’evitare di contraddire il malato o tentare di convincerlo che quel che dice è sbagliato. Non serve neppure fingere che le allucinazioni e i deliri siano fatti reali: è meglio cercare di distrarlo confortandolo e rassicurandolo, e spiegando che noi non vediamo e sentiamo ciò che lui percepisce, ma possiamo capire ciò che prova. Rassicurarlo con un atteggiamento equilibrato, e distrarlo interessandolo a qualcosa che lo potrebbe incuriosire, non è mai cosa vana. Perdita delle inibizioni A volte il malato di A. si comporta in modo sconveniente o imbarazzante: le inibizioni diminuiscono e, di conseguenza, egli tende ad essere più disinvolto e a rispettare meno le regole sociali. Potrebbe pronunciare parole offensive, dire parolacce e bestemmie o fare apprezzamenti e gesti di natura sessuale, a volte sgradevoli per le persone presenti. La causa può essere ricondotta ad un danno cerebrale oppure al fatto che il malato si sente disorientato e confuso. che ha sempre svolto ma che ora risultano essere faticosi da eseguire, tanto che chi lo assiste spesso si sostituisce a lui. Tutto ciò lo porta inevitabilmente ad uno stato di profonda tristezza che è necessario non sottovalutare, perché può sfociare in una depressione vera e propria. L’apatia sembra erroneamente più facile da gestire, spesso però è confusa con la depressione. La sintomatologia è simile: la persona può rimanere parecchio tempo seduta in apparente ozio e senza parlare, rinchiusa in se stessa. E’ uno stato d’animo molto diffuso, anche se poco segnalato, perché non provoca grossi problemi di gestione e, apparentemente, non ha conseguenze su chi assiste. In realtà non è così: l’apatia del malato può scatenare in chi lo assiste un forte senso di disagio e frustrazione che può ripercuotersi anche sulla qualità dell’assistenza offerta. Per questo motivo è essenziale coinvolgere il malato in semplici attività mirate a sfruttare il più a lungo possibile le abilità residue del malato stesso, così da permettergli di avere fiducia nelle proprie capacità e di sentirsi ancora utile. E’ preferibile incoraggiarlo in attività di movimento, ponendo l'accento sui risultati positivi raggiunti, tralasciando di puntualizzare gli insuccessi che potrebbero risultare demotivanti. E’ controproducente insistere perché il malato faccia qualcosa che non vuole: ne conseguirebbe uno stato di agitazione che potrebbe trasformarsi in aggressività ed annullare i benefici dell’attività stessa. Più utile sarebbe coinvolgerlo rispettando i suoi tempi, insistendo un po’, ma evitando le imposizioni. Deliri e allucinazioni La malattia di A. può indurre il malato a sentire o vedere cose che non esistono nella realtà, ma che per lui sono reali. Può accadere che parli a persone che non ci sono, che creda che parenti o assistenti gli possano fare del male o gli abbiano rubato degli oggetti o del denaro. Altre volte, potrà avere identificazioni alterate che riguardano familiari o persone addette all’assistenza, ritenuti impostori, oppure ideomotoria, evidenziabile in un contesto ecologico come impaccio nell’uso di strumenti quotidiani; l’aprassia ideativa, ad esordio più tardivo, che coinvolge alcune condotte domestiche complesse ma routinarie, come l’uso degli strumenti dell’igiene personale. Infine, l’aprassia dell’abbigliamento rende il paziente dipendente dagli altri nel vestirsi, perché non ricorda la sequenza degli indumenti da indossare. Tra i sintomi di questa malattie vi e anche l’agnosia, cioè l’incapacità a riconoscere e identificare forme, nonostante le funzioni sensoriali siano preservate. Questi disturbi si traducono in difetti nel riconoscimento di segni grafici convenzionali (alessia agnosica) o di oggetti comuni (agnosia visiva), o anche di visi di familiari e conoscenti, in questi casi si parla di prosopoagnosia. Un disturbo comunissimo nell’alzheimeriano è quello del disorientamento topografico, da cui deriva una tendenza a perdersi. L’aspetto più grave del disorientamento si manifesta nelle fasi tardive sui brevi percorsi anche all’interno dei comuni spazi abitativi. Fin dalle fasi più precoci dell’AD, i pazienti mostrano difficoltà a focalizzare l’attenzione su un compito e a mantenerla fino alla sua conclusione. Così, le azioni e le attività più routinarie sono apparentemente portate a termine con maggiore facilità rispetto a quelle nuove in quanto presuppongono una minor richiesta attentiva per essere eseguite. I disturbi cognitivi nel malato di AD si associano di frequente a modificazioni della personalità, dell’affettività e del comportamento: il 70% circa dei pazienti manifesta apatia, il 40% irritabilità, il 30% circa disinibizione; l’agitazione, un disturbo molto composito che va dalla vocalizzazione persistente all’aggressività, è presente in circa il 60% dei casi; l’ansia è osservata nel 50% dei dementi. Anche le modificazioni del tono dell’umore sono frequenti: nel 30-50% dei pazienti vengono riscontrati sintomi depressivi, nel 5-8% euforia e nel 40% labilità emotiva; il comportamento motorio aberrante con vagabondaggio è descritto nel 40% dei dementi; sintomi psicotici, quali deliri a carattere persecutorio o di furto e allucinazioni a carattere visivo o acustico (vedere persone o animali, udire suoni o voci, tutti inesistenti) sono riportati nel 30-60% dei pazienti. I malati possono, inoltre, essere particolarmente vulnerabili ad eventi stressanti e/o psicosociali, come malattie o interventi chirurgici, ricoveri in ospedale, cambiamenti di residenza e lutti, che esacerbano i loro deficit intellettivi e favoriscono la comparsa o l’accentuazione dei disturbi del comportamento. L' intero quadro clinico si svolge classicamente in tre fasi: dopo l’esordio, vi sono una fase iniziale, una fase intermedia e una fase terminale. E’ importante tenere presente che i sintomi si manifestano in modo estremamente eterogeneo e spesso sono influenzati dal tipo di personalità, dalle condizioni fisiche, dal grado di cultura e dallo stile di vita del singolo individuo. Nella fase terminale della malattia i sintomi si aggravano ulteriormente: il soggetto perde l’orientamento persino in casa propria, è incapace di riconoscere se stesso e i familiari e di prendersi cura di sé; presenta grave afasia, può divenire aggressivo, oppure mostrare un comportamento completamente assente, apparendo estraniato ed apatico. Sono frequenti, ma non obbligatori, sintomi e segni neurologici: ad esempio, difficoltà nella deambulazione, disturbi della deglutizione, riduzioni della forza, ai quali possono accompagnarsi paresi, spasticità, rigidità, tremori. Talvolta possono manifestarsi anche crisi epilettiche. Sono comuni disturbi sfinterici, con incontinenza fecale ed urinaria. Il quadro finale evolve verso uno stato vegetativo. Il decorso della malattia può abbracciare un periodo di tempo variabile dai 4 agli oltre 15 anni e l’exitus sopravviene spesso a causa del marcato decadimento delle funzioni organiche generali, solitamente per malattie infettive intercorrenti di tipo broncopolmonare o urinario. Come detto, diversamente dalla maggioranza delle malattie, non esiste un test specifico per scoprire la presenza dell’AD. In effetti i segni distintivi, cioè la deposizione di beta amiloide e la formazione dei grovigli neurofibrillari, possono essere rilevati soltanto dopo la morte del paziente, in quanto è necessario procedere all’esame del tessuto cerebrale. In vita questa pratica tramite una biopsia porta con sé tali rischi di complicazioni da renderla di fatto non eseguibile. Le tecniche di diagnostica per immagini come la TAC, orientarsi e non sentirsi isolato. Il “girovagare” può diventare un problema, più per eccesso di questa attività che per difetto. Spesso per mesi o per anni, il malato presenta un incremento patologico della deambulazione: può camminare per ore e ore, ininterrottamente, in modo compulsivo, quasi fosse alla ricerca di qualcosa che non trova mai. Solo nelle ultime fasi della malattia può avere difficoltà nel muoversi. Se si cerca di fermarlo o di arginare la sua iperattività, può reagire in modo brusco o aggressivo. E’ opportuno evitare di rimproverarlo o di bloccarlo. Se insiste per uscire, possiamo accompagnarlo, ma se le uscite diventano troppo frequenti e, per chi assiste, troppo faticose, è conveniente servirsi della collaborazione di una persona conosciuta. Contrariamente a quanto in genere si crede, il vagabondaggio non è quasi mai senza scopo; facilmente il malato dimentica e non è in grado di spiegare dove sta andando, o che cosa si proponeva di fare. Possiamo dunque cercare di creare le condizioni ambientali più sicure possibili per permettere al malato di girovagare senza correre rischi. Un giardino recintato o una zona attrezzata della casa potrebbero dar sfogo al girovagare in sicurezza. Un’alternativa è quella di tentare con attività per lui usuali che possano intrattenerlo e ridurre il vagabondaggio. Ad esempio una casalinga può fermarsi per un certo periodo ad un tavolo ove si trovano stoviglie e oggetti domestici di uso comune. Se questo non è possibile, bisogna trovare il tempo per accompagnarlo in brevi ma frequenti passeggiate. Depressione e apatia Depressione e apatia possono presentarsi anche nel malato affetto da demenza e ripercuotersi sui familiari che lo assistono. Una reazione depressiva, specie nella fase iniziale della malattia, è prevedibile e, in certa misura normale: è una reazione conseguente alle molte carenze e al dover dipendere sempre più dagli altri. Con l’avanzare della malattia, il malato tenderà ad essere sempre meno partecipe di ciò che lo circonda, delegando progressivamente i compiti Non sempre si riesce a prevenire l’aggressività, tuttavia bisogna cercare di ridurre al minimo le conseguenze sia per il malato che può esporsi a pericoli sia anche per chi lo assiste e per gli altri eventualmente presenti. E’ importante non perdere il controllo della situazione, rimanere calmi con un atteggiamento tranquillo ma deciso, senza mostrare segni di paura, né di offesa. Nella gran maggioranza dei casi i gesti del malato, pur se incontrollabili, non sono rivolti verso di noi: semplicemente egli non è in grado di gestire le proprie emozioni e il proprio comportamento, e facilmente se ne scorderà in breve tempo. Insonnia e vagabondaggio Il vagabondare è un atteggiamento abbastanza comune tra i malati di demenza. Alcuni girano per la casa, mentre altri cercano di uscire, altri ancora camminano di notte, quando le altre persone dormono. Il malato talvolta manifesta un’inversione del ritmo sonno-veglia: dorme troppo durante il giorno e trascorre sveglio la maggior parte delle ore notturne. In questi casi richiede attenta sorveglianza. Il problema dell’insonnia può essere complicato da episodi di vagabondaggio notturno. Il malato può cercare di uscire da casa nel pieno della notte, camminare incessantemente, fare rumore, oppure può richiedere di far colazione o pranzare mentre tutti gli altri riposano. In generale, tende a camminare per casa e diventare più agitato nelle ultime ore del pomeriggio: un fenomeno che gli anglosassoni definiscono come “sindrome del tramonto”. A volte i sintomi, che possono comprendere anche confusione, ansia, disorientamento, persistono per tutta la notte. Per attenuare queste manifestazioni, è importante che la persona trascorra delle giornate attive, evitando che faccia lunghi riposi pomeridiani o lavori faticosi e impegnativi nel tardo pomeriggio. E’ importante anche controllare la dieta, somministrare un pasto leggero ma che sazi, evitando cibi e bevande eccitanti. Il buio rende difficile al malato percepire l’ambiente che lo circonda. E’ bene lasciare accese delle luci soffuse, che gli permettano di la Risonanza Magnetica Nucleare, e quelle più sofisticate quali la PET e la SPECT servono più che altro a escludere che la demenza sia dovuta a cause differenti dall’AD. Oggi la diagnosi si basa principalmente sull’esame clinico e su quello neuropsicologico, che prevede la valutazione delle capacità mentali del malato attraverso una serie di test. I farmaci disponibili oggi appartengono a due categorie: Anticolinesterasici (Donepezil, Rivastigmina e Galantamina): questi farmaci riducono l’azione della colinesterasi, un enzima che provvede normalmente a distruggere nel cervello l’acetilcolina (neurotrasmettitore coinvolto nei processi cognitivi e carente nel cervello dei malati con AD). Da questa azione si ha come effetto l’aumento dell’acetilcolina disponibile. Memantina: agisce in maniera differente rispetto ai farmaci sopra indicati. L’effetto di queste terapie, utilizzabili anche in associazione, si traduce in un rallentamento della evoluzione dell’AD. Il quadro clinico invariabilmente peggiora ma più lentamente fino a raggiungere comunque le fasi finali della malattia. Il trattamento precoce dell’AD sembra essere vantaggioso sia per la salute del paziente che per i costi della malattia. I malati non sono gli unici coinvolti dal problema: sui familiari, infatti, grava la maggior parte del carico della gestione e dell'assistenza dei pazienti dementi e spesso pesa la sensazione di non aver fatto abbastanza: “C’è voluto tempo, in famiglia, perché capissimo. Si diceva che ti lasciavi andare alla depressione. Questa ipotesi dava alla cosa un aspetto passeggero e quasi rassicurante. Facevi tutto ciò che era in tuo potere per nasconderci il buio nel quale ti dibattevi. Eri un ottimo mistificatore e noi degli egoisti impenitenti. I sintomi, i presagi non li abbiamo analizzati. Non subito, visti nel loro insieme, dopo ci hanno fatto riflettere. Uscivi sempre meno. Non sapevamo che, da solo, per la strada, cominciavi a perdere l’orientamento. Hai forse lanciato appelli che noi, distratti dal corso delle nostre vite, non abbiamo raccolto?” (Nadine Trintignant, Mi manchi, AIMA, 1997). Lo stress cui è sottoposto il caregiver (chi si prende cura del malato) è di entità tale che numerosi studi riportano come queste persone presentino oltre a frequenti disturbi di tipo depressivio ed ansia anche un maggior rischio di sviluppare malattie organiche quali ictus cerebri ed infarto cardiaco. Nell’individuazione dei bisogni dei malati non si può non tener conto dell’aiuto e del supporto psicologico di cui hanno bisogno anche i caregiver, figure indispensabili nella gestione domiciliare di questi pazienti. Da qualche anno il Ministero della Salute ha provveduto ad attivare degli ambulatori specificamente dedicati a questi malati, indicati con il termine di Unità Valutativa Alzheimer, UVA in sigla, cui si può accedere facilmente tramite richiesta del proprio medico curante. Sicuramente questa opportunità ha contribuito ad accendere i riflettori su questa malattia ma, proprio per la sua peculiarità, ciò non è sufficiente ed anche la società civile deve essere presente, farsi carico di quelle responsabilità non dichiarate ma appunto per questo ancor più dovute nei confronti di una malattia che “ruba l’anima al malato”. 2. ASSISTENZA AL MALATO AFFETTO DA MALATTIA DI ALZHEIMER Come accennato prima, la diagnosi della malattia di Alzheimer crea scompiglio, non solo nella vita della persona che ne è colpita, ma anche in quella dei familiari che la circondano. E’ quindi di primaria importanza l’informazione su ciò che è realmente la malattia e la sua evoluzione, per potersi meglio preparare, fisicamente e psicologicamente, ad affrontare questo lungo percorso, per rendere più accettabili la vita al malato e i disagi della vita di chi l’assiste. Come passeranno questi anni dipenderà dalle strategie e dalle tecniche con le quali si affronteranno i problemi quotidiani. Si è già detto dell’inizio della malattia subdolo e lento: il sintomo più evidente è la riduzione progressiva della memoria, alla quale, man mano che la persona si aggrava, si aggiungono un graduale il suo comportamento adeguato, è invece inutile o addirittura controproducente rimproverarlo per quello sbagliato, potrebbe non capirne il motivo o umiliarsi. Una volta calmata l’agitazione è bene cercare di capire qual è stata la causa scatenante, in modo da evitare il più possibile che si ripeta: talvolta il malato diventa ansioso o aggressivo per un motivo specifico ed immediato che noi spesso non riusciamo a riconoscere. In presenza di episodi ripetuti, è importante rivolgersi al medico, per verificare se l’ansia e l’agitazione dipendono, per esempio, da una terapia farmacologica non tollerata o insufficiente. Aggressivita’ Diverse sono le cause che possono scatenare l’aggressività, sia verbale sia fisica, quale la frustrazione, l’ansia e la sensazione di pericolo. In genere l’aggressività del malato di A. è scatenata da un’errata percezione della realtà, da disorientamento, amnesia, ecc., e può essere peggiorata da un approccio sbagliato della persona che lo assiste. In altre parole, i problemi cognitivi possono suscitare questa reazione perché il malato non riesce ad avere la sensazione corretta di quello che sta accadendo (non ricorda dove ha messo gli oggetti, non riesce a seguire una conversazione, si sente minacciato). Si tratta spesso di una naturale reazione difensiva contro la percezione di un pericolo. A volte gli scatti d’ira sono sproporzionati e rivolti contro la persona che gli è più vicina. Per questi malati la collera può essere l’unico modo per esprimere un disagio. Se l’aggressività si manifesta con urla o minacce verbali è bene evitare tentativi di costrizione sia fisica sia psicologica; nel caso di minacce fisiche è meglio tenersi ad una distanza di sicurezza ed eventualmente uscire dalla stanza lasciando al malato il tempo di calmarsi. La conoscenza e l’attenzione quotidiana dovrebbero aiutarci a riconoscere alcuni sintomi che preludono la crisi di aggressività: il nervosismo e l’inquietudine sono segnali che dovremmo cogliere per poter mettere in atto tecniche di distrazione e rassicurazione allo scopo di prevenire la crisi. Si può incoraggiare il malato ad eseguire qualche lavoretto in casa o in giardino tenendo in considerazione le sue abitudini e i suoi hobbies prima dell’insorgere della malattia (ad esempio pulire il tavolo, lavare la macchina, rastrellare le foglie, mondare le verdure, apparecchiare la tavola, piegare e riporre la biancheria). Il lavoro, anche se non è strettamente necessario o andrà poi rifatto, ha comunque il senso di fare sentire il soggetto utile e partecipe. Per evitare che il malato sia vittima dello sconforto, è bene limitare la durata dell’attività e assicurarsi che sia in grado di eseguire il compito assegnatogli, incoraggiandolo ad interrompersi al primo segno di stanchezza o frustrazione. Col progredire della malattia può darsi che il malato diventi meno attivo, ma certi lavori ripetitivi e per lui usuali probabilmente gli saranno ancora possibili. 2.4 DISTURBI COMPORTAMENTALI Ansia e paura Nei malati di demenza l’ansia e la paura possono derivare dalla confusione tra il passato e il presente, ma anche da allucinazioni o deliri, da disorientamento spazio-temporale o dal clima più o meno sereno che si respira in casa. La perdita della memoria provoca dei cambiamenti tanto profondi da impedire di riconoscere cose note o addirittura i familiari. Tutto questo genera una situazione di allarme che influisce sullo stato emotivo. Insieme ai sintomi che coinvolgono le funzioni intellettuali, compaiono anomalie del comportamento di varia gravità, che in molti casi costituiscono la principale causa di stress per chi assiste. La demenza rende il malato più sensibile ad ogni variazione del mondo circostante. E’ essenziale rassicurarlo rimanendo calmi, parlando a bassa voce e cercando di distrarlo con gentilezza, spiegandogli sempre che cosa si sta facendo e chi sono le persone presenti. Forse non capirà esattamente ciò che gli diciamo, ma potrà essere rassicurato dal nostro atteggiamento accogliente e pacato. E’ utile elogiarlo per disorientamento nel tempo e nello spazio, perdita di capacità di calcolo, di riconoscimento di oggetti, di risoluzione di problemi comuni nella vita quotidiana. L’evoluzione porta inesorabilmente verso la perdita totale dell’autosufficienza. Nei malati ben assistiti, il declino avviene con maggior lentezza. La malattia di A. progredisce nel tempo e i problemi che di volta in volta si presentano riflettono l’evolversi della malattia stessa: quelli che si incontrano all’inizio non sono gli stessi che si dovranno affrontare ad uno stadio più avanzato. Chi assiste il malato dovrà essere disponibile ad adattarsi ai cambiamenti di vita che la malattia impone. Quello che ci si propone di realizzare oggi può essere impossibile domani: è necessario adeguare alla malattia il proprio atteggiamento e il tipo di assistenza. Nessuna soluzione può essere considerata definitiva. Non possiamo modificare il fatto che la memoria sia gravemente compromessa, ma possiamo intervenire sulle ripercussioni, adottando tutti gli accorgimenti necessari per mantenere il più a lungo possibile le abilità residue del malato. Concentrarci su quello che possiamo cambiare ci permette di ridimensionare il senso d’impotenza e ci permette di continuare ad essere propositivi, adattando gli interventi alle mutate necessità. E’ fondamentale tener presente che ogni malato e ciascuna persona sono diverse. La capacità di adattamento di chi sta accanto al malato è il mezzo per mantenere il più possibile un’atmosfera priva di tensioni. Se una cosa non va in un modo, bisogna provare in un altro. Ci si deve chiedere soprattutto se una cosa da noi proposta deve essere fatta a tutti i costi o proprio in quel momento. Bisogna predisporre un ambiente che dia la possibilità al malato di ancorarsi alle sue abitudini, che sono un importantissimo punto di riferimento. Per contrastare la sua confusione sono necessari punti stabili, costanti, prevedibili e il più possibile familiari. Si può raggiungere un equilibrio tra la nostra tendenza a sostituirci al malato e il rispetto a riconoscere i tempi e le modalità del suo agire in autonomia. La persona perde dignità nel momento in cui le si chiede di fare più di quanto sia capace o, viceversa, troppo poco. E’ essenziale creare un’atmosfera serena e libera da pressioni per dare al malato il tempo di eseguire le cose da solo assumendo un atteggiamento del tipo “ti aiuto a farlo”, piuttosto che “faccio io per te”. Questo gli permetterà di conservare un po’ di dignità e di autostima. 2.1 MEMORIA E COMUNICAZIONE Uno dei primi segni evidenti nella malattia di A. è, come si è detto, la perdita della memoria, la cui compromissione crea difficoltà a mantenere relazioni sociali adeguate. Con il procedere della malattia, il malato di A. gradatamente avrà difficoltà ad esprimersi e a capire gli altri; faticherà a trovare le parole appropriate, non riuscirà ad organizzarle in senso logico e, diventando confuso, ridurrà progressivamente la sua capacità di comunicare soprattutto verbalmente. Ciononostante, è necessario continuare a parlare al malato, perché questo è l’unico modo per farlo sentire parte di un ambiente familiare. Se prestiamo attenzione, il malato di Alzheimer riesce a comprendere più di quanto si può pensare. Per questo dobbiamo evitare atteggiamenti scorretti, quali ignorarlo durante una conversazione o, peggio ancora, parlare della sua condizione in sua presenza, come se non fosse più in grado di capire nulla. Un atteggiamento cordiale e accogliente facilita un livello di comunicazione accettabile, evitando imbarazzo e vergogna. Nello stadio iniziale della malattia il malato rimane in grado di compensare il deficit comunicativo con giri di parole che rendono ancora comprensibile ciò che dice; successivamente, di fronte alle difficoltà di comunicazione, il rischio è che si arrenda e smetta di parlare alimentando ansia, insicurezza e rabbia. E’ fondamentale che chi lo assiste si rivolga direttamente a lui, cercando il contatto visivo, chiamandolo per nome, assicurandosi d’essere compreso, usando frasi brevi e semplici, lasciandogli il tempo di comprendere e farsi capire. Formuliamo domande come: “Hai sete, hai fame?” che prevedano una risposta si/no. Sicurezza Con la perdita progressiva della memoria e della capacità di ragionamento, per il malato, si moltiplicheranno le situazioni quotidiane implicitamente pericolose. Bisognerà quindi cercare di rimuovere gli eventuali fattori di rischio. L'organizzazione della casa dovrà tener conto della diminuita autonomia globale della persona; occorre eliminare i pericoli, non modificando sostanzialmente le abitudini e operando meno cambiamenti possibili. Si consiglia di: -togliere dalla portata del malato: accendini, fiammiferi, coltelli, rasoi, forbici, solventi, insetticidi, veleni ; -mettere sotto chiave medicine, detersivi, alcolici e quant’altro di pericoloso potrebbe essere ingerito; -togliere le chiavi dalle porte delle stanze, anche quella del bagno, per evitare che il malato possa rimanere bloccato all’interno; -adottare nelle varie stanze opportuni accorgimenti: mobili e arredi stabili e senza spigoli; pavimenti non incerati; rimozione di tappeti, scendiletto e di stuoie in cucina; -proteggere l’accesso alle scale. Per aumentare la sicurezza in casa si possono installare comuni sistemi di sorveglianza che si usano anche con i bambini. Esistono dei sistemi di controllo da applicare alle cucine a gas, sulle finestre e sulle porte. Un suggerimento può essere di mettere dei piccoli sonagli alle porte, perché il malato tende a sfuggire silenziosamente. Attività di intrattenimento L’inattività può portare alla noia oltre che ad un generale deterioramento delle condizioni fisiche. Il movimento reca beneficio al malato in diversi modi: lo aiuta a rimanere indipendente più a lungo, stimola le capacità mentali e fisiche, contribuisce a fargli consumare le energie in eccesso e a facilitare il sonno notturno. dopo aver mangiato da poco o addirittura in piena notte. In questi casi si metteranno in atto strategie adeguate alla nuova situazione, evitando il più possibile le contrapposizioni. Se nelle prime fasi della malattia è sufficiente stimolare il malato ad alimentarsi in modo corretto, successivamente può essere indispensabile imboccarlo o avvalersi del biberon per la somministrazione di alimenti, liquidi privilegiando bevande nutritive o alimenti morbidi come i budini. La prevenzione dei deficit nutrizionali riveste un grande significato per ridurre il rischio di complicanze che spesso insorgono nella fase terminale della demenza (infezioni broncopolmonari ed urinarie, piaghe da decubito, ecc.), favorite ed aggravate da uno stato di malnutrizione. Ogni cambiamento dell’alimentazione va segnalato al medico, poiché può dipendere da patologie organiche che vanno specificamente trattate. I malati affetti da demenza di Alzheimer presentano spesso riduzioni del peso corporeo associabile, secondo alcuni studi, ad alterazioni cerebrali, ma anche spesso all’incapacità di provvedere in maniera adeguata all’acquisto e alla preparazione del cibo. Il dimagrimento può essere causato anche da: - riduzione di apporto alimentare riferibile a disturbi comportamentali (rifiuto del cibo, affaccendamento, irritabilità e aggressività), a riduzione della concentrazione e della memoria o alla difficoltà della masticazione; - aumento del consumo energetico causato da iperattività fisica, in particolare il vagabondaggio. Può essere utile compilare per qualche giorno un diario alimentare indicando in ogni pasto, e per ogni portata, la quantità di cibo assunto dal malato secondo le variabili: tutto – più della metà – meno della metà – niente. In questo modo si può avere un’idea indicativa della quantità di cibo assunto dal malato. Altro parametro di sicuro rilievo è il peso corporeo: in presenza di disturbi alimentari è necessario controllare periodicamente il peso. Predisponiamoci a ripetere più volte i concetti se ci accorgiamo di non essere stati capiti, usando sempre un tono di voce normale accompagnato da gesti ed espressioni che evocano il senso di ciò che stiamo dicendo (ad esempio, parlando del tempo, guardiamo con lui fuori dalla finestra). Può essere utile ricordare al malato chi sono determinate persone, che cosa sta succedendo, che cosa deve fare, accompagnandolo con garbo e naturalezza nelle azioni che sta compiendo. Nella fase in cui il linguaggio s'impoverisce, è utile stimolare la conversazione, per evitare che il graduale rinchiudersi in se stesso lo porti all’isolamento. Sono utili semplici suggerimenti volti a mantenere la comunicazione il più a lungo possibile. E’ essenziale, per meglio catturare la sua attenzione e favorire la concentrazione, eliminare i rumori di sottofondo (radio, televisione ecc.) e accompagnarlo in una sola azione per volta. E’ importante non evidenziare gli errori che la persona commette sia quando usa un termine sbagliato sia quando fa uso improprio di oggetti quotidiani. Se si riesce a capire ciò che il malato intendeva dire o fare, la correzione rischia di farlo sentire imbarazzato e di irritarlo. L’inflessione e il tono della voce hanno un’importanza rilevante. Per capire ciò che stiamo dicendo, il malato si concentra su questi elementi, come pure sull’espressione del nostro viso e la postura del corpo. Prestiamo attenzione a non dare messaggi contrastanti. Come la gestualità del malato può aiutarci a capire ciò che vuole esprimere quando gli mancano le parole, così il nostro linguaggio non verbale può aiutarci a creare la relazione: possiamo comunicare attraverso gesti, con uno sguardo, un sorriso. Parole e gesti gentili in grado di creare un clima sereno e rassicurante, sono indispensabili per contenere le fragilità del malato. Per continuare a comunicare con il malato di A. fino alla fine, bisogna imparare a dare più valore e attenzione alla comunicazione non verbale. Diventa fondamentale mantenere il contatto visivo e fisico, parlare con il corpo più che con le parole. Una carezza delicata, il tono pacato della voce, sono in grado di suscitare emozioni e contenere insicurezze e paure. 2.2 DISORIENTAMENTO Può sembrare incredibile che una persona si perda nella propria casa. Per il malato, il problema più grave è l’ansia che deriva dal non sapere riconoscere un luogo o dal non sapere ritrovare le diverse stanze nella sua stessa casa. Il malato si sente più sicuro se lo tranquillizziamo non limitandoci a comunicare l’ora o dove si trova, ma aiutandolo a calmare l’ansia, spiegando che è tra amici e familiari e attirando la sua attenzione su qualcosa a lui noto. Per ovviare alla perdita del concetto del tempo, possiamo ricorrere ad esempi diversi basati sulla vita quotidiana, ad esempio dire: “Adesso pranziamo, poi usciamo”. Per lo stesso motivo, è utile attenersi ad una routine, fissando la stessa sequenza nelle attività quotidiane (es. igiene personale, colazione, passeggiata, pranzo, pisolino, passeggiata, cena). Per quanto possibile, occorre evitare viaggi o trasferimenti in luoghi inusuali, soprattutto se non sono strettamente necessari. Per limitare la confusione e ridurre la difficoltà a riconoscere gli oggetti, bisogna eliminare dall’ambiente tutto ciò che è superfluo e rendere visibili e accessibili solo gli oggetti necessari per le attività che il malato riesce ancora a compiere, secondo le sue capacità. Cosi come è essenziale mantenere stabile l’ambiente circostante, disponendo gli oggetti sempre allo stesso posto, mettendo immagini (fotografie o disegni semplici e comprensibili) sulle dispense, sui cassetti e sulle porte delle varie stanze, per facilitarne il riconoscimento. Tutto questo contribuirà a ridurre l’ansia di non sapere cosa fare. L’uso di promemoria o di etichette non è sempre efficace, perché, pur avendo la capacità di leggere, spesso il malato non associa la parola scritta al significato reale. Il malato di demenza vive in un mondo dove le cose e gli avvenimenti, un tempo conosciuti, hanno perso senso e dove qualunque cosa può accadere. È opportuno verificare in ogni caso che i fuochi della cucina siano dotati dei sistemi di sicurezza per evitare fughe di gas. E’ opportuno coinvolgerlo nel preparare il cibo e apparecchiare la tavola, accompagnandolo discretamente nelle singole azioni. Quando non è più in grado, è consigliabile suggerire verbalmente le varie operazioni (mettiamo la tovaglia, prendiamo i piatti, i bicchieri ecc..), facendo attenzione, come già detto, a non sovraccaricare la tavola di troppi oggetti, non strettamente indispensabili. E' meglio preparare il cibo nel piatto e l’acqua nel bicchiere, senza riempirlo troppo per evitarne il rovesciamento. E’ bene offrire un piatto alla volta in successione, evitando attese tra una portata e l’altra, per non innervosire l’assistito e scoraggiarlo a mangiare, oppure si possono trovare soluzioni quali la dotazione di un piatto a più scomparti con primo, secondo e contorno nel caso in cui il malato esprima impazienza tra una portata e l’altra. Per mantenere il più a lungo possibile l’autonomia è bene evitare di imboccare precocemente il malato e sfruttare l’automatismo del nutrirsi che può essere mantenuto a lungo. Accompagniamolo con calma nelle azioni da compiere, una alla volta (metti in bocca, mastica, continua a masticare, deglutisci, e così via), alternando sorsi d’acqua tra un boccone e l’altro. Incoraggiamolo a fare da solo ciò di cui è ancora capace, guidandolo nell’uso corretto delle posate, preparando cibi tagliati se non sa più usare il coltello.. Non preoccupiamoci troppo se si sporca o se rovescia cibi o bevande sulla tovaglia, se utilizza le mani invece delle posate. Per alleggerire la fatica di chi assiste l’ammalato, possiamo fargli indossare un grembiule (specialmente se si tratta di una donna) da preferire al bavaglino, poco dignitoso per una persona adulta e utilizzare tovaglie di plastica. Per assicurare l’igiene della bocca, dopo ogni pasto si avrà cura di far lavare i denti o la protesi, controllandone la giusta posizione e la stabilità. Col progredire della malattia possono sopraggiungere nuovi comportamenti rispetto al cibo causati da deficit cognitivi: mancato riconoscimento dello stimolo della fame o della sete, incapacità a ripetere in sequenza i gesti abituali del prendere il boccone e portarlo alla bocca e non riconoscimento del cibo e del suo odore. Il malato può perdere interesse ad alimentarsi, dimenticando i pasti, oppure richiedendo ostinatamente di pranzare in orari impensati, anche Per i malati che si trovano in struttura si può considerare l’opportunità di formare un’équipe per il bagno: alcune persone possono risultare più adatte di altre nell’assolvere questo compito. Alimentazione e nutrizione A parte le sensazioni trasmesse dai sensi, il mangiare, almeno in parte, è un atto “automatico” per soddisfare un bisogno vitale: mangiamo quando abbiamo fame. Ma il mangiare è anche legato a consuetudini di orario e circostanze. Il mangiare da un lato ha una valenza legata al nutrimento dall’altro desta sensazioni piacevoli stimolate dai sensi e dalle circostanze (si mangia più volentieri se il cibo è gustoso e se si è in compagnia). I pasti dovranno avere orari regolari, evitando un’eccessiva offerta e varietà di cibo, perché il troppo disorienta sempre e crea confusione. E’ importante controllare che l’apporto di liquidi sia sufficiente, incoraggiando il malato a bere anche durante la giornata. Occorre organizzare l’assunzione del cibo tenendo conto di alcune indicazioni: - somministrare colazione, pranzo e cena ad orari regolari; - offrire piccoli spuntini durante il giorno se il malato dimentica di aver mangiato; - preparare cibi “facili” da portare alla bocca (ad esempio meglio la pasta corta che gli spaghetti); - prestare attenzione alle preferenze, ma anche alle necessità dietetiche determinate da eventuali patologie (diabete, ipertensione, o altro). Finché è possibile, è bene chiedere al malato cosa preferisce, rispettando i suoi gusti e le sue abitudini. Nella fase iniziale della malattia si può permettere alla persona di preparare da sé i propri pasti, lasciando scegliere ciò che più le piace ed esercitando solo una discreta sorveglianza, per prevenire eventuali comportamenti rischiosi (per es. l’uso maldestro di coltelli o di oggetti acuminati). Non c’è da meravigliarsi se non vuole mai perderci di vista; probabilmente per lui siamo diventati l’unica costante in un mondo che cambia continuamente. Il malato deve quindi essere rassicurato sul fatto che torneremo e su quando torneremo, in termini che lui possa intendere. Per facilitare il distacco, è bene fare riferimento ad abitudini del passato e a frasi che egli riconosce come rassicuranti: “Ti telefono, quando arrivo in ufficio”. Per il malato probabilmente sarà più facile lasciarci allontanare se troveremo qualcuno che gode della sua fiducia, disponibile a tenergli compagnia. 2.3 VITA QUOTIDIANA Abbigliamento L’abbigliamento è un’attività che può presentare per il malato una serie di difficoltà relative al ricordo della giusta sequenza con cui si indossano gli abiti, alla scelta dei colori, all’avere idea dell’immagine del proprio corpo, al formulare un giudizio sul clima (caldo? freddo?) e agire di conseguenza. Questo spiega perché nelle prime fasi della malattia la persona può iniziare ad avere difficoltà nel vestirsi, nella scelta o nella sequenza degli abiti da indossare; può scegliere indumenti troppo pesanti o troppo leggeri rispetto alla stagione o al clima (riconosce un abito e lo indossa per appartenenza e non per funzionalità), può avere difficoltà ad allacciare cinture, bottoni, cerniere (in seguito sarà utile proporre scarpe senza lacci e adottare semplici accorgimenti come la sostituzione delle chiusure che creano difficoltà, con velcro ed elastici in vita, per agevolare le funzioni di vestirsi o spogliarsi). In queste fasi è meglio limitarsi ad una semplice supervisione. Importante è rimanere sempre presenti, aiutando il malato nelle azioni da compiere, ma evitando di imporre il nostro aiuto. Può risultare utile etichettare i cassetti descrivendone il contenuto con un disegno facilmente comprensibile. Mentre la persona si veste, è opportuno restarle vicini, rammentare la sequenza degli abiti solo se necessario e senza sollecitarla. Bisogna inoltre semplificare le scelte disponibili, selezionando un ridotto numero di indumenti e venire in aiuto porgendole con ordine gli abiti da indossare nel momento in cui non è più in grado di svolgere queste funzioni da solo. Nelle fasi successive della malattia, conviene modulare il nostro aiuto secondo i nuovi bisogni. Il nostro intervento sarà gradualmente più attivo nel prestare aiuto alla persona, adattando il nostro comportamento alle nuove esigenze, pur cercando sempre di rispettare i tempi, le preferenze, e, soprattutto, stimolando le sue residue capacità. Talvolta il malato vuole continuare ad indossare gli stessi abiti anche se sporchi: in questo caso si possono acquistare più abiti uguali. Occorre accertarsi che il malato mantenga un aspetto dignitoso, ma se il malato non è molto ordinato né elegante e si trova a suo agio, si può lasciare vestito com'è. Igiene Così come l’abbigliamento, anche il momento dell’igiene può presentare per il malato delle difficoltà. Il problema si affronta in modo analogo a quanto detto sopra: se l’assistito è ancora in grado di lavarsi, lo si lasci fare da solo; se è capace di lavare anche solo alcune parti del corpo, si intervenga quando necessario sorvegliando, sempre con discrezione, la sua igiene personale. Quando non sarà più in grado di lavarsi da solo, lo si accompagnerà passo a passo, dandogli suggerimenti ad es. “apri l’acqua”, “prendi il sapone”, “insapona il viso”, “sciacqualo”, “lava le orecchie”, “asciugati” o spiegando cosa si sta per fare. La stessa cosa si farà per la pulizia dei denti o della protesi. Il malato può non essere in grado di comprendere le indicazioni verbali ma conservare ancora la capacità di eseguire alcune attività usuali se posto nel giusto contesto, ad es.: se lo si pone di fronte al lavandino, si apre il rubinetto dell’acqua e gli si dà il sapone, magari a quel punto potrà essere in grado di lavarsi da solo le mani. Il bagno o la doccia possono scatenare rifiuto o irritazione, perciò occorre usare un approccio tranquillo e calmo, evitando sempre di dare ordini. Si tratta di un momento delicato e non sempre accettato anche perché l’eventuale aiuto implica una perdita della propria riservatezza: se il malato rifiuta occasionalmente di lavarsi, è meglio non insistere, ma riproporre bagno o doccia più tardi o in un altro giorno. Talvolta può essere utile motivare il malato, spiegando ad esempio che il bagno va fatto perché si dovrà andare dal medico o perché c’è una ricorrenza o si aspettano visite. Soprattutto nel momento del bagno è opportuno rendere la situazione più serena possibile preparando il locale ben caldo e accogliente e ricordando di avere tutti gli oggetti necessari a portata di mano: disporre il sapone, la spugna, l'asciugamano e i vestiti in ordine, così sarà più facile per il malato ricordare che cosa deve fare. La stanza da bagno può essere resa più sicura con piccoli ma significativi accorgimenti quali l’applicazione di un tappetino sul fondo della vasca o della doccia, l’utilizzo di un seggiolino, il posizionamento di un corrimano, avendo rimosso preventivamente ogni barriera architettonica. È importante togliere gli oggetti non strettamente necessari o pericolosi quali phon, rasoi, stufette elettriche per il pericolo di un uso improprio da parte del malato. Può essere utile associare uno stimolo gradito al malato poco prima o durante il bagno: bere una bevanda, mangiare un dolce ecc.. E’ utile stabilire quale momento della giornata sia il più adatto e quale figura sia più gradita ad assolvere questo compito, se un familiare o una persona esterna. E’ opportuno rispettare il suo senso del pudore consentendo eventualmente di coprire alcune parti del corpo. Si può cominciare a massaggiargli la schiena perché si rilassi prima di arrivare alle parti intime. Nel caso il bagno o la doccia si rivelassero traumatici, si possono fare delle semplici spugnature. Assumere un certo grado di flessibilità è spesso vantaggioso sia per l’assistito sia per l’assistente. Una pratica regolare e costante dell’igiene quotidiana e periodica aiuterà il malato a mantenere un ritmo di vita rispettoso delle sue consuetudini. Mentre la persona si veste, è opportuno restarle vicini, rammentare la sequenza degli abiti solo se necessario e senza sollecitarla. Bisogna inoltre semplificare le scelte disponibili, selezionando un ridotto numero di indumenti e venire in aiuto porgendole con ordine gli abiti da indossare nel momento in cui non è più in grado di svolgere queste funzioni da solo. Nelle fasi successive della malattia, conviene modulare il nostro aiuto secondo i nuovi bisogni. Il nostro intervento sarà gradualmente più attivo nel prestare aiuto alla persona, adattando il nostro comportamento alle nuove esigenze, pur cercando sempre di rispettare i tempi, le preferenze, e, soprattutto, stimolando le sue residue capacità. Talvolta il malato vuole continuare ad indossare gli stessi abiti anche se sporchi: in questo caso si possono acquistare più abiti uguali. Occorre accertarsi che il malato mantenga un aspetto dignitoso, ma se il malato non è molto ordinato né elegante e si trova a suo agio, si può lasciare vestito com'è. Igiene Così come l’abbigliamento, anche il momento dell’igiene può presentare per il malato delle difficoltà. Il problema si affronta in modo analogo a quanto detto sopra: se l’assistito è ancora in grado di lavarsi, lo si lasci fare da solo; se è capace di lavare anche solo alcune parti del corpo, si intervenga quando necessario sorvegliando, sempre con discrezione, la sua igiene personale. Quando non sarà più in grado di lavarsi da solo, lo si accompagnerà passo a passo, dandogli suggerimenti ad es. “apri l’acqua”, “prendi il sapone”, “insapona il viso”, “sciacqualo”, “lava le orecchie”, “asciugati” o spiegando cosa si sta per fare. La stessa cosa si farà per la pulizia dei denti o della protesi. Il malato può non essere in grado di comprendere le indicazioni verbali ma conservare ancora la capacità di eseguire alcune attività usuali se posto nel giusto contesto, ad es.: se lo si pone di fronte al lavandino, si apre il rubinetto dell’acqua e gli si dà il sapone, magari a quel punto potrà essere in grado di lavarsi da solo le mani. Il bagno o la doccia possono scatenare rifiuto o irritazione, perciò occorre usare un approccio tranquillo e calmo, evitando sempre di dare ordini. Si tratta di un momento delicato e non sempre accettato anche perché l’eventuale aiuto implica una perdita della propria riservatezza: se il malato rifiuta occasionalmente di lavarsi, è meglio non insistere, ma riproporre bagno o doccia più tardi o in un altro giorno. Talvolta può essere utile motivare il malato, spiegando ad esempio che il bagno va fatto perché si dovrà andare dal medico o perché c’è una ricorrenza o si aspettano visite. Soprattutto nel momento del bagno è opportuno rendere la situazione più serena possibile preparando il locale ben caldo e accogliente e ricordando di avere tutti gli oggetti necessari a portata di mano: disporre il sapone, la spugna, l'asciugamano e i vestiti in ordine, così sarà più facile per il malato ricordare che cosa deve fare. La stanza da bagno può essere resa più sicura con piccoli ma significativi accorgimenti quali l’applicazione di un tappetino sul fondo della vasca o della doccia, l’utilizzo di un seggiolino, il posizionamento di un corrimano, avendo rimosso preventivamente ogni barriera architettonica. È importante togliere gli oggetti non strettamente necessari o pericolosi quali phon, rasoi, stufette elettriche per il pericolo di un uso improprio da parte del malato. Può essere utile associare uno stimolo gradito al malato poco prima o durante il bagno: bere una bevanda, mangiare un dolce ecc.. E’ utile stabilire quale momento della giornata sia il più adatto e quale figura sia più gradita ad assolvere questo compito, se un familiare o una persona esterna. E’ opportuno rispettare il suo senso del pudore consentendo eventualmente di coprire alcune parti del corpo. Si può cominciare a massaggiargli la schiena perché si rilassi prima di arrivare alle parti intime. Nel caso il bagno o la doccia si rivelassero traumatici, si possono fare delle semplici spugnature. Assumere un certo grado di flessibilità è spesso vantaggioso sia per l’assistito sia per l’assistente. Una pratica regolare e costante dell’igiene quotidiana e periodica aiuterà il malato a mantenere un ritmo di vita rispettoso delle sue consuetudini. Per i malati che si trovano in struttura si può considerare l’opportunità di formare un’équipe per il bagno: alcune persone possono risultare più adatte di altre nell’assolvere questo compito. Alimentazione e nutrizione A parte le sensazioni trasmesse dai sensi, il mangiare, almeno in parte, è un atto “automatico” per soddisfare un bisogno vitale: mangiamo quando abbiamo fame. Ma il mangiare è anche legato a consuetudini di orario e circostanze. Il mangiare da un lato ha una valenza legata al nutrimento dall’altro desta sensazioni piacevoli stimolate dai sensi e dalle circostanze (si mangia più volentieri se il cibo è gustoso e se si è in compagnia). I pasti dovranno avere orari regolari, evitando un’eccessiva offerta e varietà di cibo, perché il troppo disorienta sempre e crea confusione. E’ importante controllare che l’apporto di liquidi sia sufficiente, incoraggiando il malato a bere anche durante la giornata. Occorre organizzare l’assunzione del cibo tenendo conto di alcune indicazioni: - somministrare colazione, pranzo e cena ad orari regolari; - offrire piccoli spuntini durante il giorno se il malato dimentica di aver mangiato; - preparare cibi “facili” da portare alla bocca (ad esempio meglio la pasta corta che gli spaghetti); - prestare attenzione alle preferenze, ma anche alle necessità dietetiche determinate da eventuali patologie (diabete, ipertensione, o altro). Finché è possibile, è bene chiedere al malato cosa preferisce, rispettando i suoi gusti e le sue abitudini. Nella fase iniziale della malattia si può permettere alla persona di preparare da sé i propri pasti, lasciando scegliere ciò che più le piace ed esercitando solo una discreta sorveglianza, per prevenire eventuali comportamenti rischiosi (per es. l’uso maldestro di coltelli o di oggetti acuminati). Non c’è da meravigliarsi se non vuole mai perderci di vista; probabilmente per lui siamo diventati l’unica costante in un mondo che cambia continuamente. Il malato deve quindi essere rassicurato sul fatto che torneremo e su quando torneremo, in termini che lui possa intendere. Per facilitare il distacco, è bene fare riferimento ad abitudini del passato e a frasi che egli riconosce come rassicuranti: “Ti telefono, quando arrivo in ufficio”. Per il malato probabilmente sarà più facile lasciarci allontanare se troveremo qualcuno che gode della sua fiducia, disponibile a tenergli compagnia. 2.3 VITA QUOTIDIANA Abbigliamento L’abbigliamento è un’attività che può presentare per il malato una serie di difficoltà relative al ricordo della giusta sequenza con cui si indossano gli abiti, alla scelta dei colori, all’avere idea dell’immagine del proprio corpo, al formulare un giudizio sul clima (caldo? freddo?) e agire di conseguenza. Questo spiega perché nelle prime fasi della malattia la persona può iniziare ad avere difficoltà nel vestirsi, nella scelta o nella sequenza degli abiti da indossare; può scegliere indumenti troppo pesanti o troppo leggeri rispetto alla stagione o al clima (riconosce un abito e lo indossa per appartenenza e non per funzionalità), può avere difficoltà ad allacciare cinture, bottoni, cerniere (in seguito sarà utile proporre scarpe senza lacci e adottare semplici accorgimenti come la sostituzione delle chiusure che creano difficoltà, con velcro ed elastici in vita, per agevolare le funzioni di vestirsi o spogliarsi). In queste fasi è meglio limitarsi ad una semplice supervisione. Importante è rimanere sempre presenti, aiutando il malato nelle azioni da compiere, ma evitando di imporre il nostro aiuto. Può risultare utile etichettare i cassetti descrivendone il contenuto con un disegno facilmente comprensibile. 2.2 DISORIENTAMENTO Può sembrare incredibile che una persona si perda nella propria casa. Per il malato, il problema più grave è l’ansia che deriva dal non sapere riconoscere un luogo o dal non sapere ritrovare le diverse stanze nella sua stessa casa. Il malato si sente più sicuro se lo tranquillizziamo non limitandoci a comunicare l’ora o dove si trova, ma aiutandolo a calmare l’ansia, spiegando che è tra amici e familiari e attirando la sua attenzione su qualcosa a lui noto. Per ovviare alla perdita del concetto del tempo, possiamo ricorrere ad esempi diversi basati sulla vita quotidiana, ad esempio dire: “Adesso pranziamo, poi usciamo”. Per lo stesso motivo, è utile attenersi ad una routine, fissando la stessa sequenza nelle attività quotidiane (es. igiene personale, colazione, passeggiata, pranzo, pisolino, passeggiata, cena). Per quanto possibile, occorre evitare viaggi o trasferimenti in luoghi inusuali, soprattutto se non sono strettamente necessari. Per limitare la confusione e ridurre la difficoltà a riconoscere gli oggetti, bisogna eliminare dall’ambiente tutto ciò che è superfluo e rendere visibili e accessibili solo gli oggetti necessari per le attività che il malato riesce ancora a compiere, secondo le sue capacità. Cosi come è essenziale mantenere stabile l’ambiente circostante, disponendo gli oggetti sempre allo stesso posto, mettendo immagini (fotografie o disegni semplici e comprensibili) sulle dispense, sui cassetti e sulle porte delle varie stanze, per facilitarne il riconoscimento. Tutto questo contribuirà a ridurre l’ansia di non sapere cosa fare. L’uso di promemoria o di etichette non è sempre efficace, perché, pur avendo la capacità di leggere, spesso il malato non associa la parola scritta al significato reale. Il malato di demenza vive in un mondo dove le cose e gli avvenimenti, un tempo conosciuti, hanno perso senso e dove qualunque cosa può accadere. È opportuno verificare in ogni caso che i fuochi della cucina siano dotati dei sistemi di sicurezza per evitare fughe di gas. E’ opportuno coinvolgerlo nel preparare il cibo e apparecchiare la tavola, accompagnandolo discretamente nelle singole azioni. Quando non è più in grado, è consigliabile suggerire verbalmente le varie operazioni (mettiamo la tovaglia, prendiamo i piatti, i bicchieri ecc..), facendo attenzione, come già detto, a non sovraccaricare la tavola di troppi oggetti, non strettamente indispensabili. E' meglio preparare il cibo nel piatto e l’acqua nel bicchiere, senza riempirlo troppo per evitarne il rovesciamento. E’ bene offrire un piatto alla volta in successione, evitando attese tra una portata e l’altra, per non innervosire l’assistito e scoraggiarlo a mangiare, oppure si possono trovare soluzioni quali la dotazione di un piatto a più scomparti con primo, secondo e contorno nel caso in cui il malato esprima impazienza tra una portata e l’altra. Per mantenere il più a lungo possibile l’autonomia è bene evitare di imboccare precocemente il malato e sfruttare l’automatismo del nutrirsi che può essere mantenuto a lungo. Accompagniamolo con calma nelle azioni da compiere, una alla volta (metti in bocca, mastica, continua a masticare, deglutisci, e così via), alternando sorsi d’acqua tra un boccone e l’altro. Incoraggiamolo a fare da solo ciò di cui è ancora capace, guidandolo nell’uso corretto delle posate, preparando cibi tagliati se non sa più usare il coltello.. Non preoccupiamoci troppo se si sporca o se rovescia cibi o bevande sulla tovaglia, se utilizza le mani invece delle posate. Per alleggerire la fatica di chi assiste l’ammalato, possiamo fargli indossare un grembiule (specialmente se si tratta di una donna) da preferire al bavaglino, poco dignitoso per una persona adulta e utilizzare tovaglie di plastica. Per assicurare l’igiene della bocca, dopo ogni pasto si avrà cura di far lavare i denti o la protesi, controllandone la giusta posizione e la stabilità. Col progredire della malattia possono sopraggiungere nuovi comportamenti rispetto al cibo causati da deficit cognitivi: mancato riconoscimento dello stimolo della fame o della sete, incapacità a ripetere in sequenza i gesti abituali del prendere il boccone e portarlo alla bocca e non riconoscimento del cibo e del suo odore. Il malato può perdere interesse ad alimentarsi, dimenticando i pasti, oppure richiedendo ostinatamente di pranzare in orari impensati, anche dopo aver mangiato da poco o addirittura in piena notte. In questi casi si metteranno in atto strategie adeguate alla nuova situazione, evitando il più possibile le contrapposizioni. Se nelle prime fasi della malattia è sufficiente stimolare il malato ad alimentarsi in modo corretto, successivamente può essere indispensabile imboccarlo o avvalersi del biberon per la somministrazione di alimenti, liquidi privilegiando bevande nutritive o alimenti morbidi come i budini. La prevenzione dei deficit nutrizionali riveste un grande significato per ridurre il rischio di complicanze che spesso insorgono nella fase terminale della demenza (infezioni broncopolmonari ed urinarie, piaghe da decubito, ecc.), favorite ed aggravate da uno stato di malnutrizione. Ogni cambiamento dell’alimentazione va segnalato al medico, poiché può dipendere da patologie organiche che vanno specificamente trattate. I malati affetti da demenza di Alzheimer presentano spesso riduzioni del peso corporeo associabile, secondo alcuni studi, ad alterazioni cerebrali, ma anche spesso all’incapacità di provvedere in maniera adeguata all’acquisto e alla preparazione del cibo. Il dimagrimento può essere causato anche da: - riduzione di apporto alimentare riferibile a disturbi comportamentali (rifiuto del cibo, affaccendamento, irritabilità e aggressività), a riduzione della concentrazione e della memoria o alla difficoltà della masticazione; - aumento del consumo energetico causato da iperattività fisica, in particolare il vagabondaggio. Può essere utile compilare per qualche giorno un diario alimentare indicando in ogni pasto, e per ogni portata, la quantità di cibo assunto dal malato secondo le variabili: tutto – più della metà – meno della metà – niente. In questo modo si può avere un’idea indicativa della quantità di cibo assunto dal malato. Altro parametro di sicuro rilievo è il peso corporeo: in presenza di disturbi alimentari è necessario controllare periodicamente il peso. Predisponiamoci a ripetere più volte i concetti se ci accorgiamo di non essere stati capiti, usando sempre un tono di voce normale accompagnato da gesti ed espressioni che evocano il senso di ciò che stiamo dicendo (ad esempio, parlando del tempo, guardiamo con lui fuori dalla finestra). Può essere utile ricordare al malato chi sono determinate persone, che cosa sta succedendo, che cosa deve fare, accompagnandolo con garbo e naturalezza nelle azioni che sta compiendo. Nella fase in cui il linguaggio s'impoverisce, è utile stimolare la conversazione, per evitare che il graduale rinchiudersi in se stesso lo porti all’isolamento. Sono utili semplici suggerimenti volti a mantenere la comunicazione il più a lungo possibile. E’ essenziale, per meglio catturare la sua attenzione e favorire la concentrazione, eliminare i rumori di sottofondo (radio, televisione ecc.) e accompagnarlo in una sola azione per volta. E’ importante non evidenziare gli errori che la persona commette sia quando usa un termine sbagliato sia quando fa uso improprio di oggetti quotidiani. Se si riesce a capire ciò che il malato intendeva dire o fare, la correzione rischia di farlo sentire imbarazzato e di irritarlo. L’inflessione e il tono della voce hanno un’importanza rilevante. Per capire ciò che stiamo dicendo, il malato si concentra su questi elementi, come pure sull’espressione del nostro viso e la postura del corpo. Prestiamo attenzione a non dare messaggi contrastanti. Come la gestualità del malato può aiutarci a capire ciò che vuole esprimere quando gli mancano le parole, così il nostro linguaggio non verbale può aiutarci a creare la relazione: possiamo comunicare attraverso gesti, con uno sguardo, un sorriso. Parole e gesti gentili in grado di creare un clima sereno e rassicurante, sono indispensabili per contenere le fragilità del malato. Per continuare a comunicare con il malato di A. fino alla fine, bisogna imparare a dare più valore e attenzione alla comunicazione non verbale. Diventa fondamentale mantenere il contatto visivo e fisico, parlare con il corpo più che con le parole. Una carezza delicata, il tono pacato della voce, sono in grado di suscitare emozioni e contenere insicurezze e paure. E’ essenziale creare un’atmosfera serena e libera da pressioni per dare al malato il tempo di eseguire le cose da solo assumendo un atteggiamento del tipo “ti aiuto a farlo”, piuttosto che “faccio io per te”. Questo gli permetterà di conservare un po’ di dignità e di autostima. 2.1 MEMORIA E COMUNICAZIONE Uno dei primi segni evidenti nella malattia di A. è, come si è detto, la perdita della memoria, la cui compromissione crea difficoltà a mantenere relazioni sociali adeguate. Con il procedere della malattia, il malato di A. gradatamente avrà difficoltà ad esprimersi e a capire gli altri; faticherà a trovare le parole appropriate, non riuscirà ad organizzarle in senso logico e, diventando confuso, ridurrà progressivamente la sua capacità di comunicare soprattutto verbalmente. Ciononostante, è necessario continuare a parlare al malato, perché questo è l’unico modo per farlo sentire parte di un ambiente familiare. Se prestiamo attenzione, il malato di Alzheimer riesce a comprendere più di quanto si può pensare. Per questo dobbiamo evitare atteggiamenti scorretti, quali ignorarlo durante una conversazione o, peggio ancora, parlare della sua condizione in sua presenza, come se non fosse più in grado di capire nulla. Un atteggiamento cordiale e accogliente facilita un livello di comunicazione accettabile, evitando imbarazzo e vergogna. Nello stadio iniziale della malattia il malato rimane in grado di compensare il deficit comunicativo con giri di parole che rendono ancora comprensibile ciò che dice; successivamente, di fronte alle difficoltà di comunicazione, il rischio è che si arrenda e smetta di parlare alimentando ansia, insicurezza e rabbia. E’ fondamentale che chi lo assiste si rivolga direttamente a lui, cercando il contatto visivo, chiamandolo per nome, assicurandosi d’essere compreso, usando frasi brevi e semplici, lasciandogli il tempo di comprendere e farsi capire. Formuliamo domande come: “Hai sete, hai fame?” che prevedano una risposta si/no. Sicurezza Con la perdita progressiva della memoria e della capacità di ragionamento, per il malato, si moltiplicheranno le situazioni quotidiane implicitamente pericolose. Bisognerà quindi cercare di rimuovere gli eventuali fattori di rischio. L'organizzazione della casa dovrà tener conto della diminuita autonomia globale della persona; occorre eliminare i pericoli, non modificando sostanzialmente le abitudini e operando meno cambiamenti possibili. Si consiglia di: -togliere dalla portata del malato: accendini, fiammiferi, coltelli, rasoi, forbici, solventi, insetticidi, veleni ; -mettere sotto chiave medicine, detersivi, alcolici e quant’altro di pericoloso potrebbe essere ingerito; -togliere le chiavi dalle porte delle stanze, anche quella del bagno, per evitare che il malato possa rimanere bloccato all’interno; -adottare nelle varie stanze opportuni accorgimenti: mobili e arredi stabili e senza spigoli; pavimenti non incerati; rimozione di tappeti, scendiletto e di stuoie in cucina; -proteggere l’accesso alle scale. Per aumentare la sicurezza in casa si possono installare comuni sistemi di sorveglianza che si usano anche con i bambini. Esistono dei sistemi di controllo da applicare alle cucine a gas, sulle finestre e sulle porte. Un suggerimento può essere di mettere dei piccoli sonagli alle porte, perché il malato tende a sfuggire silenziosamente. Attività di intrattenimento L’inattività può portare alla noia oltre che ad un generale deterioramento delle condizioni fisiche. Il movimento reca beneficio al malato in diversi modi: lo aiuta a rimanere indipendente più a lungo, stimola le capacità mentali e fisiche, contribuisce a fargli consumare le energie in eccesso e a facilitare il sonno notturno. Si può incoraggiare il malato ad eseguire qualche lavoretto in casa o in giardino tenendo in considerazione le sue abitudini e i suoi hobbies prima dell’insorgere della malattia (ad esempio pulire il tavolo, lavare la macchina, rastrellare le foglie, mondare le verdure, apparecchiare la tavola, piegare e riporre la biancheria). Il lavoro, anche se non è strettamente necessario o andrà poi rifatto, ha comunque il senso di fare sentire il soggetto utile e partecipe. Per evitare che il malato sia vittima dello sconforto, è bene limitare la durata dell’attività e assicurarsi che sia in grado di eseguire il compito assegnatogli, incoraggiandolo ad interrompersi al primo segno di stanchezza o frustrazione. Col progredire della malattia può darsi che il malato diventi meno attivo, ma certi lavori ripetitivi e per lui usuali probabilmente gli saranno ancora possibili. 2.4 DISTURBI COMPORTAMENTALI Ansia e paura Nei malati di demenza l’ansia e la paura possono derivare dalla confusione tra il passato e il presente, ma anche da allucinazioni o deliri, da disorientamento spazio-temporale o dal clima più o meno sereno che si respira in casa. La perdita della memoria provoca dei cambiamenti tanto profondi da impedire di riconoscere cose note o addirittura i familiari. Tutto questo genera una situazione di allarme che influisce sullo stato emotivo. Insieme ai sintomi che coinvolgono le funzioni intellettuali, compaiono anomalie del comportamento di varia gravità, che in molti casi costituiscono la principale causa di stress per chi assiste. La demenza rende il malato più sensibile ad ogni variazione del mondo circostante. E’ essenziale rassicurarlo rimanendo calmi, parlando a bassa voce e cercando di distrarlo con gentilezza, spiegandogli sempre che cosa si sta facendo e chi sono le persone presenti. Forse non capirà esattamente ciò che gli diciamo, ma potrà essere rassicurato dal nostro atteggiamento accogliente e pacato. E’ utile elogiarlo per disorientamento nel tempo e nello spazio, perdita di capacità di calcolo, di riconoscimento di oggetti, di risoluzione di problemi comuni nella vita quotidiana. L’evoluzione porta inesorabilmente verso la perdita totale dell’autosufficienza. Nei malati ben assistiti, il declino avviene con maggior lentezza. La malattia di A. progredisce nel tempo e i problemi che di volta in volta si presentano riflettono l’evolversi della malattia stessa: quelli che si incontrano all’inizio non sono gli stessi che si dovranno affrontare ad uno stadio più avanzato. Chi assiste il malato dovrà essere disponibile ad adattarsi ai cambiamenti di vita che la malattia impone. Quello che ci si propone di realizzare oggi può essere impossibile domani: è necessario adeguare alla malattia il proprio atteggiamento e il tipo di assistenza. Nessuna soluzione può essere considerata definitiva. Non possiamo modificare il fatto che la memoria sia gravemente compromessa, ma possiamo intervenire sulle ripercussioni, adottando tutti gli accorgimenti necessari per mantenere il più a lungo possibile le abilità residue del malato. Concentrarci su quello che possiamo cambiare ci permette di ridimensionare il senso d’impotenza e ci permette di continuare ad essere propositivi, adattando gli interventi alle mutate necessità. E’ fondamentale tener presente che ogni malato e ciascuna persona sono diverse. La capacità di adattamento di chi sta accanto al malato è il mezzo per mantenere il più possibile un’atmosfera priva di tensioni. Se una cosa non va in un modo, bisogna provare in un altro. Ci si deve chiedere soprattutto se una cosa da noi proposta deve essere fatta a tutti i costi o proprio in quel momento. Bisogna predisporre un ambiente che dia la possibilità al malato di ancorarsi alle sue abitudini, che sono un importantissimo punto di riferimento. Per contrastare la sua confusione sono necessari punti stabili, costanti, prevedibili e il più possibile familiari. Si può raggiungere un equilibrio tra la nostra tendenza a sostituirci al malato e il rispetto a riconoscere i tempi e le modalità del suo agire in autonomia. La persona perde dignità nel momento in cui le si chiede di fare più di quanto sia capace o, viceversa, troppo poco. Lo stress cui è sottoposto il caregiver (chi si prende cura del malato) è di entità tale che numerosi studi riportano come queste persone presentino oltre a frequenti disturbi di tipo depressivio ed ansia anche un maggior rischio di sviluppare malattie organiche quali ictus cerebri ed infarto cardiaco. Nell’individuazione dei bisogni dei malati non si può non tener conto dell’aiuto e del supporto psicologico di cui hanno bisogno anche i caregiver, figure indispensabili nella gestione domiciliare di questi pazienti. Da qualche anno il Ministero della Salute ha provveduto ad attivare degli ambulatori specificamente dedicati a questi malati, indicati con il termine di Unità Valutativa Alzheimer, UVA in sigla, cui si può accedere facilmente tramite richiesta del proprio medico curante. Sicuramente questa opportunità ha contribuito ad accendere i riflettori su questa malattia ma, proprio per la sua peculiarità, ciò non è sufficiente ed anche la società civile deve essere presente, farsi carico di quelle responsabilità non dichiarate ma appunto per questo ancor più dovute nei confronti di una malattia che “ruba l’anima al malato”. 2. ASSISTENZA AL MALATO AFFETTO DA MALATTIA DI ALZHEIMER Come accennato prima, la diagnosi della malattia di Alzheimer crea scompiglio, non solo nella vita della persona che ne è colpita, ma anche in quella dei familiari che la circondano. E’ quindi di primaria importanza l’informazione su ciò che è realmente la malattia e la sua evoluzione, per potersi meglio preparare, fisicamente e psicologicamente, ad affrontare questo lungo percorso, per rendere più accettabili la vita al malato e i disagi della vita di chi l’assiste. Come passeranno questi anni dipenderà dalle strategie e dalle tecniche con le quali si affronteranno i problemi quotidiani. Si è già detto dell’inizio della malattia subdolo e lento: il sintomo più evidente è la riduzione progressiva della memoria, alla quale, man mano che la persona si aggrava, si aggiungono un graduale il suo comportamento adeguato, è invece inutile o addirittura controproducente rimproverarlo per quello sbagliato, potrebbe non capirne il motivo o umiliarsi. Una volta calmata l’agitazione è bene cercare di capire qual è stata la causa scatenante, in modo da evitare il più possibile che si ripeta: talvolta il malato diventa ansioso o aggressivo per un motivo specifico ed immediato che noi spesso non riusciamo a riconoscere. In presenza di episodi ripetuti, è importante rivolgersi al medico, per verificare se l’ansia e l’agitazione dipendono, per esempio, da una terapia farmacologica non tollerata o insufficiente. Aggressivita’ Diverse sono le cause che possono scatenare l’aggressività, sia verbale sia fisica, quale la frustrazione, l’ansia e la sensazione di pericolo. In genere l’aggressività del malato di A. è scatenata da un’errata percezione della realtà, da disorientamento, amnesia, ecc., e può essere peggiorata da un approccio sbagliato della persona che lo assiste. In altre parole, i problemi cognitivi possono suscitare questa reazione perché il malato non riesce ad avere la sensazione corretta di quello che sta accadendo (non ricorda dove ha messo gli oggetti, non riesce a seguire una conversazione, si sente minacciato). Si tratta spesso di una naturale reazione difensiva contro la percezione di un pericolo. A volte gli scatti d’ira sono sproporzionati e rivolti contro la persona che gli è più vicina. Per questi malati la collera può essere l’unico modo per esprimere un disagio. Se l’aggressività si manifesta con urla o minacce verbali è bene evitare tentativi di costrizione sia fisica sia psicologica; nel caso di minacce fisiche è meglio tenersi ad una distanza di sicurezza ed eventualmente uscire dalla stanza lasciando al malato il tempo di calmarsi. La conoscenza e l’attenzione quotidiana dovrebbero aiutarci a riconoscere alcuni sintomi che preludono la crisi di aggressività: il nervosismo e l’inquietudine sono segnali che dovremmo cogliere per poter mettere in atto tecniche di distrazione e rassicurazione allo scopo di prevenire la crisi. Non sempre si riesce a prevenire l’aggressività, tuttavia bisogna cercare di ridurre al minimo le conseguenze sia per il malato che può esporsi a pericoli sia anche per chi lo assiste e per gli altri eventualmente presenti. E’ importante non perdere il controllo della situazione, rimanere calmi con un atteggiamento tranquillo ma deciso, senza mostrare segni di paura, né di offesa. Nella gran maggioranza dei casi i gesti del malato, pur se incontrollabili, non sono rivolti verso di noi: semplicemente egli non è in grado di gestire le proprie emozioni e il proprio comportamento, e facilmente se ne scorderà in breve tempo. Insonnia e vagabondaggio Il vagabondare è un atteggiamento abbastanza comune tra i malati di demenza. Alcuni girano per la casa, mentre altri cercano di uscire, altri ancora camminano di notte, quando le altre persone dormono. Il malato talvolta manifesta un’inversione del ritmo sonno-veglia: dorme troppo durante il giorno e trascorre sveglio la maggior parte delle ore notturne. In questi casi richiede attenta sorveglianza. Il problema dell’insonnia può essere complicato da episodi di vagabondaggio notturno. Il malato può cercare di uscire da casa nel pieno della notte, camminare incessantemente, fare rumore, oppure può richiedere di far colazione o pranzare mentre tutti gli altri riposano. In generale, tende a camminare per casa e diventare più agitato nelle ultime ore del pomeriggio: un fenomeno che gli anglosassoni definiscono come “sindrome del tramonto”. A volte i sintomi, che possono comprendere anche confusione, ansia, disorientamento, persistono per tutta la notte. Per attenuare queste manifestazioni, è importante che la persona trascorra delle giornate attive, evitando che faccia lunghi riposi pomeridiani o lavori faticosi e impegnativi nel tardo pomeriggio. E’ importante anche controllare la dieta, somministrare un pasto leggero ma che sazi, evitando cibi e bevande eccitanti. Il buio rende difficile al malato percepire l’ambiente che lo circonda. E’ bene lasciare accese delle luci soffuse, che gli permettano di la Risonanza Magnetica Nucleare, e quelle più sofisticate quali la PET e la SPECT servono più che altro a escludere che la demenza sia dovuta a cause differenti dall’AD. Oggi la diagnosi si basa principalmente sull’esame clinico e su quello neuropsicologico, che prevede la valutazione delle capacità mentali del malato attraverso una serie di test. I farmaci disponibili oggi appartengono a due categorie: Anticolinesterasici (Donepezil, Rivastigmina e Galantamina): questi farmaci riducono l’azione della colinesterasi, un enzima che provvede normalmente a distruggere nel cervello l’acetilcolina (neurotrasmettitore coinvolto nei processi cognitivi e carente nel cervello dei malati con AD). Da questa azione si ha come effetto l’aumento dell’acetilcolina disponibile. Memantina: agisce in maniera differente rispetto ai farmaci sopra indicati. L’effetto di queste terapie, utilizzabili anche in associazione, si traduce in un rallentamento della evoluzione dell’AD. Il quadro clinico invariabilmente peggiora ma più lentamente fino a raggiungere comunque le fasi finali della malattia. Il trattamento precoce dell’AD sembra essere vantaggioso sia per la salute del paziente che per i costi della malattia. I malati non sono gli unici coinvolti dal problema: sui familiari, infatti, grava la maggior parte del carico della gestione e dell'assistenza dei pazienti dementi e spesso pesa la sensazione di non aver fatto abbastanza: “C’è voluto tempo, in famiglia, perché capissimo. Si diceva che ti lasciavi andare alla depressione. Questa ipotesi dava alla cosa un aspetto passeggero e quasi rassicurante. Facevi tutto ciò che era in tuo potere per nasconderci il buio nel quale ti dibattevi. Eri un ottimo mistificatore e noi degli egoisti impenitenti. I sintomi, i presagi non li abbiamo analizzati. Non subito, visti nel loro insieme, dopo ci hanno fatto riflettere. Uscivi sempre meno. Non sapevamo che, da solo, per la strada, cominciavi a perdere l’orientamento. Hai forse lanciato appelli che noi, distratti dal corso delle nostre vite, non abbiamo raccolto?” (Nadine Trintignant, Mi manchi, AIMA, 1997). I malati possono, inoltre, essere particolarmente vulnerabili ad eventi stressanti e/o psicosociali, come malattie o interventi chirurgici, ricoveri in ospedale, cambiamenti di residenza e lutti, che esacerbano i loro deficit intellettivi e favoriscono la comparsa o l’accentuazione dei disturbi del comportamento. L' intero quadro clinico si svolge classicamente in tre fasi: dopo l’esordio, vi sono una fase iniziale, una fase intermedia e una fase terminale. E’ importante tenere presente che i sintomi si manifestano in modo estremamente eterogeneo e spesso sono influenzati dal tipo di personalità, dalle condizioni fisiche, dal grado di cultura e dallo stile di vita del singolo individuo. Nella fase terminale della malattia i sintomi si aggravano ulteriormente: il soggetto perde l’orientamento persino in casa propria, è incapace di riconoscere se stesso e i familiari e di prendersi cura di sé; presenta grave afasia, può divenire aggressivo, oppure mostrare un comportamento completamente assente, apparendo estraniato ed apatico. Sono frequenti, ma non obbligatori, sintomi e segni neurologici: ad esempio, difficoltà nella deambulazione, disturbi della deglutizione, riduzioni della forza, ai quali possono accompagnarsi paresi, spasticità, rigidità, tremori. Talvolta possono manifestarsi anche crisi epilettiche. Sono comuni disturbi sfinterici, con incontinenza fecale ed urinaria. Il quadro finale evolve verso uno stato vegetativo. Il decorso della malattia può abbracciare un periodo di tempo variabile dai 4 agli oltre 15 anni e l’exitus sopravviene spesso a causa del marcato decadimento delle funzioni organiche generali, solitamente per malattie infettive intercorrenti di tipo broncopolmonare o urinario. Come detto, diversamente dalla maggioranza delle malattie, non esiste un test specifico per scoprire la presenza dell’AD. In effetti i segni distintivi, cioè la deposizione di beta amiloide e la formazione dei grovigli neurofibrillari, possono essere rilevati soltanto dopo la morte del paziente, in quanto è necessario procedere all’esame del tessuto cerebrale. In vita questa pratica tramite una biopsia porta con sé tali rischi di complicazioni da renderla di fatto non eseguibile. Le tecniche di diagnostica per immagini come la TAC, orientarsi e non sentirsi isolato. Il “girovagare” può diventare un problema, più per eccesso di questa attività che per difetto. Spesso per mesi o per anni, il malato presenta un incremento patologico della deambulazione: può camminare per ore e ore, ininterrottamente, in modo compulsivo, quasi fosse alla ricerca di qualcosa che non trova mai. Solo nelle ultime fasi della malattia può avere difficoltà nel muoversi. Se si cerca di fermarlo o di arginare la sua iperattività, può reagire in modo brusco o aggressivo. E’ opportuno evitare di rimproverarlo o di bloccarlo. Se insiste per uscire, possiamo accompagnarlo, ma se le uscite diventano troppo frequenti e, per chi assiste, troppo faticose, è conveniente servirsi della collaborazione di una persona conosciuta. Contrariamente a quanto in genere si crede, il vagabondaggio non è quasi mai senza scopo; facilmente il malato dimentica e non è in grado di spiegare dove sta andando, o che cosa si proponeva di fare. Possiamo dunque cercare di creare le condizioni ambientali più sicure possibili per permettere al malato di girovagare senza correre rischi. Un giardino recintato o una zona attrezzata della casa potrebbero dar sfogo al girovagare in sicurezza. Un’alternativa è quella di tentare con attività per lui usuali che possano intrattenerlo e ridurre il vagabondaggio. Ad esempio una casalinga può fermarsi per un certo periodo ad un tavolo ove si trovano stoviglie e oggetti domestici di uso comune. Se questo non è possibile, bisogna trovare il tempo per accompagnarlo in brevi ma frequenti passeggiate. Depressione e apatia Depressione e apatia possono presentarsi anche nel malato affetto da demenza e ripercuotersi sui familiari che lo assistono. Una reazione depressiva, specie nella fase iniziale della malattia, è prevedibile e, in certa misura normale: è una reazione conseguente alle molte carenze e al dover dipendere sempre più dagli altri. Con l’avanzare della malattia, il malato tenderà ad essere sempre meno partecipe di ciò che lo circonda, delegando progressivamente i compiti che ha sempre svolto ma che ora risultano essere faticosi da eseguire, tanto che chi lo assiste spesso si sostituisce a lui. Tutto ciò lo porta inevitabilmente ad uno stato di profonda tristezza che è necessario non sottovalutare, perché può sfociare in una depressione vera e propria. L’apatia sembra erroneamente più facile da gestire, spesso però è confusa con la depressione. La sintomatologia è simile: la persona può rimanere parecchio tempo seduta in apparente ozio e senza parlare, rinchiusa in se stessa. E’ uno stato d’animo molto diffuso, anche se poco segnalato, perché non provoca grossi problemi di gestione e, apparentemente, non ha conseguenze su chi assiste. In realtà non è così: l’apatia del malato può scatenare in chi lo assiste un forte senso di disagio e frustrazione che può ripercuotersi anche sulla qualità dell’assistenza offerta. Per questo motivo è essenziale coinvolgere il malato in semplici attività mirate a sfruttare il più a lungo possibile le abilità residue del malato stesso, così da permettergli di avere fiducia nelle proprie capacità e di sentirsi ancora utile. E’ preferibile incoraggiarlo in attività di movimento, ponendo l'accento sui risultati positivi raggiunti, tralasciando di puntualizzare gli insuccessi che potrebbero risultare demotivanti. E’ controproducente insistere perché il malato faccia qualcosa che non vuole: ne conseguirebbe uno stato di agitazione che potrebbe trasformarsi in aggressività ed annullare i benefici dell’attività stessa. Più utile sarebbe coinvolgerlo rispettando i suoi tempi, insistendo un po’, ma evitando le imposizioni. Deliri e allucinazioni La malattia di A. può indurre il malato a sentire o vedere cose che non esistono nella realtà, ma che per lui sono reali. Può accadere che parli a persone che non ci sono, che creda che parenti o assistenti gli possano fare del male o gli abbiano rubato degli oggetti o del denaro. Altre volte, potrà avere identificazioni alterate che riguardano familiari o persone addette all’assistenza, ritenuti impostori, oppure ideomotoria, evidenziabile in un contesto ecologico come impaccio nell’uso di strumenti quotidiani; l’aprassia ideativa, ad esordio più tardivo, che coinvolge alcune condotte domestiche complesse ma routinarie, come l’uso degli strumenti dell’igiene personale. Infine, l’aprassia dell’abbigliamento rende il paziente dipendente dagli altri nel vestirsi, perché non ricorda la sequenza degli indumenti da indossare. Tra i sintomi di questa malattie vi e anche l’agnosia, cioè l’incapacità a riconoscere e identificare forme, nonostante le funzioni sensoriali siano preservate. Questi disturbi si traducono in difetti nel riconoscimento di segni grafici convenzionali (alessia agnosica) o di oggetti comuni (agnosia visiva), o anche di visi di familiari e conoscenti, in questi casi si parla di prosopoagnosia. Un disturbo comunissimo nell’alzheimeriano è quello del disorientamento topografico, da cui deriva una tendenza a perdersi. L’aspetto più grave del disorientamento si manifesta nelle fasi tardive sui brevi percorsi anche all’interno dei comuni spazi abitativi. Fin dalle fasi più precoci dell’AD, i pazienti mostrano difficoltà a focalizzare l’attenzione su un compito e a mantenerla fino alla sua conclusione. Così, le azioni e le attività più routinarie sono apparentemente portate a termine con maggiore facilità rispetto a quelle nuove in quanto presuppongono una minor richiesta attentiva per essere eseguite. I disturbi cognitivi nel malato di AD si associano di frequente a modificazioni della personalità, dell’affettività e del comportamento: il 70% circa dei pazienti manifesta apatia, il 40% irritabilità, il 30% circa disinibizione; l’agitazione, un disturbo molto composito che va dalla vocalizzazione persistente all’aggressività, è presente in circa il 60% dei casi; l’ansia è osservata nel 50% dei dementi. Anche le modificazioni del tono dell’umore sono frequenti: nel 30-50% dei pazienti vengono riscontrati sintomi depressivi, nel 5-8% euforia e nel 40% labilità emotiva; il comportamento motorio aberrante con vagabondaggio è descritto nel 40% dei dementi; sintomi psicotici, quali deliri a carattere persecutorio o di furto e allucinazioni a carattere visivo o acustico (vedere persone o animali, udire suoni o voci, tutti inesistenti) sono riportati nel 30-60% dei pazienti. Il deficit mnesico nella AD è spesso così precoce e rilevante da costituire l’unico evidente disturbo cognitivo; questo inizialmente si caratterizza per essere essenzialmente anterògrado, portando a rapida perdita delle nuove informazioni, ad esempio nomi di persone, luoghi e cose. La perdita di queste informazioni correnti compromette il ricordo di buona parte dei piccoli fatti quotidiani, ad esempio cosa si è mangiato il giorno prima o dove è stato riposto un oggetto, ecc.. Con il tempo vengono dimenticati anche fatti di maggiore rilievo e subentra un difetto della cosiddetta memoria del futuro, quali appuntamenti e scadenze. Si evidenziano anche disturbi della memoria semantica, ossia conoscenze generali del mondo, conoscenze enciclopediche o significati di parole, e, più tardivamente, della memoria autobiografica (permette di rievocare eventi del proprio trascorso autobiografico) e procedurale (include tutti i comportamenti appresi ed automatizzati, che si realizzano senza un intervento della coscienza e che governano le azioni quotidiane, come vestirsi, lavarsi, cucinare e guidare, ecc.). A causa di questi deficit il malato di AD presenta spesso una condotta incerta anche nelle situazioni più banali. L’afasia è definibile come un deterioramento delle funzioni del linguaggio. Nelle fasi molto precoci dell’AD si osserva una generica difficoltà ad evocare nomi di uso non frequente; nella conversazione si può, inoltre, riconoscere un impoverimento del contenuto informativo, con incertezze nella costruzione sintattica del periodo. In una fase più avanzata della malattia, il linguaggio spontaneo risulta ancora più impoverito, aumentano le anomie, le frasi "fatte" e le parole passe-partout (es. coso, cosa, fare, ecc.); i concetti sono espressi in modo confuso e possono emergere deficit della scrittura. Nella fase finale, la comunicazione risulta spesso del tutto impossibile per un grave disturbo della comprensione, e l’espressione spontanea è nulla o estremamente ridotta. I processi di lettura e scrittura sono compromessi. I pazienti con AD presentano anche aprassia, ossia incapacità ad eseguire comportamenti motori, nonostante siano preservate le funzioni motorie e sensoriali. Si possono distinguere: l’aprassia manifestare la convinzione che visitatori immaginari vivano nella sua casa. Per un’errata percezione, le immagini televisive potrebbero essere vissute come reali e costituire dunque motivo di disturbo. Deliri e allucinazioni possono essere fonte di grande angoscia per la persona. E’ utile pertanto conservare, da parte di chi assiste, una serena modalità di contatto: toccare il malato con una mano, parlargli con tranquillità e soprattutto non mettere in discussione la sua convinzione delirante. Con il progredire della malattia, il malato potrebbe diventare incapace di riconoscere sia i familiari che se stesso. Vedendo la sua immagine riflessa in uno specchio potrebbe reagire come di fronte ad un estraneo. E’ possibile cercare di limitare la frequenza di questi episodi intervenendo sull’ambiente abitativo, togliendo gli oggetti che possono alimentare le allucinazioni: specchi, quadri con immagini di persone o animali. Questi provvedimenti non elimineranno del tutto il problema e si dovrà porre maggiore attenzione nell’evitare di contraddire il malato o tentare di convincerlo che quel che dice è sbagliato. Non serve neppure fingere che le allucinazioni e i deliri siano fatti reali: è meglio cercare di distrarlo confortandolo e rassicurandolo, e spiegando che noi non vediamo e sentiamo ciò che lui percepisce, ma possiamo capire ciò che prova. Rassicurarlo con un atteggiamento equilibrato, e distrarlo interessandolo a qualcosa che lo potrebbe incuriosire, non è mai cosa vana. Perdita delle inibizioni A volte il malato di A. si comporta in modo sconveniente o imbarazzante: le inibizioni diminuiscono e, di conseguenza, egli tende ad essere più disinvolto e a rispettare meno le regole sociali. Potrebbe pronunciare parole offensive, dire parolacce e bestemmie o fare apprezzamenti e gesti di natura sessuale, a volte sgradevoli per le persone presenti. La causa può essere ricondotta ad un danno cerebrale oppure al fatto che il malato si sente disorientato e confuso. Il comportamento sconveniente solitamente non costituisce un problema per lui, perché inconsapevole di aver agito in modo imbarazzante. L’imbarazzo è soltanto delle persone che lo attorniano. Chi lo assiste deve saper controllare la situazione, dominando le proprie emozioni e cercando di spiegare ai presenti che la malattia spinge il malato a comportamenti inadeguati Anche se siamo imbarazzati, ricordiamo sempre che questo atteggiamento è generato dalla malattia: la persona non è consapevole e non agisce intenzionalmente per turbare o infastidire qualcuno. In questi casi occorre essere il più possibile garbati per non provocare reazioni aggressive. Possiamo gentilmente allontanarlo e distrarlo, proponendo un’attività a lui gradita. Non è sempre possibile evitare o bloccare un atteggiamento sconveniente, ma se consideriamo che tutto ciò è causato dalla patologia, affronteremo questi episodi senza offenderci né turbarci troppo. È comunque opportuno segnalare al medico tali comportamenti per eventuali terapie ad hoc. 3. FATICA E DOLORE DI CHI ASSISTE L’assistenza ad una persona ammalata crea sempre fatica, turbamenti, paure e talvolta assurdi sensi di colpa. Sempre, per qualsiasi malattia, ma quando ci si trova ad assistere un malato di A., a queste emozioni si aggiunge un grande disorientamento, perché nel corso della malattia si altera la comunicazione fino quasi a scomparire. E questo diventa via via insostenibile, perché chi accudisce ha bisogno di sentirsi riconosciuto. Il vuoto che si crea, nel rallentamento dei gesti, nello scomparire della parola genera uno stato d'angoscia mista a rabbia e paura. Che fatica accudire un ammalato, che fatica condividere giorni e notti con una persona che non solo si spegne nel fisico, ma soprattutto si spegne nella mente! nel 2025 nel mondo 34 milioni di persone saranno affette da questa malattia! Già adesso i costi di questa malattia sono elevatissimi: si calcola che negli USA si spendono 100 miliardi di $ all’anno. È facile quindi ipotizzare come l’impegno economico nei prossimi decenni sarà ancor più massiccio. La malattia di Alzheimer prende il nome da Alois Alzheimer (1864-1915), un patologo tedesco che nel 1907 pubblicò i rilievi post-mortem di una donna di 51 anni con una grave forma di demenza. Fu soltanto nel 1910 che la malattia ebbe un nome, quando Emil Kraepelin, un famoso psichiatra di lingua tedesca, pubblicò il suo trattato "Psichiatria", nel quale definiva una nuova forma di demenza scoperta da Alzheimer, chiamandola appunto Malattia di Alzheimer. Nella caratterizzazione della malattia ebbe però un ruolo chiave anche un ricercatore italiano: Gaetano Perusini (1879-1915), tanto che la malattia è nota anche come Malattia di Alzheimer-Perusini. In questi malati, i neuroni, che sono le cellule del cervello, subiscono delle alterazioni specifiche: all’esterno del neurone si assiste alla formazione di caratteristiche placche, frutto della deposizione di una sostanza chiamata beta amiloide, mentre all’interno si producono particolari strutture anomale chiamate grovigli neurofibrillari. Queste alterazioni, che possono essere accertate soltanto esaminando direttamente al microscopio il tessuto cerebrale, impediscono alle cellule del cervello di trasmettere gli impulsi nervosi e ne determinano progressivamente la morte. Le cause di questa malattia non sono accertate. Si sa che al 3-5% dei casi è sottesa una causa genetica, mentre per gli altri casi vi sono differenti teorie che individuano più fattori di rischio o causali. Esiste una fase nella quale la malattia è caratterizzata dal solo danno biologico, senza manifestazioni cliniche, e una fase nella quale i sintomi sono così sfumati e lievi da rendere molto difficile la diagnosi sindromica di demenza. Questo rende conto del ritardo, che in media è di 3 anni, tra l’insorgenza dei primi segni di malattia e la diagnosi. Il quadro clinico dell’AD si caratterizza per il graduale, progressivo ed inarrestabile declino delle funzioni cognitive. Oltre ai sintomi cognitivi sono presenti sintomi non cognitivi, che riguardano cioè la sfera della personalità, l’affettività, le funzioni vegetative ed il comportamento. Tabella 1 Criteri diagnostici della demenza secondo il DSM-IV Presenza di deficit cognitivi multipli caratterizzati da: A1) compromissione della memoria; A2) almeno uno dei seguenti deficit cognitivi: afasia, aprassia, agnosia, deficit del pensiero astratto e delle capacità di critica. I deficit cognitivi dei criteri A1 e A2 interferiscono significativamente e negativamente nel lavoro, nelle attività sociali o nelle relazioni con gli altri, con un peggioramento significativo rispetto al precedente livello funzionale. I deficit non si manifestano esclusivamente durante un delirium. Esistono oltre cento forme di demenza, ma essenzialmente si possono suddividere in forme degenerative caratterizzate da un danno che coinvolge primariamente il cervello e in forme secondarie nelle quali i danni al cervello sono conseguenza di un’altra malattia. Tra queste ultime forme, circa l’8-10% del totale è potenzialmente guaribile trattando la malattia sottostante. 800 mila persone circa oggi in Italia sono affette da demenza, circa il 6-7% degli ultrasessantacinquenni. La demenza più frequente è senza dubbio la Malattia di Alzheimer (AD) (60-70% dei casi), seguita dalla demenza vascolare (15-25%). In questa breve trattazione l’AD viene considerata come modello generale. Questa demenza è più frequente nell’età avanzata (>65 anni) per cui, in seguito al progressivo invecchiamento della popolazione cui stiamo assistendo in questi anni, è facile comprendere come stia diventando, di fatto, una delle emergenze sociosanitarie del nostro tempo ed è prevedibile che il numero dei malati sia destinato ad aumentare sensibilmente nei prossimi anni. Secondo proiezioni epidemiologiche, Allora è importante tener presente che si sta facendo qualcosa per una persona che non ci riconosce più, ma che per noi è stata importante e cara. La malattia ha il suo decorso ed è più forte di noi, dobbiamo accettarne l’ineluttabilità e accompagnare il malato con amore, con fiducia nell’aiuto dei farmaci e con disponibilità ad accettare la presenza invadente di malattie nel percorso della vita. Se seguiamo un malato di A. dobbiamo riconoscere che le nostre forze non sono illimitate; dobbiamo imparare a prendere le distanze prima di crollare, cercando aiuto. E’ importante che non perdiamo il contatto con le nostre esigenze di vita e rispondiamo alla fatica concedendoci ogni tanto una pausa rigeneratrice d’energia. Sforziamoci di non sentirci indispensabili, gli unici capaci, prendiamoci spazio e lasciamone anche ad altre persone disponibili. La malattia rischia di metterci in uno stato di continua preoccupazione o ancor peggio di depressione. E’ un pericolo che dobbiamo evitare, perché rischiamo di perdere tutte le risorse che ci possono servire per accompagnare il malato, ma anche per non dimenticare noi stessi e il mondo circostante. Dobbiamo anche essere attenti a non farci opprimere dai sensi di colpa nel caso in cui l’aggravarsi della malattia contempli la necessità di ricoverare il malato in una struttura specializzata per persone non autosufficienti quando è a rischio la sua e l’altrui incolumità. Indispensabili in questo caso la comprensione e la condivisione di chi ha vissuto prima di noi la stessa esperienza. La condivisione aiuterà a comprendere che la decisione ultima è determinata dalla natura della malattia e non da un rifiuto della persona che abbiamo accudito con assiduità e dedizione. 4. BIBLIOGRAFIA 1. Castoldi R., Longoni B., Prendersi cura della persona con demenza, Editrice Ambrosiana, Milano 2005. 2. Galli R., Liscio M., L’operatore e il malato Alzheimer, McGrawHill, Milano 2007. 3. AA.VV., La famiglia e il malato di Alzheimer, NextHealt, Milano 2002. 4. Censis, La mente rubata, FrancoAngeli, Milano 1999. 5. Centro italiano per lo studio dell’Alzheimer e della longevità, Come assistere i pazienti affetti da demenza, Aldo Primerano, Roma 1989. 6. Pettinati C., Spadin P., Villani D., Vademecum Alzheimer, A.I.M.A., Milano 1996. 7. AA.VV., Manuale per prendersi cura del malato di Alzheimer, Federazione Alzheimer Italia, Milano 1989 1. LA MALATTIA DI ALZHEIMER Fino ad un paio di decenni fa la demenza non ha rappresentato per la medicina un capitolo di particolare interesse ed è stata relegata ad entità quasi inesistente, commistione fra ignoto e vecchiaia, rivelandosi come un incomprensibile spesso inaccettabile evento solo a chi è stato vicino a questi malati. Ora però gli atteggiamenti della scienza nei confronti di questa malattia non sono più rinunciatari e la medicina moderna si sta muovendo per trovare un ruolo attivo accanto ai malati e alle famiglie. La parola demenza indica una malattia caratterizzata da progressiva perdita delle capacità cognitive, con un costante coinvolgimento della memoria oltre alla contemporanea presenza di almeno una delle seguenti alterazioni: afasia (disturbi del linguaggio), aprassia (incapacità a eseguire attività motorie nonostante l’integrità della comprensione e della motricità), agnosia (incapacità a riconoscere o identificare oggetti in assenza di deficit sensoriali), deficit del pensiero astratto e delle capacità di critica (pianificare, organizzare, fare ragionamenti astratti). I deficit cognitivi devono essere di entità tale da interferire significativamente con le attività lavorative, le relazioni sociali e l’autonomia dell’individuo che ne è colpito. La diagnosi di demenza è clinica e fa riferimento alla presenza di una sindrome definita da criteri. I più diffusi sono quelli del cosiddetto DSM IV, un Manuale di riferimento per le malattie mentali dell’Associazione Americana di Psichiatria (Tab. 1). Gli esami di laboratorio, la TAC o la Risonanza Magnetica sono indagini di supporto e non consentono, se non associati alla valutazione clinica, di diagnosticare una demenza. Opuscolo Informativo per l’assistenza ai malati affetti da demenza Avvertenza: Per imprevisti o altre ragioni organizzative il contenuto del presente opuscolo potrebbe subire modifiche anche temporanee. Le osservazioni, i suggerimenti e i reclami possono essere presentati dai Cittadini stessi e/o dagli Organismi di Volontariato e Tutela attraverso: L’ Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP ) via Mazzini, 117 28887 Omegna: telefono 800 307114, e-mail [email protected] Stampa a cura di: U.O. URP ASL VCO novembre 2010 La Geriatria dell’ASL VCO per i familiari dei malati affetti da demenza