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Opuscolo Informativo per l`assistenza ai malati affetti da demenza

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Opuscolo Informativo per l`assistenza ai malati affetti da demenza
Opuscolo Informativo per l’assistenza ai
malati affetti da demenza
Avvertenza:
Per imprevisti o altre ragioni organizzative il contenuto del presente opuscolo
potrebbe subire modifiche anche temporanee.
Le osservazioni, i suggerimenti e i reclami possono essere presentati dai
Cittadini stessi e/o dagli Organismi di Volontariato e Tutela attraverso:
L’ Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP ) via Mazzini, 117 28887 Omegna:
telefono 800 307114, e-mail [email protected]
Stampa a cura di: U.O. URP ASL VCO novembre 2010
La Geriatria dell’ASL VCO per i familiari dei malati affetti da demenza
PREFAZIONE
Questo breve opuscolo è indirizzato ai familiari dei malati affetti da
demenza di Alzheimer e altre demenze.
Non ha la pretesa di essere di per sé esaustivo. Contiene comunque
alcune indicazioni generali per migliorare la consapevolezza e la
capacità dei familiari ad affrontare problemi di riscontro comune in
questi malati.
La stesura dell’opuscolo è stata realizzata con la preziosa
collaborazione della sig.ra Vanna Zarini a cui si deve la stesura della
parte dedicata alle informazioni sull’assistenza ai malati.
Un particolare e sentito ringraziamento va alla prof.ssa Carla Rossi
Bozzuto che ha curato la revisione linguistica e l’impostazione
editoriale.
La stampa è frutto dell’impegno e della particolare sensibilità
dell’equipe dell’URP dell’ASL VCO a cui va la mia personale
gratitudine.
Omegna, 01.10.2009
Dr. Fabio Di Stefano
Direttore S.O.C. Geriatria ASL VCO
4. BIBLIOGRAFIA
1. Castoldi R., Longoni B., Prendersi cura della persona con
demenza, Editrice Ambrosiana, Milano 2005.
2. Galli R., Liscio M., L’operatore e il malato Alzheimer, McGrawHill, Milano 2007.
3.
AA.VV., La famiglia e il malato di Alzheimer, NextHealt,
Milano 2002.
4. Censis, La mente rubata, FrancoAngeli, Milano 1999.
5. Centro italiano per lo studio dell’Alzheimer e della longevità,
Come assistere i pazienti affetti da demenza, Aldo Primerano,
Roma 1989.
6. Pettinati C., Spadin P., Villani D., Vademecum Alzheimer,
A.I.M.A., Milano 1996.
7. AA.VV., Manuale per prendersi cura del malato di Alzheimer,
Federazione Alzheimer
Italia, Milano 1989
1. LA MALATTIA DI ALZHEIMER
Fino ad un paio di decenni fa la demenza non ha rappresentato per la
medicina un capitolo di particolare interesse ed è stata relegata ad entità
quasi inesistente, commistione fra ignoto e vecchiaia, rivelandosi come
un incomprensibile spesso inaccettabile evento solo a chi è stato vicino a
questi malati. Ora però gli atteggiamenti della scienza nei confronti di
questa malattia non sono più rinunciatari e la medicina moderna si sta
muovendo per trovare un ruolo attivo accanto ai malati e alle famiglie.
La parola demenza indica una malattia caratterizzata da progressiva
perdita delle capacità cognitive, con un costante coinvolgimento della
memoria oltre alla contemporanea presenza di almeno una delle
seguenti alterazioni: afasia (disturbi del linguaggio), aprassia (incapacità
a eseguire attività motorie nonostante l’integrità della comprensione e
della motricità), agnosia (incapacità a riconoscere o identificare oggetti
in assenza di deficit sensoriali), deficit del pensiero astratto e delle
capacità di critica (pianificare, organizzare, fare ragionamenti astratti). I
deficit cognitivi devono essere di entità tale da interferire
significativamente con le attività lavorative, le relazioni sociali e
l’autonomia dell’individuo che ne è colpito.
La diagnosi di demenza è clinica e fa riferimento alla presenza di una
sindrome definita da criteri. I più diffusi sono quelli del cosiddetto DSM
IV, un Manuale di riferimento per le malattie mentali dell’Associazione
Americana di Psichiatria (Tab. 1). Gli esami di laboratorio, la TAC o la
Risonanza Magnetica sono indagini di supporto e non consentono, se
non associati alla valutazione clinica, di diagnosticare una demenza.
Tabella 1 Criteri diagnostici della demenza secondo il
DSM-IV
Presenza di deficit cognitivi multipli caratterizzati da:
A1) compromissione della memoria;
A2) almeno uno dei seguenti deficit cognitivi:
afasia, aprassia, agnosia, deficit del pensiero
astratto e delle capacità di critica.
I deficit cognitivi dei criteri A1 e A2 interferiscono
significativamente e negativamente nel lavoro, nelle
attività sociali o nelle relazioni con gli altri, con un
peggioramento significativo rispetto al precedente
livello funzionale. I deficit non si manifestano
esclusivamente durante un delirium.
Esistono oltre cento forme di demenza, ma essenzialmente si
possono suddividere in forme degenerative caratterizzate da un
danno che coinvolge primariamente il cervello e in forme secondarie
nelle quali i danni al cervello sono conseguenza di un’altra malattia.
Tra queste ultime forme, circa l’8-10% del totale è potenzialmente
guaribile trattando la malattia sottostante.
800 mila persone circa oggi in Italia sono affette da demenza, circa il
6-7% degli ultrasessantacinquenni.
La demenza più frequente è senza dubbio la Malattia di Alzheimer
(AD) (60-70% dei casi), seguita dalla demenza vascolare (15-25%).
In questa breve trattazione l’AD viene considerata come modello
generale. Questa demenza è più frequente nell’età avanzata (>65
anni) per cui, in seguito al progressivo invecchiamento della
popolazione cui stiamo assistendo in questi anni, è facile
comprendere come stia diventando, di fatto, una delle emergenze
sociosanitarie del nostro tempo ed è prevedibile che il numero dei
malati sia destinato ad aumentare sensibilmente nei prossimi anni.
Secondo proiezioni epidemiologiche,
Allora è importante tener presente che si sta facendo qualcosa per una
persona che non ci riconosce più, ma che per noi è stata importante e
cara.
La malattia ha il suo decorso ed è più forte di noi, dobbiamo accettarne
l’ineluttabilità e accompagnare il malato con amore, con fiducia nell’aiuto
dei farmaci e con disponibilità ad accettare la presenza invadente di
malattie nel percorso della vita.
Se seguiamo un malato di A. dobbiamo riconoscere che le nostre forze
non sono illimitate; dobbiamo imparare a prendere le distanze prima di
crollare, cercando aiuto. E’ importante che non perdiamo il contatto con
le nostre esigenze di vita e rispondiamo alla fatica concedendoci ogni
tanto una pausa rigeneratrice d’energia.
Sforziamoci di non sentirci indispensabili, gli unici capaci, prendiamoci
spazio e lasciamone anche ad altre persone disponibili.
La malattia rischia di metterci in uno stato di continua preoccupazione o
ancor peggio di depressione. E’ un pericolo che dobbiamo evitare,
perché rischiamo di perdere tutte le risorse che ci possono servire per
accompagnare il malato, ma anche per non dimenticare noi stessi e il
mondo circostante.
Dobbiamo anche essere attenti a non farci opprimere dai sensi di colpa
nel caso in cui l’aggravarsi della malattia contempli la necessità di
ricoverare il malato in una struttura specializzata per persone non
autosufficienti quando è a rischio la sua e l’altrui incolumità.
Indispensabili in questo caso la comprensione e la condivisione di chi ha
vissuto prima di noi la stessa esperienza. La condivisione aiuterà a
comprendere che la decisione ultima è determinata dalla natura della
malattia e non da un rifiuto della persona che abbiamo accudito con
assiduità e dedizione.
Il comportamento sconveniente solitamente non costituisce un
problema per lui, perché inconsapevole di aver agito in modo
imbarazzante. L’imbarazzo è soltanto delle persone che lo attorniano.
Chi lo assiste deve saper controllare la situazione, dominando le
proprie emozioni e cercando di spiegare ai presenti che la malattia
spinge il malato a comportamenti inadeguati
Anche se siamo imbarazzati, ricordiamo sempre che questo
atteggiamento è generato dalla malattia: la persona non è
consapevole e non agisce intenzionalmente per turbare o infastidire
qualcuno.
In questi casi occorre essere il più possibile garbati per non
provocare reazioni aggressive. Possiamo gentilmente allontanarlo e
distrarlo, proponendo un’attività a lui gradita.
Non è sempre possibile evitare o bloccare un atteggiamento
sconveniente, ma se consideriamo che tutto ciò è causato dalla
patologia, affronteremo questi episodi senza offenderci né turbarci
troppo.
È comunque opportuno segnalare al medico tali comportamenti per
eventuali terapie ad hoc.
3. FATICA E DOLORE DI CHI ASSISTE
L’assistenza ad una persona ammalata crea sempre fatica,
turbamenti, paure e talvolta assurdi sensi di colpa. Sempre, per
qualsiasi malattia, ma quando ci si trova ad assistere un malato di A.,
a queste emozioni si aggiunge un grande disorientamento, perché
nel corso della malattia si altera la comunicazione fino quasi a
scomparire. E questo diventa via via insostenibile, perché chi
accudisce ha bisogno di sentirsi riconosciuto. Il vuoto che si crea, nel
rallentamento dei gesti, nello scomparire della parola genera uno
stato d'angoscia mista a rabbia e paura.
Che fatica accudire un ammalato, che fatica condividere giorni e notti
con una persona che non solo si spegne nel fisico, ma soprattutto si
spegne nella mente!
nel 2025 nel mondo 34 milioni di persone saranno affette da questa
malattia! Già adesso i costi di questa malattia sono elevatissimi: si
calcola che negli USA si spendono 100 miliardi di $ all’anno. È facile
quindi ipotizzare come l’impegno economico nei prossimi decenni sarà
ancor più massiccio.
La malattia di Alzheimer prende il nome da Alois Alzheimer (1864-1915),
un patologo tedesco che nel 1907 pubblicò i rilievi post-mortem di una
donna di 51 anni con una grave forma di demenza.
Fu soltanto nel 1910 che la malattia ebbe un nome, quando Emil
Kraepelin, un famoso psichiatra di lingua tedesca, pubblicò il suo trattato
"Psichiatria", nel quale definiva una nuova forma di demenza scoperta
da Alzheimer, chiamandola appunto Malattia di Alzheimer. Nella
caratterizzazione della malattia ebbe però un ruolo chiave anche un
ricercatore italiano: Gaetano Perusini (1879-1915), tanto che la malattia
è nota anche come Malattia di Alzheimer-Perusini.
In questi malati, i neuroni, che sono le cellule del cervello, subiscono
delle alterazioni specifiche: all’esterno del neurone si assiste alla
formazione di caratteristiche placche, frutto della deposizione di una
sostanza chiamata beta amiloide, mentre all’interno si producono
particolari strutture anomale chiamate grovigli neurofibrillari. Queste
alterazioni, che possono essere accertate soltanto esaminando
direttamente al microscopio il tessuto cerebrale, impediscono alle cellule
del cervello di trasmettere gli impulsi nervosi e ne determinano
progressivamente la morte.
Le cause di questa malattia non sono accertate. Si sa che al 3-5% dei
casi è sottesa una causa genetica, mentre per gli altri casi vi sono
differenti teorie che individuano più fattori di rischio o causali.
Esiste una fase nella quale la malattia è caratterizzata dal solo danno
biologico, senza manifestazioni cliniche, e una fase nella quale i sintomi
sono così sfumati e lievi da rendere molto difficile la diagnosi sindromica
di demenza. Questo rende conto del ritardo, che in media è di 3 anni,
tra l’insorgenza dei primi segni di malattia e la diagnosi.
Il quadro clinico dell’AD si caratterizza per il graduale, progressivo ed
inarrestabile declino delle funzioni cognitive. Oltre ai sintomi cognitivi
sono presenti sintomi non cognitivi, che riguardano cioè la sfera della
personalità, l’affettività, le funzioni vegetative ed il comportamento.
Il deficit mnesico nella AD è spesso così precoce e rilevante da
costituire l’unico evidente disturbo cognitivo; questo inizialmente si
caratterizza per essere essenzialmente anterògrado, portando a
rapida perdita delle nuove informazioni, ad esempio nomi di persone,
luoghi e cose. La perdita di queste informazioni correnti
compromette il ricordo di buona parte dei piccoli fatti quotidiani, ad
esempio cosa si è mangiato il giorno prima o dove è stato riposto un
oggetto, ecc..
Con il tempo vengono dimenticati anche fatti di maggiore rilievo e
subentra un difetto della cosiddetta memoria del futuro, quali
appuntamenti e scadenze.
Si evidenziano anche disturbi della memoria semantica, ossia
conoscenze generali del mondo, conoscenze enciclopediche o
significati di parole, e, più tardivamente, della memoria
autobiografica (permette di rievocare eventi del proprio trascorso
autobiografico) e procedurale (include tutti i comportamenti appresi
ed automatizzati, che si realizzano senza un intervento della
coscienza e che governano le azioni quotidiane, come vestirsi,
lavarsi, cucinare e guidare, ecc.).
A causa di questi deficit il malato di AD presenta spesso una
condotta incerta anche nelle situazioni più banali.
L’afasia è definibile come un deterioramento delle funzioni del
linguaggio. Nelle fasi molto precoci dell’AD si osserva una generica
difficoltà ad evocare nomi di uso non frequente; nella conversazione
si può, inoltre, riconoscere un impoverimento del contenuto
informativo, con incertezze nella costruzione sintattica del periodo.
In una fase più avanzata della malattia, il linguaggio spontaneo
risulta ancora più impoverito, aumentano le anomie, le frasi "fatte" e
le parole passe-partout (es. coso, cosa, fare, ecc.); i concetti sono
espressi in modo confuso e possono emergere deficit della scrittura.
Nella fase finale, la comunicazione risulta spesso del tutto impossibile
per un grave disturbo della comprensione, e l’espressione spontanea
è nulla o estremamente ridotta. I processi di lettura e scrittura sono
compromessi.
I pazienti con AD presentano anche aprassia, ossia incapacità ad
eseguire comportamenti motori, nonostante siano preservate le
funzioni motorie e sensoriali. Si possono distinguere: l’aprassia
manifestare la convinzione che visitatori immaginari vivano nella sua
casa.
Per un’errata percezione, le immagini televisive potrebbero essere
vissute come reali e costituire dunque motivo di disturbo.
Deliri e allucinazioni possono essere fonte di grande angoscia per la
persona. E’ utile pertanto conservare, da parte di chi assiste, una serena
modalità di contatto: toccare il malato con una mano, parlargli con
tranquillità e soprattutto non mettere in discussione la sua convinzione
delirante.
Con il progredire della malattia, il malato potrebbe diventare incapace di
riconoscere sia i familiari che se stesso. Vedendo la sua immagine
riflessa in uno specchio potrebbe reagire come di fronte ad un estraneo.
E’ possibile cercare di limitare la frequenza di questi episodi
intervenendo sull’ambiente abitativo, togliendo gli oggetti che possono
alimentare le allucinazioni: specchi, quadri con immagini di persone o
animali.
Questi provvedimenti non elimineranno del tutto il problema e si dovrà
porre maggiore attenzione nell’evitare di contraddire il malato o tentare
di convincerlo che quel che dice è sbagliato. Non serve neppure fingere
che le allucinazioni e i deliri siano fatti reali: è meglio cercare di distrarlo
confortandolo e rassicurandolo, e spiegando che noi non vediamo e
sentiamo ciò che lui percepisce, ma possiamo capire ciò che prova.
Rassicurarlo con un atteggiamento equilibrato, e distrarlo interessandolo
a qualcosa che lo potrebbe incuriosire, non è mai cosa vana.
Perdita delle inibizioni
A volte il malato di A. si comporta in modo sconveniente o imbarazzante:
le inibizioni diminuiscono e, di conseguenza, egli tende ad essere più
disinvolto e a rispettare meno le regole sociali. Potrebbe pronunciare
parole offensive, dire parolacce e bestemmie o fare apprezzamenti e
gesti di natura sessuale, a volte sgradevoli per le persone presenti.
La causa può essere ricondotta ad un danno cerebrale oppure al fatto
che il malato si sente disorientato e confuso.
che ha sempre svolto ma che ora risultano essere faticosi da
eseguire, tanto che chi lo assiste spesso si sostituisce a lui.
Tutto ciò lo porta inevitabilmente ad uno stato di profonda tristezza
che è necessario non sottovalutare, perché può sfociare in una
depressione vera e propria.
L’apatia sembra erroneamente più facile da gestire, spesso però è
confusa con la depressione. La sintomatologia è simile: la persona
può rimanere parecchio tempo seduta in apparente ozio e senza
parlare, rinchiusa in se stessa. E’ uno stato d’animo molto diffuso,
anche se poco segnalato, perché non provoca grossi problemi di
gestione e, apparentemente, non ha conseguenze su chi assiste.
In realtà non è così: l’apatia del malato può scatenare in chi lo
assiste un forte senso di disagio e frustrazione che può ripercuotersi
anche sulla qualità dell’assistenza offerta.
Per questo motivo è essenziale coinvolgere il malato in semplici
attività mirate a sfruttare il più a lungo possibile le abilità residue del
malato stesso, così da permettergli di avere fiducia nelle proprie
capacità e di sentirsi ancora utile.
E’ preferibile incoraggiarlo in attività di movimento, ponendo
l'accento sui risultati positivi raggiunti, tralasciando di puntualizzare
gli insuccessi che potrebbero risultare demotivanti.
E’ controproducente insistere perché il malato faccia qualcosa che
non vuole: ne conseguirebbe uno stato di agitazione che potrebbe
trasformarsi in aggressività ed annullare i benefici dell’attività stessa.
Più utile sarebbe coinvolgerlo rispettando i suoi tempi, insistendo un
po’, ma evitando le imposizioni.
Deliri e allucinazioni
La malattia di A. può indurre il malato a sentire o vedere cose che
non esistono nella realtà, ma che per lui sono reali. Può accadere
che parli a persone che non ci sono, che creda che parenti o
assistenti gli possano fare del male o gli abbiano rubato degli oggetti
o del denaro.
Altre volte, potrà avere identificazioni alterate che riguardano
familiari o persone addette all’assistenza, ritenuti impostori, oppure
ideomotoria, evidenziabile in un contesto ecologico come impaccio
nell’uso di strumenti quotidiani; l’aprassia ideativa, ad esordio più
tardivo, che coinvolge alcune condotte domestiche complesse ma
routinarie, come l’uso degli strumenti dell’igiene personale. Infine,
l’aprassia dell’abbigliamento rende il paziente dipendente dagli altri nel
vestirsi, perché non ricorda la sequenza degli indumenti da indossare.
Tra i sintomi di questa malattie vi e anche l’agnosia, cioè l’incapacità a
riconoscere e identificare forme, nonostante le funzioni sensoriali siano
preservate. Questi disturbi si traducono in difetti nel riconoscimento di
segni grafici convenzionali (alessia agnosica) o di oggetti comuni
(agnosia visiva), o anche di visi di familiari e conoscenti, in questi casi si
parla di prosopoagnosia.
Un
disturbo
comunissimo
nell’alzheimeriano
è
quello
del
disorientamento topografico, da cui deriva una tendenza a perdersi.
L’aspetto più grave del disorientamento si manifesta nelle fasi tardive sui
brevi percorsi anche all’interno dei comuni spazi abitativi.
Fin dalle fasi più precoci dell’AD, i pazienti mostrano difficoltà a
focalizzare l’attenzione su un compito e a mantenerla fino alla sua
conclusione. Così, le azioni e le attività più routinarie sono
apparentemente portate a termine con maggiore facilità rispetto a quelle
nuove in quanto presuppongono una minor richiesta attentiva per essere
eseguite.
I disturbi cognitivi nel malato di AD si associano di frequente a
modificazioni
della
personalità,
dell’affettività
e
del
comportamento: il 70% circa dei pazienti manifesta apatia, il 40%
irritabilità, il 30% circa disinibizione; l’agitazione, un disturbo molto
composito che va dalla vocalizzazione persistente all’aggressività, è
presente in circa il 60% dei casi; l’ansia è osservata nel 50% dei
dementi. Anche le modificazioni del tono dell’umore sono frequenti: nel
30-50% dei pazienti vengono riscontrati sintomi depressivi, nel 5-8%
euforia e nel 40% labilità emotiva; il comportamento motorio aberrante
con vagabondaggio è descritto nel 40% dei dementi; sintomi psicotici,
quali deliri a carattere persecutorio o di furto e allucinazioni a carattere
visivo o acustico (vedere persone o animali, udire suoni o voci, tutti
inesistenti) sono riportati nel 30-60% dei pazienti.
I malati possono, inoltre, essere particolarmente vulnerabili ad eventi
stressanti e/o psicosociali, come malattie o interventi chirurgici,
ricoveri in ospedale, cambiamenti di residenza e lutti, che
esacerbano i loro deficit intellettivi e favoriscono la comparsa o
l’accentuazione dei disturbi del comportamento.
L' intero quadro clinico si svolge classicamente in tre fasi: dopo
l’esordio, vi sono una fase iniziale, una fase intermedia e una fase
terminale. E’ importante tenere presente che i sintomi si manifestano
in modo estremamente eterogeneo e spesso sono influenzati dal tipo
di personalità, dalle condizioni fisiche, dal grado di cultura e dallo
stile di vita del singolo individuo.
Nella fase terminale della malattia i sintomi si aggravano
ulteriormente: il soggetto perde l’orientamento persino in casa
propria, è incapace di riconoscere se stesso e i familiari e di
prendersi cura di sé; presenta grave afasia, può divenire aggressivo,
oppure mostrare un comportamento completamente assente,
apparendo estraniato ed apatico.
Sono frequenti, ma non obbligatori, sintomi e segni neurologici: ad
esempio, difficoltà nella deambulazione, disturbi della deglutizione,
riduzioni della forza, ai quali possono accompagnarsi paresi,
spasticità, rigidità, tremori. Talvolta possono manifestarsi anche crisi
epilettiche. Sono comuni disturbi sfinterici, con incontinenza fecale
ed urinaria.
Il quadro finale evolve verso uno stato vegetativo. Il decorso della
malattia può abbracciare un periodo di tempo variabile dai 4 agli
oltre 15 anni e l’exitus sopravviene spesso a causa del marcato
decadimento delle funzioni organiche generali, solitamente per
malattie infettive intercorrenti di tipo broncopolmonare o urinario.
Come detto, diversamente dalla maggioranza delle malattie, non
esiste un test specifico per scoprire la presenza dell’AD. In effetti i
segni distintivi, cioè la deposizione di beta amiloide e la formazione
dei grovigli neurofibrillari, possono essere rilevati soltanto dopo la
morte del paziente, in quanto è necessario procedere all’esame del
tessuto cerebrale. In vita questa pratica tramite una biopsia porta
con sé tali rischi di complicazioni da renderla di fatto non eseguibile.
Le tecniche di diagnostica per immagini come la TAC,
orientarsi e non sentirsi isolato.
Il “girovagare” può diventare un problema, più per eccesso di questa
attività che per difetto.
Spesso per mesi o per anni, il malato presenta un incremento patologico
della deambulazione: può camminare per ore e ore, ininterrottamente, in
modo compulsivo, quasi fosse alla ricerca di qualcosa che non trova mai.
Solo nelle ultime fasi della malattia può avere difficoltà nel muoversi.
Se si cerca di fermarlo o di arginare la sua iperattività, può reagire in
modo brusco o aggressivo.
E’ opportuno evitare di rimproverarlo o di bloccarlo. Se insiste per uscire,
possiamo accompagnarlo, ma se le uscite diventano troppo frequenti e,
per chi assiste, troppo faticose, è conveniente servirsi della
collaborazione di una persona conosciuta.
Contrariamente a quanto in genere si crede, il vagabondaggio non è
quasi mai senza scopo; facilmente il malato dimentica e non è in grado
di spiegare dove sta andando, o che cosa si proponeva di fare.
Possiamo dunque cercare di creare le condizioni ambientali più sicure
possibili per permettere al malato di girovagare senza correre rischi. Un
giardino recintato o una zona attrezzata della casa potrebbero dar sfogo
al girovagare in sicurezza. Un’alternativa è quella di tentare con attività
per lui usuali che possano intrattenerlo e ridurre il vagabondaggio. Ad
esempio una casalinga può fermarsi per un certo periodo ad un tavolo
ove si trovano stoviglie e oggetti domestici di uso comune.
Se questo non è possibile, bisogna trovare il tempo per accompagnarlo
in brevi ma frequenti passeggiate.
Depressione e apatia
Depressione e apatia possono presentarsi anche nel malato affetto da
demenza e ripercuotersi sui familiari che lo assistono.
Una reazione depressiva, specie nella fase iniziale della malattia, è
prevedibile e, in certa misura normale: è una reazione conseguente alle
molte carenze e al dover dipendere sempre più dagli altri.
Con l’avanzare della malattia, il malato tenderà ad essere sempre meno
partecipe di ciò che lo circonda, delegando progressivamente i compiti
Non sempre si riesce a prevenire l’aggressività, tuttavia bisogna
cercare di ridurre al minimo le conseguenze sia per il malato che può
esporsi a pericoli sia anche per chi lo assiste e per gli altri
eventualmente presenti. E’ importante non perdere il controllo della
situazione, rimanere calmi con un atteggiamento tranquillo ma
deciso, senza mostrare segni di paura, né di offesa.
Nella gran maggioranza dei casi i gesti del malato, pur se
incontrollabili, non sono rivolti verso di noi: semplicemente egli non è
in grado di gestire le proprie emozioni e il proprio comportamento, e
facilmente se ne scorderà in breve tempo.
Insonnia e vagabondaggio
Il vagabondare è un atteggiamento abbastanza comune tra i malati
di demenza. Alcuni girano per la casa, mentre altri cercano di uscire,
altri ancora camminano di notte, quando le altre persone dormono.
Il malato talvolta manifesta un’inversione del ritmo sonno-veglia:
dorme troppo durante il giorno e trascorre sveglio la maggior parte
delle ore notturne. In questi casi richiede attenta sorveglianza.
Il problema dell’insonnia può essere complicato da episodi di
vagabondaggio notturno.
Il malato può cercare di uscire da casa nel pieno della notte,
camminare incessantemente, fare rumore, oppure può richiedere di
far colazione o pranzare mentre tutti gli altri riposano.
In generale, tende a camminare per casa e diventare più agitato
nelle ultime ore del pomeriggio: un fenomeno che gli anglosassoni
definiscono come “sindrome del tramonto”.
A volte i sintomi, che possono comprendere anche confusione, ansia,
disorientamento, persistono per tutta la notte.
Per attenuare queste manifestazioni, è importante che la persona
trascorra delle giornate attive, evitando che faccia lunghi riposi
pomeridiani o lavori faticosi e impegnativi nel tardo pomeriggio.
E’ importante anche controllare la dieta, somministrare un pasto
leggero ma che sazi, evitando cibi e bevande eccitanti.
Il buio rende difficile al malato percepire l’ambiente che lo circonda.
E’ bene lasciare accese delle luci soffuse, che gli permettano di
la Risonanza Magnetica Nucleare, e quelle più sofisticate quali la PET e
la SPECT servono più che altro a escludere che la demenza sia dovuta a
cause differenti dall’AD.
Oggi la diagnosi si basa principalmente sull’esame clinico e su quello
neuropsicologico, che prevede la valutazione delle capacità mentali del
malato attraverso una serie di test.
I farmaci disponibili oggi appartengono a due categorie:
Anticolinesterasici (Donepezil, Rivastigmina e Galantamina):
questi farmaci riducono l’azione della colinesterasi, un enzima
che provvede normalmente a distruggere nel cervello
l’acetilcolina (neurotrasmettitore coinvolto nei processi cognitivi e
carente nel cervello dei malati con AD). Da questa azione si ha
come effetto l’aumento dell’acetilcolina disponibile.
Memantina: agisce in maniera differente rispetto ai farmaci sopra
indicati.
L’effetto di queste terapie, utilizzabili anche in associazione, si traduce in
un rallentamento della evoluzione dell’AD. Il quadro clinico
invariabilmente peggiora ma più lentamente fino a raggiungere
comunque le fasi finali della malattia. Il trattamento precoce dell’AD
sembra essere vantaggioso sia per la salute del paziente che per i costi
della malattia.
I malati non sono gli unici coinvolti dal problema: sui familiari, infatti,
grava la maggior parte del carico della gestione e dell'assistenza dei
pazienti dementi e spesso pesa la sensazione di non aver fatto
abbastanza: “C’è voluto tempo, in famiglia, perché capissimo. Si diceva
che ti lasciavi andare alla depressione. Questa ipotesi dava alla cosa un
aspetto passeggero e quasi rassicurante. Facevi tutto ciò che era in tuo
potere per nasconderci il buio nel quale ti dibattevi. Eri un ottimo
mistificatore e noi degli egoisti impenitenti. I sintomi, i presagi non li
abbiamo analizzati. Non subito, visti nel loro insieme, dopo ci hanno
fatto riflettere. Uscivi sempre meno. Non sapevamo che, da solo, per la
strada, cominciavi a perdere l’orientamento. Hai forse lanciato appelli
che noi, distratti dal corso delle nostre vite, non abbiamo raccolto?”
(Nadine Trintignant, Mi manchi, AIMA, 1997).
Lo stress cui è sottoposto il caregiver (chi si prende cura del
malato) è di entità tale che numerosi studi riportano come queste
persone presentino oltre a frequenti disturbi di tipo depressivio ed
ansia anche un maggior rischio di sviluppare malattie organiche quali
ictus cerebri ed infarto cardiaco.
Nell’individuazione dei bisogni dei malati non si può non tener conto
dell’aiuto e del supporto psicologico di cui hanno bisogno anche i
caregiver, figure indispensabili nella gestione domiciliare di questi
pazienti.
Da qualche anno il Ministero della Salute ha provveduto ad attivare
degli ambulatori specificamente dedicati a questi malati, indicati con
il termine di Unità Valutativa Alzheimer, UVA in sigla, cui si può
accedere facilmente tramite richiesta del proprio medico curante.
Sicuramente questa opportunità ha contribuito ad accendere i
riflettori su questa malattia ma, proprio per la sua peculiarità, ciò non
è sufficiente ed anche la società civile deve essere presente, farsi
carico di quelle responsabilità non dichiarate ma appunto per questo
ancor più dovute nei confronti di una malattia che “ruba l’anima al
malato”.
2. ASSISTENZA AL MALATO AFFETTO DA MALATTIA DI
ALZHEIMER
Come accennato prima, la diagnosi della malattia di Alzheimer crea
scompiglio, non solo nella vita della persona che ne è colpita, ma
anche in quella dei familiari che la circondano.
E’ quindi di primaria importanza l’informazione su ciò che è
realmente la malattia e la sua evoluzione, per potersi meglio
preparare, fisicamente e psicologicamente, ad affrontare questo
lungo percorso, per rendere più accettabili la vita al malato e i disagi
della vita di chi l’assiste.
Come passeranno questi anni dipenderà dalle strategie e dalle
tecniche con le quali si affronteranno i problemi quotidiani.
Si è già detto dell’inizio della malattia subdolo e lento: il sintomo più
evidente è la riduzione progressiva della memoria, alla quale, man
mano che la persona si aggrava, si aggiungono un graduale
il suo comportamento adeguato, è invece inutile o addirittura
controproducente rimproverarlo per quello sbagliato, potrebbe non
capirne il motivo o umiliarsi.
Una volta calmata l’agitazione è bene cercare di capire qual è stata la
causa scatenante, in modo da evitare il più possibile che si ripeta:
talvolta il malato diventa ansioso o aggressivo per un motivo specifico ed
immediato che noi spesso non riusciamo a riconoscere.
In presenza di episodi ripetuti, è importante rivolgersi al medico, per
verificare se l’ansia e l’agitazione dipendono, per esempio, da una
terapia farmacologica non tollerata o insufficiente.
Aggressivita’
Diverse sono le cause che possono scatenare l’aggressività, sia verbale
sia fisica, quale la frustrazione, l’ansia e la sensazione di pericolo.
In genere l’aggressività del malato di A. è scatenata da un’errata
percezione della realtà, da disorientamento, amnesia, ecc., e può essere
peggiorata da un approccio sbagliato della persona che lo assiste.
In altre parole, i problemi cognitivi possono suscitare questa reazione
perché il malato non riesce ad avere la sensazione corretta di quello che
sta accadendo (non ricorda dove ha messo gli oggetti, non riesce a
seguire una conversazione, si sente minacciato). Si tratta spesso di una
naturale reazione difensiva contro la percezione di un pericolo. A volte
gli scatti d’ira sono sproporzionati e rivolti contro la persona che gli è più
vicina. Per questi malati la collera può essere l’unico modo per esprimere
un disagio.
Se l’aggressività si manifesta con urla o minacce verbali è bene evitare
tentativi di costrizione sia fisica sia psicologica; nel caso di minacce
fisiche è meglio tenersi ad una distanza di sicurezza ed eventualmente
uscire dalla stanza lasciando al malato il tempo di calmarsi.
La conoscenza e l’attenzione quotidiana dovrebbero aiutarci a
riconoscere alcuni sintomi che preludono la crisi di aggressività: il
nervosismo e l’inquietudine sono segnali che dovremmo cogliere per
poter mettere in atto tecniche di distrazione e rassicurazione allo scopo
di prevenire la crisi.
Si può incoraggiare il malato ad eseguire qualche lavoretto in casa o
in giardino tenendo in considerazione le sue abitudini e i suoi hobbies
prima dell’insorgere della malattia (ad esempio pulire il tavolo, lavare
la macchina, rastrellare le foglie, mondare le verdure, apparecchiare
la tavola, piegare e riporre la biancheria).
Il lavoro, anche se non è strettamente necessario o andrà poi rifatto,
ha comunque il senso di fare sentire il soggetto utile e partecipe.
Per evitare che il malato sia vittima dello sconforto, è bene limitare la
durata dell’attività e assicurarsi che sia in grado di eseguire il
compito assegnatogli, incoraggiandolo ad interrompersi al primo
segno di stanchezza o frustrazione.
Col progredire della malattia può darsi che il malato diventi meno
attivo, ma certi lavori ripetitivi e per lui usuali probabilmente gli
saranno ancora possibili.
2.4 DISTURBI COMPORTAMENTALI
Ansia e paura
Nei malati di demenza l’ansia e la paura possono derivare dalla
confusione tra il passato e il presente, ma anche da allucinazioni o
deliri, da disorientamento spazio-temporale o dal clima più o meno
sereno che si respira in casa.
La perdita della memoria provoca dei cambiamenti tanto profondi da
impedire di riconoscere cose note o addirittura i familiari. Tutto
questo genera una situazione di allarme che influisce sullo stato
emotivo.
Insieme ai sintomi che coinvolgono le funzioni intellettuali,
compaiono anomalie del comportamento di varia gravità, che in molti
casi costituiscono la principale causa di stress per chi assiste.
La demenza rende il malato più sensibile ad ogni variazione del
mondo circostante.
E’ essenziale rassicurarlo rimanendo calmi, parlando a bassa voce e
cercando di distrarlo con gentilezza, spiegandogli sempre che cosa si
sta facendo e chi sono le persone presenti. Forse non capirà
esattamente ciò che gli diciamo, ma potrà essere rassicurato dal
nostro atteggiamento accogliente e pacato. E’ utile elogiarlo per
disorientamento nel tempo e nello spazio, perdita di capacità di calcolo,
di riconoscimento di oggetti, di risoluzione di problemi comuni nella vita
quotidiana. L’evoluzione porta inesorabilmente verso la perdita totale
dell’autosufficienza.
Nei malati ben assistiti, il declino avviene con maggior lentezza.
La malattia di A. progredisce nel tempo e i problemi che di volta in volta
si presentano riflettono l’evolversi della malattia stessa: quelli che si
incontrano all’inizio non sono gli stessi che si dovranno affrontare ad uno
stadio più avanzato.
Chi assiste il malato dovrà essere disponibile ad adattarsi ai cambiamenti
di vita che la malattia impone. Quello che ci si propone di realizzare oggi
può essere impossibile domani: è necessario adeguare alla malattia il
proprio atteggiamento e il tipo di assistenza. Nessuna soluzione può
essere considerata definitiva.
Non possiamo modificare il fatto che la memoria sia gravemente
compromessa, ma possiamo intervenire sulle ripercussioni, adottando
tutti gli accorgimenti necessari per mantenere il più a lungo possibile le
abilità residue del malato.
Concentrarci su quello che possiamo cambiare ci permette di
ridimensionare il senso d’impotenza e ci permette di continuare ad
essere propositivi, adattando gli interventi alle mutate necessità.
E’ fondamentale tener presente che ogni malato e ciascuna persona
sono diverse.
La capacità di adattamento di chi sta accanto al malato è il mezzo per
mantenere il più possibile un’atmosfera priva di tensioni.
Se una cosa non va in un modo, bisogna provare in un altro. Ci si deve
chiedere soprattutto se una cosa da noi proposta deve essere fatta a
tutti i costi o proprio in quel momento.
Bisogna predisporre un ambiente che dia la possibilità al malato di
ancorarsi alle sue abitudini, che sono un importantissimo punto di
riferimento. Per contrastare la sua confusione sono necessari punti
stabili, costanti, prevedibili e il più possibile familiari.
Si può raggiungere un equilibrio tra la nostra tendenza a sostituirci al
malato e il rispetto a riconoscere i tempi e le modalità del suo agire in
autonomia. La persona perde dignità nel momento in cui le si chiede di
fare più di quanto sia capace o, viceversa, troppo poco.
E’ essenziale creare un’atmosfera serena e libera da pressioni per
dare al malato il tempo di eseguire le cose da solo assumendo un
atteggiamento del tipo “ti aiuto a farlo”, piuttosto che “faccio io per
te”. Questo gli permetterà di conservare un po’ di dignità e di
autostima.
2.1 MEMORIA E COMUNICAZIONE
Uno dei primi segni evidenti nella malattia di A. è, come si è detto, la
perdita della memoria, la cui compromissione crea difficoltà a
mantenere relazioni sociali adeguate.
Con il procedere della malattia, il malato di A. gradatamente avrà
difficoltà ad esprimersi e a capire gli altri; faticherà a trovare le
parole appropriate, non riuscirà ad organizzarle in senso logico e,
diventando confuso, ridurrà progressivamente la sua capacità di
comunicare soprattutto verbalmente. Ciononostante, è necessario
continuare a parlare al malato, perché questo è l’unico modo per
farlo sentire parte di un ambiente familiare.
Se prestiamo attenzione, il malato di Alzheimer riesce a comprendere
più di quanto si può pensare. Per questo dobbiamo evitare
atteggiamenti scorretti, quali ignorarlo durante una conversazione o,
peggio ancora, parlare della sua condizione in sua presenza, come se
non fosse più in grado di capire nulla.
Un atteggiamento cordiale e accogliente facilita un livello di
comunicazione accettabile, evitando imbarazzo e vergogna.
Nello stadio iniziale della malattia il malato rimane in grado di
compensare il deficit comunicativo con giri di parole che rendono
ancora comprensibile ciò che dice; successivamente, di fronte alle
difficoltà di comunicazione, il rischio è che si arrenda e smetta di
parlare alimentando ansia, insicurezza e rabbia.
E’ fondamentale che chi lo assiste si rivolga direttamente a lui,
cercando il contatto visivo, chiamandolo per nome, assicurandosi
d’essere compreso, usando frasi brevi e semplici, lasciandogli il
tempo di comprendere e farsi capire.
Formuliamo domande come: “Hai sete, hai fame?” che prevedano
una risposta si/no.
Sicurezza
Con la perdita progressiva della memoria e della capacità di
ragionamento, per il malato, si moltiplicheranno le situazioni quotidiane
implicitamente pericolose. Bisognerà quindi cercare di rimuovere gli
eventuali fattori di rischio.
L'organizzazione della casa dovrà tener conto della diminuita autonomia
globale della persona; occorre eliminare i pericoli, non modificando
sostanzialmente le abitudini e operando meno cambiamenti possibili.
Si consiglia di:
-togliere dalla portata del malato: accendini, fiammiferi, coltelli, rasoi,
forbici, solventi, insetticidi, veleni ;
-mettere sotto chiave medicine, detersivi, alcolici e quant’altro di
pericoloso potrebbe essere ingerito;
-togliere le chiavi dalle porte delle stanze, anche quella del bagno, per
evitare che il malato possa rimanere bloccato all’interno;
-adottare nelle varie stanze opportuni accorgimenti: mobili e arredi
stabili e senza spigoli; pavimenti non incerati; rimozione di tappeti,
scendiletto e di stuoie in cucina;
-proteggere l’accesso alle scale.
Per aumentare la sicurezza in casa si possono installare comuni sistemi
di sorveglianza che si usano anche con i bambini. Esistono dei sistemi di
controllo da applicare alle cucine a gas, sulle finestre e sulle porte. Un
suggerimento può essere di mettere dei piccoli sonagli alle porte, perché
il malato tende a sfuggire silenziosamente.
Attività di intrattenimento
L’inattività può portare alla noia oltre che ad un generale deterioramento
delle condizioni fisiche.
Il movimento reca beneficio al malato in diversi modi: lo aiuta a
rimanere indipendente più a lungo, stimola le capacità mentali e fisiche,
contribuisce a fargli consumare le energie in eccesso e a facilitare il
sonno notturno.
dopo aver mangiato da poco o addirittura in piena notte. In questi
casi si metteranno in atto strategie adeguate alla nuova situazione,
evitando il più possibile le contrapposizioni.
Se nelle prime fasi della malattia è sufficiente stimolare il malato ad
alimentarsi in modo corretto, successivamente può essere
indispensabile imboccarlo o avvalersi del biberon per la
somministrazione di alimenti, liquidi privilegiando bevande nutritive
o alimenti morbidi come i budini.
La prevenzione dei deficit nutrizionali riveste un grande significato
per ridurre il rischio di complicanze che spesso insorgono nella fase
terminale della demenza (infezioni broncopolmonari ed urinarie,
piaghe da decubito, ecc.), favorite ed aggravate da uno stato di
malnutrizione.
Ogni cambiamento dell’alimentazione va segnalato al medico, poiché
può dipendere da patologie organiche che vanno specificamente
trattate.
I malati affetti da demenza di Alzheimer presentano spesso riduzioni
del peso corporeo associabile, secondo alcuni studi, ad alterazioni
cerebrali, ma anche spesso all’incapacità di provvedere in maniera
adeguata all’acquisto e alla preparazione del cibo.
Il dimagrimento può essere causato anche da:
- riduzione di apporto alimentare riferibile a disturbi
comportamentali (rifiuto del cibo, affaccendamento,
irritabilità e aggressività), a riduzione della concentrazione
e della memoria o alla difficoltà della masticazione;
- aumento del consumo energetico causato da iperattività
fisica, in particolare il vagabondaggio.
Può essere utile compilare per qualche giorno un diario alimentare
indicando in ogni pasto, e per ogni portata, la quantità di cibo
assunto dal malato secondo le variabili: tutto – più della metà –
meno della metà – niente.
In questo modo si può avere un’idea indicativa della quantità di cibo
assunto dal malato. Altro parametro di sicuro rilievo è il peso
corporeo: in presenza di disturbi alimentari è necessario controllare
periodicamente il peso.
Predisponiamoci a ripetere più volte i concetti se ci accorgiamo di non
essere stati capiti, usando sempre un tono di voce normale
accompagnato da gesti ed espressioni che evocano il senso di ciò che
stiamo dicendo (ad esempio, parlando del tempo, guardiamo con lui
fuori dalla finestra).
Può essere utile ricordare al malato chi sono determinate persone, che
cosa sta succedendo, che cosa deve fare, accompagnandolo con garbo e
naturalezza nelle azioni che sta compiendo.
Nella fase in cui il linguaggio s'impoverisce, è utile stimolare la
conversazione, per evitare che il graduale rinchiudersi in se stesso lo
porti all’isolamento.
Sono utili semplici suggerimenti volti a mantenere la comunicazione il
più a lungo possibile.
E’ essenziale, per meglio catturare la sua attenzione e favorire la
concentrazione, eliminare i rumori di sottofondo (radio, televisione ecc.)
e accompagnarlo in una sola azione per volta.
E’ importante non evidenziare gli errori che la persona commette sia
quando usa un termine sbagliato sia quando fa uso improprio di oggetti
quotidiani.
Se si riesce a capire ciò che il malato intendeva dire o fare, la correzione
rischia di farlo sentire imbarazzato e di irritarlo.
L’inflessione e il tono della voce hanno un’importanza rilevante.
Per capire ciò che stiamo dicendo, il malato si concentra su questi
elementi, come pure sull’espressione del nostro viso e la postura del
corpo. Prestiamo attenzione a non dare messaggi contrastanti.
Come la gestualità del malato può aiutarci a capire ciò che vuole
esprimere quando gli mancano le parole, così il nostro linguaggio non
verbale può aiutarci a creare la relazione: possiamo comunicare
attraverso gesti, con uno sguardo, un sorriso.
Parole e gesti gentili in grado di creare un clima sereno e rassicurante,
sono indispensabili per contenere le fragilità del malato.
Per continuare a comunicare con il malato di A. fino alla fine, bisogna
imparare a dare più valore e attenzione alla comunicazione non verbale.
Diventa fondamentale mantenere il contatto visivo e fisico, parlare con il
corpo più che con le parole. Una carezza delicata, il tono pacato della
voce, sono in grado di suscitare emozioni e contenere insicurezze e
paure.
2.2 DISORIENTAMENTO
Può sembrare incredibile che una persona si perda nella propria
casa.
Per il malato, il problema più grave è l’ansia che deriva dal non
sapere riconoscere un luogo o dal non sapere ritrovare le diverse
stanze nella sua stessa casa.
Il malato si sente più sicuro se lo tranquillizziamo non limitandoci a
comunicare l’ora o dove si trova, ma aiutandolo a calmare l’ansia,
spiegando che è tra amici e familiari e attirando la sua attenzione su
qualcosa a lui noto.
Per ovviare alla perdita del concetto del tempo, possiamo ricorrere
ad esempi diversi basati sulla vita quotidiana, ad esempio dire:
“Adesso pranziamo, poi usciamo”.
Per lo stesso motivo, è utile attenersi ad una routine, fissando la
stessa sequenza nelle attività quotidiane (es. igiene personale,
colazione, passeggiata, pranzo, pisolino, passeggiata, cena).
Per quanto possibile, occorre evitare viaggi o trasferimenti in luoghi
inusuali, soprattutto se non sono strettamente necessari.
Per limitare la confusione e ridurre la difficoltà a riconoscere gli
oggetti, bisogna eliminare dall’ambiente tutto ciò che è superfluo e
rendere visibili e accessibili solo gli oggetti necessari per le attività
che il malato riesce ancora a compiere, secondo le sue capacità.
Cosi come è essenziale mantenere stabile l’ambiente circostante,
disponendo gli oggetti sempre allo stesso posto, mettendo immagini
(fotografie o disegni semplici e comprensibili) sulle dispense, sui
cassetti e sulle porte delle varie stanze, per facilitarne il
riconoscimento. Tutto questo contribuirà a ridurre l’ansia di non
sapere cosa fare.
L’uso di promemoria o di etichette non è sempre efficace, perché,
pur avendo la capacità di leggere, spesso il malato non associa la
parola scritta al significato reale.
Il malato di demenza vive in un mondo dove le cose e gli
avvenimenti, un tempo conosciuti, hanno perso senso e dove
qualunque cosa può accadere.
È opportuno verificare in ogni caso che i fuochi della cucina siano dotati
dei sistemi di sicurezza per evitare fughe di gas.
E’ opportuno coinvolgerlo nel preparare il cibo e apparecchiare la tavola,
accompagnandolo discretamente nelle singole azioni. Quando non è più
in grado, è consigliabile suggerire verbalmente le varie operazioni
(mettiamo la tovaglia, prendiamo i piatti, i bicchieri ecc..), facendo
attenzione, come già detto, a non sovraccaricare la tavola di troppi
oggetti, non strettamente indispensabili.
E' meglio preparare il cibo nel piatto e l’acqua nel bicchiere, senza
riempirlo troppo per evitarne il rovesciamento. E’ bene offrire un piatto
alla volta in successione, evitando attese tra una portata e l’altra, per
non innervosire l’assistito e scoraggiarlo a mangiare, oppure si possono
trovare soluzioni quali la dotazione di un piatto a più scomparti con
primo, secondo e contorno nel caso in cui il malato esprima impazienza
tra una portata e l’altra.
Per mantenere il più a lungo possibile l’autonomia è bene evitare di
imboccare precocemente il malato e sfruttare l’automatismo del nutrirsi
che può essere mantenuto a lungo. Accompagniamolo con calma nelle
azioni da compiere, una alla volta (metti in bocca, mastica, continua a
masticare, deglutisci, e così via), alternando sorsi d’acqua tra un
boccone e l’altro. Incoraggiamolo a fare da solo ciò di cui è ancora
capace, guidandolo nell’uso corretto delle posate, preparando cibi tagliati
se non sa più usare il coltello..
Non preoccupiamoci troppo se si sporca o se rovescia cibi o bevande
sulla tovaglia, se utilizza le mani invece delle posate. Per alleggerire la
fatica di chi assiste l’ammalato, possiamo fargli indossare un grembiule
(specialmente se si tratta di una donna) da preferire al bavaglino, poco
dignitoso per una persona adulta e utilizzare tovaglie di plastica. Per
assicurare l’igiene della bocca, dopo ogni pasto si avrà cura di far lavare
i denti o la protesi, controllandone la giusta posizione e la stabilità.
Col progredire della malattia possono sopraggiungere nuovi
comportamenti rispetto al cibo causati da deficit cognitivi: mancato
riconoscimento dello stimolo della fame o della sete, incapacità a
ripetere in sequenza i gesti abituali del prendere il boccone e portarlo
alla bocca e non riconoscimento del cibo e del suo odore.
Il malato può perdere interesse ad alimentarsi, dimenticando i pasti,
oppure richiedendo ostinatamente di pranzare in orari impensati, anche
Per i malati che si trovano in struttura si può considerare
l’opportunità di formare un’équipe per il bagno: alcune persone
possono risultare più adatte di altre nell’assolvere questo compito.
Alimentazione e nutrizione
A parte le sensazioni trasmesse dai sensi, il mangiare, almeno in
parte, è un atto “automatico” per soddisfare un bisogno vitale:
mangiamo quando abbiamo fame.
Ma il mangiare è anche legato a consuetudini di orario e circostanze.
Il mangiare da un lato ha una valenza legata al nutrimento dall’altro
desta sensazioni piacevoli stimolate dai sensi e dalle circostanze (si
mangia più volentieri se il cibo è gustoso e se si è in compagnia).
I pasti dovranno avere orari regolari, evitando un’eccessiva offerta e
varietà di cibo, perché il troppo disorienta sempre e crea confusione.
E’ importante controllare che l’apporto di liquidi sia sufficiente,
incoraggiando il malato a bere anche durante la giornata.
Occorre organizzare l’assunzione del cibo tenendo conto di alcune
indicazioni:
- somministrare colazione, pranzo e cena ad orari regolari;
- offrire piccoli spuntini durante il giorno se il malato dimentica di
aver mangiato;
- preparare cibi “facili” da portare alla bocca (ad esempio meglio la
pasta corta che gli spaghetti);
- prestare attenzione alle preferenze, ma anche alle necessità
dietetiche determinate da eventuali
patologie (diabete, ipertensione, o altro).
Finché è possibile, è bene chiedere al malato cosa preferisce,
rispettando i suoi gusti e le sue abitudini.
Nella fase iniziale della malattia si può permettere alla persona di
preparare da sé i propri pasti, lasciando scegliere ciò che più le piace
ed esercitando solo una discreta sorveglianza, per prevenire
eventuali comportamenti rischiosi (per es. l’uso maldestro di coltelli o
di oggetti acuminati).
Non c’è da meravigliarsi se non vuole mai perderci di vista;
probabilmente per lui siamo diventati l’unica costante in un mondo che
cambia continuamente.
Il malato deve quindi essere rassicurato sul fatto che torneremo e su
quando torneremo, in termini che lui possa intendere. Per facilitare il
distacco, è bene fare riferimento ad abitudini del passato e a frasi che
egli riconosce come rassicuranti: “Ti telefono, quando arrivo in ufficio”.
Per il malato probabilmente sarà più facile lasciarci allontanare se
troveremo qualcuno che gode della sua fiducia, disponibile a tenergli
compagnia.
2.3 VITA QUOTIDIANA
Abbigliamento
L’abbigliamento è un’attività che può presentare per il malato una serie
di difficoltà relative al ricordo della giusta sequenza con cui si indossano
gli abiti, alla scelta dei colori, all’avere idea dell’immagine del proprio
corpo, al formulare un giudizio sul clima (caldo? freddo?) e agire di
conseguenza.
Questo spiega perché nelle prime fasi della malattia la persona può
iniziare ad avere difficoltà nel vestirsi, nella scelta o nella sequenza degli
abiti da indossare; può scegliere indumenti troppo pesanti o troppo
leggeri rispetto alla stagione o al clima (riconosce un abito e lo indossa
per appartenenza e non per funzionalità), può avere difficoltà ad
allacciare cinture, bottoni, cerniere (in seguito sarà utile proporre scarpe
senza lacci e adottare semplici accorgimenti come la sostituzione delle
chiusure che creano difficoltà, con velcro ed elastici in vita, per
agevolare le funzioni di vestirsi o spogliarsi).
In queste fasi è meglio limitarsi ad una semplice supervisione.
Importante è rimanere sempre presenti, aiutando il malato nelle azioni
da compiere, ma evitando di imporre il nostro aiuto. Può risultare utile
etichettare i cassetti descrivendone il contenuto con un disegno
facilmente comprensibile.
Mentre la persona si veste, è opportuno restarle vicini, rammentare
la sequenza degli abiti solo se necessario e senza sollecitarla.
Bisogna inoltre semplificare le scelte disponibili, selezionando un
ridotto numero di indumenti e venire in aiuto porgendole con ordine
gli abiti da indossare nel momento in cui non è più in grado di
svolgere queste funzioni da solo.
Nelle fasi successive della malattia, conviene modulare il nostro aiuto
secondo i nuovi bisogni.
Il nostro intervento sarà gradualmente più attivo nel prestare aiuto
alla persona, adattando il nostro comportamento alle nuove
esigenze, pur cercando sempre di rispettare i tempi, le preferenze, e,
soprattutto, stimolando le sue residue capacità. Talvolta il malato
vuole continuare ad indossare gli stessi abiti anche se sporchi: in
questo caso si possono acquistare più abiti uguali.
Occorre accertarsi che il malato mantenga un aspetto dignitoso, ma
se il malato non è molto ordinato né elegante e si trova a suo agio,
si può lasciare vestito com'è.
Igiene
Così come l’abbigliamento, anche il momento dell’igiene può
presentare per il malato delle difficoltà. Il problema si affronta in
modo analogo a quanto detto sopra: se l’assistito è ancora in grado
di lavarsi, lo si lasci fare da solo; se è capace di lavare anche solo
alcune parti del corpo, si intervenga quando necessario sorvegliando,
sempre con discrezione, la sua igiene personale.
Quando non sarà più in grado di lavarsi da solo, lo si accompagnerà
passo a passo, dandogli suggerimenti ad es. “apri l’acqua”, “prendi il
sapone”, “insapona il viso”, “sciacqualo”, “lava le orecchie”,
“asciugati” o spiegando cosa si sta per fare. La stessa cosa si farà
per la pulizia dei denti o della protesi. Il malato può non essere in
grado di comprendere le indicazioni verbali ma conservare ancora la
capacità di eseguire alcune attività usuali se posto nel giusto
contesto, ad es.: se lo si pone di fronte al lavandino, si apre il
rubinetto dell’acqua e gli si dà il sapone, magari a quel punto potrà
essere in grado di lavarsi da solo le mani.
Il bagno o la doccia possono scatenare rifiuto o irritazione, perciò
occorre usare un approccio tranquillo e calmo, evitando sempre di dare
ordini. Si tratta di un momento delicato e non sempre accettato anche
perché l’eventuale aiuto implica una perdita della propria riservatezza:
se il malato rifiuta occasionalmente di lavarsi, è meglio non insistere, ma
riproporre bagno o doccia più tardi o in un altro giorno.
Talvolta può essere utile motivare il malato, spiegando ad esempio che il
bagno va fatto perché si dovrà andare dal medico o perché c’è una
ricorrenza o si aspettano visite.
Soprattutto nel momento del bagno è opportuno rendere la situazione
più serena possibile preparando il locale ben caldo e accogliente e
ricordando di avere tutti gli oggetti necessari a portata di mano: disporre
il sapone, la spugna, l'asciugamano e i vestiti in ordine, così sarà più
facile per il malato ricordare che cosa deve fare.
La stanza da bagno può essere resa più sicura con piccoli ma significativi
accorgimenti quali l’applicazione di un tappetino sul fondo della vasca o
della doccia, l’utilizzo di un seggiolino, il posizionamento di un
corrimano, avendo rimosso preventivamente ogni barriera architettonica.
È importante togliere gli oggetti non strettamente necessari o pericolosi
quali phon, rasoi, stufette elettriche per il pericolo di un uso improprio
da parte del malato.
Può essere utile associare uno stimolo gradito al malato poco prima o
durante il bagno: bere una bevanda, mangiare un dolce ecc..
E’ utile stabilire quale momento della giornata sia il più adatto e quale
figura sia più gradita ad assolvere questo compito, se un familiare o una
persona esterna.
E’ opportuno rispettare il suo senso del pudore consentendo
eventualmente di coprire alcune parti del corpo. Si può cominciare a
massaggiargli la schiena perché si rilassi prima di arrivare alle parti
intime. Nel caso il bagno o la doccia si rivelassero traumatici, si possono
fare delle semplici spugnature.
Assumere un certo grado di flessibilità è spesso vantaggioso sia per
l’assistito sia per l’assistente. Una pratica regolare e costante dell’igiene
quotidiana e periodica aiuterà il malato a mantenere un ritmo di vita
rispettoso delle sue consuetudini.
Mentre la persona si veste, è opportuno restarle vicini, rammentare
la sequenza degli abiti solo se necessario e senza sollecitarla.
Bisogna inoltre semplificare le scelte disponibili, selezionando un
ridotto numero di indumenti e venire in aiuto porgendole con ordine
gli abiti da indossare nel momento in cui non è più in grado di
svolgere queste funzioni da solo.
Nelle fasi successive della malattia, conviene modulare il nostro aiuto
secondo i nuovi bisogni.
Il nostro intervento sarà gradualmente più attivo nel prestare aiuto
alla persona, adattando il nostro comportamento alle nuove
esigenze, pur cercando sempre di rispettare i tempi, le preferenze, e,
soprattutto, stimolando le sue residue capacità. Talvolta il malato
vuole continuare ad indossare gli stessi abiti anche se sporchi: in
questo caso si possono acquistare più abiti uguali.
Occorre accertarsi che il malato mantenga un aspetto dignitoso, ma
se il malato non è molto ordinato né elegante e si trova a suo agio,
si può lasciare vestito com'è.
Igiene
Così come l’abbigliamento, anche il momento dell’igiene può
presentare per il malato delle difficoltà. Il problema si affronta in
modo analogo a quanto detto sopra: se l’assistito è ancora in grado
di lavarsi, lo si lasci fare da solo; se è capace di lavare anche solo
alcune parti del corpo, si intervenga quando necessario sorvegliando,
sempre con discrezione, la sua igiene personale.
Quando non sarà più in grado di lavarsi da solo, lo si accompagnerà
passo a passo, dandogli suggerimenti ad es. “apri l’acqua”, “prendi il
sapone”, “insapona il viso”, “sciacqualo”, “lava le orecchie”,
“asciugati” o spiegando cosa si sta per fare. La stessa cosa si farà
per la pulizia dei denti o della protesi. Il malato può non essere in
grado di comprendere le indicazioni verbali ma conservare ancora la
capacità di eseguire alcune attività usuali se posto nel giusto
contesto, ad es.: se lo si pone di fronte al lavandino, si apre il
rubinetto dell’acqua e gli si dà il sapone, magari a quel punto potrà
essere in grado di lavarsi da solo le mani.
Il bagno o la doccia possono scatenare rifiuto o irritazione, perciò
occorre usare un approccio tranquillo e calmo, evitando sempre di dare
ordini. Si tratta di un momento delicato e non sempre accettato anche
perché l’eventuale aiuto implica una perdita della propria riservatezza:
se il malato rifiuta occasionalmente di lavarsi, è meglio non insistere, ma
riproporre bagno o doccia più tardi o in un altro giorno.
Talvolta può essere utile motivare il malato, spiegando ad esempio che il
bagno va fatto perché si dovrà andare dal medico o perché c’è una
ricorrenza o si aspettano visite.
Soprattutto nel momento del bagno è opportuno rendere la situazione
più serena possibile preparando il locale ben caldo e accogliente e
ricordando di avere tutti gli oggetti necessari a portata di mano: disporre
il sapone, la spugna, l'asciugamano e i vestiti in ordine, così sarà più
facile per il malato ricordare che cosa deve fare.
La stanza da bagno può essere resa più sicura con piccoli ma significativi
accorgimenti quali l’applicazione di un tappetino sul fondo della vasca o
della doccia, l’utilizzo di un seggiolino, il posizionamento di un
corrimano, avendo rimosso preventivamente ogni barriera architettonica.
È importante togliere gli oggetti non strettamente necessari o pericolosi
quali phon, rasoi, stufette elettriche per il pericolo di un uso improprio
da parte del malato.
Può essere utile associare uno stimolo gradito al malato poco prima o
durante il bagno: bere una bevanda, mangiare un dolce ecc..
E’ utile stabilire quale momento della giornata sia il più adatto e quale
figura sia più gradita ad assolvere questo compito, se un familiare o una
persona esterna.
E’ opportuno rispettare il suo senso del pudore consentendo
eventualmente di coprire alcune parti del corpo. Si può cominciare a
massaggiargli la schiena perché si rilassi prima di arrivare alle parti
intime. Nel caso il bagno o la doccia si rivelassero traumatici, si possono
fare delle semplici spugnature.
Assumere un certo grado di flessibilità è spesso vantaggioso sia per
l’assistito sia per l’assistente. Una pratica regolare e costante dell’igiene
quotidiana e periodica aiuterà il malato a mantenere un ritmo di vita
rispettoso delle sue consuetudini.
Per i malati che si trovano in struttura si può considerare
l’opportunità di formare un’équipe per il bagno: alcune persone
possono risultare più adatte di altre nell’assolvere questo compito.
Alimentazione e nutrizione
A parte le sensazioni trasmesse dai sensi, il mangiare, almeno in
parte, è un atto “automatico” per soddisfare un bisogno vitale:
mangiamo quando abbiamo fame.
Ma il mangiare è anche legato a consuetudini di orario e circostanze.
Il mangiare da un lato ha una valenza legata al nutrimento dall’altro
desta sensazioni piacevoli stimolate dai sensi e dalle circostanze (si
mangia più volentieri se il cibo è gustoso e se si è in compagnia).
I pasti dovranno avere orari regolari, evitando un’eccessiva offerta e
varietà di cibo, perché il troppo disorienta sempre e crea confusione.
E’ importante controllare che l’apporto di liquidi sia sufficiente,
incoraggiando il malato a bere anche durante la giornata.
Occorre organizzare l’assunzione del cibo tenendo conto di alcune
indicazioni:
- somministrare colazione, pranzo e cena ad orari regolari;
- offrire piccoli spuntini durante il giorno se il malato dimentica di
aver mangiato;
- preparare cibi “facili” da portare alla bocca (ad esempio meglio la
pasta corta che gli spaghetti);
- prestare attenzione alle preferenze, ma anche alle necessità
dietetiche determinate da eventuali
patologie (diabete, ipertensione, o altro).
Finché è possibile, è bene chiedere al malato cosa preferisce,
rispettando i suoi gusti e le sue abitudini.
Nella fase iniziale della malattia si può permettere alla persona di
preparare da sé i propri pasti, lasciando scegliere ciò che più le piace
ed esercitando solo una discreta sorveglianza, per prevenire
eventuali comportamenti rischiosi (per es. l’uso maldestro di coltelli o
di oggetti acuminati).
Non c’è da meravigliarsi se non vuole mai perderci di vista;
probabilmente per lui siamo diventati l’unica costante in un mondo che
cambia continuamente.
Il malato deve quindi essere rassicurato sul fatto che torneremo e su
quando torneremo, in termini che lui possa intendere. Per facilitare il
distacco, è bene fare riferimento ad abitudini del passato e a frasi che
egli riconosce come rassicuranti: “Ti telefono, quando arrivo in ufficio”.
Per il malato probabilmente sarà più facile lasciarci allontanare se
troveremo qualcuno che gode della sua fiducia, disponibile a tenergli
compagnia.
2.3 VITA QUOTIDIANA
Abbigliamento
L’abbigliamento è un’attività che può presentare per il malato una serie
di difficoltà relative al ricordo della giusta sequenza con cui si indossano
gli abiti, alla scelta dei colori, all’avere idea dell’immagine del proprio
corpo, al formulare un giudizio sul clima (caldo? freddo?) e agire di
conseguenza.
Questo spiega perché nelle prime fasi della malattia la persona può
iniziare ad avere difficoltà nel vestirsi, nella scelta o nella sequenza degli
abiti da indossare; può scegliere indumenti troppo pesanti o troppo
leggeri rispetto alla stagione o al clima (riconosce un abito e lo indossa
per appartenenza e non per funzionalità), può avere difficoltà ad
allacciare cinture, bottoni, cerniere (in seguito sarà utile proporre scarpe
senza lacci e adottare semplici accorgimenti come la sostituzione delle
chiusure che creano difficoltà, con velcro ed elastici in vita, per
agevolare le funzioni di vestirsi o spogliarsi).
In queste fasi è meglio limitarsi ad una semplice supervisione.
Importante è rimanere sempre presenti, aiutando il malato nelle azioni
da compiere, ma evitando di imporre il nostro aiuto. Può risultare utile
etichettare i cassetti descrivendone il contenuto con un disegno
facilmente comprensibile.
2.2 DISORIENTAMENTO
Può sembrare incredibile che una persona si perda nella propria
casa.
Per il malato, il problema più grave è l’ansia che deriva dal non
sapere riconoscere un luogo o dal non sapere ritrovare le diverse
stanze nella sua stessa casa.
Il malato si sente più sicuro se lo tranquillizziamo non limitandoci a
comunicare l’ora o dove si trova, ma aiutandolo a calmare l’ansia,
spiegando che è tra amici e familiari e attirando la sua attenzione su
qualcosa a lui noto.
Per ovviare alla perdita del concetto del tempo, possiamo ricorrere
ad esempi diversi basati sulla vita quotidiana, ad esempio dire:
“Adesso pranziamo, poi usciamo”.
Per lo stesso motivo, è utile attenersi ad una routine, fissando la
stessa sequenza nelle attività quotidiane (es. igiene personale,
colazione, passeggiata, pranzo, pisolino, passeggiata, cena).
Per quanto possibile, occorre evitare viaggi o trasferimenti in luoghi
inusuali, soprattutto se non sono strettamente necessari.
Per limitare la confusione e ridurre la difficoltà a riconoscere gli
oggetti, bisogna eliminare dall’ambiente tutto ciò che è superfluo e
rendere visibili e accessibili solo gli oggetti necessari per le attività
che il malato riesce ancora a compiere, secondo le sue capacità.
Cosi come è essenziale mantenere stabile l’ambiente circostante,
disponendo gli oggetti sempre allo stesso posto, mettendo immagini
(fotografie o disegni semplici e comprensibili) sulle dispense, sui
cassetti e sulle porte delle varie stanze, per facilitarne il
riconoscimento. Tutto questo contribuirà a ridurre l’ansia di non
sapere cosa fare.
L’uso di promemoria o di etichette non è sempre efficace, perché,
pur avendo la capacità di leggere, spesso il malato non associa la
parola scritta al significato reale.
Il malato di demenza vive in un mondo dove le cose e gli
avvenimenti, un tempo conosciuti, hanno perso senso e dove
qualunque cosa può accadere.
È opportuno verificare in ogni caso che i fuochi della cucina siano dotati
dei sistemi di sicurezza per evitare fughe di gas.
E’ opportuno coinvolgerlo nel preparare il cibo e apparecchiare la tavola,
accompagnandolo discretamente nelle singole azioni. Quando non è più
in grado, è consigliabile suggerire verbalmente le varie operazioni
(mettiamo la tovaglia, prendiamo i piatti, i bicchieri ecc..), facendo
attenzione, come già detto, a non sovraccaricare la tavola di troppi
oggetti, non strettamente indispensabili.
E' meglio preparare il cibo nel piatto e l’acqua nel bicchiere, senza
riempirlo troppo per evitarne il rovesciamento. E’ bene offrire un piatto
alla volta in successione, evitando attese tra una portata e l’altra, per
non innervosire l’assistito e scoraggiarlo a mangiare, oppure si possono
trovare soluzioni quali la dotazione di un piatto a più scomparti con
primo, secondo e contorno nel caso in cui il malato esprima impazienza
tra una portata e l’altra.
Per mantenere il più a lungo possibile l’autonomia è bene evitare di
imboccare precocemente il malato e sfruttare l’automatismo del nutrirsi
che può essere mantenuto a lungo. Accompagniamolo con calma nelle
azioni da compiere, una alla volta (metti in bocca, mastica, continua a
masticare, deglutisci, e così via), alternando sorsi d’acqua tra un
boccone e l’altro. Incoraggiamolo a fare da solo ciò di cui è ancora
capace, guidandolo nell’uso corretto delle posate, preparando cibi tagliati
se non sa più usare il coltello..
Non preoccupiamoci troppo se si sporca o se rovescia cibi o bevande
sulla tovaglia, se utilizza le mani invece delle posate. Per alleggerire la
fatica di chi assiste l’ammalato, possiamo fargli indossare un grembiule
(specialmente se si tratta di una donna) da preferire al bavaglino, poco
dignitoso per una persona adulta e utilizzare tovaglie di plastica. Per
assicurare l’igiene della bocca, dopo ogni pasto si avrà cura di far lavare
i denti o la protesi, controllandone la giusta posizione e la stabilità.
Col progredire della malattia possono sopraggiungere nuovi
comportamenti rispetto al cibo causati da deficit cognitivi: mancato
riconoscimento dello stimolo della fame o della sete, incapacità a
ripetere in sequenza i gesti abituali del prendere il boccone e portarlo
alla bocca e non riconoscimento del cibo e del suo odore.
Il malato può perdere interesse ad alimentarsi, dimenticando i pasti,
oppure richiedendo ostinatamente di pranzare in orari impensati, anche
dopo aver mangiato da poco o addirittura in piena notte. In questi
casi si metteranno in atto strategie adeguate alla nuova situazione,
evitando il più possibile le contrapposizioni.
Se nelle prime fasi della malattia è sufficiente stimolare il malato ad
alimentarsi in modo corretto, successivamente può essere
indispensabile imboccarlo o avvalersi del biberon per la
somministrazione di alimenti, liquidi privilegiando bevande nutritive
o alimenti morbidi come i budini.
La prevenzione dei deficit nutrizionali riveste un grande significato
per ridurre il rischio di complicanze che spesso insorgono nella fase
terminale della demenza (infezioni broncopolmonari ed urinarie,
piaghe da decubito, ecc.), favorite ed aggravate da uno stato di
malnutrizione.
Ogni cambiamento dell’alimentazione va segnalato al medico, poiché
può dipendere da patologie organiche che vanno specificamente
trattate.
I malati affetti da demenza di Alzheimer presentano spesso riduzioni
del peso corporeo associabile, secondo alcuni studi, ad alterazioni
cerebrali, ma anche spesso all’incapacità di provvedere in maniera
adeguata all’acquisto e alla preparazione del cibo.
Il dimagrimento può essere causato anche da:
- riduzione di apporto alimentare riferibile a disturbi
comportamentali (rifiuto del cibo, affaccendamento,
irritabilità e aggressività), a riduzione della concentrazione
e della memoria o alla difficoltà della masticazione;
- aumento del consumo energetico causato da iperattività
fisica, in particolare il vagabondaggio.
Può essere utile compilare per qualche giorno un diario alimentare
indicando in ogni pasto, e per ogni portata, la quantità di cibo
assunto dal malato secondo le variabili: tutto – più della metà –
meno della metà – niente.
In questo modo si può avere un’idea indicativa della quantità di cibo
assunto dal malato. Altro parametro di sicuro rilievo è il peso
corporeo: in presenza di disturbi alimentari è necessario controllare
periodicamente il peso.
Predisponiamoci a ripetere più volte i concetti se ci accorgiamo di non
essere stati capiti, usando sempre un tono di voce normale
accompagnato da gesti ed espressioni che evocano il senso di ciò che
stiamo dicendo (ad esempio, parlando del tempo, guardiamo con lui
fuori dalla finestra).
Può essere utile ricordare al malato chi sono determinate persone, che
cosa sta succedendo, che cosa deve fare, accompagnandolo con garbo e
naturalezza nelle azioni che sta compiendo.
Nella fase in cui il linguaggio s'impoverisce, è utile stimolare la
conversazione, per evitare che il graduale rinchiudersi in se stesso lo
porti all’isolamento.
Sono utili semplici suggerimenti volti a mantenere la comunicazione il
più a lungo possibile.
E’ essenziale, per meglio catturare la sua attenzione e favorire la
concentrazione, eliminare i rumori di sottofondo (radio, televisione ecc.)
e accompagnarlo in una sola azione per volta.
E’ importante non evidenziare gli errori che la persona commette sia
quando usa un termine sbagliato sia quando fa uso improprio di oggetti
quotidiani.
Se si riesce a capire ciò che il malato intendeva dire o fare, la correzione
rischia di farlo sentire imbarazzato e di irritarlo.
L’inflessione e il tono della voce hanno un’importanza rilevante.
Per capire ciò che stiamo dicendo, il malato si concentra su questi
elementi, come pure sull’espressione del nostro viso e la postura del
corpo. Prestiamo attenzione a non dare messaggi contrastanti.
Come la gestualità del malato può aiutarci a capire ciò che vuole
esprimere quando gli mancano le parole, così il nostro linguaggio non
verbale può aiutarci a creare la relazione: possiamo comunicare
attraverso gesti, con uno sguardo, un sorriso.
Parole e gesti gentili in grado di creare un clima sereno e rassicurante,
sono indispensabili per contenere le fragilità del malato.
Per continuare a comunicare con il malato di A. fino alla fine, bisogna
imparare a dare più valore e attenzione alla comunicazione non verbale.
Diventa fondamentale mantenere il contatto visivo e fisico, parlare con il
corpo più che con le parole. Una carezza delicata, il tono pacato della
voce, sono in grado di suscitare emozioni e contenere insicurezze e
paure.
E’ essenziale creare un’atmosfera serena e libera da pressioni per
dare al malato il tempo di eseguire le cose da solo assumendo un
atteggiamento del tipo “ti aiuto a farlo”, piuttosto che “faccio io per
te”. Questo gli permetterà di conservare un po’ di dignità e di
autostima.
2.1 MEMORIA E COMUNICAZIONE
Uno dei primi segni evidenti nella malattia di A. è, come si è detto, la
perdita della memoria, la cui compromissione crea difficoltà a
mantenere relazioni sociali adeguate.
Con il procedere della malattia, il malato di A. gradatamente avrà
difficoltà ad esprimersi e a capire gli altri; faticherà a trovare le
parole appropriate, non riuscirà ad organizzarle in senso logico e,
diventando confuso, ridurrà progressivamente la sua capacità di
comunicare soprattutto verbalmente. Ciononostante, è necessario
continuare a parlare al malato, perché questo è l’unico modo per
farlo sentire parte di un ambiente familiare.
Se prestiamo attenzione, il malato di Alzheimer riesce a comprendere
più di quanto si può pensare. Per questo dobbiamo evitare
atteggiamenti scorretti, quali ignorarlo durante una conversazione o,
peggio ancora, parlare della sua condizione in sua presenza, come se
non fosse più in grado di capire nulla.
Un atteggiamento cordiale e accogliente facilita un livello di
comunicazione accettabile, evitando imbarazzo e vergogna.
Nello stadio iniziale della malattia il malato rimane in grado di
compensare il deficit comunicativo con giri di parole che rendono
ancora comprensibile ciò che dice; successivamente, di fronte alle
difficoltà di comunicazione, il rischio è che si arrenda e smetta di
parlare alimentando ansia, insicurezza e rabbia.
E’ fondamentale che chi lo assiste si rivolga direttamente a lui,
cercando il contatto visivo, chiamandolo per nome, assicurandosi
d’essere compreso, usando frasi brevi e semplici, lasciandogli il
tempo di comprendere e farsi capire.
Formuliamo domande come: “Hai sete, hai fame?” che prevedano
una risposta si/no.
Sicurezza
Con la perdita progressiva della memoria e della capacità di
ragionamento, per il malato, si moltiplicheranno le situazioni quotidiane
implicitamente pericolose. Bisognerà quindi cercare di rimuovere gli
eventuali fattori di rischio.
L'organizzazione della casa dovrà tener conto della diminuita autonomia
globale della persona; occorre eliminare i pericoli, non modificando
sostanzialmente le abitudini e operando meno cambiamenti possibili.
Si consiglia di:
-togliere dalla portata del malato: accendini, fiammiferi, coltelli, rasoi,
forbici, solventi, insetticidi, veleni ;
-mettere sotto chiave medicine, detersivi, alcolici e quant’altro di
pericoloso potrebbe essere ingerito;
-togliere le chiavi dalle porte delle stanze, anche quella del bagno, per
evitare che il malato possa rimanere bloccato all’interno;
-adottare nelle varie stanze opportuni accorgimenti: mobili e arredi
stabili e senza spigoli; pavimenti non incerati; rimozione di tappeti,
scendiletto e di stuoie in cucina;
-proteggere l’accesso alle scale.
Per aumentare la sicurezza in casa si possono installare comuni sistemi
di sorveglianza che si usano anche con i bambini. Esistono dei sistemi di
controllo da applicare alle cucine a gas, sulle finestre e sulle porte. Un
suggerimento può essere di mettere dei piccoli sonagli alle porte, perché
il malato tende a sfuggire silenziosamente.
Attività di intrattenimento
L’inattività può portare alla noia oltre che ad un generale deterioramento
delle condizioni fisiche.
Il movimento reca beneficio al malato in diversi modi: lo aiuta a
rimanere indipendente più a lungo, stimola le capacità mentali e fisiche,
contribuisce a fargli consumare le energie in eccesso e a facilitare il
sonno notturno.
Si può incoraggiare il malato ad eseguire qualche lavoretto in casa o
in giardino tenendo in considerazione le sue abitudini e i suoi hobbies
prima dell’insorgere della malattia (ad esempio pulire il tavolo, lavare
la macchina, rastrellare le foglie, mondare le verdure, apparecchiare
la tavola, piegare e riporre la biancheria).
Il lavoro, anche se non è strettamente necessario o andrà poi rifatto,
ha comunque il senso di fare sentire il soggetto utile e partecipe.
Per evitare che il malato sia vittima dello sconforto, è bene limitare la
durata dell’attività e assicurarsi che sia in grado di eseguire il
compito assegnatogli, incoraggiandolo ad interrompersi al primo
segno di stanchezza o frustrazione.
Col progredire della malattia può darsi che il malato diventi meno
attivo, ma certi lavori ripetitivi e per lui usuali probabilmente gli
saranno ancora possibili.
2.4 DISTURBI COMPORTAMENTALI
Ansia e paura
Nei malati di demenza l’ansia e la paura possono derivare dalla
confusione tra il passato e il presente, ma anche da allucinazioni o
deliri, da disorientamento spazio-temporale o dal clima più o meno
sereno che si respira in casa.
La perdita della memoria provoca dei cambiamenti tanto profondi da
impedire di riconoscere cose note o addirittura i familiari. Tutto
questo genera una situazione di allarme che influisce sullo stato
emotivo.
Insieme ai sintomi che coinvolgono le funzioni intellettuali,
compaiono anomalie del comportamento di varia gravità, che in molti
casi costituiscono la principale causa di stress per chi assiste.
La demenza rende il malato più sensibile ad ogni variazione del
mondo circostante.
E’ essenziale rassicurarlo rimanendo calmi, parlando a bassa voce e
cercando di distrarlo con gentilezza, spiegandogli sempre che cosa si
sta facendo e chi sono le persone presenti. Forse non capirà
esattamente ciò che gli diciamo, ma potrà essere rassicurato dal
nostro atteggiamento accogliente e pacato. E’ utile elogiarlo per
disorientamento nel tempo e nello spazio, perdita di capacità di calcolo,
di riconoscimento di oggetti, di risoluzione di problemi comuni nella vita
quotidiana. L’evoluzione porta inesorabilmente verso la perdita totale
dell’autosufficienza.
Nei malati ben assistiti, il declino avviene con maggior lentezza.
La malattia di A. progredisce nel tempo e i problemi che di volta in volta
si presentano riflettono l’evolversi della malattia stessa: quelli che si
incontrano all’inizio non sono gli stessi che si dovranno affrontare ad uno
stadio più avanzato.
Chi assiste il malato dovrà essere disponibile ad adattarsi ai cambiamenti
di vita che la malattia impone. Quello che ci si propone di realizzare oggi
può essere impossibile domani: è necessario adeguare alla malattia il
proprio atteggiamento e il tipo di assistenza. Nessuna soluzione può
essere considerata definitiva.
Non possiamo modificare il fatto che la memoria sia gravemente
compromessa, ma possiamo intervenire sulle ripercussioni, adottando
tutti gli accorgimenti necessari per mantenere il più a lungo possibile le
abilità residue del malato.
Concentrarci su quello che possiamo cambiare ci permette di
ridimensionare il senso d’impotenza e ci permette di continuare ad
essere propositivi, adattando gli interventi alle mutate necessità.
E’ fondamentale tener presente che ogni malato e ciascuna persona
sono diverse.
La capacità di adattamento di chi sta accanto al malato è il mezzo per
mantenere il più possibile un’atmosfera priva di tensioni.
Se una cosa non va in un modo, bisogna provare in un altro. Ci si deve
chiedere soprattutto se una cosa da noi proposta deve essere fatta a
tutti i costi o proprio in quel momento.
Bisogna predisporre un ambiente che dia la possibilità al malato di
ancorarsi alle sue abitudini, che sono un importantissimo punto di
riferimento. Per contrastare la sua confusione sono necessari punti
stabili, costanti, prevedibili e il più possibile familiari.
Si può raggiungere un equilibrio tra la nostra tendenza a sostituirci al
malato e il rispetto a riconoscere i tempi e le modalità del suo agire in
autonomia. La persona perde dignità nel momento in cui le si chiede di
fare più di quanto sia capace o, viceversa, troppo poco.
Lo stress cui è sottoposto il caregiver (chi si prende cura del
malato) è di entità tale che numerosi studi riportano come queste
persone presentino oltre a frequenti disturbi di tipo depressivio ed
ansia anche un maggior rischio di sviluppare malattie organiche quali
ictus cerebri ed infarto cardiaco.
Nell’individuazione dei bisogni dei malati non si può non tener conto
dell’aiuto e del supporto psicologico di cui hanno bisogno anche i
caregiver, figure indispensabili nella gestione domiciliare di questi
pazienti.
Da qualche anno il Ministero della Salute ha provveduto ad attivare
degli ambulatori specificamente dedicati a questi malati, indicati con
il termine di Unità Valutativa Alzheimer, UVA in sigla, cui si può
accedere facilmente tramite richiesta del proprio medico curante.
Sicuramente questa opportunità ha contribuito ad accendere i
riflettori su questa malattia ma, proprio per la sua peculiarità, ciò non
è sufficiente ed anche la società civile deve essere presente, farsi
carico di quelle responsabilità non dichiarate ma appunto per questo
ancor più dovute nei confronti di una malattia che “ruba l’anima al
malato”.
2. ASSISTENZA AL MALATO AFFETTO DA MALATTIA DI
ALZHEIMER
Come accennato prima, la diagnosi della malattia di Alzheimer crea
scompiglio, non solo nella vita della persona che ne è colpita, ma
anche in quella dei familiari che la circondano.
E’ quindi di primaria importanza l’informazione su ciò che è
realmente la malattia e la sua evoluzione, per potersi meglio
preparare, fisicamente e psicologicamente, ad affrontare questo
lungo percorso, per rendere più accettabili la vita al malato e i disagi
della vita di chi l’assiste.
Come passeranno questi anni dipenderà dalle strategie e dalle
tecniche con le quali si affronteranno i problemi quotidiani.
Si è già detto dell’inizio della malattia subdolo e lento: il sintomo più
evidente è la riduzione progressiva della memoria, alla quale, man
mano che la persona si aggrava, si aggiungono un graduale
il suo comportamento adeguato, è invece inutile o addirittura
controproducente rimproverarlo per quello sbagliato, potrebbe non
capirne il motivo o umiliarsi.
Una volta calmata l’agitazione è bene cercare di capire qual è stata la
causa scatenante, in modo da evitare il più possibile che si ripeta:
talvolta il malato diventa ansioso o aggressivo per un motivo specifico ed
immediato che noi spesso non riusciamo a riconoscere.
In presenza di episodi ripetuti, è importante rivolgersi al medico, per
verificare se l’ansia e l’agitazione dipendono, per esempio, da una
terapia farmacologica non tollerata o insufficiente.
Aggressivita’
Diverse sono le cause che possono scatenare l’aggressività, sia verbale
sia fisica, quale la frustrazione, l’ansia e la sensazione di pericolo.
In genere l’aggressività del malato di A. è scatenata da un’errata
percezione della realtà, da disorientamento, amnesia, ecc., e può essere
peggiorata da un approccio sbagliato della persona che lo assiste.
In altre parole, i problemi cognitivi possono suscitare questa reazione
perché il malato non riesce ad avere la sensazione corretta di quello che
sta accadendo (non ricorda dove ha messo gli oggetti, non riesce a
seguire una conversazione, si sente minacciato). Si tratta spesso di una
naturale reazione difensiva contro la percezione di un pericolo. A volte
gli scatti d’ira sono sproporzionati e rivolti contro la persona che gli è più
vicina. Per questi malati la collera può essere l’unico modo per esprimere
un disagio.
Se l’aggressività si manifesta con urla o minacce verbali è bene evitare
tentativi di costrizione sia fisica sia psicologica; nel caso di minacce
fisiche è meglio tenersi ad una distanza di sicurezza ed eventualmente
uscire dalla stanza lasciando al malato il tempo di calmarsi.
La conoscenza e l’attenzione quotidiana dovrebbero aiutarci a
riconoscere alcuni sintomi che preludono la crisi di aggressività: il
nervosismo e l’inquietudine sono segnali che dovremmo cogliere per
poter mettere in atto tecniche di distrazione e rassicurazione allo scopo
di prevenire la crisi.
Non sempre si riesce a prevenire l’aggressività, tuttavia bisogna
cercare di ridurre al minimo le conseguenze sia per il malato che può
esporsi a pericoli sia anche per chi lo assiste e per gli altri
eventualmente presenti. E’ importante non perdere il controllo della
situazione, rimanere calmi con un atteggiamento tranquillo ma
deciso, senza mostrare segni di paura, né di offesa.
Nella gran maggioranza dei casi i gesti del malato, pur se
incontrollabili, non sono rivolti verso di noi: semplicemente egli non è
in grado di gestire le proprie emozioni e il proprio comportamento, e
facilmente se ne scorderà in breve tempo.
Insonnia e vagabondaggio
Il vagabondare è un atteggiamento abbastanza comune tra i malati
di demenza. Alcuni girano per la casa, mentre altri cercano di uscire,
altri ancora camminano di notte, quando le altre persone dormono.
Il malato talvolta manifesta un’inversione del ritmo sonno-veglia:
dorme troppo durante il giorno e trascorre sveglio la maggior parte
delle ore notturne. In questi casi richiede attenta sorveglianza.
Il problema dell’insonnia può essere complicato da episodi di
vagabondaggio notturno.
Il malato può cercare di uscire da casa nel pieno della notte,
camminare incessantemente, fare rumore, oppure può richiedere di
far colazione o pranzare mentre tutti gli altri riposano.
In generale, tende a camminare per casa e diventare più agitato
nelle ultime ore del pomeriggio: un fenomeno che gli anglosassoni
definiscono come “sindrome del tramonto”.
A volte i sintomi, che possono comprendere anche confusione, ansia,
disorientamento, persistono per tutta la notte.
Per attenuare queste manifestazioni, è importante che la persona
trascorra delle giornate attive, evitando che faccia lunghi riposi
pomeridiani o lavori faticosi e impegnativi nel tardo pomeriggio.
E’ importante anche controllare la dieta, somministrare un pasto
leggero ma che sazi, evitando cibi e bevande eccitanti.
Il buio rende difficile al malato percepire l’ambiente che lo circonda.
E’ bene lasciare accese delle luci soffuse, che gli permettano di
la Risonanza Magnetica Nucleare, e quelle più sofisticate quali la PET e
la SPECT servono più che altro a escludere che la demenza sia dovuta a
cause differenti dall’AD.
Oggi la diagnosi si basa principalmente sull’esame clinico e su quello
neuropsicologico, che prevede la valutazione delle capacità mentali del
malato attraverso una serie di test.
I farmaci disponibili oggi appartengono a due categorie:
Anticolinesterasici (Donepezil, Rivastigmina e Galantamina):
questi farmaci riducono l’azione della colinesterasi, un enzima
che provvede normalmente a distruggere nel cervello
l’acetilcolina (neurotrasmettitore coinvolto nei processi cognitivi e
carente nel cervello dei malati con AD). Da questa azione si ha
come effetto l’aumento dell’acetilcolina disponibile.
Memantina: agisce in maniera differente rispetto ai farmaci sopra
indicati.
L’effetto di queste terapie, utilizzabili anche in associazione, si traduce in
un rallentamento della evoluzione dell’AD. Il quadro clinico
invariabilmente peggiora ma più lentamente fino a raggiungere
comunque le fasi finali della malattia. Il trattamento precoce dell’AD
sembra essere vantaggioso sia per la salute del paziente che per i costi
della malattia.
I malati non sono gli unici coinvolti dal problema: sui familiari, infatti,
grava la maggior parte del carico della gestione e dell'assistenza dei
pazienti dementi e spesso pesa la sensazione di non aver fatto
abbastanza: “C’è voluto tempo, in famiglia, perché capissimo. Si diceva
che ti lasciavi andare alla depressione. Questa ipotesi dava alla cosa un
aspetto passeggero e quasi rassicurante. Facevi tutto ciò che era in tuo
potere per nasconderci il buio nel quale ti dibattevi. Eri un ottimo
mistificatore e noi degli egoisti impenitenti. I sintomi, i presagi non li
abbiamo analizzati. Non subito, visti nel loro insieme, dopo ci hanno
fatto riflettere. Uscivi sempre meno. Non sapevamo che, da solo, per la
strada, cominciavi a perdere l’orientamento. Hai forse lanciato appelli
che noi, distratti dal corso delle nostre vite, non abbiamo raccolto?”
(Nadine Trintignant, Mi manchi, AIMA, 1997).
I malati possono, inoltre, essere particolarmente vulnerabili ad eventi
stressanti e/o psicosociali, come malattie o interventi chirurgici,
ricoveri in ospedale, cambiamenti di residenza e lutti, che
esacerbano i loro deficit intellettivi e favoriscono la comparsa o
l’accentuazione dei disturbi del comportamento.
L' intero quadro clinico si svolge classicamente in tre fasi: dopo
l’esordio, vi sono una fase iniziale, una fase intermedia e una fase
terminale. E’ importante tenere presente che i sintomi si manifestano
in modo estremamente eterogeneo e spesso sono influenzati dal tipo
di personalità, dalle condizioni fisiche, dal grado di cultura e dallo
stile di vita del singolo individuo.
Nella fase terminale della malattia i sintomi si aggravano
ulteriormente: il soggetto perde l’orientamento persino in casa
propria, è incapace di riconoscere se stesso e i familiari e di
prendersi cura di sé; presenta grave afasia, può divenire aggressivo,
oppure mostrare un comportamento completamente assente,
apparendo estraniato ed apatico.
Sono frequenti, ma non obbligatori, sintomi e segni neurologici: ad
esempio, difficoltà nella deambulazione, disturbi della deglutizione,
riduzioni della forza, ai quali possono accompagnarsi paresi,
spasticità, rigidità, tremori. Talvolta possono manifestarsi anche crisi
epilettiche. Sono comuni disturbi sfinterici, con incontinenza fecale
ed urinaria.
Il quadro finale evolve verso uno stato vegetativo. Il decorso della
malattia può abbracciare un periodo di tempo variabile dai 4 agli
oltre 15 anni e l’exitus sopravviene spesso a causa del marcato
decadimento delle funzioni organiche generali, solitamente per
malattie infettive intercorrenti di tipo broncopolmonare o urinario.
Come detto, diversamente dalla maggioranza delle malattie, non
esiste un test specifico per scoprire la presenza dell’AD. In effetti i
segni distintivi, cioè la deposizione di beta amiloide e la formazione
dei grovigli neurofibrillari, possono essere rilevati soltanto dopo la
morte del paziente, in quanto è necessario procedere all’esame del
tessuto cerebrale. In vita questa pratica tramite una biopsia porta
con sé tali rischi di complicazioni da renderla di fatto non eseguibile.
Le tecniche di diagnostica per immagini come la TAC,
orientarsi e non sentirsi isolato.
Il “girovagare” può diventare un problema, più per eccesso di questa
attività che per difetto.
Spesso per mesi o per anni, il malato presenta un incremento patologico
della deambulazione: può camminare per ore e ore, ininterrottamente, in
modo compulsivo, quasi fosse alla ricerca di qualcosa che non trova mai.
Solo nelle ultime fasi della malattia può avere difficoltà nel muoversi.
Se si cerca di fermarlo o di arginare la sua iperattività, può reagire in
modo brusco o aggressivo.
E’ opportuno evitare di rimproverarlo o di bloccarlo. Se insiste per uscire,
possiamo accompagnarlo, ma se le uscite diventano troppo frequenti e,
per chi assiste, troppo faticose, è conveniente servirsi della
collaborazione di una persona conosciuta.
Contrariamente a quanto in genere si crede, il vagabondaggio non è
quasi mai senza scopo; facilmente il malato dimentica e non è in grado
di spiegare dove sta andando, o che cosa si proponeva di fare.
Possiamo dunque cercare di creare le condizioni ambientali più sicure
possibili per permettere al malato di girovagare senza correre rischi. Un
giardino recintato o una zona attrezzata della casa potrebbero dar sfogo
al girovagare in sicurezza. Un’alternativa è quella di tentare con attività
per lui usuali che possano intrattenerlo e ridurre il vagabondaggio. Ad
esempio una casalinga può fermarsi per un certo periodo ad un tavolo
ove si trovano stoviglie e oggetti domestici di uso comune.
Se questo non è possibile, bisogna trovare il tempo per accompagnarlo
in brevi ma frequenti passeggiate.
Depressione e apatia
Depressione e apatia possono presentarsi anche nel malato affetto da
demenza e ripercuotersi sui familiari che lo assistono.
Una reazione depressiva, specie nella fase iniziale della malattia, è
prevedibile e, in certa misura normale: è una reazione conseguente alle
molte carenze e al dover dipendere sempre più dagli altri.
Con l’avanzare della malattia, il malato tenderà ad essere sempre meno
partecipe di ciò che lo circonda, delegando progressivamente i compiti
che ha sempre svolto ma che ora risultano essere faticosi da
eseguire, tanto che chi lo assiste spesso si sostituisce a lui.
Tutto ciò lo porta inevitabilmente ad uno stato di profonda tristezza
che è necessario non sottovalutare, perché può sfociare in una
depressione vera e propria.
L’apatia sembra erroneamente più facile da gestire, spesso però è
confusa con la depressione. La sintomatologia è simile: la persona
può rimanere parecchio tempo seduta in apparente ozio e senza
parlare, rinchiusa in se stessa. E’ uno stato d’animo molto diffuso,
anche se poco segnalato, perché non provoca grossi problemi di
gestione e, apparentemente, non ha conseguenze su chi assiste.
In realtà non è così: l’apatia del malato può scatenare in chi lo
assiste un forte senso di disagio e frustrazione che può ripercuotersi
anche sulla qualità dell’assistenza offerta.
Per questo motivo è essenziale coinvolgere il malato in semplici
attività mirate a sfruttare il più a lungo possibile le abilità residue del
malato stesso, così da permettergli di avere fiducia nelle proprie
capacità e di sentirsi ancora utile.
E’ preferibile incoraggiarlo in attività di movimento, ponendo
l'accento sui risultati positivi raggiunti, tralasciando di puntualizzare
gli insuccessi che potrebbero risultare demotivanti.
E’ controproducente insistere perché il malato faccia qualcosa che
non vuole: ne conseguirebbe uno stato di agitazione che potrebbe
trasformarsi in aggressività ed annullare i benefici dell’attività stessa.
Più utile sarebbe coinvolgerlo rispettando i suoi tempi, insistendo un
po’, ma evitando le imposizioni.
Deliri e allucinazioni
La malattia di A. può indurre il malato a sentire o vedere cose che
non esistono nella realtà, ma che per lui sono reali. Può accadere
che parli a persone che non ci sono, che creda che parenti o
assistenti gli possano fare del male o gli abbiano rubato degli oggetti
o del denaro.
Altre volte, potrà avere identificazioni alterate che riguardano
familiari o persone addette all’assistenza, ritenuti impostori, oppure
ideomotoria, evidenziabile in un contesto ecologico come impaccio
nell’uso di strumenti quotidiani; l’aprassia ideativa, ad esordio più
tardivo, che coinvolge alcune condotte domestiche complesse ma
routinarie, come l’uso degli strumenti dell’igiene personale. Infine,
l’aprassia dell’abbigliamento rende il paziente dipendente dagli altri nel
vestirsi, perché non ricorda la sequenza degli indumenti da indossare.
Tra i sintomi di questa malattie vi e anche l’agnosia, cioè l’incapacità a
riconoscere e identificare forme, nonostante le funzioni sensoriali siano
preservate. Questi disturbi si traducono in difetti nel riconoscimento di
segni grafici convenzionali (alessia agnosica) o di oggetti comuni
(agnosia visiva), o anche di visi di familiari e conoscenti, in questi casi si
parla di prosopoagnosia.
Un
disturbo
comunissimo
nell’alzheimeriano
è
quello
del
disorientamento topografico, da cui deriva una tendenza a perdersi.
L’aspetto più grave del disorientamento si manifesta nelle fasi tardive sui
brevi percorsi anche all’interno dei comuni spazi abitativi.
Fin dalle fasi più precoci dell’AD, i pazienti mostrano difficoltà a
focalizzare l’attenzione su un compito e a mantenerla fino alla sua
conclusione. Così, le azioni e le attività più routinarie sono
apparentemente portate a termine con maggiore facilità rispetto a quelle
nuove in quanto presuppongono una minor richiesta attentiva per essere
eseguite.
I disturbi cognitivi nel malato di AD si associano di frequente a
modificazioni
della
personalità,
dell’affettività
e
del
comportamento: il 70% circa dei pazienti manifesta apatia, il 40%
irritabilità, il 30% circa disinibizione; l’agitazione, un disturbo molto
composito che va dalla vocalizzazione persistente all’aggressività, è
presente in circa il 60% dei casi; l’ansia è osservata nel 50% dei
dementi. Anche le modificazioni del tono dell’umore sono frequenti: nel
30-50% dei pazienti vengono riscontrati sintomi depressivi, nel 5-8%
euforia e nel 40% labilità emotiva; il comportamento motorio aberrante
con vagabondaggio è descritto nel 40% dei dementi; sintomi psicotici,
quali deliri a carattere persecutorio o di furto e allucinazioni a carattere
visivo o acustico (vedere persone o animali, udire suoni o voci, tutti
inesistenti) sono riportati nel 30-60% dei pazienti.
Il deficit mnesico nella AD è spesso così precoce e rilevante da
costituire l’unico evidente disturbo cognitivo; questo inizialmente si
caratterizza per essere essenzialmente anterògrado, portando a
rapida perdita delle nuove informazioni, ad esempio nomi di persone,
luoghi e cose. La perdita di queste informazioni correnti
compromette il ricordo di buona parte dei piccoli fatti quotidiani, ad
esempio cosa si è mangiato il giorno prima o dove è stato riposto un
oggetto, ecc..
Con il tempo vengono dimenticati anche fatti di maggiore rilievo e
subentra un difetto della cosiddetta memoria del futuro, quali
appuntamenti e scadenze.
Si evidenziano anche disturbi della memoria semantica, ossia
conoscenze generali del mondo, conoscenze enciclopediche o
significati di parole, e, più tardivamente, della memoria
autobiografica (permette di rievocare eventi del proprio trascorso
autobiografico) e procedurale (include tutti i comportamenti appresi
ed automatizzati, che si realizzano senza un intervento della
coscienza e che governano le azioni quotidiane, come vestirsi,
lavarsi, cucinare e guidare, ecc.).
A causa di questi deficit il malato di AD presenta spesso una
condotta incerta anche nelle situazioni più banali.
L’afasia è definibile come un deterioramento delle funzioni del
linguaggio. Nelle fasi molto precoci dell’AD si osserva una generica
difficoltà ad evocare nomi di uso non frequente; nella conversazione
si può, inoltre, riconoscere un impoverimento del contenuto
informativo, con incertezze nella costruzione sintattica del periodo.
In una fase più avanzata della malattia, il linguaggio spontaneo
risulta ancora più impoverito, aumentano le anomie, le frasi "fatte" e
le parole passe-partout (es. coso, cosa, fare, ecc.); i concetti sono
espressi in modo confuso e possono emergere deficit della scrittura.
Nella fase finale, la comunicazione risulta spesso del tutto impossibile
per un grave disturbo della comprensione, e l’espressione spontanea
è nulla o estremamente ridotta. I processi di lettura e scrittura sono
compromessi.
I pazienti con AD presentano anche aprassia, ossia incapacità ad
eseguire comportamenti motori, nonostante siano preservate le
funzioni motorie e sensoriali. Si possono distinguere: l’aprassia
manifestare la convinzione che visitatori immaginari vivano nella sua
casa.
Per un’errata percezione, le immagini televisive potrebbero essere
vissute come reali e costituire dunque motivo di disturbo.
Deliri e allucinazioni possono essere fonte di grande angoscia per la
persona. E’ utile pertanto conservare, da parte di chi assiste, una serena
modalità di contatto: toccare il malato con una mano, parlargli con
tranquillità e soprattutto non mettere in discussione la sua convinzione
delirante.
Con il progredire della malattia, il malato potrebbe diventare incapace di
riconoscere sia i familiari che se stesso. Vedendo la sua immagine
riflessa in uno specchio potrebbe reagire come di fronte ad un estraneo.
E’ possibile cercare di limitare la frequenza di questi episodi
intervenendo sull’ambiente abitativo, togliendo gli oggetti che possono
alimentare le allucinazioni: specchi, quadri con immagini di persone o
animali.
Questi provvedimenti non elimineranno del tutto il problema e si dovrà
porre maggiore attenzione nell’evitare di contraddire il malato o tentare
di convincerlo che quel che dice è sbagliato. Non serve neppure fingere
che le allucinazioni e i deliri siano fatti reali: è meglio cercare di distrarlo
confortandolo e rassicurandolo, e spiegando che noi non vediamo e
sentiamo ciò che lui percepisce, ma possiamo capire ciò che prova.
Rassicurarlo con un atteggiamento equilibrato, e distrarlo interessandolo
a qualcosa che lo potrebbe incuriosire, non è mai cosa vana.
Perdita delle inibizioni
A volte il malato di A. si comporta in modo sconveniente o imbarazzante:
le inibizioni diminuiscono e, di conseguenza, egli tende ad essere più
disinvolto e a rispettare meno le regole sociali. Potrebbe pronunciare
parole offensive, dire parolacce e bestemmie o fare apprezzamenti e
gesti di natura sessuale, a volte sgradevoli per le persone presenti.
La causa può essere ricondotta ad un danno cerebrale oppure al fatto
che il malato si sente disorientato e confuso.
Il comportamento sconveniente solitamente non costituisce un
problema per lui, perché inconsapevole di aver agito in modo
imbarazzante. L’imbarazzo è soltanto delle persone che lo attorniano.
Chi lo assiste deve saper controllare la situazione, dominando le
proprie emozioni e cercando di spiegare ai presenti che la malattia
spinge il malato a comportamenti inadeguati
Anche se siamo imbarazzati, ricordiamo sempre che questo
atteggiamento è generato dalla malattia: la persona non è
consapevole e non agisce intenzionalmente per turbare o infastidire
qualcuno.
In questi casi occorre essere il più possibile garbati per non
provocare reazioni aggressive. Possiamo gentilmente allontanarlo e
distrarlo, proponendo un’attività a lui gradita.
Non è sempre possibile evitare o bloccare un atteggiamento
sconveniente, ma se consideriamo che tutto ciò è causato dalla
patologia, affronteremo questi episodi senza offenderci né turbarci
troppo.
È comunque opportuno segnalare al medico tali comportamenti per
eventuali terapie ad hoc.
3. FATICA E DOLORE DI CHI ASSISTE
L’assistenza ad una persona ammalata crea sempre fatica,
turbamenti, paure e talvolta assurdi sensi di colpa. Sempre, per
qualsiasi malattia, ma quando ci si trova ad assistere un malato di A.,
a queste emozioni si aggiunge un grande disorientamento, perché
nel corso della malattia si altera la comunicazione fino quasi a
scomparire. E questo diventa via via insostenibile, perché chi
accudisce ha bisogno di sentirsi riconosciuto. Il vuoto che si crea, nel
rallentamento dei gesti, nello scomparire della parola genera uno
stato d'angoscia mista a rabbia e paura.
Che fatica accudire un ammalato, che fatica condividere giorni e notti
con una persona che non solo si spegne nel fisico, ma soprattutto si
spegne nella mente!
nel 2025 nel mondo 34 milioni di persone saranno affette da questa
malattia! Già adesso i costi di questa malattia sono elevatissimi: si
calcola che negli USA si spendono 100 miliardi di $ all’anno. È facile
quindi ipotizzare come l’impegno economico nei prossimi decenni sarà
ancor più massiccio.
La malattia di Alzheimer prende il nome da Alois Alzheimer (1864-1915),
un patologo tedesco che nel 1907 pubblicò i rilievi post-mortem di una
donna di 51 anni con una grave forma di demenza.
Fu soltanto nel 1910 che la malattia ebbe un nome, quando Emil
Kraepelin, un famoso psichiatra di lingua tedesca, pubblicò il suo trattato
"Psichiatria", nel quale definiva una nuova forma di demenza scoperta
da Alzheimer, chiamandola appunto Malattia di Alzheimer. Nella
caratterizzazione della malattia ebbe però un ruolo chiave anche un
ricercatore italiano: Gaetano Perusini (1879-1915), tanto che la malattia
è nota anche come Malattia di Alzheimer-Perusini.
In questi malati, i neuroni, che sono le cellule del cervello, subiscono
delle alterazioni specifiche: all’esterno del neurone si assiste alla
formazione di caratteristiche placche, frutto della deposizione di una
sostanza chiamata beta amiloide, mentre all’interno si producono
particolari strutture anomale chiamate grovigli neurofibrillari. Queste
alterazioni, che possono essere accertate soltanto esaminando
direttamente al microscopio il tessuto cerebrale, impediscono alle cellule
del cervello di trasmettere gli impulsi nervosi e ne determinano
progressivamente la morte.
Le cause di questa malattia non sono accertate. Si sa che al 3-5% dei
casi è sottesa una causa genetica, mentre per gli altri casi vi sono
differenti teorie che individuano più fattori di rischio o causali.
Esiste una fase nella quale la malattia è caratterizzata dal solo danno
biologico, senza manifestazioni cliniche, e una fase nella quale i sintomi
sono così sfumati e lievi da rendere molto difficile la diagnosi sindromica
di demenza. Questo rende conto del ritardo, che in media è di 3 anni,
tra l’insorgenza dei primi segni di malattia e la diagnosi.
Il quadro clinico dell’AD si caratterizza per il graduale, progressivo ed
inarrestabile declino delle funzioni cognitive. Oltre ai sintomi cognitivi
sono presenti sintomi non cognitivi, che riguardano cioè la sfera della
personalità, l’affettività, le funzioni vegetative ed il comportamento.
Tabella 1 Criteri diagnostici della demenza secondo il
DSM-IV
Presenza di deficit cognitivi multipli caratterizzati da:
A1) compromissione della memoria;
A2) almeno uno dei seguenti deficit cognitivi:
afasia, aprassia, agnosia, deficit del pensiero
astratto e delle capacità di critica.
I deficit cognitivi dei criteri A1 e A2 interferiscono
significativamente e negativamente nel lavoro, nelle
attività sociali o nelle relazioni con gli altri, con un
peggioramento significativo rispetto al precedente
livello funzionale. I deficit non si manifestano
esclusivamente durante un delirium.
Esistono oltre cento forme di demenza, ma essenzialmente si
possono suddividere in forme degenerative caratterizzate da un
danno che coinvolge primariamente il cervello e in forme secondarie
nelle quali i danni al cervello sono conseguenza di un’altra malattia.
Tra queste ultime forme, circa l’8-10% del totale è potenzialmente
guaribile trattando la malattia sottostante.
800 mila persone circa oggi in Italia sono affette da demenza, circa il
6-7% degli ultrasessantacinquenni.
La demenza più frequente è senza dubbio la Malattia di Alzheimer
(AD) (60-70% dei casi), seguita dalla demenza vascolare (15-25%).
In questa breve trattazione l’AD viene considerata come modello
generale. Questa demenza è più frequente nell’età avanzata (>65
anni) per cui, in seguito al progressivo invecchiamento della
popolazione cui stiamo assistendo in questi anni, è facile
comprendere come stia diventando, di fatto, una delle emergenze
sociosanitarie del nostro tempo ed è prevedibile che il numero dei
malati sia destinato ad aumentare sensibilmente nei prossimi anni.
Secondo proiezioni epidemiologiche,
Allora è importante tener presente che si sta facendo qualcosa per una
persona che non ci riconosce più, ma che per noi è stata importante e
cara.
La malattia ha il suo decorso ed è più forte di noi, dobbiamo accettarne
l’ineluttabilità e accompagnare il malato con amore, con fiducia nell’aiuto
dei farmaci e con disponibilità ad accettare la presenza invadente di
malattie nel percorso della vita.
Se seguiamo un malato di A. dobbiamo riconoscere che le nostre forze
non sono illimitate; dobbiamo imparare a prendere le distanze prima di
crollare, cercando aiuto. E’ importante che non perdiamo il contatto con
le nostre esigenze di vita e rispondiamo alla fatica concedendoci ogni
tanto una pausa rigeneratrice d’energia.
Sforziamoci di non sentirci indispensabili, gli unici capaci, prendiamoci
spazio e lasciamone anche ad altre persone disponibili.
La malattia rischia di metterci in uno stato di continua preoccupazione o
ancor peggio di depressione. E’ un pericolo che dobbiamo evitare,
perché rischiamo di perdere tutte le risorse che ci possono servire per
accompagnare il malato, ma anche per non dimenticare noi stessi e il
mondo circostante.
Dobbiamo anche essere attenti a non farci opprimere dai sensi di colpa
nel caso in cui l’aggravarsi della malattia contempli la necessità di
ricoverare il malato in una struttura specializzata per persone non
autosufficienti quando è a rischio la sua e l’altrui incolumità.
Indispensabili in questo caso la comprensione e la condivisione di chi ha
vissuto prima di noi la stessa esperienza. La condivisione aiuterà a
comprendere che la decisione ultima è determinata dalla natura della
malattia e non da un rifiuto della persona che abbiamo accudito con
assiduità e dedizione.
4. BIBLIOGRAFIA
1. Castoldi R., Longoni B., Prendersi cura della persona con
demenza, Editrice Ambrosiana, Milano 2005.
2. Galli R., Liscio M., L’operatore e il malato Alzheimer, McGrawHill, Milano 2007.
3.
AA.VV., La famiglia e il malato di Alzheimer, NextHealt,
Milano 2002.
4. Censis, La mente rubata, FrancoAngeli, Milano 1999.
5. Centro italiano per lo studio dell’Alzheimer e della longevità,
Come assistere i pazienti affetti da demenza, Aldo Primerano,
Roma 1989.
6. Pettinati C., Spadin P., Villani D., Vademecum Alzheimer,
A.I.M.A., Milano 1996.
7. AA.VV., Manuale per prendersi cura del malato di Alzheimer,
Federazione Alzheimer
Italia, Milano 1989
1. LA MALATTIA DI ALZHEIMER
Fino ad un paio di decenni fa la demenza non ha rappresentato per la
medicina un capitolo di particolare interesse ed è stata relegata ad entità
quasi inesistente, commistione fra ignoto e vecchiaia, rivelandosi come
un incomprensibile spesso inaccettabile evento solo a chi è stato vicino a
questi malati. Ora però gli atteggiamenti della scienza nei confronti di
questa malattia non sono più rinunciatari e la medicina moderna si sta
muovendo per trovare un ruolo attivo accanto ai malati e alle famiglie.
La parola demenza indica una malattia caratterizzata da progressiva
perdita delle capacità cognitive, con un costante coinvolgimento della
memoria oltre alla contemporanea presenza di almeno una delle
seguenti alterazioni: afasia (disturbi del linguaggio), aprassia (incapacità
a eseguire attività motorie nonostante l’integrità della comprensione e
della motricità), agnosia (incapacità a riconoscere o identificare oggetti
in assenza di deficit sensoriali), deficit del pensiero astratto e delle
capacità di critica (pianificare, organizzare, fare ragionamenti astratti). I
deficit cognitivi devono essere di entità tale da interferire
significativamente con le attività lavorative, le relazioni sociali e
l’autonomia dell’individuo che ne è colpito.
La diagnosi di demenza è clinica e fa riferimento alla presenza di una
sindrome definita da criteri. I più diffusi sono quelli del cosiddetto DSM
IV, un Manuale di riferimento per le malattie mentali dell’Associazione
Americana di Psichiatria (Tab. 1). Gli esami di laboratorio, la TAC o la
Risonanza Magnetica sono indagini di supporto e non consentono, se
non associati alla valutazione clinica, di diagnosticare una demenza.
Opuscolo Informativo per l’assistenza ai
malati affetti da demenza
Avvertenza:
Per imprevisti o altre ragioni organizzative il contenuto del presente opuscolo
potrebbe subire modifiche anche temporanee.
Le osservazioni, i suggerimenti e i reclami possono essere presentati dai
Cittadini stessi e/o dagli Organismi di Volontariato e Tutela attraverso:
L’ Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP ) via Mazzini, 117 28887 Omegna:
telefono 800 307114, e-mail [email protected]
Stampa a cura di: U.O. URP ASL VCO novembre 2010
La Geriatria dell’ASL VCO per i familiari dei malati affetti da demenza
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