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L`internazionalizzazione invisibile. La nuova geografia dei

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L`internazionalizzazione invisibile. La nuova geografia dei
L’internazionalizzazione invisibile.
La nuova geografia dei distretti
e delle filiere produttive1
ENZO RULLANI*
Abstract
In un’economia globale, gran parte dell’internazionalizzazione diventa invisibile. I nostri
occhi e i dati statistici correnti guardano alle importazioni e alle esportazioni (al
“commercio”) e agli investimenti diretti all’estero. Ma l’onda della globalizzazione è spinta
avanti dai flussi di conoscenza che sono alimentati dalla scienza, dall’istruzione, dalla
tecnologia, dai mass media, da Internet, dal design, dalle arti e dagli stili di vita definiti dalla
moda e dalla cultura.
I flussi di conoscenza possono essere incorporati o meno in beni materiali, come le
macchine, i componenti e i prodotti di consumo. E possono essere associati o meno ai
movimenti di capitale. I canali di propagazione della conoscenza sono forniti da qualche
forma di rete - rete cognitiva o catena di produzione - che collega produttori e utilizzatori.
L’economia italiana è ricca di reti locali di piccole imprese, organizzate in distretti
industriali, e può usare questa forma (invisibile) di organizzazione anche per stabilire legami
con l’estero, alleanze, contratti di divisione internazionale del lavoro. In effetti, molte imprese
medie dei distretti italiani hanno raggiunto un livello invisibile di internazionalizzazione che
è molto maggiore di quanto appare a prima vista. D’altra parte, una piccola impresa che
lavora in una di queste catene transnazionali è costretta ad adattare i suoi prodotti e i suoi
comportamenti alla nuova situazione. Quindi, anche i produttori locali stanno lentamente
adottando standard internazionali di efficienza e tecnologia, anche se non esportano
direttamente o se non fanno investimenti all’estero in proprio. Questi, e altri cambiamenti
invisibili stanno preparando le imprese italiane alle necessità della nuova, invisibile,
internazionalizzazione.
Key words: internazionalizzazione, distretti industriali, economia della conoscenza, economia
italiana
In a global economy, a great part of internationalization is becoming invisible. Our eyes,
and current statistical data, look at import and export flows (“commerce”) or at direct
investments abroad. But the main stream of globalization is pushed ahead by knowledge flow,
which are moved by science, education, technology, mass media, Internet, design, arts, and
the life styles of fashion and culture. Knowledge flow can be or not embodied in material
goods, as machines, components, final products. And can be or not associated to capital
1
*
Ringrazio Stefano Micelli, direttore di TeDIS, per la collaborazione ricevuta nella raccolta
e nel commento dei dati sull’Osservatorio.
Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Università Ca’ Foscari di Venezia
e-mail: [email protected]
sinergie n. 69/06
4
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
movements. The propagations channels of knowledge are supplied by some form of network cognitive networks or business chains - that connect knowledge producers and users. Italian
economy is rich of local networks of small firms in industrial districts, and can preferably use
networked (invisible) organization also to establish foreign links, alliances and contracts of
its international division of labour. In fact, many medium-size firms of Italian industrial
districts, that have adopted the model of open network as organizational form in their
activities abroad, have achieved an invisible level of internationalization, greater than the
appearance. On the other side, a small supplier that is working in one of these trans-national
supply chains, is forced to adapt its product and behaviour to the new situation. Hence, local
producers too are slowly adopting international standards of efficiency and technology, even
if they are not directly exporting or making investments abroad. These, and other invisible
changes, are preparing Italian firms to the requirements of new, invisible
internationalization.
Key words: internationalization, industrial districts, knowledge economy, Italian economy
1. Premessa: l’internazionalizzazione invisibile
E’ diventato un luogo comune sostenere che l’internazionalizzazione ha
acquistato oggi un peso e una qualità non confrontabile con quella del passato,
ponendo imprese, persone e paesi in una condizione nuova, inedita.
Ma per identificare e capire nuovi fenomeni, specie se sono radicalmente nuovi,
bisogna avere nuovi occhi. Ossia nuovi paradigmi concettuali, adeguati al nuovo che
c’è da selezionare e identificare nella realtà.
Solo se la comprensione teorica elabora e applica questi nuovi paradigmi,
accettando una discontinuità con le preesistenze consolidate, sarà possibile avere
nuove misure, nuovi orizzonti strategici e nuovi porti di arrivo, verso cui fare rotta.
Altrimenti, i cambiamenti intervenuti nella realtà continueranno ad essere confusi e
dispersi nella massa delle preesistenze. Cosa che li rende praticamente invisibili: il
futuro comincia sempre con qualche segnale debole, che tocca alla teoria scoprire e
valorizzare - come frammento dotato di futuro - nel mezzo di mille altre cose, che
sono invece segni pregnanti del passato, e magari del presente, ma non hanno futuro.
I nuovi occhi non sono dunque un optional, di cui si possa fare a meno per
interpretare le questioni aperte oggi e proiettarle verso il futuro. Servono per uscire
dalla palude dove tutti i gatti sono grigi e dove il futuro appare poco più di una
media statistica.
Ma, parlando di internazionalizzazione, la domanda è: questi nuovi occhi ce li
abbiamo? Accettando di “vedere” nel presente una discontinuità - cosa di cui tutti
parlano, come se fosse ovvia - ci siamo davvero liberati dagli stereotipi del passato?
Ne dubitiamo. Non riusciamo più a vedere, infatti, le innovazioni che stanno
cambiando le forme di internazionalizzazione, comprese le nostre. Di conseguenza,
si fa fatica a capire quello che sta succedendo nella realtà. Gli ultimi trend degli
scambi con l’estero e della congiuntura economica negli ultimi anni ci lasciano
senza fiato: non solo il motore della crescita e della competitività sembra inceppato,
ma il guasto appare irrimediabile, senza appello.
ENZO RULLANI
5
Non è così. Il nostro sistema produttivo si sta muovendo, almeno nelle sue parti
più innovative. Ma nessun processo di apprendimento può essere identificato e
misurato guardando (solo) i valori medi, che sommano vecchio e nuovo, ciò che
appartiene al passato e ciò che prepara il futuro.
Lo sviluppo degli ultimi trenta anni, centrato sulle piccole imprese e sui distretti
industriali ha avuto il grande merito di portare l’Italia, in modo praticamente
indolore, fuori dalla crisi del fordismo. Ma oggi ci sono ragioni importanti per dire
bisogna voltare pagina: quel tipo di sviluppo ha, infatti, consumato le sue premesse.
L’affanno della nostra economia negli ultimi cinque anni è il segno di una continuità
che sta diventando insostenibile: la strada che abbiamo imboccato oggi appare
sempre più in salita. Se non si vuole che lo sviluppo si arresti, bisogna smettere di
procedere per forza di inerzia e dar mano ad alcuni cambiamenti profondi, di cui ancora - si stanno occupando solo un drappello di imprese: le più innovative e
aperte, certo; ma anche una minoranza rispetto al complesso del sistema produttivo.
Bisogna, invece, che un po’ tutti imparino a fare i conti con due processi che
stanno spiazzando i prodotti italiani sui mercati di oggi2:
-
la globalizzazione dei mercati e dei circuiti cognitivi, assai difficile da digerire
per un sistema attestato sulla dimensione locale;
la smaterializzazione del valore, altrettanto difficile da realizzare in un sistema
produttivo che ha ancora una base manifatturiera.
Per trovare un altro percorso, non basta adattarsi passivamente ai nuovi vincoli
posti dalla concorrenza internazionale che procede globalizzando e smaterializzando
le proprie filiere produttive. Bisogna, invece, innescare un processo di
apprendimento e di sperimentazione del nuovo, a cui una parte delle nostre imprese
si sta dedicando, in modo da essere capaci di dare una risposta innovativa ai due
fenomeni sopra richiamati3.
Questo è il cambiamento essenziale da cui dipende il nostro futuro. Eppure, si
tratta di un cambiamento che, pur essendo avviato da tempo, continua a svilupparsi
sottotraccia, in modo quasi invisibile. I riflettori della cronaca e della discussione
economica sono puntati altrove. Cercano altre cose.
I miti intorno a cui ci affanniamo, con scarsa utilità, sono altri. Da un lato c’è chi
cerca di fotografare il declino, scandendo il tempo di un processo che appare - nelle
foto - come inesorabile e meritato, essendo la giusta punizione per quello che non
abbiamo fatto. Dall’altra parte, per reazione, ci sono coloro che, invece, officiano un
rito diverso, cantando i meriti sull’esistente come se non ci fossero alternative.
Sperando che, naturalmente, prima o poi il sistema produttivo - segnato da cinque
anni di crisi - possa miracolosamente rialzarsi e camminare, come un Lazzaro
resuscitato dalla Provvidenza.
2
3
Bonomi A., Rullani E., Il capitalismo personale. Vite al lavoro, Einaudi, Torino, 2005.
Corò G., Grandinetti R., “Industrial districts responses to the network economy: vertical
integration versuls pluralist global exploration”, Human Systems Management, n. 20, pp.
189-199, 2001.
6
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
2. Due ragioni di opacità: usare gli occhi di altre epoche, usare gli
occhi degli altri
In realtà, in questo modo perdiamo di vista quello che conta. Ossia il lavoro
minuto di chi esplora i nuovi spazi che si aprono sul terreno della globalizzazione e
della smaterializzazione4. Anche in Italia abbiamo pionieri che si avventurano nei
continenti scoperti da poco, mettendo a fuoco minacce ed opportunità che fino a
poco tempo fa non erano rilevanti.
Tuttavia, nel seguire questi tentativi e valutare i loro primi successi o le loro
prime defaillances, abbiamo lo sguardo opaco. Non avendo fatto la rivoluzione
concettuale e teorica che si richiede, per far posto alle grandi novità dei nostri giorni,
stiamo, infatti, guardando all’internazionalizzazione:
-
con gli occhi di un’altra epoca, che finiscono per rendere invisibili o irrilevanti
le novità;
con occhi ricavati da realtà e storie di altri paesi (i paesi leader), perdendo così
la possibilità di valorizzare il nostro modo specifico di internazionalizzare le
attività produttive e le conoscenze di cui disponiamo.
E’ difficile, tuttavia, adottare nuovi occhi fino a che utilizziamo un modo di fare
teoria che - pensando l’internazionalizzazione sotto forma di commercio importexport, o di investimenti diretti all’estero fatti dalle multinazionali - sorvola sui
cambiamenti intervenuti, negli ultimi anni nel paradigma di produzione e di
consumo, cui corrispondono anche nuovi modi di entrare in rapporto con l’estero:
internazionalizzazione dei circuiti cognitivi, produzione transnazionale a rete,
internazionalizzazione della filiera, alleanze e catene stabili di outsourcing o di
commercializzazione, che allargano la scala di azione delle imprese a nuovi mercati
e nuove competenze. Su queste forme c’è un’attenzione teorica, politica e statistica
nettamente minore di quanto sarebbe giustificato dalla loro importanza, specie in un
paese come l’Italia che non potrà mai adottare il modello dell’internazionalizzazione
“forte”, delle grandi imprese multinazionali. D’altra parte, fino a che viviamo la
specificità italiana tutta in negativo, le caratteristiche specifiche
dell’internazionalizzazione italiana (filiere cognitive, produzione a rete) - praticata
da molte nostre imprese - finiscono per essere considerate un ripiego, o una cattiva
abitudine da cui liberarci il più presto possibile.
Con questo atteggiamento inerziale, la teoria e la politica industriale hanno
tardato a riconoscere le valenze positive della crescita dei distretti industriali dopo
gli anni settanta. Anche allora mancavano gli occhi per vedere quello che la realtà ci
mostrava. Infatti, ci sono voluti quasi venti anni, e molti attestati provenienti
dall’estero, perché l’economia del sottoscala - come veniva sbrigativamente
chiamata - diventasse degna di essere studiata alla pari di altre forme di
4
Vaccà S., Cozzi G., “Come governare la globalizzazione dello sviluppo economico”,
Economia e Politica Industriale, 2002.
ENZO RULLANI
7
organizzazione economica, più paludate e consolidate. Il drappello dei pochi pionieri
che fin dall’inizio l’avevano seguita e rappresentata si è alla fine allargato,
acquistando rispettabilità accademica e riconoscimento politico. Ma troppo tardi,
forse.
Mutatis mutandis, anche adesso sta succedendo lo stesso. Intorno ai distretti
industriali - ormai ufficializzati ma in crisi - i nostri occhi vedono niente altro che il
deserto, o il declino, se si vuole. Dovremmo invece abituarci a vedere i processi di
apprendimento che, all’interno dei distretti e degli altri sistemi locali, stanno
esplorando le nuove possibilità, facendo i conti con la globalizzazione e la
smaterializzazione.
E’ quanto, molto parzialmente, cercheremo di fare in questo articolo usando le
rilevazioni del Centro TeDIS della Venice International University5. Ma prima di
leggere i dati, bisogna - come abbiamo detto - costruire nuovi occhi. E, soprattutto,
bisogna adottarli per vedere ciò che si muove sotto la superficie del deserto, creato
dalla fine delle precedenti convinzioni. Cominciando dalla questione chiave: che
cosa vuol dire, oggi, internazionalizzazione?
3. Quale internazionalizzazione?
L’internazionalizzazione che si sviluppa oggi nell’economia globale è, prima di
tutto, un fenomeno cognitivo6: le conoscenze si spostano, infatti, con grande facilità
e rapidità da un angolo all’altro del “villaggio globale”, muovendosi lungo le reti
della scienza e della tecnologia, lungo le linee delle comunicazioni a distanza (che
spostano merci, persone e informazioni). Attraverso i links dell’iper-spazio creato
dal web internettiano, attraverso i mass media e attraverso i non-luoghi degli
attraversamenti globali (aeroporti, snodi logistici e commerciali, centri direzionali,
metropoli mondiali) si muovono ogni giorno milioni di informazioni, simboli,
narrazioni, contratti. Ossia si muovono conoscenze variamente codificate e validate.
Le conoscenze non sono fermate alle frontiere, non pagano (quasi mai) dazio, non
stanno ferme, ma hanno una intrinseca tendenza a propagarsi. Tutti gli spazi
confinati in territori circoscritti subiscono - volenti o nolenti - l’onda dei flussi
5
6
Chiarvesio M., Micelli S., “Reti e nuove tecnologie nei distretti industriali del Nord Est. I
risultati dell’Osservatorio Tedis”, in Micelli S., Di Maria E. (a cura di), Distretti
industriali e tecnologie di rete: progettare la convergenza, Franco Angeli, Milano, 2000.
Abbiamo esaminato la stretta relazione che esiste tra processi di globalizzazione ed
economia della conoscenza emersa negli anni del postfordismo in Grandinetti R., Rullani
E., “Sunk internationalization: small firms and global knowledge”, Revue d’Economie
Industrielle, n. 67, 1º Trimestre, 1994, pp. 238-254 e in Grandinetti R., Rullani E.,
Impresa transnazionale ed economia globale, NIS, Carocci, Roma, 1996. La formazione
dello spazio transnazionale è stata esamina in Rullani E., “Global-mente”, Economia e
Politica Industriale, n. 113, 2002. Il tema della filiera cognitiva è stato poi esaminato
analiticamente in Rullani E., La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la
conoscenza, Carocci, Roma, 2004.
8
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
cognitivi che entrano ed escono, scavalcando le frontiere ed innervando le reti
interne.
Questo significa due cose: a) che non ci sono più spazi separati, che possano
seguire il proprio percorso di sviluppo endogeno, ma che ogni fenomeno locale o
nazionale viene alimentato da un rapporto, sempre più stretto, con i circuiti mondiali
del sapere; b) che il “villaggio globale” delle relazioni transnazionali non è più un
anonimo luogo di intersezione tra economie organizzate su base nazionale o locale,
ma comincia ad esistere come sistema transnazionale autonomo, man mano che in
esso si affermano una cultura, un’estetica, un’etica, un’opinione pubblica, una
regolazione giuridico-contrattuale che va oltre la semplice somma delle entità
nazionali e locali che contiene7.
Lo spazio transnazionale - con le sue incertezze, ma anche con le sue grandi
opportunità - è il terreno il cui le imprese cominciano a muoversi, mantenendo un
piede nel territorio di origine, ma guardando verso orizzonti che diventano sempre
più estesi, sempre più lontani. In questa dilatazione dei loro spazi di azione, le
imprese spostano conoscenza lungo le loro linee interne, quando operano in più
paesi, o lungo gli assi delle filiere fornitori-clienti, nelle diverse fasi che vanno dalla
materia prima al prodotto finito.
I circuiti cognitivi che utilizziamo, in economia ma non solo, sono diventati lentamente ma inesorabilmente - trans-nazionali. Cosicché la conoscenza si presenta
oggi come una risorsa accessibile, utilizzabile da paesi a diverso grado di sviluppo,
che sanno dotarsi di una efficiente capacità di assorbimento. Grazie a percorsi di
assorbimento e apprendimento sempre più rapidi, paesi che si situano a diversi
livelli di costo e hanno diverse tradizioni e culture entrano, dunque, in possesso,
ogni giorno, di conoscenze simili, spesso concorrenti.
Ecco il corto circuito: la propagazione globale delle conoscenze più facilmente
trasferibili o imitabili rende uguali, dal punto di vista cognitivo, paesi che sono
invece profondamente diseguali dal punto di vista dei costi, delle norme, delle
tradizioni culturali.
L’internazionalizzazione cognitiva avvicina e rende concorrenti paesi e imprese
che, in sua assenza, sarebbero rimasti separati da un gap difficilmente superabile, se
non nei tempi lunghi. Il mondo si apre: la globalizzazione non è un destino segnato,
ma un continente inesplorato, dove ci sono tanti percorsi possibili8. Oggi invece, le
distanze cognitive e competitive implodono, per effetto della globalizzazione; e
questa implosione genera nel villaggio globale un melting pot, un ribollente
calderone dove le differenze entrano in contatto tra loro, facendo spesso scintille.
Questa nuova natura dell’internazionalizzazione non è ben capita da chi,
trascurando il corto circuito creato dall’internazionalizzazione cognitiva, pone la
7
8
Gannon M.J., Understanding Global Cultures. Metaphorical Journeys Through 17
Countries, Sage Publications, 1994, trad. it. Global-Mente. Metafore culturali per capire
17 paesi, Baldini&Castoldi, Milano, 1997; Shaw M., Theory of the Global State.
Globality as Unfinished Revolution, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 2000.
Giaccardi C., Magatti M., La globalizzazione non è un destino. Mutamenti strutturali ed
esperienze soggettive nell’età contemporanea, Laterza, Bari, 2001.
ENZO RULLANI
9
questione dei rapporti transnazionali ancora nei termini suggeriti dai due modelli
classici, ereditati dal passato:
-
-
il modello allocativo, che ispira l’economia mercantile dell’ottocento ma che ha
mantenuto la sua egemonia fino ad oggi, ispirando la visione neoclassica del
commercio internazionale;
il modello gerarchico, che ha preso forma con lo sviluppo delle imprese
multinazionali ed è coerente con il paradigma fordista di organizzazione del
lavoro e di produzione/uso della conoscenza.
4. Alle nostre spalle: il modello allocativo, adatto all’internazionalizzazione mercantile
L’economia politica nasce, nel passaggio dal settecento all’ottocento, come
economia di mercato, ossia come economia che situa gli attori economici entro uno
spazio unitario - il mercato - lasciando che in esso la concorrenza selezioni gli
operatori più efficienti e abbassi i costi/prezzi di offerta, realizzando il massimo
risultato per la domanda.
Il mercato, tuttavia, funziona come allocatore efficiente delle risorse solo se i
concorrenti operano effettivamente in un ambiente istituzionale omogeneo, in cui
l’autorità dello Stato e la condivisione di un corpo unitario di regole creano
condizioni di contorno uguali per tutti gli operatori. In un mercato omogeneo, il fatto
che alcune “differenze” prevalgono sulle altre può essere imputato alla diversa
efficienza delle soluzioni che sono proposte e delle forme organizzative adottate dai
concorrenti. Ma che cosa succede se i mercati sono frazionati da barriere doganali,
culturali, normative che alterano la “gara” competitiva in ciascun segmento?
L’economia standard era abbastanza calzante per l’analisi dei singoli capitalismi
nazionali - inglese, francese, tedesco, non importa - che andavano formandosi nel
corso dell’ottocento. L’economia internazionale, in tale contesto, costituiva
l’eccezione, l’anomalia che si occupa di una questione particolare: il funzionamento
dei mercati in uno spazio territorialmente e istituzionalmente segmentato.
Nell’“economia internazionale” - sezione specializzata dell’economia politica
generale - si studia, infatti, che cosa succede quando viene a cadere il postulato
centrale del mercato, ossia la libera circolazione delle merci e dei fattori tra i diversi
segmenti che compongono il mercato. Lo stesso termine inter-nazionale sottolinea il
carattere relazionale della disciplina, cui tocca gettare ponti, tra le diverse economie
nazionali, misurando il traffico in entrata e in uscita e calcolando le conseguenze
sulle economie di base, ossia sui sistemi nazionali collegati.
L’economia internazionale nasce, per questo, come disciplina, intorno ad un
problema tipicamente allocativo: come distribuire nel modo migliore i fattori
produttivi su un mercato che non è unitario, ma segmentato. E su cui i fattori sono,
in parte, “immobili”, non trasferibili. La nuova disciplina non fa altro che estendere
al caso inter-nazionale la validità di un modello allocativo nato e collaudato a scala
10
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
nazionale. Essa è, per così dire, il “complemento a cento” di un’economia politica
che usa il mercato per ottimizzare le scelte allocative fatte nel mercato, inteso
inizialmente come mercato nazionale.
Se le risorse (immobili) devono essere allocate ai settori produttivi in cui si
detiene un vantaggio comparato, il “commercio” - ossia gli scambi di import/export
- diventa la “camera di compensazione” che rende più efficiente l’allocazione delle
risorse nell’economia internazionale, liberando la produzione di ciascun paese
dall’obbligo di servire la sua domanda interna. Le diverse “specializzazioni” dei
paesi segnalano, dunque, i vantaggi relativi che i paesi hanno nei costi comparati e
che il mercato internazionale rivela.
Le passerelle gettate dall’economia internazionale tra i diversi sistemi nazionali
erano inizialmente attraversate da flussi di merci (import/export) e di capitali
(movimenti di credito, debito, moneta). Esattamente i flussi che caratterizzavano
l’economia internazionale del capitalismo liberale dell’ottocento, ma che ancora
oggi costituiscono gli aspetti su cui sono puntati i riflettori delle statistiche e del
dibattito.
5. Arriva il fordismo e l’internazionalizzazione diventa gerarchica,
badando più al comando che agli scambi
Nonostante il modello allocativo abbia conservato il suo fascino, attraverso i due
secoli e mezzo che ci separano dalla rivoluzione industriale, non è rimasto padrone
incontrastato del campo per tutto questo tempo. Già a metà del novecento, le grandi
imprese fordiste adottano forme di internazionalizzazione che “eccedono” le forme
tipiche del commercio, non passando più per le (sole) importazioni ed esportazioni.
Già negli anni sessanta si è consapevoli che la teoria del commercio comincia, in
questo modo, a fornire una rappresentazione parziale e, per certi aspetti, obsoleta di
quanto sta accadendo.
In un contesto fordista, l’allocazione delle risorse mediante il mercato non è più
il cuore della produzione di valore. Per produrre valore e migliorare la propria
posizione competitiva, l’impresa fordista procede infatti:
a) innovando le tecniche produttive che cambiano i coefficienti tecnici;
b) organizzando, in base ad un comando e ad un programma perfettamente
cadenzato, cicli di lavorazione complessi, formati da migliaia di operazioni e
alimentati da centinaia di macchine.
Il libero mercato non è il contesto più adatto per assumere i rischi di innovazioni
complesse e a rendimento differito; né per garantire la perfetta sincronia
organizzativa di processi produttivi minutamente parcellizzati e disciplinati. Per
creare valore, l’allocazione efficiente delle risorse, mediante il mercato, non basta
più. E, di conseguenza, anche il “commercio” internazionale appare uno strumento
meno decisivo per aumentare la produttività e il prodotto.
Lo spostamento del baricentro produttivo dall’allocazione mercantile implica
anche un’altra visione dell’economia internazionale, che da economia degli scambi
ENZO RULLANI
11
internazionali diventa economia della produzione internazionale9. Ossia di una
organizzazione della produzione che distribuisce in diversi paesi le varie fasi e
funzioni del processo produttivo gestito dalla stessa impresa. Diventano in questo
modo internazionali le linee di comando e di programmazione che disciplinano le
operazioni compiute in ciascun paese. Gli scambi tra un paese e l’altro non guidano
più il gioco: essi sono piuttosto il risultato di scelte di “produzione internazionale”,
che localizza le attività in certe aree e le collega ad un piano di programmazione
transnazionale.
L’impresa multinazionale estende all’estero il comando e la tecnologia di cui è
portatrice: due fattori intangibili che non si vedono nelle statistiche ma che
modificano in senso internazionale l’economia su cui agiscono. I movimenti di
merci e di capitali diventano invece opzionali: ci possono essere o no. Quello che
conta è che il comando e la tecnologia arrivino in tutti i luoghi della produzione
controllata dall’impresa. Facendo circolare il fattore immateriale conoscenza e non
(necessariamente) gli oggetti materiali in cui viene incorporata10.
Le imprese multinazionali, che, dopo la guerra, diventano il fenomeno
dominante
a
scala
internazionale,
tendono,
dunque,
a
fondare
l’internazionalizzazione su basi diverse da quelle classiche (commercio, movimenti
di capitale), mettendo in campo altre e più penetranti forme di presenza
internazionale, rilevabili alla frontiera sotto forma dei cosiddetti investimenti diretti
all’estero (IDE). Ma anche gli IDE sono solo indicatori indiretti di un fenomeno di
presidio che non è necessariamente legato alla loro quantità e qualità, passando
invece per l’estensione oltre i confini nazionali dell’organizzazione delle maggiori
imprese. E’ l’organizzazione che supera i confini dei diversi capitalismi nazionali,
facendo diventare trans-nazionali la propria rete di comando, le proprie competenze
tecnologiche e organizzative, i propri programmi di produzione e di vendita.
6. La terza forma di internazionalizzazione: la propagazione delle
conoscenze nelle filiere transnazionali
Insomma, sono diversi anni che l’internazionalizzazione (quella vera) è diventata
invisibile alle statistiche del commercio e degli scambi, passando per altri binari,
meno rilevati ma più rilevanti. Tuttavia, finchè al centro della scena c’è stata
l’impresa multinazionale, non si può dire che la consapevolezza della “nuova forma”
assunta dall’internazionalizzazione sia mancata. Una sterminata letteratura,
specialmente di fonte anglosassone, parla delle multinazionali e delle loro
caratteristiche come imprese oppure degli IDE e dei loro andamenti.
9
10
Rullani E., Lo sviluppo multinazionale delle imprese industriali, Milano, Etas Kompass,
1973.
Rullani E., Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti,
Carocci, Roma, 2004; Rullani E., La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la
conoscenza, op. cit.
12
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
C’è un certo scollamento tra la letteratura che riguarda le “vecchie forme” e le
“nuove”, nel senso che si continua ad andare avanti su due binari paralleli, come se
le nuove forme si fossero semplicemente aggiunte alle vecchie, senza cambiarne il
significato. Ma, certo, sia pure con ritardo, già negli anni sessanta
l’internazionalizzazione - che era soltanto mercantile - è diventata bicefala:
mercantile (commercio) e gerarchica (multinazionali) insieme.
Da allora, però, l’idea di internazionalizzazione è rimasta abbastanza ingessata
su questi due archetipi. Nel corso degli anni ottanta, quando è “esplosa” la tematica
della globalizzazione, la letteratura economica ha preferito aggiustare i vecchi
concetti al nuovo contesto, piuttosto che cambiarli. Il mercato internazionale è
diventato un “mercato globale”, e la multinazionale si è proposta nella veste di
“impresa globale”. Con questo slittamento, si realizza un aumento quantitativo (di
scala) sia del mercato che della gerarchia, ma replicando l’impianto dicotomico di
base.
La globalizzazione “conteneva”, tuttavia, una novità qualitativa, che andava oltre
l’allargamento della scala geografica. La ricerca di forme efficaci di produzione
postfordista aveva infatti messo in campo un nuovo modo di produrre: la produzione
a rete11, emersa, in quegli anni, nelle performance del modello giapponese (lean
production, catene di subfornitura) e in quello italiano (imprenditorialità diffusa,
distretti industriali). Alla produzione a rete, corrisponde una terza forma di
internazionalizzazione, che tuttavia rimane piuttosto in ombra, essendo tutta
l’attenzione centrata sulle due forme consolidate (mercato e multinazionali).
Come è noto, la “rete” è una forma di legame che consente a tanti soggetti
autonomi, spesso di piccola dimensione, ma non solo, di lavorare in filiera
assumendo rischi e facendo processi di apprendimento che risultano interdipendenti.
La produzione a rete ha avuto una forte diffusione negli anni della crisi del
fordismo, per effetto delle strategie di outsourcing (fornitura esterna) e di
focalizzazione sul core business (specializzazione) che hanno consentito alle grandi
organizzazioni fordiste di “alleggerirsi” di costi e lavorazioni che le irrigidivano. Un
insieme di reti fornitori-clienti ha consentito alle imprese di diventare “snelle” senza
perdere del tutto il controllo della filiera: semplicemente hanno sostituito il legame
debole della rete a quello forte, ma insostenibile, del controllo diretto. Specialmente
in Italia, la produzione a rete ha messo nel circuito della modernità piccole imprese e
sistemi locali che in precedenza erano immersi in un mondo pre-moderno, che si
pensava destinato a scomparire.
Sul finire del secolo, come si è detto, l’internazionalizzazione ha bisogno di
nuove forme perché è mutata l’organizzazione produttiva. La ragnatela delle
relazioni che allacciano fornitori e clienti di una filiera multi-localizzata non è
riducibile né al mercato, né alla gerarchia12. La supply chain non è tenuta insieme da
semplici contratti di mercato, ma nemmeno dal potere che regola un ciclo
11
12
Rullani E., Romano L. (a cura di), Il postfordismo. Idee per il capitalismo prossimo
venturo, Etaslibri, Milano, 1998.
Corò G., Grandinetti R., “L’occhialeria bellunese tra distretto e gerarchia”, Economia e
Società Regionale, n. 2, 2001.
ENZO RULLANI
13
verticalmente integrato o, comunque, controllato da un unico centro. La supply
chain è, invece, organizzata coordinando - in forme complesse e variabili - il
comportamento di una pluralità di imprese che lavorano in rete. Ossia che adottano
nei loro rapporti:
a) una fitta divisione del lavoro nella filiera produttiva tra molti soggetti che
accettano di dipendere l’uno dall’altro;
b) un processo, volontario o involontario, di condivisione della conoscenza, che
genera una base di sapere comune;
c) un legame stabile tra fornitori e clienti, grazie alla reciproca fiducia derivante
dal rapporto interpersonale diretto e dall’esperienza compiuta.
In che modo un tipo di rete produttiva del genere può internazionalizzarsi? Certo,
può farlo usando le forme tipiche del commercio (le esportazioni) e degli IDE. Ma,
in questi campi, la sua debolezza è massima: in Italia la maggior parte delle imprese
appartenenti alle filiere distrettuali esportano senza, però, presidiare il mercato. In
certi casi (pochi) investono all’estero, ma quasi mai hanno un retroterra finanziario
adeguato per poterlo fare in modo consistente e continuativo.
Tuttavia, la produzione a rete può fare di meglio, in questo campo, nella misura
in cui riesce a seguire un percorso più vicino alle sue competenze distintive e alla
sua cultura specifica, dando luogo ad una terza forma di internazionalizzazione, che
abbiamo a suo tempo chiamato comunicativa13. Una forma in cui ad
internazionalizzarsi non sono le singole imprese, ma le filiere produttive, estendendo
su scala internazionale le caratteristiche della produzione a rete (divisione del
lavoro, condivisione della conoscenza, stabilità dei rapporti fornitore-cliente).
Le filiere diventano trans-nazionali quando, nei vari anelli della catena, il cliente
è di un paese (o lavora in un paese) e il fornitore di un altro (o lavora in un altro). La
relazione, in questo caso, attraversa la frontiera e stabilisce un rapporto non più
nazionale ma transnazionale. Tuttavia, le reti transnazionali che in questo modo
prendono forma sfuggono, sostanzialmente, alle forme consuete di rilevazione e
misurazione. Gli occhi della teoria e della statistica rimangono, dunque, distratti,
guardando ad altro.
Le relazioni transnazionali a rete diventano visibili solo nella misura in cui
danno luogo a scambi di merci o di capitali (IDE compresi) attraverso le frontiere.
Ma, in una relazione a rete, lo scambio essenziale è quello del coordinamento nella
divisione del lavoro e della condivisione nelle conoscenze impiegate.
L’internazionalizzazione, in altre parole, assume una forma comunicativa, che
eccede gli scambi di merci e capitali tipici delle forme precedenti: gli operatori della
filiera trans-nazionale mettono in comune esperienze e competenze che hanno
origine in paesi diversi, accompagnando o meno questa contaminazione dialogica di
esperienze e competenze con movimenti di merci e di capitali.
L’internazionalizzazione diventa un processo di propagazione transnazionale della
conoscenza, da un’impresa all’altra, da un paese all’altro.
13
Grandinetti R., Rullani E., Impresa transnazionale ed economia globale, NIS, Carocci,
Roma, 1996, cap. 2.
14
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
E qui si tocca con mano l’insufficienza degli attuali mezzi di rilevazione e
misura. Infatti, i flussi comunicativi, che generano coordinamento e condivisione
internazionale delle conoscenze, sono rilevati alla frontiera solo se fornitori e clienti
nella rete transnazionale scambiano tra loro macchine, materie prime, componenti,
servizi. O meglio, le conoscenze incorporate in tali supporti materiali. Ma è
praticamene impossibile distinguere questi scambi - che appartengono ad una filiera
stabile di divisione del lavoro, condivisione delle conoscenze e stabilità dei rapporti
- da quelli che invece avvengono sul mercato tout court, tra venditori e acquirenti
che non hanno alcun legame tra loro, e che sono governati quindi da convenienze
contingenti. O da quelli che avvengono all’interno dell’impresa multinazionale, tra
le diverse filiali che la compongo.
Anche per questa ragione, la produzione transnazionale a rete rimane in buona
parte invisibile e non rilevata. La letteratura di economia internazionale si è accorta
per tempo che, con la crisi del fordismo, le cose stavano cambiando. Ma ha preferito
assegnare al nuovo, leggibile nei comportamenti reali delle imprese, uno statuto
residuale. Tutto quello che scavalcava la dicotomia originaria di Williamson (tra
mercato e gerarchia), è stato classificato come una “terza forma” di
internazionalizzazione, abbastanza vaga e indefinita da comprendere un po’ di tutto:
alleanze, licenze, accordi, joint venture, combine tecnologiche, reti di fornitura e di
distribuzione, marchi commerciali congiunti, standard condivisi. Ossia tutto quanto per un verso o per un altro - eccedeva i due modelli classici. Non per niente, nello
studio delle forme, la tendenza prevalente, dopo la fine del fordismo, è quello di fare
dell’eclettismo la regola, potendo solo in questo modo dare conto di fenomeni che
eccedono le forme tipiche tradizionali14. Anche le relazioni ravvicinate fornitorecliente, che erano classificate come “mercato” dalla scuola anglosassone di
marketing industriale, possono rientrare in questa accezione, se il mercato di cui si
parla è ricco di elementi di unicità, relazionalità, insostituibilità. La scuola svedese
delle “reti di mercato” e del marketing relazionale esprime bene questo bisogno di
ibridazione dei vecchi concetti col nuovo, che sta emergendo dalla realtà15.
Empiricamente, la “terza forma” è diventata sempre più importante e
differenziata, man mano che la decadenza delle forme gerarchiche ereditate dal
fordismo dava luogo a fenomeni crescenti di outsourcing, appoggiati a reti stabili di
fornitura e distribuzione. Dissolvendo ordini precedenti, la globalizzazione apre a
ciascun soggetto in gioco un terreno da esplorare: ma lo deve fare a proprio rischio,
senza garanzie preventive16. Ogni percorso diventa unico, appoggiato alle specifiche
valenze del soggetto che lo porta avanti.
14
15
16
Dunning J.H., The Globalization of Business. The Challenges of the 1990s, Routledge,
London, 1993.
Håkansson H., Snehota I., “No business is an island: the network concept of business
strategy”, in Ford D. (ed.), Understanding Business Markets: Interaction, Relationships
and Networks, Academic Press, London, 1990.
Beck U. (1997), Was ist Globalisierung? Irrtümer der Globalismus – Antworten auf
Globalisierung, Suhrkamp Verlag, Francoforte sul Meno, traduzione italiana Che cos’è la
globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma, 1999.
ENZO RULLANI
15
Ma dal punto di vista teorico, questo passaggio si è rivelato un disastro: dovendo
mettere insieme forme eterogenee (e che non possono che essere tali, essendo
definite con criteri residuali), una teoria irrigidita nelle sue forme non ha trovato di
meglio che ingrossare il drappello delle eccezioni, definendo in negativo le nuove
situazioni osservate, viste come “diverse”, “nuove”, “particolari”, ecc..
Un’internazionalizzazione eclettica, appunto, dove ogni caso è unico. E dove,
quindi, può succedere tutto e il contrario di tutto.
Ma è proprio vero che l’internazionalizzazione dei nostri giorni è destinata a
precipitare nella palude dell’indistinto, dove tutti i gatti sono bigi perché le loro
differenze sono contingenti, casuali, irrilevanti?
La risposta è no17. La proliferazione incontrollata di nuove forme, come spesso
accade a teorie che hanno perso l’aderenza col reale, è solo il punto di arrivo di una
incomprensione di fondo. Avendo messo da parte la dimensione cognitiva
dell’internazionalizzazione, la teoria ha cercato di riportare quello che succedeva ad
una geometria delle forme che, se non si guarda al fine servito, non può che
moltiplicare i modelli e gli esiti, riempiendo tutto lo spazio del possibile. Per non
rimanere schiacciati da questa valanga di forme e di varietà, c’è un solo modo:
tornare ai fondamentali, ossia alle ragioni cognitive che, nella modernità,
sottostanno alla propagazione della conoscenza, e dunque anche alla propagazione
che, ad un certo punto, attraversa i confini, trasformando in inter-nazionali processi
che - senza il processo propagativo - potevano rimanere soltanto nazionali o locali.
Le forme (organizzative) possono essere eclettiche, contingenti. Ma la loro funzione
(cognitiva) no. E’ questa funzione che la teoria deve considerare in positivo per
capire la logica che governa l’internazionalizzazione di oggi.
7. Ciò che resta nell’ombra: la natura cognitiva dell’internazionalizzazione
Partiamo da un punto: l’economia moderna, in tutte le sue varianti ed epoche, è
un’economia intrinsecamente internazionale. Tanto che il tentativo di descriverla
come un’economia nazionale che ad un certo punto “si apre” a flussi esterni ha,
come abbiamo visto, il fiato corto.
La ragione di questo intimo legame tra modernità e internazionalità è semplice:
la conoscenza, che è la forza produttiva chiave della produzione moderna, non
tollera troppe restrizioni alla sua circolazione e al suo uso, perché la conoscenza
genera valore propagandosi, ossia allargando il bacino dei potenziali usi.
L’allargamento è in parte di tipo merceologico, nel senso che la stessa base di
conoscenza viene impiegata per applicazioni diverse, spesso rivolte a bisogni e
settori di uso lontani. Ma c’è anche un allargamento di tipo geografico: se i confini
sono abbastanza permeabili, non ha (economicamente) senso produrre conoscenze
17
Grandinetti R., Rullani E., Impresa transnazionale ed economia globale, NIS, Carocci,
Roma, 1996, par. 3.3.
16
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
simili in luoghi diversi, duplicando i costi e i rischi. La tendenza spontanea dei
mercati, e anche i criteri di benessere collettivo, spingono verso un’altra direzione: è
conveniente specializzare i processi di apprendimento che si svolgono in ciascun
luogo, collegando a valle questi percorsi specializzati, in modo che possano
scambiarsi quanto hanno imparato nei rispettivi campi, mettendo in comune (“in
rete”) le conoscenze da condividere.
Si dirà: ecco la solita vecchia storia della divisione internazionale del lavoro
sulla base dei vantaggi comparati, che già Davide Ricardo propugnava, con l’intento
di migliorare l’efficienza allocativa delle risorse in ciascuno dei paesi interessati allo
scambio.
Invece non è così, o, almeno, non è soltanto così. C’è di più e di meglio, rispetto
al traguardo della massima efficienza allocativa di fattori immobili, che, essendo
disgraziatamente impossibilitati a spostarsi, cercano di rimediare a questo handicap
inventando la soluzione (second best) del commercio tra produttori che si
specializzano secondo la regola dei costi comparati.
Infatti, se si mette di mezzo la conoscenza cambia tutto. Il quadro non è più
quello. La divisione del lavoro non rimedia ad una imperfezione di partenza
(l’immobilità dei fattori), riducendone gli effetti negativi; ma genera valore
propagando un fattore mobile per eccellenza e modificando, con questa
propagazione, dei fattori - mobili o immobili - localizzati nei diversi paesi.
I vantaggi di questa divisione del lavoro cognitivo tra luoghi diversi, dunque,
non sono di tipo allocativo. Non si tratta di allocare i fattori di ciascun luogo alle
produzioni per cui quel luogo e quei fattori risultano comparativamente più adatti.
Ma si tratta di fare un’altra cosa: di replicare a costo zero (o quasi) le conoscenze
prodotte in un luogo, allargando al massimo (e dunque ad altri luoghi) il loro bacino
di impiego. La conoscenza che viene “importata” o “esportata”, è qualcosa in più,
che si aggiunge alle conoscenze già possedute da ciascuno. Lo scambio di
conoscenze da un luogo all’altro non impoverisce gli altri usi, perché la conoscenza
è una risorsa che non si consuma con l’uso, ma può essere invece moltiplicata e
condivisa. Averla non toglie niente agli altri (dal punto di vista del valore che
possono generare per il consumo finale) e aggiunge qualcosa a vantaggio di chi la
riceve e di chi la usa.
Il vantaggio, in questo caso, è di natura moltiplicativa, non allocativa.
Con due conseguenze teoriche di prima grandezza:
1) la specializzazione internazionale nell’economia della conoscenza produce i suoi
vantaggi non perché assegna alle diverse operazioni da fare i fattori più adatti,
ma perché abbatte per tutti i costi di produzione delle conoscenze, se queste
possono essere “importate” da altri paesi o condivise con essi. Anche se, per
assurdo, la specializzazione portasse ad allocare i fattori alle operazioni per cui
sono meno adatti, si avrebbe comunque un vantaggio rispetto all’ipotesi del faida-te autarchico, in cui ciascuno produce da sé le conoscenze di cui ha bisogno;
2) i vantaggi della divisione del lavoro cognitivo possono essere conseguiti in molti
modi diversi, perché quello che conta è riuscire a trasferire o condividere le
ENZO RULLANI
17
conoscenze tra i vari luoghi e i vari sistemi sociali che coesistono nell’economia
internazionale, allargando il bacino di uso di ogni conoscenza disponibile. A
questo fine, non ci sono forme di internazionalizzazione “vecchie” (nel senso di
obsolete) e “nuove” (nel senso di più innovative e moderne). Tutte le forme di
internazionalizzazione, vecchie e nuove, possono portare un contributo valido
alla generazione del valore, se favoriscono la propagazione delle conoscenze, in
forme che sono da giudicare caso per caso, paese per paese.
8. La forza che muove il mondo: la propagazione della conoscenza, in
tutte le forme possibili
Non ci sono dunque forme “ideali”. Quello che conta è la prestazione cognitiva
fornita da ciascuna forma, in concreto. Anzi la pluralità delle forme possibili e
osservabili nella realtà è una ricchezza dell’economia internazionale. La
propagazione ha bisogno di tanti sentieri, e quelli meno battuti possono portare a
soluzioni specializzate che non scompaiono, ma anzi acquistano valore, grazie alla
scala sempre più ampia che caratterizza i circuiti cognitivi dell’economia globale.
Non importa, dunque, se il trasferimento o la condivisione avvengono attraverso
scambi di mercato (vendita di macchine, licenze, materiali, componenti, servizi
ecc.), attraverso il coordinamento gerarchico (flussi di materiali, persone e
informazioni tra le diverse parti di una grande impresa multinazionale), attraverso
relazioni a rete (fornitori-clienti, alleanze, conoscenze e servizi distribuiti a più
utilizzatori ecc.). O anche attraverso forme peculiari come la copia e l’imitazione
non autorizzata, magari ai limiti della legalità. Tutte queste forme vanno giudicate in
rapporto alla funzione cognitiva chiave che svolgono. Che è quella di alimentare la
propagazione, volontaria o involontaria, delle conoscenze. Ai fini della generazione
di valore economico, ciò che conta non è tanto la bontà dell’allocazione di mercato o
del programma manageriale impiegato, ma il fatto che la propagazione comunque si
realizzi. Con il corollario - non da poco - che la propagazione diventa durevole e
sostenibile nel tempo se i soggetti coinvolti ne ricevono, in qualche modo, un
guadagno a compenso dei costi e dei rischi assunti, cosa che li induce a perseverare,
producendo e propagando conoscenze addizionali per ripetere il gioco
dell’apprendimento e della propagazione estesa più volte che si può.
In questa ottica, si può rileggere tutta la storia e la dottrina
dell’internazionalizzazione, scoprendo che le forme di volta in volta emerse, e
vissute come novità assolute, non sono altro che varianti della propagazione
sostenibile delle conoscenze, sopra descritta.
L’internazionalizzazione mercantile, in effetti, è stata la prima forma di
internazionalizzazione cognitiva: essa ha allargato in modo prepotente i bacini di
uso della conoscenza facendo circolare macchine, brevetti e conoscenze copiate o
imitate (con un po’ di pirateria). E facendo circolare in bacini di uso ampi le
conoscenze incorporate nell’energia (elettricità, petrolio), nei materiali (acciaio),
nelle derrate alimentari, nei tessuti e in tutti gli altri prodotti ottenuti con uso di
18
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
lavoro cognitivo. L’internazionalizzazione gerarchica ha fatto fare alla propagazione
sostenibile un salto di qualità. Essa ha, infatti, affiancato alle linee esterne
(mercantili), le linee interne che propagano la conoscenza proprietaria nel circuito
controllato dalle grandi organizzazioni fordiste. Grazie all’estensione del comando
unitario che ordina le grandi imprese verticalmente integrate, come il modello
fordista richiede, la conoscenza prodotta dal lavoro cognitivo di ricerca e sviluppo,
innovazione, organizzazione, controllo, vendita ecc. circola su scala sempre più
estesa, aumentando i volumi produttivi (ossia le replicazioni di uso), grazie alla
crescita dimensionale delle fabbriche e delle imprese. E grazie alla parallela crescita
delle loro linee di distribuzione, vendita, produzione all’estero.
Le economie di scala che sono alla base del successo della produzione fordista
derivano non tanto da economie tecnologiche (grandezza dell’impianto) o di potere
contrattuale (quote di mercato), quanto dalla possibilità di replicare su grandi volumi
e su una pluralità di usi le conoscenze impiegate per progettare il prodotto, mettere a
punto le macchine, organizzare le linee, gestire i processi produttivi, stabilire un
rapporto di fedeltà con i consumatori. Gli stessi marchi e la pubblicità che li sostiene
diventano modi per consolidare i volumi di vendita di pochi grandi produttori,
creando standard di fatto che il mercato riconosce e rispetta, cosicchè le economie di
replicazione crescono in modo corrispondente. E’ scontato che il processo di
propagazione cognitiva, lungo le linee proprietarie della grande impresa fordista,
punti dritto a scavalcare le frontiere per cercare occasioni di replicazione all’estero,
allargando il bacino degli usi al massimo possibile. L’internazionalizzazione, in
questo senso, è un sottoprodotto della crescita dimensionale: si va all’estero non solo
per cercare varietà di fattori e di mercati diverse da quelle reperibili nell’ambito
domestico, ma anche, soltanto, per allargare il circuito del ri-uso, portando a casa un
maggiore sfruttamento delle conoscenze proprietarie, firm specific.
Ma lo stretto rapporto tra propagazione e internazionalizzazione non viene meno
anche quando - negli ultimi trenta anni - cominciano ad emergere le cosiddette
“nuove forme”: alleanze, accordi tecnologici, joint venture, ecc.. Nel momento in
cui la rigidità del sistema di produzione e propagazione fordista, attestato sulle
proprie linee interne, comincia ad allentarsi, si va alla ricerca di filiere cognitive che
continuino a generare valore attraverso la moltiplicazione e il riuso della
conoscenza, anche se in forme meno compatte e monolitiche.
La ratio di fondo dell’internazionalizzazione, dunque, non cambia:
semplicemente, di fronte ad un mondo diventato complesso e fuori del controllo
proprietario delle grandi organizzazioni, la propagazione transnazionale delle
conoscenze cerca nuove vie. E le trova, contando anche sul fatto che nuovi paesi,
prima esclusi dal mercato capitalistico, entrano in gioco (come la Cina, la Russia,
l’Europa dell’Est). La potenza pervasiva di Internet e delle ICT fa il resto: il mondo
si trova ad essere un villaggio globale, e nel villaggio globale sarebbe assurdo
duplicare i costi della produzione di conoscenza.
La propagazione, che una volta era confinata a scambi mercantili tra un numero
limitato di paesi e ai flussi interni di sistemi proprietari gestiti dalle poche imprese
dotate di dimensione multinazionale, si moltiplica per due, tre, dieci volte.
ENZO RULLANI
19
Arrivando in questo modo a sconvolgere l’equilibrio dei costi, dei ricavi e delle
posizioni di mercato raggiunto in precedenza, in presenza di livelli assai minori di
propagazione e di ri-uso delle conoscenze disponibili.
Se questa ricostruzione ex post appare ragionevole, essa ci indica quali siano i
nuovi occhi di cui abbiamo bisogno per capire ciò che sta succedendo in questo
momento: gli occhi dell’internazionalizzazione cognitiva. Essi consentono di vedere
senza difficoltà, al di là delle statistiche (che mancano), le forme altrimenti invisibili
di propagazione che “sbloccano” la conoscenza in precedenza accumulata all’interno
di sistemi proprietari chiusi e la mettono in circolo nella rete transnazionale delle
comunicazioni e delle transazioni, creando - certo - dei corti circuiti, ma aprendo
anche nuovi continenti da esplorare.
Ma quanto pesa, sul sistema economico complessivo, l’internazionalizzazione
cognitiva di cui stiamo parlando, con i processi di propagazione conseguenti? Il
discorso fatto riguarda solo una parte del lavoro prestato nel sistema produttivo,
ossia solo il lavoro prestato per produrre la conoscenza, propagarla, replicarla negli
usi. Verissimo: ma il lavoro cognitivo è oggi il 90% o più del lavoro prestato nel
circuito dell’economia moderna. Dunque, il lavoro cognitivo è il lavoro tout court. Il
discorso fatto sulla propagazione sostenibile riguarda tutta l’economia di oggi, e non
solo i settori high tech o la ristretta élite dei “lavoratori della conoscenza”18.
Non era così nelle epoche pre-moderne, quando il lavoro era soprattutto una
fonte di energia (muscolare) per lavorare la terra, fabbricare oggetti, trasportare
materiali. E non era così nei primi secoli dopo l’avvento della macchina, quando
rimanevano molte operazioni “di fatica”, o fortemente logoranti. Col tempo, tuttavia,
questi lavori sono stati assegnati a macchine o sono stati ripensati in modo da non
gravare più di tanto sul fisico del lavoratore. In corrispondenza, il lavoro - tutto il
lavoro, anche quello dell’operaio, del contadino, del portinaio - ha assunto un
contenuto cognitivo sempre più marcato: il tempo di lavoro e le energie personali
sono impiegate per produrre conoscenze, per trasferirle, per usarle. Con la
conseguenza che, una volta tradotto il lavoro in conoscenze, scatta la convenienza a
propagarle e trarre valore dalla loro propagazione. L’internazionalizzazione, in
questo senso, è un esito necessario della modernità, una sorta di fiume in piena
generato dall’uso produttivo della conoscenza. Un fiume condizionante e
minaccioso, certo, ma di cui oggi - con l’irruzione dell’economia globale nella vita
quotidiana - si comincia ad apprezzare lo spessore cognitivo e il valore economico.
9. L’internazionalizzazione italiana: luci ed ombre
Se, in questo quadro, diamo uno sguardo all’internazionalizzazione
dell’economia italiana possiamo capire meglio le ragioni di quella invisibilità di cui
abbiamo parlato. Le imprese italiane, nelle filiere internazionali a cui appartengono,
18
Rullani E., Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti,
Carocci, Roma, 2004.
20
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
sono infatti specializzate non nella produzione/propagazione di nuove conoscenze di
base o ad alto contenuto di scienza e tecnologia, ma nella produzione/propagazione
delle più modeste conoscenze applicative, connesse ad innovazioni d’uso19.
E le innovazioni d’uso, guardate con il filtro cognitivo tarato su quanto fanno
altri paesi - come Stati Uniti, Germania, Giappone ecc. - sembrano “povere” di
conoscenza e poco rilevanti. La nostra stessa internazionalizzazione sembra
consistere solo nel flusso delle esportazioni di prodotti tradizionali, oggi minacciati
dall’emergere della concorrenza cinese.
Dunque, non solo abbiamo fatto poco (e male) ma la diagnosi è infausta: non c’è
scampo. Nel confronto competitivo che si apre, vinceranno quelli che usano forme
di internazionalizzazione più pesanti, appoggiate a conoscenze proprietarie prodotte
con massicci investimenti in ricerca e sviluppo e innovazione tecnologica.
In realtà, le cose appaiono diverse, e meno disperate, se si adottano gli occhi
dell’internazionalizzazione cognitiva. Che ci dicono essenzialmente due cose:
a) dal punto di vista della propagazione della conoscenza, le imprese italiane,
praticando da tempo - e con risultati eccellenti - il terreno delle innovazioni di
uso, fanno parte a pieno titolo della filiera cognitiva transnazionale, ossia di
quel processo che genera valore usando le conoscenze tecnologiche di base per
arricchire il significato e il servizio reso agli utilizzatori finali, fino al consumo.
Non è detto che, nelle filiere cognitive, i produttori di conoscenze di base siano
più importanti e più remunerati degli utilizzatori intelligenti che propagano
queste conoscenze facendo innovazioni di uso che vengono incontro a bisogni
insoddisfatti, alimentano emozioni e desideri nuovi, fanno emergere identità
latenti. La questione non è tanto se siamo posizionati sul segmento high tech o
low tech, perché, da questo punto di vista si può perdere o guadagnare in
ambedue (l’high tech costa molto, e rende altrettanto se i risultati ottenuti sono
buoni; il low tech costa meno ed è, dunque, logico che rende meno). La
questione è se, facendo innovazioni di uso, siamo o no capaci di elaborare
conoscenze originali ed esclusive in questo campo. E, da questo punto di vista,
come diremo, l’Italia ha sicuramente fatto troppo poco, finora, anche se, sotto i
colpi della crisi si comincia a fare molto di più e, come si dice, “per i miracoli ci
stiamo attrezzando”;
b) l’internazionalizzazione italiana non potrà recuperare rapidamente il gap
accumulato nelle forme tipiche delle grandi imprese multinazionali (gli
investimenti diretti all’estero, il controllo diretto di reti produttive
internazionali). Ma può invece fare molto, e sta già facendo molto, sul terreno
delle nuove forme che propagano la conoscenza attraverso l’allargamento
transnazionale delle filiere attuali, a monte e a valle, potenziando le capacità di
accesso a quanto di nuovo viene prodotto nel mondo sotto il profilo delle
tecnologie, dei materiali, dei modelli estetici e comunicativi, dei sistemi
informatici, delle conoscenze di base nei vari settori del business. Queste sono
19
Von Hippel E., The Sources of Innovation, Oxford University Press, Oxford (UK), 1988.
ENZO RULLANI
21
due sfide rilevanti che il sistema italiano sta in parte già raccogliendo, sia pure
lontano dai riflettori e in forme celate alle statistiche correnti; e che, soprattutto,
potrà raccogliere con maggiore determinazione in futuro, se si diffonde la
consapevolezza che questa è il terreno in cui possiamo investire e innovare (negli
usi), per partecipare senza complessi di inferiorità alla rapida crescita
dell’economia transnazionale.
10. Le leve strategiche da usare: accesso, creatività e moltiplicazione
nelle innovazioni di uso
Le innovazioni di uso non sono “improvvisazioni” appoggiate alla genialità e
all’intuito dell’imprenditore. Se fosse così - e in alcuni casi è così - avrebbero
alimentato la fenomenologia del “grande sarto”, dell’artigiano di qualità, che è un
po’ artista, dell’imprenditore di nicchia che nessuno conosce ma che gira in Ferrari,
grazie al colpo di genio o di fortuna che gli è capitato nella vita. Tanti casi curiosi ed
eccellenti che tuttavia non fanno un’economia dell’innovazione di uso su cui si
regge il benessere di 50 milioni di persone.
L’innovazione di uso ha un atto di nascita - il momento in cui si prende la
decisione di fare qualcosa di nuovo - ma è lungamente incubata da condizioni
personali, organizzative e ambientali che devono essere preparate a poco a poco. E
che danno la possibilità di fare innovazioni sulla frontiera (rispetto ai concorrenti),
non scontante e non banali. E soprattutto moltiplicabili attraverso la successiva
propagazione dell’idea originaria.
Tre sono le condizioni di contesto che favoriscono lo sviluppo di un consiste
flusso di innovazioni di uso, suscettibili di propagazione:
-
-
20
21
una elevata capacità di assorbimento (absorptive capacity)20 delle conoscenze
altrui, che circolano nei circuiti cognitivi, a cui bisogna avere accesso senza
barriere che ritardino la comprensione di quello che di nuovo nasce nella scienza,
nella tecnologia e nell’economia transnazionale;
un’elevata creatività21, che consenta di rielaborare in forme originali ed esclusive
le migliori conoscenze disponibili aggiungendo ad esse la propria
immaginazione riguardo agli usi e la propria capacità di comunicare e capire i
bisogni/desideri dei possibili utilizzatori;
Cohen W.M., Levinthal D.A., “Absorptive capacity: a new perspective on learning and
innovation”, Administrative Science Quaterly, n. 35, 1989.
Bettiol M., Micelli M., “Competitività dei distretti e design: rinnovare le basi della
creatività”, in Bettiol M., Micelli S. (a cura di), Design e creatività nel made in Italy.
Proposte per i distretti industriali, Bruno Mondadori, Milano, pp. 105-132, 2005; Bettiol
M., Rullani E., “Cultura e strategia d’impresa: produrre valore mediante significati”, in
Osservatorio Impresa e Cultura (a cura di), Cultura e competitività. Per un nuovo agire
imprenditoriale, Rubbettino, Soveria Mannelli, pp. 244-270, 2003.
22
-
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
un sistema di standard e di collegamenti che consenta di moltiplicare22 le buone
idee di cui si viene in possesso e a cui i mercati danno una risposta iniziale
positiva. La moltiplicazione può avvenire vendendo prodotti materiali standard
in alti volumi (commodities), ma anche in forme più flessibili e duttili,
maggiormente adatte alle nostre imprese. Ad esempio si possono tessere
alleanze, allargare filiere, investire in distribuzione, marchi e servizi postvendita,
codificare stili, mode ed estetiche comunicative, far crescere servizi multi-client,
alimentare lo sviluppo di professionalità del lavoro specifiche che, circolando,
propagano gli usi, costruire reti di uso condiviso di conoscenze protette dalla
proprietà intellettuale, mettere in piedi circuiti di franchising, e altro ancora.
Come si vede alla figura n. 1, è la compresenza di queste diverse leve (accesso,
creatività, moltiplicazione) che differenzia un’innovazione “geniale”, ma di scarso
impatto economico, da un’innovazione che invece, pur apparendo apparentemente
minore, è in grado di fruttare valore e vantaggi competitivi per chi la fa.
ACCESSO
Capacità di
assorbimento
CREATIVITA’
Ambiente creativo
Contatto col
cliente
Le tre leve della propagazione
MOLTIPLICAZIONE
Moltiplicazione
regolata degli usi
Fig. 1: Produrre valore con la conoscenza
Fonte: nostra elaborazione
L’Italia ha fatto molto e bene, nello sviluppo di queste funzioni. Ma oggi le
risorse di accesso, creatività e moltiplicazione di cui disponiamo sono invecchiate.
Le nostre imprese sono uscite dalla crisi del fordismo, negli anni settanta,
rendendola praticamente indolore, attraverso l’uso intensivo del “capitale sociale”
22
Rullani E., Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti,
Carocci, Roma, 2004; Rullani E., “Knowledge management: produrre valore attraverso le
conoscenze”, in Boccalari R. et al., Competenze. Leva di eccellenza delle persone e delle
organizzazioni, Franco Angeli, Milano, pp. 140-179, 2004.
ENZO RULLANI
23
disponibile nei sistemi locali. Il territorio ha fornito risorse (gratuite o semi-gratuite)
per l’accesso, per la creatività e per la moltiplicazione. Come si vede alla fig. n. 2,
questo passaggio non ha richiesto grandi investimenti in capitale intellettuale e
relazionale, perché conoscenze e relazioni sono state trovate, a costi bassi o nulli,
“sul territorio”. La tipica impresa distrettuale spende pochissimo per l’assorbimento
delle conoscenze altrui (che copia o imita, oppure acquista incorporate nelle
macchine), per la creatività e il rapporto con i clienti (che le persone mobilitate dalla
filiera organizzano senza tante difficoltà, grazie alla contiguità fisica e all’ingegno
personale) e per la moltiplicazione (il distretto costituisce un moltiplicatore ideale,
che fa di un’idea cento idee, e di un’impresa cento imprese).
Tutto bene (il ciclo innescato da questo modello è durato trenta anni), ma con un
neo: il tutto si è svolto senza investire in capitale intellettuale e relazionale. Ma
utilizzando a costi bassi e con investimenti limitati il capitale intellettuale e
relazionale prodotto dalla storia (i municipi), dalla natura (contiguità fisica) e dalla
comunità locale (i servizi specializzati, le regole arbitrate dalle istituzioni e dalle
rappresentanze locali, la fiducia derivante dall’esperienza diretta).
ACCESSO
Macchine,
Lavoro specializzato,
Imitazione
CREATIVITA’
Flessibilità,
Piccole serie
Creatività personale
Conoscenze informali sedimentate nei luoghi
MOLTIPLICAZIONE
Distretti,
Catene di subfornitura
Fig. 2: In passato: la propagazione che c’è stata nel Nordest e nella Terza Italia
Fonte: nostra elaborazione
Oggi questo non è più possibile, come è illustrato dalla fig. n. 3.
Per accedere alle nuove conoscenze - diverse dalla base meccanica ed
elettromeccanica che sta nel nostro DNA - occorrono linguaggi formali, applicazioni
di qualche peso nella ricerca (per far parte della rete mondiale della ricerca, in modo
da assorbire i risultati altrui) e reti lunghe, perché le novità oggi si propagano
rapidamente a scala planetaria. Il capitale sociale di cui disponiamo non basta più a
garantire un accesso efficace alle conoscenze altrui. Dunque bisogna investire in
24
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
linguaggi formali (istruzione), ricerca e collegamenti cognitivi con i centri più
avanzati esistenti nel mondo, e in campi come l’informatica, l’elettronica, le
biotecnologie, le nanotecnologie ecc. in cui abbiamo poca esperienza. Non per
diventare leader nella produzione di conoscenza di base in questi ambiti del sapere,
ma per essere capaci di usare i nuovi materiali, le nuove energie, le nuove soluzioni
tecniche o comunicative per fare quello che sappiamo fare meglio, ossia le
innovazioni di uso (nell’arredamento della casa, nell’abbigliamento della persona,
nello stile e qualità della vita, nella cultura, nel turismo e nel cosiddetto wellness
ecc.).
ACCESSO
Linguaggi formali,
Ricerca, Reti lunghe
CREATIVITA’
Ambiente metropolitano,
Comunità epistemiche,
Multiculturalità
Che cosa manca (e rimane da fare)
MOLTIPLICAZIONE
Reti globali aperte a monte
e a valle, Marchi,
Investimenti commerciali
Fig. 3: Oggi: serve una propagazione diversa
Fonte: nostra elaborazione
Ma anche la creatività che ci serve per stare nel ciclo internazionale delle
conoscenze è cambiata. Oggi le persone creative si muovono nel mondo e dunque
bisogna essere in grado di attrarle in sistemi locali che spesso non sono adatti alla
loro vita quotidiana e a quella delle loro famiglie. Serve la qualità multiculturale ed
aperta degli ambienti metropolitani. Che non devono necessariamente essere limitati
a quelli “naturalmente” prodotti dalle grandi metropoli, ricche di contatti e di
diversità, ma anche di inquinamento, confusione e congestione. Bisogna invece
creare un ambiente metropolitano - dotato di una qualità della vita di tipo
metropolitano - laddove la storia ha prodotto, invece, un sistema disperso e poco
connesso. C’è da addensare la popolazione e le conoscenze in certi luoghi, in certe
occasioni, con certe finalità, all’interno di reti estese, che coinvolgano qualche
milione di persone e che contengano molti elementi di condivisione epistemologica,
di multi-culturalità, di apertura al nuovo e allo sperimentale.
Inoltre, per essere creativi nell’uso, bisogna avere un rapporto profondo,
ENZO RULLANI
25
intuitivo, con i potenziali utilizzatori dei nostri prodotti/servizi: e questi oggi stanno
sparsi per il mondo. Sono i nostri imprenditori che devono essere in grado di
intercettarli e legarli affettivamente e comunicativamente alla nostra cultura e
sensibilità, ma questo non si può fare se non si spostano migliaia di persone nei
circuiti globali, se non si tessono alleanze, se non si investe in distribuzione, marchi,
assistenza al cliente, comunicazioni ICT. Anche per la creatività, dunque, servono
investimenti molto maggiori che in passato.
Infine, la moltiplicazione. Le filiere distrettuali devono estendersi molto a monte
e a valle per raggiungere - nella fornitura e nelle distribuzione - la scala dei nuovi
competitor, realizzando forme di moltiplicazione che possano stare a confronto con
le dimensioni coinvolte da mercati come quello americano, giapponese, cinese ecc..
Ma bisogna anche imparare a usare meglio le competenze presenti nei servizi
specializzati (che devono a loro volta internazionalizzarsi), la proprietà intellettuale,
le alleanze nella distribuzione e nell’approvvigionamento, le reti di franchising.
Ma il problema, in questa trasformazione è: chi farà questi investimenti?
Assegnare nuove (costose) funzioni allo Stato, come si sente spesso dire nel dibattito
sul che fare, non serve a niente. Lo Stato potrebbe certo fare qualcosa di più nella
ricerca, nell’istruzione e nei servizi essenziali. Ma certo, i suoi tempi di risposta si
sono finora rivelati biblici e i suoi metodi spesso affannosi e inconcludenti.
Dunque, con un po’ di pragmatismo, si può dire:
1) gli investimenti per riposizionare l’economia italiana nell’internazionalizzazione
cognitiva vanno fatti, perché il capitale intellettuale e relazionale di cui
disponiamo è diventato obsoleto, e non garantisce più l’accesso, la creatività e i
moltiplicatori necessari per far ripartire l’innovazione d’uso, che si è un po’
appannata negli ultimi anni;
2) questi investimenti possono essere richiesti a tutti, ma di fatto li faranno le
imprese e le famiglie. Sempre che ne abbiano la convenienza e la possibilità.
E’ su questo che dobbiamo lavorare, adottando i nuovi occhi che rendono
possibile identificare che cosa veramente serve e resta da fare. Bisogna domandarsi
in che modo possiamo rendere possibile e conveniente alle famiglie, da una parte, e
alle imprese, dall’altra, investire una quota consistente della loro ricchezza per
rigenerare le risorse di accesso, creatività e moltiplicazione di cui disponiamo.
11. Il nuovo, che diventa visibile: nelle filiere multilocalizzate, emerge
l’impresa-rete
Da questo punto di vista è importante dire che non si parte da zero. Anche l’Italia
ha i suoi pionieri che già stanno esplorando il nuovo continente e che possono, col
tempo, e creando gli opportuni legami, trascinare gli altri.
I distretti stanno diventando, passo per passo, filiere multilocalizzate, in cui le
forniture non sono più soltanto locali, ma in quota crescente provengono dal circuito
internazionale (anche per effetto dei prodotti low cost); e in cui la vendita richiede
tutta una serie di presidi, impegnativi e costosi, sui mercati esteri.
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
26
Certo non tutte le imprese possono partecipare allo stesso titolo a questa
trasformazione. Ci sono imprese di subfornitura troppo piccole per porsi
autonomamente questo problema, ma che - volenti o nolenti - possono “imparare” a
fare qualcosa si nuovo sulla scia delle nuove esigenze e richieste dei precedenti
committenti, che cominciano ad adottare la logica della filiera multi-localizzata. Ma
ci sono anche imprese di servizi che propongono al mercato forme di capitale
intellettuale e relazionale nuove, capaci di facilitare la transizione verso nuove basi
di conoscenza e innovazioni d’uso diverse dal solito. Ci sono poi le imprese leader
che, anche per il peso che hanno nei sistemi produttivi locali (e sul retroterra della
loro catena di fornitura) possono essere i “pionieri” già impegnati ad esplorare il
nuovo. Per adesso nell’interesse della sopravvivenza aziendale; ma in futuro anche,
in certi casi, nell’interesse dell’evoluzione competitiva del territorio di origine.
Quanti sono e quali sono i pionieri su cui possiamo contare? Come abbiamo
detto non è facile dirlo perché essi restano invisibili agli schemi consueti con cui
guardiamo l’internazionalizzazione e alle statistiche che misurano esportazioni e
investimenti diretti. Ma ci sono.
Per intercettarli, l’Osservatorio TeDIS23 ha monitorato, nel corso del tempo, il
cambiamento delle medie imprese presenti nei principali distretti industriali italiani.
Ossia più di 700 imprese, distribuite nei diversi settori e aree, dell’economia
distrettuale italiana. Le loro caratteristiche sono esposte alla tav. 1.
Attività prevalente
Fatturato medio
Classe di fatturato prevalente
Addetti medi
Classe di addetti prevalente
Export medio
Posizione competitiva
Appartenenza a un gruppo
52,5% prodotti finiti per il mercato
17,5 ml euro
(mediana 9,5 ml euro)
65,1% con fatturato tra 5 e 26 ml euro
73,8
(mediana 45,5)
53,3% < 49 addetti
63,3% con addetti tra 20 e 99
44,0%
23,0% leader
51,8% con posizione di rilievo
28,9%
Tav. 1: Caratteristiche delle medie imprese campionate dall’Osservatorio TeDIS
nei distretti industriali italiani
Come si vede, si tratta dell’élite della nostra imprenditoria distrettuale. Le
imprese intervistate sono fortemente orientate all’export (l’export medio è pari al
44,0% del fatturato aziendale). Hanno già una capacità di presidio dei mercati
23
TeDIS è un centro di ricerca su nuove tecnologie, distretti industriali e
internazionalizzazione delle imprese. Opera all’interno della Venice International
University (VIU), Venezia, San Servolo e tiene da anni un osservatorio che registra i
cambiamenti in corso nei distretti italiani.
ENZO RULLANI
27
internazionali, perché il 37,4% delle imprese dichiara di avere una presenza
strutturata sui mercati esteri, attraverso reti di filiali o consociate commerciali. I loro
processi di internazionalizzazione produttiva, sebbene risultino scarsamente
“visibili” (per le ragioni dette), sono abbastanza consistenti: complessivamente il
28,7% delle aziende intervistate ricorre a reti produttive internazionali. Soprattutto
aumenta in modo rilevante il ricorso a fornitori strategici internazionali e il ricorso a
reti distributive estere. Sta prendendo forma, in questo ristretto campione di imprese,
un modello di business che non è quello tipico dell’impresa distrettuale (chiusa nel
sistema locale, e aperta verso l’esterno solo attraverso l’export di prodotto finito), né
quello tipico delle multinazionali (investimenti produttivi all’estero). Ma è un
modello che usa la leva della filiera di fornitura e della filiera di
commercializzazione/distribuzione, usando sempre più una rete di stabili rapporti
con fornitori e distributori strategici.
Come si vede dalla tav. n. 2, su 219 casi di internazionalizzazione delle attività,
molte imprese ricorrono agli IDE (investimenti diretti all’estero), ma anche a
rapporti stabili con fornitori strategici. Questa modalità è particolarmente presente
nei modelli più evoluti (Nordest e Nordovest), mente il contoterzismo è rilevante
soprattutto per il Sud. Tra i settori, questa soluzione è fondamentale per la moda, ma
anche per la meccanica e per l’arredo casa.
Nord Est
Nord Ovest
Centro
Sud
Totale
Casa-Arredo
Meccanica
Moda
Totale
% su tot.
v.a.
106
53
43
17
219
Internaz.
48,4
24,2
19,6
7,8
100,0
41
68
107
219
18,7
31,1
48,9
100,0
% su
Area/settore
32,3
26,8
25,9
23,6
28,7
21,8
31,9
32,7
28,7
Fornitori Subfornitori
Strategici
C/terzi
IDE
58,5
19,8
62,3
3,8
72,1
18,6
47,1
41,2
61,2
17,4
51,2
66,2
61,7
61,2
19,5
10,3
20,6
17,4
53,8
43,4
16,3
23,5
41,6
58,5
50,0
29,0
41,6
Tav. 2: Modalità di internazionalizzazione del campione, distinto per area geografica
e per settore
Non tutte le imprese del campione, però, sono ugualmente avanti in queste linee
di esplorazione internazionale. Alcune lo sono più di altre e costituiscono
indubbiamente i nostri “pionieri”. Come si vede dalla tav. 3, alcune imprese tendono
ad operare creando reti aperte a monte (nella fornitura) e a valle (nella
commercializzazione e distribuzione). Ma sono solo il 11% del campione totale.
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
28
Alta
Impresa aperta
a monte
10,7%
Impresa a rete
aperta
11,4%
Proiezione
Internazionale
produzione
Impresa locale
tradizionale
51,1%
Bassa
Impresa con
apertura
commerciale
26,7%
Alto
Basso
Presidio dei mercati a valle
Tav. 3: Modelli di impresa e di internazionalizzazione presenti nel campione
Altre imprese, invece, cercano di aprire le loro reti a valle (27%) o,
alternativamente, a monte (11%). Però oltre la metà del campione (51%) non apre né
a monte né a valle: è questo il “ventre molle” - protetto o non reattivo rispetto
all’internazionalizzazione - che effettivamente subisce il fenomeno, conservando fino a che si può - quello che c’è, invece di innovare in forme originali, rispetto al
passato.
I dati dicono che le performance delle imprese più aperte sono superiori, sia sotto
il profilo della crescita che del profitto, a quelle delle altre, più conservatrici. E
questo, per un verso conferma il ruolo pionieristico che abbiamo attribuito alle
prime, ma genera più di qualche preoccupazione per le seconde. E’ infatti chiaro che
la rappresentazione fornita dal dibattito corrente, di un gioco dove le grandi (o
medie, stando in Italia) sanno già dove andare e come fare, mentre i problemi si
concentrerebbero sulle piccole, non è adeguata. Abbiamo metà delle imprese che
sulla carta appaiono come leader che, di fatto, non si stanno adeguando ai nuovi
modi produrre e far circolare la conoscenza nelle reti mondiali. Anche questo è un
epicentro della crisi, di cui occorre darsi carico.
12. Conclusioni
Se ci muniamo di “nuovi occhi” e andiamo a scoprire l’internazionalizzazione
invisibile (quella della propagazione cognitiva), scopriamo che l’Italia ha sviluppato
un posizionamento competitivo - nell’innovazione di uso - che non è perdente per
definizione, come sembrano intendere alcune analisi che vanno per la maggiore. Ma
che è in affanno perchè i fattori a cui si è appoggiato finora (di accesso, creatività e
ENZO RULLANI
29
moltiplicazione) si sono usurati, essendo cambiata la situazione competitiva
internazionale.
Il nostro problema, dunque, non è di rovesciare il paese come un calzino (chi ci
riuscirebbe?), munendolo di dotazioni high tech e di grande impresa che attualmente
mancano, ma, semmai, è di rigenerare le risorse di accesso, creatività e
moltiplicazione per continuare a fare in modo competitivo le cose in cui finora
siamo stati eccellenti, ossia le innovazioni di uso. Bisogna, in altre parole, mobilitare
sul terreno dell’innovazione il sistema imprenditoriale e la cultura di cui
disponiamo, pur riconoscendo che sarebbe importante pensare non solo a mantenere
l’esistente, ma anche a sviluppare iniziative in settori diversi da quelli pre-esistenti.
La questione chiave da affrontare, su questa strada, è tuttavia quella - dura o
ostica - dei maggiori investimenti che devono essere fatti per alimentare la crescita
quantitativa e qualitativa del capitale intellettuale e relazionale a disposizione delle
imprese, dei territori e delle persone. Bisogna infatti avviare su questa strada una
moltitudine di piccole imprese che, finora, si sono abituate ad investire i soldi
(pochi) in macchine e capannoni ma non in conoscenze e relazioni. Per ottenere il
capitale intellettuale e relazionale utile alla produzione, la maggior parte delle nostre
imprese è ricorsa al territorio, sapendolo prodigo di conoscenze e di relazioni, sotto
forma di “capitale sociale”, condensato dalla storia in ciascun sistema locale e
accessibile a costi nulli o molto bassi.
E’ stata, questa, la forza dei distretti e la loro debolezza. Ne sono emerse imprese
attivissime su tutto ciò che si poteva fare sfruttando a fondo il capitale sociale
disponibile, senza investire tempo, denaro e attenzione nello sviluppo di sistemi
propri di accesso, creatività e moltiplicazione. Il territorio, fornendo queste risorse
senza costo, ha reso non necessario e non conveniente, per la maggior parte delle
imprese in gioco, l’investimento nella creazione di proprie competenze distintive e
proprie reti esclusive.
Oggi questa presenza di imprese disabituate ad investire in conoscenze e
relazioni - e anzi abituate ad averle gratis, senza pagare - comincia a pesare. Per
trasformare il sistema attuale bisogna infatti creare sistemi artificiali di
produzione/propagazione delle conoscenze, ossia sistemi che non si trovano già
bell’e prodotti dalla storia o dalla natura.
Non è un ostacolo invincibile, se ci sono abbastanza pionieri disposti ad andare
avanti per esplorare il nuovo e riposizionarsi competitivamente.
Quanti sono questi pionieri?
I dati presentati ce lo dicono: sono pochi, ancora troppo pochi. Non solo tra i
piccoli, che hanno freni oggettivi ad agire come avanguardia nel processo; ma anche
tra le imprese maggiori, una metà delle quali non sembra intenzionata ad adottare
modalità di organizzazione e di azione che consentano di fare le necessarie
economie di scala nella propagazione delle conoscenze, che è vitale anche per chi fa
innovazioni di uso.
Mettiamo il caso che a questa base inerziale, di conservazione delle vecchie
abitudini, si aggiunga il crescente disagio verso le delocalizzazioni (ossia verso le
imprese che più si internazionalizzano). Mettendoci, in sovrappiù una visione
30
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE INVISIBILE
sempre più negativa della crescita economica, che porta immigrati, congestione del
traffico, inquinamenti, cementificazione del territorio. Mescolate bene tutti gli
ingredienti e la frittata è fatta: siamo pronti per chiudere le porte, naturalmente dopo
che i buoi sono scappati. Un sistema aperto come l’Italia, da sempre multiculturale
perché non abbastanza orgoglioso della sua identità nazionale, rischia di chiudersi a
riccio nel vicolo cieco delle misure difensive, anche se in parte giustificate (da
comportamenti off limits di concorrenti sleali).
La globalizzazione è fatta di conoscenze che circolano senza confini. E, in
quanto tale, non si può arrestare mettendo dei paletti alle merci, agli uomini, ai
servizi o anche ai capitali. I paletti, lasciati a se stessi, saranno travolti nel breve
volgere di qualche anno, perché nessuno - e l’Italia per prima - può sottrarsi alla
formidabile opportunità di propagare la conoscenza impiegata nella produzione,
moltiplicandone di tre, quattro, dieci volte il valore.
In realtà, invece di arroccarci in difesa, occorre mettersi sulla lunghezza d’onda
di quella internazionalizzazione che abbiamo definito invisibile e che è,
effettivamente, poco vista dal dibattito in corso. In questa lunghezza d’onda, conta
prima di tutto stare all’interno dei flussi di propagazione, investendo su nuove e più
efficaci forme di accesso alla conoscenza altrui. Ma conta anche essere creativi,
facendo tesoro delle differenze distintive che possiamo creare (con gli opportuni
investimenti) e rendere riconoscibili, facendole apprezzare (in tutti i sensi) dai
potenziali clienti del nuovo circuito mondiale. Infine conta ampliare la scala e le
forme della moltiplicazione degli usi. L’Italia utilizza moltiplicatori troppo bassi e
troppo tradizionali: ma i nuovi moltiplicatori delle filiere globali, multilocalizzate,
non sono fuori della nostra portata.
Il modello su cui puntare, in questo senso, non è tanto quello del mercato aperto
(con i suoi rigori e le sue incertezze) o del potere multinazionale, da grande potenza,
adatto forse ad altri paesi (ma non a noi, che grande potenza non siamo, neanche
tramite la mediazione dell’Europa). Il modello adatto al nostro procedere e alle
nostre pre-esistenze, in realtà, è quello delle relazioni a rete: legami deboli, ma
proprio per questo durevoli, tra parti che investono sul legame reciproco,
considerandolo importante. La strada delle alleanze, delle relazioni di fornitura
stabili, dei contratti di joint venture e di condivisione delle innovazioni e dei rischi è
aperta, anche se in salita.
La produzione e internazionalizzazione a rete è un modello umile, poco costoso
per le nostre imprese (che hanno scarso retroterra finanziario). Ma è un modello
interessante per interlocutori che non vogliono perdere la loro indipendenza e la loro
differenza, entrando nella logica schiacciasassi di chi il potere internazionale lo ha e
lo esercita.
Potenzialmente, saranno gli umili e i deboli, ad ascoltare i clienti, più degli
arroganti e dei forti. E questa disponibilità a sentire gli altri e a dipendere dalle loro
valutazioni, e persino dai loro capricci, può essere alla fine un punto di vantaggio
nella grande economia globale. Un fattore che apre le porte, non le chiude. Potendo
offrire agli interlocutori una merce rara: l’attenzione per il diverso e il sorprendente,
la curiosità per fenomeni che non si pensa di potere e dovere controllare in partenza.
ENZO RULLANI
31
E’ fondamentale, per noi, paese di piccole imprese e di piccoli territori, un
atteggiamento dialogico, che crede nel confronto reciproco, ed è invece scettico
verso le ideologie della modernità astrattiva, impersonale, oggi sempre meno capaci
di auto-giustificarsi e di durare.
La difficoltà del nostro adattamento, insomma, non sono oggettive e non sono
insormontabili. Nella nuova economia internazionale c’è spazio per un approccio
che punti alle nuove forme di innovazione d’uso, sempre che le nostre imprese siano
davvero disponibili ad investire nell’ascolto e nella valorizzazione delle differenze,
nostre e dei nostri possibili interlocutori.
La nostra vera debolezza, di fronte a questa prospettiva, è di natura soggettiva:
abbiamo alimentato forme di soggettività imprenditoriale, politica, sociale che - per
tutta una serie di ragioni - resistono di fronte alla necessità di assumersi rischi,
investire in modo rilevante e prendersi responsabilità impegnative rispetto al proprio
contesto di appartenenza. In passato non ce n’è stato bisogno; e abbiamo, col tempo,
imparato, sin qui, a farne a meno, per quanto possibile. Oggi dobbiamo disimparare
rapidamente quello che è diventato senso comune e atteggiamento prevalente.
Non è per niente facile e neanche probabile. Guardare ai pionieri, in questo
processo, aiuta. Ma non bisogna nemmeno delegare troppi compiti a pochi “capitani
coraggiosi” che non l’hanno chiesto: bisogna che un po’ tutti - le singole persone, le
micro-imprese, le istituzioni nazionali e locali - abbiano gli occhi giusti per vedere
quello che accade. E, soprattutto, quello che potrebbe accadere se ….
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