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confessione e colloquio spirituale
A. Sacchi CONFESSIONE E COLLOQUIO SPIRITUALE Nella vita della chiesa la confessione ha una lunga storia, che è necessario conoscere per comprenderne il significato e per superare gli aspetti di crisi che essa oggi rivela. Con la confessione si intreccia un'altra attività pastorale che consiste nell'aiutare il credente a raggiungere un'autentica maturità spirituale all'interno della comunità. 1. Il perdono dei peccati nella chiesa apostolica Nei libri del NT vi sono parecchi riferimenti al perdono dei peccati, che viene visto come la grande meta a cui tende tutta l'opera di Dio mediante Cristo e la chiesa. Malgrado ciò è difficile ricavare dai testi quale fosse il pensiero di Gesù e dei primi cristiani circa il perdono di coloro che, dopo aver aderito a Cristo e alla chiesa, venivano meno ai loro impegni. a. Gesù promulga il perdono di Dio Nei vangeli tutta l'opera di Gesù viene presentata come una grande lotta contro il potere del male che si annida nel cuore dell'uomo e nei rapporti sociali. Gesù non solo perdona i peccati, ma dà ai suoi discepoli il potere di fare altrettanto. Secondo Marco Gesù afferma di guarire il paralitico «perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati» (Mc 2,10); nel passo parallelo di Matteo si aggiunge che il popolo «rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini» (Mt 9,7). Gesù afferma inoltre: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). In alcuni testi dei vangeli si dice espressamente che Gesù ha conferito ai discepoli il potere di perdonare i peccati. A Pietro che lo aveva confessato come Messia Gesù dice: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19); successivamente conferisce lo stesso potere a tutti i discepoli: «In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo» (Mt 18,18). Infine secondo Giovanni il Risorto, dopo aver alitato su di loro, dice ai suoi: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,23). Quando i Dodici ricevono il potere di sciogliere e di legare, di rimettere e di ritenere, ciò significa che essi sono coinvolti personalmente e responsabilmente nell'opera della riconciliazione. In altre parole essi non possono scegliere liberamente tra il fare o non fare qualche cosa, ma sono autorizzati a sciogliere solo il peccatore pentito e a legare il peccatore non pentito. Se il peccatore non vuole accettare la via della riconciliazione indicata dalla chiesa, è legato alla sua colpa anche in virtù dell'intervento apostolico; mentre, accettando il procedimento che gli è proposto, questo diventa un mezzo di salvezza. Questi testi mettono in luce un grande progetto di riconciliazione di tutti gli esseri umani tra di loro e con Dio nel quale sono coinvolti tutti coloro che lungo i secoli diventeranno discepoli di Gesù. Le affermazioni in essi contenute non si applicano però specificamente al sacramento della confessione, ma abbracciano tutta la missione evangelizzatrice e sacramentale della chiesa. b. Atteggiamenti nei confronti del fratello che pecca Il problema del perdono si pone in un modo più specifico quando si tratta di un fratello che, dopo aver aderito a Cristo ed essere entrato mediante il battesimo nella comunità, ricade in una vita di peccato. La prassi adottata in questi casi non è delineata in modo preciso, ma sembra che, quando si trattava di peccati gravi, il colpevole fosse espulso dalla comunità. Dopo una serie di tentativi volti a ottenere il suo ravvedimento, il peccatore contumace doveva essere considerato come un pagano o un pubblicano (Mt 18,17). Un fedele che ha offeso gravemente Paolo deve essere castigato, ma poi è perdonato (2Cor 2,5-11). -1- L'incestuoso di Corinto deve essere «tolto di mezzo» dalla comunità cristiana, anzi addirittura dato «in balia di Satana» (1Cor 5,5; cfr. 1Tim 1,20), mentre si dovevano interrompere i rapporti con coloro che non si comportavano in conformità con la predicazione apostolica (1Cor 5,11; 2Ts 3,14); non bisogna pregare per coloro che commettono «un peccato che conduce alla morte» (1Gv 5,16); Secondo la lettera agli Ebrei «se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati» (Eb 10,26). Per quanto riguarda invece i peccati ordinari dei credenti, la purificazione avviene mediante la partecipazione ordinaria alla vita della comunità. È significativa in proposito l'esortazione di Giacomo: «Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza» (Gc 5,16). Questi testi presuppongono comunità nelle quali la vita di fede è ancora molto viva, per cui il peccato di uno dei loro membri viene visto come un episodio molto grave e drammatico, i cui effetti devono essere quanto prima neutralizzati. Il problema si porrà in modo diverso quando si abbasserà il livello della vita comunitaria e le defezioni diventeranno più frequenti, specialmente in seguito alle persecuzioni. 2. Disciplina penitenziale della chiesa antica Nel periodo successivo a quello apostolico, a partire dal sec. III, è documentata nella chiesa la pratica penitenziale chiamata «penitenza pubblica». Quando un cristiano viene meno ai doveri fondamentali della sua fede il vescovo interviene determinando a quale penitenza deve assoggettarsi il peccatore e per quanto tempo, tenendo conto dell'entità della colpa, delle sue attenuanti o aggravanti anche soggettive e delle disposizioni attuali del penitente. Il procedimento penitenziale comincia con «l'espulsione del peccatore», il quale viene ritualmente separato dalla vita interna della chiesa e non è ammesso all'eucaristia. Segue un periodo di tempo, strutturato liturgicamente, pastoralmente e canonicamente, in cui il peccatore pentito si prepara a riconciliarsi con la chiesa e quindi con Dio, dedicandosi alla preghiera, al digiuno e alla penitenza. La riconciliazione avviene generalmente con un nuovo rito: il vescovo, dopo essersi accertato della sua conversione, impone le mani al penitente e lo introduce nell'assemblea; questo gesto è equivalente a quello con cui il neofita era stato battezzato e introdotto nella chiesa perché con l'uno e con l'altro si conferisce lo Spirito santo. Il ruolo del vescovo è sempre quello di un rappresentante di Dio, che nel suo nome giudica, esercita la misericordia e perdona. Ma le usanze erano piuttosto elastiche: in casi di emergenza per l'assoluzione basta una semplice ammissione all'eucaristia, segno e culmine della comunione ecclesiale. I fedeli devono sottomettersi alla penitenza per ogni peccato che, secondo la mentalità comune, separa da Cristo, facendo cessare l'inabitazione dello Spirito nella loro anima. In pratica può trattarsi dell'esercizio di mestieri connessi con il culto idolatrico, del maltrattamento degli schiavi, di abuso del potere pubblico, di frode nel commercio, di peccati sessuali, ecc. Tuttavia non è stabilito con esattezza quali siano i peccati per cui si esige la penitenza: infatti non esistevano ancora criteri precisi per distinguere i peccati mortali da quelli veniali, anche se si ammetteva in linea di principio che vi sono «peccati quotidiani», che non escludono dal regno di Dio e per cui si può ottenere il perdono di Dio senza la penitenza ecclesiale. La pratica della penitenza sorge dunque nella Chiesa in funzione della riammissione di coloro che si sono allontanati da essa. Poco per volta la pratica della penitenza pubblica crea numerosi problemi. Alle difficoltà causate dall'aumento numerico dei cristiani e dall'abbassamento del loro fervore, dal sec. IV in poi i vescovi cercano di reagire, aumentando la durata e la severità della penitenza. La vita dei penitenti era simile a quella dei monaci, e la penitenza durava spesso per decenni, o anche fino alla morte. Si aggiunga che la riconciliazione veniva concessa una sola volta nella vita. I relapsi, quelli cioè che ricadevano in peccato, potevano contare solo su una penitenza soggettiva aiutata dalle preghiere e dalla predicazione della chiesa, ma non potevano ricevere la riconciliazione rituale e ricevere l'eucaristia. Questo rigore fece sì che alla fine dell'età patristica -2- pochissimi si accostassero alla penitenza, rimandandola alla fine della vita, e praticando frattanto una vita ecclesiale come tutti gli altri. 3. La penitenza nel medioevo La chiesa esce da questa situazione quando, all'inizio del medioevo, si introducono notevoli cambiamenti nella disciplina penitenziale. Anzitutto si inverte l'ordine delle varie parti della penitenza, e senza rimandare l'assoluzione fino al termine delle opere penitenziali, si riconciliano i peccatori subito dopo l'accusa dei peccati. Così l'inizio e la fine dello stato di «scomunica» vengono a coincidere, e la «soddisfazione» si rimanda a tempi successivi. Questo cambiamento non si introduce con un atto legislativo, ma è il risultato di vari fattori, tra cui il fatto che la maggioranza dei fedeli non abitava più nella città vescovile ma nelle campagne, era esposta a molti pericoli e quindi la cura pastorale dei penitenti non era più possibile. D'altra parte è questo il periodo in cui i monaci provenienti dalle isole britanniche amministravano il sacramento così come erano abituati nelle loro comunità già assai austere, dove non aveva senso stabilire uno periodo di austerità particolare. La nuova consuetudine, dopo una resistenza iniziale, fu progressivamente accettata, almeno tacitamente, dalla gerarchia, in riferimento prima ai peccati occulti e in seguito anche a quelli pubblici. Questo cambiamento permetteva che la stessa persona, anche in un periodo di tempo limitato, potesse ricevere l'assoluzione varie volte. Come conseguenza di questa prassi, mentre nella chiesa patristica le opere penitenziali avevano due finalità, una «medicinale» (cioè di promuovere la conversione perfetta) e una «vendicativa» (cioè di soddisfare alle esigenze della giustizia, per cui il delitto deve essere seguito da un castigo), adesso che la penitenza si fa dopo l'assoluzione prevale nettamente l'aspetto «vendicativo». Per determinare la consistenza della penitenza ci si serviva di prontuari, in cui vari peccati erano "tassati" con castighi fissi, senza molto preoccuparsi delle disposizioni interiori del penitente. Il rigore delle opere di penitenza dal medioevo in poi diminuisce continuamente. Benché il concilio di Trento sostenga ancora che le opere di penitenza debbano essere proporzionate al peccato, la prassi trasforma queste opere in una semplice partecipazione alla soddisfazione di Cristo. La nuova prassi procura certamente notevoli vantaggi, ma provoca anche dei grossi malintesi. Soprattutto essa fa sì che, venendo a mancare il quadro liturgico pastorale-canonico dello stato di penitenti, ciascuno sia costretto a prepararsi individualmente alla confessione. Ciò conduce ad un certo individualismo nell'uso del sacramento: l'aspetto comunitario (riconciliazione con la chiesa e reinserimento in essa) scompare del tutto dal rito e in un certo senso anche dalla teologia penitenziale. 4. Il concilio di Trento Lo scontro con la riforma porta con sé un approfondimento ma anche un certo irrigidimento nella prassi e nella teologia penitenziale, sanzionato ad opera del concilio di Trento. La chiesa proclama come dogma di fede l'esistenza del sacramento della penitenza, istituito da Cristo, distinto dal battesimo. Per la sua celebrazione sono necessari il pentimento, la confessione e la soddisfazione. A proposito del pentimento non si richiede che esso sia «perfetto» (contrizione), cioè determinato dall'amore di Dio, ma è sufficiente quello imperfetto (attrizione), concepito cioè per timore della dannazione o per il desiderio della salvezza (o anche per l'interna deformità del peccato). Per il peccatore battezzato non vi è perdono dei peccati gravi senza l'assoluzione (o la seria volontà di ottenerla); per questa è richiesta la confessione di tutti e singoli i peccati gravi, con le loro circostanze essenziali. L'assoluzione non è un semplice annuncio del perdono divino, ma un atto giudiziale: perciò essa presuppone la confessione (affinché si sappia che cosa si è perdonato) e può essere impartita solo da un sacerdote (non da un fedele qualunque). Il perdono cancella la pena eterna, ma talvolta resta ancora da subire una pena temporale (purgatorio); perciò al penitente vengono inflitte opere penitenziali, con cui egli, per i meriti di Cristo, può soddisfare al suo debito. -3- Per la frequenza al sacramento è importante la dichiarazione del concilio di Trento secondo cui un peccatore battezzato, pur giustificato mediante la contrizione, deve confessare i suoi peccati prima di accostarsi all'eucaristia, se non gli manca la possibilità di confessarsi. Il concilio rinnova anche la legge del Lateranense IV riguardante l'obbligo della confessione annuale. Finalmente fu definito che la confessione dei peccati veniali non è soltanto lecita, ma anche utile. I testi conciliari rispecchiano le carenze della teologia del tempo: in essi trapela una concezione del peccato quasi unicamente come trasgressione di un comandamento, mentre la dimensione ecclesiologica della riconciliazione si limita all'obbligo di sottoporsi al «potere delle chiavi» posseduto dalla gerarchia. L'uso del sacramento è apprezzato soprattutto come un mezzo efficace per ottenere la salvezza. Sotto quest'aspetto ha importanza anche l'opinione secondo cui per esso è sufficiente l'attrizione: il fedele, non potendo essere sicuro di aver raggiunto la contrizione, cerca nell'assoluzione una maggiore sicurezza di essere riconciliato con Dio. La pratica della confessione offre ai pastori d'anime un'occasione per formare le coscienze dei fedeli, ma al tempo stesso consente loro un pericoloso controllo di tutta la loro vita personale e sociale. 5. La problematica attuale Fino ad oggi nella chiesa il rito della confessione, celebrato con le debite disposizioni, viene presentato come il mezzo per eccellenza con cui il peccatore pentito viene liberato dai peccati e di conseguenza viene riconciliato con la chiesa e nella chiesa con Dio. Ora parecchi fedeli, anche se spesso inconsciamente, stentano a riconoscere tutto ciò nella prassi odierna della penitenza ecclesiastica. Diversi elementi del sacramento infatti non sembrano più corrispondere alle loro attese di conversione e di liberazione dal peccato. a. Il peccato Gli esami di coscienza usuali fino da temi recentissimi, e per lo più le domande dei confessori, riguardano le varie trasgressioni di qualche legge morale, soprattutto atti esterni, puntualizzati in qualche precetto del decalogo. Oggi invece il senso di colpevolezza dei penitenti maturi si concentra piuttosto su quella che è la radice di queste trasgressioni, su quella scelta di fondo per cui l'orientamento filiale verso Dio è stata interrotto o indebolito, dando così origine alle singole trasgressioni. Il disagio si accresce perché nella mentalità comune a volte non è più ritenuto come peccato ciò che la chiesa gerarchica considera tale. Ora è chiaro che la trasgressione è peccato non solo per la materialità degli atti ma piuttosto per la presa di posizione conscia e deliberata riguardo a Dio in essi contenuta. Il peccato è sempre un abbandonare la casa paterna, un rifiuto di comportarsi da figlio. Perciò il peccato grave sussiste, anche dopo la cessazione dell'atto peccaminoso, come un orientamento personale ("opzione fondamentale") non più verso Dio, ma verso un bene finito considerato come sommo valore. Specialmente col Vaticano II la teologia è diventata di nuovo più consapevole che tutto ciò ha anche una dimensione ecclesiale: il peccato separa l'individuo dalla vita della comunità, anzi, rifiutando la partecipazione organica alla vita del corpo mistico, danneggia e ferisce la stessa comunità. Il superamento della crisi di identità relativa al sacramento della penitenza esige che confessori e penitenti scoprano la vera essenza del peccato nell'opzione fondamentale con la quale si rifiuta di accettare la volontà di Dio come norma incondizionata della propria esistenza. Naturalmente questa opzione si realizza per lo più implicitamente in qualche atto deliberatamente commesso, che si sa inconciliabile con l'amicizia con Dio. Ma la vera peccaminosità dell'atto consiste nella sua virtualità nascosta, per cui viene rifiutata la polarizzazione totale dell'esistenza verso Dio. Perciò nella confessione si potrà scoprire la liberazione vera dal peccato quando ci si renderà conto che l'atto peccaminoso viene perdonato allorché si compie l'opzione fondamentale verso Dio mediante una sincera conversione, in cui il cristiano deve continuamente e indefinitamente progredire in tutta la sua vita. -4- b. La conversione Il concilio di Trento considera assioma fondamentale della teologia penitenziale che per ottenere il perdono di Dio in tutte le fasi della storia della salvezza fu necessario «il dolore e la detestazione dell'animo per il peccato commesso, con il proposito di non peccare più». Tale cooperazione umana non è necessaria solo per una legge estrinseca, positiva, di Dio, ma per la natura stessa della giustificazione. Sarebbe infatti assurdo diventare amico di Dio senza volerlo, o partecipare alla vita divina senza un atto specifico di coinvolgimento in essa. Del resto per il credente l'accoglienza della grazia non deve essere considerata come un obbligo gravoso, ma piuttosto come il compimento dell'esistenza personale, che trova la sua unità quando egli entra nel ruolo del figlio di Dio. Non è escluso che la conversione avvenga in modo subitaneo, mediante un'esperienza religiosa particolarmente intensa, ma di norma si realizza progressivamente, attraverso tutta una serie di atteggiamenti che si succedono nel tempo, in quanto l'uomo si eleva da una fede iniziale - attraverso il timore, la speranza, il pentimento e la volontà di ricongiungersi come membro vivo alla chiesa all'amore di Dio sopra tutte le cose. La recente riforma del rito della confessione fa già qualche passo in questa direzione, in quanto viene messa in evidenza l'importanza essenziale e centrale della conversione, che non consiste solo nella detestazione degli atti peccaminosi, ma soprattutto nel «riaccendere in noi l'amore di Dio» e nel «riportarci pienamente a lui», cioè in una «riconciliazione con Dio e con la chiesa», per cui anche si detestano tutti e singoli gli atti peccaminosi. La concentrazione dell'interesse sulla conversione porta con sé un certo cambiamento nella figura del ministro del sacramento, che in primo luogo non è più considerato come un giudice che indaga sugli atti e pronuncia una sentenza, ma piuttosto come un medico, intento a diagnosticare i mali dell'anima e a porvi rimedio (cf n. 10). Il ruolo del sacerdote, come «ministro della guarigione spirituale», fa anche comprendere meglio perché il credente pentito, che ha già ricevuto il perdono di Dio, debba ancora confessare la colpa già perdonata. La ragione più importante (anche se non unica) è che il sacerdote deve indicare con autorità come il peccatore già perdonato possa completare la sua conversione, eliminando i postumi del peccato mediante una partecipazione attiva alla vita della comunità. c. L'efficacia sacramentale La conversione del peccatore si realizza mediante un flusso gratuito, cioè non meritato e soprannaturale di Dio che viene, accompagna e compie la trasformazione del peccatore in giusto. Questa grazia viene comunicata al peccatore nel sacramento della penitenza, che quindi è lo strumento di un dono divino e non una semplice manifestazione comunitaria di un'esperienza personale. Ora però è difficile costatare empiricamente un cambiamento nello stato psicologico del penitente in seguito all'assoluzione sacramentale. Se è vero che la giustificazione non è solamente un cambiamento entitativo (infusione di una qualità nell'anima), ma è anzitutto il cambiamento del cuore, come è possibile che né il peccatore stesso né gli altri possano verificare empiricamente una trasformazione così profonda? Per rispondere a questa domanda è necessario ricordare che nell'attimo della giustificazione non cambia necessariamente quello che l'uomo vuole, ma la ragione profonda per cui lo vuole: non cambia l'oggetto della volontà, ma la sua motivazione profonda. Nell'attimo della giustificazione il dono della carità porta il giustificato a polarizzare tutta la propria esistenza verso Dio, non solo perché ciò è un postulato della ricerca del proprio bene, ma anche, e più ancora, perché Dio è degno di essere amato in se stesso. Ora il cambiamento d'accento tra le varie motivazioni non entra quasi mai nella coscienza esplicita, e per di più ha bisogno di un lungo cammino di fede per rivelare tutti i suoi aspetti. Per questa ragione il rito sacramentale può maturare i suoi frutti anche molto tempo dopo la sua celebrazione, quando cioè il soggetto arriva ad essere sufficientemente disposto. In altre parole la grazia viene infusa in virtù del rito sacramentale, ma non necessariamente proprio in quell'attimo in cui il sacerdote finisce di pronunciare la formula dell'assoluzione. -5- L'avvenimento sacramentale è una realtà complessa, per cui l'uomo, orientandosi verso il sacramento, si pone nella sfera ecclesiale della grazia in cui realizza l'incontro con il Cristo salvatore. Esso implica perciò un inserimento nella vita della Chiesa, «sacramento primordiale della salvezza», che con la sua vita di comunione porta a termine la conversione di colui che si è avvicinato con il sacramento della confessione. Si tratta di una conversione continua, destinata a diventare una dimensione costante della vita, a trasformare il cristiano di giorno in giorno, per farlo diventare sempre più perfettamente conforme all'immagine del Figlio. d. La dimensione ecclesiale La necessità di una conversione continua mette chiaramente in luce la dimensione ecclesiale della confessione. Il Concilio Vaticano II afferma: «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui, e insieme si riconciliano con la chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita con il peccato, e che coopera alla loro conversione con la carità, l'esempio e la preghiera » (LG 11). Ora questa dimensione ecclesiale del sacramento è particolarmente difficile a scoprirsi. La grande maggioranza dei fedeli comprende il peccato in modo puramente individuale; la funzione della chiesa, nella remissione del peccato, viene spiegata come una mediazione dell'istituzione ecclesiastica. Il rito, come era praticato fino alla recente riforma, finiva col sembrare una transazione privata tra sacerdote e penitente. Il Vaticano II riprende la dottrina patristica in cui la chiesa appare non tanto come una istituzione, ma piuttosto come una comunità vivificata dallo Spirito santo. Il peccato è un distaccarsi interno da questa comunità; il perdono è una reintroduzione nella pienezza della comunità ecclesiale mediante la comunicazione dello Spirito vivificante di questa comunità. Soltanto in questo contesto si comprende come mai la remissione del peccato è legata all'assoluzione sacerdotale: la comunità non subisce passivamente che il penitente si reintegri in essa, ma concede attivamente la sua appartenenza attraverso l'atto del potere pubblico esercitato da colui che ne è a capo e la rappresenta. Ora per molti credenti è difficile scoprire l'aspetto comunitario della confessione non solo perché il rito è ancora compiuto in modo individuale, ma anche e soprattutto perché la grande maggioranza dei fedeli non ha nella vita di fede una esperienza comunitaria. Essi credono che la chiesa sia una comunità, ma ne vivono l'appartenenza, sotto l'aspetto sociologico, in un grado così rudimentale, che la reintegrazione nell'unità viva della chiesa non può offrire loro un'attrattiva efficace. Sotto questo punto di vista la crisi della penitenza non verrà superata semplicemente introducendo in certi momenti la «penitenza comunitaria», nella quale la confessione personale dei peccati e l'assoluzione individuale sono inserite in una liturgia della Parola di Dio, con letture e omelia, esame di coscienza condotto in comune, richiesta comunitaria del perdono, preghiera del Padre Nostro e ringraziamento comune. I fedeli ritorneranno ad apprezzare la confessione solo quando si scoprirà un modello sociologico di appartenenza ecclesiale comprensibile al cattolico di oggi, e il rito penitenziale si conformerà a questo modello. e. Confessione e eucaristia Essendo la vita cristiana una conversione progressiva dall'egoismo all'unione con Dio nella chiesa, essa è promossa non solo dal sacramento della penitenza, ma da vari altri aspetti della vita ecclesiale come la predicazione, la testimonianza, la preghiera, ecc. Soprattutto essa ha un rapporto strettissimo con l'eucaristia. Il concilio di Trento, parlando della preparazione necessaria alla comunione eucaristica, dichiara che il sacramento dell'eucaristia non può essere ricevuto in modo degno da coloro che hanno la coscienza di aver commesso peccati mortali se non ricevono prima la confessione sacramentale. Già il segno sacramentale mostra che la comunione eucaristica presuppone che il soggetto già membro vivo della comunità: quindi uno che se ne è allontanato, anche se è pentito dei suoi peccati, non può parteciparvi in modo pieno. -6- Tuttavia il concilio di Trento afferma anche che al peccatore contrito vengono perdonati peccati anche gravissimi per l'oblazione del sacrificio della messa. La partecipazione alla celebrazione eucaristica non è però un doppione o un'alternativa alla confessione sacramentale, ma un aiuto per ottenere la disposizione necessaria all'assoluzione o anche (attraverso la contrizione e la volontà di accedere al sacramento della penitenza) la stessa giustificazione. Infine secondo il concilio di Trento il Signore volle che l'eucaristia fosse ricevuta «come medicina, per cui veniamo liberati dai peccati quotidiani e siamo preservati dai peccati mortali». In altre parole per mezzo della comunione cucaristica il giusto cresce nella carità e così è purificato da quei peccati che, in opposizione ai peccati mortali, sono chiamati «quotidiani», cioè i veniali, e ottiene maggiori grazie per perseverare nel bene. La penitenza non si può comprendere dunque se non in funzione dell'eucaristia: entrambe infatti conducono al perdono, non come due vie parallele, ma come un'unità organica: l'eucaristia prepara e completa la penitenza e la penitenza, con tutta la sua realtà, tende a restituire il penitente alla piena comunione del corpo mistico, che si esprime e si effettua soprattutto nella celebrazione cucaristica. Il rapporto strettissimo che lega la confessione all'eucaristia pone quindi il problema delle modalità con cui quest'ultima viene celebrata: essa non potrà mai produrre i suoi effetti se non cessa di essere un rito eseguito da un ministro di fronte a una folla inerte, diventando un vero momento comunitario in cui tutti interagiscono, mettendo in comune il loro cammino di fede e manifestando il significato profondo delle loro scelte. Ma ciò mette in questione tutta la struttura della vita ecclesiale e i rapporti tra fedeli (laici) e ministri. f. La "confessione frequente" o di devozione Secondo il Nuovo Catechismo «sebbene non sia strettamente necessaria, la confessione delle colpe quotidiane (peccati veniali) è tuttavia vivamente raccomandata dalla chiesa. In effetti, la confessione regolare dei peccati veniali ci aiuta a formare la nostra coscienza, a lottare contro le cattive inclinazioni, a lasciarci guarire da Cristo, a progredire nella vita dello Spirito. Ricevendo più frequentemente, attraverso questo sacramento, il dono della misericordia del Padre, siamo spinti ad essere misericordiosi come lui» (n. 1458) Un tale uso non si giustifica come mezzo per dare ai fedeli la sicurezza di essere veramente perdonati, ma perché è utile alla conversione progressiva continua, che pervade la vita cristiana. Il peccato, inteso come una forza oscura che trascina l'uomo verso una chiusura nel proprio egoismo, è sempre presente anche nel giusto. La ripetuta accusa sacramentale di questa complicità rende sempre più intensa la presenza terapeutica dello Spirito; la grazia sacramentale, attraverso la sempre più sincera detestazione del male che vive in noi, ci fa progredire nell'unione con il Signore. Tale pratica è valida però solo nella misura in cui questo tipo di confessione non è frutto di scrupoli, non è sentita come un obbligo, non crea un atteggiamento di insicurezza e di dipendenza, e soprattutto si integra con gli altri aspetti di un cammino comunitario di conversione. 6. Il colloquio spirituale La confessione frequente, in quanto non ha come scopo la riaccettazione del penitente nella vita della comunità ma l'accompagnamento spirituale di chi vive già la sua fede, è spesso l'ambito in cui prende forma il colloquio spirituale (detto anche "direzione spirituale"). Questo però può avvenire anche al fuori di essa e può avere come interlocutore non solo un sacerdote, ma anche un laico che è in grado, per un particolare carisma e con la dovuta preparazione, di dare questo servizio. In questo campo, come in ogni forma di educazione, il dialogo svolge un ruolo di fondamentale importanza: «Non è nel silenzio che gli uomini si fanno, ma nella parola, nel lavoro e nell'azione-riflessione. Se il parlare autenticamente, che è lavoro, che è prassi, significa trasformare il mondo, parlare non è privilegio di alcuni uomini, ma diritto di tutti gli uomini. Precisamente per questo, nessuno può parlare veramente da solo, o per gli altri, in un atto di prescrizione, per cui ruba la parola ai più» (P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano 1971, 106-108). -7- a. Contenuti Il colloquio spirituale ha sostanzialmente lo scopo di aiutare il credente a consolidare la sua fede, proponendogli l'obiettivo di approfondire la sua vita spirituale, che consiste essenzialmente in un rapporto di comunione sempre più intima e totale con Dio e con i fratelli. L'appartenenza alla comunità scaturisce dallo stesso evento battesimale che innesta nel corpo di Cristo. Perciò l'impegno di seguire Cristo si realizza soltanto a partire dalla concreta appartenenza alla Chiesa, Corpo del Signore. Anzi si può affermare che l'appartenenza del cristiano al Cristo e alla chiesa sono talmente interdipendenti che il battezzato è realmente di Cristo nella misura in cui è realmente della Chiesa, e se nella sua vita spirituale vuole incontrare il Cristo e vivere alla Sua presenza, deve incontrarlo nelle membra vive del suo Corpo. Oltre che il rapporto con Dio e con la comunità ecclesiale, l'aiuto spirituale riguarda anche il rapporto con la realtà terrestre, alla quale il credente si rivolge mediante l'invocazione dell'aiuto divino per i problemi che gravano sull'umanità e i suoi impegni professionali e sociali. Il colloquio spirituale deve inoltre aiutare il credente a elaborare un programma di vita, tenendo conto del quadro di riferimento a cui lo porta il suo stato di vita. Quindi per un religioso il quadro ideale di vita sarà quello tracciato dalla sua regola, mentre per una persona sposata ci si riferirà ai valori specifici della vita matrimoniale e familiare. È importante infine tener conto dell'impegno sociale dell'individuo (medico, magistrato, operaio, insegnante ecc.), in modo da aiutarlo a formarsi una spiritualità che sia in armonia con la sua professione. b. Difficoltà e pericoli Nel colloquio spirituale colui che fa da guida rivela le sue attitudini personali, ma anche i limiti e le sue difficoltà, che possono portare il suo lavoro su un binario falso. Le deviazioni a cui può andare incontro il dialogo spirituale sono fondamentalmente tre: 1) Predominio di colui che fa da guida, il quale imposta i colloqui in forma marcatamente autoritaria. È lui che indica doveri, esamina il comportamento, ne dà un giudizio personale, dà orientamenti e direttive. Il suo intervento rischia così, oltre al paternalismo, la mancanza di attenzione e comprensione della vera situazione dell'individuo, la formulazione di norme e programmi di vita teorici e disincarnati dalla situazione reale della persona, l'intolleranza per le sue debolezze; in breve, una inadeguatezza tra l'ideale progettato e il ritmo concreto e possibile del soggetto, mantenendolo in una condizione di minorità e di totale dipendenza. 2) Focalizzazione sui singoli problemi di colui che chiede aiuto. In questo caso la guida spirituale si riduce ad agire come esperto o come un amico che gli dà un consiglio utile su un certo aspetto della sua vita, senza mettere in questione tutto il quadro in cui le singole decisioni si inseriscono. Egli suggerisce spunti di riflessione, pone questioni stimolanti, propone vari mezzi a cui la persona può ricorrere, giunge anche a mettere in crisi il soggetto, nel caso in cui questi stia per prendere una decisione pericolosa, ma non si esprime su quelle che sono le sue scelte personali e tanto meno sul suo cammino spirituale globale. 3) Attenzione eccessiva alla persona che chiede aiuto. Secondo questa impostazione la guida spirituale si limita a sollecitare la persona, mediante una serie di domande, perché chiarifichi i suoi problemi e ponga le condizioni per realizzare le sue aspirazioni più vere. Egli si preoccupa quasi esclusivamente di stabilire con l'interlocutore un rapporto di confidenza, allo scopo di favorire in lui un atteggiamento di sicurezza, perché abbia il coraggio di entrare in se stesso per scoprire le proprie energie, costruttive, orientandole verso una direzione corrispondente alle aspirazioni che sorgono in lui. Per evitare queste deviazioni è necessario che la guida spirituale instauri con la persona che ricorre a lui un corretto rapporto indicando obiettivi e verifiche, prendendo in considerazione non solo aspetti specifici della persona, ma le sue scelte di fondo, lasciandole al tempo stesso tutto lo spazio di cui ha bisogno per esprimersi e sentirsi accolta. Tutto ciò avviene spontaneamente se la guida spirituale rimanda continuamente la persona a un ambito concreto di vita comunitaria e -8- sociale, nel quale essa deve assumere onestamente e sinceramente i suoi compiti e le sue responsabilità. c. Metodi psicologici e direzione spirituale Il colloquio spirituale deve tener presenti le acquisizioni in campo psicologico. In particolare è utile per la guida spirituale far riferimento ad alcune disposizioni di base con le quali è possibile far uscire il rapporto dall'anonimato e viverlo in forma interpersonale: 1) Autenticità: essa consiste nel conoscere e nell'accettare se stessi, anche negli aspetti lacunosi o negativi, e nell'essere profondamente sinceri evitando di nascondersi dietro il proprio ruolo o competenza. 2) Empatia, che significa entrare in rapporto con il soggetto tramite la comunicazione verbale e non verbale o affettiva, mettendosi nella situazione dell'altro e vedendo il mondo con i suoi occhi. Se da un lato l'empatia facilita la comprensione globale della situazione altrui, dall'altro può rendere sterile ogni colloquio interpersonale se provoca un coinvolgimento emotivo tale impedire la giusta valutazione oggettiva,. 3) Rispetto verso chi domanda aiuto, che deve tradursi in accettazione incondizionata della persona, cioè in autentico amore disinteressato, gratuito, universale, oblativo e che promuove la libertà degli altri. Può anche essere utile tener presenti alcuni modalità di intervento suggerite dalla psicologia che sono indispensabili per rendere efficace il colloquio: 1) Ascolto attento dell'esposizione, che permette di conosce non solo le situazioni esterne, ma i comportamenti interiori e i dinamismi ad essi sottesi. Anche occasionali divagazioni possono fornire preziosi riscontri utili per ricostruire integralmente i diversi aspetti della personalità. 2) Mettere a confronto affermazioni diverse. Questo intervento si rende necessario quando il soggetto si è espresso in maniera confusa o contraddittoria. 3) Porre con gradualità domande e suggerire alternative attraverso le quali si possa giungere ad una comunicazione comprensibile. Ciò è necessario quando l'individuo non sa esprimere la complessità degli stati d'animo che lo agitano. 4) Autorivelazione. Quando il rapporto interpersonale si è ben consolidato la guida spirituale può giungere all'apertura di sé, alla condivisione di sentimenti, attitudini, opinione ed esperienza personali, al fine di rendere sempre più libera e indipendente la persona. 5) Nel dialogo di direzione spirituale può giocare un ruolo importante, ma difficilmente traducibile in termini operativi, l'impatto della personalità, cioè il fascino e l'influsso globale della guida con le sue doti di sicurezza, sapienza, capacità di comprendere e aiutare. 6) Se il direttore spirituale ha raggiunto un alto livello di autorealizzazione, la sua personalità potrà influire profondamente sugli altri ed offrire stimoli validi per il loro impegno di purificazione e di santificazione; si richiede però che egli abbia un metodo psicologico adeguato per entrare in un rapporto dialogico costruttivo con il prossimo. In complesso lo sviluppo teorico del rapporto di direzione spirituale è scandito in tre tappe: nella prima la persona in cerca di aiuto è fortemente centrata in se stessa e si sforza di esprimere i suoi problemi; nella seconda la guida spirituale elabora i dati rilevati per stabilire la natura dei problemi e le strategie di soluzione; nella terza la persona si riappropria del materiale rielaborato dal formatore e decide liberamente come tradurre l'esperienza del dialogo in impegni di vita. Pur utilizzando gli apporti provenienti dalle distinte branche delle scienze psicologiche (psicoanalisi, psicologia di gruppo, psicologia sociale, psicoterapia, analisi della Gestalt, analisi transazionale ecc.), la direzione spirituale svolge un ruolo suo proprio nettamente differenziato rispetto agli altri interventi di aiuto. La direzione spirituale è diversa dalla relazione di insegnamento nella quale ordinariamente sono esclusi gli scambi emotivi; è diversa dalla relazione tra il paziente e il suo medico che ha come oggetto la salute fisica; è diversa dalla psicoterapia limitata ai problemi della psiche umana; è diversa dalla relazione con i familiari dove sono coinvolti rapporti di sangue, di affetto, di economia e di convivenza; è diversa dalla relazione di amicizia -9- contrassegnata da un rapporto di totale parità e che prescinde dalla competenza scientifica o tecnica dell'altro; è diversa dalla generica consulenza pastorale la quale, pur potendo trattare argomenti spirituali, non coinvolge tutti gli aspetti della esistenza cristiana. Infatti con la direzione spirituale si instaura un rapporto che prende in considerazione i vari aspetti problematici e progettuali della persona unificandoli nella prospettiva di Dio, cioè del dinamismo di piena maturazione cristiana realizzato dall'azione dello Spirito nell'esistenza del credente. Si può senz'altro parlare di applicazione dei fondamentali principi di psicoterapia nella direzione spirituale e ciò sarà tanto più valido quanto più la guida spirituale avrà avuto un'adeguata preparazione a questo riguardo. Non si deve però fare confusione tra le due. 7. Conclusione Il colloquio spirituale ha origine dalla confessione, vista non solo come il gesto con cui si accoglie nuovamente il peccatore pentito nella chiesa, ma come un aiuto al credente perché possa giungere alla piena maturità cristiana. Spesso ancora oggi la direzione spirituale avviene nel contesto della confessione. Tuttavia l'esigenza di stabilire un dialogo continuato e proficuo tra il direttore spirituale e la persona bisognosa di aiuto consiglia di staccare il colloquio spirituale dalla confessione, facendolo diventare un momento autonomo di attività pastorale. La separazione dei due momenti di aiuto spirituale avrebbe anche il vantaggio di far capire che, mentre il gesto sacramentale richiede la presenza del sacerdote, la direzione spirituale può essere compiuta anche da un laico dotato delle necessarie competenze. Più che esortare la gente alla confessione frequente, la chiesa dovrebbe essere oggi capace di fornire autentiche guide spirituali, le quali siano in grado di prestare ai singoli quell'aiuto che permetta loro di inserirsi in un modo fruttuoso e costruttivo all'interno della comunità cristiana. 8. Piste di riflessione a) Qual è l'impatto della confessione nella vita psichica e spirituale dell'individuo? b) Quali sono i rapporti tra confessione e vita della comunità? c) Quali vantaggi e rischi presenta la confessione, e in particolare la confessione frequente? d) Ti sembra utile il colloquio spirituale? Perché? e) Pensi che la seduta psicanalitica possa sostituire il colloquio spirituale? f) Perché la gente oggi sente difficoltà ad accostarsi alla confessione? g) Che cosa bisognerebbe fare per modernizzare sia la confessione che la direzione spirituale? - 10 -