raccontarsi nella confessione sacramentale cristiana - in
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raccontarsi nella confessione sacramentale cristiana - in
RACCONTARSI NELLA CONFESSIONE SACRAMENTALE CRISTIANA *Carlo Bresciani "INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria", n° 40, maggio - agosto 2000, pagg. 8-19, Roma" http://www.in-psicoterapia.com Scopo del presente articolo La confessione sacramentale è per il cristiano uno dei momenti qualificanti della sua vita di fede, in quanto attraverso essa si attua un incontro particolare, sacramentale appunto, con l’amore di Dio che si comunica come misericordia accogliente e benevola nei confronti del cristiano peccatore. Una accoglienza che rimette i peccati perdonandoli e restituendo una piena comunione con la vita divina a colui che, sinceramente pentito, chiede di essere riaccolto. Il sacramento è un evento attraverso cui la salvezza gli viene comunicata con certezza, se è pentito del male compiuto. La confessione sacramentale è un dovere che deve essere soddisfatto almeno una volta all’anno 1) e, secondo i precetti stabiliti nella Sessione XIV del Concilio di Trento nel 1551, deve essere integra, vale a dire di tutti i peccati gravi di cui una persona è cosciente secondo specie, numero e circostanze rilevanti. Qualcuno tende oggi a sottolineare che tale richiesta è troppo gravosa per il penitente esigendo di essere dettagliata e non un’accusa generica di essere peccatore. Non è questo il luogo per una discussione teologica del problema, ma è certo che una presa adeguata di coscienza della propria vita richiede anche di saperne dire i dettagli importanti e non solo le tendenze generiche. La Chiesa impone al fedele che almeno una volta all’anno riveda alla luce della fede, elemento unificante della sua vita, lo svolgersi concreto di essa e ponga davanti in dettaglio al giudizio misericordioso di Dio e della Chiesa le colpe che l’hanno segnata. E’ certamente confessione delle colpe personali, ma, come viene continuamente sottolineato dai padri spirituali e dalla teologia sacramentaria, è anche confessio laudis della misericordia di Dio. Nell’ottica della fede, essa riunisce in sé due aspetti fondamentali anche se apparentemente contrastanti: il riconoscimento del proprio misero stato di peccatore e la lode gioiosa al Padre delle misericordie perché in Lui è data nuova vita e nuova speranza anche a colui che ha commesso i peccati più gravi. Dolore e lode gioiosa convivono nel momento della celebrazione sacramentale del perdono. Ci domandiamo quale significato psicologico, oltre che strettamente connesso a quello spirituale e religioso, possa avere il raccontare nella confessione la propria vita, soprattutto gli aspetti negativi di essa. Il raccontarsi di fronte ad altri e la colpa Attraverso il racconto ad altri della propria vita il soggetto giunge a una migliore conoscenza di sé così da essere capace di integrare e di fare unità tra i vari momenti del suo vivere. Raccontarsi implica, infatti, unire i vari momenti della vita, dando ad essi un significato all’interno del tutto che è la vita stessa. E’, questa, un’acquisizione ormai pacifica delle scienze antropologiche, psicologiche e psicoterapeutiche. Uno dei campi in cui il soggetto ha bisogno di raccontarsi per venire ad una migliore conoscenza e accettazione di sé è certamente il vasto campo della finitudine e della colpevolezza umana, sia essa psicologica che morale. La colpa è, infatti, qualcosa che intacca l’unitarietà dello svolgersi della vita e delle aspirazioni stesse che il soggetto proietta su di essa. Sappiamo che la colpa è una delle esperienze universali dell’essere umano, presente in ogni cultura, primitiva od evoluta che sia. Là dove c’è un essere umano in relazione ad altri esseri umani, là dove c’è un essere umano che si confronta con un io ideale, in qualunque modo esso si sia formato, c’è la possibilità di esperimentare il senso di colpa, sia come reazione alla rottura delle relazioni (causata da sé o dagli altri), sia come reazione al soggettivo venire meno alla fedeltà agli ideali scelti come meta della propria vita. La considerazione dell’esperienza universale del senso di colpa e del rimorso ci porta a contatto con una delle urgenze interiori che spingono a dirsi ad altri. Il dire la propria colpa è un modo di far fronte a quell’oscuro tarlo del rimorso che corrode dall’interno il soggetto. Forse non si esperimenta mai così forte il bisogno di dirsi ad altri come quando si esperimenta il rimorso generato dal senso di colpa. Dal punto di vista psicologico, ci si può chiedere da dove origina questo bisogno di confessare ad altri la propria colpa e perché l’essere umano confessando ad altri le proprie colpe, vere o immaginarie, ha la sensazione di recuperare un senso più solido della propria identità personale e relazionale, di recuperare una certa integrità interiore e mettere, almeno in parte, a tacere quel rimorso che non gli dà tregua. Di fatto, il semplice raccontare ad altri la propria colpa genera nel soggetto un senso di sollievo: c’è un aspetto terapeutico, almeno temporaneo, nello stesso raccontarla ad altri. Si tratta di capire in che cosa consista questo effetto e quale sia la sua validità, ma a tutti è noto quanto i vari diari, resi non a caso noti al pubblico, siano stracolmi di confessioni che rivelano aspetti non proprio edificanti della vita privata. Spesso vengono presentati con ostentazione, ma di fatto sono vere e proprie confessioni pubbliche. In questo articolo cercherò di analizzare alcune delle problematiche connesse con il dire di sé agli altri, confrontandole con quel tipo particolare di confessione che il credente cristiano attua nel sacramento della confessione, detto anche della riconciliazione con Dio e con la Chiesa. Narrare la propria colpa: crisi, integrazione e ricostruzione della propria identità Il narrarsi, e soprattutto il narrare la propria colpa di fronte a un altro, significa cercare una connessione che dia una qualche unità ai fatti, alle vicende e alle decisioni della propria vita e nello stesso tempo identificarne le lacune o le defaillances cercandone le motivazioni. I singoli momenti, i singoli fatti del vivere, presi isolatamente, non dicono molto della nostra esistenza, soprattutto degli orientamenti che noi vorremmo darle, non interpellano a pieno la nostra libertà, perché privi del loro significato profondo: quello di essere momenti che unitariamente dovrebbero conferire un senso all’esistenza, costruendola con significato unitario, sia pure con tutte le lentezze che implica la realizzazione di un progetto che abbraccia l’intera esistenza. Il senso della vita di una persona è strettamente collegato alla identità di sé che quella persona si è costruita e questa a sua volta è strettamente collegata ai valori e alle mete che il soggetto ha scoperto come essenziali perché la vita meriti di essere vissuta. La permanenza di una solida identità richiede da parte del soggetto comportamenti sostanzialmente conformi alle mete e ai valori di cui si è detto. Quanto più le scelte sono difformi, tanto più provocano tensione interna, una frattura della stima di se stessi che si manifesta in forme di auto-accusa e di senso di indegnità. C’è un legame affettivo molto forte da parte di ciascuno all’identità di sé: non si può restare indifferenti di fronte a comportamenti che la smentiscono. Il senso di colpa è legato all’identità di sé. Da qui si può comprendere perché siano così diversi i contenuti rispetto ai quali le diverse persone provano senso di colpa e perché non tutti sentano senso di colpa per gli stessi comportamenti. Si può anche comprendere come la capacità di accettare la propria finitudine dipenda dall’identità e dalle attese che uno in base ad essa si è costruito per la propria vita. Come si costruisce l’identità di sé Uno degli elementi sui quali si costruisce l'identità della persona è la unità di vita attorno a mete ideali che il soggetto ha accolto come sue proprie. Ciò comporta che gli eventi della propria vita vengano continuamente interpretati e ricondotti alla costruzione effettiva di quella identità. Essa non è quindi data dalla semplice aspirazione ad essere in questo o in quel modo, quindi neppure da valori soltanto verbalmente proclamati, ma dal configurarsi concretamente della propria vita su di essi. Ogni azione dovrebbe essere guidata dall’interpretazione della sua relazione con l’identità di sé che deve essere mantenuta e costruita progressivamente. Dall’altra parte, la vita concreta con i suoi momenti e le decisioni che comporta, introduce una continua ristrutturazione dell’ideale di sé onde meglio adeguarlo al concreto esistere. Non significa cambiare valori e mete e, quindi, identità, significa precisarla meglio, modellandola sulla realtà e sulle possibilità effettive della situazione, significa darle spessore esistenziale. Il passaggio dall’ideale al reale implica sempre una tale ristrutturazione, a meno che si vogliano introdurre dinamiche disintegranti l’identità e la vita stessa. Mettendo ordine dentro di sé, provando a dirsi ciò che è stato e ciò che voleva essere, dà o cerca intelligibilità della propria vita così come concretamente è stata vissuta, e facendo questo mette in luce certi elementi: alcuni li sfuma, altri li rifiuta come estranei e distruttivi. In altre parole, il soggetto dà un senso a ciò che ha fatto, che fa o che ha scelto di fare. Passa dall’identità ideale all’identità reale. Ognuno di noi ha bisogno di raccontarsi per auto-comprendersi più compiutamente. Tale raccontarsi non può che essere fedele al reale. La fuga nella fantasia, la psicologia ce ne ha resi coscienti, è sempre deleteria. Quando non ci raccontiamo in verità a noi stessi, noi prepariamo il terreno sul quale cresce e prende forma una grave crisi esistenziale. Il vero problema è come tenere significativamente unito in noi l’io ideale e l’io reale. Ognuno è chiamato a compiere una tale ristrutturazione, usando anche di tutti gli apporti che la cultura e le relazioni personali gli offrono. C’è un’esigenza insuperabile di realismo nell’identità di sé, la mancanza del quale è generatrice di sensi di colpa impropri o irrazionali, quando non francamente patologici. Ognuno, alla fine, è quello che la sua storia, da lui stesso riletta all’interno di una trama narrativa di senso, gli rivela di essere. 2) Il senso di colpa può essere visto come una crisi di identità vissuta dal soggetto. In ogni senso di colpa c’è unadimensione biografica: se si perde questa dimensione si perde il punto centrale, la chiave ermeneutica che ci permette l'ingresso alla comprensione della colpa di ‘questa’ persona. Diventerà allora difficile capirla, affrontarla e aiutare la persona a risolverla. Si sarà tentati, per esempio, di pensarla come un non senso o come causata completamente da fatti esterni alla persona stessa. Anche quando ci sono fattori esterni, la colpa non è mai causata esclusivamente da essi, ma sempre in modo determinante da fattori interni alla persona. In alcuni casi la persona potrà essere tentata di cambiare i valori guida e, quindi, la propria identità come modo di superare il senso di colpa: tale cambiamento sarà necessario quando i valori e l’identità sono irrealistici. E’ il caso, per esempio, della persona che pensa di sé come di uno che dovrebbe assolutamente non aver alcun, benché minimo, conflitto o divergenza di idee con nessuno. Ma che cosa significa cambiare valori e identità di sé per far fronte al senso di colpa quando essi sono adeguati alla persona? Il rimedio non rischia in tal caso di essere peggiore del Poiché la crisi generata dalla colpa è sempre comunque crisi di senso che scaturisce dal vissuto, chi è in colpa è nell’impossibilità di raccontare la propria vita con un minimo di coerenza e di ‘senso compiuto’. La colpa è l’irruzione del non senso all’interno dell’unità della vita personale. Il soggetto non è, quindi, in grado di integrare i comportamenti ritenuti colpevoli nell’unità narrativa della propria vita: di fatto la colpa introduce la situazione di un io diviso, la cui percezione provoca il disagio della coscienza. Questo è tanto più vero quanto più la crisi è profonda e sembra richiedere, quindi, cambiamenti radicali. Di fronte alla colpa, il racconto della propria vita è in qualche modo spezzato, sospeso a metà, incompiuto, e non si vede come portarlo a compimento data la presenza di linee divergenti. Finché della propria colpa il soggetto tace anche nell’intimo di se stesso, a prezzo di un modo inconsapevole di vivere, i comportamenti difformi dall’ideale di sé proclamato non generano apparente disagio. Ma la difformità non può non essere avvertita con chiarezza quando il soggetto racconta la propria vita o a se stesso, o a un amico, o all'analista, non appena cioè tenta di dare un’unità logica al concreto suo esistere. Raccontare richiede, infatti, di unificare i vari elementi e avvenimenti in una trama unica, che faccia senso, che abbia una continuità logica all’interno della quale si possa percepire il lento realizzarsi di sé. Raccontare la propria vita è diverso dal recitare parti staccate di un dramma, anche personale; è di fatto un modo di ricostruirla attraverso una chiave interpretativa unica dei fatti che l’hanno segnata. Ecco perché non sempre è facile raccontare la propria vita a sé e agli altri, perché parti dolorose di essa sono percepite estranee a questa unità e si è tentati di pensare che sia meglio lasciarle fuori dalla coscienza e, quindi, dal racconto. Il fatto è che, però, non per questo sono estranee alla vita propria e, quindi, prive di conseguenze. Con quali criteri leggiamo la nostra vita nel suo dispiegarsi storicamente? In base soltanto a ciò che noi aspettiamo da noi stessi o in base soltanto a quello che siamo stati? In base a ciò che gli altri si attendono da noi e che ci dicono che dobbiamo fare, oppure in base a criteri oggettivi o, come fanno i cristiani, in base alla Parola di Dio e alla sua presenza di vivente nella propria vita? Nessuno è mai totalmente indipendente da quello che gli altri si aspettano da lui, bisogna esserne consapevoli. Il racconto della propria vita è sempre intrecciato con il racconto della vita di altri (genitori, fratelli, amici, marito, moglie, ecc.); in altre parole, è sempre intrecciato con la vita di una comunità. Ma a seconda della rilevanza data all’una o all'altra delle chiavi di lettura, aumentano o diminuiscono le possibilità di apertura di falle nella continuità del racconto e anche di cadere in irrazionali sensi di colpa. Di fatto la dipendenza da criteri non oggettivi e non costanti impedisce di dare continuità e unità credibili alla vita stessa. L’identità di sé da costruire coerentemente introduce la questione della fedeltà: a chi sono fedele? A un passato che mi lega, o a un futuro che mi attrae? Da chi sto tentando di distaccarmi per partorire alla fine me stesso? Quale continuità nel comprendere me stesso? Senza mantenere continuità nell’impostazione della vita si va incontro alla crisi più radicale, che è quella di una vita che non riesce a raccontarsi collegando i momenti del passato con il presente e che non riesce a prospettarsi un futuro definito e credibile davanti a sé. Anche nei casi migliori, non si può reimpostare la propria vita che poche volte; per questo, qualunque sia la convinzione di ciascuno, si pone il problema della fedeltà e di una identità di sé che permetta di essere mantenuta nella propria vita. Come nella vita ci sono legami e momenti importanti e altri meno, così vi sono due tipi diversi di colpa che introducono due tipi diversi di crisi: quelle superficiali, che nascono da una semplice difficoltà momentanea a continuare a raccontarsi significativamente (intoppo temporaneo e superficiale); altre sono più profonde: quando si pensa di non poter continuare a raccontare la propria storia senza rovesciare la situazione e dare un nuovo inizio alla vita stessa. In questo ultimo caso, per poter affrontare il proprio futuro, bisogna dare una chiave di lettura diversa al proprio passato, una chiave che sia capace di dischiudere comunque un orizzonte che dia senso alle attese di futuro. Occorre recuperare esistenzialmente mete per le quali valga la pena continuare a vivere. La stessa psicoterapia, basata sul raccontare la propria vita, trova gran parte della sua efficacia nel cercare di dare nuova armonia ai diversi eventi, reinterpretando una storia che sembra fatta di frammenti e di pezzi che la persona mantiene scollegati tra loro. La guarigione implica trovare una nuova trama di lettura capace di integrare tutto, anche ciò che provoca dolore, così che la vita riacquisti un senso e sia possibile recuperare speranza in un credibile futuro. La reazione al senso di colpa e al senso del peccato4) L’universale dimensione del senso di colpa, di cui anche la stessa psicoanalisi da molto tempo ci ha reso consapevoli, trova il suo inizio nelle relazioni parentali primigenie e nel bisogno di approvazione e di accoglienza sociale che guida la strutturazione psicologica primitiva della personalità. La disapprovazione dei genitori e il disagio psicologico che il senso di separazione provocato dal loro rimprovero genera nel soggetto portano alla ricerca di atti che siano in grado di ristabilire, realmente o immaginariamente, la relazione interrotta. Il senso di colpa spinge a cercare di ristabilire la relazione, con atti di riparazione o di sottomissione a colui dal quale si fa fatica ad accettare la separazione. Il presentarsi sottomesso all’altro è manifestare la dimissione della propria volontà offensiva; è cercare di far capire all’altro la propria non volontà di offesa onde ristabilire, almeno interiormente, il rapporto con lui. Questo senso di colpa più che portare al dialogo (dia logos: parola che comprende, comunica e illumina) e, quindi a una relazione con le altre persone, è monologo tra il soggetto e le proprie sensazioni; è ricerca di gratificazione del proprio bisogno di essere accettato, senza giungere alla valutazione oggettiva delle proprie azioni e della relazione interpersonale.5) Esso porta a un confessare che non giunge a considerare in se stessa l’azione compiuta, nelle sue determinazioni di bene o male oggettivo. Tale confessione è guidata dalla ricerca di approvazione dell’altro e, quindi, ricerca di relazione, ma non sulla base di una rivalutazione oggettiva di sé in rapporto al proprio vissuto (quindi in ordine al riacquistare una propria dignità intrinseca). Essa perpetua una dipendenza dall’accettazione benevola dell’altro.6) E’ qualitativamente diverso il confessare che proviene dal senso di colpa e il confessare che proviene dal senso del peccato. Lo stesso orientamento psicoanalitico ne ha dovuto prendere atto. 7) Senso di colpa e senso del peccato sono due esperienze emotive qualitativamente diverse e fanno riferimento a due situazioni oggettivamente diverse nel soggetto. Due esperienze emotive diverse in quanto il senso del peccato, con i termini usati da Janis, è riflessivo, capace cioè di lasciarsi influenzare da nuove informazioni mentre il senso di colpa psicologico è incapace di integrarle e quindi è insensibile alla realtà. Fanno riferimento a due situazioni oggettive diverse, a strutture personali diverse in quanto reazioni qualitativamente così differenziate non possono che provenire da strutture psicologiche diverse del soggetto. Il dirsi e il dire all’altro la propria colpa come via verso la ricostruzione dell’identità e della relazione Il raccontarsi davanti a un’altra persona pone quest’ultima non soltanto in una posizione di ascoltatore, ma anche di ‘facilitatore’ della conoscenza di sé di colui che si manifesta, anche quando si limitasse soltanto ad ascoltare. Inoltre il manifestare se stesso dà all’altra persona il potere di accettare o di rifiutare non solo le cose dette, ma la persona stessa che si manifesta. L’ascoltatore può rifiutare, condannare, biasimare, interrompere i rapporti con colui che confessa la propria colpa e questa sarebbe una forma di punizione, la più forte e quindi anche la più temuta, soprattutto per colui che è mosso da un senso psicologico di colpa e, quindi, cerca approvazione dall’altro indipendentemente da una valutazione oggettiva dei comportamenti che hanno generato la colpa. La confessione avviene anche, e forse soprattutto, per scongiurare e superare quel profondo senso di essere rifiutati e separati dagli altri che la colpa ha introdotto. La solitudine, anche solo temuta, diventa insostenibile. Per questo l’accettazione benevola da parte degli altri, nonostante sia stata loro palesata la propria colpa, è comunicazione che produce nel colpevole una specie di restaurazione dell’auto-stima, a volte illudendosi che il male compiuto non sia tale. Tale accettazione ha il senso di una conferma di non aver perso la qualità di persona che, nonostante tutto, resta amabile. Ciò produce uno spazio suscettibile di portare ad accettare la presenza della colpa nella propria vita. Ma ci si può accontentare dell’accettazione dell’altro senza cambiare nulla della propria impostazione di vita. Non bisogna essere perfetti ad ogni costo per poter essere amati. E’ così possibile integrare la colpa e la finitudine umana nella propria esistenza senza esperimentare un senso di totale perdita di valore di fronte agli altri e, quindi, finire in forme depressive, rinunciatarie o autodistruttive della vita. Senza tale integrazione della colpa di fatto la vita diventa invivibile. La confessione di ogni tipo ha, quindi, a che fare con l’esigenza di integrare il male nella vita personale e relazionale. Se la confessione all’altro è una ricerca di un modo di integrare il male nella propria vita, lascia tuttavia aperto il problema più radicale: il suo superamento.8) Il potere di colui che riceve la confessione per certi aspetti è indipendente da quello che egli fa o dice; dipende dal semplice fatto che la sua benevola presenza ascoltante, da una parte, stimola a raccontarsi e a dare ordine al racconto, che è strettamente connesso al dare ordine alla propria vita tenendo conto del male che l’ha segnata o continua a segnarla, e, dall’altra, dice relazione interpersonale non interrotta o ricostruita. La persona che ascolta la confessione è per certi aspetti, agli occhi di colui che si confessa, il rappresentante di ogni altro essere umano e della possibilità di ogni altro essere umano di accettarlo con il male che ha segnato o segna la sua vita. Ma se tale confessione può al massimo rispondere al problema dell’accettazione sociale nel proprio sentirsi colpevoli, è certamente, e radicalmente, insufficiente sotto l’aspetto del suo superamento e della sua significativa integrazione nella vita soggettiva.9) Ma questo è il problema più fondamentale di fronte alla colpa e al male. La confessione ‘laica’ e confessione sacramentale 10) La confessione è una forma di rimedio alla falsità che la colpa ha introdotto nella vita del singolo: falsità tra sé e i propri ideali, falsità nell’immagine di sé che si manda agli altri. Tale falsità risulta emotivamente pesante alla persona per i due aspetti sopra ricordati: difficoltà a integrare la colpa e il male; difficoltà relazionale legata al fatto di avere la sensazione che, se gli altri sapessero, non sarebbe più amata da nessuno. Le motivazioni che portano a confessare la colpa sono sostanzialmente due: la ricerca di ristabilire in qualche modo la relazione sociale e, quindi, la stima di sé e la ricerca di modalità per superare il male e il peccato. Ciò dà origine a due tipi diversi di confessione: la confessione che per brevità chiamerò ‘laica’ -intendo quella fatta a una persona qualsiasi e in modo particolare allo psicoterapeuta- che risponde alla prima motivazione in quanto la psicoterapia non si pone affatto il problema del superamento del male e la confessione religiosa sacramentale nella sua tipologia cattolica che invece mette al centro proprio tale superamento.11) 3.a. Confessione ‘laica’ allo psicoterapeuta Nel rapporto psicoterapeutico si incontra spesso una propensione, direi quasi un bisogno insopprimibile, del cliente di confessare la propria vita, anche negli aspetti più fortemente segnati da quello che egli considera il male. Il fare ciò conferisce un maggior benessere emotivo al cliente, tanto è vero che spesso lo stesso psicoterapeuta incoraggia in questa direzione. Spesso, anche quando il cliente afferma decisamente di non voler parlare di certi aspetti dolorosi della vita o di certe esperienze di cui si sente molto colpevole, sembra in realtà fare di tutto per portare sempre di nuovo il discorso sull’argomento e per far intuire ciò di cui non vuole parlare. A volte si ha la netta sensazione di una specie di gioco a rimpiattino. Il cliente sembra invitare il terapeuta ad indovinare ciò che egli afferma di non voler comunicare e che cerca invano di reprimere e si sente sollevato quanto il terapeuta intuisce e pone in termini espliciti quello che sembrava non dovesse essere mai detto a parole nella seduta terapeutica. E’ indubbio il carattere di sollievo dato dalla confessione della colpa, a qualunque persona venga fatta, se non altro per la sperata solidarietà, comunque già realizzata, se non altro per il f L’ascolto della confessione nella psicoterapia vorrebbe essere guidata dal criterio di neutralità rispetto ai valori, almeno questo è quanto viene continuamente auspicato, anche se alcune ricerche mostrano chiaramente che i valori del terapeuta sono colti molto bene dal cliente. Le interpretazioni che egli offre al cliente, infatti, non possono che risentire del quadro valoriale all’interno del quale il terapeuta stesso interpreta la sua propria vita e quella del cliente. Inoltre, se davvero tale neutralità fosse condotta fino alle sue ultime conseguenze, il cliente non potrebbe che confrontarsi soltanto con i suoi sentimenti soggettivi senza recuperare alcun criterio oggettivo transpersonale sulla base del quale ristabilire un’adeguata stima di sé, non legata unicamente alla persona con la quale è in relazione, di fatto in gran parte immaginaria, in quel momento. Non bisogna dimenticare che senza criterio oggettivo difficilmente è superabile la dipendenza dagli altri e, quindi, difficilmente superabile lo stesso senso di colpa psicologico, non realistico. Il benessere emotivo procurato dalla confessione sarebbe legato a una relazione, nella quale il cliente si sente accettato dal momento che non ci sono reazioni. Non significherebbe aver ritrovato un’identità autonoma di sé capace di liberare da relazioni di dipendenza e, quindi, da psicoterapie interminabili. Da ciò emerge che il raccontare la colpa, da solo, non basta per una restituzione dell’integrità personale: occorre una confessione che abbia riferimenti oggettivi e transpersonali, sui quali ricostruire un’identità e una stima di sé oggettiva, capace di integrare la debolezza, la finitudine e il male che proviene dalla propria libertà. Ciò che si rivela importante è non solo la confessione, ma il ristabilire attraverso essa un legame con la verità della vita. Si tratta di ristabilire il legame con la verità di se stesso alla luce delle mete ideali della propria vita per la cui comprensione e articolazione può essere utile il raccontarsi di fronte al terapeuta che aiuta a prendere coscienza di ciò che rischia di restare inconscio, ma è necessario andare oltre per ristabilire una relazione creativa con la verità e la validità delle mete ideali personali e relazionali che si impongono alla vita stessa. Per raggiungere questa meta non basta il semplice e benevolo ascolto del terapeuta. Lo specchio muto del terapeuta può avere una certa utilità come stimolo a una rilettura della propria vita,12) ma non basta per una confessione che porti a una integrazione significativa e a un possibile superamento del male. 3.b. Confessione religioso-sacramentale davanti a Dio e al suo ‘intermediario’, il sacerdote. La diversità della confessione religiosa da quella ‘laica’ sta nella dimensione oggettiva e trascendente di fronte alla quale il soggetto si pone nel dire la propria colpa. La dimensione transpersonale della vita raggiunge qui la sua massima espressione. Ci sono analogie con quella che per brevità abbiamo chiamato la confessione ‘laica’, analogie che possono portare colui che si ferma a un approccio superficiale a scambiare la confessione sacramentale con quella che avviene nella psicoterapia. Vale, quindi, la pena di analizzare più a fondo la differenza tra le due. 3.b.1. Il ruolo del sacerdote Certamente la preoccupazione del sacerdote, cui il penitente si racconta, è ben definita e altrettanto lo è il suo campo valoriale. Se da una parte il sacerdote ascolta con empatia il penitente, dall’altra non si limita ad una accettazione incondizionata dei comportamenti: c’è un’oggettività che deve essere condivisa dai due ma che supera entrambi, di fronte alla quale entrambi pongono e giudicano la colpa personale. Proprio per questo, il sacerdote è più direttivo dello psicoterapeuta anche a livello di valori e di consigli. Soprattutto, egli non si limita a togliere il senso di colpa e il disagio della coscienza, banalizzando la colpa stessa, ma li orienta a confrontarsi con quel riferimento oggettivo, Dio e la sua Parola, da cui il credente in quanto tale trae la propria identità e dal quale soltanto può essere riaccolto pienamente anche nel suo essere colpevole ridonandogli la comunità –la Chiesa- e la vita in essa. Il raccontare la colpa nella confessione sacramentale scaturisce dal confronto personale con un ideale di vita proposto e accettato e che proviene dal vangelo: dal quel Dio che in Gesù Cristo si è rivelato e comunicato agli uomini. Se, da una parte, il confessore è un ascoltatore silenzioso, spesso nascosto dietro la grata, e in questo è molto simile a uno psicoanalista, dall’altra egli rimanda intrinsecamente a un rapporto con il Trascendente che si è manifestato in Gesù Cristo –nella sua parola e nelle sue opere- e che mantiene la sua presenza storica nella Chiesa. Il suo compito non è quello di interpretare le cause intrapsichiche, meno che meno se inconsce, del comportamento generatore della colpa, quanto quello di riaprire un cammino nella speranza e nella verità di un amore ridonato nonostante la colpa, la quale non viene affatto banalizzata, ma superata da un amore, gratuitamente donato, che è infinitamente più grande della colpa. 3.b.2. Il penitente La confessione sacramentale non è solo sfogo psicologico di una pressione interna a trovare solidarietà e condivisione umana con la propria colpa onde sentirsi ancora accettabile e accettato dagli altri, ma è inizio di un vero e proprio cambiamento di vita per aderire sempre più ad un progetto che viene da altrove, da Dio.13) Confessarsi è un raccontare la storia della propria libertà ferita di fronte al Mistero accogliente, ma nello stesso tempo ‘giudicante’ ciò che è bene e ciò che è male, non tanto per condannare il colpevole quanto per indirizzarne la vita a una impostazione non opinabile e oggettivamente buona. Da questa confessione scaturisce non solo una nuova libertà di ricerca personale del bene, ma anche una nuova libertà relazionale, perché viene riscoperta la dipendenza unica che dà senso alla vita: quella da Dio, così come Egli si è storicamente rivelato in Gesù Cristo e come è presente nella Chiesa. Analogo al rapporto terapeutico è il processo di passaggio dall’apofaticità del senso di colpa al dire, identificandone correttamente la causa nella propria libertà, l’atto e le cause che l’hanno generato. Ma nella confessione sacramentale il confronto della coscienza soggettiva è più decisamente sulla storia della propria libertà donata dall’amore di Dio, posta in relazione alla verità del bene, e sull’assunzione delle proprie responsabilità nei riguardi della propria storia, qualunque essa sia stata. Ciò diventa possibile perché la confessione è fatta davanti all’Amore accogliente che, mentre accusa di peccato, in Cristo lo assume su di sé e nella sua opera di redenzione lo perdona. Anzi, più correttamente si dovrebbe dire che la confessione sacramentale è accoglienza dell’Amore donato gratuitamente che diventa la misura della propria vita, anziché ripiegamento riflessivo su se stessi. Per questo, prima che confessione di sé, è ascolto della parola rivelata e rilettura della propria esistenza concreta alla luce di essa. Di fronte a un tale amore divino, la possibilità di integrare il male presente nella propria esistenza, senza esserne distrutti, è portato alla sua massima e insuperabile possibilità. La vita di ciascuno di noi è per sua natura una realtà incompiuta e imperfetta anche per nostra debolezza e colpa. Il male e il peccato non sono tali per una definizione arbitraria di una qualche autorità religiosa, ma in quanto distruttrici della vita personale e delle relazioni sociali. Spesso si tratta di azioni a cui il soggetto non riesce più a mettere rimedio, nonostante il proprio ravvedimento e pentimento che cerca di farsi carico delle loro conseguenze. Ciò porta a considerare il fatto che l’accoglienza benevola dell’altro umano, per quanto consolante, non risponde fino in fondo al problema del male e del peccato non essendo in grado di porvi rimedio. E’ questa situazione che porta S. Paolo a gridare "chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" (Rm 7, 24). Ecco perché la confessione nella fede del proprio peccato davanti a Dio è molto di più di un semplice, per quanto faticoso, racconto di auto-accusa; è mettersi nelle mani di Colui –Dio Padre- da cui si riconosce dipendere la salvezza di ciascun essere umano, sapendo che essa può essere solo donata non potendo essere frutto della santità o dei meriti soggettivi. Confessare la propria colpa davanti a Dio Padre implica innanzitutto, evidentemente, l’atto di fede che lo riconosce Padre misericordioso e pietoso, sempre pronto ad accogliere il figlio che ritorna a casa, ridonandogli un futuro possibile. L’annuncio di questa accoglienza illimitata del peccatore pentito, propria della paternità divina, è il nucleo della predicazione evangelica di Gesù. E’ per questo che il confessare la propria colpa nel sacramento è sempre ancheconfessio laudis: lode a Dio per l’opera della sua misericordia nella vita personale.14) Non è mai fermarsi solo al male che ha segnato la vita, ma soprattutto lode a Dio per il bene che in essa e attraverso essa è stato sperimentato e operato. La colpa è percepita in tutta la sua gravità solo quando è posta in rapporto con il mistero della vita e del suo destino ultimo e, quindi, con il mistero di Dio Padre. La confessione della colpa di per sé non è ancora il suo superamento, non è ancora aver affrontato e integrato significativamente l’irrimediabile perdita (morte) che con la colpa si è inserita nella propria vita. E’ solo quando viene ridonato un significativo futuro possibile (una vita nuova) che si può trovare la forza per superare le ferite del passato e continuare, con esse, il progetto che Dio ha inscritto in ciascuno di noi. Nella confessione davanti all’amore di Dio, e alla luce della sua parola di salvezza, l’essere umano diventa capace, nonostante tutto, di decifrare i segni della resurrezione possibile -in quanto resurrezione donata- che non può venire dalle opere dell’uomo. Egli scopre la logica della sovrabbondanza di Dio ("laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" Rom 5, 20): è la logica che apre alla speranza e che libera la libertà dell’uomo. La colpa esige che il soggetto integri il limite, generato attraverso l’uso scorretto della propria libertà, da cui sono scaturite quelle situazioni che ora sono insuperabili, e il limite stesso della libertà in quanto libertà umana. Come può il soggetto affrontare questa realtà se non affrontando il mistero stesso della vita? Affrontare questo non è porsi, di fatto, nell’ambito proprio del religioso? Il mistero di Dio, soprattutto così come si è rivelato in Gesù Cristo, offre una possibilità unica di riconoscersi peccatori, senza vedere necessariamente per questo la propria vita come insuperabilmente fallita, perché il suo definitivo compiersi è possibile solo se donato dal mistero amante e accogliente di Dio che non è legato al tempo e alle contingenze della vita in questo mondo. E’ lui che porta a compimento, assumendo in sé il peccato del mondo e, in esso, i peccati dei singoli. Il penitente cristiano si confessa peccatore ai piedi della croce di Cristo e la Chiesa lo riaccoglie nel suo seno sempre ai piedi della croce di Cristo. Questo significa rimandare il penitente a un amore oggettivo, quello di Dio che si manifesta in Cristo che assume in sé il male del mondo con l’atto supremo della donazione di sé sulla croce, ma nel contempo rimandare anche a un concreto progetto di vita, quello manifestato e vissuto da Gesù Cristo stesso. Tutto ciò è reso possibile al penitente proprio dall’accoglienza divina amorosa che gli dona e gli mostra un futuro significativo e possibile, non prescindendo dalla sua vulnerabilità e debolezza, ma facendosene carico fino in fondo. L’accusa della propria colpa, in questo contesto, è il presupposto per riscoprire più pienamente e più profondamente, proprio all’interno dei limiti personali, una relazione d’amore che dà senso al vivere e che va al di là del peccato, pur senza negarlo, anzi chiamandolo radicalmente con il proprio nome e assumendone tutte le conseguenze. Nella colpa, confessata davanti a Dio e alla Chiesa, il cristiano scopre una strada che, anziché portare a depressione e a umilianti dipendenze umane, conduce a ritrovare la propria altissima dignità di figlio amato cui è ridonata una comunità con la quale riprendere il cammino segnato dalle povertà umane, ma anche dalla fiducia e dalla speranza che trovano fondamento nell’opera di salvezza di Dio in Gesù Cristo. Alla luce di questa speranza il cristiano può rileggere la propria storia, può ritrovare il filo rosso che ne unisce significativamente i momenti, al di là delle mancanze che l’hanno segnata. Tale filo rosso è l’amore nel quale è stato generato e dal quale è sempre atteso. Il penitente ricostruisce così più realisticamente la propria identità segnata dalla limitatezza e dal male, ma immersa nel mistero dell’amore trascendente di Dio. In altre parole, egli riscopre la propria piena dignità di figlio. Il compito più grande di ciascuno di noi non è quello di liberarci completamente dal male, anche se non possiamo non cercarne i modi più adeguati, ma quello di costruire o, meglio, di accogliere un senso della vita che integri anche il nostro peccato e la nostra limitatezza e che la renda possibile in essi. La confessione cristiana è simultaneamente assumere pienamente il proprio peccato in tutta la sua gravità e nello stesso tempo affidarlo e affidarsi alle mani di Dio, accogliendo da Lui, con gratitudine, la possibilità di una nuova vita, che diventa il racconto delle opere di Dio in essa (cfr. Lc 1, 49ss.). *Studio teologico Paolo VI Seminario Vescovile Diocesano "Maria Immacolata (torna) Bibliografia 1 Questo secondo le richieste del Concilio Lateranense IV del 1215. [torna] 2 Cfr P. RICOEUR, Temps et Récit, tomo III, Seuil, Paris, 1985, p. 355. Si veda anche, dello stesso autore, Le temps raconté, Seuil, Paris, 1985.[torna] 3 Si può già qui intuire come ci siano due diversi tipi di colpa: una colpa che deriva da un ideale di sé irrealistico e una colpa che, invece, è conseguenza della rottura di un ideale di sé adeguato alla propria esistenza. Questa distinzione è importante per capire la differenza, affermata dalla teologia, tra senso di colpa e senso del peccato.[torna] 4 Cfr. A. GÖRRES, "Colpa e sensi di colpa", in Communio, 77(1984)5673.[torna] 5 Tuttavia, come appare bene, qui viene operata una semplificazione dell’esperienza, quella in cui non infrequentemente cade la psicologia: interpretare cioè il senso di colpa sempre come espressione dell’immaturità psicologica, operando una separazione netta, più che una distinzione, tra senso di colpa e coscienza del peccato. Il senso di colpa, infatti, può costituire la porta di ingresso alla coscienza del peccato in quanto esprime, sia pure in modo oscuro, la consapevolezza di aver mancato rispetto a ciò che avrebbe dovuto essere. Il vissuto emotivo del senso di colpa, di per sé, è un invito alla conversione della vita.[torna] 6 Cfr. J.W. GLASER, "Coscienza e super-io: una distinzione chiave", in A.MANENTI-C. BRESCIANI, Psicologia e sviluppo morale della persona, Dehoniane, Bologna 1993, pp. 263-272.[torna] 7 Si veda su questa diversità J.L. JANIS, "Paura, vergogna, colpa", in A. MANENTI-C. BRESCIANI, op. cit., pp. 273-284 e il commento di C. BRESCIANI nella presentazione del medesimo volume alle pp. 3648.[torna] 8 Cfr. A. GÖRRES-K. RAHNER, Il male. Le risposte della psicoterapia e del cristianesimo, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1986.[torna] 9 Cfr. P. RICOEUR, "Colpevolezza, etica, religione", in A. MANENTI-C. BRESCIANI, op. cit., pp. 285-300. Cfr. anche dello stesso autore, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970.[torna] 10 Il problema del rapporto tra confessione e psicoterapia è annoso. Per un primo approccio si veda: A. SNOECK,Confessione e psicoanalisi, Borla, Torino 1965; G. DAQUINO, "Psicoanalisi e confessione", in Religiosità e psicoanalisi, SEI, Torino 1980, pp. 280-287; G. TORELLO,Psicoanalisi e confessione, ARES, Milano 1989; G. GATTI, "Dimensione penitenziale e senso di colpa", in Educazione morale. Etica cristiana, LDC, Torino (Leumann) 1985, pp. 210-217; A. CENCINI, Vivere riconciliati. Aspetti psicologici, EDB, Bologna 1985; GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri della Penitenzieria Apostolica, AAS, 86(1994)7882.[torna] 11 Qui si vuole soltanto distinguere le due realtà, non operare una contrapposizione di principio che in sé è falsa. Si tratta di due ambiti diversi ognuno con un suo campo specifico e una sua propria validità. Una stessa identica persona può avere bisogno dell’una e dell’altra.[torna] 12 Si noti qui l’ambito ristretto in cui viene considerata la relazione psicoterapeutica: si tratta solo del rapporto di essa con la colpa e non del possibile e valido aiuto nel chiarire e nel superare i dinamismi psicologici di natura patologica.[torna] 13 In questa prospettiva anche il senso di colpa di natura psicologica che origina dall’inconscio individuale o collettivo, pur non essendo oggetto proprio della confessione sacramentale il cui oggetto è solo il peccato, trova in quest’ultima un momento importante e forse decisivoper il suo graduale superamento. L’inadeguatezza del senso di colpa trova, infatti, in essa un termine di confronto oggettivo: nella Parola di Dio (Gesù Cristo) come è presentata nella Chiesa. Tale confronto è stimolo ad uscire dal circolo vizioso del semplice sfogo emotivo per ritrovare nella riconciliazione con Dio una autentica e realistica riconciliazione con se stesso e con gli altri. Ciò non significa affatto svalutare, o eliminare, il compito specifico dello psicologo nei confronti del senso di colpa. Ma d’altra parte sappiamo che spesso senso di colpa e senso del peccato, anche nella persona ‘normale’, sono frammisti in modo tale che è difficile distinguerli accuratamente.[torna] 14 Non c’è vera confessione dei peccati che non sia lode di Dio, non c’è vera lode di Dio che non sia anche confessione dei peccati. "Non si ha nessuna pia e salutare confessione dei peccati se non si rende lode a Dio con il cuore, o anche con la bocca e la parola" (S. Agostino, Enarratio in Ps. 105, 2: PL 37, 1406).[torna]