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New Hollywood - Cineforum del Circolo

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New Hollywood - Cineforum del Circolo
i quaderni del Cineforum
A CURA DI
33
CLAUDIO CASAZZA
NEW HOLLYWOOD
l’altra faccia dell’America fra gli anni ’60 e ’70
a cura di Claudio Casazza
CINEFORUM DEL CIRCOLO
novembre - dicembre 2013
INTRODUZIONE
GLI ANNI CHE SCONVOLSERO IL CINEMA AMERICANO
«I tredici anni intercorsi tra Gangster Story del 1967 e I cancelli del cielo del
1980 furono l’ultimo periodo in cui fu un’esperienza veramente entusiasmante fare
film a Hollywood; fu l’ultima volta che si poté andare orgogliosi dei film prodotti;
l’ultima volta che l’intera comunità della gente del cinema contribuì alla qualità;
l’ultima volta che ci fu un pubblico in grado di sostenerla».
Peter Biskind, Easy Riders, Raging Bulls:
How the Sex–Drugs–and–Rock’n’ Roll Generation Saved Hollywood
A
lla fine degli anni ’60 e per tutto il decennio successivo, ad Hollywood si realizzano un numero
considerevole di film innovativi, molto distanti dalle convenzioni stilistiche e di contenuto cui
gli Studios avevano abituato il proprio pubblico. Sono film ispirati (spesso in maniera esplicita)
al cinema d’autore europeo e, più nello specifico, alla Nouvelle Vague francese.
Il cinema hollywoodiano - commerciale e di massa fin dagli esordi – attraverso il lavoro di alcuni giovani e talentuosi cineasti prova ad affrancarsi dai lacci di un’industria sempre più ingombrante, dominata
dagli incassi al box office e da una rappresentazione “rassicurante” del mondo e dei personaggi che lo abitano.
Questo cinema si apre al racconto sincero e disincantato di un’epoca turbolenta e di una generazione
inquieta. A volte sono solo deviazioni dagli stilemi dominanti o ‘classici’ hollywoodiani, altre volte invece contengono un impegnativo potenziale di rottura.
Le motivazioni che portano a questo cambiamento di rotta sono plurime ma si possono sottolineare le tre
principali: storiche, industriali e formali.
1 - LE CAUSE STORICHE
Dal punto di vista storico un po’ di dati sono utili: nel 1946 il pubblico cinematografico in America era di
quasi 90 milioni. Già nel 1950 era sceso a 60 milioni e dieci anni dopo a 40 milioni, fino a toccare il suo
minimo storico, 17 milioni di spettatori nei primi anni Settanta. All’indomani della Seconda Guerra mondiale, il cinema non era più la forma culturale dominante della società statunitense. Le ragioni di un simile crollo furono naturalmente molteplici. Tra il 1947 e il 1957 in America la diminuzione del pubblico cinematografico è pari al 74%, mentre dal 1951 al 1955 il numero dei televisori cresce esponenzialmente, passando da 3,1 a 32,8 milioni in tutta la nazione. La tv diventa molto presto il mezzo di comunicazione per
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famiglie borghesi. È l’intrattenimento quotidiano scelto dalla middle class, la compagna ideale delle casalinghe, l’occasione per riunirsi con i figli dopo una giornata di lavoro in città.
2 - L’INDUSTRIA
L’industria nel cinema americano è sempre stata fondamentale. Perciò le ragioni che conducono all’affermazione del nuovo modello artistico e produttivo denominato “Hollywood Renaissance” vanno poi ricercate all’interno della stessa fabbrica dei sogni, nei mutamenti che colpiscono soprattutto gli Studios e che
ne decretano la fine.
Nel 1938 il Ministero della Giustizia intenta una lunga causa contro le Big Five (Warner, MGM,
IL CODICE HAYS
È il nome con cui è comunemente indicato, dal nome del suo creatore Will H. Hays, il Production Code, una
serie di linee-guida che per molti decenni ha governato e limitato la produzione del cinema negli USA.
La Motion Picture Producers and Distributors of America (MPPDA, che sarebbe poi diventata la Motion Picture
Association of America, o MPAA) adottò il codice nel 1930, iniziando però ad applicarlo effettivamente nel 1934,
e lo abbandonò solo nel 1967 a favore del successivo MPAA film rating system.
Il «Production Code» specificava cosa fosse o non fosse considerato «moralmente accettabile» nella produzione di film. Ed elencava tre «Principi generali»:
1 - Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.
2 - Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento.
3 - La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello
spettatore per la sua violazione.
Diverse restrizioni specifiche vennero poi stilate come «Applicazioni particolari»:
- Il nudo e le danze lascive furono proibiti.
- La ridicolizzazione della religione fu proibita; i ministri del culto non potevano essere rappresentati come personaggi comici o malvagi.
- La rappresentazione dell’uso di droghe fu proibita, come pure il consumo di alcolici, «quando non richiesto
dalla trama o per un’adeguata caratterizzazione».
- I metodi di esecuzioni di delitti (per esempio l’incendio doloso, o il contrabbando ecc.) non potevano essere
presentati in modo esplicito.
- Le allusioni alle «perversioni sessuali» (tra cui veniva inclusa l’omosessualità) e alle malattie veneree furono
proibite, come lo fu anche la rappresentazione del parto.
- La sezione sul linguaggio bandì varie parole e locuzioni offensive.
- Le scene di omicidio dovevano essere girate in modo tale da scoraggiarne l’emulazione nella vita reale, e
assassinii brutali non potevano essere mostrati in dettaglio. «La vendetta ai tempi moderni» non doveva apparire giustificata.
- La santità del matrimonio e della famiglia doveva essere sostenuta. «I film non dovranno concludere che le
forme più basse di rapporti sessuali sono cose accettate o comuni». L’adulterio e il sesso illegale, per quanto
si riconoscesse potessero essere necessari per la trama, non potevano essere espliciti o giustificati, e non
dovevano essere presentati come un’opzione attraente.
- Le rappresentazioni di relazioni fra persone di razze diverse erano proibite.
- «Scene passionali» non dovevano essere introdotte se non necessarie per la trama. «Baci eccessivi e lussuriosi vanno evitati», assieme ad altre trattazioni che «potrebbero stimolare gli elementi più bassi e grossolani».
- La bandiera degli Stati Uniti d’America doveva essere trattata rispettosamente, così come i popoli e la storia
delle altre nazioni.
- La volgarità, e cioè «soggetti bassi, disgustosi, spiacevoli, sebbene non necessariamente negativi» dove vano
essere trattati entro i dettami del buon gusto. Temi come la pena capitale, la tortura, la crudeltà verso i minori
e gli animali, la prostituzione e le operazioni chirurgiche dovevano essere trattati con uguale sensibilità.
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Paramount, Twentieth Century Fox, RKO) e le Little Three
(Columbia, Universal, United Artists) per violazione delle leggi
anti trust. Dieci anni più tardi, dopo diverse sentenze, appelli e
rinvii anche a causa della guerra, la Corte Suprema delibera che
le otto majors costituiscono un oligopolio illegale. Con questa
celebre sentenza che prende il nome dall’ultima major rimasta
attiva nel processo, la Paramount, ha fine lo Studio System. Nei
fatti, la sentenza del 1948 stabilisce soprattutto l’obbligo da
parte degli Studios di vendere le sale cinematografiche di proprietà, un onere questo che stravolge la fisionomia dell’intero
sistema produttivo. È sufficiente, infatti, considerare che durante
gli anni Trenta e Quaranta il 94% degli investimenti delle majors
era vincolato nella proprietà delle sale di prima visione nelle
Anni ‘50: famiglia americana riunita davanti
quali si realizzavano quasi il 70% degli incassi al botteghino. In
alla televisione. Nella prima metà degli
questo modo il sistema verticistico che aveva regnato dalla fine
anni ‘50 il numero di televisori negli Stati
degli anni Dieci viene smantellato radicalmente, aprendo il meruniti passa da circa 3 milioni a quasi 33
cato a società indipendenti e liberando gli attori e i registi da conmilioni.
tratti decennali.
Ci volle un po’ di tempo prima che ci si rendesse conto della
libertà potenziale di questo nuovo sistema. Fino alla metà degli anni Sessanta gli studios rimasero saldamente in pugno a una generazione di anziani produttori, figure che sembravano sempre più incapaci di
comunicare con i molti rappresentanti della generazione del baby boom che in quel decennio raggiungevano la maggiore età.
Tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1960, il sistema di produzione cambia radicalmente sotto i
colpi di queste leggi antitrust, ma anche in risposta al successo del mezzo televisivo. In un assetto industriale meno centralizzato, per fermare l’emorragia di spettatori Hollywood comincia a guardare al pubblico dei “giovani” (sempre più crescente) e, insieme, ad un mercato di “adulti” con contenuti espliciti e scabrosi, lasciando alla tv il vasto pubblico delle famiglie. Il codice di autoregolamentazione comincia a scricchiolare già a fine anni ‘50 ma dobbiamo aspettare il 1968 per vedere il Codice Hays venire messo completamente da parte a favore di un sistema di valutazione che istituzionalizza la realizzazione di film rivolti a gruppi particolari di spettatori, per fasce di età.
3 - UNA NUOVA FORMA DI CINEMA
La revisione stilistica e tematica avviene attingendo alla letteratura moderna (autori come Tennessee
Williams, Budd Schulberg, Francis Scott Fitzgerald) e, soprattutto, al teatro, con l’intento di trasferire sullo
schermo l’intensità della messa in scena e la drammaturgia dell’at-
Marilyn Monroe e Paul Newman, due
fra i grandi attori americani formatisi
all’Actor’S Studio
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tore. Iniziano ad esserci eroi negativi, incompresi e malinconici, uomini sconfitti in una lotta impari contro
le ingiustizie e la violenza del sistema..
I film di questi anni introducono uno stile recitativo unico, che rende eterni i loro protagonisti. Si sperimentano, infatti, le tecniche della recitazione naturalistica e psicologistica debitrice del Metodo
Stanislavskij, messo a punto dal regista russo Konstantin Stanislavskij nei primi anni del ‘900. Il Metodo
si basa sull’approfondimento psicologico del personaggio e sulla ricerca di relazione tra il mondo interiore del personaggio e quello dell‘interprete. In altri termini, si fonda sulla esternazione delle emozioni più
intime e private attraverso la loro interpretazione e rielaborazione.
L’Actor’s Studio nasce a New York nel 1948 per volere dei registi Elia Kazan, Cheryl Crawford e Lee
Strasberg, come evoluzione delle sperimentazioni del Group Theater nato nel 1931, fondato proprio da
Cheryl Crawford, Lee Strasberg insieme a Harold Clurman. Il metodo di recitazione dell’Actor’s Studio
richiede all’attore una totale disponibilità psicologica, un lavoro profondo sul proprio inconscio e sui conflitti interiori. Esso si allontana, quindi, dalle teorie brechtiane della «distanziazione» e soprattutto dal classicismo hollywoodiano del periodo precedente.
Lee Strasberg mantenne la direzione fino alla sua morte nel 1982, divenne maestro di molti aspiranti attori: Anne Bancroft, Marlon Brando, James Dean, Marilyn Monroe, Paul Newman, Al Pacino, Harvey Keitel,
Shirley MacLaine, Eli Wallach, Lauren Bacall, Robert De Niro, Susan Sarandon, Jane Fonda, Harrison
Ford, Meryl Streep, Steve McQueen, Nastassja Kinski, Laura Dern e molti altri... Attori che diventeranno
star conclamate, molti di loro proprio negli ‘60 e ‘70 quando esplode la New Hollywood.
IL CINEMA COME SPECCHIO DEL REALE
Dal punto di vista delle storie che si raccontano è inevitabile stabilire dei collegamenti tra i film di
Hollywood e i tempi “tumultuosi” di quegli anni. I tempi si impongono con forza nelle coscienze dei registi, degli sceneggiatori, degli attori. Invadendo così in modo inconfondibile il terreno dell’intrattenimento
popolare come il cinema hollywoodiano.
In quegli anni, il numero degli avvenimenti e delle fratture in seno alla società, come il movimento hippy
e la lotta dei neri per i diritti civili, la guerra in Vietnam e le rivolte razziali, l’assassinio di Martin Luther
King, di John e Robert Kennedy fino allo scandalo che coinvolse Nixon, finirono per intaccare seriamente l’immagine degli Stati Uniti come il luogo di libertà e democrazia e misero in discussione i valori e i
principi di fondo degli americani.
Il Cinema, necessariamente, doveva confrontarsi con questi sviluppi esterni del mondo. Questo, probabilmente, potrebbe già essere un punto in comune più concreto di tutta la generazione New Hollywood: il
Cinema come specchio od ombra sociale del nuovo spirito americano a cavallo fra gli anni ’60 e ’70. Una
contestazione fuori e dentro lo schermo, sia dei film prodotti da soldi indipendenti, sia dagli Studios.
A sinistra: il presidente
americano Richard
Nixon;
a lato: proteste
studentesche alla
Berkley’s University
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La New Hollywood non fu però una vera e propria scuola, teoricamente e programmaticamente fondata,
bensì un atteggiamento, condiviso da larghi settori del mondo hollywoodiano, segnato da una forte ansia
di rinnovamento tematico e formale. I vari registi non intraprenderanno una strada unica, ma diramata in
direzioni abbastanza diversificate fra di loro, per non dire opposte; basti pensare ad autori come Steven
Spielberg, Martin Scorsese e Woody Allen, tutti nuovi filmakers esorditi in quegli anni in perfetto New
Hollywood style, ma tutti e tre dalla poetica assai poco assimilabile fra di loro ma ben distinte e riconoscibili. E in fondo, questo potrebbe essere esattamente un altro dei punti che lega sotto un unico tetto le diverse correnti del nuovo cinema americano: la pretesa, l’obbligo morale ed etico - di personalizzazione del
proprio prodotto concepito: “The Author theory”.
Il rinnovamento tematico si apre a nuovi criteri d’interpretazione della realtà e della storia: la contestazione giovanile nei campus e nella società viene vista con favore e simpatia; emerge la figura del disadattato,
del fallito, dello spirito anarcoide, dell’antieroe; si condanna la violenza, l’ipocrisia e il cinismo che permea la società, in contraddizione con sbandierati principi di democrazia e civiltà; si esplorano le rovine e
le nevrosi lasciate dalla fine del sogno americano; si racconta di impossibili fughe on the road; si rivisita
la storia del paese in chiave critica ribaltando gli schemi di valore consacrati dal Cinema classico.
Escludendo la libertà espressiva del cinema underground, il rinnovamento formale invece appare più
moderato e tale da non rinunciare alla tradizionale fluidità narrativa tipica del Cinema americano. Non ci
sono grandi “sperimentazioni nel campo formale”, ma semplicemente più libertà di manovra: soprattutto
nella colonna sonora, nella ricerca di set “reali” e nel montaggio, fase del lavoro che in precedenza veniva
assolutamente non concessa al regista. Le soluzioni narrative adottate dai neo-registi americani sono spesso delle riprese più o meno evidenti della Nuovelle Vague, come non pensare a Godard e ai suoi scavalcamenti di campo, alla sua gestione d’intreccio, ormai entrate a tutti gli effetti come possibilità formali anche
nel Cinema Americano di quegli anni, forse addirittura in modo più estremo, con quelle zoomate repentine e un uso della macchina a mano che non sarebbero mai state possibili in epoca classica.
I FILM CHE VEDREMO
Con la New Hollywood, a tutti gli effetti, possiamo dire che il Cinema si è totalmente “globalizzato”. Tutte
le lezioni assorbite dal caro e buon vecchio continente, erano diventati nuovi punti di riferimento della
nuova grammatica filmica di Hollywood. E questo, inevitabilmente, ha aperto nuove strade di riflessione
sociale e di metodologia, che sbocceranno in pieno nella rilettura dei generi classici per eccellenza
(western, gangster, musical, melò, noir) rivisitati sotto l’occhio del modernismo entrato ormai a pieno diritto fra le salette a stelle e strisce. A differenza di quanto spesso si dice erroneamente, i registi della New
Hollywood non rifiutarono affatto l’allineamento filmografico ai generi dell’epoca classica, anzi, contrariamente, più volte i generi sono stati usati consapevolmente proprio come armi della propria poetica, in
una nuova elaborazione (o semplicemente: aggiornamento) di ciò che già era prefigurato in precedenza,
come una sorta di mescolanza, di vero punto d’incontro fra il classico e il moderno, con queste situazioni
e personaggi famigliari all’immaginario cinematografico americano ma revisionati sotto un nuovo occhio
ed espresse con i nuovi abiti dell’esigenza sociale rinnovata.
Proprio con un film che rilegge e reinventa il genere
partirà la nostra rassegna: Gangster Story (Bonnie
and Clyde) di Arthur Penn, un film che riprende il
genere gangster che fece la fortuna negli anni 30’ e
40’. La celebre coppia di banditi del film di Penn
diventa quindi la bandiera di una romantica indipendenza libertina, riflesso della nuova gioventù perennemente in lotta e in ribellione, che pur essendo dei gangster (i cattivi del classico), diventano invece emblemi di (anti)eroismo, dei modelli con cui il nuovo pubblico di giovanissimi amava rispecchiarsi. Faye Faye Dunaway e Warren Beatty in una scena di
Dunaway e Warren Beatty sono due fantastici gla- Gangster Story, di Arthur Penn
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mour-banditi.
Anche il secondo film gioca con il genere:
Mean Streets è il film che lancia Martin
Scorsese, il primo lungometraggio che lo rappresenta intimamente e ne racconta il milieu
di origine e le inquietudini che lo muovono.
Per un caso fortunato, il sottotitolo italiano
«Domenica in chiesa, lunedì all’inferno» è
azzeccato e illuminante, poiché è lo stesso
Scorsese, nel racconto della sua vocazione, ad
ammettere come non fosse facile, per chi era
cresciuto a Little Italy, sopravvivere senza
cambiare strada, senza diventare né un gangster né un prete. De Niro e Keitel giovanissimi sono strepitosi.
Il terzo film che vedremo è un superclassico
che ci fa entrare negli anni ‘70 e nella fine del
periodo Nixoniano. Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula è la storia di come due giovani cronisti del quotidiano Washington Post, Carl
Bernstein e Bob Woodward (autori del libro sul quale si basa la sceneggiatura di William Goldman), scoprirono il collegamento tra la Casa Bianca e il caso Watergate, provocando nel 1974 le dimissioni del presidente Nixon. Un film quasi maniacale della ricostruzione dei fatti senza invenzioni romanzesche né indugi psicologici, è forse l’omaggio più esplicito che il cinema abbia mai reso al «quarto potere». Dustin
Hoffman e Robert Redford sono mimetici nel diventare Bernstein e Woodward.
Un giovane Harvey Keitel in Mean Streets
Col quarto film, Una moglie di John Cassavetes, andiamo nella costa Est degli Usa: dal fermento di quegli anni nasce il New American Cinema Group. Un gruppo di artisti eterogeneo (Cassavetes e Shirley
Clarke, Pennebaker, Kenneth Anger, Jonas Mekas, Jack Smith e Andy Warhol) autori totalmente estranei
al sistema produttivo mainstream. L’obiettivo del loro cinema è legato al rifiuto di ogni controllo intellettuale, del professionismo e dalla pretenziosità dei costi elevati; non solo, ma esso si lega anche alla piena
accettazione dei principi beat come l’improvvisazione e l’incoerenza. È un cinema che in qualche misura
ritorna ad essere cinematografo, tecnica, strumento che diviene nuovamente codice. Tra tutte, la cinematografia di Cassavetes quella che esprime al meglio questa inclinazione alla dissonanza. Il film scelto è una
grande storia d’amore e di follia,
sulla follia come differenza e rivolta. Un film importante sul malessere della società americana vista
attraverso la famiglia e la coppia
(etnicamente disparata: lui plebeo
italoamericano, lei yankee di origine svedese). Un film di straordinaria forza emotiva tra il tenero e il
feroce. Con una Gena Rowlands e
un Peter Falk fuori dal comune.
E per ultimo un film che torna
indietro nel tempo ma che è attualissimo per raccontare gli anni ‘70:
Non si uccidono così anche i I giornalisti Carl Bernstein, a sinistra, e Bob Woodward, nella redazione del
cavalli? di Sidney Pollack. Film Washington Post all'epoca dell'indagine relativa allo scandalo Watergate.
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ambientato nel 1932, durante la grande depressione, a
Los Angeles dove si svolge una maratona di danza.
Sagra di sadomasochismo, claustrofobica fino all’angoscia, impressionante ricostruzione d’epoca con dialoghi crepitanti, è una sola, grande metafora
sull’America amara che si slarga ad allegoria sul
destino.
Non si uccidono così anche i cavalli? sarà la degna
conclusione di questo decennio isolato creante una
specie di isola felice, che però, col finire del decennio,
arriverà già al suo (troppo anticipato) decesso, complice una serie di avvenimenti che poco per volta ci
faranno culminare verso la “fine della New
Hollywood”. In primis, proprio il successo commerciale dei lavori proposti, che porta alcuni autori Steven Spielberg e George Lucas ad esempio - alla
creazione di massicci blockbuster. Proprio il successo commerciale di questi prodotti da un lato, e quello
del grossissimo budget richiesto nella loro realizzazione dall’altro, hanno ricondotto i producers a rimettere il proprio naso nei progetti dei propri registi.
Nonostante le libertà acquisite precedentemente, a
Hollywood continuava silenziosamente a vigere la
regola del “più soldi ci sono in ballo, e più un singolo
(in questo caso, il cineasta) ha meno poteri decisionali”.
La libertà assaporata dagli autori per la rinnovazione Il regista di origini greche John Cassavetes nel 1954
del Cinema Americano pian piano si tramuta in un con la moglie, l’attrice Gena Rowlands
ricordo lontano: il taglio finale alla propria opera
ritorna nuovamente in mano ai produttori, che dunque
si porgono, come già nello Studio System, al vertice di tutto il lavoro creativo, riaprendo dunque l’eterno
combattimento con la figura del regista.
Sostanzialmente ai miti antichi e radicati che costituivano punti di riferimento per tutto il paese non si erano
ancora sostituite altre idee-forza e nuove convinzioni. Semplificando il concetto, il “vecchio” era morto; ma
il “nuovo” non lo aveva ancora rimpiazzato. Il mito americano del paese teso al Benessere, fiducioso in se
stesso, credente nel Progresso, capace di assimilare e inglobare qualsiasi nuova componente, con una classe dirigente legata direttamente al popolo, lo si può considerare definitivamente tramontato. Ma il nuovo
mito non si è ancora imposto. In questa America alla ricerca di qualcosa in cui credere si inserisce il nuovo
cinema americano. Un cinema che ci mostra quello che è successo all’America in questo decennio: le credenze antiche sono ormai cadute e quelle nuove sono molteplici, incerte e contraddittorie.
Arriviamo presto agli anni ‘80, nei quali a livello politico iniziano gli anni di Ronald Reagan, casualmente ex attore del cinema classico americano. Sono anni in cui la destra repubblicana vedrà il consolidarsi del
proprio potere per tutto il decennio. L’America di Reagan si presenterà come una nazione detentrice di forti
valori e il cinema diverrà gradualmente un elemento centrale nella cultura di massa e uno dei protagonisti
dell’informazione mediatica.
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SQUARCI DI SETTIMA ARTE: LA NEW HOLLYWOOD, TRA LIBERTÀ E SPAESAMENTO
DI STEFANO ODDI
“C’era follia in ogni direzione, ad ogni ora, potevi sprizzare scintille dovunque, c’era una fantastica, universale, sensazione che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo. E quello, credo, era il nostro appiglio, quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del vecchio e del male,
non in senso violento o cattivo, non ne avevamo bisogno, la nostra energia
avrebbe semplicemente prevalso, avevamo tutto lo slancio, cavalcavamo la
cresta di un’altissima e meravigliosa onda. E ora, meno di cinque anni dopo,
potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e, se guardavi ad ovest, e
con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta, quel
punto, dove l’onda infine si è infranta ed è tornata indietro.”
M
i servo inopinatamente di Terry Gilliam e di un monologo di uno dei suoi film più noti (Paura
e delirio a Las Vegas, 1998) o quanto meno di quello in cui il folle regista naturalizzato britannico definisce una volta per tutte l’ambiguo e sfaccettato rapporto con la sua patria
America, per tentare di introdurre quella cesura epocale nella storia del cinema statunitense (e non solo)
conosciuta come New Hollywood, storicamente ricordata come definitivo momento di innesto del concetto
di regista-autore all’interno dello studio system e -va da sé- di massima celebrazione della libertà espressiva
del cineasta all’interno delle gabbie costrittive imposte dai produttori, per la prima volta saggiamente concordi nel chinare il capo di fronte a una rigogliosa generazione di interpreti di un mutato stato socio-culturale.
Una stagione cinematografica caratterizzata da un’insuperata freschezza di temi e motivi oltre che da un
numero sterminato di capolavori imprescindibili, tutti compresi tra gli ultimi fuochi degli anni ’60 e i primi
degli ’80.
Il mio obiettivo, in questa difficile e breve ricognizione, è quello di abbattere le sclerotizzate posizioni teoriche fondate sullo stereotipo che fa della New Hollywood soltanto il rigurgito made in USA di quel folgorante rinnovamento dei modi di fare cinema instaurato in Europa prima dal neorealismo italiano e poi
dalla Nouvelle Vague francese. Senza trascurare il decisivo apporto costituito dalle due scuole europee,
cercherò di definire la specificità propriamente americana di questa cruciale pagina di storia del cinema (e
in questo, ahimé, dovrò escludere dalla trattazione autori magistrali che pure sono stati parte integrante di
quel rinnovamento) dimostrando come le opere di autori del calibro di Martin Scorsese, Hal Ashby,
Francis Ford Coppola, John Cassavetes (…) costituiscano l’evoluzione spontanea di una parabola che
il cinema americano aveva preso a tracciare già in precedenza grazie a cineasti come John Huston e
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Arthur Penn, oltre che il riflesso più rigoroso di un sentire collettivo irrimediabilmente connesso alla questione del Vietnam e della Guerra Fredda, agli ideali del Sessantotto e soprattutto permeato dalle inquietudini e dallo spaesamento esistenziale che il loro crollo -connesso al trauma delle guerre sporche- produrrà
nel tessuto sociale a stelle e strisce.
Se dovessimo ricominciare da dove avevamo lasciato il panorama statunitense (monografie a parte), cioè
a quegli anni ’50 che videro i primi segnali forti di erosione dell’immaginario classico, non basterebbe un
saggio per indagare la capacità straordinaria di autori come Elia Kazan o Don Siegel di illuminare attraverso film come La valle dell’Eden o L’invasione degli ultracorpi i segnali più evidenti di un turbamento sofferto e malcelato sotto troppi strati di pelle. L’inquietudine della guerra fredda, del maccartismo, della
perdita di orientamento di una nazione che dopo la vittoria della Seconda Guerra Mondiale si ritrovava
invischiata nell’orrore delle guerre di speculazione e perdeva quel posto di riguardo nella scacchiera internazionale, considerato all’unanimità il seggio dei “giusti”. Il cinema classico e la sua logica conchiusa e
rigorosa, positivisticamente fondata su un punto di vista -quello statunitense- limpido e privo di scorie
cominciò a sfibrarsi subito dopo il conflitto mondiale e lo spaesamento dell’intera nazione trovò una perfetta forma di espressione nelle nuove generazioni di interpreti uscite dal celebre Actor Studio, fondato da
Kazan. Parlo di Marlon Brando e Paul Newman ma soprattutto di Marilyn Monroe, Montgomery Clift
e James Dean, anti-divi entrati nella mitologia tradizionale del cinema con i loro personaggi senza regole
né padri, intimamente dissestati, colti in momenti di turbinio esistenziale e incapaci di adattarsi al mondo
e alle sue regole. Si pensi ai ribelli senza causa di
James Dean, alle pose accartocciate, tese a costruire una corazza dalla durezza del mondo circostante,
di film come Gioventù bruciata ma soprattutto il
mai abbastanza citato La valle dell’Eden oppure ai
magnifici e sfrontati loser di Paul Newman tra il
selvaggio west revisionista del Penn di Furia selvaggia e la prigione-riformatorio di Rosenberg di
Nick mano fredda. Nomi e titoli di valore inestimabile a cui purtroppo non possiamo concedere lo spazio che meritano ma che -pure attraverso queste
brevi citazioni- ci aiutano a comprendere come i fermenti innovanti e anticlassici propri della New
Hollywood costituiscano un prosieguo coerente di
alcune premesse che il cinema statunitense aveva
attivato da tempo e non -o almeno non soltanto- un
mero travaso da un contesto alieno e lontano come
quello europeo.
Certo è che quelli che tra la fine degli anni ’40 e i
primi ’60 erano scossoni palpitanti e febbrili di narrazioni che mantenevano -seppur con fatica- un’impostazione rigorosamente classica, con l’avvento
della New Hollywood divennero le ossessioni strutturanti e i leitmotiv tematici totalizzanti di un cinema profondamente riplasmato da registi finalmente
liberi di dar voce alle proprie esigenze, ai ritmi di
una realtà radicalmente trasformata nel corpo e nella
mente dalle battaglie per i diritti civili, dalla morte
di Kennedy, dallo scoppio della Guerra in Vietnam
e dalle implicazioni di quel gigantesco movimento
di rifondazione culturale comunemente ricordato
come Sessantotto. Nel momento in cui i tycoon hol- Una celebre immagine di James Dean per le strade di
lywoodiani concessero carta bianca ai propri registi, New York
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tentando un cambio di rotta che potesse
ovviare al crollo di pubblico causato
dalla proliferazione degli schermi televisivi, l’America viveva quello slancio
utopico, innovante e profondamente critico così
magnificamente descritto dal monologo
del film di Gilliam che apre l’articolo.
L’ardore feroce contro la guerra sporca
condotta senza morale nel sud-est
Asiatico fungeva da bandiera di un movimento che professava una riorganizzazione della società a partire da un concetto di aggregazione, solidarietà e uguaglianza, da una tensione solare e visionaLocandina de Il laureato, ria verso un futuro ripulito dai fantasmi
della discriminazione e della guerra, da
di Mike Nichols
un progetto di svecchiamento radicale
orientato alla distruzione della società borghese e capitalista e con essa delle ipocrisie bigotte e tradizionaliste. Ma l’incapacità di tradurre queste nobili aspirazioni in concreti programmi di riforma causò la deflagrazione del movimento e il sorgere di un sentimento generalizzato di spaesamento esistenziale, accompagnato da una malinconica e pessimistica riflessione sulla definitiva perdita di una purezza nazionale non
più recuperabile e da una rilettura critica globale della storia della nazione più potente del mondo. Da questo contesto trovarono linfa vitale i film della New Hollywood, permeati da uno scoppiettante e sfacciato
anelito libertario che li portava a trattare temi scottanti (sesso, droga, malavita), ripresi con uno stile fresco e nuovo, tutto aderente alla realtà ruvida della strada, a rigettare il classico happy end per documentare il flusso energico e vibrante del vivere senza freni. Oppure magistralmente costruiti come affreschi infernali di una nazione allo sbando, del cammino privo di punti di riferimento di reduci, vedove, uomini e
donne sole, della fine di un’era. O spesso programmaticamente orientati a minare lo statuto sacrale dei
padri fondatori per riscrivere -e ribaltare- l’epopea di conquista del west selvaggio come atroce e sanguinoso atto di distruzione, genocidio del diverso (e non come gloriosa vittoria della civiltà sulla barbarie). Il
western in questo senso tornò alla ribalta come genere prediletto di molti cineasti, principale veicolo di
riflessione sulle antiche e ineliminabili radici del male costituitivo di un popolo da sempre macchiato di
sangue, di solito attraverso l’arma sprezzante dell’ironia.
Il regista Arthur Penn dietro la sua macchina da presa
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Il film con cui la storiografia tradizionale è solita far coincidere l’inizio della New Hollywood è Il laureato di Mike Nichols, uscito nel 1967, giocato sul rapporto amoroso che si crea tra un giovane Dustin
Hoffman e la prorompente e ben più matura Mrs. Robinson, prima che il neo-laureato s’innamori della
figlia di questa e con lei coroni il suo sogno d’amore. Una parabola sentimentale che scardina con vivida
potenza il tabù della sessualità -peraltro adultera, riflettendo con prepotenza sull’isolamento, la solitudine
e l’incomunicabilità tra generazioni sulle note di Simon & Garfunkel e imponendosi anche come percorso simbolico, allegoria del cinema made in USA (Hoffman) che attratto dal fascino maturo del cinema
classico (la signora Robinson) preferisce tuttavia tuffarsi nella freschezza e nel nuovo (Elaine), distruggendo tutti i simboli arcaici di un ordine tradizionale e passatista (il protagonista rapisce Elaine proprio nel
momento del suo matrimonio, usando la croce come strumento per sbarrare la porta della chiesa) per orientarsi al futuro costituito appunto dalla New Hollywood.
Lo stesso anno esce un altro film-monumento della New Wave statunitense, il celebre Gangster story di
Arthur Penn, incentrato sulle scorribande della -veramente esistita- coppia di fuorilegge Bonnie e Clyde,
profondamente influenzato dai dettami della Nouvelle Vague francese, in primis da Godard e dai suoi
Fino all’ultimo respiro e Il bandito delle ore 11 e capace di influenzare a sua volta molte generazioni di
cineasti. Uno dei suoi meriti principali fu peraltro quello di tracciare gli stilemi costituitivi del cosiddetto
film on the road, un sottogenere essenziale e paradigmatico per l’esperienza eversiva costituita dalla New
Hollywood. Elementi come la strada, il viaggio, la sosta, l’incontro che infatti si ponevano come suoi leitmotiv principali permettevano di trasformare il viaggio fisico in itinerario di indagine e riscoperta del proprio sé, percorso attraverso cui placare la propria instabilità e insofferenza, riflesso del proprio disagio interiore, motivo e fine stesso dell’andare e non cammino verso una meta determinata. Il viaggio dei protagonisti della New Hollywood attraverso gli scenari lussureggianti o desolati dell’America post ’68 si poneva
prima di tutto come esplorazione dei propri confini, inquieta ricerca di una stabilità intima e personale,
unico antidoto al disorientamento morale prodotto dalla perdita di purezza di una nazione, appagamento,
tensione utopica verso quella libertà totale e assoluta professata dai movimenti giovanili che facevano sentire la propria voce in tutto il paese.
In questo senso va intesa la tragicomica e nostalgica odissea dell’Ultima corvé di Ashby, in cui due sottufficiali (uno è Jack Nicholson) conducono un giovane e disadattato marinaio nella prigione dove dovrà
passare otto anni della sua giovinezza per il solo torto di aver rubato 40 miseri dollari a un associazione in
qualche modo legata all’ammiraglio capo. Il viaggio funge da itinerario iniziatico per il ragazzo a cui i due
maggiori di buon cuore concedono un po’ di divertimento mentre si pone come momento di riflessione sull’ingloriosa e cupa ingiustizia del vivere per i due protagonisti.
Una dimensione a metà tra eterno vagare e “andare alfieriano” assume invece il ritorno a casa di Jack
Nicholson -interprete feticcio dell’ondata rivoluzionaria- nei Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, uno dei
personaggi più sofferti e interessanti della straordinaria decade cinematografica statunitense, costretto a
tornare in famiglia a causa della malattia di un padre con cui non parla da anni prima di rivelarsi irrimediabilmente insofferente alla possibilità di legarsi a qualsiasi impegno. Il finale epico, con la fuga in
camion verso una meta che non ci è dato decifrare, rappresenta forse al massimo grado il concetto sopracitato di disorientamento esistenziale e l’ideale di viaggio come meta stessa del vagare, puro momento di
pacificazione estraneo da regole e contingenze.
Ben più decostruttivo e straniante è invece il percorso on the road in cui si avventurano i giovani ribelli
catatonici di Malick nel folgorante esordio costituito da La rabbia giovane, uno dei film più antimitici mai
realizzati, tutto incentrato su una coppia silenziosa che semina morte in modo gratuito tra le brulle e desertiche lande americane (sulla scia del già citato Gangster story), teso a evidenziare, attraverso il vagare
privo di schemi dei protagonisti, la totale assurdità della violenza, la banalità del male, l’archetipica, barbara e atavica natura dell’uomo, drammaticamente opposta alla bellezza di un creato indifferente alle questioni di chi lo abita. Dicotomia che sarà determinante in tutte le pellicole realizzate dal cineasta di Waco,
strutturante anche del successivo I giorni del cielo, spietato quanto magnifico scandaglio della grettezza
umana ambientato in una vasta piantagione di grano del Texas di inizio Novecento e canto del cigno della
New Wave americana.
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Ma è forse l’indimenticabile Easy rider di Dennis Hopper l’on the road che illustra in modo più limpido
e diretto i fermenti paradigmatici della cultura sessantottina e insieme il loro scontro drammatico con una
realtà incapace di percepirli. I due protagonisti che attraversano in motocicletta l’America, predicando la
necessità di essere liberi in tutti i modi possibili, il valore della solidarietà umana e il potere visionario ed
evasivo della droga, infatti, cozzano con un universo incapace di comprendere l’altro da sé, un mondo ipocrita e volgare in cui “parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse”, abitato da persone che “ti
parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo
veramente libero, allora hanno paura”. Talmente tanta da sparare a vista su un reietto ancora capace di
sognare un mondo migliore, mentre esala l’ultimo respiro di fianco a una moto che prende fuoco. E insieme a lei, è il sogno americano a svanire nelle nebbie di un tempo e di una purezza che non esistono più.
A pervadere i capolavori della New Hollywood c’è infatti soprattutto un profondo senso di perdita. La
malinconica e ineliminabile consapevolezza della fine di un’era. Di un tempo. Di un apice ormai irraggiungibile. E con essi, la testarda pretesa di sfidare l’avido corso del tempo da parte di protagonisti impauriti,
delusi, incapaci di accettare l’età adulta, le responsabilità, segretamente ostinati a riallacciarsi a quell’ideale di purezza costituito dalla fanciullezza, dalla gioventù. Paradigmatici a questo proposito tre titoli giganteschi come L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, Un mercoledì da leoni di John Milius e Mariti
di John Cassavetes. Se nel primo la perdita della giovinezza dei protagonisti (tra i quali un giovanissimo
Jeff Bridges) e il crollo dei propositi di purezza di una nazione risucchiata nell’abominio della Guerra di
Corea vengono raccontati attraverso il filtro narrativo della chiusura di un vecchio cinema di paese (che,
in un’operazione palesemente metaforica, propone come ultimo spettacolo Il fiume rosso di Hawks -assoluto caposaldo della classicità- come a segnalare la fine di una stagione artistica e l’inizio di una nuova),
in Mariti Cassavetes racconta il nostalgico scontro con la morte di tre amici di mezz’età che, stretti da un
legame viscerale e sconvolti dalla scomparsa del loro migliore amico, si lasciano alle spalle per qualche
giorno la quotidianità familiare e partono alla ricerca di una giovinezza di cui non scovano più le tracce.
Paragonato all’Ulisse di Joyce per la sua struttura antianeddotica da epica dell’irrilevante e risolto com’è
nelle colossali e strazianti interpretazioni dei tre attori (John Cassavetes, Ben Gazzara e Peter Falk),
Mariti è probabilmente uno dei meno celebrati e più potentemente allarmanti saggi sul disagio esistenziale, figlio di quella straordinaria capacità del suo regista di scandagliare l’abisso dei propri personaggi
all’interno di narrazioni impregnate di banale quotidianità (si pensi agli esordi o al magistrale Una moglie).
Non meno imponente, infine, il film sopracitato di Milius, di nuovo giocato sulla storia di un’amicizia virile temporalmente scandita in quattro tempi attraverso quei punti di svolta costituiti dalle grandi mareggiate alle quali i protagonisti surfisti dedicano la propria esistenza. In questo senso, Un mercoledì da leoni
(orribile titolo italiano che tenta di rendere l’originale Big Wednesday) traduce su pellicola il significato
Dennis Hopper,
Peter Fonda e
Jack Nicholson
in una scena di
Easy Riders
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più viscerale delle cavalcate d’onda, illustrando magnificamente il senso di libertà, la necessità di sospensione, il bisogno di svincolarsi dalle contingenze storiche che in esse si nasconde, fondendo coraggiosamente l’anima più profonda del surf con i temi propri della New Hollywood. Nella sua composizione rigorosamente imperniata sulla malinconia del tempo andato, sull’ineliminabile tensione verso l’utopia di
purezza di una generazione e una nazione si configura, inoltre, come un western marino crepuscolare e
definitivo sulla fine di un’era, su un passaggio di testimone che è individuale e insieme collettivo.
Ma la New Hollywood fu anche -e forse soprattutto- un tentativo di riflettere in modo critico sulla storia
d’America, una rivendicazione di libertà tesa a svincolarsi dalle sclerotizzate e tradizionali letture della
genesi di una nazione, a capovolgere di segno il senso e gli ideali che soggiacevano a quella conquista del
West fino a quel momento disegnata come trionfo della civiltà bianca sulla barbarie indigena, del bene sul
male. Tale dicotomia fu problematizzata, dissolta, quando non ribaltata del tutto. In questo senso, il western
fu il genere più colpito da un’ondata di revisionismo che gli donò nuova linfa vitale. Si pensi alle ambientazioni invernali e diseroicizzate di Altman nei Compari o all’analisi rigorosa delle culture amerinde, ostili alla civilizzazione ma non demoniche o inferiori, del magnifico Corvo rosso non avrai il mio scalpo di
Pollack. Un’analisi quasi etnografica che ha forse nel Piccolo grande uomo di Arthur Penn il suo apice
di poesia. La storia è quella di un longevo centenario che racconta la sua avventurosa vita a un giornalista:
strappato dalla sua famiglia da bambino e accolto da un gruppo di Cheyenne, vive sospeso tra le ipocrisie
della civiltà bianca e il bucolico e primitivo stile di vita degli indiani, tra la gretta e avida corsa al potere e
al denaro dei coloni e il magico e ciclico incedere delle stagioni del “popolo degli uomini”. Qui, la contrapposizione storica tra bianchi e pellerossa viene sconvolta e ribaltata: l’America viene descritta come
una nazione nata dal genocidio di una popolazione liricamente convinta del fatto che “ogni cosa sia viva”
e che “tutto è immutabile, in eterno”, dal sangue innocente di fratelli distrutti dal bianco che “crede che
tutto sia mortale, le pietre, la terra, gli animali, anche gli uomini, anche quelli del suo popolo. E più una
Registi
in alto a sinistra: Sam Peckinpah;
a lato: Francis Ford Coppola
Sopra: Robert Altman
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cosa è viva, più i bianchi fanno di tutto per distruggerla”. Al posto della razionalità illuminante, alle radici degli Stati Uniti viene ricondotto l’odio, l’intolleranza, una subdola, ipocrita e smisurata avidità, il male.
E in questo senso vanno interpretati i western carichi di violenza di un autore come Sam Peckinpah, per
il quale inondare di sangue le proprie pellicole (Il mucchio selvaggio, Voglio la testa di Garcia, Pat
Garrett & Billy the Kid) non coincide con una mera ricerca di un effetto scontato e scioccante bensì con
una quanto mai intensa riflessione su quel male gratuito e inspiegabile che -come un archetipo generativopermea la storia degli Stati Uniti, sin dalla sua genesi, esplodendo come in un freudiano ritorno del rimosso nelle praterie metropolitane che pure affollano la produzione degli anni ’70. I drammi urbani epifanizzati con le macchine a spalla nei veri quartieri delle capitali americane che proprio con la New Hollywood
giunsero a un apice dolente e universale di perfezione drammaturgica, infatti, vanno interpretati come trasfigurazione presentificante di una riflessione sull’anima nera di una nazione che proprio nel western revisionista del tempo aveva trovato la sua genesi. Molti cineasti statunitensi presero a scandagliare con occhio
lucido e disincantato le situazioni delle comunità di outsider che il dibattito sessantottino aveva posto al
centro dell’opinione pubblica. Così, in Panico a Needle Park Schatzberg indaga in modo impietoso la
vita di Bobby, tossico di eroina interpretato da Al Pacino, uno dei volti simbolo della New Hollywood:
poliziotto incaricato di indagare su un killer di omosessuali e portato a interrogarsi sul proprio stesso orientamento nel magnifico Cruising di Friedkin, il celebre agente Serpico nell’omonimo film di Lumet, il
ladro nevrotico ed esagitato di Quel pomeriggio di un giorno da cani (ancora Lumet) che svaligia una
banca per pagare al suo compagno transessuale un’operazione per il cambio di sesso. Senza dimenticare
il Michael Corleone dei due (tre con quello del 1990) celeberrimi episodi della saga del Padrino di
Coppola, affresco storico di una famiglia mafiosa statunitense di origini siciliane, analizzata con precisione sociologica chirurgica e capace di far scuola ai successivi capisaldi del genere.
E proprio il mondo criminale costituisce l’universo più consono a mettere in atto quell’estetica negativa
propria del miglior cinema statunitense degli anni ’70. Film come Il braccio violento della legge di
William Friedkin, Chinatown di Roman Polanski, Il maratoneta di John Schlesinger, quelli dedicati
al celebre ispettore Henry Callaghan di Clint Eastwood, spesso definiti con la formula di “drammi metropolitani”, costituiscono insieme -come fossero un unico grande film- una riflessione compiuta e pessimista sul male, sulla disperata consapevolezza di un mondo -l’America- che ha smarrito la propria morale. In
quest’ambito però i vertici estetici più elevati sono raggiunti dall’opera di Martin Scorsese, capace di
unire l’analisi rigorosa di tale frattura insanabile nel tessuto sociale con la discesa incontrollata -e insuperata in termini di approfondimento e complessità- negli abissi della mente deviata dei propri protagonisti,
in particolare del feticcio Robert De Niro, capace nel suo maniacale perfezionismo di vestire i panni di
personaggi disadattati e dominati da qualcosa di morboso, sempre in bilico tra un equilibrio instabile e i
picchi di follia che esplodono -a vari livelli- come una sorta di riattualizzata “furia omerica”: dal Johnny
Boy di Mean streets, ribelle ma codardo membro di una cosca criminale newyorkese, al Jake La Motta di
Toro scatenato, campione mondiale dei pesi medi oltre che marito paranoico, geloso, violento, specchio di
un’inquietudine più ampia e radicata, passando per il Travis Bickle di Taxi Driver, reduce dal Vietnam
incapace di recuperare un contatto equilibrato con il reale. Uno dei più grandi antieroi della storia del cinema, deciso a combattere la sua insonnia perenne trasportando in taxi i corpi marci di una squallida metropoli tardo-novecentesca come il traghettatore dantesco trascinava le anime dei dannati oltre l’Acheronte,
in quello che è il film più paradigmatico dell’opera di Martin Scorsese. C’è, infatti, in questa pellicola
estrema e capitale tutta l’anima del regista newyorkese: l’occhio sociologico, spietato e penetrante rivolto
all’America; l’indagine inquieta e rigorosa sul male, sulla sua origine, la sua evoluzione, i suoi connotati,
le sue forme; l’esplorazione muta della nevrosi che del male è la principale manifestazione; la presa di
coscienza della fine dell’innocenza, dell’inevitabilità dell’alienazione, della solitudine, dell’incomunicabilità in un mondo gretto, malato, selvaggio; la prepotente e cupa dimensione religiosa, che avvolge la New
York di celluloide, trasformandola in un inferno d’asfalto “in attesa di un diluvio universale che ripulirà le
strade una volta per sempre”. Dalla sua postazione privilegiata, Travis osserva i dettagli di una realtà che
pare disgregarsi sotto il peso dell’immondizia, concreta e morale, della civiltà occidentale. I soffitti rigonfi, la candele smozzate, i sedili sporchi di sangue e sperma, la vernice incrostata e cadente delle pareti
imbrattate, la bruttezza porosa e ammuffita dei corpi e dei volti: tutto -accentuato com’è dalla fotografia
iperrealistica di Michael Chapman- pare trasudare l’orrore e la decadenza di un mondo che attende solo
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la sua fine. Questo viaggio dritto negli angoli più reconditi e aberranti dell’America va di pari passo con
uno scandaglio che penetra sempre più a fondo l’anima nera del protagonista, il suo disagio esistenziale,
la sua malattia morbosa, la condanna obbligata all’alienazione, all’isolamento e all’incomunicabità che
tanto lo avvicina agli infimi eroi di Dostoevskij (“La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, dappertutto. Non c’è scampo: sono nato per essere solo”). Tutto questo all’interno di un’opera che è indubbiamente il manifesto più esemplare dell’ansia
rinnovatrice della New Hollywood intera. E nello stesso tempo il più solido esempio di come ogni evoluzione verso il futuro sia necessariamente anche un ritorno al passato. Così, non è un caso che Travis, nella
sua definitiva, sanguinosa e apocalittica vendetta, si rapi la testa, assumendo i tratti degli antichi indiani
d’America, dei quali rievoca i gesti tipici e le pratiche ritualistiche: l’attenzione dedicata alla costruzioni
di marchingegni da adattare alle armi, l’allenamento fisico, il sacrale rogo di fiori morti nel lavabo. Solo
allora, ancora più outsider e simbolicamente vicino a quella purezza che il Nuovo Mondo ha perduto, dà
vita al diluvio universale capace di ripulire le coscienze. Se i colpi delle sue armi macellano fisicamente le
carni dei disgustosi avventori della piccola Iris, il gesto scattoso e malato della pistola che il reietto reduce dal Vietnam puntualmente imita con la mano diventa l’indice simbolico di una volontà di distruzione
che si abbatte contro tutti i valori della società occidentale. Il dito di Travis punta gli uomini, le donne, i
politici, la scatola della televisione (poi rovesciata e distrutta in una scena di pregnante e nitido simbolismo), persino lo schermo cinematografico. Come a dire che quella necessaria ondata deve travolgere la
stessa tradizione filmica, quella che Scorsese riplasma, rifacendosi alle lezioni degli antecedenti
Cassavetes e Godard. Ancora il nuovo attraverso il vecchio. E nel finale, un Travis moribondo punta
quella pistola immaginaria alla sua testa, con le gocce di sangue che cadono ritmicamente dal dito teso. La
purezza della vecchia America ha sconfitto l’orrore della nuova. Ma perchè sia possibile ricominciare da
zero, il sangue versato va lavato a prezzo della propria vita. Al primo piano di un emaciato, strepitoso De
Niro segue allora il movimento delle labbra che simulano un’esplosione. Più che uno sparo, un nuovo big
bang.
E infine la guerra. Il cinema americano rinnovato degli anni ’70 non poteva non scontrarsi con il fantasma
del Vietnam, con quell’inferno privo di regole in cui “accusare un uomo di omicidio [...] era come fare con-
Attori
a sinistra: Al Pacino (in alto);
Dustin Hoffman (in basso);
al centro: Robert De Niro;
sopra: Jack Nicholson
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travvenzioni per eccesso di velocità alla 500 miglia di Indianapolis”, il laboratorio in cui migliaia di americani sfogarono quel surplus di odio e violenza mal soffocato da duecento anni di civilizzazione. Il
Vietnam si pose come la nuova frontiera e gli indigeni si sostituirono ai pellerossa. E se nel 1970 Altman
affrontò la questione (quella, però, della Guerra di Corea) sfruttando l’arma dell’ironia, dissacrando con
vigore mai visto prima l’esercito statunitense in M*A*S*H (acronimo che indica il Mobile Army Surgical
Hospital di cui la pellicola narra le grottesche disavventure), sarà tra ’78 e ’79 che il cinema made in USA
darà vita a due dei più straordinari vertici del cinema bellico, accantonando il registro comico di Altman
per riflettere con tragica e spietata consapevolezza sulle profonde e insanabili lacerazioni causate dalla
guerra nell’animo umano, utilizzando il filtro del Vietnam come matrice di una riflessione universale sull’uomo e sul male.
Iniziamo con Apocalypse now (1979), il capolavoro definitivo e totale di Coppola, folle, disturbante,
schizofrenico e allucinato animale filmico che traspone il Cuore di tenebra di Conrad -uno dei più
grandi romanzi del primo ’900- nella giungla cambogiana, raccontando la missione segreta del capitano
Willard, incaricato di risalire il fiume Nung ed eliminare il colonnello Kurtz, disertore da tempo, innalzatosi al livello di semidio tra le popolazioni locali. Il viaggio su acqua della piccola truppa affidata al Willard
di Martin Sheen perde a poco a poco le proprie coordinate topografiche, costituendosi in modo sempre
più netto come itinerario verso il cuore nero dell’anima umana. In fin dei conti -premettendo che ogni definizione risulta riduttiva se spesa nei confronti di un’opera d’arte di tale levatura- Apocalypse nowsi sostanzia come una disperata riflessione sull’uomo e la sua pretesa ontologica di essere razionale, sul fondo atavico, barbaro e oscuro che ogni essere vivente conserva nell’anima (“Dobbiamo ucciderli, incenerirli, un
maiale dopo l’altro, un villaggio dopo l’altro, un esercito dopo l’altro. E mi chiamano assassino. Come si
chiama questo? Quando gli assassini accusano un assassino?), sulla natura del potere, sulla capacità di giu-
Marlon Brando in Apocalyipse Now, di Francis Ford Coppola
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dicarsi e giudicare, sull’assurdità sconsiderata e priva di senso di ogni conflitto (“Noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente, ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere “cazzo” sui loro
aerei perché è una parola oscena.”), sulle modalità di condotta individuale in situazioni estreme (“Era un
modo particolare che avevamo qui di vivere con noi stessi: li facevamo a brandelli con una mitragliatrice,
poi gli davamo un cerotto.”) e in fondo sul capitalismo statunitense, sull’orrore di un mondo bipolare, sulla
minaccia nucleare. Il tutto in un’atmosfera rarefatta e da incubo, satura di sequenze da antologia. Si pensi
soltanto al Kurtz di Marlon Brando, personaggio epico e marchiato a fuoco nell’empireo della settima
arte: il divo hollywoodiano si chiuse in una palafitta per una settimana e ne uscì rasato senza aver letto una
sola riga di copione. Accettò la parte propostagli da Coppola obbligandolo a riprenderlo soltanto al buio
o per contrasti di luce in modo da evocare un’essenza più che mostrare una presenza. E le sue osservazioni sull’orrore del vivere, la sua voce over che recita i versi degli Uomini vuoti di Eliot o la scena finale
in cui si offre al machete di Willard mentre fuori, tra i fuochi della festa un bue viene sacrificato (momento ripreso da più angolazioni in una citazione evidentissima a Ejzenstein) restano, ancora oggi, alcuni dei
momenti più evocativi, complessi e straordinari che il cinema abbia mai prodotto.
Lontano dagli echi allucinati e distorti dell’opera di Coppola ma ad essa equiparabile per potenza e rilevanza storica è senza dubbio Il cacciatore, sterminato capolavoro di Michael Cimino di un anno precedente, imperniato sull’amicizia fraterna di tre operai (De Niro, Walken, Savage) di un’acciaieria della
Pennsylvania e organizzato drammaturgicamente intorno a grandi blocchi narrativi, più o meno temporalmente distanti: il matrimonio, la caccia al cervo, il Vietnam, il ritorno a casa (…). In modo più lineare di
Coppola con Apocalypse now, Cimino elabora una tragica e inquietante parabola sugli effetti della
guerra sulla psiche umana. Non è un caso che la sezione dedicata al Vietnam costituisca il centro della pellicola e sia decisamente breve (il che ha spesso fatto interrogare gli studiosi sulla sua natura di film bellico: fondamentalmente -a mio avviso- si tratta -come nei migliori casi- più che di un film di guerra, di un
film sulla guerra, sui suoi effetti, la sua assurdità, il suo orrore), quasi tutta risolta nell’epica e celeberrima
sequenza in cui i tre amici, catturati dai vietcong, si vedono costretti a fronteggiarsi l’uno contro l’altro
nella terrificante prova della roulette russa. La lunga, cerimoniale e toccante sequenza del matrimonio che
la precede, affiancata a quella della caccia al cervo e a poche altre, tutte tese a illustrare la serenità del gruppo di amici in una cittadina lontana dal chiassoso mormorio delle grandi metropoli e l’equilibrio morale
dei protagonisti per cui nella caccia si deve “contare su un colpo solo” perché “il cervo non ha il fucile,
deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale” funge da tragico contrappunto prima alle scioccanti immagini della giungla vietnamita e successivamente alla terza macro-sezione della pellicola, che
illustra l’impossibile riadattamento esistenziale che segue al trauma indicibile dell’aver camminato di fianco e dentro la morte. L’epilogo, in questo senso, con i protagonisti seduti intorno a un tavolo a guerra finita, consapevoli della drammatica certezza che non c’è più spazio per la purezza, più tempo per ricordare
“le montagne” o “come sono diversi gli alberi”, e intenti a intonare God bless Americaf unge da vero e
proprio epitaffio funebre. Per un amico. Per l’innocenza di un mondo perduto. Per la fine di un’ondata
nostalgica e rivoluzionaria che proprio due anni dopo, in seguito al disastro commerciale del magnifico e
maledetto I cancelli del cielo dello stesso Cimino, s’infrangerà a riva, chiudendo per sempre la migliore stagione del cinema statunitense.
Kriss Kristofferson e Isabelle Huppert in una scena de I cancelli del cielo, di Michael Cimino
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I FILM
GANGSTER STORY
LA TRAMA
Dallas, 1933. Bonnie Parker è annoiata della sua vita e vorrebbe un cambiamento. Il mutamento arriva con l’incontro
di Clyde Barrow. I due si innamorano e Bonnie decide di
condividere la vita fuorilegge del compagno. Iniziano a
delinquere e si spostano continuamente dall’Oklahoma al
Texas rapinando negozi e banche e cambiando auto e targhe.
È un crescendo di violenza inarrestabile. Presto le loro gesta
finiscono sui giornali, diventano un duo celebre....
LA CRITICA
Uno dei migliori film del regista e un caposaldo del genere
gangster. Penn parte da una serie di elementi reali (come le
foto segnaletiche dei banditi sui titoli di testa) per addentrarsi subito nella fantasia e nel mito trasformando il film in una
specie di incubo a occhi aperti, la cui forza evocativa è sottolineata dall’impiego di colori carichi di luce (verde, oro),
procedimenti flou (che giocano a sfumare i contorni), ralenti (che conferisce alle scene drammatiche una bellezza rituale e solenne e da uno stile, che prediligendo il montaggio il
montaggio ultraspezzettato al piano sequenza, riesce a passare dal comico al tragico con ininterrotta felicità.
Paolo Mereghetti, Il dizionario dei film
Fu così grande la sua influenza nei vari campi (la moda degli
anni ‘30, la diffusione della violenza nel cinema, uso del rallentatore, ecc.) che risulta difficile valutarne serenamente i
valori espressivi. Film capitale nella storia del genere gangsteristico e nell’itinerario di Penn. Immaturi, disadattati,
ribelli, Bonnie e Clyde si esprimono con una violenza frenetica e un’esuberanza fisica che è anche un allegro gioco di
atti e gesti. In base alla bella sceneggiatura di David
Newman e Robert Benton (scritta per F. Truffaut), il regista
non segue la tradizione romantica delle coppie ribelli e
disperate e non concede ai suoi personaggi la consapevolezza della rivolta: il loro resta gioco, tragico ma gioco.
Morando Morandi, Il Morandini
Titolo originale Bonnie and Clyde
Produzione USA, 1967
Durata 111 min
Regia Arthur Penn
Soggetto David Newman, Robert Benton
Sceneggiatura David Newman,
Robert Benton
Produttore Warren Beatty
Fotografia Burnett Guffey
Montaggio Dede Allen
Musiche Charles Strouse
Scenografia Dean Tavoularis, Raymond
Paul
Con Warren Beatty Faye Dunaway
Michael J. Pollard,Gene Hackman, Estelle
Parsons,Gene Wilder
Premi Oscar a Estelle Parson, miglior
attrice non protagonista; miglior fotografia
a Burnett Guffey
Una delle tante contraddizioni degli Stati Uniti d’America è
quella di essere una delle nazioni più severe e punitive nei confronti del crimine e allo stesso tempo avere
verso la figura del criminale un’attenzione particolare, quasi una venerazione, tanto da trasformarlo a volte
in fonte di mito.
L’immaginario collettivo proietta in queste figure estreme e ai limiti del vivere sociale tutte le proprie frustrazioni e i propri desideri repressi. Non c’è da meravigliarsi quindi se il criminale è una delle figure che
appare più spesso sullo schermo delle sale cinematografiche, addirittura fin dalla nascita di questa arte
(vedi The Great Train Robbery).
Il modo con cui viene rappresentato il criminale nei film, l’atteggiamento riservato nei suoi confronti è una
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preziosa testimonianza dell’atmosfera culturale di un dato periodo storico. Non c’è niente di meglio quindi per conoscere i sentimenti collettivi dell’America degli anni ‘60, che guardare il capolavoro di Arthur
Penn Gangster Story, meglio conosciuto con il suo titolo originale di Bonnie and Clyde, uscito nel 1967.
Questa però non è l’unica ragione per riesumarlo alla memoria del presente. Si tratta di un film tecnicamente di grande qualità, dalla sceneggiatura appassionante e senza una sbavatura, interpretato da attori
sfolgoranti nella loro gioventù, bellezza e bravura, dotato di una fotografia affascinante (vincitrice di un
Oscar), pieno di ironia, sentimento, azione.
Insomma, una serata in compagnia di questo film è senz’altro una serata culturalmente ed esteticamente
appagante.
La storia raccontata nel film è a tutti nota, in quanto realmente accaduta negli agitati anni Trenta statunitensi. In un periodo di profonda crisi economica e sociale, con tanta gente disoccupata e ridotta sul lastrico dai debiti verso le banche, spuntavano come funghi in tutta la nazione bande di malviventi. Erano quasi
tutte di estrazione popolare e spesso composte da famiglie intere.
Clyde Barrow era uno dei tanti che sopravvivevano rubacchiando auto, rapinando drogherie o piccole banche rurali. La sua vita ebbe una svolta quando incontrò un’oscura ma volitiva cameriera di nome Bonnie
Parker, con la quale iniziò un’escalation di colpi sparsi per mezza nazione. Ben presto a Clyde si unirono
il fratello Buck, la cognata Blanche e un altro compagno. Inevitabilmente dovettero commettere omicidi.
Le loro imprese fecero così notizia e presto acquistarono fama nazionale. L’opinione pubblica era divisa
fra chi segretamente li ammirava e chi dava loro spietatamente la caccia. Tale animosità si riflesse nella
loro morte - crivellati da centinaia e centinaia di colpi - decisamente esagerata per la loro pericolosità.
Cosa c’era di meglio di una vita estrema, fatta di vagabondaggio, ribellione e anticonformismo per illustrare gli analoghi sentimenti che animavano tanta gente, soprattutto giovane, negli irrequieti e creativi anni
‘60 americani? Come giudicare male un poveraccio che toglie soldi a dei ricchi (visti come sfruttatori e
strozzini)? Perché non guardare alla categoria dei malviventi come composta da gente comune, normale,
da cui forse si può imparare qualcosa?
Questo atteggiamento era già stato usato per la prima volta dal francese Godard nel suo seminale A bout
de souffle (Fino all’ultimo respiro). L’originalità di questo approccio contagiò anche gli americani, tanto
che pensarono di affidare a François Truffaut la trasposizione cinematografica delle imprese di Bonnie e
Clyde. L’impresa non andò in porto e il progetto passò nella mani dell’attore Warren Beatty, che ne affidò
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la realizzazione al regista outsider Arthur Penn (insofferente dell’ambiente hollywoodiano).
Penn conserva l’atmosfera sbarazzina e quotidiana, tipica del film di Godard. Fino ad allora il criminale
era visto come rozzo, volgare, violento (tipo Scarface) oppure come distaccato, freddo, glaciale (gli eroi
del noir). Fin dalla prima scena ci troviamo invece di fronte a due ragazzi piacevoli, allegri, bellissimi,
affascinanti (Warren Beatty e Faye Dunaway lasciano letteralmente senza fiato da questo punto di vista)
che scherzano, si punzecchiano a vicenda e infine si innamorano e fanno l’uno dell’altro la loro ragione di
vita.
I loro piacevoli e ironici dialoghi ci lasciano intravedere due caratteri ben definiti. Bonnie soffre l’ambiente ristretto e piccolo borghese e sogna di evadere dalla sua vita monotona e banale, mentre Clyde in qualche maniera ricorre al crimine come ad una specie di rivincita, un’affermazione personale che vada a supplire a problemi psicologici (viene infatti dipinto come sessualmente impotente).
Penn inserisce quindi nel film una tematica esistenzialista - tipica dell’epoca - che come un filo rosso percorre tutto il film. Bonnie e Clyde vengono ritratti con dei caratteri a tutto tondo, il film ce li restituisce
con i loro sentimenti, le loro paure, le loro aspirazioni e ce li fa sentire più veri, più vicini a noi. Pieni di
baldanza giovanile, considerano i loro colpi malavitosi come una specie di gioco, una professione come
tutte le altre. Si sorprendono quando gli altri reagiscono («Io non volevo far loro del male» - si meraviglia
Clyde dopo che un macellaio ha tentato di colpirlo con una mannaia e dopo che è stato costretto ad uccidere un impiegato di banca per coprire la propria fuga). Gli omicidi pesano decisamente sulla coscienza,
non vengono certo presi alla leggera. Anche questo atteggiamento «umano» contribuisce a farci vedere con
altro occhio le imprese criminali della banda.
Tra l’altro operano in un contesto che vede una sorda rabbia nei confronti delle istituzioni e dei potentati
economici. In genere si presentano agli altri con questa frase: «We rob banks» - «Rapiniamo banche»;
come dire, prendiamo i soldi a chi li ruba legalmente. Nel film c’è posto anche per una scena dove Clyde
fa sfogare a colpi di pistola un contadino, a cui le banche avevano sottratto la casa. Tutte le volte che fuggono trovano copertura tacita in ambienti poveri e degradati. In tutto il film è presente una sottile polemica sociale verso i ricchi e le istituzioni (viste come repressive). (…)
Il loro ambiente naturale diventa così la campagna, gli spazi aperti. Costretti dalla loro scelta di vita a vagare di continuo da uno stato all’altro dell’America, ci restituiscono lo spirito di uno dei sentimenti culturali più diffusi negli anni ‘60, cioè l’irrequieto vagabondare on the road, senza mai fermarsi, senza una meta,
senza un termine definito se non la morte. Da questo punto di vista Gangster Story fa da modello ideale a
Easy Rider.
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Il viaggio continuo è anche l’occasione per riprodurre splendide visioni filmate di normale ma suggestiva
campagna americana, vista come era una volta, avvolta quasi da uno sguardo nostalgico e contrappuntata
dal suono tipicamente country della colonna sonora.
All’impassibilità e alla bellezza della natura fa da contraltare la curiosità e la morbosità umana, a cui gli
stessi Bonnie e Clyde finiranno per partecipare. L’astrazione mediatica finisce per sostituire la propria
identità e ogni atto, ogni impresa è vista sempre attraverso l’ottica di quello che la gente, l’opinione pubblica può pensare. Bonnie e Clyde a un certo punto sanno, vogliono essere famosi, si pavoneggiano di essere entrati nel mito. (....)
IL REGISTA
ARTHUR PENN: UNA VITA DEDICATA AL CINEMA, AL TEATRO E ALLA TELEVISIONE
DI MARLEN VAZZOLER
Nato a Philadelphia il 27 settembre del 1922, Arthur Penn si esercitò, fino all'inizio della sua carriera scolastica alle superiori, a seguire i passi del padre, un orologiaio. Successivamente capì che preferiva il teatro alla costruzione degli orologi e decise di studiarlo al Black Mountain College in North Carolina.
Durante la seconda guerra mondiale, mentre era stazionato a Fort Jackson, formò un piccolo circolo teatrale con gli altri membri della fanteria, e alla fine del conflitto, continuò i suoi studi teatrali in Italia.
Negli anni cinquanta, sebbene avesse studiato con Michael Chechov all'Actors Studios di Los Angeles, iniziò a lavorare nel 1951 alla NBC TV. Due anni dopo Penn scriveva e produceva produzioni in diretta televisiva per la Philco Playhouse e la Playhouse 90. Il suo primo lungometraggio fu la pellicola western The
Left Handed Gun (1958), in cui Penn combinò il method acting sulla psicologia del personaggio con la storia leggendaria del fuorilegge Billy the Kid interpretato da Paul Newman. Il film fu ben accolto in Europa
ma non ebbe la stessa fortuna in America.
Nello stesso anno diresse con esito positivo a Broadway Two for the seesaw, seguito da altre tre opere teatrali che ebbero altrettanto successo: The Miracle Worker, Toys in the Attic e All the Way Home.
Nel '62 Penn decise di adattare per il grande schermo la storia di Anne Sullivan, l'insegnante che insegnò
alla cieca e sorda Hellen Keller a parlare, Anna dei miracoli - Al di là del silenzio. Penn rifiutò di assumere, nonostante le pressioni, Elisabeth Taylor e fece riprendere i ruoli della Sullivan e della Keller rispetti-
Arthur Penn
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vamente ad Anne Bancroft e Patty Duke, le protagoniste della sua opera teatrale scritta da Wlliam Gibson.
Le due protagoniste ottennero l'Oscar mentre Penn guadagnò una nomination.
Nel 1964 Burt Lancaster lo licenziò dopo i primi due giorni di riprese di Il treno. Nel 1965 Penn diresse
Mickey One, una pellicola altamente influenzata dalla Nouvelle Vague, che racconta la storia di un cabarettista (interpretato da Warren Beatty) in fuga da forze sinistre e ambigue. Nel 1966 diresse La caccia, ma
il produttore Sam Spiegel non contento del prodotto finale licenziò il regista e rimontò la pellicola. Penn
decise così di lasciare nuovamente il cinema.
Un anno dopo Penn fu convinto a tornare a dirigere film da Beatty con la direzione della pellicola Gangster
Story. Penn assunse sconosciuti provenienti dalla televisione e dai teatri newyorchesi e filmò e montò la
pellicola senza alcuna interferenza da parte degli studio. Grazie al supporto di Beatty, Penn cercò di realizzare una pellicola brutale. Nonostante i critici provarono avversione per lo spargimento di sangue e la
nozione dei criminali come degli eroi belli e dannati, il pubblico accolse positivamente la pellicola, una
combinazione tra il genere americano e lo stile della Nouvelle Vague. Il film di Bonny e Clyde divenne un
fenomeno della cultura pop che ispirò una revisione sui film dei gangster.
Seguirono Alice's Restaurant (1969), per cui Penn ottenne una terza nomination all'Oscar e Piccolo grande uomo (1970). Nel 1975 diresse Gene Hackman nel thriller Bersaglio di notte, mentre l'anno dopo fu il
turno di Jack Nicholson e Marlon Brando, protagonisti della commedia western Missouri.
Penn non fu più capace di replicare il successo delle sue opere realizzate alla fine degli anni sessanta. Negli
anni ottanta e novanta diresse solamente sei pellicole: nel 1981 uscì Gli amici di Georgia, nel 1985 diresse la pellicola d'azione Target - Scuola omicidi, seguita due anni dopo dal thriller Omicidio allo specchio.
La pellicola Con la morte non si scherza (1990) segnò la fine della sua carriera cinematografica.
Penn tornò a lavorare in televisione ed ottenne apprezzamento da parte della critica con il film televisivo
Ritratti (1993), interpretato da Lauren Bacall e Gregory Peck. Tre anni dopo creò Inside (1996), un film
per la tv via cavo incentrato sull'apartheid.
Nonostante si fosse ritirato da anni, Penn fu convinto dal figlio Matthew a diventare produttore esecutivo
della serie televisiva Law & Order.
Negli anni Penn ha mantenuto un affiliazione con l'Università di Yale, dove saltuariamente insegnava. Nel
luglio del 2009 fu ricoverato per una polmonite. Penn è morto il 28 settembre 2010 a Manhattan, il giorno
dopo il suo ottantottesimo compleanno, per un'insufficienza cardiaca congestizia.
FILMOGRAFIA
Furia selvaggia (Billy The Kid) (1958)
Anna dei miracoli (The Miracle Worker) (1962)
Il treno (The Train) (1964) (non accreditato; licenziato, rimpiazzato da John Frankenheimer)
Mickey One (1965)
La caccia (The Chase) (1966)
Gangster Story (Bonnie and Clyde) (1967)
Alice's Restaurant (1969)
Il piccolo grande uomo (Little Big Man) (1970)
Ciò che l'occhio non vede (Visions of Eight) (1973) (episodio The Hightest)
Bersaglio di notte (Night Moves)' (1975)
Missouri (The Missouri Breaks) (1976)
Gli amici di Georgia (Four Friends) (1981)
Target - Scuola omicidi (Target) (1985)
Omicidio allo specchio (Dead of Winter) (1987)
Con la morte non si scherza (Penn & Teller Get Killed) (1989)
Lumière et compagnie (1995)
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MEAN STREETS
LA TRAMA
New York City, Charlie Cappa, un giovane di Little Italy,
deve farsi strada nel suo ambiente violento. Ha uno zio
mafioso, Giovanni Cappa, che lo protegge e gli affida piccoli compiti ma che vorrebbe per lui un lavoro di responsabilità. Charlie è troppo coinvolto nell’ambiente meschino in cui
è cresciuto e che detesta. Non riesce ad allontanarsi dallo
scapestrato John Civello, soprannominato Johnny Boy, con
cui è cresciuto e che si mette sempre nei guai. Ha una storia
con Teresa Ronchelli, la cugina di Johnny Boy, una ragazza
epilettica che non è ben vista dallo zio. Ma soprattutto
Charlie ha un conflitto interiore tra la sua profonda religiosità e la vita sregolata che conduce.
LA CRITICA
«Domenica in chiesa, lunedì all’inferno.»
Regia Martin Scorsese
Se New York è la Grande Mela, «Little Italy» ne è il bruco, Titolo originale Mean Streets
con le sue contraddizioni e i suoi giovani che vagabondano Produzione Usa, 1973
come anime erranti.
Durata 110 min
Charlie (Harvey Keitel) e Johnny (Robert De Niro) sono due
Soggetto Martin Scorsese
interpretazioni della stessa realtà. Il primo, amante della
sorella di Johnny, è vittima di una malsana educazione reli- Sceneggiatura Martin Scorsese,
giosa che lo porta a vivere con fastidio la sua condizione, Mardik Martin
anche se di fatto, non facendo nulla per cambiarla, la subisce Fotografia Kent L. Wakeford
passivamente. Il secondo (un ghignante e straordinario De Con Harvey Keitel, Robert De Niro,
Niro) sembra attratto solamente dai facili guadagni, poco David Proval, Robert Carradine
incline alle fatiche del lavoro, spaccone e con l’aria di chi
non ha niente da perdere.
Uno dei film più sinceri e crudi di Scorsese, dove le sue ossessioni cattoliche (il peccato e la redenzione,
la carne ed il sangue) fanno corpo unico con il racconto; un mondo dove crimine e legalità s’intersecano
con fili inestricabili. Il fascino dell’opera risiede nel suo meccanismo «antinarrativo»; domina la stasi, le
azioni proseguono al rallenty, un pò come le carrellate dentro il locale, che sembrano lo stato embrionale
dei bellissimi piani sequenza di Quei bravi ragazzi. I personaggi si trascinano nel loro incedere, aspettando quel punto di rottura che porterà al tragico finale.
L’equivalenza stabilita in Mean Streets tra l’inferno e il bar è definitiva; il rosso opprimente, la violenza,
il sesso e l’alcool: il bar di Tony è il luogo della dannazione terrena, l’anticamera dell’inferno dove giocare ad esorcizzare l’inferno stesso. E Charlie, come la maggior parte degli eroi scorsesiani, è sospeso tra
l’obbedienza alle regole della «famiglia» e scelte individuali che assumono un carattere sempre più sofferto, anche se sono sentite come l’unica strada verso una possibile salvezza dell’anima: ma aiutare fino in
fondo Johnny Boy e Teresa, per Charlie rimane impensabile.
La strada per l’inferno è spianata; ed è lo stesso Scorsese, nei panni di un killer, a premere il grilletto.
Premio dei critici newyorkesi a Rodert De Niro come Miglior Attore Protagonista (1973).
Andrea Olivieri, www.cinemadelsilenzio.it
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Uno dei film più sinceri e crudi di Scorsese, autore della sceneggiatura con Mardick Martin, dove le sue
ossessioni (il peccato e la redenzione, la carne e il sangue) non si sono ancora cristallizzate in simboli,
ma fanno corpo con un racconto che ha la verità dell’autobiografia. Pienamente credibile la drammaticità
dell’ultima parte e di grande intelligenza drammaturgica il finale.
Paolo Mereghetti, Il dizionario dei film
IL REGISTA
Martin Scorsese. Il regista del tormento
Violenza, ossessione, tormento, paura, alienazione, c’è solo un uomo che ha saputo dare con maestria il
volto ai peccati dell’animo umano: Martin Scorsese. Il padre della New Hollywood nasce a Long Island.
Appartenente alla media classe borghese, figlio di operai italiani (per la precisione siciliani) sbarcati
sulla costa del Nuovo Mondo nel 1910, il piccolo Martin vive in un mondo costruito sulla spiritualità,
sulla devozione e sulla fede. Il tempo trascorre e, nonostante la passione per il cinema che ormai già
arieggia nella sua mente, le giornate passano in chiesa come chierichetto e fra le calorose e affollate strade di Little Italy. Martin non è un ragazzo estroverso e, complice anche l’asma, è costretto a rinunciare
a tutte le attività ricreativo-sportive a cui prendono parte i suoi coetanei.
Non ha una cinepresa ma, ciò nonostante, per dare sfogo alla sua passione disegna lunghissimi storyboard di “film” sontuosi. È buffo pensare, oggigiorno, che quello che noi tutti conosciamo come l’immenso autore di colossal come Casinò e Quei bravi ragazzi, un tempo doveva diventare prete, o reverendo
come preferiscono gli americani. Eppure è proprio così. Dopo aver frequentato la Old St. Patrick’s
Cathedral, Martin decide di iscriversi al seminario. La vocazione dura poco. Espulso perché accusato di
una relazione extra-spirituale con una ragazza in carne ed ossa, Martin compie la scelta più giusta della
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sua vita, quella di iscriversi al corso di cinematografia presso la New York University che
lo formerà, come lui stesso ha affermato, culturalmente e cinematograficamente. Questi
sono gli anni dei primi cortometraggi. Dopo
Vesuvius VI, ideato e diretto quando era ancora al liceo, dedica il suo tempo ad altri cortometraggi che diverranno simbolo della nuova
scena cinematografica, conosciuta da tutti
come New Hollywood. Basti pensare a Che
sta facendo una ragazza carina come te in un
posto come questo?, cortometraggio-omaggio
all’amata Nouvelle Vague francese, o a Non
sei proprio tu, Murray?, o al grande corto The
Big Shave che noi conosciamo con il titolo italiano de La grande rasatura. Ambientato interamente in un bagno, in quest’ultimo vi è rappresentato un ragazzo che si rade la barba fino
a sgozzarsi la gola. Allegoria di un giovane
soldato che preferisce uccidersi, piuttosto che
partire per l’insensata guerra nel Vietnam, nel
corto sono già presenti i classici temi che
caratterizzeranno Scorsese nei prossimi trent’anni: violenza, alienazione, introspezione
ma, soprattutto, l’amatissima musica jazz che
innaffia, come sempre, ogni pellicola del regista italo-americano.
Il primo lungometraggio, Chi sta bussando
alla mia porta? (1969), annovera la collaborazione dell’attore Hervey Keitel, della produttrice Barbara De Fina e della montatrice Thelma Schoonmaker.
Legato sentimentalmente, prima con Laraine Brennan e poi con la produttrice Sandy Weintraub, la carriera del giovane regista comincia a decollare nel 1970 quando entra in amicizia con il produttore Roger
Corman che lo fa diventare assistente regista per Michael Wadleigh, che proprio in quegli anni stava girando un documentario su Woodstock. Grazie a tale esperienza come supervisore del montaggio, il giovane
Scorsese conosce alcuni dei più grandi big della musica mondiale come Bowie, Dylan, Presley e Hendrix.
Sempre nel 1970 dirige il documentario Scene di strada 1970. È, dunque, bene ricordare che il documentario ha sempre caratterizzato la carriera del regista che, amante della musica e del cinema, non ha risparmiato di intraprendere veri e propri viaggi nelle vite e nei trascorsi di “simboli” della nostra società: tra
questi il famosissimo Il mio viaggio in Italia ed il più recente George Harrison? Living in the material
world.
Sta nascendo così una nuova promessa che, sempre sotto il protettorato del produttore Roger Corman,
comincia a dedicarsi a pellicole action; nel 1972 esce 1929 – Sterminateli senza pietà con Barbara Hershey
e David Carradine e Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno con l’ormai amico Keitel e la
sua nuova musa ispiratrice: Robert De Niro. Proprio il successo di quest’ultima pellicola convince la produzione ad affidargli quello che diverrà il film cult di un’intera generazione: Taxi Driver. Ma ciò avverrà
nel 1976, l’anno successivo alla direzione del drammatico Alice non abita più qui con Ellen Burstyn, presentato in concorso al prestigioso Festival di Cannes.
Ma torniamo al 1976 ed al capolavoro Taxi Driver. pochi sanno che se l’opera emblema di Scorsese riesce
a materializzarsi in immagini è merito di un ormai già famoso Brian De Palma che presenta il copione del
film al regista e sceneggiatore Paul Schrader. Autobiografico e scritto solamente in dieci giorni, Taxi Driver
è la storia di un veterano di guerra che, soffrendo d’insonnia, decide di diventare tassista notturno. In una
Manhattan oscura, illuminata solo dai fari delle auto, il protagonista rispecchia lo stato d’animo della socie-
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tà odierna, alienata e senza un apparente senso della vita. In questi anni Scorsese si lega sentimentalmente a Liza Minelli che porterà sullo schermo con il musical/flop New York, New York (1977).
Tre anni dopo, nel 1980, Scorsese firma il suo secondo capolavoro, Toro Scatenato. Storia di un pugile realmente esistito, Jake La Motta, il film è un affresco della società italo-americana irradiata negli Stati Uniti
che, tra sogni e tormenti, cerca il riscatto. Il film rimane alla storia per molteplici ragioni. Il lungometraggio è tuttora considerato uno dei capolavori in assoluto della storia del cinema e, pertanto, conservato nel
“Museo del cinema mondiale”, la National Film Registry. Sempre con questo film, sia Scorsese che l’attore spalla di De Niro, l’irriverente Joe Pesci, furono candidati all’Oscar, peraltro vinto solo da quest’ultimo.
Pochi anni dopo l’uscita del film, il cineasta s’innamora di Isabella Rossellini, figlia del grande Roberto.
Insieme appariranno come attori nel film di Renzo Arbore Il Pap’occhio (1980). Sono questi gli anni della
vittoria della Palma d’Oro per il lungometraggio Re per una notte (1983) e quelli di Fuori Orario (1985)
e Il colore dei soldi (1986).
Lasciata la Rossellini, che a sua volta si legherà ad un altro immenso cineasta quale David Lynch, Scorsese
sposa la sua produttrice, la già ricordata De Fina, e prende parte al progetto New York Stories (1989), una
pellicola divisa in molteplici episodi ognuna girata da un director newyorkese.
Uno dei progetti che ha sempre affascinato il cattolico regista di Long Island è quello di girare un film sulla
vita di Gesù. L’occasione si presenta quando a Scorsese perviene il romanzo L’ultima tentazione di Cristo
del poeta e scrittore greco Nikos Kazantzakis: è da esso che è tratto il film. L’esito non è di quelli sperati.
Nonostante il grande successo di pubblico e di critica, associazioni cattoliche, preti, movimenti integralisti cristiani e perfino la Chiesa stessa si scagliano contro Scorsese e il suo prodotto, accusato di essere non
veritiero e diffamatorio. Ma, nonostante la pressione degli integralisti, la Universal non decide di ritirare il
film. Per Scorsese è un successo personale, tanto da essere chiamato per l’ennesima volta alla premiazione degli Oscar.
Quando, oggigiorno, si parla di Martin Scorsese viene in mente un unico film: Quei bravi ragazzi.
Conosciuto anche con il titolo originale Goodfellas, il film si pone in quella piccola cerchia di lungometraggi, comunemente conosciuti come mafia-movies, che fanno parte della filmografia di ognuno di noi.
Tutti hanno visto la saga de Il Padrino, tutti hanno visto Scarface, tutti hanno visto Quei bravi ragazzi. La
storia è nota; è bene ricordare, invece, che la tecnica di regia così movimentata, con la tipica voce onnipresente fuori campo, non è idea di Scorsese, che ne fece uno stile proprio, bensì influenza della già osannata Nouvelle Vague. Basti pensare al bellissimo Jules e Jim di Truffaut.
Al colosso Goodfellas seguono altre pellicole, alcune più commerciali (Cape Fear – Il promontorio della
paura) ed altre più sofisticate (Casinò, che gli fece guadagnare il Leone d’Oro alla carriera), tutte però con
la sana dose di volenza e di sangue che farebbe impallidire persino Quentin Tarantino. L’unico film in cui
la violenza trattata è più psicologica che materiale è L’età dell’innocenza con Michelle Pfeiffer, Wynona
Ryder e Daniel Day-Lewis. Intrighi, tradimenti, ipocrisie, tormentati benpensanti e benestanti sono i “protagonisti” di questo dramma ambientato nella New York di fine Ottocento. L’opera – omaggio alla poetica di Luchino Visconti – a causa della sua diversità, ottenne un successo più di critica che di pubblico.
Siamo giunti agli anni 2000. All’esperienza discordante de L’età dell’innocenza, seguono alcuni documentari ed altre pellicole che attirano, come i produttori impongono, più il pubblico che le croisette di tutto il
mondo.
Nel 2002 esce Gangs of New York. Questo film (girato completamente a Cinecittà, che ha deciso di non
rimuovere la scenografia, tutt’oggi visitabile) non rappresenta solo il ritorno – per la felicità di tutti i fans
del regista – ad un cinema permeato di violenza e ossessione, bensì anche l’incontro con la nuova musa
ispiratrice di Scorsese: Leonardo Di Caprio. Bravo, intenso e passionale, l’attore viene scelto da Scorsese
anche per le sue tre pellicole successive: The Aviator (2004), The Departed – Il bene e il male (2006) e
Shutter Island (2010).
L’ultima opera del regista è Hugo Cabret (2011), storia di un giovane orfano che, nella Parigi degli anni
Venti, con le sue avventure risolleva il morale all’inventore del cinema fantascientifico, Georges Melies.
C’è chi si fa di droghe, dunque, e chi, invece, decide di vedere un film di Martin Scorsese. Un lunghissimo viaggio all’interno dell’animo umano, quello del regista siculo-americano, incapace di farsi bastare la
bellezza della natura (prodotta, a detta sua, da Dio) e che sfocia inesorabilmente nella violenza. Scorsese,
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come buon narratore e, soprattutto, come sapiente osservatore della nostra società, decide di descrivere
l’uomo, le sue paure più recondite, avendo capito ormai che è l’arte (e in particolare il cinema) lo specchio
con cui ci confrontiamo, con cui capiamo la nostra essenza. Ma non è solo Dio il fulcro della sua costante
ispirazione. L’uomo pone a se stesso dei limiti con cui ogni giorno è costretto a confrontarsi. Un finto perbenismo che ci ha logorato per anni e che è alla base, oggi, del nostro consueto stile di vita. Un mondo, il
nostro, dominato dalle apparenze, dall’ossessione degli altri. E, sebbene Scorsese identifichi l’apice dell’ipocrita perbenismo nella classe borghese, ogni sua opera dimostra che l’uomo, in nome di un ideale che
non esiste, di una regola che non c’è, sarebbe capace, senza consapevolezza delle conseguenze, di ritornare alla sua essenza animale.
Tralasciando inutili giri di parole, la sostanza di colui che ha dato vita, e che continua a dare vita, alle estasi ed ai tormenti della nostra società può riassumersi nel “monito” che lui stesso impone a tutti i giornalisti e critici che tentano – inutilmente di penetrarlo: “I film sono la mia vita, e questo è tutto”. Ai posteri
l’ardua sentenza.
http://www.ilpickwick.it
FILMOGRAFIA
Chi sta bussando alla mia porta? (Who's That Knocking at My Door) (1969)
America 1929 – Sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha) (1972)
Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (Mean Streets) (1973)
Alice non abita più qui (Alice Doesn't Live Here Anymore) (1975)
Taxi Driver (1976)
New York, New York (1977)
Toro Scatenato (Raging Bull) (1980)
Re per una notte (The King of Comedy) (1983)
Fuori orario (After Hours) (1985)
Il colore dei soldi (The Color of Money) (1986)
L’ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ) (1988)
New York Stories (1989)
Quei bravi ragazzi (Goodfellas) (1990)
Cape Fear – Il promontorio della paura (Cape Fear) (1991)
L’età dell’innocenza (The Age of Innocence) (1993)
Casinò (Casino) (1995)
Gangs of New York (2002)
The Aviator (2004)
The Departed – Il bene e il male (The Departed) (2006)
Shutter Island (2010)
Hugo Cabret (Hugo) (2011)
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UNA MOGLIE
LA TRAMA
Mabel è la moglie dell’operaio edile di origine italiana Nick
Longhetti (Peter Falk), ed è la madre di tre bambini. La coppia è legata da un sentimento di dolce affetto e complicità
ma il marito, uomo che sa essere molto premuroso, è spesso
preso dal troppo lavoro e torna a casa nervoso e intrattabile. Mabel è una donna emotivamente fragile che nasconde a
fatica il suo alcolismo, che la porta a un carattere instabile,
alla ricerca costante di affetto e attenzione da parte della
famiglia, degli amici e degli estranei, fino a una serie di
comportamenti, talvolta fastidiosi (come quando si dimostra
assillante con i colleghi di Nick venuti a pranzo da loro), talvolta pericolosi per sé e per i suoi figli, che sottopone a giochi pericolosi insieme ad altri bambini a lei affidati...
LA CRITICA
Il calvario di una donna che ha perduto la propria identità per
tentare di ritrovarsi attraverso gli occhi (e le attenzioni) degli
altri, specchio disperato e angoscioso di un’America che ha
smarrito i valori su cui dovrebbe reggersi. Nella tetralogia di
Cassavetes dedicata alla classe media, Una moglie appartiene - con Volti – al filone più cupo, di fronte ai più solari
Mariti e Minnie e Moskowitz. La nevrosi domestica di Mabel
è messa in scena con un realismo che non ha più nulla di
naturalistico, e la tecnica de “l’improvvisazione controllata”
consente agli attori di dare il meglio di se stessi.
Paolo Mereghetti . Il dizionario dei film
Regia John Cassavetes
Titolo originale A Woman Under the
Influence
Produzione USA, 1974
Durata 155 min
Soggetto John Cassavetes
Sceneggiatura John Cassavetes
Produttore Sam Shaw
Fotografia Mitch Breit, Al Ruban
Montaggio David Armstrong, Sheila
Viseltear
Con Gena Rowlands, Peter Falk,
Katherine Cassavetes, Matthew
Laborteaux, Matthew Cassel,
Christina Grisanti
Con Una moglie John Cassavetes vede il principio del disgelo critico e commerciale nei confronti del suo lavoro, sempre
fin troppo incompreso in vita fino alla totale controtendenza
post mortem, invero tardiva, ma che lo annovererà a capostipite del cinema indipendente americano e padre di una prolifica filiazione di autori (da Martin Scorsese a Woody Allen, Premi 2 nomination agli Oscar per la
Abel Ferrara, Robert Altman etc) che lo hanno assunto a stel- regia e per Gena Rowlands come miglior
la polare. Due nomination agli Oscar (miglior attrice e attrice protagonista
miglior regia), quattro ai Golden Globe di cui uno in tasca a
Gena Rowlands, undici milioni di dollari di incasso (non una
cifra irrisoria per l’epoca) è lo strascico che nel 1974 Una moglie lascia dietro di sé. Un film cofinanziato anche dall’amico Peter Falk (al regista costa una ipoteca sulla casa), un cast di famigliari e amici (...)
Prima di addentrarsi tra le trame avviluppanti di Una moglie ciò che bisognerebbe (non) sapere è che
quello che scorre sullo schermo non è un film, ma un’esperienza sensibile. Non è il racconto di, ma
l’immersione subacquea, dove tutto intorno è un rumore sordo, in una polifonia di stati emozionali.
Non lo sciorinamento della vita, ma vita. Non ci sono letture, interpretazioni, elucubrazioni elargite
da un regista-onnisciente ed esterno al girato che propone il suo sguardo sul mondo attraverso il linguaggio cinematografico - ci dice cosa vedere, sentire, riluttare; c’è altresì un autore, John
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Cassavetes, cui non interessa far accadere qualcosa, ma che l’oggetto filmico sia qualcosa, pulsante e traboccante stati dell’animo, dai quali ognuno è coinvolto e compartecipe, dal cast al regista fino allo spettatore. Quello che accade non è ciò che i personaggi fanno, ma quello che sono. La loro personalità scrive
lo script, il comportamento lo narra. Configurando, così, pensiero e azione come coincidenti: il pensiero
produce l’azione e l’azione del pensiero è il pensiero stesso. Contraddicendo, dunque, l’inattività della vita
contemplativa platonica in favore di un pensiero performativo. Del resto, quando i personaggi sono così
ispessiti dagli strati interiori, succede che gli eventi decadano a corredo. Nella scena della spaghettata e in
quella della riunificazione finale - in un ritorno circolare al caos frastornante della coralità iniziale - la cinepresa segue (non una serie di azioni ma) una concatenazione di (inter)azioni emotive, insinuandosi a ridosso di volti e peculiarità epidermiche e gestuali. Si azzera, dunque, la distanza straniante tra spettatore e
immagini e tra autore e opera che, a sua volta, rimanda sullo schermo possibilità di esperienze e di tipi
umani la cui scoperta è un percorso esplorativo e vitalistico in continuo divenire: già sappiamo che per il
cineasta americano un film non può dirsi mai «concluso». Una connotazione di cinema-vita, questa, in cui
l’autore ha una vicinanza simbiotico-affettiva con la pellicola, anziché la distanza critica di chi vive al di
fuori dell’opera, la scrive, ne elabora lo storyboard, studia la geometria delle riprese, interroga l’angolazione dell’occhio della cinepresa fino a restituirci dichiarazioni, riflessioni, spaccati, e pur sempre enunciati.
Non c’è codice/archetipo estetico-narrativo che possa imbrigliare canonicamente la mutevolezza, l’intensità del nostro modo di vivere e sentire - vuole dirci Cassavetes.
Non lasciava certo che l’improvvisazione lo addomesticasse, però. La sceneggiatura di Una moglie al
momento delle riprese era completa e semmai fu rivista e rimaneggiata in fieri con il contributo della sua
crew di attori che la integravano di percezioni personali finché la profondità psicologica raggiungeva livelli - pur eretici - di complessità bergmaniani. È fondamentale sottolineare l’innovativa concezione dell’arte che Cassavetes andava esprimendo attraverso il suo febbrile lavoro e che in Una moglie si fa compiutezza espressiva: ricalcitrante all’idea del cineasta-demiurgo che con sicumera autoreferenzia il suo potere
intellettuale e analitico declinando l’opera al virtuosismo artistico su cui esercita un raziocinante controllo; rinuncia all’intellegibile onnicomprensività per guardare all’arte come un continuum di incertezza,
domande e paure che si correlano in un tempo provvisorio.
La poetica personale e originale di Cassavetes giunge qui a un livello di maggiore consapevolezza e conseguita sicurezza autoriale, che ammorbidisce progressivamente ciò che in Ombre aveva massima libertà
di espressione, dalla estemporaneità fluviale à la free jazz che fa deragliare continuamente i binari narrati-
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vi, all’emotività sincopata della cinepresa. Sebbene non si definisse un regista, dietro la presunta cineamatorialità delle scelte stilistiche del nostro autore - l’assenza di set, il montaggio disomogeneo e subordinato alla continuità temporale degli eventi (grazie all’utilizzo di più cineprese per le scene in interni), il rapporto di reciprocità con l’attore, la polifonia delle voci - vi è studio minuzioso che risponde all’intento di
subordinare la tecnica alla poetica. In particolare, il rapporto esclusivo e privilegiato che instaura con l’attore (una cerchia ristretta di amici oltre la compagna e i parenti) rende, nel caso di Una moglie, Gena
Rowlands una estensione-alter ego del regista, chiamata a «dirigere» gli attori in scena. È evidente fin dalle
prime sequenze che suo è il ruolo di esuberante cerimoniere degli effluvi di moti d’animo che conflagreranno a mo’ di schegge impazzite; è lei che detta la punteggiatura del pathos emotivo nei duetti con Peter
Falk, lei che teatralizza i personaggi d’intorno mimandone la parodia, sì debitrice della tradizione slapstick,
ed è lei che li puntella, li invita a ballare, a recitare - non a caso - la morte del cigno, a travestirsi: a interpretare una vita che non è, una illusione di felicità.
Chi è, dunque, Mabel. Una donna sotto l’influenza di un disordine psichico?. Molto più, molto altro. Una
donna con una famiglia e pur angosciata dalla solitudine appena la porta di casa si chiude e non resta che
lei; una donna che si serve del rumore per impedire che il silenzio le faccia ascoltare la eco delle sue torturanti paure. «Io ti appartengo», dice al marito nella scena in cui l’esplosività delle sue nevrosi tocca l’acme. Quasi sussurrato, è l’attestato di una dipendenza affettiva (una influenza, di nuovo) che sottende l’alienazione da una vita matrimoniale infelice, in cui l’alcool, le pillole e adulteri svogliati fungono da residuale anestetico. Due antinomie umane, lei e il marito - Mabel raffinata ed eccentrica sognatrice, Nick rozzo
e autoritario italoamericano tutto lavoro e mammà - che si abbandonano a livelli di incomunicabilità virali. Accomunate, però, dall’ausilio di una maschera quotidiana con cui scleroticamente cercano di insidiare
una condizione umana invero immutabile: Nick è preoccupato dall’idea esteriore che la gente ha della sua
famiglia; minimizza, dissimula, inveisce se una parola di troppo gli giunge all’orecchio sulla condizione
dell’animo - l’inesprimibile pazzia - con cui Mabel risponde a un mondo che non le corrisponde l’immagine desiderata. Distanze siderali separano Una moglie dalle stucchevoli epopee romantiche della gloriosa
Hollywood, semmai allegano la fimografia del regista alla coeva new wave francese (il manifesto del cinema-verité è del 1961) e alla corrente del free cinema inglese, oltre che al New American Cinema che lo
decanta a simbolo di un nuovo e anti tradizionale modo di fare cinema, ma di cui non firmerà mai il manifesto. Lo spontaneismo cassavetesiano, l’interpretazione rinnovata della tradizione cinematografica (il
cineasta americano attraversa i generi e li rimodula al servizio della sua «commedia umana»), il pessimismo che si stempera nella pantomina parodistica compongono l’inusitato paradigma entro cui una sequela
di antieroi borghesi si muovono - o poco importa che si muovano - sovraccaricando la pellicola di parole
che non significano perché non comunicano, fino a una conclusione, provvisoria, che esclude la salvezza.
I continui «ti amo» e «ti voglio bene» rimbalzano a vuoto; l’unica forma di comunicazione veritiera dà
voce a smorfie, carezze, abbracci; a quei gesti rivelatori dei flussi emozionali-love streams che tengono gli
individui legati. Ne La vita è meravigliosa di Frank Capra un angelo custode rimedia al peggio, in «Una
moglie» i protagonisti edificano azzardi di equilibri imperfetti, in un estremo tentativo di sopravvivenza
all’impossibilità di cambiamento.
Un pastiche di gradazioni vocali, suoni in presa diretta, alti e bassi emotivi, musica lirica, gestualità in surplus che rimbalzano tra le mura di una casa - dove la privacy è un anelito da inchiodare a caratteri cubitali
sulla porta del bagno - in cui ai personaggi è chiesto bagnarsi di vita e mondare la dialettica tra il fluire babelico delle emozioni e le distanze imposte dalla società dall’adulazione consolatoria. Long take, primi e primissimi piani si intersecano nella destrutturazione dell’epica della middle class americana: il confine tra
salute e malattia si fa laconico - Nick, dopo il ricovero di Mabel, si mostra come un padre altrettanto disperato - la frustrazione assurge a comune declinatore di esistenze inclinate in discesa libera, la drammaturgia
cassavetesiana collima con l’interpretazione cardiaca dei due protagonisti sino al massimo fulgore di lirismo
emotivo possibile. Sul finire, la tempesta sembra essere passata, il silenzio e una inaspettata quiete fagocitano fin l’ultima scoria di rumore. Mettersi a letto come se niente fosse. Nell’attesa che sia domani.
di Francesca D’Ettorre www.ondacinema.it
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IL REGISTA
JOHN CASSAVETES. IL FLUSSO DEL SENTIMENTO
DI ROBERTO URBANI
John Cassavetes è sempre stato banalmente etichettato come
regista indipendente. Ma egli non ha mai intrapreso un percorso
di rottura con il cinema del passato, ha piuttosto cercato, incamminandosi lungo un percorso decisamente personale, di coniugare il passato e il presente. Senza rinnegare il più tradizionale
degli elementi: la famiglia
Secondo Franco La Polla sono molti i critici che hanno evitato
di formulare una definizione di cinema della beat generation,
mentre altri hanno allargato enormemente le discriminanti confondendo le esperienze filmiche più diverse o addirittura tra loro
contrastanti. Si commette infatti di frequente l’errore di associare Ombre di Cassavetes al fenomeno beat. Parker Tyler, certamente ironizzando, è stato esplicito: Ombre (1959 e 1960) non
«è parte del da-da-da beat [...] è giusto un altro film hollywoodiano». D’altra parte lo stesso Cassavetes si era espresso così su
Hollywood in un modo che nessun beat avrebbe mai osato sottoscrivere: «Se avessi l’opportunità di fare quel che si dice un
film artistico in un grande studio di produzione sarei sciocco a non farlo». Come bene spiega Ray Carney,
«Cassavetes limita il nostro punto di vista. La percezione di una scena da parte del pubblico (sia otticamente che intellettualmente) non è di regola più accurata o meglio informata di quella di un personaggio all’interno di essa. In effetti, si dà spesso il caso [...] che la visione di una scena o di un personaggio da parte del
pubblico [...] non solo sia più autorevole, ma nemmeno diversa da quella di un altro personaggio nella
scena. Come osservatori, ci ritroviamo quasi esattamente nella situazione ottica e immaginativa di uno dei
suoi personaggi di contorno». Sappiamo invece che il cinema beat ha sempre predicato l’espansione della
visione o per meglio dire, «il punto di vista - precisa La Polla - può anche essere limitato, ma soltanto nel
senso che esso può coincidere con quello di un personaggio specifico nel momento in cui la sua mente si
sta espandendo oltre i limiti della visione del mondo stabilita dalla cultura dominante, e dunque essa trascende la soggettività della visione». Capita spesso nei film di Cassavetes che i personaggi escano fuori
dalla composizione dell’inquadratura, siano scentrati e restino ai margini del quadro, oppure vengano ripetutamente «impallati» in una sorta di décadrage (disinquadratura) che, almeno inizialmente, sembra negare due caratteristiche fondamentali del cinema narrativo classico, ovvero la riconoscibilità e la possibilità
di identificazione.
A differenza di Mekas e degli altri esponenti del new american cinema group, Cassavetes non intraprende
un percorso di rottura con il cinema presente (e passato), si pone piuttosto come tentativo, comunque definibile come indipendente e certamente solitario, di ricostruzione (da intendersi come recupero del centro e
dell’uomo) dell’opera filmica tradizionale. Come è noto, Cassavetes ha sempre rimproverato ai giovani
della nuova cinematografia il disprezzo per cineasti classici come Michael Curtiz, Frank Capra, Howard
Hawks, Ernst Lubitsch, John Huston, per attori come James Cagney e Humphrey Bogart (citato più volte
in La sera della prima e in Minnie e Moskowitz, si pensi anche all’impermeabile di Gloria) e per film come
Casablanca, Il mistero del falco, Mister Smith va a Washington, La vita è meravigliosa o per Eva contro
Eva e La fiamma del peccato (rivisitati rispettivamente in La sera della prima e in Il grande imbroglio).
Scrive Thierry Jousse: «Pur rimarcando la contraddizione tra i sogni generati dal cinema e una realtà più
cruda, Cassavetes è ben lontano dal criticare l’alienazione dello spettatore. Al contrario, egli afferma, in
opposizione a un’opinione diffusa all’epoca [...], la forza immaginaria del romanzesco hollywoodiano e la
potenza emozionale del cinema, tanto intensa da potersi estendere alla vita. Minnie e Moskowitz è in realtà la messa alla prova di Hollywood di fronte alla realtà del cinema contemporaneo come progetto di cine38
ma, il tentativo di conciliare tradizione e novità». In questo senso possiamo parlare per la Scuola di New
York e più in generale per il cinema beat di un cinema centrifugo, rivolto cioè a forzare i bordi del quadro
per espandere la propria visione, e per Cassavetes di un cinema invece centripeto, rivolto a ricollocare l’uomo al centro dell’inquadratura, del cinema e della società (che per il regista sappiamo essere più o meno
la stessa cosa). A volte il tentativo può fallire, è il caso di Gloria - Una notte d’estate (1980) con Gloria e
Phil che possono riabbracciarsi incastrati però nella parte sinistra del quadro, altre volte può riuscire, come
in L’assassinio di un allibratore cinese (1976 e 1978) con Cosmo che può finalmente assaporare il suo
essere al centro, solamente - l’ironia non manca di certo a Cassavetes - ora che è ferito forse a morte. Alla
fine di tutto, alla sparizione (e quindi alla depersonalizzazione e di conseguenza al venire meno del problema del decentramento) di Robert (interpretato proprio da Cassavetes) che da dietro i vetri bagnati saluta con il cappello in mano i parenti e gli spettatori in Love streams - Scia d’amore (1983), Cassavetes preferirà l’ottimismo, comunque sempre carnevalesco, con l’accumulo di esseri umani: nel finale de Il grande imbroglio (1985), l’essere al centro non ha più importanza perché l’uomo ha già invaso il campo visivo ed è dappertutto.
(…) L’oggetto del cinema di Cassavetes è il flusso: della morte (Henry, Gus e Archie sfidano la morte rifiutando il ruolo di mariti e intraprendono un viaggio che li porterà a Londra oltre l’oceano), della vita (è come
se nei film di Cassavetes mancasse l’inizio della vita. Non ci sono donne incinte, non ci sono parti e i bambini sono già adulti: in Love streams Albie fuma e beve con il padre, Debbie fa ragionare Sarah come farebbe una madre con la figlia, in Gloria il piccolo Phil, da subito intrappolato in abiti adulti, diventa suo malgrado uomo e capo della famiglia), dell’amore (I can’t give you anything but love baby è la canzone di Mr.
Sophistication in L’assassinio di un allibratore cinese, ma sarebbe sufficiente pensare al titolo Love streams), del sangue (la camicia macchiata di Cosmo in L’assassinio di un allibratore cinese, Nancy che prima
di sanguinare dal naso dice «Non sono uno spirito del cazzo!›› in La sera della prima, Robert e il figlio
che sanguinano contemporaneamente nello scontro con il patrigno in Love streams), del sesso («Ho diciassette anni soltanto, amo il sesso, amo eccitare il pubblico. È questo fare teatro, è sesso», afferma Nancy),
del pianto (Mabel che piange a braccia tese sul letto in Una moglie, ‹‹Ci mancavano le lacrime››, ironizza
Manny in La sera della prima, «Forza piangi! È la vita tesoro!», dice entusiasta Chet a Maria), dell’allucinazione (si pensi ancora a Nancy, al tradimento forse solo immaginato in Una moglie, al tuffo di Sarah
dal trampolino o all’apparizione barbuta nel finale di Love streams), dell’alcol (il titolo originale A woman
under the influence è un modo popolare per dire di essere sotto l’influenza dell’alcol), del fumo, del vomito, ma soprattutto dell’alcol, della parola, del riso e dei corpi (corpo del personaggio e corpo sociale, vale
a dire la famiglia).
Ombre (Shadows, 1959)
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La parola viene catturata nelle sue più folli metamorfosi: si trasforma in eco (il rifiuto di Myrtle durante le
prove dello schiaffo), in verso (le pernacchie e il beh-beh, tradotto nella versione italiana con vaffanculo,
di Mabel), in barzelletta (quella che Hugh prepara in camerino prima di salire sul palco, quella che prova
a raccontare Mabel appena ritornata a casa), in filastrocca (lo scioglilingua di Richard), in canto (le canzoni di Hugh, di Chet, di Mr. Sophistication, di Minnie e Moskowitz), in tosse (quella di Richard e Maria),
oppure in riso. Pensiamo alla risata della paziente che impedisce al dentista Gus di lavorare in Mariti
(1970), a quella di Myrtle dopo essere stata schiaffeggiata da Maurice in La sera della prima («Non riesco
più a prendermi sul serio», dirà poco più avanti Myrtle), a quella di Steve che fingendosi morto non riesce
a trattenere in Il grande imbroglio, ma soprattutto a Volti, quando Richard annuncia bruscamente alla
moglie di voler divorziare e Maria scoppia in una fragorosa risata, prima sincera, poi febbrile e nevrotica.
Per Jousse, una vera e propria crisi di riso. Con il suo ultimo film, ci sembra che Cassavetes abbia voluto
parodiare e quindi ridere del suo cinema (ma perché no, anche della morte o della vita: «La vita è buffa,
vero signor Hoffman?», dice Blanche): in Il grande imbroglio Leonard accetta di uccidere Steve Rickey in
cambio di soldi (già pare una parodia di L’assassinio di un allibratore cinese, infatti si parla di allibratori e
di cinesi) per permettere ai figli di andare a Yale e far felice la moglie (insomma lo fa per la famiglia), nel
corso del film i personaggi vomitano, tossiscono, non riescono o non vogliono comunicare (quante stanze
Leonard è costretto a percorrere senza mai riuscire a parlare al capo Winslow!), i corpi si agitano (la recitazione sopra le righe di Beverly D’Angelo evidenzia la parodia dell’estasi) e vengono separati, i telefoni
possono causare malintesi (quando Leonard parla con Blanche e dice che hanno sbagliato numero, Arlene
potrebbe pensare al tradimento).
Per Jousse i corpi sono isterici: «Il corpo è il limite di ogni visibilità, di ogni rappresentazione ma, nello
stesso tempo, tutto si gioca all’interno, al riparo dagli sguardi, grazie alla forza di un’alchimia che non
siamo ancora in grado di comprendere. [...] L’isteria è ciò che lega l’interno e l’esterno del corpo, al tempo
stesso emanazione dell’organismo che fa esplodere il corpo e manifestazione esteriorizzata di un’elettricità inammissibile». I personaggi di Cassavetes tentano di materializzare la loro domanda d’amore con il linguaggio del corpo: in Love streams, durante la causa di divorzio Sarah sviene, o per meglio dire, si ha la
sensazione che si distenda a terra per attirare l’attenzione, in La sera della prima Dorothy ride, danza, si
butta sul letto, si rotola per terra, finge di nuotare e di dare pugni mentre Manny parla al telefono con
Myrtle e Maurice salta sulla scala urlando «Io sono un superman!», in Una moglie quando i vicini o la
famiglia si fanno soffocanti e quando la situazione comunicativa non è più sostenibile, Mabel sale sul tavolo mimando «Il lago dei cigni» e appropriandosi letteralmente del campo visivo, in La sera della prima
Myrtle cade ancora prima di ricevere lo schiaffo di Maurice, fino alla parodizzazione de Il grande imbroglio con Blanche che si agita sul divano indossando la vestaglia della femme fatale e poi l’abito nero della
vedova. Analizzando Volti, Murri parla intelligentemente di estasi (ex-stasis): «Faces lavora propriamente
sugli stati di estasi [...] dei
personaggi, nel momento
in cui essi, durante uno
stato di alterazione, escono
dal proprio corpo abituale,
dalla corteccia rassicurante
della propria facciata. [...]
Facendo emergere [...] un
bisogno di «surrealtà»
come volontà impaziente di
superamento di una realtà
del tutto insufficiente››. In
La sera della prima, il
corpo di Myrtle esce fuori
di sé e si sdoppia in quello
di Nancy, fantasma della
giovinezza o di una omo- Volti (Faces, 1968)
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sessualità latente e in Volti, Dick assiste alla proiezione privata di un film intitolato... Volti. Scrive Murri:
‹‹Il film che sta per iniziare si sdoppia immediatamente nella visione dello spettatore e in quella dell’attore [...]. Ma c’è qualcosa di più terribile in questa dissociazione: Dick assiste con lo spettatore alla finzione
della propria vita, il suo punto di vista è dunque totalmente alienato dal percorso del suo corpo».
Come ha scritto Jousse, in Cassavetes il fondamento dell’esistenza sociale e cinematografica è il modello
familiare (non necessariamente carnale). Che lo si voglia o meno. In Ombre ad esempio, Tony (elemento
esterno e quindi pericoloso per la stabilità familiare. Anche il nero David non sarà accolto benissimo dai
due fratelli) scopre che Lelia è nera soltanto quando entra nell’appartamento dove la ragazza vive con i fratelli Hugh e Ben. Con la scusa di un appuntamento Tony vuole andarsene, poi cerca di rimediare invitando Lelia, i fratelli e gli amici a pranzo. A questo punto Hugh interviene mettendosi tra Lelia e Tony, caccia l’amante dall’appartamento e gli vieta di rivedere la sorella. «Tu hai me e Benny» dice Hugh, «Io lo
amo» singhiozza disperata Lelia. All’inizio la famiglia è praticamente sempre in pezzi: ancora in Ombre i
tre fratelli hanno il colore della pelle differente (quella nerissima di Hugh, quella piuttosto chiara di Ben e
quella quasi bianca di Lelia), in Blues di mezzanotte (1961) la famiglia (che qui assume la forma della
banda) scoppia quando Ghost se ne va in cerca di fortuna, in Gli esclusi i genitori Ted e Sophie rifiutano
l’anomalia del figlio, in Volti Richard e Maria si tradiscono a vicenda rispettivamente con Jeannie e Chet,
Harry, Archie e Gus sconfessano il loro ruolo di mariti e decidono di partire per Londra, in Gloria Phil
perde la sua famiglia e rifiuta la «matrigna» Gloria («Non sei mia madre, non sei mio padre, non sei nessuno per me. [...] E allora io mi trovo una famiglia, una famiglia nuova. E una ragazza anche»), oppure si
pensi alla difficoltà di decifrare il legame tra Robert e Sarah (interpretati dalla coppia Cassavetes, marito
e moglie nella vita, fratello e sorella nel film - ma lo si scoprirà solo dopo un’ora - il che esprime compiutamente la tendenza incestuosa del rapporto) in Love streams. Ma Cassavetes, in fondo, è un ottimista e
una famiglia (seppur con un po’ di riso) sembra essere possibile. Così, in Una moglie, lo schiaffo di Nick
e l’abbraccio dei figli danno nuova energia vitale a Mabel, in Gloria Phil cambia presto idea su Gloria,
prima dichiarandole il suo amore e poi accettandola come madre e non solo («Tu sei mia madre e sei mio
padre. Sei la mia mamma, sei tutta la mia famiglia. E sei anche la mia amica, e sei anche la mia ragazza»),
in Minnie e Moskowitz (1972) le due madri (interpretate da Lady Rowlands e Katherine Cassavetes), dopo
i tentennamenti iniziali, prendono parte, assieme ai nonni, ai bambini, ai cani e ai gatti, al matrimonio e
alla foto di famiglia. Più sincero ci sembra il finale de Il grande imbroglio, l’ultimo film di Cassavetes:
mentre i tre ragazzi si esibiscono nel giardino della villa di Winslow, Leonard, Arlene, Blanche, Steve,
O’Mara e persino Lopez si lasciano andare a risate, baci e abbracci.
Tratto da www.ondacinema.it
FILMOGRAFIA
Ombre (Shadows) (1959-1960)
Blues di mezzanotte (Too Late Blues) (1961)
Gli esclusi (A Child is Waiting) (1963)
Volti (Faces) (1968)
Mariti (Husbands) (1970)
Minnie e Moskowitz (Minnie and Moskowitz) (1972)
Una moglie (A Woman Under the Influence) (1975)
L’assassinio di un allibratore cinese (The Killing of a Chinese Bookie) (1976)
La sera della prima (Opening Night) (1977)
Gloria - Una notte d’estate (Gloria) (1980)
Love Streams - Scia d’amore (Love Streams) (1983)
Il grande imbroglio (Big Trouble) (1985)
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TUTTI GLI UOMINI DEL
PRESIDENTE
LA TRAMA
La sera del 17 giugno 1972 cinque uomini vengono fermati
mentre si trovano all'interno della sede del Partito
Democratico, sito in uno dei palazzi del complesso residenziale Watergate a Washington. Il giorno successivo Bob
Woodward, un giovane cronista del Washington Post, si
trova in tribunale per seguire l'udienza e durante l'interrogatorio scopre che uno degli effrattori lavora per la CIA;
sospettando che l'effrazione sia collegata alla campagna
elettorale per la rielezione del presidente degli Stati Uniti,
comincia ad indagare negli ambienti governativi. Anche un
altro cronista del quotidiano di Washington, Carl Bernstein,
si interessa all'argomento.
I due iniziano una complicata indagine, resa ancora più difficoltosa dall'omertà che circonda l'argomento. Gli indizi
sembrano portare direttamente dentro la Casa Bianca, ma
Woodward e Bernstein non riescono a trovare un filo che
colleghi il Partito Repubblicano all'effrazione. Inoltre la
stampa, compreso l'autorevole New York Times, si disinteressa della vicenda
LA CRITICA
Basato sulla ricostruzione dell'indagine giornalistica di due
diligenti reporter, il film sul caso Watergate non dice molto
di più di quanto lo spettatore abbia già appreso dalla stampa,
dalla televisione e da altri strumenti di informazione di
massa. Sviluppato quasi esclusivamente attraverso brevi
interviste (tra i due protagonisti e le persone implicate nell'affare, perciò fortemente reticenti) e contatti telefonici, il
lavoro propone un materiale per molto tempo nebuloso. Ciò
nonostante, vincendo una sorta di scommessa sulla natura
dello spettacolo cinematografico, il film interessa e appassiona: tale effetto è dovuto anche agli innegabili e numerosi
valori tecnici.
Segnalazioni cinematografiche, vol. 82, 1977
Titolo originale All the President's Men
Regia Alan J. Pakula
Produzione Usa, 1976
Durata 138 min
Soggetto libro omonimo di Bob
Woodward e Carl Bernstein
Sceneggiatura William Goldman
Produttore Walter Coblenz
Fotografia Gordon Willis
Montaggio Robert L. Wolfe
Musiche David Shire
Scenografia George Jenkins
Costumi Bernie Pollack
Trucco Gary Liddiard
Con Dustin Hoffman, Robert Redford,
Jack Warden, Martin Balsam
Premi 4 Oscar: sceneggiatura, scenografia, suono e Jason Robards attore
non protagonista.
Come due giovani cronisti del quotidiano Washington Post Carl Bernstein e Bob Woodward (autori del libro sul quale si
basa la sceneggiatura di William Goldman) - scoprirono il
collegamento tra la Casa Bianca e il caso Watergate, provocando nel 1974 le dimissioni del presidente
Nixon. Piatto come un tavolo di biliardo (ma esiste anche un fascino dell'orizzontalità) nello scrupolo quasi
maniacale della ricostruzione dei fatti senza invenzioni romanzesche né indugi psicologici, racconta un'altra volta la vecchia storia di Davide che sconfigge Golia ed è un eccellente rapporto sul giornalismo americano e, forse, l'omaggio più esplicito che il cinema abbia mai reso al "quarto potere". Incassò negli USA
30 milioni di dollari.
Morando Morandi, Il Morandini.
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IL REGISTA
Alan J. Pakula nacque a New York il 7 aprile 1928 figlio di Paul Pakula e
di Jeanette Goldstein, ambedue immigrati polacchi di origine ebraica.
Compie studi di drammaturgia all'Università Yale.
Inizia la propria carriera nel mondo cinematografico nel reparto animazione della Warner Bros. Nel 1957 passa alla Paramount e produce il primo
film per il grande schermo del regista televisivo Robert Mulligan,
Prigioniero della paura, un prodotto a basso costo che ottiene un buon successo e dà inizio ad una proficua collaborazione tra i due, che realizzano
insieme sette film, fra cui spicca Il buio oltre la siepe (1962), vincitore di
tre Premi Oscar 1963 su otto nomination.
Nel 1963 sposa l'attrice Hope Lange, dalla quale si separerà nel 1971.
Nel 1969 esordisce a sua volta nella regia con Pookie, interpretato da Liza
Minnelli. Viene annoverato tra gli esponenti della "New Hollywood", un
gruppo di giovani artisti tra cui Sydney Pollack, Francis Ford Coppola e
Martin Scorsese, che vogliono mettere nei loro film più realismo e trattare di denunce sociali e politiche.
Nel 1971 apre, con Una squillo per l'ispettore Klute, la cosiddetta trilogia della paranoia. Il film ha un enorme successo di critica e di pubblico, e frutta anche un Oscar per la miglior attrice protagonista a Jane
Fonda. Fa seguito una interessante e sottovalutata pellicola sull'assassinio di John Fitzgerald Kennedy,
visto in chiave di cospirazione politica e girato con un linguaggio inedito e originale per l'epoca. Il film,
intitolato Perché un assassinio?, esce nel 1974.
La trilogia si chiude nel 1976 con il film più celebre di Pakula, Tutti gli uomini del Presidente, che descrive la vicenda dello scandalo Watergate sulla base del famoso libro scritto dai due giornalisti Bob
Woodward e Carl Bernstein. Questo film ottiene quattro Premi Oscar 1977 su otto nomination.
Nel 1982 arriva un altro grande successo con La scelta di Sophie, interpretato da Meryl Streep. Pakula dirige poi Un ostaggio di riguardo (1987), tratto dal dramma teatrale di Lyle Kessler, con Albert Finney e
Matthew Modine.
Negli anni novanta gira due thriller basati su best-seller di narrativa giudiziaria: Presunto innocente (1990)
da un romanzo di Scott Turow, e Il rapporto Pelican (1993) tratto invece da John Grisham.
Il suo ultimo film L'ombra del diavolo, uscito nel 1997, ha come protagonisti Harrison Ford e Brad Pitt e
affronta il problema del terrorismo irlandese.
Uno sfortunato incidente automobilistico (un tubo di metallo proiettato da un'auto proveniente dalla parte
opposta si conficca nel suo parabrezza prendendolo in pieno) mette fine alla sua vita il 19 novembre 1998.
FILMOGRAFIA
Pookie (The Sterile Cuckoo) (1969)
Una squillo per l'ispettore Klute (Klute) (1971)
Amore, dolore e allegria (Love and Pain and the Whole Damn Thing) (1972)
Perché un assassinio (The Parallax View) (1974)
Tutti gli uomini del presidente (All the President's Men) (1976)
Arriva un cavaliere libero e selvaggio (Comes a Horseman Wild and Free) (1978)
E ora: punto e a capo (Starting Over) (1979)
Il volto dei potenti (Rollover) (1981)
La scelta di Sophie (Sophie's Choice) (1982)
Dream Lover (1985)
Un ostaggio di riguardo (Orphans) (1987)
Ci penseremo domani (See You in the Morning) (1989)
Presunto innocente (Presumed Innocent) (1990)
Giochi d'adulti (Consenting Adults) (1992)
Il rapporto Pelican (The Pelican Brief) (1993)
L'ombra del diavolo (The Devil's Own) (1997)
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NON SI UCCIDONO
COSÌ ANCHE I CAVALLI?
LA TRAMA
Nella California dei primi anni trenta, nel pieno della Grande
depressione, è in voga un genere crudele di spettacolo, quello
delle maratone di ballo, durante le quali coppie di disperati
senza lavoro ballano per giorni interi attratti, ancor prima che
dal premio in denaro a chi resisterà di più, dalla semplice possibilità di avere almeno il vitto assicurato per qualche tempo.
A uno di questi spettacoli, organizzato e presentato dall'ambiguo
impresario Rocky, partecipano fra gli altri Gloria, giovane donna
sfiorita, già sconfitta dalla vita, Robert, coinvolto suo malgrado
mentre passeggiava sulla spiaggia senza meta, entrato nella pista
da ballo solo per curiosità e accoppiato proprio con Gloria rimasta senza partner, una coppia di aspiranti attori che comprende
l'inglese Alice, in abito da sera e platinata come Jean Harlow,
Harry Kline, un uomo in divisa da marinaio, visibilmente più vecchio degli avversari, una ragazza incinta e il marito che vivono
passando da un treno merci all'altro. La gara, iniziata da cento
coppie, si prolunga per molti giorni, è un vero e proprio gioco al
massacro, che porta i concorrenti fino ai loro limiti fisici e psicologici e al completo esaurimento.
LA CRITICA
Dal breve romanzo Ai cavalli si spara (1935) di Horace McCoy,
pubblicato (1956) in Italia da Einaudi con Avrei dovuto restare a
casa nel volume Le luci di Hollywood, e sceneggiato da James
Poe e Robert E. Thompson. Nel 1932, durante la grande depressione, a Los Angeles si svolge una maratona di danza dov'è in
palio un premio di 1500 dollari. Sagra di sadomasochismo, claustrofobica fino all'angoscia, impressionante ricostruzione d'epoca
con dialoghi crepitanti, è una sola, grande metafora sull'America
amara che si slarga ad allegoria sul destino. Ottimo gioco di squadra tra gli attori. Ebbe 6 nomination ai premi Oscar (regia, sceneggiatura, Fonda, York, musiche) e una statuetta a Young come
attore non protagonista.
Morando Morandini, Il Morandini
Film in tutti i sensi straordinario. Non solo perché è molto bello e mi scuso per l'indeterminatezza dell'aggettivo -, ma per una
struttura originale e unica, chiusa, claustrofobica, aperta solo nei
brevi squarci dei flash forward, cioè delle anticipazioni oniriche
di quello che accadrà di li a poco, ma allo stesso tempo quasi
rispettosa dell'unità di tempo (anche se la vicenda si stende nell'arco di mille ore, e il film le condensa nello spazio di centoventinove minuti) e di luogo (il film si svolge quasi interamente su
una pista da ballo). […]
Irene Bignardi
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Titolo originale They Shoot Horses,
Don't They?
Regia Sidney Pollack
Produzione Usa, 1969
Durata 120 min
Soggetto Horace McCoy (romanzo)
Sceneggiatura James Poe,
Robert E. Thompson
Produttore Robert Chartoff,
Irwin Winkler
Fotografia Philip H. Lathrop
Montaggio Fredric Steinkamp
Musiche H. King, J. Green, L. Willis
Scenografia Harry Horner,
Frank McKelvy
Costumi Michael J. Harte,
Mina Mittelman
Trucco Sydney Guilaroff,
Frank McCoy
Con Jane Fonda, Michael Sarrazin,
Gig Young, Susannah York
Premi Oscar come miglior attore non
protagonista a Gig Young
il film ha il primato di aver ottenuto il
maggior numero di nomination
all'Oscar (9: miglior regista, sceneggiatura non originale, attrice protagonista,
attore non protagonista, attrice non
protagonista, montaggio, scenografia,
costumi, colonna sonora) senza aver
ottenuto quella per il miglior film.
Golden Globe 1970 miglior attore non
protagonista a Gig Young
In un’epoca in cui gli Stati Uniti attraversavano uno dei periodi più incerti e turbolenti della loro storia, un
giovane e talentuoso regista emergente di nome Sydney Pollack ha realizzato un film che, rievocando le
difficoltà della Grande Depressione, rispecchiava in realtà il senso di insicurezza di un intero paese ed il
tramonto del Sogno Americano. Il titolo di questa pellicola (diventato ormai una frase proverbiale nella lingua inglese) è “Non si uccidono così anche i cavalli?”; il film è tratto dal breve romanzo “Ai cavalli si
spara”, di Horace McCoy, sceneggiato da James Poe e Robert E. Thompson, ed è ambientato in California
nei primi Anni ’30, nel pieno della crisi economica che aveva messo in ginocchio l’America e gettato
milioni di persone nel baratro della povertà.
Sydney Pollack ci racconta proprio la storia di un gruppo di disgraziati senza futuro, e lo fa con un melodramma claustrofobico e allucinato che si svolge tutto in un unico luogo: una sala da ballo presso la spiaggia di Santa Monica, dove va in scena una sfibrante maratona di oltre mille ore fra un totale di cento coppie, che si contendono il premio di 1500 dollari per i due concorrenti che resisteranno in gara più degli altri.
Uno spettacolo macabro e crudele che sfrutta le sofferenze della gente comune per dar vita ad una sagra
degli orrori che è allo stesso tempo uno show di inaudito sadismo. Per settimane intere, infatti, queste coppie di poveri sbandati si muovono incessantemente sulla pista da ballo, mentre pian piano, intorno a loro,
le prime vittime della fatica cominciano a cadere come mosche. Ingenuo testimone di questo feroce gioco
al massacro è Robert Syverton (Michael Sarrazin), coinvolto quasi per caso nella maratona dalla giovane
Gloria Beatty (Jane Fonda), determinata ad aggiudicarsi i 1500 dollari in palio.
(…) Pollack dipinge un’epopea degli sconfitti che è soprattutto una metafora della disperazione umana, trasformata in un grottesco spettacolo del dolore spinto oltre i limiti più estremi. Pregevole la colonna sonora di Johnny Green, impreziosita da brani d’epoca, ed eccezionale il cast al completo: per la sua ottima
interpretazione, Jane Fonda ha ricevuto la nomination all’Oscar come miglior attrice, ma vanno ricordati
anche Susannah York nella parte di Alice, una ragazza inglese in cerca di fama; Red Buttons in quella di
Harry, un marinaio che crolla senza vita durante la gara; e Gig Young, premiato con l’Oscar come miglior
attore non protagonista per il ruolo del cinico impresario Rocky.
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IL REGISTA
L'America che si fa piccola
di Fabio Secchi Frau
America, Sydney Pollack. Un binomio che lega fortemente un
cinema (purtroppo) sempre meno articolato e ampio, ma che un
tempo è stato dedicato, in particolar modo, alla visione del sogno
statunitense ormai spento e di un mondo che è annodato alla sua
dimensione temporale. Leggere nella mente di Sydney Pollack è
una sfida impressionante. Provateci. Cosa vi troverete? Strade dall'asfalto rotto, città deserte, piccoli voli, creatori di sogni, biliardi
dai tappeti rossi come certi corvi, piccoli eroi western polverosi, e
poi ancora sigarette fumate con nervosismo, Robert Redford, sale
congressi che scintillano, sguardi che fuggono mentre si bacia
qualcuno e tensioni tenute con un solo sguardo. L'attenzione verso
il cinema dell'epoca d'oro è palpabile e a essa si sposa con la visione di uomo moderno che si batte contro la Storia, consapevole del
fatto che ne rimarrà annientato, ma ciononostante gioca la sua
carta, l'unica assegnatagli, perché non sa arrendersi, perché non sa
cos'altro fare per contrastarla. È il cantore di attori che per sopravvivere nel mondo dello show-business sono costretti a travestirsi da occhialute donne con permanenti Anni
Ottanta, dell'Africa che fa soffrire al suono dei suoi tamburi e delle sue piogge torrenziali (ma non per questo è meno amata), di cavalli che non si dovrebbero uccidere così e degli Anni Settanta. Di quegli Anni
Settanta e di quei giovani che avevano una passione comune: cambiare il mondo in un luogo ideale (qualsiasi esso sia), dove abbattere barriere normalmente esistenti, compresa quella metacinematografica fra
spettatore e attori. Eterogeneo nei generi è considerato il "regista del tramonto", narratore di storie destinate a chiudersi per sempre in un crepuscolo spettacolare. Elemento di attrazione, questo, che ha dato la
possibilità al pubblico di appassionarsi e di immedesimarsi con i suoi personaggi. Pollack è l'uomo con la
lente d'ingrandimento, che setaccia la cartina geografica degli Stati Uniti e ci mostra come l'America possa
farsi piccola.
Nato nel 1934 a Lafayette, nell'Indiana, subisce fin da piccolo il divorzio dei suoi genitori, immigrati russi
ebrei. La madre infatti, stufa dell'alcolismo del marito (che infatti morirà a soli 37 anni), divorzierà dall'uomo quando Sydney era ancora un bambino. Fratello del costumista Bernie Pollack, dal 1952 al 1954, studia recitazione con Sanford Meisner alla Neighborhood Playhouse School of the Theatre di New York,
diventandone poi un insegnante dal 1954 al 1959. Proprio dentro quell'edificio troverà l'amore nella persona di Claire Grisworld, dalla quale avrà ben tre figli, il primo dei quali, Steven, nato nel 1959, morirà in
un incidente aereo. Era infatti uno dei tre viaggiatori in un aeroplano che andò a schiantarsi contro un
palazzo di Santa Monica (California) il 26 novembre 1993. A Pollack rimangono così solo due figlie:
Rebecca, oggi vicepresidente della casa di produzione cinematografica United Artists, e Rachel. Nell'arco
della sua vita, Pollack passa da insegnante di recitazione ad assistente alla regia teatrale. Dotato fin da allora di una creatività unica, gli vennero proposte repentinamente alcune regie teatrali per spettacoli OffBroadway, dopo i quali venne scritturato dalla televisione sia come attore che come regista per sceneggiati e telefilm (inizialmente western). Pollack debutta così nel telefilm Playhouse 90 (1959), ma anche in
alcuni episodi di Alfred Hitchcock presenta... (1960) e Ai confini della realtà (1960), lavorando con Peter
Lorre, James Mason, Boris Karloff, Kim Hunter, Eli Wallach, Patty Duke, Gene Hackman ed Henry Fonda.
Mentre dirigerà telefilm come Cain's Hundred (1961) e, il più famoso di tutti, Dr. Kildare. Il piccolo schermo gli offre l'opportunità di avere sotto il suo sguardo e la sua guida attori del calibro di: Telly Savalas,
Walter Matthau, Jack Warden, Martin Sheen, Robert Duvall, Lillian Gish, Dustin Hoffman, James Earl
Jones, Dennis Hopper, Leslie Nielsen, Gena Rowlands, Vera Miles, Leonard Nimoy, Bob Hope (vincendo
un Emmy nel 1966 per la regia di Bob Hope Presents the Chrysler Theatre), Peter Falk, Shelley Winters,
Roddy McDowall, Angie Dickinson, Suzanne Pleshette, Jason Robards, Janet Leigh e Mickey Rooney.
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Visto il suo curriculum è normale che, nel 1965, la Paramount gli offra la possibilità di debuttare finalmente nella regia di un lungometraggio. Sydney Pollack entra così nella schiera del cosiddetto "New
Hollywood" o "seconda Hollywood", filone artistico caratterizzato da una visione pessimista della realtà,
da un'accurata fotografia rigorosamente a colori e dal largo uso di zoom, del quale facevano parte Roman
Polanski, Costa-Gravas, John Schlesinger, Francis Ford Coppola e Alan J. Pakula. Così dopo aver esordito come attore cinematografico accanto al suo migliore amico Robert Redford in Caccia di guerra (1961),
firma la sua opera prima, il drammatico La vita corre sul filo (1965) con Sidney Poitier.
Seguono poi una lunga fila di film con Robert Redford, considerato il suo attore prediletto: Questa ragazza è di tutti (1966, con Natalie Wood), Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972), Come eravamo (1973,
con Barbra Streisand), I tre giorni del Condor (1975, che vincerà il David di Donatello Speciale, con Max
von Sydow e Faye Dunaway) e Il cavaliere elettrico (1979, con Jane Fonda). Ma non solo Redford nella
sua carriera, anche Burt Lancaster con Joe Bass l'implacabile (1968) e Ardenne '44, un inferno (1969) e
Jane Fonda con Non si uccidono così anche i cavalli? (1969, pellicola che gli farà ottenere la sua prima
nomination agli Oscar come miglior regista).
Nel 1973, è membro della Giuria del Festival di Cannes e due anni più tardi dirige Robert Mitchum in
Yakuza (1975), passando poi ad Al Pacino in Un attimo, una vita (1977) e trionfando al Festival di Berlino
con Diritto di cronaca (1981) con Paul Newman, per il quale film vincerà una menzione d'onore e il Berlin
Morgenpost. A detta della critica, il suo miglior film rimane comunque Tootsie (1982) con Dustin Hoffman,
commedia incentrata sull'attore di Broadway, Michael Dorsey, che bravo, ma perennemente disoccupato
perché rompiscatole, è costretto a guadagnarsi da vivere travestendosi da donna e spacciandosi per l'inesistente Dorothy Michaels detta "Tootsie", attrice navigata e particolarmente cazzuta. Una pellicola che, con
mestiere, parla delle difficoltà dell'essere attore, senza inibirsi di fronte ai veleni del successo e dello Star
System. Motivo principale che ha spinto l'Academy a nominarlo per il miglior film e per la miglior regia,
ancora una volta sfumata clamorosamente.
Dopo tanti tentativi a vuoto, Pollack riuscirà però a stringere nelle sue mani ben sette Oscar totali (fra cui
quello di miglior regista e miglior film, ma anche un David di Donatello come miglior film straniero, nonché il Nastro d'Argento per la miglior regia di una pellicola straniera) con il grande successo de La mia
Africa (1985), trasposizione sul grande schermo del romanzo autobiografico di Karen Blixen, dove riunisce nel cast il suo sempreverde Redford e una lucente Meryl Streep.
Presidente della Giuria del Festival di Cannes, nel 1986, dopo innumerevoli altri film non particolarmente degni di lode, torna a dirigere Redford in Havana (1990), poi comincia una lunga fila di piccole apparizioni in pellicole. È il dottore del pronto soccorso nello spassoso La morte ti fa bella (1992) con Bruce
Willis, Goldie Hawn e Meryl Streep ed è accanto a Tim Robbins, Julia Roberts e Rod Steiger ne I protagonisti (1992) di Robert Altman. Da questo momento in poi, forse per via della morte del suo primogenito, Pollack sembra quasi spegnere la sua vena critica e melodrammatica, smettendo di parlare di eroi perdenti, ma limitandosi a trasporre sul grande schermo copioni che sembrano quasi triti e ritriti dalla grande
Hollywood, ma che comunque sono impeccabili da un punto di vista estetico: è il caso del thriller Il socio
(1993) con Hackman e Tom Cruise, Sabrina (1995) con Harrison Ford e Destini incrociati (1999), sempre
con Ford.
Si dedica soprattutto al mestiere di attore, lasciandosi dirigere da Woody Allen in Mariti e mogli (1992) o
da Stanley Kubrick in Eyes Wide Shut (1994) con Nicole Kidman e Cruise, recitando accanto a Robert
Duvall e John Travolta in A Civil Action (1998) o a Samuel L. Jackson e William Hurt in Ipotesi di reato
(2002), o apparendo in telefilm come Frasier (1994), Innamorati pazzi (1998), I Soprano (2007) e soprattutto Will & Grace (2000-2006), dove ha il ruolo del padre dell'avvocato gay Will, George Truman.
Vincitore, nel 2002, del Pardo d'Onore al Festival di Locarno, dirige la grande diva Kidman e Sean Penn
nel thriller The Interpreter (2005). Ma Pollack non si limita solo a questo, in tutti questi anni, si è anche
distinto come ottimo produttore cinematografico. Senza Pollack non avremmo avuto Successo alle stelle
(1984) con Kris Kristofferson, I favolosi Baker (1989) con Jeff Bridges e Michelle Pfeiffer, Presunto innocente (1990) con Harrison Ford, Calda emozione (1990) con Susan Sarandon, Sua Maestà viene da Las
Vegas (1991) con Peter O'Toole, L'altro delitto (1991) di e con Kenneth Branagh e Robin Williams, il film
con Sean Penn Una notte per decidere (2000), alcuni film con Gwyneth Paltrow (Omicidi di provincia,
Sliding Doors e Il talento di Mr. Ripley) e Nicole Kidman (Birthday Girl e Ritorno a Cold Mountain).
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Ma Sidney Pollack ci piaceva di più prima, quando era ossessionato dallo scorrere del tempo, quando sfruttava con molta intelligenza e genialità temi canonici e forme tradizionali del cinema hollywoodiano per
difendere e rinnovare lo stesso cinema a stelle e strisce. Ci manca quelle sue manifestazioni artistiche che
non potevano che attrarre la critica e il pubblico e che avevano come obiettivo primario quello di stringere un contatto privilegiato con i suoi spettatori, aldilà del mero intrattenimento.
FILMOGRAFIA
La vita corre sul filo (The Slender Thread) (1965)
Questa ragazza è di tutti (This Property Is Condemned) (1966)
Joe Bass l'implacabile (The Scalphunters) (1968)
Ardenne '44, un inferno (Castle Keep) (1969)
Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don't They?) (1969)
Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson) (1972)
Come eravamo (The Way We Were) (1973)
Yakuza (The Yakuza) (1975)
I tre giorni del condor (Three Days of the Condor) (1975)
Un attimo, una vita (Bobby Deerfield) (1977)
Il cavaliere elettrico (The Electric Horseman) (1979)
Diritto di cronaca (Absence of Malice) (1981)
Tootsie (1982)
La mia Africa (Out of Africa) (1985)
Havana (1990)
Il socio (The Firm) (1993)
Sabrina (1995)
Destini incrociati (Random Hearts) (1999)
The Interpreter (The Interpreter) (2005)
Frank Gehry - Creatore di sogni (Sketches of Frank Gehry) (2005)
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FILMOGRAFIA PARZIALE
Nick mano fredda (Cool Hand Luke), Stuart Rosenberg (1967)
Gangster Story (Bonnie and Clyde), Arthur Penn (1967)
Il Laureato (The Graduate), Mike Nichols (1967)
Senza un attimo di tregua (Point Blank), John Boorman (1967)
Ciao America! (Greetings), Brian De Palma (1968)
Rosemary’s Baby (id.), Roman Polanski (1968)
Volti (Faces), John Cassavetes (1968)
Easy Rider (id.), Dennis Hopper (1969)
Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy), John Schlesinger (1969)
Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run), Woody Allen (1969)
Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch), Sam Peckinpah (1969)
Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid), George Roy Hill (1969)
Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don’t They?), Sidney Pollack (1969)
M*A*S*H (id.), Robert Altman (1970)
Soldato blu (Soldier Blue), Ralph Nelson (1970)
Cinque pezzi facili (Five Easy Pieces), Bob Rafelson (1970)
Piccolo grande uomo (Little Big Man), Arthur Penn (1970)
Mariti (Husbands), John Cassavetes (1970)
Panico a Needle Park (Panic in Needle Park), Jerry Schatzberg (1971)
I compari (McCabe and Mrs. Miller), Robert Altman (1971)
Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop) (1972), Monte Hellman
L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show), Peter Bogdanovich (1971)
Il braccio violento della legge (French connection), William Friedkin (1971)
Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo!! (Dirty Harry), Don Siegel (1971)
Harold e Maude (Harold and Maude), Hal Ashby (1971)
Cane di paglia (Straw Dogs), Sam Peckinpah (1971)
Cabaret (id.), Bob Fosse (1972)
Città amara (Fat City), John Huston (1972)
Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson), Sidney Pollack (1972)
Il padrino (The Godfather), Francis Ford Coppola (1972)
Il re dei giardini di Marvin (The King of Marvin Gardens), Bob Rafelson (1972)
Papillon (id.), Franklin J. Schaffner (1973)
American Graffiti (id.), George Lucas (1973)
La rabbia giovane (Badlands), Terrence Malick (1973)
Dillinger (id.), John Milius (1973)
L’ultima corvé (The Last Detail), Hal Ashby (1973)
Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (Mean Streets), Martin Scorsese (1973)
Pat Garrett & Billy the Kid (id.), Sam Peckinpah (1973)
Serpico (id. ), Sidney Lumet (1973)
Le due sorelle (Sisters), Brian De Palma (1973)
L’esorcista (The Exorcist), William Friedkin (1973)
La stangata (The Sting), George Roy Hill (1973)
Alice non abita più qui (Alice Doesn’t Live Here Anymore), Martin Scorsese
Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and Lightfoot), Michael Cimino (1974)
Chinatown (id.), Roman Polanski (1974)
La conversazione (The Conversation), Francis Ford Coppola (1974)
Il padrino – Parte II (The Godfather Part II), Francis Ford Coppola (1974)
Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia), Sam Peckinpah (1974)
Sugarland Express (id.), Steven Spielberg (1974)
Una moglie (A Woman Under the Influence), John Cassavetes (1974)
I tre giorni del condor (Three Days of the Condor), Sydney Pollack (1975)
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Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest), Milos Forman (1975)
Quel pomeriggio di un giorno da cani (Dog Day Afternoon), Sidney Lumet (1975)
Lo squalo (Jaws), Steven Spielberg (1975)
Nashville (id.), Robert Altman (1975)
Il vento e il leone (The Wind and the Lion), John Milius (1975)
Tutti gli uomini del presidente (All the President’s Men), Alan J. Pakula (1976)
Carrie, lo sguardo di Satana (Carrie), Brian De Palma (1976)
Taxi Driver (id.), Martin Scorsese (1976)
Io e Annie (Annie Hall), Woody Allen (1977)
Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind), Steven Spielberg (1977)
New York, New York (id.), Martin Scorsese (1977)
Guerre Stellari (Star Wars), George Lucas (1977)
Tornando a casa (Coming Home), Hal Ashby (1978)
I giorni del cielo (Days of Heaven), Terrence Malick (1978)
Il cacciatore (The Deer Hunter), Michael Cimino (1978)
Una donna tutta sola (An Unmarried Woman), Paul Mazursky (1978)
Halloween (id.), John Carpenter (1978)
Un mercoledì da leoni (Big Wednesday), John Milius (1978)
All That Jazz (id.), Bob Fosse (1979)
Apocalypse Now (id.), Francis Ford Coppola (1979)
Oltre il giardino (Being There), Hal Ashby (1979)
Kramer contro. Kramer (Kramer vs. Kramer), Robert Benton (1979)
Manhattan (id.), Woody Allen (1979)
Cruising (id.), William Friedkin (1980)
I cancelli del cielo (Heaven’s Gate), Michael Cimino (1980)
Toro scatenato (Raging Bull), Martin Scorsese (1980)
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