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Tipico italiano
a cura di Stefano Bonilli Una collana pensata per tutti coloro che amano la cucina ma non ne sono esperti. In ogni volume la cucina contemporanea viene proposta con 35 ricette e 140 foto. Tutte le ricette sono descritte dettagliatamente, con la foto di ogni piatto, la storia, gli ingredienti, gli strumenti di cucina, i consigli e i trucchi. Autori Annalisa Barbagli e Stefania Barzini Acquista i volumi della collana su www.giuntistore.it utilizzando i codici promozionali: • EBF8RW42M sconto 15% per l’acquisto di un eBook • RT7N2F99 per avere la spedizione gratuita per ordini superiori a € 9,90 su libri cartacei Inserisci i codici promozionali riportati nel carrello prima del pagamento per ottenere lo sconto. Promozione valida fino al 31/7/2013 a cura di Stefano Bonilli Le ricette del DVD sono state girate presso Tricolore - Via Urbana 126, Roma Tipico italiano Annalisa Barbagli e Stefania Barzini CUCINARE INSIEME Collana a cura di Stefano Bonilli Tipico italiano Progetto editoriale e contenuti di FADO S.r.l. testi e ricette: Annalisa Barbagli e Stefania Barzini in cucina: Annalisa Barbagli e Gaia Giordano food stylist: Federica Mensurati foto: Paolo della Corte - Foodrepublic progetto grafico e impaginazione: Fabio Cremonesi dvd: Daniele Martelli www.giunti.it © 2010 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia Via Dante 4 - 20121 Milano - Italia ISBN 9788809765436 Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl Prima edizione digitale 2010 sommario introduzione 6 il nord-ovest 8 il nord-est 38 il centro 76 il sud 106 le isole 140 indice 158 * nel testo delle ricette l’asterisco indica un approfondimento nelle due pagine seguenti introduzione Solo gli stranieri possono parlare genericamente di cucina italiana, identificando noi italiani con una pizza o un piatto di spaghetti. Noi, che in Italia siamo nati e ci viviamo, sappiamo bene che le cucine italiane sono tante e molto diverse una dall’altra, perché l’Italia non è molto vasta ma è molto lunga, dal Friuli alla Sicilia circa 1.500 chilometri, e questa lunghezza fa sì che ci siano una grande varietà di climi e quindi di colture e prodotti, con la conseguenza di cucine molto diverse fra loro. Il libro vuole puntare proprio su questa ricchezza valorizzando quei piatti forse meno conosciuti, ma legati al territorio e alla tradizione. Qualcuno si è preso la briga di fare un po’ di conti e pare che le ricette della cucina tradizionale italiana siano più di settantamila, senza tener conto delle tante varianti familiari di ogni pietanza e le ricette del libro, considerando il numero di pagine, sono soltanto degli esempi, quasi dei simboli. Vorremmo aggiungere una notazione. Nel libro si parla di ricette tradizionali e familiari, ognuna delle quali è suscettibile di una miriade di varianti e, anche se raccontate in maniera semplice e discorsiva, è purtroppo vero che il fatto di codificarle dando tempi, pesi e misure faccia perdere in parte il senso dei piatti del territorio, nati quasi sempre dalla necessità di utilizzare al meglio quello che cresce vicino a casa. 7 il nord-ovest fonduta - VALLE D’AOSTA risotto al barbera - PIEMONTE tonno di coniglio - PIEMONTE lattughe in brodo - LIGURIA sciumette - LIGURIA messicani - LOMBARDIA riso alla pilota - LOMBARDIA il nord-ovest - VALLE D’AOSTA (1) fonduta Dopo avere eliminato la crosta, taglio la Fontina a fettine sottilissime, la raccolgo in una terrina e unisco il latte necessario per coprirla a filo. Copro la terrina e lascio riposare per 4 o 5 ore o per tutta la notte. Prima di tutto preparo i tuorli tenendoli pronti dentro il mezzo guscio. Faccio fondere il burro in una casseruola a fondo pesante e arrotondato, e aggiungo la Fontina sgocciolata e 3 o 4 cucchiai del latte (l’aggiunta di mezzo cucchiaio di farina è poco ortodossa ma faciliterà il lavoro a chi è meno esperto). Sistemo la casseruola in un bagnomaria caldo e comincio a mescolare con una frustina, mantenendo l’acqua del bagnomaria a un’ebollizione appena accennata. Mescolo continuamente e, quando la Fontina è completamente fusa e diventata una massa filante, unisco il primo tuorlo mescolando energicamente fino a quando è completamente incorporato, poi unisco nello stesso modo, uno alla volta, gli altri tuorli. A questo punto la fonduta è pronta: non è più una massa filante ma una crema liscia e omogenea. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 350 g di Fontina valdostana un bicchiere circa di latte 4 tuorli d’uovo freschissimi (a temperatura ambiente) 30 g di burro pepe bianco Per accompagnare dadi di pane casereccio tostato 10 La ritiro dal fuoco e la insaporisco con una macinata di pepe bianco. La servo subito caldissima, in tegamini individuali o in unico tegame posto al centro della tavola, accompagnandola con il pane tostato. È ottima anche per condire gli gnocchi o la polenta, e per arricchire uno sformato di spinaci o di cardi. il nord-ovest - VALLE D’AOSTA la valdostana Chiariamoci subito: di fondute ce ne sono tante, ma la valdostana è una sola. Anche se questa preparazione a base di formaggio è comune anche al Piemonte, alla Savoia, alla Svizzera. Ma quando si dice fonduta valdostana, a differenza delle altre, si dice Fontina. L’origine di questo piatto è però abbastanza oscura, Anthelme Brillat-Savarin sostiene che sia stato inventato a Ginevra e comunque in Svizzera e c’è chi azzarda una nascita piemontese con lo zampino della famiglia Cavour. Quello che è certo è che si tratta di un piatto piuttosto sostanzioso da consumare nelle fredde giornate invernali. E, come ogni piatto che si rispetti, anche la fonduta ha i suoi segreti: perché sia buona non deve aggrumarsi, deve restare morbida e liscia, non bisogna perciò mai superare i 60 gradi di calore e mai smettere di mescolare. dicono di lei Coprire di latte le fettine di Fontina e far riposare per almeno 4-5 ore. il caquelon Tutti noi conosciamo il tipico tegame da fonduta, ma pochi ne sanno il nome. Si tratta del caquelon, un padellino in terra cotta, porcellana o ghisa con un fondo di un certo spessore, di modo che, quando fonde, il formaggio non bruci. Il caquelon lo mettiamo su una sorta di fornelletto, il rechaud, alla base del quale c’è una fonte di calore, che di volta in volta può essere una candela o un fornelletto ad alcol. Grazie a questo calore basso, la fonduta, che si serve direttamente a tavola nel caquelon, mantiene la giusta temperatura durante tutto il pasto. Una tecnica molto diffusa è quella di “ungere” il caquelon con dell’aglio prima di metterci gli ingredienti, per esaltarne il gusto. A volte si preferisce ricoprire il fondo di pezzetti di aglio tagliato. 12 “...Gli organi della lingua, per cui gustiamo i sapori, non sono d’una maniera in tutti gli uomini e in tutti i climi, e s’alternano sovente o per mutazione d’età o per infermità o per altra più possente cagione... Io, per esempio non sono del parere di Brillat-Savarin che nella sua Physiologie du goût fa gran caso della fondue (cacimperio) e ne dà la seguente ricetta: ‘Pesate, egli dice, le uova e prendete un terzo del loro peso di burro, sale ben poco e pepe a buona misura’. Io, in opposizione a Savarin, di questo piatto fo poco conto, sembrandomi non possa servire che come principio in una colazione o per ripiego quando manca di meglio.” Da La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi (1) fonduta la fontina I pascoli alpini, valore paesaggistico a parte, sono una vera ricchezza per la Val d’Aosta: in estate sono infatti sfruttati per l’alpeggio delle vacche di varie razze locali, specialmente la valdostana pezzata rossa e la pezzata nera, che producono il latte necessario alla fabbricazione dei celebri formaggi locali. Gli alpeggi si svolgono tradizionalmente fra la festa di San Bernardo (15 giugno) e quella di San Michele (29 settembre), quando le vacche riscendono a valle e si celebra la Dèsarpa, festa dedicata a questi animali. Il formaggio più celebre è di certo la Fontina DOP, prodotto in queste valli da secoli: infatti viene già descritto in documenti del XV secolo, anche se il nome appare solo nel XVIII. Il latte, che proviene da un’unica mungitura, dà origine a un formaggio grasso, a pasta semicotta tendente al giallo, in forme tonde di circa 9 kg, salate a secco e stagionate per almeno tre mesi. Fontina DOP della Valle d’Aosta torcetti valdostani Sbriciolo 6-7 g di lievito di birra fresco in una ciotolina e lo diluisco con 80 g di acqua appena tiepida. Setaccio 250 g di farina 00 nella ciotola dell’impastatrice, la allargo un po’ al centro e ci verso il lievito diluito e un cucchiaino di zucchero. Monto il gancio, avvio l’impastatrice e la faccio andare per 5 minuti, fino a quando la pasta si stacca dalle pareti raccogliendosi attorno al gancio. Formo una palla e rimetto la pasta nella stessa ciotola. Copro con un panno umido piegato in quattro e la faccio lievitare in luogo tiepido fino al raddoppio (un’ora e mezzo circa). A questo punto avvio di nuovo l’impastatrice, aggiungo una presa di sale e, un po’ alla volta, 100 g di burro morbido a pezzetti. Quando la pasta è bella omogenea, la raccolgo a palla e la faccio lievitare di nuovo per un’ora. Quando è pronta, la rovescio sul tavolo infarinato e verso 100 g di zucchero in un piatto. Rotolando un pezzo di pasta alla volta sul tavolo, formo dei rotolini sottili come una matita. Li taglio a pezzi di 15 cm e li passo nello zucchero rivestendoli completamente, poi sovrappongo le estremità e premo leggermente ottenendo degli anelli a goccia.Via via che sono pronti, li sistemo su una placca rivestita di cartaforno e alla fine li passo nel forno a 200° per poco più di 15 minuti, fino a doratura. Raffreddo i torcetti su una griglia e li conservo in una scatola di latta. 13 il nord-ovest - PIEMONTE (2) risotto al barbera Spello la cipolla, la taglio prima in quattro spicchi e poi a fettine sottilissime. Preparo un trito finissimo con 2 foglie di salvia e un pizzico di aghi di rosmarino. Scaldo l’olio con la metà del burro in una casseruola larga e a fondo pesante, e faccio appassire molto dolcemente la cipolla con il trito di salvia e rosmarino e la foglia di alloro. Scaldo il vino senza farlo bollire. Quando il soffritto è pronto, bagno con la metà del vino, rialzo la fiamma e appena il vino è completamente sfumato e asciugato, unisco il riso e lo faccio tostare, mescolando di continuo. Quando il riso comincia a sfrigolare, unisco il resto del vino, la passata di pomodoro e un mestolo di brodo bollente. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 400 g di riso S. Andrea o Carnaroli 2 bicchieri di vino Barbera un litro abbondante di brodo di carne (manzo) 60 g circa di burro un cucchiaio d’olio extravergine d’oliva 2-3 cucchiai di passata di pomodoro casalinga una grossa cipolla chiara una foglia di alloro salvia rosmarino noce moscata Parmigiano grattugiato pepe di mulinello 14 Faccio cuocere il risotto a fuoco vivace unendo via via altro brodo e facendo in modo che, a fine cottura e con il riso ben al dente, rimanga molto morbido. Lo manteco con il resto del burro e due manciate di Parmigiano e unisco anche una grattatina leggera di noce moscata, un soupçon come dicono i francesi (se voglio caratterizzarne maggiormente il sapore, durante la mantecatura aggiungo anche 2 o 3 cucchiai di vino caldo). Lo servo caldissimo passando a parte il macinino del pepe. È un risotto dal gusto e dal profumo intensi, al quale mal si adatta il diminutivo (risottino) spesso usato per questa preparazione. il nord-ovest - PIEMONTE la barbera Macinapepe la canzone Chi non ricorda Giorgio Gaber che affoga pene e dolori di un cuore infranto in più bicchieri di Barbera? “Triste col suo bicchiere di barbera senza l’amore a un tavolo di un bar, il suo vicino è in abito da sera triste col suo bicchiere di champagne. Son passate già quasi tre ore venga! Che uniamo i tavoli signor, voglio cantare e dimenticare coi nostri vini il nostro triste amor. Barbera e champagne, stasera beviam per colpa del mio amor, pa ra pa pa per colpa del tuo amor, pa ra pa pa. Ai nostri dolor insieme brindiam col tuo bicchiere di barbera col mio bicchiere di champagne”. Da Barbera e Champagne di Giorgio Gaber 16 La Barbera, e non il Barbera, perché non dimenticatelo, questo vino è femmina. Se ascoltiamo chi di Barbera ne parla e ne beve, quello che ci racconta è che in lei si sente il fruttino, la ciliegia, il lampone, la viola, il pepe. Quali che siano le sue note, di certo è un vino aspro e brusco che ben racconta la sua terra, il Piemonte. Il suo nome verrebbe dal vocabolo medievale bàrberus, cioè irruente, aggressivo, indomito. È vino poi di sorti alterne, amato e bistrattato e poi tornato nuovamente in auge. La fortuna di questo vino ha un nome, quello del marchese Filippo Asinari di San Marzano, un nobile astigiano del Settecento, appassionato produttore di vini nei suoi feudi di Costigliole e San Marzano. A quei tempi i vini astigiani erano assai criticati perché creduti difficili da conservare e perciò da invecchiare e da trasportare. Il nostro eroe ebbe allora un’intuizione geniale e organizzò una spedizione dei suoi vini a Rio de Janeiro, due botti di Nebbiolo e due di Barbera di Costigliole e San Marzano. Il vino giunse a Rio in ottimo stato, soprattutto la Barbera. E questo grazie alla grande qualità e alle tecniche moderne importate dalla Francia. Finalmente i piemontesi si resero conto delle qualità dei loro vini e nel corso dell’Ottocento la fama della Barbera crebbe fino a raggiungere quella degli altri vini nobili del Piemonte. Riso Carnaroli (2) risotto al barbera barbera doc Noce moscata dicono di lei “È uno dei pochi vini di sesso femminile..., ma se è femmina è una virago da mettere fuori combattimento la gioventù tenerella e delicatina che usa oggi. L’ho già definito il fante dei vini piemontesi, pistapauta e scaccianebbie, burbero tutto vino, nel colore scuro, nelle macchie che fa sulla tovaglia, nell’afrore che dà al fiato, nel profumo forte.” Da un articolo di Paolo Monelli giornalista e scrittore italiano Perché si tratti di vera Barbera, deve avere una zona d’origine ben precisa: la Barbera d’Alba è prodotta nelle colline di Alba, la sua resa massima di uva è di 100 quintali per ettaro; la Barbera d’Asti si coltiva in 118 comuni della provincia di Asti e in 50 di quella di Alessandria, dove la produzione di uva non deve superare i 90 quintali per ettaro; la Barbera del Monferrato arriva dall’Alto e Basso Monferrato; anche qui siamo in collina, con una produzione di uva di 100 quintali per ettaro; i Colli tortonesi Barbera è prodotto con uva che viene dalle colline di Tortona, con una produzione che non supera i 100 quintali per ettaro. “Generosa Barbera bevendola ci pare d’essere soli in mare sfidanti una bufera” Giosuè Carducci “La Barbera è un tipo di vino maschio, benché il suo nome sia di genere femminile e nessuna barba di grammatico abbia il diritto di farlo maschile dicendo il Barbera, come dicono parecchi a torto.” Da un discorso di Umberto Colosso - uomo politico e parlamentare monferrino 17 il nord-ovest - PIEMONTE (3) tonno di coniglio Raccolgo 2 litri d’acqua in una casseruola con il vino, un cucchiaino di grani di pepe, i chiodi di garofano, le foglie di alloro, un rametto di rosmarino e uno di timo. Mondo sedano, carota e cipolla, li affetto grossolanamente e li metto nella casseruola insieme a qualche gambo di prezzemolo, un ciuffo di basilico e 2 spicchi d’aglio. Aggiungo una manciatina di sale, metto il coperchio e faccio alzare l’ebollizione, poi abbasso la fiamma e faccio bollire dolcemente per una mezz’ora ottenendo un brodo vegetale molto profumato. INGREDIENTI PER 6-8 PERSONE un giovane coniglio pronto per la cottura di circa 1,2 kg un bicchiere di vino bianco 2 coste di sedano una cipolla una carota 2 foglie di alloro 2 teste d’aglio prezzemolo basilico timo rosmarino salvia (abbondante) 2 chiodi di garofano pepe in grani olio extravergine d’oliva sale e pepe 18 Lavo il coniglio, lo tuffo nel brodo in ebollizione e lo faccio cuocere a fuoco dolce per circa un’ora e mezzo, fino a che la carne comincia e staccarsi dalle ossa. Lo scolo e, quando è quasi freddo, lo disosso con le mani per ottenere dei pezzi di carne più o meno regolari. Li spolvero di sale e pepe e li lascio raffreddare completamente. Lavo e asciugo una manciata di foglie di salvia e spello gli spicchi d’aglio rimasti. Accomodo la carne di coniglio a strati in un contenitore di vetro munito di coperchio, disponendo su ogni strato 3 o 4 spicchi d’aglio e altrettanta salvia . Nel comporre gli strati, cerco di non lasciare spazi vuoti e, una volta esauriti gli ingredienti, verso su tutto l’olio che sopravanzi di un cm. Metto il coperchio e, prima di consumarla, tengo la preparazione in frigo per un paio di giorni in modo che la carne assorba parte dell’olio profumato di aglio e salvia. * Servo il tonno di coniglio come antipasto o come secondo piatto estivo, accompagnandolo con un’insalata di patate condita con un poco dell’olio del coniglio. il nord-ovest - PIEMONTE la storia Ma perché tonno se di coniglio invece si parla? Perché questa ricetta, tipica piemontese, le cui origini vanno cercate nel Monferrato e nell’Alta Val Tanaro, ha una preparazione che somiglia molto a quella del tonno sott’olio, infatti, dopo aver fatto bollire il coniglio, lo si conserva in vetro con olio e aromi. È un piatto povero, di origine contadina, e a volte al coniglio si sostituiva la gallina. A dir la verità si narra anche di origini più prosaiche, si racconta cioè che nell’Ottocento, quando la regola del digiuno quaresimale era molto rigida, i frati di un convento di Avigliana preparassero così i conigli, nel tentativo di nasconderne la vera natura di carne e aggirare il divieto. I tonni, si sa, vanno bene anche in Quaresima! Quando è freddo, disossare il coniglio con le mani 20 Coniglio lavato, pronto per la cottura il coniglio Il coniglio è un animale che curiosamente suscita spesso sentimenti contrastanti. La Bibbia considerava la sua carne impura, e ancora oggi ebrei e musulmani la pensano così. Diversa la sorte di questa bestiolina ai tempi dei Romani, che ne andavano ghiotti, soprattutto di quelli appena nati con cui preparavano un piatto dei giorni di festa, il Laurices. Apicio ci ha lasciato più di dieci ricette per il consumo di conigli e lepri. I conigli degli Antichi erano però di razza selvatica, cacciati e poi allevati in fosse e recinti. Il coniglio domestico infatti ha storia recente, basti pensare che il primo mattatoio italiano per conigli fu aperto solo nel 1874, non a caso a Torino. Da sfatare poi la credenza che lepri e conigli siano razze amiche, addirittura fraterne: tra queste due famiglie infatti esiste una vera incompatibilità, tanto che se i conigli selvatici sconfinano in zona di lepri, le cacciano tutte. (3) tonno di coniglio il grigio di carmagnola Se vogliamo fare un vero, tradizionale tonno di coniglio, allora facciamo uno sforzo e procuriamoci quello grigio di Carmagnola. È questo un coniglio dal pelo grigio, che ha ossa molto fini e carne soda, saporita e non stoppacciosa come spesso accade ai conigli d’allevamento. Si tratta di razza piemontese assai comune e diffusa fino a metà del secolo scorso e poi completamente scomparsa. Dal 1982 si è iniziato a parlare di recupero, tanto che a Carmagnola la Facoltà di Agraria dell’Università di Torino ha messo in piedi un allevamento per ricreare la razza. E speriamo che ci riesca, perché un piatto antico, e un tempo immancabile in ogni trattoria del Piemonte, come il coniglio con i peperoni fatto con le carni del Grigio di Carmagnola, era di quelli che una volta assaggiati non si dimenticavano più! * Il coniglio condito con aglio, salvia e olio deve attendere 2 giorni in frigorifero prima di essere consumato l’uomo che sussurrava ai conigli C’è forse chi si ricorda del film L’uomo che sussurrava ai cavalli, tratto da un fortunato romanzo di Nicholas Evans, ma saremmo pronte a giurare che nessuno sappia che c’è anche chi sussurra ai conigli. Parliamo di Mr. Cliff Penrose, un distinto signore inglese che, nella natia Cornovaglia, ipnotizza questi piccoli roditori. Cliff di conigli se ne intende, ne ha infatti una cinquantina, compreso Sonny, un gigante di circa 10 chili. Si è scoperto ipnotista in tarda età, dopo una malattia che lo ha costretto a ritirarsi dal lavoro e da allora ha imparato a addormentare queste morbide bestiole. Ma come? È lo stesso Cliff a raccontarlo: “La prima cosa da fare è cominciare ad accarezzarlo, per mantenere un contatto costante con l’animale. Io riesco a capire quando il coniglio è completamente rilassato dalla presenza o meno di vibrazioni nel suo corpo. A quel punto, bisogna mettere la mano destra sotto al corpo e la sinistra sulla schiena e portarlo fino al petto, facendogli un piccolo massaggio: così il coniglio è totalmente rilassato e chiude le palpebre”. Naturalmente Mr. Penrose si è messo a disposizione dei veterinari della zona. Che sembrano apprezzare. 21 il nord-ovest - LIGURIA (4) lattughe in brodo Metto ad ammollare i funghi in acqua tiepida. Preparo cervello e animelle e li taglio a pezzi. Trito finissima la cipolla e la faccio appassire a fuoco dolcissimo in una piccola padella con olio e burro. Quando la cipolla è trasparente, unisco la polpa di vitello, tagliata a bocconcini piccoli, e le foglie di alloro. Rialzo un po’ la fiamma e, dopo 10 minuti, quando la carne è pressoché cotta, unisco anche il cervello e le animelle, insaporisco con sale e pepe e proseguo la cottura per 2 minuti. * INGREDIENTI PER 4 PERSONE un litro e mezzo circa di ottimo brodo di carne 2 cespi grandi di lattuga cappuccina 200 g di polpa di vitello 100 g di animelle di vitello (noce) la metà di un cervello di vitello (150 g circa) oppure un cervello di agnello 15 g di funghi porcini secchi 100 g di Parmigiano grattugiato un uovo e un tuorlo 20 g di burro un cucchiaio d’olio extravergine d’oliva 1/2 cipolla piccola uno spicchio d’aglio piccolo 2 foglie di alloro maggiorana (fresca o secca) prezzemolo noce moscata sale e pepe 22 Passo le carni al mixer e le raccolgo in una terrina con i funghi, ben strizzati e tritati a coltello, lo spicchio d’aglio grattugiato, il Parmigiano, l’uovo e il tuorlo, poco prezzemolo tritato, una presa di maggiorana e una grattata di noce moscata. Amalgamo bene e assaggio per regolare il sale. Sfoglio le lattughe eliminando le foglie più esterne e le lavo più volte, poi scelgo una ventina fra le foglie più grandi e le scotto, per un minuto appena e in acqua in leggera ebollizione (si dovranno solo ammorbidire), le tiro su con la schiumarola e le allargo delicatamente su un panno, facendo attenzione a non romperle. Metto al centro di ogni foglia una piccola porzione di ripieno, calcolando di servire 4 foglie a persona, e le chiudo attorno all’impasto in modo che non rimangano aperture (se sono in vena di perfezione, pennello le chiusure con un albume poco battuto), poi chiudo i fagottini con del filo bianco, con una legatura a croce . * Scaldo il brodo in un tegame basso e, quando inizia l’ebollizione, ci adagio i fagottini e li faccio cuocere a fuoco dolce per circa un quarto d’ora. Al momento di servire le lattughe, elimino il filo e le distribuisco nei piatti, coprendole di brodo bollente. Tanto lavoro, ma anche un piatto davvero buono e bello. il nord-ovest - LIGURIA * cervello e animelle di vitello la lattuga Così comune sulle nostre tavole che quasi non ci facciamo più caso. E invece la lattuga ha segreti e tesori nascosti. Il suo nome viene dal latino lactuca – da lac lactis, latte –, perché dalle sue foglie proviene un succo un po’ lattiginoso. È una pianta già apprezzata e conosciuta dagli Antichi, che consideravano le sue foglie calmanti, rinfrescanti e stimolanti l’appetito. Questa pianta ha diverse varietà. La lattuga gentile o foglia di quercia, è a forma tonda con grandi foglie arricciate, che rimangono sempre aperte. La lattuga cappuccio, anch’essa tondeggiante, con le foglie sovrapposte a formare il tipico cappuccio, è quella che troviamo in grandi quantità nei mercati del Nord Italia. La lattuga brasiliana o Iceberg sembra una grossa palla e ha foglie particolarmente croccanti. La lattuga romana, di un bel colore verde intenso, è quella più consumata nel Sud Italia. La lattuga batavia, dalle foglie verdi o rosse, a forma d’uovo, ha il primato di lattuga più consumata al mondo. La lattuga lollo è una lattuga ricciarella apprezzata soprattutto in Germania e nei Paesi nordici. 24 1 Prima di essere cucinato in qualunque modo, il cervello ha bisogno di un trattamento particolare. Occorre quindi tenerlo per un’oretta a bagno sotto un filo di acqua corrente e a questo punto sarà facile rimuovere le venuzze e la pellicina che lo riveste: per toglierla perfettamente basterà afferrarla con le dita e tirare delicatamente. Infine lo si immerge in acqua in ebollizione, salata e acidulata con un cucchiaio di aceto. Dovrà cuocere in leggerissima ebollizione per 7-8 minuti (se di agnello soltanto 2-3 minuti). Una volta scolato è pronto per successive preparazioni, anche per la classica frittura. 2 Anche le animelle hanno bisogno di un trattamento preliminare.Tenerle dunque a bagno per un po’ sotto un filo d’acqua, meglio se per qualche ora, per poi scottarle per 5 minuti in acqua inizialmente fredda. Scolate e intiepidite, si eliminano le parti grasse cartilaginose. 3 Questa sarebbe la regola ma, specialmente se cervello e animelle sono veramente freschissimi, si può anche semplificare l’operazione eliminando il bagno in acqua e scottandoli direttamente per qualche minuto. (4) lattughe in brodo fai così Cervello e animelle rendono il ripieno particolarmente fine e morbido, ma si può fare un ripieno meno raffinato e ugualmente gustoso usando solo carne (circa 400 g). In questo caso, per ammorbidirlo, si userà poca mollica di pane bianco, inzuppata nel sugo di cottura della carne allungato con un goccio di brodo. * Mettere al centro di ogni foglia una porzione di ripieno, chiudere le foglie attorno all’impasto in modo che non rimangano aperture, quindi legare i fagottini. lattughe allucinogene Chi l’avrebbe mai detto che la più comune delle verdure, quella che compare quotidianamente sulle nostre tavole, abbia effetti psichedelici? E invece fin dall’antichità la lattuga virosa e la lattuga scariola, due tipi di lattughe selvatiche, erano considerate un’alternativa agli analgesici, con un effetto assai simile a quello dell’oppio. Un tempo infatti i medici, a chi soffriva di tosse o di insonnia, ordinavano il lactucario, il lattice biancastro che usciva dalle foglie di queste piante, anche chiamato oppio di lattuga. Negli anni Settanta dello scorso secolo poi, negli Stati Uniti fumare foglie seccate di lattuga era quasi all’ordine del giorno. Si chiamava lettuce opium o lettucene questa sorta di droga pesante che però non dava assuefazione e non provocava overdose. Naturalmente oggi questo uso delle lattughe selvatiche è vietato. La lattuga, quella coltivata, possiamo, se proprio abbiamo voglia, bercela in infuso o in tisana prima di andare a dormire! 25 il nord-ovest - LIGURIA (5) sciumette Rompo le uova versando in due ciotole diverse i tuorli e gli albumi. Con la frusta elettrica monto gli albumi a neve e, quando hanno preso volume, unisco 2 cucchiai colmi di zucchero e continuo a montare fino a quando la meringa diventa lucida e consistente. Verso il latte in un tegame largo a bordi bassi e lo metto sul fuoco. Quando inizia a fremere, un attimo prima che si alzi l’ebollizione, abbasso la fiamma al minimo e ci depongo 5 o 6 cucchiaiate di meringa modellate a quenelle. Dopo un minuto le giro e le lascio cuocere altrettanto prima di tirarle su con la schiumarola e deporle su un panno ad asciugare . Cuocio nello stesso modo il resto della meringa, quindi ritiro il latte dal fuoco e lo lascio intiepidire. * Pesto i pistacchi nel mortaio fino a ridurli quasi in pasta, poi li diluisco con qualche cucchiaio di latte. Unisco il resto dello zucchero ai tuorli insieme a un cucchiaio raso di farina setacciata e mescolo un attimo con il cucchiaio di legno prima di unire il tutto al latte ormai quasi freddo, amalgamando con una frusta. Aggiungo anche il latte al pistacchio e metto il composto sul fuoco con la fiamma al minimo. Mescolando di continuo con il cucchiaio di legno, faccio cuocere la crema fino a quando si sarà ispessita e vela il cucchiaio, facendo attenzione che non raggiunga l’ebollizione. INGREDIENTI PER 6-8 PERSONE 5 tuorli 3 albumi 1,2 litri di latte 6 cucchiai colmi di zucchero un cucchiaio raso di farina un cucchiaio di pistacchi pelati cannella in polvere 26 Al momento di servirle, accomodo le sciumette in un piatto da portata profondo, le copro con la crema fredda e spolvero ognuna con un pizzichino di cannella. il nord-ovest - LIGURIA * Scolare le quenelles di meringa e farle asciugare su un panno. liguria dolce Diciamolo, quando pensiamo alla Liguria i dolci non sono la prima cosa che ci viene alla mente. E sbagliamo. Perché invece questa regione ha una sua tradizione dolciaria ben precisa e assai particolare. La Liguria è infatti patria dell’arte del candire la frutta, non a caso la leggenda vuole che le tre sorelle Hesperetusa, Aretusa e Aegle, madrine degli agrumi, quando fuggirono dal giardino delle Esperidi portarono con loro proprio questa frutta e scelsero la Liguria per piantarla e farla fruttare. La storia ci dice che quest’arte nacque intorno al 1200 quando i liguri pensarono che, se gli arabi conservavano la frutta nella melassa, forse si potevano trovare strade alternative a questo procedimento. Di certo sappiamo che nel 1500 Caterina de’ Medici, andata sposa solo quattordicenne al futuro re di Francia, arrivò a Parigi con un seguito di sarti e cuochi raffinatissimi, tra cui colui che diventò il suo capo pasticciere, tal Pietro da Recco, che esigeva che ogni mese gli fossero inviate le arance dalla Liguria, in modo da poterle candire “alla moda dei genovesi”. E non finisce qui, perché nel 1800 la Liguria faceva un gran commercio di chinotti canditi, le piccole e profumate mignonettes, tanto che nacquero centinaia di stabilimenti di canditura nella regione. Ci pensò poi la Grande guerra e le pesanti tasse su alcool e zucchero a mettere in ginocchio la fiorente produzione. Oggi i canditi liguri sono una Delikatesse che troviamo solo nelle pasticcerie francesi e viennesi. 28 la storia Le sciumette sono dolci liguri, soffici meringhette cotte nel latte a cui viene aggiunta una morbida crema. Sono di origine provenzale e facevano parte della tavola pasquale di ogni ligure di rispetto, insieme alla cima, alle lattughe in brodo, alla mitica torta Pasqualina, all’agnello al forno e ai cavagnetti, dolcetti di pasta frolla a forma di canestro con al centro un uovo sodo colorato. Oggi i tempi sono cambiati e le sciumette le ricordano solo i più anziani, eppure è un dolce che nella sua eterea leggerezza sarebbe indicatissimo anche per gli stomaci più esigenti. (5) sciumette l’isola galleggiante Cannella la flottante di escoffier “Prendere un biscotto di Savoia e spezzettarlo in piccoli pezzi. Bagnarli con kirsch e maraschino, ricoprirli con confettura di albicocche. Spargerci sopra uvetta di Corinto e mandorle tritate. Riaggiustate i pezzetti in modo da riformare il biscotto. Ricoprire il tutto con crema Chantilly zuccherata e vanigliata. Cospargere con pistacchi tritati e altra uvetta. Mettere in una compostiera e circondare di crema inglese vanigliata o di sciroppo di lamponi”. Georges Auguste Escoffier cuoco francese, autore di importanti libri di cucina È dolce francese per eccellenza l’ile flottante, e sembra che a inventarla o quanto meno a codificarne per primo la ricetta sia stato proprio il grande Escoffier. Di certo è la parente più vicina alle sciumette in terra d’Oltralpe, anche se i liguri inorridiscono alla sola idea che le loro sciumette possano essere paragonate alla cugina francese. Comunque sia, anche l’isola galleggiante è fatta con meringhe, spesso però cotte in forno, e crema inglese, ma ne esiste una versione che vuole anche biscotti savoiardi intrisi nell’alcol e marmellata. L’isola dalla Francia è poi emigrata nel resto del mondo dove sono tanti i nomi con cui la chiamano: Schnee-Eier, al secolo uova di neve, in Germania, zupa nic in Polonia, Kanarimilch in Austria, madártej, latte d’uccello, in Ungheria, ?nenokle in Croazia e lapte de pasare in Romania. Pestare bene i pistacchi nel mortaio 29 il nord-ovest - LOMBARDIA (6) messicani Ripulisco le fettine di carne da nervetti e parti grasse e le rifilo con il coltello per averle tutte più o meno delle stesse dimensioni (circa 12 x 6-7 cm). Passo per due volte al tritacarne la polpa di maiale, il prosciutto e i ritagli delle fettine, lasciandoli cadere in una terrina. Unisco la mollica, bagnata nel latte e strizzata, lo spicchio d’aglio grattugiato, il Parmigiano, l’uovo e la scorza di limone grattugiata, una grattatina di noce moscata, sale e pepe. Impasto molto bene il tutto con le mani. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 12 fettine di noce di vitello (circa 600 g) 40 g di burro un cucchiai d’olio extravergine d’oliva 12 bicchiere di vino bianco 2 mestoli di brodo poca farina Per il ripieno 100 g di polpa di maiale 50 g di prosciutto crudo con la sua parte di grasso 50 g circa di mollica di pane 2 cucchiai di Parmigiano grattugiato latte un uovo uno spicchio d’aglio piccolo la scorza di 1/2 limone non trattato noce moscata sale e pepe 30 Allargo le fettine di carne sul tagliere e le batto leggermente con il batticarne, poi metto in ognuna una piccola “salsiccia” di composto, dosandolo bene in modo che i messicani risultino tutti uguali. Arrotolo la carne attorno al ripieno e infilzo gli involtini, a coppia, in due stuzzicadenti . * Faccio spumeggiare olio e burro in un tegame, infarino pochissimo le coppie di messicani e li faccio rosolare, con la fiamma a metà, qualche minuto per parte. Quando hanno preso colore, verso il vino nel fondo del tegame e, appena è sfumato, copro e proseguo la cottura per una mezz’ora, girandoli un paio di volte e unendo ogni tanto mezzo mestolo di brodo. Da ultimo alzo la fiamma e verso nel tegame poco brodo per staccare bene il fondo, poi faccio restringere un po’ e servo i messicani caldissimi. Sono perfetti, adagiati con tutto il sugo, su un letto di risotto giallo o bianco alla parmigiana, oppure su una coltre di purè di patate o, ancora, con degli spinaci al burro. il nord-ovest - LOMBARDIA involtini I messicani altro non sono che involtini e malgrado il nome esotico si tratta di invenzione milanese. È pur vero però che involtini compaiono sulle tavole di tutto il mondo. Una delle regioni che di questa preparazione va ghiotta è la Sicilia, qui si chiamano bracioline, spitini o sasizzeddi nel Catanese; i siciliani preferiscono la carne bovina per questo piatto, perché, vuole la leggenda, Dio benedì il bue che aveva scaldato Gesù nella mangiatoia. Il ripieno di questo piatto è fatto di pangrattato abbrustolito in padella, pecorino, una cipolla tritata, uva passa, pinoli, sale e pepe. Lo spalmiamo sulla carne battuta e chiudiamo bene gli involtini che poi infilziamo su spiedini mettendo tra uno e l’altro una foglia di alloro e una di cipolla. Ora li oliamo e li passiamo nel pangrattato non abbrustolito. Dovremmo cuocerli alla brace ma non sempre è possibile, e allora vanno bene anche forno o piastra. Squisiti. dicono di loro “...E chi porta legato al collo lo stuzzicadenti erra senza fallo... oltra che quello è uno strano arnese a veder trar di seno... e non so ben dire perché questi cotali non portino altresì il cucchiaio legato al collo”. Da Il Galateo di Monsignor Giovanni Della Casa 32 * Mettere in ogni fettina una piccola “salsiccia” di composto e arrotolare involtini al cinema Giovanna, Clara Calamai, è dietro ai fornelli, nel ristorante di suo marito. Sta preparando un semplice pranzetto per i suoi avventori, e si tratta di involtini che servirà anche al vagabondo che si è appena seduto al tavolo, Massimo Girotti, che diventerà poi il suo amante. Il film è Ossessione, la regia è di Luchino Visconti. Ci sono poi gli involtini che Capannelle, interpretato da Carlo Pisacane, scova nel frigorifero dopo essersi allegramente sbafato anche una pasta e ceci. È il famosissimo I soliti ignoti per la regia di Mario Monicelli. (6) messicani gli stuzzicadenti * Infilzare una coppia di involtini con due stuzzicadenti lo stuzzicadenti della val clavicola Per ogni involtino ci vuole, si sa, il suo stuzzicadenti che lo chiuda ben bene. Ma da dove vengono gli amati-vituperati stuzzicadenti? Vengono da lontano, se si pensa che gli antenati in bronzo di questi stecchini sono stati ritrovati addirittura in tombe preistoriche in Italia e in Mesopotamia. I Romani li chiamavano dentiscolpia e li usavano per pulirsi i denti e anche per mangiare carne servita in pezzi. Col tempo diventarono addirittura oggetti ricercati, confezionati in oro e in altri metalli nobili, e ci fu un momento che improvvisamente furoreggiò la moda di portarli appesi al collo, come gemme preziose. Oggi questo oggetto è un po’ in disuso, per pulirsi i denti infatti si preferisce il filo interdentale, ma in cucina, soprattutto se si preparano involtini, davvero non si può rinunciare agli stecchini di legno. Lo stuzzicadenti più esilarante della storia televisiva. Chi l’ha visto non può aver dimenticato Raimondo Vianello che fa il verso al Mario Soldati di Alla ricerca dei cibi genuini. A lui tocca intervistare Borbottin Luison, al secolo Ugo Tognazzi, artigiano del legno in Val Clavicola, che da un enorme tronco produce un solo stuzzicadenti, e ci mette anche sei mesi. “I miei stuzzicadenti – dice il Borbottin – sono identici a quelli fatti a macchina, ma uno può essere usato anche dodici volte, dalla stessa famiglia che se lo passa. Certo non li vendo qui in Italia perché da noi non si mangia, ma all’estero non vanno male!”. Vianello ricordava che quella scenetta non l’avevano neanche provata, così misero il copione in terra, ma Tognazzi piallava, piallava, e i trucioli coprivano i fogli nascondendoli. Come sia sia, lo sketch è irresistibile ancora oggi. 33 il nord-ovest - LOMBARDIA (7) riso alla pilota Metto sul fuoco una casseruola a fondo pesante con un volume d’acqua un po’ meno del doppio di quello del riso (misuro riso e acqua con una tazza). Unisco una presa di sale e, quando inizia l’ebollizione, verso il riso facendolo scendere tutto al centro della casseruola, in modo che il riso stesso formi un cono la cui punta dovrà emergere per un cm scarso dall’acqua . Se non emerge, tolgo un po’ di acqua altrimenti, se emerge troppo, aggiungo poca acqua bollente. Scuoto la casseruola per far scendere il riso e lo faccio cuocere per 10 minuti esatti a fuoco vivace, senza mescolare. 6 DVD * A questo punto copro la casseruola con un panno piegato in quattro, metto il coperchio con un peso sopra e spengo il fuoco. Lascio il riso così, per un quarto d’ora, in modo che assorba tutta l’acqua completando la cottura. Mentre il riso riposa, scaldo il burro in una padella e unisco le salamelle ben sbriciolate e le faccio rosolare dolcemente, mescolando spesso, fino a quando il grasso sarà ben sciolto, poi verso tutto il contenuto della padella nella casseruola con il riso ormai pronto, aggiungo il Parmigiano e mescolo bene. Servo il riso caldissimo. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 400 g di riso Vialone nano 150 g di salamella mantovana (o salsicce a grana grossa e 2 spicchi d’aglio) 50 g di burro 2 manciate di Parmigiano grattugiato sale 34 il nord-ovest - LOMBARDIA riso alla pilota Malgrado il nome questo riso non ha nulla a che vedere con automobili o piloti. Anzi ha poco a che vedere anche con il risotto. Si tratta di un piatto molto particolare, uno dei capisaldi della cucina mantovana, famoso già ai tempi dei Gonzaga. Il nome, così curioso, proviene dagli operai addetti alla pulitura del riso, i piloti o pilotini per l’appunto, che a loro volta prendono il nome dalla pila, una sorta di grande mortaio dove il riso veniva separato dal glume con un pestello meccanico. Gli operai non avevano molto tempo a disposizione per cucinare, e perciò meglio il riso alla pilota, che non richiede di essere seguito passo passo, del risotto classico, come lo conosciamo noi, che a Mantova si chiama menà; cucinare il riso alla pilota invece è solo apparentemente più facile, in realtà richiede regole ben precise. la canzone “Saluteremo il signor padrone per il male che ci ha fatto che ci ha sempre maltrattato fino all’ultimo momen’ Saluteremo il signor padrone con la so’ risera neta pochi soldi in la cassetta e i debit da pagar...” Da Saluteremo il Signor padrone - canto popolare delle Mondine 36 Riso Vialone nano le mondine Sono in pochi a ricordare che una volta parlare di riso voleva dire parlare di mondine, le signore che mondavano, pulivano, il riso. Un lavoro durissimo che spezzava le reni costringendo a stare chine, a piedi nudi e per giornate intere, in mezzo all’acqua delle risaie, a strappare le erbacce infestanti che impedivano la crescita del riso. In dotazione le ragazze avevano un paio di calzoncini corti, le calze di filanca, un fazzoletto da mettere sul viso per proteggersi dagli insetti e un cappello a tese larghe per proteggersi dal sole. La paga era infima, naturalmente inferiore a quella degli uomini e le giornate lavorative duravano anche 10 o 12 ore, tanto che ai primi del Novecento ci furono agitazioni e scioperi che fecero sì che la paga migliorasse e che le giornate lavorative non durassero più di otto ore. Oggi di tutto ciò resta solo il ricordo: a fare il lavoro delle mondine ci pensano infatti le macchine. (7) riso alla pilota fai così Le salamelle mantovane sono grosse salsicce caratterizzate dalla presenza di aglio nell’impasto. Non avendole a disposizione, si possono utilizzare delle salsicce fresche a grana grossa e, prima di metterle in padella, si fanno rosolare nel burro 2 grossi spicchi di aglio schiacciati. Salsiccia a grana grossa * Versare il riso facendolo scendere tutto al centro della casseruola in modo che formi un cono, la cui punta dovrà emergere per un cm scarso come mangiarlo È un riso che ama il maiale e perciò di solito viene condito con il pisto, che nel mantovano è anche chiamato tastasal. Si tratta dello stesso impasto delle salamelle mantovane, ovvero un mix di carni – spalla, grasso di pancetta e di prosciutto – tritate e poi insaporite con aglio, pepe e sale. Esiste però anche la versione col puntel, cioè con la braciola di maiale, che puntella, cioè sostiene il piatto. Un boccone di riso e un morso alla braciola. C’è poi chi questo riso lo preferisce invece con il pessin, piccoli pesci fritti. 37 il nord-est torta di fregolotti - TRENTINO zuppa di gulasch - gulaschsuppe - ALTO ADIGE tortelli di spinaci - spinat-tirtlen - ALTO ADIGE kugelhupf - FRIULI cevapcici - FRIULI pasta e fagioli - VENETO zuppa di trippa - VENETO cotolette alla bolognese - EMILIA ROMAGNA pisarei e fagioli - EMILIA ROMAGNA il nord-est - TRENTINO (8) torta 6 DVD di fregolotti Scotto le mandorle per un paio di minuti in acqua in ebollizione, poi le spello e le allargo su una placca. Le passo per una decina di minuti nel forno caldo ma spento per farle asciugare. Quando sono ben fredde, le verso nel mixer con la metà dello zucchero e frullo brevemente per tritarle in maniera grossolana. Setaccio la farina sulla spianatoia e unisco il resto dello zucchero, le mandorle, la scorza di limone grattugiata e una presa di sale. Miscelo il tutto, faccio la fontana e ci metto il tuorlo, la grappa e il burro, molto morbido e a pezzetti. Mescolo gli ingredienti con la punta delle dita e aiutandomi con la forchetta, senza impastare: il composto non deve infatti riuscire compatto e uniforme, ma formato da grosse briciole (fregolotti). Fodero con la cartaforno una tortiera da crostate di 28 cm e ci faccio cadere questi grumi di impasto senza premerli in modo che si dispongano in uno strato irregolare ma senza spazi vuoti (nel caso scuoto un po’ la tortiera). Passo la torta nel forno a 180° per circa 45 minuti fino a doratura. INGREDIENTI 250 g di farina 00 200 g di ottimo burro morbido 180 g di mandorle 150 g di zucchero un tuorlo la scorza di un limone non trattato 2 cucchiai di grappa sale 40 La torta è migliore se preparata con un giorno di anticipo e si conserva perfettamente per molti giorni se chiusa in una scatola di latta, dopo averla rotta in pezzi. Infatti la torta di fregolotti, dura e croccante, non si taglia a fette ma si spezza con le mani. il nord-est - TRENTINO il menu del boscaiolo Gente davvero povera i boscaioli della trentina Val di Fiemme, e povero era anche il loro desinare, almeno a giudicare da questo racconto: “Al mattino polenta senza sale e un po’ di formaggio vecchio, piccante, magro e a volte... abitato da strani inquilini, il tutto accompagnato da un po’ di caffè d’orzo. Polenta senza sale e un po’ di formaggio anche a mezzogiorno e come dissetante l’acqua pura. La polenta veniva cotta nel paiolo di ferro posto sopra due o tre sassi e all’impasto usavano tracciare una croce sopra di essa con il grosso e lungo mestolo di legno. Quando la polenta era pronta il “cogo” gridava “Zioi ’n rama” oppure “duraa” e tutti si facevano attorno affamati. Alla sera una “supa rostida” o “fregolotti” e minestre fatte con farina abbrustolita e condite a volte con lardo. Se c’era polenta fredda avanzata, si aggiungeva anche quella e solo dopo molti anni si potè mangiare minestra fatta con pasta formato “rugoni”. Dopo cena uno dei boscaioli attorno alla “fogara” con tutti i compagni di lavoro iniziava una recita del rosario al quale tutti rispondevano in coro. Un’ultima tazza d’acqua, mai vino, poi a dormire”. Da Il lavoro del bosco nella Valle di Fiemme di Agostino Bortolotti La torta di fregolotti pronta per il forno 42 tanti nomi, ma una sola torta È una torta trentina, quella di fregolotti, o meglio fregoloti, vale a dire un dolce molto friabile fatto di grossi bricioloni, i fregoloti per l’appunto. Una torta povera confezionata con ingredienti che era facile reperire: zucchero, farina, mandorle o nocciole tritate. Un dolce che ritroviamo identico, seppure con nomi diversi, in molti altri centri italiani. A Mantova è la sbrisolona, dolce ubiquo che oramai compare anche negli Autogrill, sfragulà nel Destra Secchia, sbrizulùuza a Cremona e tortionata nel Lodigiano. Il concetto è lo stesso, un impasto che deve essere molto friabile, tanto che vi consigliamo di non provare nemmeno a tagliarla quando si è raffreddata, ma di farlo invece quando è ancora calda; in compenso se la mettete in una scatola d’alluminio per biscotti si conserverà a lungo. (8) torta di fregolotti Mandorle la grappa La ricetta originale della torta di fregolotti prevedeva l’aggiunta di un bicchierino di grappa. Di quella buona, e in Trentino di grappe buone ne sanno qualcosa. Perché in questa regione amano lambicar, che poi in dialetto vuol dire distillare, ma anche fare fatica. Non è tanta la grappa in Trentino ma di certo è di altissima qualità perché le vinacce sono distillate ancor freschissime. È nel paese di Santa Massenza, nella Valle dei Laghi, che la grappa diventa oggetto di culto, un paese di pochi abitanti ma di molti alambicchi se si pensa che su duecento residenti ci sono ben cinque distillerie. Qui la grappa la amano di Vin Santo e la distillano tra metà settembre e metà ottobre. La fanno riposare nelle bottiglie per molti mesi e la qualità migliore la affinano in barrique di rovere. Poi è pronta per accompagnare la torta di fregolotti! come classificarle Le grappe si classificano a seconda dell’età e delle lavorazioni a cui vengono sottoposte. Grappa giovane o bianca è quella grappa che viene imbottigliata in vetro appena distillata o dopo un breve periodo di riposo. Non è lavorata ed è trasparente, dal profumo sottile. Grappa Riserva o Stravecchia è una grappa che è invecchiata per almeno 24 mesi dentro barrique di rovere. Ha il colore giallo dell’ambra e un gusto morbido e carezzevole. Grappe aromatiche sono grappe fatte con vinacce di uve aromatiche: Traminer, Muller Thurgau o Moscato per citarne alcune. Grappe aromatizzate sono quelle a cui vengono aggiunte radici, frutta, erbe che regalano loro sapori e profumi particolari: i mirtilli, la genziana, l’asperula. 43 il nord-est - ALTO ADIGE (9) zuppa di gulasch - gulaschsuppe Taglio la carne prima a fette e poi a pezzettini. Divido la cipolla in quattro e la affetto sottilmente, poi trito lo spicchio d’aglio. Scaldo l’olio in una casseruola e faccio appassire dolcemente cipolla e aglio e, quando la cipolla diventa trasparente, unisco la carne e un cucchiaino da caffè di semi di cumino. 6 DVD Rialzo un po’ la fiamma, spolvero la carne con un cucchiaio raso di paprica e faccio ben rosolare mescolando quasi di continuo. Quando carne e cipolla hanno preso colore, salo e unisco la foglia di alloro, un pizzico di maggiorana, poca scorza di limone grattugiata, un litro scarso di acqua bollente e il concentrato di pomodoro. Metto il coperchio e quando inizia il bollore abbasso la fiamma al minimo e proseguo la cottura per un’ora e mezzo. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 400 g di muscolo di manzo 2 patate medie a polpa gialla 3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva una grossa cipolla uno spicchio d’aglio un cucchiaio di concentrato di pomodoro scorza di limone non trattato paprica forte una foglia di alloro semi di cumino maggiorana sale 44 Trascorso questo tempo, sbuccio le patate, le taglio a dadini e le unisco alla carne. Assaggio per regolare il sale e proseguo la cottura per circa tre quarti d’ora, fino a cottura delle patate. A questo punto la zuppa è pronta: la servo ben calda accompagnandola con pane di segale. Attenzione alla quantità di paprica: quella forte è decisamente piccante e si può sostituire con quella dolce, con la quale si può anche abbondare. Oppure si possono usare tutte e due: dolce per dare colore e profumo, forte per aggiungere la piccantezza desiderata. il nord-est - ALTO ADIGE Muscolo di manzo zuppe nordiche L’Alto Adige è patria di numerose zuppe, tutte buonissime, tutte con nomi impronunciabili. La Weinsuppe, a base di vino bianco di Terlano, tuorlo d’uovo, brodo di carne, panna, cannella e dadini di pane; la Frittatensuppe, una minestra di frittatine; la Gerstensuppe, con lo speck e l’orzo; la Ochsenschwanzsuppe, zuppa di coda di bue; la Leberknodeldelsuppe, un brodo con gnocchetti di pane e fegato, e la Schildkrotensuppe, una raffinata minestra di brodo di tartaruga. Paprica forte e paprica dolce 46 la storia Chi è nato prima, il gulasch oppure la Gulaschsuppe, la zuppa di gulasch? Sembrerebbe che la primogenitura spetti alla zuppa, perché era questa che i mandriani ungheresi preparavano in grandi pentoloni messi sul fuoco, all’aria aperta, nella pustza, la steppa ungherese, durante la transumanza dei loro famosi bovini grigi, che erano trasportati a Norimberga, Vienna e Venezia dove poi venivano venduti nei mercati locali. In effetti il termine stesso gulasch verrebbe dalla parola ungherese goulyà e goulyàs, vale a dire mandriano e bovini, e quindi il piatto più ungherese che esista altro non sarebbe che la carne del mandriano. All’inizio si trattava di una zuppa povera, con poca carne e molta paprica, fu poi nel XVIII secolo che si arricchì entrando così anche nelle case della borghesia e viaggiando poi in tutto il mondo fino a diventare il simbolo stesso della cucina magiara. E di paese in paese, attraversando Germania, Austria, Croazia e Slovenia, è giunta anche da noi, in Trentino, in Alto Adige e nel Veneto. (9) zuppa di gulasch - gulaschsuppe un gulash ebraico La cucina ebraica ortodossa può vantare un suo particolarissimo gulasch, si tratta del cholent, un piatto dalle origini incerte, si dice che provenga da cucine sefardite, sia poi passato in Alsazia dove probabilmente ha acquistato il suo nome che altro non sarebbe che una evoluzione di chaud, caldo, e sia poi arrivato in Ungheria e nei Paesi dell’Est Europa. Si tratta di uno stufato di carne e patate, a cui si aggiunge orzo o riso. È uno dei piatti cardine dello Shabbat, del sabato ebraico, perché riesce abilmente ad aggirare il divieto religioso che proibisce di cucinare nel giorno di questa festività. E allora ecco trovato il trucco: il gustoso spezzatino viene messo a cuocere il venerdì sera, prima dell’inizio dello Shabbat e continua a cuocere in forno, sulle stufe, o sulle piastre elettriche fino al giorno dopo, a fuoco lentissimo. Pane di segale rabbi e cholent Una volta un imperatore romano chiese al famoso rabbino Joshua Ben Chanaya, si era nell’Anno Domini 110, quale fosse la spezia particolarmente saporita che gli ebrei usavano nel loro cholent. Il rabbino rispose che si trattava di una spezia particolare chiamata shabbat, e quando l’imperatore chiese di quale spezia si trattasse, l’altro aggiunse che quella spezia aggiungeva sapori solo a chi celebrava lo Shabbat. Insomma solo chi è ebreo può apprezzare la spezia misteriosa! i nomi del cholent Se gli ebrei Ashkenazi chiamano questa zuppa cholent, o chulent, o shalet, gli ebrei Sefarditi la chiamano invece hamin, o haminado; ha poi nomi diversi a seconda del paese di provenienza: matphonia in Kurdistan, shahina o deffina in Nord Africa, haris in Yemen e tabit in Iraq. 47 il nord-est - ALTO ADIGE (10) tortelli 6 DVD di spinaci - spinat-tirtlen Setaccio le due farine sulla spianatoia, faccio la fontana e ci metto l’uovo, il burro, un cucchiaino da caffè raso di sale, altrettanto zucchero e la miscela di acqua e latte. Amalgamo un po’ gli ingredienti con la forchetta portando poca farina verso il centro e poi impasto energicamente per una decina di minuti fino a quando la pasta sarà liscia ed elastica. Formo una palla, la avvolgo nella pellicola e la faccio riposare per una mezz’ora. Intanto preparo il ripieno. Dopo averli strizzati forte fra le mani, trito gli spinaci a coltello e li raccolgo in una terrina con la ricotta, la patata schiacciata grossolanamente, un cucchiaio di erba cipollina tagliuzzata, sale e pepe. Amalgamo bene. INGREDIENTI Per la pasta 150 g di farina di segale 150 g di farina 00 un uovo 1/2 bicchiere di latte e acqua (metà e metà) un cucchiaio di burro fuso zucchero sale Per il ripieno 300 g di spinaci lessati 150 g di ricotta una piccola patata lessa fredda erba cipollina sale e pepe Per friggere olio di arachide 48 Divido la pasta in tre pezzi e, dopo averli un po’ spianati con il mattarello, ne passo uno alla volta alla macchinetta, cominciando dal primo spessore e poi attraverso tutti gli altri fino all’ultimo. Dalle strisce di pasta ritaglio dei dischi di 8 cm di diametro e distribuisco il ripieno al centro della metà di essi. Pennello il perimetro di un disco con l’acqua e copro con un disco vuoto premendo tutto intorno al ripieno per far uscire l’aria, poi ritaglio con la rotella . * Dopo averli preparati tutti, friggo i tortelli in abbondante olio ben caldo (180°), pochi minuti per parte. Appena dorati, li scolo e li passo su un doppio foglio di carta da cucina. Li servo tiepidi. il nord-est - ALTO ADIGE alto adige in tavola Ad essere famoso è soprattutto lo speck, di solito servito insieme al pane o agli gnocchi. Ma prodotti altrettanto golosi sono le Kaminwurzen, salsicce di maiale o di bue affumicate e speziate, che gli altoatesini mangiano con il pane o usano nell’impasto degli gnocchi. Deliziosi sono anche i formaggi, tanti, noi ne citiamo solo due: il Graukäse, una specie di ricotta stagionata per non più di 15 giorni, perché se invecchiata a lungo acquista un sapore amarognolo; e poi l’Almkäse, formaggio di pascoli alpini, che non ha additivi né aromi aggiunti. Da mangiare rigorosamente con il Vinschgauer Schüttelbrot, un pane piatto fatto con farina di segale mescolata a farina di grano. E per finire in bellezza lo Zelten, un dolce davvero particolare: noci, nocciole, frutta secca ma pochissima farina. la trinità del tirtlen I tirtlen sono un piatto povero, molto in voga nelle valli ladine dell’Alto Adige, onnipresenti in tutte le sagre locali. La loro preparazione è una e trina, nel senso che la sfoglia esterna resta la stessa ma a cambiare è il ripieno. Oltre a quelli con gli spinaci, ci sono quelli farciti di crauti e quelli alle patate. Per quelli alle patate ci vogliono patate lessate e schiacciate e poi ricotta, molta erba cipollina e paprica. Ne esiste anche una versione dolce, farciti di marmellata e spolverizzati con lo zucchero dopo la frittura. Spinaci tortelli di crauti - turtres de crauti Miscelo 200 g di farina di segale e 100 g di farina 00 setacciata. Faccio la fontana e ci metto un uovo, una bella noce di burro fuso, una presa di sale e poca acqua tiepida, quella necessaria per ottenere un impasto morbido. Impasto per una decina di minuti, poi formo una palla e lascio riposare la pasta per un’oretta, avvolta nella pellicola. Per il ripieno, scaldo 40 g di burro in un tegame e faccio appassire dolcemente una piccola cipolla tritata. Quando la cipolla comincia a prendere colore, spolvero il soffritto con un cucchiaio raso di farina, mescolo e dopo un minuto bagno con un bicchiere di vino bianco e 1/2 bicchiere d’acqua calda. Rialzo la fiamma e faccio bollire per 4-5 minuti prima di aggiungere 300 g di crauti ben strizzati, un cucchiaino di semi di cumino, 4 bacche di ginepro schiacciate, sale e pepe. Faccio cuocere a fuoco dolce per una mezz’ora fino a quando i crauti saranno quasi asciutti, poi lascio raffreddare. Passo la pasta alla macchinetta fino all’ultimo spessore e ritaglio dei dischi di 8-10 cm. Distribuisco il ripieno sulla metà dei dischi e copro con l’altra metà premendo bene tutto intorno. Ritaglio il perimetro con la rotella e friggo i tortelli, pochi minuti per parte, in abbondante olio di arachide ben caldo (180°). Li scolo appena dorati e li passo di un doppio foglio di carta da cucina. 50 (10) tortelli di spinaci - spinat-tirtlen frittata dell’imperatore kaiserschmarrn Deve il suo nome proprio all’imperatore Francesco Giuseppe. Pare infatti che il Kaiser, affamato al ritorno da una battuta di caccia, avesse chiesto qualcosa da mangiare. La cucina era già chiusa e il cuoco preparò, forse di malavoglia, un’omelette dolce con uova, latte e farina. Un po’ la fretta e un po’ lo scarso impegno, la frittata venne fuori maluccio. Per renderla presentabile, il cuoco la tagliò a pezzetti, la spolverò di zucchero e la cosparse di confettura di mirtilli rossi. Il piatto fu così apprezzato dal Kaiser che, dal quel giorno, lo richiese più volte tanto che il cuoco chiamò questa preparazione “La frittata dell’imperatore” (Kaiserschmarrn). Malgrado il suo nome altisonante, è molto facile da preparare ed è davvero buona. Faccio ammollare in acqua tiepida una cucchiaiata di uvetta e intanto rompo 2 uova separando gli albumi dai tuorli. Raccolgo questi ultimi in una terrina e li lavoro con un cucchiaio colmo di zucchero. Continuando a montare con una frusta, unisco 70 g di farina 00 setacciata e di seguito 150 ml di latte ottenendo una pastella liscia e densa. Monto a neve gli albumi e li amalgamo delicatamente alla pastella. Scaldo una grossa noce di burro in una padella antiaderente (24 cm), ci verso il composto e lo cospargo con l’uvetta (ben asciugata). Regolo la fiamma a metà e faccio cuocere per 3-4 minuti muovendo la padella poi, con l’aiuto di due spatole, strappo la “frittata” a pezzetti e contemporaneamente li rigiro lasciandoli dorare per bene. A fine cottura, faccio scivolare lo Schmarren in un piatto e lo spolvero di zucchero a velo. Lo servo tiepido accompagnando con confettura di mirtilli rossi. il perimetro di ciascun disco con l’acqua, * Pennellare distribuire il ripieno e coprire con un disco vuoto 51 il nord-est - FRIULI (11) kugelhupf Metto ad ammollare l’uvetta in acqua tiepida. Setaccio le due farine dentro la ciotola dell’impastatrice. Verso il lievito in una piccola ciotola e lo miscelo con 50 g di farina (presa dalla dose) poi aggiungo 4 o 5 cucchiai di latte appena tiepido e mescolo ottenendo una pastella densa. Copro la ciotola con la pellicola e faccio lievitare la pastella, in luogo tiepido, fino al raddoppio (circa mezz’ora). Allargo un po’ la farina dentro la ciotola e unisco le uova, il resto del latte, la pastella lievitata e lo zucchero. Impasto con il gancio per circa 5 minuti poi, quando la pasta ha preso corpo e senza fermare l’impastatrice, aggiungo un cucchiaino da caffè di sale e, poco alla volta, il burro molto morbido e a pezzetti. Continuo a impastare per altri 5 minuti, quindi raccolgo la pasta a palla e la sistemo in una ciotola infarinata. Copro con un panno umido piegato in quattro e faccio lievitare, in luogo tiepido, fino al raddoppio. INGREDIENTI Sgocciolo l’uvetta e la asciugo bene. Rovescio la pasta ben lievitata sulla spianatoia infarinata, la rompo con il pugno per sgonfiarla, poi la allargo un po’, la cospargo con l’uvetta e impasto brevemente per distribuirla uniformemente. 250 g di farina 00 250 g di farina Manitoba una bustina di lievito di birra liofilizzato 150 g di burro morbido 2 uova a temperatura ambiente 80 g di zucchero 200 ml di latte 80 g di uvetta sultanina 50 g di mandorle pelate sale A questo punto lo metto nel forno a 170° e lo faccio cuocere per un’ora. Per completare zucchero a velo A cottura ultimata, rovescio il Kugelhupf su una griglia e lo lascio raffreddare prima di spolverarlo leggermente di zucchero a velo. 52 Imburro generosamente uno stampo da Kugelhupf e attacco le mandorle nelle scanalature sul fondo, quindi ci sistemo l’impasto facendo in modo che la superficie sia regolare. Copro con il panno umido e lascio lievitare il dolce fino a quando arriva al bordo dello stampo. il nord-est - FRIULI la storia Dolce davvero antico il nostro Kugelhupf, un impasto a forma di ciambella, morbido, ripieno di mandorle e uvette. Così antico che gli archeologi scavando a Budapest e a Carnutum, un’antica città romana vicina a Vienna, hanno trovato un gran numero di stampi di bronzo, proprio quelli che ancora oggi si usano per fare questo dolce. Insomma sembra proprio che anche i Romani mangiassero Kugelhupf e che lo stampo con le sue tipiche scanalature fosse in realtà un omaggio al sole. Come al solito poi, accanto alla storia nasce sempre la leggenda e quella del Kugelhupf vuole che siano stati addirittura i Re Magi a inventare questo dolce, che offrirono come ringraziamento a un pasticciere che li aveva ospitati, e dunque la forma del dolce ricorderebbe proprio i curiosi copricapi degli stessi Magi. È invece storia recente che proprio questo dolce sia stato scelto per rappresentare l’Austria al Café Europe per il giorno europeo del 2006. Oggi chi va in Austria lo sa, il Kugelhupf è dolce ubiquo, non c’è austriaco infatti che non lo apprezzi a colazione o a merenda insieme a un buon caffè. 54 L’impasto lievitato raggiunge il bordo dello stampo nome e nomi Molto simile al nostro panettone, il Kugelhupf è anch’esso consumato durante le feste natalizie insieme alla Sachertorte, il dolce viennese per eccellenza. Sul nome i pareri sono diversi, c’è chi sostiene che sia chiamato così per via della sua forma a cono, che ricorderebbe i cappucci di certi frati che si chiamavano per l’appunto Gugel, o che il termine derivi da certi turbanti che i contadini tedeschi si avvolgevano sulla testa a mo’ di cappello, o piuttosto dalla parola Kugel, che significa palla o globo. E infine c’è chi lo collega alla parola Kogel, che starebbe a indicare la forma rotondeggiante delle montagne. Un dolce che assume comunque nomi diversi a seconda dei Paesi in cui viene mangiato, così i Cechi lo chiamano bàbovka e lo riempiono con il cocco, per i Polacchi è babka, mentre in Croazia, in Slovenia, in Bosnia-Erzegovina e in Serbia diventa kuglof. (11) kugelhupf kugelhupf o babà Incredibile a dirsi, ma è proprio il babà il parente più prossimo del dolce austriaco e la storia vuole che il merito vada addirittura a un re, Stanislao Leszczyński, re di Polonia dal 1704 al 1735, poi detronizzato dai Prussiani. Essendo però suocero di Luigi XV di Francia, che aveva sposato sua figlia Maria, gli fu ceduto, come risarcimento, il Ducato di Lorena. Il re, per combattere la malinconia che lo assaliva, mangiava, tanti dolci, e beveva, molto rhum. I pasticcieri di corte avevano però scarsa fantasia e cucinavano solo Kugelhupf, che lui invece non amava affatto, finché un giorno, di fronte all’ennesima ciambella, ebbe un moto di rabbia e la scaraventò sul tavolo, colpendo la bottiglia di rhum, che finì tutto a innaffiare il dolce. Era nato così il babà, che da allora diventò la passione di Leszczyński, e a lui spetta anche l’invenzione del nome babà, come Alì Babà, uno dei protagonisti delle Mille e una notte, il suo libro preferito. Il babà arrivò poi a Parigi, alla pasticceria Stohrer e da lì a Napoli, a seguito dei monsù, i famosi chef francesi delle famiglie nobili napoletane. Qui assunse infine la sua caratteristica forma di fungo. Il resto è storia. palacinche Anche se ha sempre mantenuto legami culturali e linguistici con l’Italia: fino a un secolo fa il Friuli faceva parte dell’Impero austroungarico, e i piatti tipici risentono non solo dell’influenza austriaca ma anche di quella ungherese, slovena e balcanica in generale. Anche le palacinche, come il Kugelhupf appartengono alla tradizione mitteleuropea (Palatschinken in Austria, palacsinta in Ungheria). Si tratta di una sorta di spesse crêpes farcite con un ripieno, generalmente dolce, che può essere confettura (prugne o albicocche), panna, crema di cioccolato, ricotta zuccherata ecc. Per 8 palacinche, setaccio 170 g di farina 00 in una ciotola, unisco una presa di sale e, mescolando con una frustina, diluisco con 300 ml di latte. Continuando a mescolare aggiungo 2 uova intere più un tuorlo e, di seguito, 50 g di burro fuso freddo. Mescolo con cura sciogliendo bene i grumi, poi copro la ciotola e faccio riposare la pastella per almeno un’ora. Ungo leggermente di burro una padella antiaderente (22 cm), la metto sul fuoco e quando il burro sfrigola ci verso un mestolo scarso di pastella e la ruoto per rivestire bene il fondo. Appena la pastella si è rappresa e i bordi hanno preso colore, giro la palacinca e termino la cottura. Una volta che sono tutte pronte, le farcisco con abbondante confettura di albicocche e le chiudo a rotolo. Accomodo i rotoli uno vicino all’altro in una pirofila, li spolvero con 3 cucchiai di zucchero a velo e li passo per qualche minuto sotto il grill, fino a quando lo zucchero è leggermente caramellato. Le servo tiepide. Lievito di birra liofilizzato 55 il nord-est - FRIULI (12) cevapcici Trito finissima la cipolla e la raccolgo in una terrina con le due carni, un cucchiaio colmo di paprica, lo spicchio d’aglio grattugiato, mezzo cucchiaino di cumino, sale e pepe. Impasto molto bene con le mani per una decina di minuti per avere un composto omogeneo e ben lavorato. 6 DVD Prendo un pezzo di impasto e, rotolandolo fra le mani leggermente unte d’olio, formo prima una palletta e poi una polpettina cilindrica lunga 7-8 cm e spessa circa un cm. Via via che i cevapcici sono pronti, li allineo in un vassoio e alla fine li copro con la pellicola e li faccio riposare per un’oretta in frigorifero. La cottura ideale dei cevapcici è quella alla brace, ma vengono bene anche sulla griglia di ghisa. La faccio scaldare molto bene sul fornello prima di adagiare i cevapcici e non li tocco più fino a quando si forma una crosticina scura, e allora sarà facile girarli senza che rimangano attaccati alla griglia. A questo punto, li giro delicatamente e li servo subito caldissimi accompagnandoli con anelli di cipolla rossa. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 200 g di polpa di manzo macinata 200 g di polpa di maiale con una buona parte di grasso, macinata una cipolla media uno spicchio d’aglio paprica dolce cumino in polvere sale e pepe 56 il nord-est - FRIULI fai così la storia Chi è stato in quella che allora era chiamata Jugoslavia, non può certo averli dimenticati, erano quelle polpettine che venivano proposte e riproposte pasto dopo pasto. Eppure questa ricetta, così comune in tutti i Paesi balcanici, non arriva da lì. Si tratta infatti di un piatto di origine turca, e i turchi amavano molto cucinare alla brace, poi portato nei Balcani ai tempi dell’occupazione ottomana della Serbia. Ci ha pensato quindi l’Impero austroungarico a diffonderlo più a Nord. Ancora oggi è un piatto molto in voga a Trieste dove queste polpettine le chiamano familiarmente civa o ciba. Paese che vai usanza che trovi, soprattutto carne che trovi e così i cevapcici nei Paesi musulmani li fanno con montone o agnello, nei Balcani con manzo o vitello e in Austria con un misto di carni di maiale. Sono di solito cotti sulla griglia o meglio ancora sulla brace, e serviti con cipolla cruda tritata, pane tostato e l’immancabile ajvar, una salsa a base di peperoni, o con rafano e senape. 58 1 Le varianti di questa ricetta sono davvero tante e, se volete provarle, tenete presente che i cevapcici devono sempre avere una crosticina spessa, è quella che li fa buoni. C’è infatti chi li infarina prima di cuocerli e chi addirittura li passa nel bicarbonato per ottenere maggiore croccantezza. 2 Chi non ama il gusto di cipolla cruda nell’impasto può provare la versione in cui la cipolla viene prima fatta stufare in padella con olio e uno spicchio d’aglio. 3 Se non avete sotto mano la paprica, sostituitela con un’abbondante macinata di pepe. E infine, se li preparate solo con carne di manzo, date morbidezza all’impasto con un po’ di pancetta tritata. Polpa di maiale frico con le patate Sbuccio 4 patate di media grandezza, le taglio a tocchetti, le lavo e le asciugo. Divido a metà una bella cipolla chiara, la affetto sottilmente e la faccio appassire, a fuoco dolce, in una padella con una grossa noce di burro e 100 g di pancetta affumicata tagliata a dadini molto piccoli. Quando la cipolla comincia prendere colore, unisco le patate, mescolo per farle ben insaporire nel soffritto, poi unisco sale e pepe e bagno con un mezzo bicchiere di acqua calda. Metto il coperchio e faccio cuocere dolcemente per una mezz’ora, fino a quando le patate sono tenere e asciutte. A questo punto ritiro la padella dal fuoco e unisco alla e patate 300 g di formaggio Montasio tagliato a fettine sottili, mescolo bene e passo il tutto in una padella antiaderente (24 cm) scartando contemporaneamente il grasso in eccesso. Metto la padella sul fuoco con la fiamma alta e mescolo delicatamente con una spatola, poi dopo qualche minuto abbasso la fiamma e lascio che sotto si formi una crosticina dorata e croccante. Aiutandomi con un coperchio, giro il frico e lo faccio rosolare fino a che si forma la crosticina anche dall’altra parte. (12) cevapcici salsa ajvar È la salsa d’ordinanza per accompagnare i cevapcici, fatta con peperoni, melanzane, peperoncini piccanti e tanto aglio. La parola sembra che provenga dal turco havyar, che poi significa uova di pesce salate, benché a noi non sia chiara la parentela di questa salsa con il caviale. In Serbia, che dell’ajvar è la patria, la salsa viene ancora fatta quasi esclusivamente in maniera artigianale e fa parte di quelli che i serbi chiamano zimnica, cibi invernali, insieme ai pomodori e ai peperoni sott’aceto. Tradizionalmente viene preparata in grandi quantità all’inizio dell’autunno, quando i peperoni sono più abbondanti e spesso la famiglia e i vicini si riuniscono per la preparazione, che dura anche per giorni. Cumino in polvere Cevapcici pronti per la cottura salsa ajvar fatta in casa In Friuli questa salsa si trova già pronta in qualunque supermercato ma se volete provare a farla in casa ecco una ricetta. Dopo averli lavati e asciugati, pennello d’olio 4 grossi peperoni rossi e li passo nel forno a 200° per una mezz’ora fino a quando la pelle si stacca. Insieme ai peperoni, metto in forno anche 2 grossi pomodori molto maturi. Quando i peperoni sono pronti, li chiudo in sacchetto di carta e li lascio raffreddare insieme ai pomodori. Sbuccio 2 melanzane scure, le taglio a grossi dadi e le faccio lessare in un miscuglio di acqua e aceto (2 bicchieri di acqua e uno di aceto) fino a quando sono tenere. Le scolo e le lascio raffreddare. Quando i peperoni sono freddi, li spello, li taglio a falde e li ripulisco perfettamente dai semi e dalle nervature chiare, poi allargo le falde su un bello strato di carta da cucina che assorbirà un po’ dell’acqua di vegetazione. Tolgo la pelle dei pomodori, li apro ed elimino i semi. Strizzo fra le mani i dadi di melanzana e li frullo insieme ai peperoni e ai pomodori. A questo punto scaldo 4 cucchiai d’olio extravergine d’oliva in una padella e unisco il passato, il sale, un peperoncino fresco tritato e uno spicchio d’aglio grattugiato. Faccio cuocere molto dolcemente e mescolando spesso per circa 40 minuti, fino a quando la salsa si addensa. Se non la uso subito, la chiudo in un barattolo e la conservo in frigorifero anche per qualche giorno. Può essere conservata più a lungo solo se si sterilizza il barattolo con la bollitura. 59 il nord-est - VENETO (13) pasta e fagioli La sera precedente metto a bagno i fagioli in abbondante acqua appena tiepida e li lascio in ammollo per tutta la notte. Al momento di cuocerli li scolo, li verso in una casseruola e li copro di acqua fredda, che sopravanzi di due dita. Li faccio cuocere a fuoco dolce per un paio d’ore, salandoli nell’ultima mezz’ora. Preparo un trito finissimo con lo spicchio d’aglio e una manciatina di prezzemolo. Scaldo l’olio in una casseruola, unisco il trito e un rametto di rosmarino e faccio rosolare a fuoco dolcissimo per un minuto, poi spolvero il soffritto con un cucchiaio non troppo colmo di farina e, mantenendo la fiamma al minimo, mescolo continuamente con il cucchiaio di legno per un paio di minuti, fino a quando la farina comincia a imbiondire. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 250 g di fagioli borlotti secchi 180 g di tagliatelle all’uovo secche (o maltagliati, maccheroncini, ditali rigati) 3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva 4 cucchiai di passata di pomodoro un cucchiaio di farina un grosso spicchio d’aglio prezzemolo rosmarino sale e pepe 60 A questo punto unisco la passata di pomodoro allungata con mezzo bicchiere d’acqua calda e faccio cuocere il sughetto per qualche minuto prima di versare nella casseruola i fagioli ormai cotti con tutta l’acqua di cottura (se voglio rendere la minestra più densa, passo una parte dei fagioli). Assaggio per regolare sale e pepe e dopo qualche minuto unisco le tagliatelle spezzettate e termino la cottura. Lascio un po’ intiepidire la minestra prima di servirla accompagnandola con l’ampolla dell’olio e il macinino del pepe. Questa è una delle mille versioni di pasta e fagioli – che in Veneto è una vera e propria istituzione che accomuna tutte le province della regione dove, da una zona all’altra, assume profumi e sapori diversi – tutte però con lo stesso ingrediente base: i celebri fagioli di Lamon . * il nord-est - VENETO fagioli artistici Il grande Eduardo nella commedia Natale in casa Cupiello sosteneva che pasta e fagioli è medicina ottima per cacciare una non meglio identificata “febbre viscerale”. Di fatto molto amati sono e sono stati i fagioli, da cuochi, artisti e scrittori. La prima ricetta è merito di Apicio, che li cucina fritti e poi conditi con il pepe o, meglio ancora, cotti in tegame con finocchietto verde e sapa, la mamma dell’aceto balsamico. Nel Medioevo Castore Durante ce ne raccontava i poteri afrodisiaci: “I fagioli generano il seme virile e solleticano al coito specialmente se mangiati con pepe lungo, zuccaro e latte vaccino”. Così popolare diventò questo legume che Annibale Carracci ne fece il tema di un suo famoso dipinto, Il Mangiatore di fagioli (15831585), oggi conservato nella galleria Colonna di Roma. È un uomo, forse un artigiano o un contadino, seduto a un’osteria che mangia per placare una fame di antica data, nel tragitto tra la mano e la bocca infatti per la voracità un po’ di zuppa finisce sul tavolo e in una mano l’uomo afferra del pane sbocconcellato. Si tratta di cibi semplici, certo, ma non poveri: il pane per esempio non è quello nero delle campagne, ma bianco e raffinato, c’è una grande brocca con il vino e nel piatto una frittata. È il viso del mangiatore, lo sguardo impaziente, a tradire le sue origini. Fame, molta fame, e i fagioli possono placarla. 62 Passata di pomodoro la metamorfosi del fagiolo Anche da un’umile pasta e fagioli possono nascere sublimi ispirazioni. È il caso della Compressione di pasta e fagioli di uno dei nostri chef più creativi. Parliamo di Massimo Bottura, che ha “rivisitato” il grande classico tirandone fuori un piatto davvero stupefacente, per aromi e per sapori. La Compressione è un piccolo bicchiere di vetro nel quale a strati sono adagiati profumi e ingredienti. Il primo livello, quello inferiore, è una crème royale di cotiche e fagioli con un tocco di foie gras, a ispirarla è stato lo chef francese Robuchon. Il secondo livello è uno strato di radicchio sminuzzato. Il terzo livello è, ed è Bottura stesso a dirlo, il momento dell’emozione, della tradizione, i maltagliati di croste di Parmigiano, vale a dire croste di Parmigiano cotte insieme ai fagioli e grattugiate a scaglie. Il quarto livello è la crema di fagioli frullata e poi passata. E infine il tocco di grazia: acqua di rosmarino montata a spuma. Et voilà il gioco è fatto! (13) pasta e fagioli pasta e fagioli vicentina Prezzemolo La sera precedente metto ad ammollare 250 g di fagioli borlotti. Il giorno seguente li scolo e li raccolgo in una casseruola con 2 belle patate, sbucciate e intere, 100 g di passata di pomodoro e circa 2 litri abbondanti di acqua fredda.Trito a coltello una grossa cipolla con 2 coste di sedano, 2 spicchi d’aglio, 5 o 6 foglie di salvia e una manciatina di prezzemolo. Frullo 100 g di pancetta tesa e la metto nella casseruola dove metto anche il trito di aromi. Metto la casseruola, con il coperchio, sul fuoco, e appena inizia l’ebollizione abbasso la fiamma al minimo e proseguo la cottura per circa 2 ore, fino a quando i fagioli diventano teneri. A questo punto tiro su le patate e le passo allo schiacciapatate lasciandole cadere direttamente nella casseruola. Mescolo, assaggio per regolare il sale e, quando riprende l’ebollizione, unisco 250 g di maltagliati all’uovo freschi e li porto a cottura mescolando spesso. Servo la minestra tiepida portando in tavola il Parmigiano grattugiato, l’ampolla dell’olio e il macinino del pepe. Fagioli di Lamon * i fagioli di lamon Sono molto conosciuti anche fuori dai confini regionali non solo perché molto buoni, ma anche perché sono stati fra i primi ad essere coltivati in Italia. I fagioli arrivarono in Europa dall’America Centrale nel XVI secolo e in Italia grazie a Clemente VII (al secolo Giulio de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico, divenuto Papa nel 1523), il quale li aveva ricevuti in dono dagli spagnoli come souvenir del nuovo mondo. Il Papa li passò ai suoi concittadini fiorentini e al canonico bellunese Pietro Valeriano, che ne iniziò la coltivazione nell’altipiano di Lamon, dove questi fagioli hanno trovato le condizioni ideali per la crescita e dove nel corso dei secoli ne sono state selezionate diverse varietà. 63 il nord-est - VENETO (14) zuppa di trippa Pulisco la costa di sedano, la carota, una cipolla e qualche gambo di prezzemolo, li taglio a pezzi e li raccolgo in una casseruola con un paio di litri d’acqua. Aggiungo una manciatina di sale, una foglia di alloro e una decina di grani di pepe. Quando si alza l’ebollizione unisco la trippa, metto il coperchio e lascio bollire dolcemente per un’ora. La scolo e, una volta tiepida, la taglio a listarelle. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 600 g circa di trippa precotta di vitellone in un unico pezzo (reticolo) 2 cucchiai d’olio extravergine d’oliva 30 g circa di pancetta tesa 3 cipolle di media grandezza una carota una costa di sedano prezzemolo 2 foglie di alloro rosmarino pepe in grani un litro scarso di ottimo brodo di carne sale e pepe di mulinello Parmigiano grattugiato Pane casereccio abbrustolito 64 Trito 2 cipolle e frullo la pancetta con le foglioline di un rametto di rosmarino. Raccolgo tutto in una casseruola con l’olio e faccio rosolare molto dolcemente. Quando la cipolla comincia a prendere colore, unisco la trippa e la faccio insaporire per una decina di minuti mescolando quasi di continuo. Non appena comincia ad attaccare, unisco sale e pepe e una foglia di alloro e la copro a filo di acqua calda. Copro e faccio cuocere per circa un’ora, fino a quando la trippa sarà molto tenera e quasi asciutta. Solo ora aggiungo il brodo bollente e, dopo qualche minuto la zuppa è pronta. La porto in tavola caldissima accompagnandola con il Parmigiano grattugiato, il macinino del pepe e il pane abbrustolito. il nord-est - VENETO la trippa È ora di sfatare l’aurea negativa che circonda la trippa: è buonissima, e chi non la mangia non sa cosa si perde. E se la mangiavano Dickens, Pepe Carvalho, Caterina di Russia, Riccardo II e il Gatto di Pinocchio, possiamo ben mangiarla anche noi. Si tratta di alimento antico tanto che già i Greci la mangiavano cotta alla brace e i Romani ne facevano salsicce. Oggi non c’è più neanche la scusa della difficoltà di pulirla, come accadeva quando ci dovevano pensare il macellaio o il trippaio a sgrassarla e lavarla. Adesso ci pensano le macchine e la trippa arriva già pulita e incellofanata sugli scaffali dei nostri supermercati. Certo, si tratta dello stomaco del vitello, e non degli intestini come erroneamente si crede, per l’esattezza del rumine, un grande sacco detto anche trippa, croce, pancia o trippa liscia, del reticolo, un piccolo sacco dall’aspetto spugnoso, chiamato anche cuffia, bonetto o nido d’ape, dell’omaso, un sacco a lamelle conosciuto anche come foiolo, centopelli o libro, e dell’abomaso, lo stomaco vero e proprio, al secolo riccioletta, spannocchia o lampredotto. Ma chi ha mai detto che lo stomaco del vitello non sia una golosità da leccarsi i baffi? trippa e lotto L’Antica Smorfia Napoletana giustamente ha inserito nei sogni da giocare al lotto anche quelli a base di trippa. E allora, dovesse capitarvi di sognare questo gustoso alimento, giocatevi i seguenti numeri: 52 se la trippa è cotta, 54 se invece è cruda, il trippaiolo o la trippaiola valgono 29, il brodo di trippa è 53, la trippa da gatti 3. C’è poi chi sostiene che sognare trippa sia foriero di pericoli o di brutte malattie e chi sogna di vederla ma non di mangiarla avrà sicuramente qualche brutta sorpresa. Ma noi crediamo di più agli antichi popoli della Mesopotamia, che affermavano invece che sognare trippa portasse tranquillità. 66 (14) dicono di lei zuppa di trippa Pancetta tesa “Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana; e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato”. Da Pinocchio di Carlo Collodi “Il trippaio è davanti al suo carretto: fuma nella vaschetta il lampredotto appena bollito; gli si affollano attorno i garzoni del quartiere col pane croccante fra le mani, per la prima colazione: si puliscono le dita sul fondo dei calzoni per servirsi un pizzico di sale...” Da Il Quartiere di Vasco Pratolini trippa e politica Sedano Anche i politici mangiano trippa, o meglio la mangiavano. Nel 1883 infatti Orazio Arzilli, oste di chiara fama, si presentò alle elezioni e fece della trippa il suo cavallo di battaglia. Così infatti recitava il suo programma: “Se veramente volete il vostro benessere, eleggete Orazio Arzilli. Le sue opinioni politiche sono: martedì fagioli con le cotiche, giovedì gnocchi e sabato trippa! Questi saldi convincimenti del nostro candidato sono sempre innaffiati da un prelibato vino di Frascati. Elettori! Orazio Arzilli possiede un ampio e magnifico giardino dove ogni giorno vi attende per esporvi il suo programma politico”. Lo votarono soltanto in settantotto elettori, ma il programma non era male davvero. 67 il nord-est - EMILIA ROMAGNA (15) cotolette alla bolognese Per prima cosa, e con qualche ora di anticipo, preparo la mollica grattugiata. Elimino dunque la crosticina delle fette di pancarré, le spezzetto e le frullo nel mixer per un minuto alla massima velocità, poi passo la mollica da un colino a maglie larghe per eliminare i pezzetti più grossi. La allargo poi su un foglio di carta e la lascio asciugare. Per questa preparazione mi faccio tagliare la carne a fette più o meno regolari e spesse circa 1/2 cm. Le ripulisco perfettamente da nervetti a parti grasse e le batto leggermente con il batticarne per uniformare lo spessore. Le passo nell’uovo battuto e poi nella mollica, premendo bene con la mano aperta. Scaldo il burro in una padella ampia e faccio rosolare le cotolette, a fuoco medio, 4 minuti per parte fino a color oro. A cottura ultimata, le sgocciolo e le accomodo in un piatto che possa andare in forno. Copro ogni cotoletta prima con una fetta di prosciutto e poi con abbondanti fettine sottilissime di Parmigiano ottenute con il pelapatate. Non salo la carne perché prosciutto e Parmigiano sono sufficienti per insaporirla giustamente. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 4 fette di fesa di vitello di circa 120 g ognuna 80 g circa di Parmigiano non troppo stagionato 4 fette di ottimo prosciutto di Parma 150 g di burro chiarificato 12 fette di pancarré un uovo 68 Passo il piatto nel forno a 200° per 5 minuti, fino a quando il formaggio sarà perfettamente fuso e avrà formato una coltre bianca e profumata sulla cotoletta. il nord-est - EMILIA ROMAGNA Battere leggermente le fette di carne con il batticarne la petroniana Tutti conoscono la cotoletta milanese, quella che ancora oggi si discute se siano stati i milanesi o i viennesi ad inventarla. Meno conosciuta invece è la petroniana, così chiamata in onore del patrono di Bologna, eppure si tratta di un piatto di grande golosità, a patto che sia ben fatta, cosa non semplice. Inoltre si tratta davvero di cotoletta impegnativa, vuoi per la sua grandezza, non a caso è anche chiamata orecchio d’elefante perché è grande quasi quanto le orecchie del suddetto animale, e anche per la sua “ricchezza”: vitello, burro, brodo, prosciutto, Parmigiano e non di rado anche tartufo. Insomma un piatto per stomaci coraggiosi. I bolognesi ne vanno giustamente fieri, al punto che il 14 ottobre 2004 l’Accademia Italiana della Cucina ha depositato la ricetta presso la Camera di Commercio di Bologna. la cotoletta dell’artusi L’Artusi di cotolette se ne intendeva, né poteva essere diversamente per un cittadino dell’Emilia-Romagna. E allora vi regaliamo la sua cotoletta con tartufi. “Il posto migliore per questo piatto è il sotto-noce, ma può servire anche il magro del resto della coscia o del culaccio.Tagliatele sottili e della dimensione della palma di una mano; battetele e date loro una forma smussata ed elegante come, ad esempio, la figura del cuore, cioè larga da capo e restringendosi in fondo, il che si ottiene più facilmente tritando prima la carne con la lunetta. Poi preparatele in un piatto con agro di limone, pepe, sale e pochissimo parmigiano grattato. Dopo essere state un’ora o due in questa infusione, passatele nell’uovo sbattuto e tenetecele altrettanto. Poi panatele con pangrattato fine, mettetele a soffriggere col burro in una teglia di rame, e quando saranno appena rosolate da una parte, voltatele e sopra la parte cotta distendete prima delle fette di tartufi e sopra queste delle fette di parmigiano o di gruiera; ma sì le une che le altre tagliatele sottili il più che potete. Fatto questo terminate di cuocerle con fuoco sotto e sopra aggiungendo brodo o sugo di carne; poi levatele pari pari e disponetele in un vassoio col loro sugo all’intorno strizzandoci l’agro di un limone, o mezzo solo se sono poche.” Da La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene di Pellegrino Artusi 70 (15) cotolette alla bolognese fai così La versione più ortodossa della cotoletta bolognese è un po’ diversa. Dopo la frittura, le cotolette si lasciano in padella e, dopo averle coperte con prosciutto e formaggio, si versa qualche cucchiaio di brodo di carne sul fondo della padella stessa, poi si abbassa la fiamma e si mette il coperchio lasciando la padella sul fuoco per qualche minuto, fino a quando il formaggio è fuso. È ottima anche in questa versione, ma ovviamente molto meno digeribile, ed essendo una preparazione già bella calorica è inutile appesantirla con il burro di cottura. Nella versione con il brodo è preferibile allora sgocciolare bene le cotolette e passarle in un’altra padella vuota quindi, una volta guarnite con prosciutto e formaggio, versare sul fondo un paio di mestoli di brodo (di carne!) e coprire. Pochi minuti sul fuoco ed è pronto. cotolette per ricchi Crisi o non crisi, c’è chi la cotoletta la vuole lussuosa, e molto cara. Ad accontentare questi goduriosi ci ha pensato Thomas Huber, direttore del ristorante Berger Strasse a Düsseldorf. Per la sua cotoletta non bada a spese: foglioline d’oro e crema di tartufo bianco, oro per gli occhi e tartufo bianco per il palato. Gli ingredienti costano 5.000 euro al chilo e la cotoletta “solo” 150 euro! Eppure ne ha già vendute più di duecento. Mollica grattugiata cotoletta da record Non poteva essere che Milano ad avere il record della cotoletta più grande del mondo. Si tratta, è bene saperlo, di un vero mostro. Tanto per darvi un’idea la “bestia” misura ben 8 metri quadrati e pesa 190 chili! Per farla ci sono volute 200 uova e 30 chili di pangrattato. Milano ne è giustamente orgogliosa, il record mondiale si va ad aggiungere a quello dell’arrosto più lungo del mondo. Sempre grazie ai milanesi. Prosciutto di Parma 71 il nord-est - EMILIA ROMAGNA (16) pisarei e fagioli La sera precedente metto a bagno i fagioli in abbondante acqua appena tiepida e li lascio in ammollo per tutta la notte. Al mattino seguente li scolo e li metto a cuocere in acqua inizialmente fredda, aromatizzata con una cipolla. Quando si alza il bollore, abbasso la fiamma al minimo e li faccio cuocere per circa un’ora, portandoli cioè solo a mezza cottura. 6 DVD Nel frattempo trito la cipolla e frullo la pancetta con lo spicchio d’aglio e una manciata di prezzemolo. Scaldo olio e burro in una casseruola, unisco la cipolla e il trito di pancetta e faccio soffriggere dolcemente il tutto e, quando la cipolla comincia a prendere colore e la pancetta è completamente fusa, unisco la passata di pomodoro, sale e pepe. Faccio cuocere per qualche minuto, poi unisco i fagioli, in cottura e appena scolati, che termineranno di cuocere nel sugo. INGREDIENTI PER 6 PERSONE Per i pisarei 400 g di farina 200 g di pangrattato Per il sugo 300 g di fagioli borlotti secchi 300 g di passata di pomodoro 50 g di pancetta tesa 30 g di burro un cucchiaio d’olio extravergine d’oliva 2 cipolle piccole uno spicchio d’aglio prezzemolo sale e pepe Parmigiano grattugiato 72 Lascio cuocere dolcemente l’intingolo per circa un’ora e mezzo, aggiungendo ogni tanto un mestolo dell’acqua dei fagioli, in modo che a fine cottura il sugo non risulti troppo asciutto. Verso il pangrattato in una ciotola e lo bagno con 1/2 bicchiere di acqua bollente. Setaccio la farina sulla spianatoia, faccio la fontana e ci metto il pane bagnato. Impasto per 5-6 minuti aggiungendo altra acqua calda, quella necessaria per ottenere un impasto morbido ed elastico. Stacco un pezzo di impasto e lo rotolo sulla spianatoia, ottenendo un lungo cilindretto delle dimensioni di un dito mignolo. Ritaglio dei pezzetti di circa un cm e con il pollice premo ogni gnocchetto facendolo girare su se stesso, in modo che alla fine avrò tante piccole conchiglie (pisarei) delle dimensioni di un fagiolo . * Cuocio i pisarei per poco più di 10 minuti in acqua salata in ebollizione, poi li tiro su con la schiumarola e li condisco con il sugo di fagioli e abbondante Parmigiano grattugiato. il nord-est - EMILIA ROMAGNA la storia Un piatto davvero povero della tradizione piacentina, nato in tempo di guerra e perciò in tempi di fame, in pratica gnocchetti di pangrattato e farina, e poi un po’ di lardo, fagioli borlotti, cipolla e un’idea di pomodoro. Insomma ciò che i contadini della Bassa trovavano facilmente nelle dispense e nell’orto. Le donne li preparavano con il pistà ’d grass, vale a dire un trito di aglio, prezzemolo e lardo che serviva ad insaporire un piatto altrimenti semplice. Così importante era saper fare i pisarei che un tempo quando i ragazzi presentavano a casa le future spose, le suocere per prima cosa controllavano il pollice destro, se era calloso allora la fanciulla, che evidentemente doveva avere una lunga esperienza di pisarei, sarebbe certamente stata una buona moglie. Ancora oggi poi, è un vero piacentino solo chi sa pronunciare correttamente la frase “pisarei e fasò”. E credete, non è affatto semplice. Cipolle bianche 74 Farina i fagioli Pianta antica quella del fagiolo, conosciuta già da Greci e Romani, anche se le specie che si consumavano allora non erano le stesse dell’oggi: si trattava infatti di quelli piccoli e chiari, i cosiddetti “fagioli dall’occhio”. Il fagiolo moderno è originario dell’America Centro-meridionale ed è stato scoperto e portato in Europa da Cristoforo Colombo; siamo stati poi noi europei a farli conoscere agli americani del Nord. Oggi consideriamo i fagioli cibo povero, ma c’è invece stato un tempo, nel Medioevo, in cui questi legumi apparivano solo sulle tavole della nobiltà e delle famiglie abbienti. Eppure, in seguito, sono stati proprio questi umili baccelli a sfamare intere famiglie durante le guerre, quando da mangiare c’erano solo pane secco e fagioli, che aiutarono a salvare la gente provata dalle carestie e soprattutto, grazie all’elevato apporto proteico, a renderla più resistente alle malattie. (16) pisarei e fagioli fagioli di celluloide Ecco un cibo che è l’emblema stesso del cinema western. Sotto il sole o sotto la luna, il cowboy mangia esclusivamente fagioli. E fagioli li hanno mangiati tutti, da John Wayne a Gary Cooper, da James Coburn a Rod Steiger, che in Giù la testa del nostro Sergio Leone ne consuma grandi quantità, da James Stewart a Clint Eastwood, per arrivare ai nostri Carlo Pedersoli, al secolo Bud Spencer, e Mario Girotti, alias Terence Hill, che nei loro film ne fanno vere scorpacciate. Ma chi proprio non si dimentica è Jerry Lewis che ha nel piatto un solo fagiolo ma lo mangia con tale intensità da farlo sembrare un prelibato manicaretto. Il film è Artisti e modelle, per la regia di Frank Tashlin. con il pollice gli gnocchetti * Premere in modo da farli girare su se stessi i nomi del fagiolo Chi non mangia fagioli in Italia? Praticamente nessuno e ogni regione dà loro nomi particolari: fasòi in Trentino Alto Adige, fasöö in Lombardia, fasioi in Veneto, in Piemonte fasêu, in Liguria faxêu, in Emilia-Romagna fasòl, fasulén, o fasò, in Toscana fagiuolo, nelle Marche fasciólu, fagiòlu, fagiolettu o faciuole, in Abruzzo faciuol, façiòl, i Laziali li chiamano facioli, nel Molise sono fasul, in Campania li chiamano i fasule o i fasuli, in Puglia vanno pazzi per i fasùle, i pasulu o i pasuli, mentre in Basilicata mangiano fasùl e fasil, in Calabria suriàca, pòsa, faggiòla, fasòla, fasùali o fasòlu, in Sicilia i faciola e in Sardegna i pisu, i fasolu, i fasou o i basolu. 75 il centro fegatelli di maiale all’aretina - TOSCANA sformato di spinaci con il cibreo - TOSCANA piccioni ripieni - UMBRIA coniglio in porchetta - MARCHE calcioni - MARCHE fagioli con le cotiche - LAZIO pollo con i peperoni - LAZIO il centro - TOSCANA (17) fegatelli di maiale all’aretina Metto la “rete” a bagno in una bacinella con acqua appena tiepida per ammorbidirla. Taglio poi il fegato a fettine piccole, spesse poco meno di un cm, e il lardo a mattoncini, uno per ogni fegatello. Raccolgo il pangrattato in una terrina con una bella presa di sale, pepe e abbondanti semi di finocchio, poi miscelo bene il tutto e metto nella terrina anche le fettine di fegato e i mattoncini di lardo. Mescolo bene con le mani in modo da rivestirli completamente con il pane aromatizzato. Preparo degli spiedini di misura tale che possano appoggiare sulle pareti di una teglia (perfetti quelli a forma di U che tengono ben fermo quanto viene infilzato) e preparo anche dei crostini di pane casereccio. Allargo bene la rete sul tavolo e ne ritaglio dei larghi quadrati più o meno regolari. Infilzo un crostino in uno spiedino, poi avvolgo strettamente una fettina di fegato attorno a un mattoncino di lardo e involto ogni fagottino in un pezzo di rete chiudendo bene. INGREDIENTI PER (12 5-6 PERSONE FEGATELLI) 600 g circa di fegato di maiale in un unico pezzo un pezzo di “rete” di maiale 50 g di lardo fresco una manciata di pangrattato semi di finocchio foglie di alloro sale e pepe 78 Infilzo il fegatello nello spiedino e preparo nello stesso modo tutti gli altri intervallandoli con una foglia di alloro. Una volta sistemati nella teglia, passo i fegatelli nel forno a 190° e proseguo la cottura per poco meno di un’ora. Durante questo tempo li giro un paio di volte e negli ultimi minuti li spolvero di sale e pepe. Li servo caldissimi. il centro - TOSCANA i fegatelli Quando si accoppa il maiale, del quale, come tutti sanno, non si butta via niente, arriva anche il momento dei fegatelli. Ognuno ha la sua ricetta, c’è chi li fa nel tegame di coccio, con vino e poca acqua, cotti molto lentamente, anche per un’ora. Chi invece li preferisce alla brace, chi li fa addirittura fritti come nel Sud Italia e chi preferisce quelli tradizionali, vale a dire avvolti nella loro rete e infilati sugli spiedini. Una volta, per poterli adoperare tutto l’anno, quando ancora non esistevano freezer e frigoriferi, si mettevano in barattolo con lo strutto, ed erano sempre a disposizione. Quello che è certo è che i fegatelli non possono fare a meno delle foglie d’alloro. Foglie di alloro 80 Immergere la rete di maiale in una bacinella con acqua tiepida l’alloro e la pizia A Delfi solo la Pizia poteva masticare le foglie di questa pianta, che era considerata profetica perché era l’attributo di Apollo, dio che “sa quel che sarà e fu ed è”, perciò si bruciavano rami di alloro per ipnotizzarsi e intravedere il futuro nel suo fumo: più questo era denso e più gli auspici erano favorevoli. E sempre a Delfi, ogni quattro anni, si celebravano i Giochi Pitici, così chiamati dal sacro serpente Pitone, che poi era il custode dell’Oracolo, e ai vincitori delle gare si offriva proprio una corona di alloro. L’usanza di ardere l’alloro è arrivata fino ai giorni nostri. Nelle campagne emiliane infatti, fino al secolo scorso ancora si leggevano gli auspici sul raccolto futuro bruciando le foglie di questo cespuglio, e se il crepitìo era vivace allora il raccolto sarebbe stato abbondante. (17) fegatelli di maiale all’aretina dicono di lui “E gli allori accesi sulle fiamme rituali mandino un crepitìo di buon augurio, e con questo fausto presagio vi sarà un sacro anno ricco e felice. Quando il lauro offre buoni auspici, gioite, o coloni: Cerere coprirà di spighe il colmo granaio.” Da Elegie di Tibullo - poeta romano del I secolo a.C. la poesia “L’aura che ’l verde lauro e l’aureo crine soavemente sospirando move, fa con sue viste leggiadrette et nove l’anime da’ lor corpi pellegrine.” Da Canzoniere di Francesco Petrarca Spiedini di fegatelli pronti per la cottura livia drusilla e l’alloro È Plinio a narrare di un prodigio avvenuto ai tempi dell’Impero romano. Un giorno Livia Drusilla, diventata Augusta dopo le nozze con l’imperatore Augusto, mentre era seduta su una sedia, si vide cadere in grembo una gallina bianchissima, lanciata da un’aquila. La gallina non solo non aveva subito danni, ma nel becco aveva un ramo di alloro carico di bacche. Gli indovini di corte raccomandarono di tenere da conto la gallina e la sua prole e di piantare il ramo e custodirlo con amore. Detto fatto. Il ramoscello fu piantato nella villa di campagna dei Cesari, sulle rive del Tevere, a nove miglia da Roma sulla via Flaminia e lì nacque un miracoloso boschetto. Neanche a dirlo il nome dato al luogo fu Ad gallinas. Da quel momento in poi Augusto volle sempre tenere in mano un rametto di alloro e ne fece una corona da indossare nei suoi trionfi. E così fecero dopo di lui tutti gli imperatori. 81 il centro - TOSCANA (18) sformato di spinaci con il cibreo * INGREDIENTI PER 6 PERSONE Per lo sformato 1,2 kg di spinaci 50 g di Parmigiano grattugiato 2 uova grandi (o 3 se piccole) 50 g di burro 50 g di farina 00 1/2 litro di latte noce moscata sale e pepe bianco Per lo stampo burro e pangrattato Per il cibreo 200 g di creste di pollo 100 g di “fagioli” di pollo (testicoli) 4 fegatini di pollo freschissimi una piccola cipolla chiara 30 g di burro un cucchiaio d’olio extravergine d’oliva un mestolo di brodo di pollo 1/2 cucchiaino di farina 2 tuorli il succo di un limone sale e pepe 82 Per prima cosa preparo lo sformato e, mentre è in cottura, anche il cibreo. Scotto le creste in acqua salata in ebollizione per una decina di minuti, poi le passo nell’acqua fredda, le spello e le divido a pezzi. Sciacquo i fegatini e li ripulisco da nervetti e particelle di grasso (se presenti, elimino le parti macchiate di fiele), poi li divido in quattro. Sciacquo e asciugo anche i “fagioli”. Trito finissima la cipolla e la faccio appassire dolcemente in un tegame a fondo pesante, senza farle prendere colore, nel caso aggiungo un goccio di brodo. Quando la cipolla è ben cotta e quasi sfatta, unisco le creste, rialzo un po’ la fiamma e le faccio insaporire per qualche minuto nel soffritto, poi bagno con un mestolo di brodo. Metto il coperchio e le faccio cuocere per circa un quarto d’ora prima di unire anche i fegatini e i “fagioli”. Insaporisco con sale e pepe e proseguo la cottura a fuoco dolce per 5 minuti. A questo punto il fondo dovrebbe essere un po’ ristretto ma ancora abbastanza fluido. Solo al momento di servire il cibreo frullo i tuorli con il succo di limone e mezzo cucchiaino di farina, poi verso il miscuglio nel tegame, mescolando continuamente e velocemente e tenendo la fiamma bassissima in modo che la salsa si addensi senza stracciare (l’aspetto deve essere quello di una crema liscia e fluida, non di uova strapazzate!). È sufficiente un minuto e il cibreo è pronto. Lo servo immediatamente (non si può ovviamente riscaldare) come antipasto o, come in questo caso, per completare uno sformato di spinaci (o di carciofi). il centro - TOSCANA sformato e cibreo Cresta di gallo dicono di lui “La volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei, ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dovè contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca”. Da Pinocchio di Carlo Collodi Un piatto questo che inizia il suo viaggio sulle tavole di ricchi e altolocati. Gli sformati infatti, e con loro i flan, hanno un’origine ben precisa, sono stati i cuochi franco-viennesi alla corte di Maria Luigia di Parma a inventare questo tipo di cotture. A coniugarli poi con il cibreo, sembra siano stati gli aretini che, come tutti i toscani, molto amano questo piatto gustoso. Piatto assai saporito che una volta era consigliato addirittura ai malati perché ricco di ferro e vitamine. Oggi ahimè il cibreo è praticamente sparito non solo dalle tavole dei ristoranti ma anche da quelle delle case. Il suo nome sembra arrivare dal latino gigèria che indica l’intestino del pollo ma i francesi sostengono invece che si tratti di civet, intingolo che a sua volta sarebbe derivato cive, ovverosia caepa, la cipolla in latino. È stato il cibo preferito di Caterina de’ Medici che ne andava pazza al punto da farne una sonora indigestione. La regina tentò in ogni modo di esportarlo in Francia dove però non fu apprezzato, al contrario della forchetta, fino ad allora sconosciuta Oltralpe, della zuppa di cipolle, poi divenuta soupe à l’oignon, e del papero al melarancio, ribattezzato dai francesi canard à l’orange. cibreo d’autore Chi davvero adorava il cibreo era l’Artusi che di lui diceva: “Il cibreo è un intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato e ai convalescenti”. Ed ecco la sua ricetta: “Prendete i fegatini (levando la vescichetta del fiele, creste e fagioli di pollo; le creste spellatele con acqua bollente, tagliatele in due o tre pezzi e i fegatini in due. Mettete al fuoco, con burro in proporzione, prima le creste, poi i fegatini e per ultimo i fagioli e condite con sale e pepe, poi brodo se occorre per tirare queste cose a cottura. A tenore della quantità, ponete in un pentolino un rosso o due d’uova con un cucchiaio, o mezzo soltanto, di farina, agro di limone e brodo bollente frullando onde l’uovo non impazzisca. Versate questa salsa sulle rigaglie quando saranno cotte, fate bollire alquanto ed aggiungete altro brodo, se fa d’uopo, per renderla più sciolta, e servitelo.” 84 (18) sformato di spinaci con il cibreo * sformato di spinaci fagioli fiorentini “Fiorentin mangia fagioli, lecca piatti e ramaioli (o tovaglioli)”. È una frase che, un tempo, chi andava a Firenze sentiva ripetere spesso. I toscani si sa amano i fagioli, però ci tengono a distinguere. In questo caso sembra infatti che non di fagioli si trattasse ma di fagioli di pollo, vale a dire i testicoli del galletto, dall’aspetto assai simile ai fagioli. Fagioli che sembra abbiano addirittura causato liti tra nobili famiglie. Gli Strozzi offrirono una grande cena, durante la quale fu servita una pietanza a base di fagioli di pollo, allora molto ricercati. Luca Pitti, per non essere da meno, decise quindi di far costruire il cortile di palazzo Pitti così grande da contenere tutto Palazzo Strozzi! Tutto per dei “fagioli”! Pulisco gli spinaci e li lavo più volte in abbondante acqua corrente, poi li metto in una pentola con la sola acqua rimasta aderente dopo il lavaggio. Metto il coperchio e li faccio cuocere per 7-8 minuti. Li tiro su con la schiumarola e li lascio intiepidire. Preparo una besciamella densa con burro, farina e latte. Strizzo fortemente gli spinaci fra le mani e li trito con il coltello (senza frullarli), poi li unisco alla besciamella con una bella presa di sale, il pepe e una bella grattata di noce moscata. Aggiungo anche le uova intere e il Parmigiano, mescolo bene e assaggio per regolare il sale. Imburro generosamente uno stampo con foro centrale, della capacità di 2 litri, e lo rivesto di pangrattato.Verso il composto di spinaci, livello la superficie e la copro con un velo di pangrattato. Cuocio lo sformato, a bagnomaria, nel forno a 180° per un’ora scarsa e lo lascio intiepidire per almeno 10 minuti prima di sformarlo. “Fagioli” di pollo (testicoli) 85 il centro - UMBRIA (19) piccioni ripieni Fiammeggio i piccioni e li svuoto conservando ventrigli e fegatini, poi ripulisco bene la pelle dalle pennette, spunto le ali e le zampe e taglio il collo alla base. Dall’apertura superiore estraggo il gozzo e infine lavo bene i piccioni sotto l’acqua corrente e li asciugo anche internamente. Svuoto i due piccoli ventrigli, li lavo e li trito grossolanamente insieme ai fegatini, anch’essi lavati e asciugati. Spello le salsicce e le raccolgo in una terrina con la mollica, bagnata nel latte e ben strizzata, il formaggio grattugiato e l’uovo intero. Aggiungo anche un cucchiaio di prezzemolo tritato, lo spicchio d’aglio grattugiato, il trito di interiora, pepe e poco sale e impasto il tutto con le mani. Insaporisco l’interno dei piccioni con sale e pepe e qualche bacca di ginepro pestata e li imbottisco con il ripieno, lasciando un po’ di spazio vuoto perché il composto si gonfia in cottura. INGREDIENTI PER 4-6 PERSONE Infine chiudo l’apertura con ago e filo. 2 piccioncini novelli di 3-400 g ognuno 2 salsicce fresche 2 cucchiai di pecorino dolce grattugiato (o Parmigiano) 40 g circa di mollica di pane raffermo un uovo poco latte 3 spicchi d’aglio 1/2 bicchiere di vino bianco secco olio extravergine d’oliva prezzemolo salvia rosmarino bacche di ginepro sale e pepe 86 Trito finemente qualche foglia di salvia e le foglioline di un rametto di rosmarino e miscelo il trito con sale e pepe. Pennello i piccioni con un filo d’olio e ci faccio aderire il trito aromatico, poi li sistemo in una piccola teglia unta d’olio con accanto gli spicchi d’aglio in camicia. Li passo nel forno a 180° per un’ora abbondante e, dopo la prima mezz’ora, li spruzzo un paio di volte con poco vino bianco e li pennello con il fondo di cottura. A cottura ultimata, copro la teglia con un foglio di alluminio e faccio riposare i piccioni per una ventina di minuti nel forno caldo ma spento. Li servo caldi, divisi a metà o in quarti. il centro - UMBRIA il piccione Il piccione altro non è che un colombo addomesticato, un uccello già molto apprezzato nel Medioevo quando i castelli avevano le loro colombaie che donavano quotidianamente carne fresca. Allora la carne di questo uccello, povera di grassi e ricca di proteine, era considerata una vera Delikatesse al punto da diventare merce di scambio nelle compravendite. I migliori sono quelli giovani, che hanno carne tenera e bianca e pesano intorno ai tre etti, mentre quelli adulti già ad un mese di età possono raggiungere il mezzo chilo. Oggi l’allevamento di questi uccelli è diventato difficile ed è questo il motivo per cui in Italia di piccioni non se ne mangiano quasi più. dicono di loro “...E piccioni arrostiti in casseruola con i rosmarini e le patatine novelle... farciti a lor volta, secondo una ricetta andalusa, con l’origano, la salvia, il basilico, il timo, il rosmarino, il mentastro, e pimento, zibibbo, lardo di scrofa, cervelli di pollo, zenzero, pepe rosso, chiodi di garofano, ed altre patate ancora, di dentro, quasi che non bastassero quelle altre messe a contorno, cioè di fuori del deretano del piccione; che erano quasi divenute una seconda polpa anche loro, tanto vi si erano incorporate, nel deretano: come se l’uccello, una volta arrostito, avesse acquistato dei viscere più confacenti alla sua nuova situazione di pollo arrosto, ma più piccolo e grasso, del pollo, perché era invero un piccione.” Da La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda 88 Piccioncino novello come sceglierlo Per prima cosa cerchiamo di acquistare quelli più giovani e per capirlo osserviamo attentamente il becco che deve essere molto flessibile. Poi evitiamo di portarci a casa quelli con occhi poco lucidi, infossati e con le ali vizze e stanche perché vuol dire che il nostro piccione ha passato molti giorni in frigorifero. (19) piccioni ripieni amori piccioneschi Diciamolo, non è poi così facile distinguere un piccione maschio da quello femmina. Per capire di che sesso si tratta occorre osservare questi uccelli nel momento dell’amore; allora vedrete che il maschio comincia a contorcersi in una bizzarra danza, si gonfia tutto e soprattutto tuba, e la femmina è pronta a farsi rincorrere. Quindi i due uccelli si acchiappano per il becco e piegano il collo molte volte, in un ballo sinuoso, poi la femmina cede, si accovaccia e il maschio la feconda. Ed ecco che arrivano le uova: due, bianche come il latte, sono covate per 21 giorni e, pensate che civiltà, i piccioni si alternano in questo compito, di giorno la mamma e di notte il papà. E non finisce qui: quando i piccoli nascono sono tutti e due i genitori a nutrirli, per i primi cinque giorni con una sorta di latticello che hanno nel gozzo e poi anche con un misto di semi di granturco e di grano. In un mese le creature sono pronte a volare. Consigliamo ai nostri papà di osservare attentamente i piccioni, e magari, perché no, provare a imitarli! il proverbio “Quando Sol est in leone, Bonum vinum cum popone, Et agrestum cum pipione”. “Quando il sole è nel Leone, Buono è il vino col melone, E l’agresto col piccione”. Piccioni farciti e conditi pronti per la cottura chi mangia i piccioni? Soprattutto umbri e toscani, ma anche veneti e marchigiani. In tutte le altre regioni il piccione è poco consumato, o addirittura sconosciuto come ingrediente di cucina, e si trova soprattutto nell’alta ristorazione, dove è la base di preparazioni molto ricercate. Nelle grandi città, per esempio a Roma, dove quelli selvatici sono spesso un flagello, i piccioni vengono a volte guardati con disprezzo, nella convinzione che quelli che finiscono in pentola siano gli stessi che imbrattano i cornicioni e i monumenti cittadini. Rassicuriamo i diffidenti: i piccioni sul banco del macellaio non hanno niente a che vedere con quelli che svolazzano, e fanno di peggio, nelle nostre città. 89 il centro - MARCHE (20) coniglio in porchetta Lavo il coniglio sotto l’acqua corrente e lo asciugo bene anche all’interno. Pulisco il finocchietto eliminando i gambi più duri e lo lavo, poi lo scotto per 4-5 minuti in poca acqua salata ben aromatizzata con gli spicchi d’aglio schiacciati. Lo scolo conservando l’acqua di cottura, poi lo strizzo fra le mani e lo tagliuzzo grossolanamente insieme agli spicchi d’aglio. Trito la pancetta e la faccio soffriggere dolcemente in una padella con un cucchiaio d’olio. Quando è ben rosolata, unisco il fegato del coniglio, tagliato a dadini, che faccio rosolare per pochi minuti prima di unire anche il finocchietto. Insaporisco con una macinata generosa di pepe e abbondanti foglioline di maggiorana e faccio soffriggere ancora per qualche minuto. Spolvero l’interno del coniglio con sale e pepe e lo riempio con il composto di verdure, distribuendolo bene in tutta la lunghezza, poi cucio l’apertura con ago e filo. Lo sistemo in una teglia con accanto due bei rametti di rosmarino, bagno con l’olio e lo spolvero di sale e pepe. Verso il vino sul fondo della teglia e passo il coniglio nel forno a 180° per circa un’ora e mezzo. INGREDIENTI PER 6-8 PERSONE un coniglio completo di fegato di circa 1,2 kg 250 g di finocchietto selvatico 150 g di pancetta tesa 3 spicchi d’aglio 3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva 1/2 bicchiere di vino bianco maggiorana rosmarino sale e pepe 90 Durante questo tempo, giro il coniglio un paio di volte, lo bagno ogni tanto con il fondo di cottura e, quando necessario, con qualche cucchiaio dell’acqua di cottura del finocchietto. Quando è pronto, lo lascio riposare per una ventina di minuti nel forno caldo ma spento, e al momento di servirlo stacco cosce e spalle e taglio a fette spesse la parte centrale. Cospargo il tutto con il fondo di cottura. il centro - MARCHE coniglio marchigiano I marchigiani amano i loro conigli e li preparano in modo davvero speciale: seguendo la loro tradizione contadina, lo disossano a mano e poi lo farciscono e lo condiscono con erbette profumate tra cui forte spicca l’aroma inconfondibile del finocchietto selvatico. Deve poi essere cotto in forno a temperatura piuttosto bassa. I marchigiani lo amano sia caldo che freddo; freddo viene tagliato in piccoli medaglioni e servito con riso selvatico o con piccole quenelles di ricotta ed erbette di campo, caldo è invece accompagnato con patate arrosto, con erbette amare, con le cipolline in agrodolce o con una fresca insalatina. Chiudere il coniglio con un grosso ago e filo da cucina. porchettare Chi non conosce la porchetta, una delle specialità dell’Italia centrale, quel maiale intero, disossato, farcito e condito? Quella che Carlo Emilio Gadda cita anche nel suo Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, chiamandola: “La porca co un bosco de rosmarino in de la panza”? È proprio dalla porchetta che arriva il verbo “porchettare” che sta a indicare il procedimento con cui la bestia viene lavorata, procedimento con cui poi è possibile preparare anche conigli, agnello e certi pesci come la carpa. Per porchettare si deve prima dissanguare l’animale e immergerlo in acqua bollente, lo si lava bene poi lo si apre, si tolgono le viscere, si disossa e si procede a farcirlo; di solito lo si fa con sale, aglio “con la camicia” – vale a dire non sbucciato –, milza e fegato a tocchetti e poi erbe aromatiche, molto rosmarino, finocchio selvatico e c’è chi aggiunge anche mandorle e amarene. Tradizione vorrebbe poi che l’animale fosse cotto in forno a legna, a temperatura piuttosto bassa. 92 (20) conigli di celluloide Noi italiani, si sa, i conigli li mangiamo con gusto, così come Roberto Benigni in Daunbailò di Jim Jarmush che racconta: “Me l’ha insegnato a cucinare mia mamma Isolina: rosmarino, olio, aglio e... i segreti di Isolina!”. Mentre Renato Pozzetto ne Il ragazzo di campagna, di Castellano e Pipolo, strilla alla madre: “Ma è possibile che ogni volta che muore un gatto, tu mi cucini sempre il coniglio?”. Gli americani invece conigli non ne mangiano, piuttosto li trasformano in star del cinema. E allora ecco Roger Rabbit, il più simpatico dei conigli cinematografici. Frank, il coniglio gigante che salva la vita a Donnie in Donnie Darko, ma ci sono anche i coniglietti famelici che si nascondono nel frigorifero di Wallace in Wallace e Gromit: La Maledizione del Coniglio Mannaro, per non parlare del coniglio assassino di Monty Python e il Sacro Graal, e soprattutto di Harvey, il gigantesco coniglio bianco, amico immaginario e molto amato dall’indimenticabile James Stewart nel film omonimo. Sono però i conigli “animati” quelli preferiti dagli americani, dal Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie, a Tippete, quel bianco batuffolino amico del cuore di Bambi, fino ad arrivare al coniglio più famoso e più vecchio del mondo: nato nel 1938, è l’inconfondibile Bugs Bunny, l’eterno mangiacarote. Come meravigliarsi poi se gli americani preferiscono non mangiare conigli? Maggiorana coniglio in porchetta Finocchietto selvatico dicono del coniglio “La domenica, verso mezzogiorno, dalle finestre della via Cavour esce un profumo squisito di coniglio in umido, col vino. Il sugo di coniglio è l’ideale per la polenta, va giù come una lettera nella buca postale.” Da L’Uovo alla kok di Aldo Buzzi, scrittore e architetto italiano “Spella un coniglio morto e puliscilo degli intestini, poi mettilo su uno spiedo a cuocerlo lentamente e quando pensi che sia davvero morto, devi salarlo, peparlo e servirlo con della polenta un po’ dura. Nota: tutte le parti del coniglio morto possono essere mangiate.” Da Il Codice Romanoff di Leonardo Da Vinci 93 il centro - MARCHE (21) calcioni Il giorno precedente grattugio il pecorino stagionato e passo alla grattugia a fori larghi quello fresco. Raccolgo ambedue in una terrina, unisco lo zucchero, le uova, il succo e la scorza grattugiata di limone e amalgamo molto bene. Sigillo la terrina con la pellicola e faccio riposare il composto in frigorifero per un giorno intero. Per la pasta, setaccio la farina sulla spianatoia, faccio la fontana e ci metto le uova, lo strutto a fiocchetti, lo zucchero e il succo di limone. Amalgamo un po’ gli ingredienti con la forchetta portando poca farina verso il centro e poi impasto per qualche minuto. Formo una palla e faccio riposare la pasta per una mezz’ora, avvolta nella pellicola. INGREDIENTI Per la pasta 400 g circa di farina 00 3 uova piccole (o 2 grandi) 30 g di strutto un cucchiaio colmo di zucchero il succo di 1/2 limone Per il ripieno 300 g di pecorino fresco (tipo caciotta) 200 g di pecorino dolce stagionato 150 g di zucchero 3 uova un grosso limone con la scorza non trattata un tuorlo per dorare 94 Divido la pasta in tre pezzi e li passo alla macchinetta partendo dal primo spessore e via via attraverso tutti gli altri fino al penultimo. Dalle strisce di pasta ritaglio dei dischi di 12 cm (rimpasto i ritagli) e metto su ognuno una bella noce di ripieno. Pennello il perimetro con poca acqua e chiudo a mezzaluna, premendo bene per saldare la pasta . * Dispongo queste mezzelune su una placca foderata di cartaforno e le pennello con il tuorlo diluito con un cucchiaio di acqua, poi con le forbici faccio due taglietti incrociati sulla sommità di ognuno (durante la cottura uscirà una parte di formaggio). Metto la placca nel forno a 180° e faccio cuocere per circa 20 minuti. Sono buoni tiepidi o freddi. * il centro - MARCHE le marche dolci I dolci marchigiani sono dolci di tradizione antica, dolci curiosi dai nomi spesso bizzarri. Oltre ai calcioni infatti c’è il salame di fico, assai apprezzato da Giacomo Leopardi, a base di fichi secchi a cui si aggiunge rum e mistrà, mandorle e noci trite, per finire avvolto proprio come un salame nelle foglie di fico. Altro dolce di tradizione è la serpe, pasta di mandorle a forma di serpente, glassata con albumi a neve e zucchero. Erano le monache Clarisse a produrle e venivano regalate ai cresimandi: è infatti un dolce dalla forte simbologia religiosa, laddove la forma evoca il peccato originale e quindi mangiarlo per la cresima voleva dire cacciare dalla propria anima il peccato. Ci sono quindi i cavallucci, a forma di cavalluccio marino, che si mangiano nel periodo invernale, gli ungaracci, bastoncini di 20-30 centimetri confezionati con semi d’anice, uvetta, farina di mais e zucchero, e alla fine una spruzzatina di Alchermes, e i sughetti, ottenuti dal mosto bollito a cui vengono aggiunti mandorle, pinoli, semi di zucca e noci. la poesia “Li fa de cecio co’ na dose justa, de cascio, de ricotta, quilli gusta! Sulo a pensacce pare de magnali E te fa satollà sinza proalli.” Dalla poesia Montejorgio Cacionà di Giorgio Capecci Chiudere i dischi a mezzaluna, *premendo bene intorno al ripieno 96 (21) calcioni il pecorino * Con le forbici, incidere la sommità dei calcioni con due tagli incrociati Uno dei formaggi più amati dagli italiani, tanto che uno dei suoi estimatori era il papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, che amava mangiarlo con le pere, con il miele, con le fave e con le noci. Una volta si chiamava semplicemente “cacio” e ogni produttore aveva le sue ricette segrete, tramandate da padre in figlio quasi fossero preziosi tesori di famiglia. Ancora oggi c’è chi adopera cagli vegetali, come il cuore del carciofo, per la coagulazione del latte, che deve essere rigorosamente di pecora. Nel pecorino morbido la cagliata è rotta in chicchi grandi quanto una nocciola, mentre in quello a pasta dura i chicchi hanno la misura di quelli di granturco. La stagionatura si fa in stanze fresche e umide: quattro mesi per il pecorino a pasta dura, almeno tre settimane per quello morbido. Un formaggio comune a tutta l’Italia centrale, e che nelle osterie toscane veniva chiamato “cacio da vino”, mentre le massaie chiedevano anche quello “da grattugiare”, che serviva a condire la pastasciutta. formaggi marchigiani Storia antica quella dei formaggi delle Marche, almeno quanto la pastorizia stessa. Si sa per certo per esempio che questi caci erano già apprezzati nella Roma di Augusto e che nel XVI secolo Michelangelo era un grande estimatore della casciotta di Urbino che amava mangiare a primavera, quando era più fresca e saporita. Ancora oggi, nel nord di questa regione è possibile gustare i pecorini fatti stagionare per tre mesi nelle botti di rovere, avvolti in foglie di noce o messi a strati con erbe aromatiche e vinacce. Ma non di soli pecorini vivono i marchigiani: ci sono anche formaggi più di nicchia come il casecc, lo slattato, il raveggiolo e soprattutto il cacio in forma di limone, che risale addirittura al Medioevo, e viene citato anche da Bartolomeo Scappi, cuoco alla corte papale nel XVI secolo. 97 il centro - LAZIO (22) fagioli con le cotiche Metto i fagioli a bagno in abbondante acqua tiepida e li lascio ammollare per almeno 8 ore, poi li sciacquo, li verso in una casseruola e li copro di acqua fredda che sopravanzi di due dita. Unisco uno spicchio d’aglio in camicia, faccio alzare il bollore poi abbasso la fiamma al minimo e li faccio cuocere, a fuoco dolcissimo, per circa 2 ore o finché sono teneri, unendo il sale nell’ultima mezz’ora. * Prima di cuocere le cotenne , è necessario sgrassarle bene. Tenendo quindi di piatto un coltello ben affilato, elimino completamente la parte grassa loro aderente (diventeranno sottilissime e quasi trasparenti), poi le scotto per 5-6 minuti in acqua non salata. Le scolo, le taglio a strisce e le faccio lessare in abbondante acqua, non salata, inizialmente fredda, per un’ora circa fino a quando sono tenere, setose e ben idratate. INGREDIENTI PER 6 PERSONE 300 g di fagioli bianchi secchi qualche cotenna di prosciutto un cucchiaio d’olio extravergine d’oliva 30 g di grasso di prosciutto (o pancetta) 200 g di passata di pomodoro una piccola cipolla 2 spicchi d’aglio prezzemolo sale e pepe 98 Trito la cipolla, frullo il grasso di prosciutto con uno spicchio d’aglio e una manciatina di prezzemolo e verso il tutto in un tegame con l’olio. Faccio rosolare dolcemente e, quando la cipolla comincia a prendere colore, unisco la passata di pomodoro, insaporisco con sale e pepe e faccio cuocere il sughetto per un quarto d’ora prima di unirvi i fagioli sgocciolati e le cotenne. Mescolo, metto il coperchio e faccio cuocere, a fuoco dolce, per una ventina di minuti unendo, se necessario, qualche cucchiaio dell’acqua di cottura dei fagioli. Porto in tavola i fagioli caldissimi, nello stesso recipiente di cottura. Sono squisiti, una vera ghiottoneria! il centro - LAZIO Fagioli bianchi cotti la poesia “In questa tomba tenebrosa e scura Giace un villano di sì difforme aspetto, Che più d’orso che d’uom avea figura; Ma di tant’alto e nobile intelletto Che stupir fece il mondo e la natura. Mentr’egli visse e fu Bertoldo detto, Fu grato al re; morì con aspri duoli Per non poter mangiar rape e fagioli.” Da Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno di Giulio Cesare Croce Eliminare completamente il grasso aderente alle cotiche 100 lazio, fagioli e cotiche Già gli Etruschi tenevano in gran considerazione i fagioli che tritavano e usavano come condimento da gustare insieme alla carne di maiale e, presumibilmente, alle cotiche. Non parliamo poi dei gladiatori che, secondo recentissime scoperte, sembra mangiassero pochissima carne e moltissimo orzo e fagioli. Insomma la storia vuole che il gladiatore fosse grasso, e non tonico e muscoloso come vorrebbe farci credere Russel Crowe. La ciccia serviva loro come seconda corazza quindi via libera a tutto ciò che li avrebbe fatti ingrassare: polente, cereali e soprattutto fagioli, con le cotiche naturalmente! Ancora oggi questa accoppiata vincente non manca mai nelle tante sagre che si svolgono nelle varie cittadine laziali, come quella di Sutri, patria del fagiolo della Regina, un saporito borlotto considerato in passato come portafortuna dai poteri miracolosi, un fagiolo apprezzato addirittura da Carlo Magno che, di passaggio a Sutri, fu colpito da un terribile attacco di gotta, che tentò di guarire con qualsiasi mezzo senza riuscirci, finché non assaggiò il magico fagiolo della Regina. Non è dato sapere se con o senza cotiche, ma oggi a Sutri il piatto più famoso della sagra sono i fagioli alla poverina: olio, sale, pepe, cipolle e tante cotiche. (22) fagioli con le cotiche * fai così Cotiche lessate 1 Questo piatto viene preparato più frequentemente con le cotenne di maiale fresche, che hanno bisogno soltanto di una breve lessatura prima di essere unite ai fagioli ma, vi assicuriamo – ed è facilmente intuibile – che, con quelle di prosciutto, i fagioli sono tutta un’altra cosa. 2 Le cotenne di prosciutto non si comprano ma si chiedono al salumiere che le regala ben volentieri e, tanto più il prosciutto è buono e di qualità, tanto più le cotenne sono buone e profumate. 3 La loro preparazione è più facile da fare che da spiegare e anche chi teme i grassi, vero spauracchio della nostra epoca, può stare tranquillo perché, se ben ripulite come spiegato nella ricetta, sono composte essenzialmente da collagene, una proteina molto complessa componente essenziale degli strati dell’epidermide e del derma. cotiche chic È stata Caterina de’ Medici a portare in Francia, tra le altre cose, i fagioli, che furono subito molto apprezzati, al punto che in Linguadoca ne hanno fatto un piatto simbolo, la cassoulet di Castelnaudary, una versione più chic e raffinata dei nostrani fagioli con le cotiche. Eccovi la ricetta. Ricopriamo i fagioli, che devono essere rigorosamente lingot, una specie francese, con l’acqua fredda e facciamoli bollire per 5 minuti. Buttiamo l’acqua e copriamo di nuovo con acqua tiepida a cui aggiungiamo le cotiche, la salsiccia di cotica, il garretto di porco, una testa d’aglio e un po’ di lardo tritati insieme. Saliamo e facciamo cuocere per circa due ore. Intanto sgrassiamo il confit d’oca, riempiamo a strati la cassole – la tipica pentola di terracotta senza la quale la cassoulet non esiste –, di fagioli, brodo, carni, confit eccetera. Bagniamo con il liquido di sgrassatura ancora caldo e finiamo con uno strato di pangrattato. Mettiamo in forno e lasciamo cuocere finché non si forma la crosta. Un riuscito incrocio tra la cassoeula, un classico della cucina lombarda, e i ruspanti fagioli con le cotiche laziali. dicono dei fagioli “Tutti i legumi abbassino la testa dando al fagiolo il posto più eminente, che sublime fra loro alza la cresta”. Da La Fagiuolaja di Giovanni Battista Fagiuoli 101 il centro - LAZIO (23) pollo con i peperoni Fiammeggio il pollo, ripulisco la pelle dalle pennette, spunto le ali e lo divido in ottavi incidendolo ove è possibile nelle articolazioni, poi lo lavo e lo asciugo per bene. Dopo averli incisi alla base, tuffo i pomodori per pochi secondi in acqua in ebollizione, poi li passo nell’acqua fredda, li spello e li spezzetto eliminando i semi. Lavo i peperoni, li apro ed elimino i semi e le nervature chiare, poi li taglio a strisce. 6 DVD Scaldo l’olio in un tegame largo a fondo pesante e faccio imbiondire dolcemente gli spicchi d’aglio schiacciati. Quando hanno preso colore, li elimino, rialzo la fiamma e metto nel tegame i pezzi di pollo. Li faccio rosolare bene da tutte le parti girandoli quasi di continuo e, quando il pollo ha preso un bel colore uniforme, verso il vino e lo faccio sfumare. Insaporisco la carne con sale e pepe e unisco i pomodori mettendoli nel fondo del tegame. INGREDIENTI PER 6 PERSONE un pollo pronto per la cottura di circa 1,5 kg 400 g di pomodori estivi ben maturi 3 peperoni estivi di colori assortiti 4 cucchiai d’olio extravergine d’oliva 2 spicchi d’aglio 1/2 bicchiere di vino bianco prezzemolo basilico sale e pepe 102 Faccio andare per qualche minuto e infine aggiungo i peperoni e due ciuffi di basilico. Salo le verdure, poi abbasso un po’ la fiamma (ma non al minimo), metto il coperchio e faccio cuocere per circa tre quarti d’ora, fino a quando il pollo sarà tenero e la preparazione giustamente asciugata. Se necessario tolgo il coperchio e faccio ritirare un po’ il sugo a fuoco vivo. Al momento di portare il pollo in tavola, elimino il basilico e spolvero con il prezzemolo tritato. il centro - LAZIO Peperone rosso, verde e giallo pollo e peperoni Un piatto ruspante, verace, anche un po’ rozzo, certamente pesante, che ai romani intenerisce il cuore. E qualsiasi vero romano lo sa: il pollo coi peperoni è buono soprattutto a Ferragosto, a pranzo, quando fuori il sole picchia e il termometro segna non meno di 35 gradi. Anzi, per i romani di tradizione, è proprio il giorno di ferragosto che questo piatto è di rigore. Il menu classico di questa festa, oltre al pollo coi peperoni, comprende di solito i pomodori con il riso, cotti al forno su un letto di patate, poi la parmigiana di melanzane e alla fine, per pulire la bocca, una bella fetta di cocomero. Perché il romano, che gastronomicamente parlando è un masochista neanche tanto represso, a tavola vuole soffrire godendo, o godere soffrendo. E allora un buon pollo coi peperoni deve fare sudare, per lui insomma si deve quasi rischiare il colpo apoplettico, e dopo averlo mangiato, buttarsi immediatamente sul letto prima dell’inizio della digestione, sonno da cui ci si sveglierà con un cerchio alla testa, un senso di pesantezza, il desiderio, regolarmente esaudito, di non fare nulla, ma proprio nulla per il resto della giornata. Ma il romano lo sa, sono anche queste le gioie del palato. Il pollo tagliato in otto parti la poesia “Preparate li piatti, er pane, er vino, e co’ li piedi sotto ar tavolino nun ve sturbi l’odore: su, magnate! Ve sembrerà più buono di sapore Se lo magnate in due: core a core Attaccate sto’ pollo: core a core... Ve tornerà er sorriso e er buonumore!” Da Pollo alla romana di Alfredo Bargagli 104 (23) pollo con i peperoni il pollo Povero pollo, di lui si dice tutto il male possibile: “far ridere i polli”, “conosco i miei polli”, “essere un pollo”, “andare a dormire coi polli”, poi ci si sono messi di mezzo anche gli allevamenti intensivi e l’aviaria a dare una brutta reputazione a un animale così versatile e generoso. E la vita ce l’ha avuta difficile fin dall’inizio. Ha iniziato ad essere addomesticato più di 6.000 anni fa, nella valle del fiume Indo, ma nessuno lo mangiava, lo si faceva combattere e si gustavano le sue uova, così come in Persia, in Grecia e nell’antica Roma. Qualche ricetta a base di pollo la troviamo documentata da Apicio, ma poca roba, perché i Romani gli preferivano i fagiani, le pernici, i pavoni e le faraone. E al povero pollo non restava che essere sacrificato agli dei. Fu solo nel XVII secolo che cominciò ad apparire sulle tavole dei ricchi, come simbolo di agiatezza. Ma la sua fortuna durò pochi secoli, fino alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, poi l’hanno rinchiuso in gabbie, alimentato a forza e tenuto fermo, su lui si sono fatti esperimenti per svilupparne i petti col risultato che i polli odierni sono mostri con seni ipertrofici e zampe striminzite. Ma chi ancora ricorda i polli ruspanti, sa che si tratta di una vera leccornia! Pollo ruspante come sceglierlo Vista acuta e un buon tatto, ecco cosa ci vuole oggi per scegliere un buon pollo. Per prima cosa infatti le sue carni devono essere sode ed elastiche, mai mosce. La pelle poi secca e non appiccicosa, e le giunture chiare e non rossastre, come spesso accade nei polli da supermercato. Molto importante è che le ossa del petto siano flessibili solo nella parte inferiore e ben rigide in quella superiore, e che le unghie siano un po’ consumate, segno che il pennuto ha potuto zampettare liberamente a terra. 105 il sud agnello cacio e uova - ABRUZZO pepatelli - MOLISE ciambotta - BASILICATA polpetielli affogati - CAMPANIA zeppole di san giuseppe - CAMPANIA fave e cicoria - PUGLIA pitta ripiena - CALABRIA polpette di melanzane - CALABRIA il sud - ABRUZZO (24) agnello cacio e uova * Disosso il cosciotto e la spalla e taglio la carne a pezzi regolari delle dimensioni di un piccolo uovo. Infarino molto leggermente i pezzi di carne e contemporaneamente metto sul fuoco un tegame a fondo pesante con l’olio. Quando l’olio è caldo, unisco la carne, gli spicchi d’aglio schiacciati e un rametto di rosmarino. 6 DVD Tengo la fiamma moderata e giro spesso i pezzi di carne in modo che si colorino in maniera uniforme e, quando sono ben dorati, insaporisco con sale e pepe e verso il vino sul fondo del tegame. Quando è sfumato, metto il coperchio, abbasso la fiamma a proseguo la cottura fino a quando la carne è tenera (circa 30 minuti). Controllo spesso e unisco un paio di cucchiai di acqua calda quando necessario, tenendo conto che il fondo deve rimanere fluido. Rompo le uova in una scodella e le batto con il pecorino. Quando la carne è pronta, ritiro il tegame dal fuoco, elimino l’aglio e, mescolando con una spatola, unisco le uova continuando a mescolare fino a quando si sono rapprese diventando cremose. INGREDIENTI PER 4 PERSONE un cosciotto e una spalla di agnello da latte (complessivamente circa 1,2 kg) 4 cucchiai d’olio extravergine d’oliva 1/2 bicchiere di vino bianco un cucchiaio di farina 2 spicchi d’aglio rosmarino sale e pepe Per la salsa 2 uova freschissime 50 g di pecorino grattugiato 108 il sud - ABRUZZO passioni abruzzesi la poesia La più celebre, la più studiata, la più recitata poesia su pastori e transumanza. Scritta da un abruzzese doc. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti. [...] E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! Ora lungh’esso il litoral cammina la greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquìo, calpestìo, dolci rumori. Ah perché non son io cò miei pastori?” Da I Pastori di Gabriele D’Annunzio 110 Quella degli abruzzesi per la pecora, l’animale maggiormente allevato di questa regione, è più di una passione, è amore, che si manifesta nei tantissimi piatti a base di agnello di questa regione. E la pecora abruzzese vuole cotture lente, preferibilmente alla brace. Ci sono gli arrosticini – piccoli spiedini –, lo strepitoso agnello cace e ove, quello incaporchiato, le turcenelle – interiora di agnello fatte in umido –, le paliate, budelline di agnello da latte. L’agnello può essere “porchettato”, “alla neretese” – con un intingolo alla diavola –, “alla callara” – cotto in tegame con molti odori –; ma si cucinano anche le cuccette, un piatto a base di testine d’agnello, la pecora agliu cotturu, con peperoncino, salvia, ginepro, rosmarino, timo e alloro e la mistica, un carpaccio di pecora messo sotto sale ed essiccato. Rosmarino (24) agnello cacio e uova fai così L’agnello cacio e uova è un piatto semplice e rustico ma che richiede comunque qualche attenzione. 1 La cosa più importante è la scelta della carne, che dovrebbe essere agnello da latte che non abbia quindi mai mangiato erba. 2 Prestare attenzione alla cottura della salsa d’uovo e formaggio, che non deve diventare come uova strapazzate, ma rapprendersi rimanendo cremosa. Se il calore non è sufficiente, rimettere il tegame sul fuoco al minimo, mescolando continuamente con la spatola. 3 È un piatto che non può ovviamente essere riscaldato ma si può comunque preparare in anticipo, aggiungendo il miscuglio di uova e formaggio all’ultimo momento, dopo aver scaldato la carne. 4 La carne di agnello è buona se ben calda, è perciò consigliabile portare in tavola la preparazione nello stesso recipiente di cottura. la transumanza Una volta il fenomeno della transumanza ce lo spiegavano a scuola, nell’ora di geografia quando si studiava l’Abruzzo; oggi la transumanza non esiste più, e neanche la geografia. Ogni anno le greggi migravano dalle montagne dell’Abruzzo verso le pianure del Tavoliere delle Puglie, e viceversa, estate e inverno. Quando iniziava a far caldo i pastori portavano le loro pecore a brucare verso pascoli più verdi, e all’inizio della stagione fredda le riportavano verso climi più miti. Il viaggio, che avveniva sui tratturi, ampi sentieri d’erba o in terra battuta, scavati dal passaggio degli animali, durava molti giorni e le greggi si fermavano a riposare, insieme ai loro custodi, in luoghi prestabiliti, chiamati stazioni di posta. Oggi questa usanza sopravvive solo in aree molto ristrette del Piemonte, della Valle d’Aosta, della Svizzera italiana, del Lazio e della Sardegna. * Disossare il coscio di agnello 111 il sud - MOLISE (25) pepatelli Scaldo un po’ il miele per renderlo fluido. Setaccio la farina bianca sulla spianatoia e la miscelo con quella integrale e con le mandorle, poi faccio la fontana, ci verso il miele e di seguito ci metto un pizzico di sale, la scorza di arancia grattugiata e un’abbondante macinata di pepe. Impasto a lungo fino a che gli ingredienti sono ben distribuiti, poi divido il composto in tre pezzi e modello altrettanti filoncini piatti larghi 5 cm e alti 2. Li trasferisco sulla placca rivestita di cartaforno e li passo nel forno a 180° per 30 minuti. A cottura ultimata, sforno i filoncini e, ancora caldi, li taglio a fette oblique di circa un cm. Allineo i pepatelli sulla placca e li passo per 5 minuti nel forno caldo ma spento. Li faccio ben raffreddare su una griglia prima di chiuderli in una scatola di latta dove si conservano a lungo. Come dice il nome di questi biscottini, il pepe si deve abbastanza sentire ed è gradevole l’abbinamento di questa spezia con la scorza di arancia ma, per chi non lo gradisce, i pepatelli sono altrettanto buoni anche nella versione con la cannella (un cucchiaino da tè). INGREDIENTI 150 g di farina 00 150 g di farina integrale 300 g di miele 300 g di mandorle non pelate la scorza di un’arancia non trattata sale e pepe 112 il sud - MOLISE Impasto dei pepatelli la mostarda d’uva i dolci molisani Una regione spesso dimenticata il Molise, la più piccola d’Italia dopo la Valle d’Aosta, spesso aggruppata all’Abruzzo e considerata poco più di un’appendice di quest’ultimo. Ed è un peccato perché è invece una regione che ha molto da offrire, anche gastronomicamente. E i dolci sono forse il suo patrimonio più ricco in cucina. Assai famosi sono i cauciuni, piccoli tortelli ripieni di pasta di ceci, i picellati, farciti di miele, noci e mandorle e poi profumati con la scorza di arancia e la cannella. Sono tanti e tutti buonissimi anche i dolci che accompagnano le festività: la pigna e i casciatelli pasquali, la cicerchiata e le caragnole, fatte con sottili fettucce di pasta, a Natale, e soprattutto le ostie farcite, le più natalizie di tutti, cialde farcite di mandorle e noci da mangiare accompagnate da vini locali. La regione poi ama il miele e tanti sono gli apicoltori che lo lavorano. Da non dimenticare i confetti di Agnone, fatti con la mandorla riccia, forse non così noti come quelli di Sulmona ma altrettanto buoni, e la ciambella, nel cui impasto non manca mai il vino rosso. Un dolce da prima colazione. 114 È una marmellata molto aromatica che nasce proprio dalle fertili terre e dai vigneti di questa regione. La tradizione vuole che sia fatta con le uve di Montepulciano, quelle che non diventano vino. Gli acini di quest’uva vengono cotti a lungo con poco zucchero, finché le bucce si fanno morbide e gli acini si sfaldano. I molisani amano mangiarla pura, a cucchiaiate, oppure come dessert insieme ai loro dolci più famosi. Scorza d’arancia (25) pepatelli far pepino Molti sono i detti legati al pepe, uno dei più curiosi è senza dubbio la frase “far pepino”: oggi caduta in disuso, indicava il gesto di chiudere le punte delle dita, come a voler prendere un grano di pepe: “fai pepino, se ti riesce” si diceva a chi era intirizzito dal freddo, mentre “non farebbe pepino a luglio” indicava una persona buona a nulla. Filoncini appena sfornati pronti per essere tagliati il pepe Una delle spezie più antiche, e anche una delle più care, tanto che nel Medioevo si usava dire “caro come il pepe”. Lo si vendeva, il pepe, a peso d’oro e costituiva moneta di scambio, perché arrivava da terre lontane, le coste del Malabar, nel sud dell’India, e il suo trasporto era lungo e difficoltoso. Il suo commercio fu per secoli prerogativa esclusiva degli Arabi, che mai rivelarono il segreto della sua provenienza e che, con i guadagni ottenuti da questa spezia, costruirono le loro meravigliose città. Fu poi Vasco da Gama a centrare il bersaglio; arrivato nel Malabar, quando gli fu chiesto che cosa fosse venuto a cercare, rispose lapidario: “Dei cristiani e del pepe”. La sua coltivazione iniziò tardi, nel 1750, grazie a un botanico francese, che, pensate che coincidenza, di nome faceva Pierre Poivre, al secolo Piero Pepe! la poesia “...pe la strade, la ggende va cundende: - Ahùrie mastr’Ando’... mannagge che nenguende! faciàmece nu litre nghe ddotre papatìlle ... quist’anne fa nu fradde che fa ‘rbevi’ li ‘nguille.” “...per la strada, la gente va contenta: - Auguri mastro Antonio... mannaggia che nevicata! facciamoci un litro con due o tre pepatelli ... quest’anno fa un freddo che fa tornare in vita le anguille.” Da Il Natale di Alfonso Sardella 115 il sud - BASILICATA (26) ciambotta Lavo le melanzane e le taglio in orizzontale a fette di un cm, poi le spolvero di sale e le lascio spurgare per un’oretta dentro il colapasta (perderanno un po’ di acqua di vegetazione e assorbiranno meno olio in frittura). Lavo i peperoni e li taglio a strisce eliminando i semi e le nervature chiare. Sbuccio le patate, le taglio a tocchetti e le tengo in attesa immerse nell’acqua. Incido i pomodori alla base con un taglio a croce, li tuffo per pochi secondi in acqua in ebollizione e poi li passo nell’acqua fredda, li spello e li tagliuzzo eliminando i semi. Metto sul fuoco la padella con abbondante olio. Sciacquo le melanzane e le strizzo dentro un panno e, quando l’olio è ben caldo, le friggo fino a leggera doratura, poi le scolo e nello stesso olio friggo prima le patate, ben asciugate, e poi i peperoni. Via via che le scolo, passo le verdure su un doppio foglio di carta da cucina. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 2 grossi peperoni carnosi 300 g di melanzane scure 300 g di patate a polpa gialla 300 g di pomodori da salsa ben maturi 2 spicchi d’aglio basilico sale Per friggere olio d’oliva 116 Raccolgo i pomodori in una padella con 2 ciuffi di basilico e gli spicchi d’aglio schiacciati, poi metto la padella sul fuoco e dopo qualche minuto aggiungo tutte le verdure fritte. Salo e faccio cuocere la ciambotta, a fuoco dolcissimo, per una mezz’ora, mescolando delicatamente ogni tanto. Preparo la ciambotta solo in estate inoltrata quando melanzane, peperoni e pomodori maturati al sole sono in piena stagione, e li friggo con un buon olio d’oliva saporito, e allora questa semplice preparazione diventa uno straordinario piatto unico da accompagnare con fette di pane casereccio. il sud - BASILICATA Peperoni, melanzane e patate fritti la lucana Eccolo qui il piatto simbolo di una delle regioni più povere del nostro Paese, la Lucania o Basilicata. Piatto poverissimo fatto con patate, peperoni, pomodori, melanzane, cipolle e zucchine, una sorta di stufato di verdure di solito accompagnato da pezzetti di pane, un vero trionfo di orti mediterranei. In Lucania ne esiste anche una versione più antica e più hard, eredità dei pastori di questa regione. Peperoni, melanzane e pomodorini venivano soffritti insieme a cipolla, salsicce e uova, questo corposo piatto era poi messo dentro a un panello a cui era stata levata la mollica, di modo da poter essere portato al pascolo e consumato insieme a un buon bicchiere di vino rosso. Ancora oggi questa ciambotta la troviamo in alcuni paesi, da San Costantino Albanese, a Terranova del Pollino, a Noepoli. Sempre lucana è poi la ciauledda, una ciambotta a cui vengono aggiunti fagiolini verdi. c’è ciambotta e ciambotta Non solo in Lucania si mangia la ciambotta, si tratta infatti di un piatto comune a tutte le regioni dell’Italia meridionale, con qualche differenza. C’è la ciambotta cilentina, della zona intorno a Benevento, fatta con le zucchine, le foglie della bietola, i fagiolini e le patate. Quella napoletana, la cianfotta, piatto apparentato alla ratatouille francese, di cui è probabilmente un adattamento voluto dai monsù, i cuochi francesi delle case aristocratiche napoletane. La si mangia di solito come accompagnamento del lesso freddo. Anch’essa a base di pomodori, melanzane, peperoni, zucchine, patate e cipolle fatte stufare in olio e sugna, per un’ora abbondante e a fuoco lento. Alla fine la si cosparge con basilico, prezzemolo e origano. Il segreto è farla intiepidire a lungo, ancora meglio farla raffreddare completamente prima di mangiarla, in modo che tutti i sapori e i profumi dell’orto si fondano nel piatto. Basilico 118 (26) ciambotta la ciambotta pugliese Discorso a parte merita invece la ciambotta pugliese. In questa regione infatti la ciambotta la fanno con il pesce. Non esiste di questo piatto una ricetta codificata perché ogni famiglia ha la sua. È uno di quei piatti di “recupero”, un piatto povero dei pescatori che buttavano insieme nella pentola tanti tipi di pesce e frutti di mare, poi ci aggiungevano un peperone verde, pomodori e acqua di mare. Et voilà la ciambotta pugliese, che ben racconta il felice incontro di tanti pesci poco pregiati, quelli che i pescatori non riuscivano a vendere al mercato. Oggi naturalmente la ciambotta pugliese si è raffinata: non più pescetti di scarto ma triglie, seppie, coda di rospo, scorfani, cicale, polpi, cannolicchi, dentici, gronchi, calamaretti, vongole e cozze. Un piatto ricco e saporitissimo. Da accompagnare con pane fresco del Gargano o di Altamura. Baccalà ammollato Uvetta baccalà alla potentina Metto ad ammollare una manciata di uvetta e sciacquo bene una cucchiaiata di capperi sotto sale. Affetto sottili 2 belle cipolle e le faccio ben appassire in un tegame con 3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva. Le salo e le faccio cuocere a fuoco dolce per almeno 20 minuti, mescolando spesso e controllando che non prendano colore. Intanto ripulisco dalle spine un chilo di baccalà ammollato e lo taglio a pezzi piccoli senza eliminare la pelle. Quando le cipolle sono pronte, metto nel tegame 300 g di pelati sminuzzati, insaporisco con una macinata di pepe, rialzo la fiamma e faccio cuocere la salsa per qualche minuto prima di unire il baccalà, i capperi, l’uvetta, strizzata e asciugata, e 100 g di olive nere dolci. Metto il coperchio e faccio cuocere dolcemente per 10-15 minuti. Servo la preparazione nello stesso recipiente di cottura. 119 il sud - CAMPANIA (27) polpetielli affogati Per pulire i polpi rovescio la sacca e la svuoto, poi con la punta di un coltellino tolgo gli occhi e il becco al centro dei tentacoli. Li lavo sotto il getto dell’acqua e li lascio ben sgocciolare. Dopo averli incisi a croce alla base, tuffo i pomodori per pochi secondi nell’acqua in ebollizione, poi li passo nell’acqua fredda, li pelo e li spezzetto eliminando i semi. Sistemo i polpi in una casseruola a fondo pesante e unisco l’olio, i pomodori, gli spicchi d’aglio spellati e schiacciati, due prese di sale e il peperoncino sminuzzato. Tappo la casseruola prima con un doppio foglio di carta paglia, poi con il coperchio con sopra un peso, in modo che durante la cottura non esca nemmeno un filo di vapore. Metto la casseruola sul fuoco con la fiamma regolata al minimo e lascio cuocere i polpi per un’ora scarsa, senza mai scoprire la casseruola. A fine cottura si sarà formato molto sugo scuro e liquido, tiro su i polpi e faccio restringere il sugo a fuoco vivace e senza coperchio, poi rimetto i polpi nella casseruola e li servo spolverati di prezzemolo tritato. INGREDIENTI PER 4-5 PERSONE un kg di piccoli polpi veraci 800 g di pomodori ben maturi 3-4 cucchiai d’olio extravergine d’oliva 2 spicchi d’aglio prezzemolo un peperoncino sale 120 Il sugo emesso dai polpi cucinati in questo modo è molto saporito e profumato e mi piace usarlo per bagnare delle fette di pane casereccio leggermente tostate e agliate, perfette per accompagnare i polpi. Ottimo questo sugo, debitamente ristretto, anche per condire un piatto di spaghetti. il sud - CAMPANIA il polpo Meno male che il polpo è un mollusco curioso. Perché altrimenti non si riuscirebbe mai a catturarlo. Un po’ perché ama vivere su fondi sabbiosi dove si mimetizza alla perfezione o rintanato in anfratti rocciosi, un po’ perché è un animale timido e solitario, che non ama le compagnie, e un po’ perché quando viene avvicinato schizza fuori il suo inconfondibile liquido nero che lo nasconde alla nostra vista. Il suo nome ha origini greche, da polys, molto e pòus, piede, e quindi “dai molti piedi”. Molte sono le sue stranezze, la più eclatante è quella di avere tre cuori. L’altra è quella di sacrificarsi per amore, difatti i maschi muoiono dopo l’accoppiamento e le femmine dopo aver deposto le uova. i nomi del polpo Peperoncini 122 Gli italiani di mare amano i loro polpi e li chiamano in mille modi: in Abruzzo sono i fulbi, in Emilia-Romagna i fèulp, in Friuli-Venezia Giulia i folpi-tòdari, in Liguria purpi, in Veneto forpi toti, in Toscana porpi di scoglio, nelle Marche folpi, nel Lazio mangiano i porpi de scojo, in Campania i purpi veraci, in Calabria sono ghiotti di pruppi, in Puglia di vurpe, in Sicilia di puppi, in Sardegna di pruppuèru. (27) fai così lo sapevate che? 1 A meno che non si preferisca spellare i polpi, operazione davvero noiosa e impegnativa, è necessario pulire molto bene la loro pelle, rivestita da un muco vischioso veramente tenace. Una volta svuotati, occorre quindi tenerli sotto il getto dell’acqua passandoli contemporaneamente con una spugnetta abrasiva (nuova!), ma facendo attenzione a non staccare i tentacoli. 2 Si chiamano “veraci” i polpi di scoglio che si distinguono dagli altri non solo per il sapore e il profumo, decisamente superiori, ma anche per l’aspetto: hanno infatti una doppia fila di ventose sui tentacoli. Siete pescatori? E allora se volete pescare cernie, murene, dentici e gronghi, usate come esca piccoli pezzetti di polpo. o purp’ se coce dint’ all’acqua soja Ovvero “il polpo si cuoce nella sua acqua”, recita un proverbio napoletano. È vero che durante la cottura il polpo emette la sua acqua e non ha quindi bisogno di aggiunte di liquidi ma il proverbio, oltre al suggerimento culinario, sta a significare che è inutile sprecare parole con chi non vuol capire. Chi ha sbagliato, deve meditare per rendersi conto da solo del suo errore. Pomodori ben maturi polpetielli affogati dicono di lui “Vi sono molte specie di polipi. Quelli di terra sono più grandi di quelli di mare. Si servono di tutti i loro tentacoli come di piedi e di mani; della coda, invece, che è bifida e appuntita, si servono nel coito... Soli tra i molluschi escono all’asciutto, purché sia scabro; odiano le cose levigate... E mentre negli altri aspetti è considerato un animale sciocco, al punto di nuotare verso la mano dell’uomo, esso è versato, in certo modo, nelle faccende domestiche. Porta tutto in casa, quindi getta fuori i gusci dopo aver roso la carne, e dà la caccia ai pesciolini che nuotano verso quei gusci... che i suoi tentacoli gli rinascano, come la coda al ramarro picchiettato e alla lucertola, non è falso.” Da Storia Naturale di Plinio il Vecchio “Lo sai che io mangio solo polpi tre volte al giorno? Beh quei polpi schifosi incominciano a uscirmi dalle orecchie!!” Al Pacino nel film Scarface 123 il sud - CAMPANIA (28) zeppole di san giuseppe Verso l’acqua in una piccola casseruola a fondo pesante, unisco un pizzico di sale e il burro a pezzettini e metto la casseruola sul fuoco. Intanto setaccio la farina. Quando l’acqua comincia a bollire e il burro è completamente fuso, verso la farina tutta insieme nella casseruola e contemporaneamente mescolo con il cucchiaio di legno. 6 DVD Regolo la fiamma a metà e lavoro energicamente il composto, senza interruzione, fino a quando si stacca dalle pareti della casseruola raccogliendosi a palla e facendo un leggero rumore come se friggesse (circa 10 minuti). INGREDIENTI PER 12 ZEPPOLE 125 ml di acqua 70 g di farina 00 2 uova 50 g di burro 1/2 cucchiaio di zucchero sale Per la crema pasticcera 250 ml di latte 60 g di zucchero 40 g di farina 2 tuorli la scorza di 1/2 limone non trattato amarene sciroppate Per friggere olio di arachide 124 A questo punto ritiro la casseruola dal fuoco e aggiungo al composto lo zucchero e un uovo, sbattendo vigorosamente per 2-3 minuti prima di unire l’altro uovo (faccio questa operazione con la frusta elettrica montata con i ganci). Continuo a sbattere fino a quando l’impasto non è perfettamente omogeneo, liscio e leggero. Lascio raffreddare e riposare la pasta e intanto preparo la crema pasticcera . * Trasferisco la pasta in un sac à poche con la bocchetta spizzata da un cm. Preparo dei quadratini di cartaforno e “disegno” su ognuno una piccola ciambella. Metto sul fuoco una casseruola con olio molto abbondante (almeno 3 dita) e, quando è moderatamente caldo (160°), prendo un quadratino da un angolo e lo tuffo capovolto nell’olio: la ciambellina si stacca immediatamente e ritiro la carta. Metto nella casseruola con lo stesso metodo 3 zeppole e, quando sono belle gonfie, rialzo la fiamma e le faccio colorire dalle due parti. Le sgocciolo e le passo su un doppio foglio di carta da cucina. Quando sono tutte pronte, spolvero le zeppole con lo zucchero a velo e le guarnisco al centro con un ciuffo di crema e 2 amarene sciroppate. il sud - CAMPANIA lo sapevate che? Zi’ Paolo è il nome con cui i partenopei chiamano il friggitore napoletano che per primo avrebbe inventato la zeppola. Zeppola in dialetto napoletano sta anche ad indicare l’ernia inguinale, insieme a paposcia, ’ntoscia, mellunciello e aguallera. E questo perché la zeppola quando la butti nell’olio bollente si gonfia, proprio come un’ernia. Le ciambelle di pasta prima della frittura la storia la lingua delle zeppole Le zeppole sono buone, e su questo sono d’accordo tutti. Non c’è invece accordo sulle origini del termine zeppola. Qualcuno dice che il nome venga da serpula, serpe in latino, e questo perché originariamente la zeppola aveva la forma di un serpente acciambellato. O ancora che si tratti di un derivato di cippus, zeppa in latino, insomma pezzetto di legno così come questi dolcetti assomigliano a trucioli gonfiati. C’è poi chi parla di saeptula, sempre dal latino saepio, che starebbe per cingere, che ricorderebbe la forma circolare del dolcetto. E infine quelli che credono si tratti invece di cymbala, una barca da fiume, con la chiglia piatta e la prua arrotondata, a ciambellina. Il nome sarebbe poi cambiato in zippula e quindi zeppola. 126 Eccoli qui i dolci fritti più amati dell’Italia meridionale, quelli che non possono mai mancare per la Festa del papà, il 19 marzo. L’origine è antica, il 17 marzo infatti a Roma si celebravano i Liberalia, feste per celebrare e onorare gli dei del vino e del grano, quindi si beveva e si friggevano frittelle di frumento. La leggenda vuole invece che durante la fuga in Egitto la Sacra Famiglia avesse fame, e così San Giuseppe, che evidentemente in fatto di dolci se ne intendeva, si mise a friggere piccoli bignè, e per questo ancora oggi noi li mangiamo per la Festa del papà. A Napoli le zeppole sono di casa, tanto che una volta i frittellari le friggevano in strada, davanti alle loro botteghe. Sembra che a inventarle siano state le suore del convento di San Gregorio Armeno, ma c’è invece chi sostiene che siano state le monache della Croce di Lucca o quelle dello Splendore. Per arrivare però alla prima ricetta codificata delle zeppole bisogna aspettare il 1837, Ippolito Cavalcanti e il suo trattato di cucina. (28) zeppole di san giuseppe la poesia “È la zeppola dolce, squisita, da gustare in un giorno di festa, rende un poco migliore la vita: la magia quotidiana è anche questa. È un miracolo lieve, leggero; una semplice, morbida cosa, che anche al giorno più cupo e più nero dà una piccola mano di rosa”. Filastrocca popolare zeppole siciliane Anche la Sicilia, come molte regioni del CentroSud, ha le sue zeppole, che sono però differenti da quelle napoletane, sia come forma che come sostanza. Le zeppole siciliane sono confezionate con riso, farina, miele d’arancio e zucchero a velo. Sono dei cilindretti di circa sei, otto centimetri che sono fritti nell’olio bollente e poi spolverizzati di cannella. Casseruola con cestello per friggere * crema pasticcera Faccio bollire il latte con due belle scorze di limone e lascio intiepidire. Lavoro i tuorli con lo zucchero e di seguito unisco la farina. Continuando a mescolare, unisco a filo il latte tiepido e infine faccio cuocere dolcemente la crema per circa 5 minuti, fino a che si addensa. La verso in una terrina e la lascio raffreddare e, per evitare che in superficie si formi la pellicina, ci faccio aderire un foglio di pellicola. Quando è fredda la trasferisco in un sac à poche con la bocchetta spizzata. 127 il sud - PUGLIA (29) fave e cicoria Sciacquo le fave e le verso in una casseruola a fondo pesante (ideale una di terracotta). Unisco la patata, sbucciata, sciacquata e tagliata a grossi dadi, e copro di acqua fredda che sopravanzi di un dito. Metto la casseruola sul fuoco e contemporaneamente faccio scaldare altra acqua. Quando inizia l’ebollizione nella casseruola con le fave, abbasso la fiamma al minimo e faccio cuocere per pochi minuti senza mescolare. A questo punto si sarà formata molta schiuma: scolo dunque l’acqua dalla casseruola e la sostituisco con altrettanta bollente. Unisco una bella presa di sale, metto il coperchio e la reticella rompifiamma, e proseguo la cottura a fuoco dolce, senza mai mescolare, per circa 2 ore, fino a quando le fave saranno tenerissime e quasi sfatte. Mentre le fave cuociono, pulisco la cicoria e la lavo più volte in acqua corrente, poi la faccio cuocere al dente in acqua salata molto abbondante. La scolo tirandola su con la schiumarola, così che qualche eventuale granello residuo di terra rimanga sul fondo della pentola. Quando le fave sono pronte, aggiungo una bella macinata di pepe e 3 o 4 cucchiai d’olio e batto energicamente con il cucchiaio di legno in modo da trasformare fave e patata in una purea densa e un po’ granulosa. La distribuisco caldissima nei piatti con al centro la verdura condita con un filo d’olio. INGREDIENTI PER 5 PERSONE 300 g di fave secche decorticate una bella patata 500 g di cicoria selvatica olio extravergine d’oliva saporito sale 128 Per gustarla al meglio, si passa una forchettata di cicoria dentro la purea di fave e si arrotola come fossero spaghetti: il gusto amarognolo della cicoria si arricchisce così della dolce pastosità della purea di fave, con un risultato veramente ottimo. il sud - PUGLIA la storia l’erba del sole Una leggenda rumena racconta che il Sole chiese in sposa una bella fanciulla, tale Domna Floridor, ovvero Donna dei Fiori. Ma la signorina del Sole proprio non voleva saperne. Il Sole ci rimase male e la trasformò in un fiore di cicoria, condannandola a fissare l’astro dal momento in cui sorgeva all’orizzonte, e a chiudere tristemente i suoi petali quando il sole andava a dormire. Ancora oggi la cicoria si apre all’alba e si chiude al tramonto. Non a caso il botanico tedesco Conrad von Megenberg la chiamò sponsa solis, sposa del sole. A confermare il suo destino di pianta amata dal sole è l’usanza di coglierla con attenzioni particolari se una fanciulla vuole legare a sé per sempre l’uomo che ama. Non si deve mai sradicarla con le mani, ma usare un corno di cervo o una moneta d’oro, che stanno a simboleggiare i raggi e il disco del sole, e bisogna farlo il 29 giugno, giorno di San Pietro e Paolo. La solare cicoria infatti fa in modo che chi la porta faccia conoscere per magia le sue buone qualità all’uomo o alla donna che ama, e la radice invece rende invisibili, toglie le spine dalla pelle e spezza magicamente ogni legame. 130 Fave e cicoria, o anche fave e foglie, ovvero l’incapriata. Vale a dire uno dei piatti più celebrati della cucina pugliese. Piatto poverissimo, legato a quanto di più semplice e reperibile offriva la terra: la cicoria selvatica e le umili fave. Il nome stesso incapriata racconta le origini antiche di questo piatto, dal tardo latino e bizantino caporidia, che a sua volta deriva dal greco antico kapyridia, cioè polenta di farinacei. Lo stesso Aristofane ne parla nella commedia Le Rane, narrando che Ercole, figlio di Giove, particolarmente amante di questo piatto, ne fece una grande scorpacciata che gli permise poi di “accontentare” più di diecimila giovani vergini. Da cui si deduce l’alto valore energetico della ricetta! Cicoria (29) fave e cicoria fave tricolori Cibo, le fave, da sempre apprezzate su tutto il suolo italico, e ognuno le chiama come vuole, così sono faév’ in Abruzzo, fefa in Calabria, faa nelle Marche, fèva in Emilia e Romagna, bazanna in Liguria, fava d’ungulu in Puglia, diventano poi fae in Sardegna, faviani in Sicilia, baccelli in Toscana, scafi in Umbria e vungul in Campania. Ma sempre di fave si tratta. fave e... Fave secche decorticate Piatto povero per eccellenza, le fave rappresentavano fino a non molti anni fa la base dell’alimentazione delle classi meno privilegiate, simbolo di una condizione sociale, quella dei contadini pugliesi, al limite della sopravvivenza. Mentre ai nostri giorni, con la rivalutazione della dieta mediterranea e la riscoperta della cucina povera, sono considerate quasi una ricercatezza gastronomica. Ma chi doveva mangiarne tutti i giorni, da un anno all’altro, a pranzo e a cena, aveva l’esigenza di arricchire e di variare almeno il contorno. E quindi è rimasta l’abitudine di accompagnare il purè di fave anche con cime di rapa stufate, insalate di erbe campestri, melanzane e peperoni fritti, olive, pomodori in insalata, uva fresca, secondo la stagione e la disponibilità. dicono di loro “Se nella pentola rossa Ti spumeggiasse la fava biancastra, sai che potresti rifiutare la cena dei ricchi?” Epigramma XIII di Marziale “Era il periodo delle fave. Stavo finendo un lungo pranzo nel quale il piatto principale era stato questo straordinario vegetale che tanto somiglia ad un prepuzio. I catalani hanno una maniera di condire le fave che fanno di queste uno dei miei piatti preferiti. Per ottenerlo si devono cucinare con prosciutto e botifarra e il segreto risiede nell’aggiungervi alcune foglioline di lauro e un po’ di cioccolato”. Da La vita segreta di Salvador Dalí Olio extravergine d’oliva 131 il sud - CALABRIA (30) pitta ripiena Sbriciolo il lievito in una ciotolina e lo diluisco con 260 ml di acqua appena tiepida. Setaccio la farina sulla spianatoia, faccio la fontana e ci verso il lievito. Impasto per qualche minuto e, quando la pasta ha preso corpo, aggiungo un cucchiaino di sale e continuo a impastare ancora un po’, poi formo una palla e la sistemo in una ciotola infarinata. Copro con un panno umido piegato in quattro e faccio lievitare la pasta fino al raddoppio. INGREDIENTI PER 6 PERSONE Per la pasta 500 g di farina 0 15 g di lievito di birra fresco sale Per il ripieno 2 peperoni verdi 300 g di pomodori maturi 150 g di provola appassita 6 filetti di acciuga un cucchiaio di capperi sotto sale una manciata di olive nere snocciolate una bella cipolla rossa olio extravergine d’oliva origano peperoncino sale 132 Lavo i peperoni, li divido a metà e li taglio a strisce eliminando i semi e le nervature chiare. Lavo e spezzetto anche i pomodori eliminando i semi e affetto sottilmente la cipolla. Scaldo 4 cucchiai d’olio in una padella ampia e faccio appassire dolcemente la cipolla. Quando è trasparente unisco i pomodori e i peperoni, rialzo la fiamma, salo e faccio cuocere a fuoco vivace per circa 10 minuti (le verdure dovranno essere quasi asciutte). Verso le verdure in una terrina e lascio raffreddare. Sciacquo e asciugo i capperi e li unisco alle verdure. Unisco anche le olive, il peperoncino sminuzzato e una presa di origano e mescolo bene. Divido la pasta in due parti disuguali e, senza più lavorarla, la appiattisco con le mani per ottenere due dischi irregolari di circa 1/2 cm. Fodero con la cartaforno una teglia da 24 cm e rivesto fondo e pareti con il disco più grande. Verso le verdure e le cospargo con i dadini di formaggio e i filetti di acciuga spezzettati. Copro il ripieno con l’altro disco di pasta rivoltando l’orlo verso il centro per formare un cordoncino. Accendo il forno regolando il termostato a 200° e faccio lievitare la pitta per una ventina di minuti, il tempo che il forno arrivi a temperatura. Prima di infornarla, la pennello con un’emulsione di acqua e olio (2 cucchiai di ognuno). La faccio cuocere per circa tre quarti d’ora e la lascio riposare per qualche minuto prima di tagliarla a fette. il sud - CALABRIA pitta e morzello Il modo preferito dei calabresi di mangiare la pitta è con il morzello o meglio u’ morzeddhu come dicono da quelle parti. È un piatto tipico della zona intorno a Catanzaro, tra Tiriolo e Taverna, anche se il suo nome deriva dallo spagnolo almuerzo. Si tratta di interiora di vitello cotte nel sugo di pomodoro, a cui si aggiungono peperoni e peperoncini piccanti, quali sono quelli calabresi. La leggenda vuole che la nascita di questa ricetta sia opera di una povera donna, tale Chicchina, restata vedova e senza un soldo. Chicchina aveva i figli da mantenere e allora si prestò a fare lavori umilissimi. Nel periodo di Natale, mentre stava pulendo il cortile del macello per raccogliere le frattaglie e portarle alla discarica della Fiumarella, si arrovellava disperata su cosa preparare ai bambini per il pranzo di Natale. Decise così di raccogliere le interiora, lavarle e farne una zuppa. Era nato il morzello. E da allora i calabresi non hanno mai smesso di mangiarlo. Caldo, freddo, da solo o nella pitta, perché il morzello, come suggerisce la parola stessa, va rigorosamente mangiato a morsi. 134 Il ripieno della pitta una pitta per ogni stagione Pitta: parola che, almeno in Calabria, nasconde un universo. Si tratta, per semplificare, di una focaccia, una pizza ripiena. Ma la ricchezza sta tutta nei ripieni che cambiano di zona in zona. Ricette antiche quanto la Calabria stessa e che non mancano mai nelle tante sagre estive che si tengono in ogni paese di questa regione. C’è per esempio la pitta chicculiata, arricchita con peperoni piccanti, acciughe sottosale, pomodori e olio. E poi la pitta maniata: chiusa, imbottita con parti di maiale, salsicce, provola, uova sode e ricotta. Non a caso si mangia l’ultimo giorno di Carnevale, quando si ammazza il maiale. Origano (30) pitta ripiena pitta ’impigliata Non solo salate le pitte, esistono anche quelle dolci, come la pitta ’mpigliata, una focaccia, tipica della zona di San Giovanni in Fiore, che si mangia, e a testimoniarlo sono atti notarili del 1700, soprattutto nei matrimoni e durante le feste natalizie. È per l’appunto una pitta ’mpigliata, vale a dire arrotolata e rinchiusa su se stessa. Di base è un dolce ripieno di frutta secca, ma conosce molte variazioni, per esempio di volta in volta cambia il tipo di miele con cui viene dolcificata e c’è chi nell’impasto al posto del Cognac usa il Vermouth. Importante è che mantenga sempre la sua forma di pitta, vale a dire piatta e rotonda. A San Giovanni in Fiore poi, ogni anno si celebra la festa di questo dolce silano, durante la quale si stabilisce il record della pitta ’mpigliata più lunga del mondo. Capperi sotto sale Filetti di acciuga la ’nduja Una delizia gastronomica a metà tra salsiccia e salame spalmabile: piccantissima, tipicamente calabrese, la sua patria d’origine è Spilinga, vicino a Vibo Valentia. Sembra che a portarcela siano stati gli spagnoli, però il nome ha origine francese, da andouille, una salsiccia d’Oltralpe, il che farebbe pensare che il merito potrebbe essere stato invece di Gioacchino Murat, Vicerè di Napoli nonché cognato di Napoleone. È piatto povero, a base di scarti di maiale, testa, muscoli, linfonodi, faringe, milza, intestino, trachea, esofago, polmoni, retrobocca e intestini, lavorati con piccantissimo peperoncino e conservati nell’orba, il budello cieco, e poi affumicata. Ottima spalmata sul pane, nelle frittate, sopra la pizza e addirittura squisita nella pitta. 135 il sud - CALABRIA (31) polpette di melanzane Sbuccio le melanzane e le taglio a grossi dadi, poi le scotto per 5 minuti in acqua salata in ebollizione. Le scolo e le lascio raffreddare dentro il colapasta. A questo punto le strizzo forte fra le mani per asciugarle il più possibile e le raccolgo in una terrina con le uova intere, la mollica di pane frullata, il pecorino, un cucchiaino di prezzemolo tritato, una macinata di pepe e lo spicchio d’aglio grattugiato. 6 DVD Mescolo bene impastando con le mani, poi copro la terrina con la pellicola e faccio riposare il composto per una mezz’ora. Taglio il caciocavallo a dadini. Trascorsa la mezz’ora, mi ungo leggermente le mani con un filo d’olio e, prendendo un po’ di composto alla volta con un cucchiaio, modello delle polpette ovali delle dimensioni di un’albicocca e introduco all’interno un dadino di caciocavallo . * INGREDIENTI PER 4-6 PERSONE 6-700 g di melanzane estive scure 50 g di mollica di pane raffermo 2 uova 2 cucchiai di pecorino dolce grattugiato 100 g di caciocavallo fresco uno spicchio d’aglio prezzemolo sale e pepe Per friggere olio d’oliva una manciata di pangrattato 136 Quando sono tutte pronte, rotolo le polpette nel pangrattato e le friggo, poche alla volta, in abbondante olio ben caldo (170°). Dopo 3 o 4 minuti, quando sono dorate, le scolo e le passo su un doppio foglio di carta da cucina. Le faccio leggermente intiepidire prima di servirle spolverate di sale. il sud - CALABRIA dell’origine delle polpette Le polpette, si sa, possono essere confezionate con ogni tipo di ingrediente: carne, pesce, formaggi, verdure, il limite è solo la fantasia della cuoca. Ma quando sono apparse per la prima volta queste piccole delizie culinarie che, quando sono buone, davvero allietano i nostri deschi? Scartabellando tra libri di cucina scopriamo che fino al 1300 la parola polpetta non viene mai nominata. Eccola invece apparire, come per magia, nel XV secolo, nel Libro de arte coquinaria, del celebre Maestro Martino, allora cuoco del Camerlengo Patriarca di Aquileia. Ed ecco come il maestro le racconta: “Per fare polpette di carne de vitello e de altra bona carne, in prima togli de la carne magra de la cossa et tagliala in fette longhe et sottili et battile bene sopra un tagliero o tavola con la costa del coltello, et togli sale et finocchio pesto et ponilo sopra la ditta fetta di carne. Dapoi togli de petrosimolo, maiorana et de bon lardo et batti queste cose insieme con un poche de bone spetie, et distendile bene queste cose in la dicta fetta. Dapoi involtela et polla nel speto accocere. Ma non la lassare troppo seccar al focho”. A noi veramente più che polpette sembrano involtini allo spiedo, ma tant’è, la parola era stata messa nero su bianco, e la polpetta era nata. Caciocavallo 138 modi di dire Non solo cibo, quando si parla di polpette si allude spesso a tanti, e in parte inquietanti, aspetti della nostra vita. Che dire per esempio della frase “ti faccio a polpette” quando vogliamo minacciare qualcuno, o quando invece, magari in una gara sportiva, lo abbiamo stravinto, annientato? E ancora, “gli ho dato una polpetta avvelenata” che nasconde un tentativo di eliminare un avversario con modi non proprio onesti, nascondendo cioè i veri intenti cosicché il malcapitato abbocchi credendo di trovare un tesoro, per poi stramazzare al suolo come un uomo finito. Per non parlare poi di polpettone, una parola dispregiativa che vuole descrivere un’opera (film, libro...) davvero noiosa, pesante al punto da non essere digerita, come certi polpettoni che non vanno né su né giù. (31) polpette di melanzane la polpetta Da dove viene il nome di una delle più classiche preparazioni della nostra cucina? C’è chi sostiene che la parola venga dal francese paupière, cioè palpebra e la spiegazione che viene data per questo nome è che quando si preparano le polpette le mani fanno un movimento assai simile a quello delle palpebre quando si aprono e si chiudono. Francamente ci sembra un ragionamento un tantino azzardato e confuso. Più facile invece che il termine derivi da polpa, quella che per l’appunto viene usata per preparare le polpette di carne. Di certo i calabresi con le polpette hanno gran dimestichezza e a testimoniarlo sono anche i modi di dire che alludono a questo piatto. Chi fa politica in provincia di Cosenza lo sa, la purpetta è quella che viene promessa in periodo elettorale; una sorta di merce di scambio. E c’è anche la purpetta con elastico, quelle promesse che, sempre in periodo elettorale, vengono fatte e mai mantenute dopo le elezioni. La polpetta con le melanzane invece, quella vera, è tipica della zona intorno a Cetraro, qui le chiamano pitticelli, mentre le melanzane, nel dialetto locale sono le milingiane. * Farcire le polpette con un dadino di caciocavallo melanzane calabresi Sarà il sole, che nella regione picchia forte per molti mesi, sarà il terreno, sarà che i calabresi le sanno cucinare come si deve, certo è che le melanzane in Calabria hanno tutto un altro sapore. E infatti sono alla base di numerose preparazioni tipiche di grande sapore. Ma dove si scopre l’unicità di questa verdura è nell’insalata, preparata con dadi di melanzane lessati e conditi con olio, aceto, sale, origano e peperoncino. È impensabile allestire questa insalata con delle melanzane nordiche, magari cresciute in serra, ma mangiarla in piena estate in Calabria è una meraviglia. 139 le isole minestra di tenerumi - SICILIA pasta alla norma - SICILIA minestra di fregola con le arselle seadas - SARDEGNA SARDEGNA le isole - SICILIA (32) minestra di tenerumi Stacco l’estremità dei tenerumi sotto le prime due foglioline e le metto da parte. Delle altre foglie, scelgo le più tenere che sfilo con cura (butto i gambi). Lavo foglie e germogli molto bene dopo averli tenuti per un po’ a bagno, per rimuovere ogni traccia di terra. Li sgocciolo e li taglio grossolanamente. Dopo averli incisi alla base con un taglio a croce, tuffo i pomodori in acqua in ebollizione, li passo nell’acqua fredda, poi li pelo e li spezzetto eliminando i semi. Scaldo l’olio in una padella e faccio soffriggere dolcemente gli spicchi d’aglio a fettine. Quando hanno preso un leggero colore, unisco i pomodori e un ciuffo di basilico, insaporisco con sale e pepe, rialzo la fiamma e faccio cuocere per 5-6 minuti. Metto sul fuoco una casseruola con un litro abbondante di acqua e, quando inizia l’ebollizione, aggiungo una bella presa di sale e i tenerumi, che faccio cuocere per 5 minuti prima di unire gli spaghetti. Quando la pasta è cotta, elimino se necessario parte dell’acqua e verso nella casseruola il sugo di pomodoro. Mescolo, assaggio per regolare in sale e, dopo un paio di minuti, la minestra è pronta. La servo tiepida. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 2 mazzi di tenerumi (500 g circa) 250 g di spaghetti spezzettati 400 g di pomodori ben maturi 2 spicchi d’aglio basilico 3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva sale e pepe 100 g di caciocavallo 142 È una preparazione di una semplicità francescana ma veramente molto buona e rinfrescante e che, a fine cottura, può essere arricchita con caciocavallo tagliato a dadini. le isole - SICILIA Tenerumi come e dove mangiarli Chi li conosce li ama. Ma sono in pochi a conoscerli e quei pochi sono soprattutto siciliani. Tenerumi sta per tenerezze, perché teneri sono per l’appunto questi germogli di zucche molto particolari, le lagenarie. In alcuni paesi dell’entroterra siciliano li chiamano càddi di cucùzza e nel ragusano ne fanno una specie di passata, mentre nel palermitano li cucinano in tanti modi diversi, sbizzarrendo la fantasia. Sono tutte comunque preparazioni leggere, rinfrescanti e facili da digerire, tanto che nel dialetto siciliano si dice manciàri pasta chi tinnirùma per significare che si è mangiato un piatto povero, fatto di niente. In Campania invece, nel casertano, questi germogli li chiamano talli di zucca, e con loro si prepara un riso, soffriggendoli con aglio, olio e peperoncino e aggiungendo alla fine del buon pecorino grattugiato. Quando li cuciniamo i tenerumi sembrano delle pezze, perché lavandole e cuocendole tirano fuori una specie di schiumetta. Non spaventatevi però, perché la minestra fatta con loro è davvero buonissima! 144 i tenerumi Sono i germogli più teneri di quella che in Sicilia si chiama “zucca serpente” (Lagenaria longissima) per via dei suoi frutti lunghi e sottili che, in piena maturazione possono arrivare fino a 2 metri di lunghezza. Proprio per la caratteristica di queste zucchine, viene spesso coltivata facendola arrampicare su spalliere in modo che i frutti crescano belli dritti. I tenerumi sono buonissimi anche semplicemente lessati e conditi con olio, sale e pepe. (32) minestra di tenerumi pasta con i tenerumi Non solo minestra: con i tenerumi si prepara anche un ottimo condimento per la pasta. Dopo averli puliti, li faccio bollire per 7-8 minuti in abbondante acqua salata, poi li scolo conservando l’acqua di cottura. Affetto sottilmente una cipolla e la faccio imbiondire dolcemente in olio extravergine d’oliva, con un pezzetto di peperoncino e qualche filetto di acciuga. Metto a cuocere la pasta (fusilli) nell’acqua della verdura, la scolo molto al dente e la finisco di cuocere nella padella con il soffritto e i tenerumi lessati unendo un paio di mestoli dell’acqua di cottura. È squisita. È un piatto rusticissimo per il quale non occorrono dosi, si va a occhio con i tenerumi che si hanno a disposizione. la zucca siciliana Pomodori maturi La lagenaria, detta anche zucca a pergola, oggi è coltivata quasi solo per uso decorativo perché si tratta di un tipo di zucca particolarmente legnosa. Eppure sembra che sia proprio lei, questa zucca lunghissima, la prima zucca conosciuta al mondo. Pare che fosse originaria dell’India e furono gli Etruschi o addirittura i Fenici i primi a coltivarla. Storici e filosofi la amavano molto, Plinio e Discoride la chiamavano “balsamo dei guai, refrigerio della vita umana”. Certo è che i primi usi di questa zucca fossero poco ortodossi, gli Indiani ne facevano sitar, il loro strumento musicale per antonomasia e in Africa occidentale ne facevano casse di risonanza per il balafon, una sorta di xilofono molto in voga da quelle parti. La parola lagenaria viene infatti dal greco lagenos che sta per fiasco. I primi ritrovamenti di questa specie di zucca risalgono a più di 7.000 anni avanti Cristo, nell’Africa tropicale, a sud dell’equatore. Poi ne sono stati trovati esemplari anche nelle tombe egizie e dall’Egitto queste zucche sono passate in Grecia che le considerava l’emblema stesso della resurrezione dalla morte mentre in India e in Cina la lagenaria era l’imperatore dei vegetali, il re del cosmo. 145 le isole - SICILIA (33) pasta alla norma Lavo le melanzane e, senza sbucciarle, le taglio a fette verticali di 1/2 cm. Le spolvero di sale e le faccio spurgare per un’oretta dentro il colapasta. Dopo averli incisi alla base con un taglio a croce, tuffo i pomodori per pochi secondi in acqua in ebollizione, poi li passo nell’acqua fredda, li spello, li privo dei semi e li tagliuzzo. Scaldo 3 cucchiai d’olio in una padella ampia e faccio imbiondire gli spicchi d’aglio schiacciati, poi aggiungo i pomodori e 2 ciuffi di basilico. Insaporisco con sale e pepe e faccio cuocere il sugo, a fuoco vivace, per una decina di minuti. Sciacquo rapidamente le melanzane e le asciugo premendole dentro un panno, poi friggo tre o quattro fette alla volta, in due dita di olio caldo, fino ad averle dorate ma ancora morbide. Le scolo e le passo su un doppio foglio di carta da cucina. INGREDIENTI PER 4 PERSONE 400 g di spaghetti 800 g di pomodori da salsa ben maturi 3 melanzane estive lunghe 2 spicchi d’aglio olio extravergine d’oliva basilico sale e pepe Per completare 120 g di ricotta salata (cacioricotta) grattugiata grossa 146 Mentre friggo le melanzane, faccio cuocere la pasta, la scolo al dente, la verso nella padella con il sugo caldo e, fuori dal fuoco, la cospargo con la metà della ricotta e con qualche foglia di basilico spezzettata. Mescolo bene e distribuisco la pasta nei piatti completando ogni piatto con altra ricotta e con le melanzane fritte. Per gustare in pieno questo piatto, ogni forchettata deve comprendere un po’ di pasta, ricotta, sugo di pomodoro e una striscia di melanzana fritta. le isole - SICILIA la norma Non è certo un piatto complicato la pasta alla Norma: melanzane fritte, salsa di pomodoro, ricotta salata a condire il tutto. Eppure nella sua semplicità, quando è ben fatta si tratta di un piatto perfetto. Ma perché “alla Norma”? Perché sembra sia stata ispirata dalla famosa opera lirica di Vincenzo Bellini. Quello che è certo è che sia la ricetta che il Bellini hanno in comune il luogo di nascita: la città di Catania. Il 26 dicembre 1831 l’opera “Norma” debuttava alla Scala di Milano e neanche a farlo apposta a cantare era il soprano Giuditta Pasta, un nome e un programma. Sulle origini di questo piatto invece c’è un po’ di confusione. Chi sostiene che un cuoco etneo, dopo aver assistito all’opera, commosso ed estasiato inventò questo piatto in suo onore. Chi invece afferma che si chiami Norma solo perché il piatto è fatto per l’appunto a norma, a regola d’arte. Ma i catanesi raccontano un’altra storia. Nei lontani anni Venti del secolo scorso, una sera Nino Martoglio, regista e scrittore della città etnea, andò a cena dall’amico Janu Pandolfini. Saridda D’Urso, moglie del Pandolfini, preparò una pasta con melanzane e pomodoro, talmente squisita che Martoglio non poté fare a meno di esclamare: “Signora Saridda chista è ‘na vera Norma”, paragonando la bontà del piatto all’opera sublime. E oggi non c’è ristorante siciliano che non abbia in menù questa fantastica ricetta. dicono di lei Melanzane lunghe 148 “Perché non resta a mangiare con me?” Montalbano si sentì impallidire lo stomaco. La signora Clementina era buona e cara, ma doveva nutrirsi a semolino e a patate bollite. “Veramente avrei tanto da...”. “Pina, la cammarera, è un’ottima cuoca, mi creda. Oggi ha preparato pasta alla Norma, sa, quella con le milinzane fritte e la ricotta salata”. “Gesù!” Fece Montalbano assettandosi. “E per secondo uno stracotto”. “Gesù!” Ripeté Montalbano. Da Il ladro di merendine di Andrea Camilleri (33) pasta alla norma fai così Ricotta salata (cacioricotta) Per la pasta alla Norma, la tradizione vuole che si presenti con le fette di melanzana fritte, adagiate sugli spaghetti. Ma, per gustarla al meglio, invece di friggere le fette di melanzane intere, provate a tagliarle a lunghe strisce. Sarà molto più semplice arrotolarle attorno alla forchetta insieme agli spaghetti. E poi non mortificate questo grande piatto preparandolo in inverno con le melanzane cresciute in serra: melanzane e pomodori vogliono il sole della piena estate! sicilia a tavola La cucina, quella siciliana, è forse la più ricca e variegata del nostro Paese. Così variegata che è difficile raccontarne le infinite sfumature. Nell’isola infatti tutti coloro che ci sono passati o si sono fermati per tempi più o meno lunghi hanno lasciato il loro segno. Gli Arabi hanno portato le spezie, la cannella, l’anice, il sesamo, lo zafferano, sapori e aromi che arricchiscono e colorano l’indimenticabile cucina siciliana, e piatti come la cuccia, la scursunera e il cous cous del trapanese, e ancora il pane con a meusa, con la milza, e le panelle, le frittelle di ceci. I greci hanno lasciato in eredità ulivi e cereali, ai normanni va il merito di piatti come il pisci stoccu, lo stoccafisso, e le aringhe affumicate. Quanto agli spagnoli, sono loro i responsabili di un dolce famoso e goloso come la cassata, la cui base è per l’appunto un pan di spagna. Dalle Americhe arrivano pomodori e peperoni, senza i quali non sarebbe nata la caponata, e il cacao e il peperoncino, che accende tante delle ricette di quest’isola. E dall’India sono giunte le melanzane, grazie alle quali oggi mangiamo parmigiane e pasta alla Norma! Cous cous 149 le isole - SARDEGNA (34) minestra di fregola con le arselle Lavo le arselle e le lascio a bagno per qualche ora in acqua salata per farle spurgare. Una mezz’ora prima di preparare la minestra faccio ammollare i pomodori secchi in acqua tiepida. Sgocciolo le arselle, le verso in una casseruola con un bicchiere d’acqua, metto il coperchio e le tengo per qualche minuto sul fuoco vivace fino a quando saranno tutte aperte. Le tiro su con la schiumarola conservando il liquido che si è raccolto sul fondo. Appena tiepide, le sguscio conservandone circa un terzo con il guscio. Preparo un trito sottile con gli spicchi d’aglio e una manciata di prezzemolo. Sgocciolo i pomodori, li strizzo un po’ e li taglio a listarelle. Scaldo l’olio in una casseruola e faccio appassire a fuoco dolce il trito di aglio a prezzemolo. Dopo 2 minuti, aggiungo i pomodori e li faccio insaporire brevemente prima di unire il liquido filtrato e un altro bicchiere di acqua calda. INGREDIENTI PER 4 PERSONE un kg di arselle (vongole comuni) 200 g di fregola sarda a grana media 6-8 mezzi pomodori secchi 3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva 2 spicchi d’aglio prezzemolo sale e pepe 150 Ancora pochi minuti e verso la fregola nella casseruola, mescolo, aggiungo sale (poco) e pepe e faccio cuocere per poco meno di un quarto d’ora, unendo le arselle sgusciate negli ultimi 2 minuti. Dovrò ottenere una minestra semidensa: se necessario aggiungo mezzo mestolo di acqua calda. Al posto dei pomodori secchi si possono unire al soffritto 2 cucchiai di concentrato di pomodoro, diluito in mezzo bicchiere d’acqua calda, o pomodori freschi (circa 300 g) pelati, privati dei semi e sminuzzati. le isole - SARDEGNA la fregola e altre paste In Sardegna si trovano paste tradizionali davvero interessanti. Una delle più note è di certo la fregola (sa fregula). Si ottiene con un procedimento molto simile a quello del cous cous, mettendo cioè la semola di grano duro in un apposito contenitore di terracotta, ampio e basso, detto fregulera, e poi spruzzandola con acqua tiepida, compiendo al tempo stesso un movimento circolare con la mano aperta. Si ottengono così dei piccoli grumi di pasta dalla forma irregolare che vengono passati al setaccio e poi tostati al forno, dove prendono una bel colore ambrato. Viene utilizzata per la preparazione di minestre, cuocendola ad esempio nel brodo di carne e poi sistemandola in una casseruola di coccio alternando strati di pasta e di pecorino grattugiato. Spesso nella cucina sarda della costa si trova preparata con il pesce, come nel caso della “fregula cun cocciula” (fregola con arselle). Molto conosciuti anche i malloreddus (letteralmente, torelli) del campidano: piccoli gnocchetti di semola, a volte impastati con lo zafferano, e i maccarrones de busa (con il buco) una sorta di bucatini fatti a mano. Tipico del nuorese è il filindeu: una sorta di tessuto composto da tre strati sovrapposti di capellini sottilissimi tirati a mano. Con il filendeu si prepara una zuppa con il brodo di pecora e pecorino fresco. 152 fregola stufata Trito una cipolla e, separatamente, frullo 60 g di pancetta tesa con una manciatina di prezzemolo. Scaldo un filo d’olio in una padella, unisco la cipolla e il trito di pancetta e faccio soffriggere a fuoco dolcissimo per una ventina di minuti. Cuocio 300 g di fregola (grossa o media) in abbondate acqua salata in ebollizione, poi la scolo e la dispongo a strati in una terrina resistente al calore, insaporendo ogni strato con un po’ di soffritto e una manciata di pecorino sardo grattugiato, e facendo l’ultimo strato con il formaggio. Passo la terrina nel forno caldo fino a quando si forma una leggera crosticina in superficie. (34) minestra di fregola con le arselle cucina sarda Il cuore profondo della cucina di questa terra, chi lo conosce lo sa, è povero e carnivoro. Un cibo legato alla vocazione agricola e pastorale di questa regione che per certi versi e in certe zone mantiene ancora riti e ritmi quasi ancestrali. Quindi terra di agnelli, di maiale, anzi di maialetti, di uova e di formaggio. Ma è soprattutto l’agnello a far battere il cuore degli isolani: agnello arrostito, allo spiedo, bollito, in umido; e poi un piatto la cui esistenza è testimoniata anche presso i pastori dell’antica Grecia: il sanguinaccio. Sono le interiora dell’agnello ucciso, poi riempite di sangue aromatizzato e cotte alla brace fino a indurirsi. Cibo da pastori e da banditi. Vongole comuni Pomodori secchi dicono dell’agnello “Tuo padre mi ha fatto ammazzare una pecora: dimmi cosa devo cuocere, e se devo preparare anche il sanguinaccio. Ti avverto che non ho il mentastro; ho solo due foglie d’alloro, eccole.” Gliele fece vedere fra le dita insanguinate, e lei andò a prendere anche il sale, il cacio e un poco di pane di orzo triturato. Il tutto fu mischiato al sangue raccolto nel ventricolo della pecora, pulito come una borsa di velluto: e il ventricolo fu poi cucito con un ago di canna e messo a cuocere sotto un mucchio di cenere calda. Da Marianna Sirca di Grazia Deledda, scrittrice sarda Premio Nobel per la letteratura nel 1926. 153 le isole - SARDEGNA (35) seadas Taglio il pecorino a pezzetti e lo raccolgo in una piccola casseruola a fondo pesante con poca acqua (circa 1/2 bicchiere), la semola e la scorza di limone grattugiata. Metto la casseruola sul fuoco con la fiamma a metà altezza e, mescolando continuamente, faccio cuocere fino a quando il formaggio sarà fuso e avrà assunto la consistenza di una crema densa. Lascio intepidire il composto e intanto preparo la pasta. Setaccio la farina sulla spianatoia, faccio la fontana e ci metto lo strutto a fiocchetti, una presa di sale e circa 100 ml di acqua tiepida. Impasto energicamente per 5 minuti, poi raccolgo la pasta a palla e la lascio riposare per una mezz’ora, avvolta nella pellicola. INGREDIENTI PER PER (PIÙ 15 SEADAS O MENO) 500 g di farina 00 50 g di strutto sale Per il ripieno 400 g di pecorino molto fresco (di pochi giorni) un cucchiaio di semola (farina di grano duro) la scorza di 1/2 limone non trattato Per friggere olio di oliva o di arachide Per accompagnare miele 154 Con le mani bagnate prendo una piccola quantità di crema di formaggio (quanto una grossa noce) e la schiaccio fra le mani ricavando dei dischi di circa 1/2 cm di spessore, e via via che sono pronti li sistemo su un panno. Divido la pasta in 2 pezzi e li passo alla macchinetta cominciando dal primo spessore per arrivare fino al penultimo. Con un tagliapasta ricavo dei dischi di 8 cm di diametro. Dispongo un disco di formaggio su uno di pasta, pennello leggermente il perimetro con poca acqua e copro con un disco di pasta, premendo bene tutto intorno, poi ritaglio il bordo con la rotella. Friggo le seadas in abbondante olio ben caldo (170-180°) girandole una volta. Le scolo color oro molto chiaro e le passo su un doppio foglio di carta da cucina. Le servo calde cosparse di miele. Per le seadas è ottimo, anche se molto raro, il miele di corbezzolo dall’accentuato gusto dolce-amaro, ma va benissimo anche qualunque altro tipo di miele. le isole - SARDEGNA Limoni non trattati la storia Sa sebada a Nuoro, sa sabada a Sarule, sa seada in campidanese e in logudorese, sempre di seada si tratta, il dolcetto sardo il cui nome viene dal dialetto séu, dal latino sebum, sego, perché si tratta di dolcini lucidi, grassi, un po’ untuosi. Grazia Deledda, massima poetessa dell’isola sarda, le descriveva come “piccole schiacciate di pasta e formaggio fresco passato al fuoco. Vengono fritte”. Gli ingredienti sono molto semplici: farina, formaggio pecorino o pischedda – un formaggio acido della Gallura –, poi scorza di limone grattugiata, zucchero e miele; si friggono poi nello strutto. Un’origine antica e tipicamente pastorale, vengono da terre legate alla pastorizia come la Barbagia e il Logudoro, e una volta costituivano una pietanza principale, tanto da poter sostituire un secondo piatto; negli anni sono diventate invece un profumato dessert. L’arte di condirle con il miele veniva detta ammerrare e consisteva nel riscaldare il miele con un po’ d’acqua e poi immergercele dentro. Ancora oggi due sono le scuole di pensiero sul condimento delle seadas, chi le vuole con il miele e chi con lo zucchero, e allora questi dolcetti diventano baè baè, menzùs chin su tùcaru, al secolo “vai vai, meglio con lo zucchero”. Si mangiavano soprattutto a Pasqua o a Natale, oggi non mancano mai nei menù di qualsiasi ristorante sardo che si rispetti. Seadas prima della frittura vino e seadas Cosa bere con le seadas? Se amate i rossi allora vanno bene un Anghelu Ruju di Alghero, forte e liquoroso, oppure un Dorato di Sorso, dal bel colore ambrato. Se invece siete patiti di bianchi allora una buona Malvasia di Cagliari da servire a temperatura cantina, oppure un Moscato, sempre di Cagliari o di Sorso-Sennori, o ancora l’intramontabile Vernaccia, da bere a 10-12 gradi. 156 (35) seadas dolci e miele Dolce miele, ingrediente che non manca mai nelle cucine sarde, e nei dolci di questa terra. Che si tratti di seadas, di caschettas o di pirichittus, sempre di miele si parla. Quei mieli – di castagno, di erica, di agrumi, di tarassaco, di lavanda – di cui la Sardegna è ricca. Ma soprattutto quello di corbezzolo, pianta tipica della macchia mediterranea, tanto diffuso in terra sarda. Un albero dai fiori bianchi e dalle bacche rosse, che dà un miele dal sapore davvero unico, dal colore di ambra bruciata. Il suo è un profumo così particolare che si riconosce anche ad occhi chiusi, che ricorda i fondi del caffè e le foglie dell’edera. Quando lo assaggiamo ci sembra morbido e dolce e dopo qualche minuto ci accorgiamo invece che possiede anche una componente amara che si sposa perfettamente con la dolcezza iniziale. Mieli insomma che danno un gusto e una consistenza così particolare ai dolci di questa regione. Strutto dicono del miele “Per liberarsi dai suoi pensieri si alzò, sebbene sentisse molto freddo, e disse alla madre, che almeno, bisognava preparare un buon pranzo all’ospite. Impastò un po’ di farina, con uova e strutto, e ne fece tante treccioline che, dopo fritte, spalmò di miele: sì, davvero, le pareva di essere tornata bambina. Anche la madre si dava da fare: odori buoni si sparsero nella casetta: odori di ospitalità, e quindi quasi di festa.” Da La chiesa della solitudine di Grazia Deledda 157 indice 158 le 35 ricette agnello cacio e uova 108 calcioni 94 cevapcici 56 ciambotta 116 coniglio in porchetta 90 cotolette alla bolognese 68 fagioli con le cotiche 98 fave e cicoria 128 fegatelli di maiale all’aretina 78 fonduta 10 kugelhupf 52 lattughe in brodo 22 messicani 30 minestra di fregola con le arselle 150 minestra di tenerumi 142 pasta alla norma 146 pasta e fagioli 60 pepatelli 112 piccioni ripieni 86 pisarei e fagioli 72 pitta ripiena 132 pollo con i peperoni 102 polpetielli affogati 120 polpette di melanzane 136 riso alla pilota 34 risotto al barbera 14 sciumette 26 seadas 154 sformato di spinaci con il cibreo 82 tonno di coniglio 18 torta di fregolotti 40 tortelli di spinaci - spinat-tirtlen 48 zeppole di san giuseppe 124 zuppa di gulasch - gulaschsuppe 44 zuppa di trippa 64 le altre ricette baccalà alla potentina 119 cassoulet di Castelnaudary 101 cotoletta dell’artusi, la 70 crema pasticcera 127 fregola stufata 152 frico con le patate 58 frittata dell’imperatore - kaiserschmarrn 51 palacinche 55 pasta con i tenerumi 145 pasta e fagioli vicentina 63 salsa ajvar 59 sformato di spinaci 85 torcetti valdostani 13 tortelli di crauti - turtres de crauti 50 gli ingredienti alloro, l’ 80, 81 animelle, le 24, 25 barbera, la 16, 17 cervello, il 24-25 cicoria, la 130 coniglio, il 20, 21, 92, 93 fagioli di lamon, i 63 fagioli, i 74, 75 fave, le 130, 131 fegatelli, i 80 fontina, la 13 fregola, la 152 grappa, la 43 lattuga, la 24 miele, il 157 mostarda d’uva, la 114 ’nduja, la 135 pecorino, il 97 pepe, il 115 piccione, il 88 pollo, il 105 polpo, il 122 tenerumi, i 144 trippa, la 66, 67 zucca siciliana, la 145 159