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Da Al Capone a El Chapo quando il boss fa

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Da Al Capone a El Chapo quando il boss fa
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A NOTIZIA CHE UNA STAR di Holly-
wood, Sean Penn, e il capo del
Cartello di Sinaloa, Joaquín “El
Chapo” Guzmán, si siano incontrati affinché il grande attore potesse intervistare il grande narcotrafficante ha fatto il giro del mondo. Ma non poteva
stupire chi conosce la logica dei boss delle
organizzazioni criminali: El Chapo voleva
semplicemente fare un film su se stesso.
Come ho già scritto in (PNPSSB, e detto
in molte occasioni, spesso si è inclini a credere che sia il cinema a guardare al mondo
criminale, mentre molte volte è vero esattamente il contrario: è il mondo criminale
che guarda al cinema. I boss sanno che buona parte del miglior cinema e delle migliori
serie tv hanno come focus il mondo criminale, e quindi vogliono provare a partecipare
alla loro produzione. In questo modo po-
tranno guidare la loro rappresentazione a
proprio piacimento per mostrare il loro
eroismo e le loro vittorie sull’autorità. È sostanzialmente per questo che, dal Messico
all’Italia, le organizzazioni criminali hanno
ispirato film o ne hanno tratto ispirazione.
Al Capone, il gangster americano, fu il
primo a farlo. Fu proprio il suo soprannome, “TDBSGBDF”, lo sfregiato, a dare nel
1932 il titolo al film di Howard Hawks. Il
boss di Chicago inviò sul set a Hollywood al-
cuni dei suoi uomini per capire come lo stessero ritraendo e soprattutto per assicurarsi
che non lo stessero rappresentando come
un killer da quattro soldi. In un’intervista
avrebbe poi dichiarato poi di disprezzare i
gangster movie del tempo, definendoli
«UFSSJCMFLJETTUVGG», cioé robaccia da ragazzini. Eppure si narra che custodisse assai
gelosamente la sua copia personale del
film di Hawks.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
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L CHAPO, NELL’INTERVISTA POI USCITA sulla rivista americana3PMMJOH
4UPOF, non solo non nega di essere un narcotrafficante, ma si vanta
di essere il più grande di tutti: «Ho fornito più eroina, metanfetamina, cocaina e marijuana che chiunque altro nel mondo. La mia flotta è composta da sottomarini, aeroplani, camion e barche». Racconta anche di come ricicla i suoi narcodollari, un segreto di solito
gelosamente custodito dai mafiosi. Sean Penn cita John Gotti, defunto capo della famiglia Gambino di New York, che insisteva nel
dire di essere un semplice uomo d’affari. Ma potremmo citare anche altri mafiosi (Pablo Escobar, o il boss della mafia russa Semion
Mogilevich) che dicevano di guadagnarsi da vivere esportando fiori o vendendo grano e frumento. El Chapo, invece, si vanta delle
sue capacità criminali. E lo fa perché sa che la sua vita potrebbe diventare un gran film. E sa anche che il mondo sarà colpito dall’epopea di un uomo catturato, e poi evaso, molte volte.
Quando lo scorso 8 gennaio i soldati della Marina messicana hanno fatto irruzione nel suo
ultimo nascondiglio, a Los Mochis, sulla costa del Pacifico, hanno trovato anche alcuni dvd de
-B3FJOBEFM4VS, una telenovela ispirata a una donna a capo di un Cartello, una boss interpretata da Kate Del Castillo, l’attrice che ha poi reso possibile l’incontro tra El Chapo e Sean Penn.
Questo perché i boss sentono la necessità di creare attorno a sé un immaginario di potere e glamour che nella realtà non hanno — spesso vivono nascosti sotto terra come topi, mangiando
cibo schifoso — e la finzione cinematografica rende questa invenzione possibile. Inoltre, articolando la loro figura sul modello hollywoodiano del capo criminale, violento ma carismatico,
e sempre circondato da donne, possono diventare immediatamente e universalmente riconoscibili come persone da temere.
A Napoli, durante la faida del 2004, le nuove leve della camorra si ispiravano ai gangster del
grande e del piccolo schermo: .BUSJY, *M$PSWP, 1VMQ'JDUJPO(e più di recente #SFBLJOH#BE). I
boss emergenti ne imitano i protagonisti, che tutti conoscono, per creare il loro mito e avere
presa sui propri sottoposti. Quando, nel gennaio 2005, Cosimo Di Lauro, figlio e erede del
boss Paolo Di Lauro, fu stanato nel suo rifugio, non tentò la fuga. Ma prima che i carabinieri lo portassero davanti alle telecamere facendosi largo tra la gente del quartiere volle
pettinarsi i capelli con il gel, se li raccolse in
una mezza coda e poi indossò il suo impermeabile nero. Mentre avanzava ammanettato tra la folla il suo sguardo era tenebroso, da
duro, alla Brandon Lee. Era *M$PSWP. I ragazzini lo fotografarono e l’immagine del Corvo Di
Lauro diventò immediatamente uno screensaver per cellulari.
E ancora. Dopo l’uscita dei primi film di
Quentin Tarantino i killer di camorra sembra-
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rono aver dimenticato come si sparava: non
tenevano più la pistola dritta, ma la giravano
con la canna di piatto. Come nei suoi film. In
questo modo, però, colpivano spesso alle
gambe o al basso ventre, trovandosi poi a dover finire la vittima sparandole alla nuca. Il cinema non stava più imitando la vita vera, la
stava influenzando.
Gli anti-eroi di Tarantino sono diventati
modelli di riferimento nel mondo mafioso
perché è esattamente da quel mondo che provengono, il mondo dei SFOFHBEFT di tutti i
tempi e di tutti i luoghi. Perché è così che vogliono apparire i boss: rinnegati, incompresi,
eroi negativi con un passato di grandi tormenti, vendicatori di se stessi e dei disperati,
tutori di un nuovo equilibrio contro uno stato
ostile. Le guardaspalle del boss di camorra
Immacolata Capone, uccisa nel novembre
2004, vestivano come Uma Thurman in ,JMM
#JMM: caschetto biondo e tuta giallo fosforescente. E Romeo P. e Giuseppe M., due minorenni di Casal di Principe che a causa delle loro continue scorribande, che infastidivano
anche i boss del Casertano, vennero uccisi
nel 2004, prima di sparare ripetevano sempre il brano pronunciato da Jules Winnfield
in 1VMQ'JDUJPO: “Ezechiele 25,17. Il cammino
dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dall’iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi”.
Un antieroe sprezzante del pericolo: così
vuole essere percepito il camorrista. Cesare
Pagano, boss degli “scissionisti” di Scampia,
nel 2010 venne arrestato dalla polizia. Era inserito nella lista dei latitanti più ricercati dalle forze dell’ordine. Quando uscì dalla questu-
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ra di Napoli per essere trasferito in carcere indossava una maglietta con la foto di Steve McQueen, l’attore maledetto che da ragazzino
era stato in riformatorio e icona, con 1BQJM
MPO, della grande fuga dall’isola del Diavolo.
Ma il cinema introduce anche linguaggi
nuovi nelle dinamiche di mafia. La parola “padrino” non era mai stata usata nelle mafie italiane prima che, nel 1972, uscisse il film di
Francis Ford Coppola. Prima di allora il termine usato per indicare un capofamiglia o un affiliato era sempre stato “compare”. Fu dopo il
film, negli Stati Uniti, che le famiglie mafiose
d’origine italiana iniziarono a usare il termine “padrino”. Così come cominciarono a indossare gessati e occhiali scuri, e a ripetere
frasi tratte dal film. Luciano Liggio, boss di
Cosa Nostra fino a metà degli anni ‘70, si faceva fotografare con la mascella sporgente come don Vito, mentre per John Gotti lo stile
del capofamiglia del 1BESJOP diventò una seconda pelle — tanto da essere soprannominato per la sua eleganza “The Dapper Don”.
Quanto a Bernardo Provenzano, nei primi an-
ni ’90, quando già era in cima alla lista dei superlatitanti ricercati per mafia, a rischio di essere arrestato volle comunque recarsi in un
affollato cinema del centro di Palermo per vedere l’ultima parte della trilogia del 1BESJOP.
Tra tutti, però, il film in assoluto più amato
dai mafiosi di mezzo mondo è 4DBSGBDF, regia
di Brian De Palma, anno 1983, il boss Toni
Montana interpretato da Al Pacino. È il film
che ha cambiato il modo in cui intere generazioni di affiliati volevano vedersi ed essere visti. Walter Schiavone, per esempio. A Casal di
Principe possedeva una villa talmente fastosa che tutti in paese la chiamavano “Hollywood”. Si racconta che per progettarla il boss
della camorra avesse consegnato al suo architetto la cassetta Vhs di 4DBSGBDF chiedendogli di costruirgliene una identica a quella di
Tony Montana. Ma ville nello stravagante stile Montana sono state costruite dai vari boss
in varie parti d’Italia: il capo della cosca Alvaro di Sinopoli, vicino Reggio Calabria, stava
facendo costruire un vero e proprio palazzo
per la sua famiglia: venne scoperto dai finan-
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zieri ancora in fase di cantiere mentre lui era
in carcere. Un’altra villa enorme è stata costruita in provincia di Bologna dai Mancuso, i
cui uomini la usavano come base per trattare
l’acquisto di ingenti partite di cocaina con
narcos spagnoli e colombiani. Ma la passione
dei criminali per 4DBSGBDFnon si ferma all’architettura: a Napoli alcuni boss hanno gabbie
con tigri e leoni in giardino, proprio come Tony Montana nel film.
Cosa fare quindi? È ovvio che non dobbiamo smettere di girare film sul crimine organizzato. È un mondo che non può non essere
raccontato. L’unica cosa che possiamo fare,
però, è fare attenzione. Assicurandoci, per
esempio, che il boss non stia usando il film o
la serie tv o l’intervista magari per mandare
un messaggio, magari — come parrebbe nel
caso nel caso dell’intervista di Sean Penn
all’El Chapo evaso dal carcere — a El Mayo
Zambada, suo socio di sempre nel Cartello di
Sinaloa ma forse anche suo rivale interno.
El Chapo deve anche aver scorto la possibilità di fare qualcosa di diverso, di dire qualche verità in più sul nostro tempo, come solo i
grandi film di mafia sanno fare. Perché nei
film di mafia, come nella realtà della mafia, alla fine tutti sono immersi nelle dinamiche del
potere, tutti si muovono in un mondo dove se
vuoi ottenere qualcosa devi usare ogni mezzo possibile: il sotterfugio, il sorriso o il mitra.
Un mondo dove vince chi è preparato a rischiare la prigione — oppure la morte — pur
di ottenere potere.
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Durante la caccia al super narco
trafficante messicano El Chapo
Guzman, evaso dal carcere la scorsa
estate e poi nuovamente catturato lo
scorso 8 gennaio, gli uomini delle forze
di sicurezza messicane hanno trovato
in uno dei suoi nascondigli, sulla sua
branda, una copia dell’ultimo libro di
Roberto Saviano, “Zero Zero Zero”.
Il video del ritrovamento è stato
diffuso da “El
Universal”, uno dei
giornali più diffusi
in Messico secobdo
cui il rifugio case in
cui il criminale si
nascondeva si
trova a Las
Piedrosas, nel
complesso
montuoso
messicano della
Sierra Madre Occidentale. All’epoca El
Chapo riuscì a scappare dalle forze
messicane. In “Zero Zero Zero” Saviano
documenta il traffico internazionale
della cocaina, “materia” in cui Guzman
è evidentemente un esperto.
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NNI FA, SUL GOLFO DI AQABA, nella penisola del Sinai, due ragazzi sta-
vano pescando pigramente, chiacchierando nella lingua comune.
Uno era del posto, l’altro ci era venuto in vacanza. Quello indigeno
conosceva ben poco del mondo al quale si era di recente affacciato.
Notando un accento nel compagno di passatempo domandò: «Ma
tu di dove sei?». L’altro rispose: «Israele». Il primo lo guardò sorpreso: aveva due occhi, un naso, una bocca, parlava e pensava come
lui. Poi prese un arpione e glielo conficcò nel petto, prima di allontanarsi lentamente verso il deserto. Nel farlo continuava a rimuginare non tanto sull’atto compiuto quanto sulla stranezza per cui quel
ragazzo proveniente da quel che definivano “entità sionista” non
avesse caratteristiche disumane come aveva creduto. Di certo le
aveva occultate e ora si sarebbero rivelate, deve aver pensato. Gli altri sono spesso diversi da come
ce li eravamo immaginati: la sorpresa più grande è che spesso non sono affatto diversi da noi. Ce ne
eravamo lasciati convincere. Se così non era, sai che delusione.
Il momento critico per l’esistenza di un pregiudizio è quando si ritorce e scopriamo che si applica
anche a noi stessi. Per dire, parlo un inglese imperfetto e ho la voce profonda. In America mi domandano se sia russo. Rispondo: no, italiano. Replicano: ma dai, così alto? Non sono bastati Belinelli, Bargnani e Gallinari a convincere che esistano italiani sopra il metro e sessanta. Quasi un secolo
dopo siamo ancora al titolo dedicato dal .JBNJ)FSBME a Giuseppe Zangara, l’emigrato che sparò al
neoeletto presidente Franklin Delano Roosevelt, descritto come uno gnomo di pelle scura e carattere violento, in poche parole e a tutta pagina: “Tipico della sua razza”. Ma si sa: “gli americani sono
rozzi”.
Leggi i giornali di questi giorni: l’universo maschile nordafricano pensa che la donna bianca sia
“disponibile” e fatti come quelli di Colonia fan credere quasi a tutti che ogni musulmano sia un molestatore. Il problema, si sostiene, è l’ignoranza. Fino a un certo punto, se anche un premio Nobel
(per la medicina) come Timothy Hunt se ne uscì portando nella valigetta lo stereotipo che gli costò
la cattedra: «Le donne in laboratorio sono un problema: se le critichi si mettono a piangere». Non si
rendeva conto che stava cacciandosi nei guai? Probabilmente no: il pregiudizio scivola di bocca,
non sfonda porte, ma passa sotto la soglia d’attenzione, come un soffio. È leggero, perché inconsapevole: abitava all’interno da tanto tempo che il proprietario di casa manco l’ha notato, non era
una macchia sul tappeto, ma il tappeto stesso. Sennò perché Stefano Eranio, che da calciatore al Milan aveva necessariamente dovuto apprezzare l’intelligenza di Gullit e Desailly, da commentatore
alla tv svizzera, guardando il romanista Rudiger, avrebbe detto: «I neri sono così: forti, ma quando
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devono pensare poi fanno errori». Verrebbe da dire che i bianchi, invece, li fanno
quando non pensano.
Tutti noi abbiamo qualche stereotipo in testa e tutti noi (spesso senza rendercene conto) rappresentiamo qualche stereotipo. La bellezza del lavoro di Yanko Tsvetkov, il disegnatore che ha compilato le mappe dell’"UMBOUFEFJQSFHJVEJ[J è non
tanto che fa sorridere (in qualche caso ridere), ma che svela l’assoluta relatività (è
il caso di dirlo) di queste convinzioni preconfezionate. Cambiano a seconda dei tempi e dei luoghi. Rigettano la complessità. Girano intorno agli stessi paletti. Tsvet*--*#30
kov è bulgaro. E spiritoso. Oddio, come è possibile? Non viene da un popolo di povei-"5-"/5&
racci, tardo comunisti, con ombrelli velenosi, gente che conosce solo il 99 per cento
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tra le percentuali e terre dove si può svernare con mille euro di pensione pensando
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di essere giovani nel ’56 a Taranto?
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Ecco fatto. Noi, come tutti, abbiamo una insana dose di pregiudizi raccattati
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unendo i puntini di sparse conoscenze. Gli altri replicano nei nostri confronti, ma
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ovviamente non consideriamo valida la clausola di reciprocità. E dunque: i tedeschi
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sono “ottusi mangiacrauti pronti a reinvadere la Polonia”, ma non si azzardino a fa%"-(&//"*0
re una copertina sull’Italia con spaghetti e pistola. Si sa quel che il maschio latino
pensa delle donne baltiche, ma l’effetto è che girando con un amico fotografo per le
strade di Riga mi sentivo dire: «Italiano? Pappagallo, maiale». E l’ultima volta che sono stato in
quel “covo di serpi” che è Damasco, alla stazione delle corriere un mendicante mi ha salutato così:
«Vai via, Aldo Moro, Totò Riina, Berlusconi». E via me ne sono andato, solingo.
Per capire meglio la natura dei pregiudizi basta valutare un dato: in massima parte sono spregiativi. Provate a pensarli e ve ne renderete conto: la “civiltà degli scandinavi” e la “velocità dei neri”
galleggiano su un mare di popoli, generi, crini a cui si attribuiscono tendenze negative di ogni risma, oltre alla mancata conoscenza del bidet. Si tratta evidentemente di un meccanismo difensivo
che da individuale diventa collettivo. Ogni essere umano punta sulla propria unicità, ma deve fare
i conti con i propri limiti. Un modo, il meno intelligente, per stare al passo con gli altri o sopravanzarli, è quello di degradarli. Il pregiudizio è in definitiva un’affermazione di superiorità ottenuta
senza studiare, semplicemente svelando l’altrui lacuna e poi rendendola incolmabile nei secoli dei
secoli, anche quando fossero trascorse generazioni immuni al passato. Che non sia semplice ignoranza è dimostrato proprio dal fatto che anche persone intelligenti vi fanno ricorso, istintivamente, quando si sentono minacciate, o quando smettono di pensare, abbandonano la struttura del dover essere, allungano le gambe sul pouf et voilà: sbracano. In definitiva il pregiudizio è l’inchiostro
della seppia. In tutto e per tutto simili a quel mollusco, ci portiamo appresso una sacchetta di liquido insozzante e, di fronte al presunto diverso, azioniamo la macchinetta del fango. Finché, come il
ragazzo nel golfo di Aqaba, ci accorgeremo di aver colpito qualcuno che era simile a noi.
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sul periodo più
grasso e licenzioso dell’anno, il carnevale. A carnevale ogni
scherzo vale e ciascuno è libero di fare i suoi porci comodi.
Quello tra la festa più trasgressiva e la bestia più allusiva è
un incontro largamente annunciato, visto che la nomea
del suino come sex symbol è antichissima. Fu Aristotele a
consacrarne la fama, quando gli attribuì una natura sessuale particolarmente calda, facendone così il simbolo di un desiderio insaziabile, ma anche dell’abbondanza, della fecondità, dello scialo. Voluttuoso ma anche generoso. Del maiale, si sa, non si butta via niente.
Come in altri campi dello scibile, anche in materia suina
l’JQTFEJYJUaristotelico è diventato legge e da allora il porcello è, per antonomasia, l’emblema dei piaceri della carne, in ogni senso del termine. Forse anche per questo il cristianesimo, che riconobbe subito l’attrazione calorica ed erotica esercitata da questa energia vitale,
ne fece un simbolo delCBTJDJOTUJODU, l’icona della debolezza congenita della carne, sempre
tentata dalle porcherie. O dalle maialate, se si preferisce. E addirittura la chiesa associò il
maialino a uno dei suoi santi più popolari. Cioè Antonio Abate, il vecchio dalla barba bianca
la cui ricorrenza, che cade proprio oggi, apre i battenti del carnevale.
A dire il vero, la sua figura avrebbe poco a che fare con lussurie e lascivie, frenesie e fantasie, eccitazioni e fornicazioni. Non ci indurre in tentazioni, potrebbe essere il suo motto. Perché nella realtà, storica e teologica, Antonio è stato un asceta del deserto, un eremita di costumi rigorosi e severi, considerato il fondatore del monachesimo cristiano. Visse nell’Egitto del terzo secolo dove passò gran parte della sua vita chiuso in una tomba scavata nella Balbi. «Darei un’intera collezione, più centoroccia a pregare, mortificarsi e autopunirsi, mila franchi, per avere quel quadro» disse,
BENBJPSFNEFJHMPSJBN. Ma cosa c’entra esaltato e scottato dalle vampate di colore
un sant’uomo del genere con la licenza del del fiammingo. Non tardò a tradurre la brucarnevale e con la concupiscenza del maia- ciatura in letteratura. E scrisse la celebre
le? C’entra eccome! Perché il diavolo, che ci 5FOUB[JPOFEJ4BOU"OUPOJP che, ai suoi ocmette sempre la coda, indispettito dall’in- chi, diventa l’immagine stessa dell’uomo in
corruttibile continenza del santo, lo sottopo- lotta con le sue passioni. Paul Valéry confesse a mille e una tentazione, nel tentativo di sava di preferire la 5FOUBUJPO anche a.BEB
far divampare il fuoco che covava sotto quel- NF#PWBSZ. Perché Flaubert non si era limila cenere devota. Alcune storie narrano che tato a raccontare una storia di tentazione.
il maligno gli apparve in forma di suino. Al- Era riuscito addirittura a definire la «fisiolotre, BCTJUJOJVSJB, dicono che si manifestò gia della tentazione» come forza motrice delsotto sembianze di femmina. Due immagini la vita. In questo senso, Antonio è l’altro lato
non certo equivalenti, eppure equipollenti, di .BEBNF#PWBSZ.
perché rappresentano entrambi una sorta
Anche il Novecento delle avanguardie si è
di apparentamento, perfino linguistico, tra misurato con la storia del santo abate. Lo
corpo e porco. Riflettendo un’idea della car- hanno fatto surrealisti col pennello, come
ne come peccato originale, come impurità Salvador Dalí che trasforma la lotta con il deda emendare.
monio in una processione di bestie apocalitFatto sta che, sin dal Medioevo, la tenta- tiche. E surrealisti con la macchina da presa
zione di sant’Antonio diventò un leitmotiv come Luis Buñuel, che alle tentazioni ha dedell’immaginario colto e di quello popolare, dicato più di un capolavoro, da 4BMJUBBMDJFMP
dalla letteratura alle arti visive. L’episodio a 4JNPOEFMEFTFSUP. Ma la più geniale variaispirò a un pittore sensibile a visioni e alluci- zione sul tema è quella offerta nel 1962 da
nazioni come Hieronymus Bosch ben due di- Federico Fellini con-FUFOUB[JPOJEFMEPUUPS
pinti. L’onirico (JBSEJOPEFMMFEFMJ[JF del Pra- "OUPOJP, uno dei quattro episodi di#PDDBD
do e, soprattutto, il vertiginoso 5SJUUJDPEFMMF DJP, sceneggiato da Tullio Pinelli e Ennio
UFOUB[JPOJ del Museu Nacional di Lisbona, Flaiano. Con Peppino de Filippo nei panni
dove il povero Antonio deve vedersela sia del dottor Mazzuolo, un inflessibile guardiacon delle donne vestite da sacerdoti che cele- no della morale, posseduto da una divoranbrano una messa satanica, sia con un uomo te ossessione-passione per il corpo femminidal muso di porco. Il divino, l’umano e il be- le. Nella fattispecie quello di una straripanA SEMPRE IL PORCO REGNA INCONTRASTATO
*MTBOUP
FJMQPSDP
stiale. Un triangolo sconveniente su uno
sfondo rosso ardente. È la fiamma del desiderio, difficile da controllare e dolorosa da spegnere. Che diventa croce e delizia della condizione umana. Nonché attributo iconografico del santo. Sempre rappresentato mentre
tiene in mano una fiammella. Il fuoco di
sant’Antonio, appunto. E con un maiale ai
piedi.
Il grande Gustave Flaubert, in visita a Genova nel 1845, fu letteralmente folgorato
da un quadro di Pieter Brueghel il Giovane,
raffigurante l’eremita molestato dal demonio, che si trovava nella quadreria di Palazzo
te Anita Eckberg che, dall’alto di un cartellone pubblicitario, lo tormenta con l’allusivissimo jingle“bevete più latte”. Qualcuno ha
visto nel sessuofobo moralista felliniano,
che in una scena del film schiaffeggia una
donna molto discinta, un’allusione a un episodio reale, con protagonista Oscar Luigi
Scalfaro. Che in realtà, agli occhi del regista,
sarebbe stato colpevole soprattutto di aver
chiesto il sequestro della %PMDFWJUB. Certo è
che la vendetta di Federico il grande colpì
nel segno, con la perfidia beffarda di un tiro
a rientrare e la stralunata precisione di
un’ellissi barocca.
Asceta e non solo. Accanto al sant’Antonio della cultura alta c’è quello completamente diverso della devozione popolare.
Che ristilizza a proprio uso e consumo gli attributi del santo. La signoria sull’ardore delle passioni diventa padronanza del fuoco. E
la sofferta familiarità con le tentazioni della
carne, nonché con il porco che le incarna, si
trasforma in amicizia con la bestia che è in
noi. Non più l’anacoreta del deserto ma il
santo del porcello. Capace di uccellare anche il diavolo a beneficio di quei poveri cristi
di peccatori. Una leggenda diffusa in tutta
Europa, e riportata da Italo Calvino nelle 'JB
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CFJUBMJBOF, racconta che il misericordioso
Antonio viene mandato a fare il portinaio
all’inferno. Ma lascia sempre la porta semiaperta per far evadere le anime dei dannati.
Allora viene richiamato sulla Terra ma, prima di tornare a riveder le stelle, con la complicità dell’inseparabile maialino, ruba un
tizzone infernale e lo regala agli uomini. Un
Prometeo cristiano che diventa patrono degli animali e protettore del quarto stato. Di
cui allevia la fame e le sofferenze. Fornendo
calore e calorie. E rimedi contro le malattie.
L’amico delle bestie, infatti, veniva invocato contro l’IFSQFT[PTUFS, il male che proprio
da lui prende il nome di fuoco di sant’Antonio. E che, fino all’Ottocento, veniva curato
dai monaci dell’ordine antoniano con la somministrazione di un unguento ottenuto dal
grasso di maiale. Un vero cortocircuito
dell’immaginario che inverte il senso del
rapporto tra tentazione e inibizione. Rendendo virtuoso quel che per il dogma era un
circolo vizioso. Insomma una guerra degli
appetiti che, NVUBUJTNVUBOEJT, si continua
a combattere anche oggi. Con la censura dietetica che ha sostituito quella religiosa nella
lotta contro il carnevale dei nostri sensi.
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ON GIGINO — dice
l’anziana
parrocchiana al
prete che
tentava
discretamente di ridurre il numero di
statue di santi presenti in chiesa — se lei
crede che noi veniamo in chiesa solo per
Gesù Cristo, si sbaglia di grosso! Ci ridia
i nostri santi!”. Classico esempio di una
religiosità popolare cattolica che ha
smarrito la centralità di Gesù Cristo
nella fede cristiana e rasenta la
superstizione? Forse. Ma, più
probabilmente, il segno che le persone
semplici percepiscono i santi — anche e
soprattutto quelli locali e meno famosi
— come uomini e donne alla loro
portata, esempi che possono essere
imitati, o chiamati in soccorso nelle
traversie della vita, proprio in virtù del
fatto che anche loro le hanno affrontate.
Nella chiesa cattolica e ortodossa i santi
sono gli amici invisibili, riferimenti
esemplari e intercessori in una
comunione che spezza ogni solitudine e
fa “vivere insieme” quelli che sono già
morti e quelli ancora sulla terra.
Ma la “testimonianza” offerta da
questi discepoli di Cristo di ogni epoca e
latitudine non è quella
auto-celebrazione pubblica che oggi è
così di moda richiedere a personaggi di
chiesa e a leader spirituali affinché
raccontino la loro “esperienza”
generatrice di audience. È invece il
segno concreto che sono esistite ed
esistono persone che mostrano di avere
qualcosa di così grande per cui vale la
pena di vivere e persino di morire. È
quanto esprimeva efficacemente già
Paolo VI, ripreso da papa Francesco
poco dopo la sua elezione: «La chiesa ha
bisogno di testimoni, non tanto di
maestri!». E non solo la chiesa, ma la
società tutta ha bisogno di persone in
grado di mettere in gioco se stessi per il
bene comune.
Un tempo legata al calendario e al
succedersi di giorni e stagioni —
soprattutto nel mondo contadino: ogni
frutto della terra aveva un santo
protettore... — la devozione per i santi
non soltanto non sembra venir meno,
ma pare progressivamente purificarsi
dalla riduzione paganeggiante a
processioni strumentalizzate o sagre
strapaesane o protezioni particolari
accordate a confraternite di arti e
mestieri. Basti pensare al bisogno di
figure attuali di uomini e donne che
antepongono la vita degli altri, la pace e
la giustizia al proprio successo
personale e persino alla stessa
sopravvivenza fisica. Se il vescovo
Romero o don Pino Puglisi, madre
Teresa o papa Giovanni sono entrati nel
cuore di tante persone — accanto a
figure ben più lontane nel tempo come i
primi martiri, o sant’Antonio o i padri
della chiesa — è perché nel cuore
umano non si spegne la sete di senso,
l’anelito a un mondo più giusto e il
desiderio di una vita nella pace. I santi
sono lì a ricordarci che la differenza tra
un sogno utopico e una realtà tangibile
sta tutta nella convinzione con cui
viviamo e moriamo in modo conforme a
ciò che crediamo.
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la Repubblica
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UTTI, MA PROPRIO TUTTI, AMANO ADELE. A conferma di un vecchio in-
45"3
fallibile principio della musica. Quando c’è da ricostruire, spiazza- 6/3*53"550
re, disegnare nuovi mondi, non c’è nulla di meglio che la voce %*"%&-&
umana, l’unico strumento inimitabile, non replicabile, diverso 7&/50550
da individuo a individuo. Perché questo è soprattutto Adele: pura "//*
voce, voce e niente altro che voce. Ennesimo monolitico tempio alla più squisita qualità della razza umana: parlare, meglio ancora
cantare.
Difficile spiegare altrimenti il dilagare oceanico di questa nuova voce, una di quelle che, come ha notato giustamente Jovanotti
su queste pagine, «basta che apri il microfono e via, il gioco è fatto, non serve altro». E infatti tra i vari primati della cantante c’è
quello di aver imposto uno stile di assoluta sobrietà, perfino un singolo a diffusione planetaria
come 4PNFPOF-JLF:PV inciso per sola voce e pianoforte, quasi una bestemmia in un’era in cui
tutti sembrano avere paura del silenzio e riempiono i vuoti con tutto quello che hanno disposizione. Sembrerebbe una rivolta, un attestato di massa in favore del recupero dell’autenticità.
E certamente lo è, almeno nella testa dei milioni e milioni di spettatori, ascoltatori che cliccano, scaricano i suoi video e file (985 milioni di visualizzazioni in 88 giorni solo per )FMMP, un record), una potenza di fuoco momentaneamente superata solo dalla morte di Bowie. Cosa c’è
dietro tutto questo?
Adele Laurie Blue Adkins è davvero una strana ragazza, tutta curve e bordate di capelli che
vanno e vengono nel corso del tempo, vezzosamente antica coi suoi trucchi TJYUJFT, e le acconciature eccessive. La persistenza di un accento XPSLJOHDMBTT, ruvido e rigorosamente DPDL
OFZdella Londra del nord (Tottenham), il suo modo di scherzare e gigioneggiare la fanno apparire sempre come una ragazza comune ma con un talento talmente enorme da essere ineluttabile: bastò che un amico postasse un suo demo su Myspace per stuzzicare l’interesse di un discografico. Il suo primo album, , pubblicato nel gennaio del 2008, arriva dritto al numero
uno in classifica. Il titolo si riferisce alla sua età, un vezzo che manterrà anche poi marcando la
sua crescita in tempo reale: , e , i suoi
tre dischi, quasi come l’attore Jean-Pierre
Léaud che Truffaut fece crescere nei suoi film
Psy
Adele Wiz Khalifa
seguendo le tracce dello stesso personaggio
Antoine Doinel. Sbanca con un pezzo intitolaVIDEO
VIDEO
VIDEO
to $IBTJOH1BWFNFOUT. Il video la mostra con
Gangnam Style
Hello!
See You Again
gli occhioni chiari spalancati, da bambola, le
labbra carnose, il viso pingue. È soul bianco,
dicono di lei gli esperti, la voce è potente, sicura ma la data del suo primo exploit offre una
possibile chiave interpretativa. A quell’epoca Amy Winehouse non incideva già più nulla, persa nelle buie retrovie della sua disperazione, ma aveva spianato la strada, aveva rivelato questa voglia di grandi voci, di bellezza vocale, di soul bianco, appunto, di musica
che potesse essere in vari modi ricondotta
all’anima. Amy però non concedeva più di
VISUALIZZAZIONI SU YOU TUBE IN MENO DI 200 GIORNI
tanto al pubblico, era spaventosamente vera, emozionante, forse troppo emozionante
per poter servire da consolazione, da grade1 miliardo 1 miliardo 1,3 miliardi
vole accompagnamento. E qui arriva il genio,
IN 160 GIORNI
IN 100 GIORNI
IN 184 GIORNI
all’inizio ampiamente inconsapevole, di Adele. D’istinto riempie il vuoto che lascia Amy, e
lo sposta verso un orizzonte molto più accettabile, più inoffensivo. Più che l’emozione,
che può essere insopportabile, costruisce la
rappresentazione perfetta dell’emozione. E
la rende godibile per tutti, grandi, piccini.
Una voce, nitida, precisa, senza esitazioni,
spesso priva di code e lungaggini, secca, netta, una lama che va dritta allo scopo, a lasciare ferite indelebili sulla pelle, più che sul cuore, il timbro che a tratti si spezza, si lacera come quando il parlato si rompe per l’emozione, ma sempre sotto un ferreo controllo. È incontestabile, diventa indiscutibile. Perfetta.
Curiosamente lei indica come influenza le
Spice Girls, che però sono il suo opposto: cantanti modestissime.Per sua fortuna scopre
poi Etta James (la passione) Ella Fitzgerald
(la libertà), Roberta Flack (il controllo) e naturalmente Amy. La sua è una strada segnata, da subito. Prova anche a buttarla a mare
cancellando il previsto tour che dovrebbe
1º
2º
3º
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VIDEO MUSICALI PIÙ VISTI SU YOU TUBE *
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PSY
2º
Gangnam Style
2 miliardi e 497 milioni
INFOGRAFICA PAULA SIMONETTI
Taylor Swift
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3º
Blank Space
1 miliardo e 404 milioni
Wiz Khalifa
4º
See You Again
1 miliardo e 354 milioni
Mark Ronson
5º
Uptown Funk
1 miliardo e 295 milioni
Justin Bieber
1 miliardo e 280 milioni
Baby
la Repubblica
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“spingerla” sul mercato americano, storie di
eccessive bevute e di un amore tormentato,
ma poi si riprende e dimostra un’altra qualità
sopraffina: una sorta di istinto feroce nel dare
il massimo nei momenti decisivi. Annulla i
concerti negli Usa ma viene invitata al 4BUVS
EBZ/JHIUMJWF e come nelle migliori storie del
pop (da Elvis in poi) ne tira fuori un momento esplosivo, siamo nell’ottobre 2008, con 17
milioni di spettatori e un enorme balzo in classifica. Da lì in poi i grandi numeri la accompagnano come fedeli cagnolini. Quando esce
, va primo in classifica in ventisei nazioni. Il
singolo, 4PNFPOF-JLF:PV, è probabilmente
il suo vertice emotivo. Dirà che il disco era stato realizzato sulla scia della sua delusione
amorosa. E indovina un’altra performance televisiva da brividi ai Brit award. Ogni volta
che il mondo è lì a guardarla, Adele non sbaglia. Non è una perdente. Non è come Amy.
6º
Taylor Swift
Anzi.
E continua a battere record. Sulla scia del
successo di torna su in classifica anche ,
e così si ritrova due singoli e due album in classifica contemporaneamente. Non succedeva
dal 1964: erano i Beatles. In un solo anno, il
2013, colleziona un Oscar per 4LZGBMM (che oltretutto la inserisce nell’olimpo delle più fortunate soundtrack bondiane) e la decorazione come Membro dell’Ordine dell’Impero britannico (la stessa ricevuta a suo tempo sempre dai Beatles): durante la cerimonia manca
poco che inciampi sul principe Carlo, goffa come una ragazzina del popolo invitata per sbaglio a corte. Ma in quanto Cenerentola diventa principessa senza neanche bisogno del
Principe.
Subisce perfino un’operazione alle corde
vocali con doveroso stop. Ma si riprende giusto in tempo per un’altra pausa. Lei, vissuta
7º
Shake It Off
1 miliardo e 269 milioni
Katy Perry
di fatto senza padre, cresciuta dalla madre
che l’ha avuta appena ventenne, decide di fermarsi, di avere un bambino, un figlio dal nome italiano: Angelo nasce il 19 ottobre 2012.
Passano addirittura tre anni, ma il suo destino è ineluttabile. Adele si presenta dimagrita
(30 chili in tre anni si dice), vegetariana, più
spiritosa che mai, “rappa” scatenata in auto
col conduttore James Corden, duetta con Jimmy Fallon, e pubblica un disco, il terzo, ,
che sbanca, sbaraglia, devasta, un altro terremoto discografico. Un disco perfetto, al punto da generare qualche sospetto. Adele è la
rappresentazione dell’emozione come i nostri tempi chiedono. Accettabile, credibile,
non troppo devastante, sicura, convincente,
brava. E ha una voce che non ammette repliche, e regala a tutti la sensazione di apprezzare e ammirare un monumento al talento.
1 miliardo e 250 milioni
Enrique Iglesias
RADIO STARS”,
cantavano nel
settembre del
1979 i Buggles, e
di certo l’era di Mtv, che si aprì di lì a poco,
contribuì a far nascere una generazione
di star che avevano più rapporto con
l’immagine che con la modulazione di
frequenza. Oggi che la Rete ha cambiato
ogni cosa è YouTube lo strumento di
creazione di fama e successo. Attenzione,
però: non si tratta di una faccenda facile
da liquidare, perché YouTube è sotto ogni
punto di vista un “new media” che, per
dirla con Bolter e Grusin, non si limita a
«rimediare» la televisione, ma sta
rielaborando in forma nuova anche altri
tre media: i dischi, la radio e il buon
vecchio juke box. Fondendo tutti e
quattro in uno strumento diverso dai
precedenti.
Se è vero che il suo core business è
quello di mettere on line i video, è anche
vero che la loro centralità nel mercato
musicale è relativa. Prova ne sia,
contrariamente a quanto sembra a prima
vista, proprio il video del singolo
miliardario di Adele. Partiamo dai dati:
“Hello” è il video più visto di YouTube, ma
è anche il singolo che ha ottenuto il
maggior numero di streaming, quello
fisicamente più venduto degli ultimi mesi
assieme all’album “25”. Così era stato, del
resto, per l’album precedente, “21”, che è
risultato per due anni consecutivi l’album
più venduto negli Usa. Il che già ci dice
che siamo davanti ad un caso unico.
Inoltre il video di “Hello”, in sé, non ha
particolari motivi per essere un successo:
è ben girato ma è didascalico, piuttosto
ovvio nel suo sviluppo, senza particolari
spunti originali. E allora perché è il più
visto? Questo è il punto: perché il video di
Adele, così come gli altri kolossal di
YouTube, non sono necessariamente
“visti”. Vengono usati come video da una
minoranza, la maggior parte degli utenti
usa i clip come si usavano un tempo i 45
giri, o ancor meglio come si usavano i juke
box. Il meccanismo è semplice: ho voglia
di ascoltare “Hello” di Adele? Lo posso
fare ovunque io sia, basta accendere lo
smartphone, il tablet, il pc, ma anche il
televisore smart e, utilizzando YouTube,
ascoltare semplicemente la canzone
desiderata. E se voglio posso anche, come
in una radio, mettere in sequenza una
serie di canzoni di Adele. Così i video, nati
per essere visti in sequenza sulle
televisioni del secolo scorso, sono
diventati dei clip da consumare on
demand sui device che abbiamo in tasca.
ª3*130%6;*0/&3*4&37"5"
8º
Dark Horse
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IDEO KILLED THE
ª3*130%6;*0/&3*4&37"5"
9º
Bailando
1 miliardo e 247 milioni
Katy Perry
10º
Roar
All About That Bass
1 miliardo e 213 milioni
1 miliardo e 222 milioni
* Nella classifica di tutti i tempi Adele compare attualmente al 18º posto
M. Trainor
LEGENDA
Visualizzazioni
Brano
Artista
la Repubblica
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ORRO, CHI ERA COSTUI? A VEDERLO ADAGIATO sulla bancarella del merca-
to, ordinato per misure, dagli esili e candidi racchiusi in mazzetti a
quelli lunghi e giganteschi (possono sfiorare il metro) sembra un ortaggio da niente. Errore: dalle star della cucina al più umile praticante dei fornelli, il porro firma mille ricette, senza troppo curarsi della
posizione occupata nell’elenco degli ingredienti, riuscendo squisito
e necessario in una zuppa come nelle torte salate.
Un eclettismo non così scontato in dispensa. Perché esistono alimenti tanto pregiati da potersi spendere solo nel ruolo di protagonisti, dall’altero caviale alla carnale melanzana. E al contrario, cibi pure buonissimi ma scopertamente modesti, che non vanno mai oltre il
recinto dei dettagli, dallo scalogno al lardo.
I porri, invece, dove li metti stanno, e pure bene, evitando solamente l’enclave dei dessert.
Una capacità riconosciuta da una parte all’altra del pianeta, se è vero che popolano le ricette di
Africa, America e Asia, e che perfino in Europa la diffusione riesce capillare dalla Gran Bretagna
alla Grecia. Merito di una storia antichissima e
pressoché ubiquitaria, grazie alla quale han- derive giallognole. Anche perché solo lo status
no imparato a crescere quasi ovunque, predili- di “appena raccolto” garantisce suadenza e
gendo i climi più freddi ma non disdegnando spunto fresco, mentre quelli dimenticati in friquello mediterraneo e adattandosi perfino al- go o comprati sulla via dell’avvizzimento sono
le temperature caldissime delle zone equato- ad alto rischio di gusto acre, grossolano.
Delicati come sono, mal sopportano anche
riali.
Così, tra una tipologia soavemente dolce e le preparazioni troppo anticipate. Per averli al
una dal gusto impertinente, i porri si sono con- meglio, vanno puliti e tagliati al momento di
quistati in primis il ruolo di alternative alle ci- usarli, evitando ossidazioni, oppure affettati e
polle, di cui sono stretti parenti, condividendo lasciati in acqua ghiacciata fino all’ultimo
l’appartenenza alla famiglia delle -JMJBDFBF, istante. Se poi ne compriamo più di quanti ce
genere "MMJVN, insieme a scalogno ed erba ci- ne servano in tempi brevi — i mazzi venduti
pollina. Ogni volta che vogliamo un soffritto sa- dai contadini — oppure ci ritroviamo a gestire
porito ma non aggressivo o un risotto che pro- la cassetta regalata dall’amico con l’orto in cafumi senza “sapere di”, le rondelle biancover- sa, meglio privarli delle foglie esterne, lavarli,
di tagliate sottili si affacciano in padella, misu- asciugarli, avvolgerli in un canovaccio umido
e riporli al freddo, lontano dalla luce.
rate e sbarazzine.
Curiosi e appassionati non si lascino sfuggiBuoni e sani, i porri: una miscellanea salutista di virtù antisettiche e sali minerali, flavo- re il loro tempo migliore, tra adesso e febbranoidi e acido folico. A patto, naturalmente, di io, quando il freddo intenso ne rende le foglie
rispettare i comandamenti aurei che ne rego- croccanti e ammorbidisce le fibre. Una gita in
lano scelta, conservazione e utilizzo. Toccare Langa, zona Cervere, vi farà scoprire ricette
per credere: i gambi devono essere sodi, pieni, storiche e declinazioni impensate. Indispensacosì come i ciuffi, ben serrati e di un bel verde bile un bicchiere di Arneis ËDÙUÏ.
tenero o scuro, ma comunque brillante, senza
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ulire, pelare e tagliare a pezzetti regolari il sedano
rapa e sbollentarlo nove minuti in poca acqua.
Frullarlo emulsionandolo extravergine e sale. Pulire, tagliare i porri a cubetti regolari e tenerli da parte. Tagliare lo zenzero a cubetti finissimi e tritare le foglie del
sedano. Tostare il riso con pochissimo olio e sale come
per fare un risotto e cuocerlo fino a tre quarti di cottura. Aggiungere i porri a cubetti e terminare.
Mantecare il riso con il miso bianco, la crema di sedano rapa, il limone e un mestolo di brodo di verdure. Spolverare la zuppa di riso con una manciata di foglie di sedano verde tritate.
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INGREDIENTI:
120 G. DI RISO ARBORIO
200 G. DI GIOVANI PORRI, 30 G. DI MISO BIANCO
80 G. DI SEDANO RAPA, 20 G. DI OLIO EXTRA VERGINE
20 G. DI ZENZERO A CUBETTI, 20 G. DI FOGLIE DI SEDANO VERDE
350 G. DI BRODO VEGETALE, IL SUCCO DI 1 LIMONE
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E PARLI A UN BRAIDESE, come
me, di porri, la prima cosa
che si pensa è: Cervere.
Località poco distante,
diventata nota proprio per
questa verdura. Nel territorio di questo
comune, in virtù di terreni sabbiosi e
dell’ecotipo locale, nonché di una
tradizione agronomica particolare,
cresce un porro tanto buono e delicato
da poter essere consumato anche a
crudo, in pinzimonio o con la “bagna
cauda” tradizionale, a differenza dei
porri tozzi, immangiabili se non cotti,
che in Italia arrivano quasi tutti, e quasi
tutto l’anno, dall’Olanda. I porri di
Cervere la mia generazione li ha
scoperti andando da Renzo, all’osteria
Antica Corona Reale che oggi è
diventata un ristorante stellato, che era
l’”ostu” preferito da chi sapeva
mangiare bene — con me tanti
produttori di vino e mitiche figure di
gourmet vecchio stampo — e che
andava là per le lumache, le rane e,
appunto, gli immancabili porri.
Sono il simbolo della gastronomia
tradizionale del freddo, da quando l’arte
di coltivare e produrre verdura in tempi
di non globalizzazione s’ingegnò per
allungare la vita ai frutti dei campi.
Radicchi e altre varietà tardive, cardi,
tutte le verdure sottoposte al cosiddetto
processo di imbianchimento. A un certo
punto, sia dopo averle raccolte, sia
direttamente nei campi sotterrandole o
coprendole, le verdure continuano a
vegetare ma gli si toglie la possibilità di
realizzare la fotosintesi clorofilliana.
Diventano più bianche, ma perdono
l’amaro, si trasformano in qualcosa di
delicato e delizioso, il freddo ne
aumenta la croccantezza e il piacere di
mangiarle crude. Prendete un cardo
gobbo di Nizza Monferrato (Presidio
Slow Food) e uno “normale” verdognolo:
a crudo il primo vi sorprenderà
piacevolmente, il secondo lo sputerete
con disgusto.
Non è poesia, anche se evoca
sensazioni bucoliche; non è una fisima
da esperti di cibo: è economia locale,
antica e moderna, che per allungare la
disponibilità dei prodotti nella stagione
difficile crea monumenti del gusto.
Sono buoni, buonissimi i cardi e i porri
piemontesi, come altri prodotti
analoghi in Italia, ma non sono simbolo
di un passato superato: sono il risultato
di un contesto particolare, di una
cultura. Conoscerli significa saper
andare in profondità, rompere la patina
superficiale dell’omologazione, e capire
che quelle cose, fatte così, non si
possono realizzare in nessun altro luogo
al mondo. E ogni luogo ha le sue,
diverse. Generano ricchezza — Cervere
da quegli anni in cui andavo dal vecchio
Renzo intanto sui porri ci ha costruito
un’economia non da poco — e a me
sembrano la migliore alternativa
possibile ai modelli economici e
finanziari che tanto hanno portato via
alle nostre vite: bisogna difendere,
ricostruire, rigenerare il valore di
queste piccole cose. Tante, ovunque,
per resistere e farlo con piacere.
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L’infanzia in Messico, la voglia di viaggiare (a diciassette anni imbarcato per un giro del mondo), di scoprire nuove prospettive dalle quali osservare. E la scelta di farlo attraverso il cinema “ma solo
perché con la mia vera passione, la musica, avevo fallito”. Il premio
Oscar con “Birdman” (e ora con dodici candidature per “Revenant”) si racconta in un albergo romano assediato dalle fans per la
presenza di Leo DiCaprio: “Quello che voglio veramente fare con il
mio lavoro non è documentare L’impegno era quello di realizzare qualcosa che emozionasse il pubblico di ogche avesse un valore anche per il futuro».
3FWFOBOU3FEJWJWP, si sa, racconta una storia di sopravvivenza, la leggenla realtà, per quello penso che va- gidama
di Hugh Glass, un cacciatore di pelli che nel 1823, durante una spedizione
nella natura incontaminata alla frontiera tra Stati Uniti e Canada, aggredito
grizzly, ferito e sanguinante, fu abbandonato, solo e senza risorse. Riuda assai meglio la televisione. dascì una sopravvivere
e a percorrere oltre 300 chilometri per raggiungere il compagno che lo aveva tradito e che ne aveva ucciso il figlio adolescente, Hawk,
aveva avuto da una donna indiana. Forse meno conosciuta è la storia
Quello che cerco io è la nostra che
dell’uomo che l’ha portato sul grande schermo.
Alejandro González Iñárritu è nato a Città del Messico cinquantatré anni fa.
Si trasferì negli Usa, a Los Angeles, dopo il successo del suo primo film, "NP
metafisica. In altre parole è il mi- SFTQFSSPT (2000. Ed è proprio nel personaggio di Hawk che Iñárritu si identifica. «Hawk è un misto di razze e malgrado l’affetto del padre resta comunque
un outsider, segnato dal colore della pelle. Anch’io ho la pelle scura, vivo a Los
stero e non la verità”
Angeles da quindici anni ormai e sin dall’inizio ho imparato a capire che signi-
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ROMA
un grande albergo romano, presidiato all’esterno da
gruppi di giovani e meno giovani donne
con il cellulare in agguato per cogliere
un sorriso, un saluto, almeno uno sguardo. No, non di Alejandro González Iñárritudi ma di Leonardo DiCaprio e del suo
appeal che soprattutto sul pubblico femminile resiste dai tempi di 5JUBOJD —
tanto più che quest’anno rischia davvero di portarsela a
casa la statuetta come attore
protagonista. 3FWFOBOU — 3FEJWJWP, ne ha già collezionate dodici
di candidature. E se a vincere fosse anche il regista allora sarebbe
un vero evento nella storia del cinema, un bis dopo il trionfo dell’anno
scorso con #JSENBO. E dunque non è con Leonardo DiCaprio ma con
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Alejandro González Iñárritu che abbiamo un appuntamento. Attacca subito: «Leo è una vera star, ma è anche un grande attore, un professionista. Ha lavorato nelle condizioni
più difficili, addosso pesanti costumi di scena, strisciando
su terreni ghiacciati, in luoghi bui e inospitali. Pochi attori
avrebbero accettato di affrontare prove così difficili. Abbiamo girato per nove mesi nella Colombia britannica, potevamo lavorare un’ora e mezzo al giorno, sia per la luce che per
la temperatura proibitiva. Leo non ha mai perso entusiasmo, si è immerso nella natura con tutto se stesso. Trovo geniale che qualcuno da qualche parte abbia scritto “NationaLeoGraphic”».Quanto agli Oscar: «Certo, Leo ed io siamo molto contenti dell’accoglienza e dell’attenzione dell’Academy,
ma francamente non abbiamo fatto il film pensando all’Oscar.
fichi essere un outsider. Poi, grazie al mio lavoro, ho avuto la fortuna e il privilegio di essere stato accettato e persino premiato. Ma milioni di miei concittadini messicani vengono maltrattati, respinti, a volte brutalizzati. L’ignoranza,
la non conoscenza del diverso, genera sempre ostilità e paura. E non a caso sono questi i sentimenti che si avvertono nel film: tra le diverse tribu di indiani,
tra gli indiani e gli americani, tra i diversi gruppi di cacciatori».
Certo, il film è ambientato nei primi anni dell’Ottocento, quando l’America
si stava formando come nazione, «ma è anche un film politico che parla dell’oggi, di un mondo che sta affrontando ovunque il problema dell’emigrazione e
dell’arrivo del diverso, e dunque della paura, del nemico. Con questo non voglio dire che tocchi al cinema raccontare la realtà del mondo, documentarla.
Personalmente trovo più interessante un cinema che cerchi il mistero della vita, la percezione più che la realtà». Influenze? «Il neorealismo italiano mi ha influenzato molto, ma oggi cerco storie più metafisiche, qualcosa che mi provochi un’emozione inspiegabile, come un quadro, un pezzo di jazz. È più il percorso spirituale dell’essere umano che mi attrae che la verità di una vicenda, ed è
questo il modo con cui ho affrontato il personaggio di Hugh Glass». Non a caso
per 3FWFOBOU3FEJWJWP cita come riferimenti film come "QPDBMZQTF/PX o
"HVJSSF, autori come Kurosawa e Tarkovski. «Spero che vada in questo senso
anche il gusto del pubblico, che è molto cambiato negli ultimi tempi. Basta
pensare al cinema italiano, un cinema che faceva il giro del mondo e oggi mi dicono che gli italiani vogliano soprattutto commedie. Eppure avete Nanni Moretti, Sorrentino e Garrone...».
Iñárritu non è uno di quegli autori che sognavano il cinema fin da bambino
— «anche se mio padre mi portava spesso a vedere i migliori film che uscivano
in Messico» — ma ha vissuto avventurose esperienze giovanili. A diciassette
anni si imbarcò su una nave, per due anni girò il mondo e non smentisce la circostanza che sia stato costretto a lasciare il Messico da un potente signore, decisamente contrario al fatto che il ragazzo frequentasse assiduamente sua figlia. Al ritorno ha studiato comunicazione. «Ho cominciato a lavorare alla ra-
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dio, intervistavo rockstar, trasmettevo concerti, ero bravo credo. La mia vera
passione comunque era la musica, avevo una band, suonavo la chitarra, avevo
un buon orecchio, ma ero un pessimo esecutore: se avessi continuato sarei
stato un musicista frustrato. È grazie al fallimento con la musica che sono passato al cinema. Lavorando per la televisione ho scoperto che mi
piaceva il clima del set, la collaborazione tra gli attori, la troupe».
La decisione di lasciare Città del Messico è stata favorita da una brutta rapina di cui fu vittima. «Oggi penso di aver fatto la cosa giusta, se fossi rimasto in Messico, immerso in una realtà che conoscevo così bene,
favorito dalla lingua e dall’ambiente, sono sicuro che la mia creatività si sarebbe esaurita. Non è stato facile abituarmi agli Stati Uniti, avevo i miei pregiudizi, non sopportavo il nazionalismo di
certi americani che credono di essere i migliori del mondo. Ci
ho messo otto anni ad abituarmi».
Difficile trovare un filo conduttore nei suo film. In HSBN
NJ racconta il peso dell’anima - «No, non sono un credente
ma credo nella spiritualità che ogni essere umano può trovare» — mentre in #BCFMsi intrecciano quattro diverse storie
girate in quattro paesi diversi: «Mi aiutato l’esperienza giovanile dei miei giri del mondo, la memoria di società e culture diverso. Ma l’unico filo conduttore forse è la libertà che
pretendo in ogni mio film: sono sempre padrone dei miei
progetti, non voglio interferenze degli Studios, dal primo
all’ultimo film il final cut è il mio. Mi assumo tutte le responsabilità, anche dei miei errori naturalmente, non posso dare colpe a nessuno».
I prossimi impegni di Inarritu «mi riguardano come padre. Ho due figli adolescenti. È vero che spesso li porto con
me, siamo come un circo viaggiante. Ma negli ultimi tempi li
ho trascurati, devo rifarmi».
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