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Finalmente , pare, qualcosa si muova per rivalutare i dialetti che
Voci dal Sud
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AnnoVI° nr. 3 Marzo 2010
w w w . s o s e d . eu
Finalmente , pare, qualcosa si muova
per rivalutare i dialetti che sono poi vere
e proprie “lingue”
di Franz Rodi-Morabito
Ho più volte, nel corso di questi ultimi anni scritto relati- questo avvenne in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, nella
vamente ai cosiddetti “dialetti” che in Italia, nella maggiro Liguria ed in Emilia-Romagna (ove addirittura rifiutano l’esparte dei casi sono delle vere e proprie lingue “autoctone”. sere accomunati fra le due regioni, soprattutto i romagnoli).
In effetti tutte le popolazioni sono state gelose custodi
In queste regioni anche ai giorni nostri, anche nelle
del proprio idioma fin quando su inoculato un sottile germe riunioni “ufficiali” e di qualsiasi levatura la lingua parlata è
che divenne una precisa equazione dialetto=villania ed ar- la lingua locale.
retratezza.
Nell’Italia centro meridionale, invece, si cercò in tutti i
Ciò avvenne esattmente circa 150 anni additro quando le modi di cancellare lingua ed origini (le regioni meridionali
varie identità politiche e sociali italiane furono spazzate vie hanno una tradizione storicao-culturale antichissima) e si
per creare l’Italia Unita che i Savoia che avevano assoldato insinuò il germe che parlare in dialetto fosse una vergogna
il generale Giuseppe Garibaldi realizzarono in forza di una che denunciava chiaramente uno status di “cafone”, di
“investitura alquanto opinabile e di assoluta nebulosa pa- appartenenza al basso ceto, di arretrato.
ternità.
In effetti, anche se come detto, si continuò a parlare le
Tuttavia, giusto come recitato da una famosa frase “fat- proprie lingue non vi fu una resistenza ben determinata e si
ta l’Italia bisognava fare gli italiani”!
creò il bilinguismo che tutti conosciamo: si parla in dialetto
Ma ... ahimè questa operazione di fare gli italiani, in effet- ma ... con un profondo senso di colpa!
ti si presentò molto più ardua e difficile di quanto i Savoia
Da Bruxelles vennero anche leggi a protezione di alcune
pensassero.
lingue cosiddette “minori” (il grecanico, l’albanese,
Le varie popolazioni indigene degli ex Stati, piccoli, medi l’arbarech ecc) ed oggi sonmo in dirittura d’arrivo il sardo
o grandi in cui era frammentata la penisola Iitaliana prima e il siciliano, mentre per il calabro, a causa di una latente
dell’accorpamento sotto il Regno d’Italia, rimasero mental- disattenzione, si parla pochino.
mente fedeli allo status quo ante ed iniziò così l’opera
Io ebbi a scrivere, come detto, molto negli anni ‘90 del
espoliativa da parte del novello Regno d’Italia nei confron- secolo scorso su la nostra rivista pro tempore (la Città del
ti delle realtà preesistenti.
Sole) e spesso ho riproposto i miei scritti in questa mia
Una delle prime cose da fare fu il tentativo di tragliare le nuova testata.
radici e quale più valide radici della lingua? Infatti il comune
Lo faccio ancora, anche se, ovviamente, non ho la forza
denominatore rappresenato dalla “lingua italiana” era vali- di “impormi” ,a sperando che qualcuno che la forza la detine
do solo per intendersi fra popoli diversi sia per storia, che volgia farsi carico per evitare questa ulteriore espoliazioni
per origini nonchè per usi e costumi.
di un pratrimoni storico culturale che la Calabria vanta da
In effetti tutti mantennero la propria lingua di origine e millenni.
Il “calabrese”, un dialetto o una lingua?
Franz Rodi-Morabito
In epoca di globalizzazione, in un momento di euforia pro Europa unita, in uno spasmodico tentativo di omologazione
totale, parlare di “lingua protetta” potrebbe sembrare “una voce fuori dal coro”. Ma non è così! si può fare parte di un
gruppo pur senza cancellare e mortificare la propria identità. Crediamo, anzi, che solo se la si mantiene e la si confronta
correttamente con quella degli altri componenti in un dialogo aperto e schietto, il gruppo possa crescere meglio.
Sin dalla notte dei tempi mi sono battuto affinchè anche il cosidetto “dialetto” della Calabria sia da riconoscere come
“lingua” e non come dialetto. Ho cercato, nel mio microcosmo familiare, di tenere viva la lingua calabrese curando che le
mie figlie parlassero e capissero il calabrese ed utilizzassero la lingua italiana come lingua di comune denominatore nei
contatti con soggetti di altre regioni al fine di capirsi. In una lingua locale, che chiameremo per comodità “dialetto” pur
rifiutandone la ghettizzazione comune, sono racchiusi millenni di storia della regione, di eventi, di origini dei popoli, di
lotte, di somatizzazioni ed addirittura, oseremmo dire, rispecchia l’orografia della zona (le popolazioni montane hanno un
modo di esprimersi diverso da quelle delle zone marine). Nel “dialetto” ci sono le radici di un popolo! Una delle considerazioni che faccio a supporto del mio pensiero è che altri popoli italianissimi quale i piemontesi, i lombardi, i veneti, i liguri,
gli emiliani ecc. usano comunemente la lingua locale anche fra persone di cultura ed in tutti i contesti anche ufficiali.
Ed allora perché i nostri figli non debbono parlarla e studiarla a scuola per poterla usare correntemente quando si è fra
conterranei? perché si è inculcato da sempre il principio che “parlare in dialetto è sinonimo di cafonaggine e villania”? La
trovo una equazione obrobriosa! Eppure le “lingue minori” sono riconosciute e protette e viene loro riconosciuto lo
status di lingua regionale previsto dalla Carta Europea delle lingue regionali e minoritarie approvata dal comitato dei
ministri del Consiglio d’Europa nel 1992. Da ricordare che nelle sole Calabria e Sicilia sono circa otto milioni le persone
che parlano la “loro” lingua mentre entità decisamente minori come la Sardegna con circa 1.500.000 persone, il Friuli con
circa 600,000, l’ Emilia-Romagna ove viene insegnata nelle scuole pubbliche, o le zone grecaniche ed albanesi con una
esigua quantità di persone hanno il loro giusto e doveroso riconoscimento. Non vogliamo andare all’estero ove troviamo il basco (580.000), il catalano, il bretone, il gallese e tantissime altre realtà. Dobbiamo riconoscere che io stesso, pur
indigeno di questa Terra, vivo in definitiva una realtà conflittuale, sono
“i ddui cori” (sono di due cuori = sono
combattuto internamente) perchè, proprio a causa di condizionamenti atavici, mi è stato inculcato che per essere persone
civili e non “cafoni” debbo parlare italiano! Sorge imperioso il sospetto che per realizzare politicamente l’unità d’Italia si
sia voluto “spogliare” le popolazioni dai legami storici e sdradicarli dalla propria cultura che ne avrebbe difficultato la
realizzazione (ed i ... disegni!). Non dimentichiamo che quando fu realizzata la Unità d’Italia il nuovo “comandante”, il Re
Savoia, ha “confiscato” ai Borboni del “Regno delle due Sicilie”, e, quindi, a noi tutti (!) un tesoro in moneta liquida che
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era maggiore di tutto l’intero restante patrimonio del nuovo Stato che nasceva e preferiamo ... sorvolare, per non
addentrarci in campi minati, sullo sfruttamento delle nostre risorse naturali, delle nostre miniere, delle nostre fonderie, dei
nostri intelletti e delle stesse vite dei nostri figli chiamati ad immolarsi in nome di una “unità” che per i meridionali
significa tutt’oggi solamente doveri. Noi abbiamo alle spalle un invidiabile patrimonio culturale che poche popolazioni
italiane possono vantare, abbiamo St oria che altrove è solo in Mens Dei. Abbiamo dato al Mondo “cervelli” eccelsi in
tutte le discipline. Ed allora? perchè altre realtà sono degne di avere una “lingua” e la Calabria no?
Muoviamoci a livelli istituzionali perchè, si sa, se non chiedi con forza nessuno ti regala nulla e men che mai quanto ci
spetta di diritto.
Il dialetto un bene da tutelare
DOMENICO LOGOZZO - Il Quotidiano
Il dialetto, una ricchezza! Altro che discriminazione e
denigrazione. Un bene da tutelare, la “lingua“ da non far morire.
Rivitalizzarela“parlatalocale”.Quantoèaffascinanteedemozionante sentire dalla voce degli anziani espressioni ancora oggi
tanto comuni, quando in questi giorni d’estate incontrano per
strada i giovani “forestieri” che sono in vacanza nei nostri paesi e
chiedono “tu cu’ si?”. Una curiosità ed anche una ricerca per
“scoprire” le radici del turista. E se la risposta è immediata, se le
richieste “generalità” vengono anche arricchite dall’albero
genealogico il loro volto ha una espressione di felicità e soddisfazione. Come dire: questo giovane cresciuto in regioni e nazioni
lontane, dove si parla italiano o inglese o francese o tedesco,
“capiscipuru‘udialettu”.Vuoldirechelafamigliagliha“insegnato anche la lingua del paese natio”. Un segno di civiltà che non
puòmorire.Lepolemichedeigiorniscorsihannoaccesoiriflettori
su un territorio culturale per troppo tempo nell’ombra. Eppure fin
dallametàdelsecoloscorso,negliannidellagrandeemigrazione,
il timore di perdere le “antiche abitudini” aveva avuto in Calabria
illuminatiinterventidiuominidicultura,divalorenazionale:scrittori e poeti che avevano fatto sentire autorevolmente il loro preoccupato pensiero per il “bel tempo andato”, che rischiava di
esseredefinitivamentesepoltodall’oblio.«Igiovanidiora,rispetto a quelli di ieri, al posto di fave arrostite hanno gelati e tante
leccornie e spassi, ma non conoscono la gioia del focolare e
dell’ascoltare le favole e storie varie che erano espressione dello
spiritodella comunità e insieme nutrimento della fantasia. Essi, i
giovani, hanno la televisione che trasmette canzonette e altre
futilità che svuotano l’animo, ma non sentono, e perciò non la
vivono e non la capiscono, quella “pojsìa” che c’era nel passato». Così Saverio Strati, 30 anni fa, affrontava la questione giovanile e la cultura della memoria. Lo faceva prendendo spunto dall’importanza della poesia in vernacolo, nella presentazione del
libro di Rocco Ritorto “’a hjaratta”, uno strumento per cardare il
lino, simbolo di un passato che sembra perso irrimediabilmente e
chegrazieallacopertinarealizzatadaGiuseppeCorreale,racconta
ancora la pazienza e l’arte delle donne della nostra terra com’erano una volta: schive e forti, ma anche molto belle e tenute “nascoste” dagli uomini.
Quelle donne descritte da Cesare Pavese nel libro nato durante
ilconfinoaBrancaleone,nel1935:«Unabellezzafina,chetemeil
sole e le occhiate. Sono vere donne, le nostre. Per questo le
teniamo rinchiuse», si “giustificava” il calabrese al quale il protagonista del libro aveva chiesto «se non c’erano delle ragazze in
paese , e, se c’erano, come mai non si vedevano sulla spiaggia».
L’assenza delle donne nei ristoranti e nelle piazze calabresi era
stata notata anche dallo scrittore Alberto Savinio in “Partita rimandata”, diario di un viaggio fatto nella nostra regione oltre
sessanta anni fa.
Pagine di storia da rileggere, per capire e soprattutto scoprire
cos’eraecom’eralaCalabria.
Passi avanti ce ne sono stati. Le donne
hanno acquisito ruoli importanti. C’è tanto cammino da fare.
Sono sempre poche quelle che riescono ad esprimere pienamente le loro peculiarità.
Pregiudizi anacronistici sopravvivono. Ed è un male per la
crescita civile e sociale dell’intera comunità regionale.
Comeèunmaleimperdonabileinaridireleradiciefarscomparire il ricordo dei vecchi saggi.
I
nostri nonni, “i pappù”, li possiamo rivedere grazie alle
poesie di Rocco Ritorto, geniale maestro di scuola e gran
de uomo di cultura sidernese.
Trentaannifaavevagiàintuitochec’erailbisognoditrasferire
la tradizione del racconto orale su pagine indelebili di storia: la
scritturael’immagine,datramandareallefuturegenerazioni.
Ricordi e rimpianti. Il focolare che non c’è più. Le ingiustizie
sociali purtroppo non scompaiono.
GiàneglianniSettantacis’indignavaperchéicalciatoriguadagnavanomiliardidilire,mentreilpoverocontadino,cheimpiegava un anno per crescere il maiale, riusciva aguadagnare dalla
venditadell’animale“milliliria‘uchilu”.
Da qui l’imprecazione: “Mundu pputtanu, ‘ngrassa ed arricchi
cu’ non faci nenti, e cu’ lavura resta ‘nu pezzenti!”, metteva in
evidenzala disparità sociale e la furbizia dei soliti sfruttatori ai
danni della gente umile e onesta.
Iericomeoggi.Quantaamaraattualità.RileggereiversidiRitorto,
portare nostre scuole e far studiare ai ragazzi il libro scritto nel
lugliodel1979,magistralmenteillustratodaartisticomeGiuseppe
Correale e Nik Spatari, sarebbe una straordinaria operazione culturale per l’apprendimento di valori semplici ma grandi che i giovani non conoscono e che i meno giovani hanno colpevolmente
dimenticato.
Sappiamo quanto è tortuoso e lungo e disseminato di difficoltà
il percorso da compiere per far comprendere e per imporre certe
“novità”, ma è assolutamente necessario intraprendere questo
“camminodiriscopertadelleradici”sesivuoledareunfuturoalla
identità sociale e culturale di una regione che sta perdendo molte
delle sue specificità.
II recupero del dialetto, la ristampa delle opere più signi
ficative, la valorizzazione di poeti straordinari come Rocco
Ritorto e come l’indimenticabile “Micu Pelle”, che Vito
Teti ha ricordato sulle pagine del “Quotidiano”, possono
rappresentare una svolta decisiva per la Calabria che ri
schiadi“perderelamemoria”.
Il bisogno di difendere la propria terra, che purtroppo continua
ad essere sulle prime paginedei giornali ed in televisione per fatti
che evidenziano un degrado sociale avvilente, che rattrista chi
vive nella speranza di un “cambiamento” che non arriva.
La bella Calabria. È possibile vederla, non solo nei sogni di chi
l’ama?
Oggipurtroppoprevaleilpessimismo,mal’ottimismovieneda
lontano.
Scriveva Saverio Strati, sempre nella presentazione dell’opera
diRoccoRitorto:«Unaltromotivocheaccomunaipoetidialettali
calabresi,èl’innocheessiintonano,comeinuncoro,allabellezza
impareggiabile della Calabria che ha il mare più stupendo, l’aria
più fine, insomma tutto è ‘na pojsìa’”. Questa componente va
guardata come atteggiamento emozionalee affettivo. Un attaccamento forte alla propria terra che è poi la madre.
“on si deve, non si può parlare che bene della propria madre,
anche quand’è ignorante e povera, vestita di cenci. Sarebbe rinnegarla, disprezzarla; e un atto come questosarebbesacrilegio, da
rinnegati».
E allora difendiamola effettivamente questa terra, isolando le
maledetteforzeantisocialichelaparalizzano,laumilianoeladenigrano arrogantemente.
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Quando il dialetto fa audience
Dal “sogno” di Alvaro ai proverbi raccontati in Rai. Che diventano un libro
di Domenico Logozzo - Calabria Ora
Ho sognato mia madre. Le parlavo in dialetto come quando
ero ragaz zo e mi lodavo di sapere parlare così bene.
Avevo la stessa voce di quando ero ragazzo, al tempo
che me la sentivo vibrare in petto. E’che mi piacerebbe
diparlare il vecchio dialetto della montagna, preciso, che
può esprimere tutto del mondo familiare ed elementare, con
bellissime parole antiche e appropriate.
Così nel 1938 scriveva Corrado Alvaro in “Quasi una
vita”.
Il dialetto, una ricchezza. La cultura popolare è una
straordinaria fonte di apprendimento e di diffusione dei
saperi. E in Abruzzo il dialetto approda in tv con una
seguitissima rubrica del tg regionale della Rai, in onda
nella trasmissione mattutina “Buongiorno Regione”. Un
successo straordinario, tanto che è stato realizzato un
libro che in pochissimo tempo è andato esaurito.
L’antropologa Lia Giancristofaro con “Galateo
Abruzzese-Proverbi dialettali in tv”, dà una esemplare
prova di come il vecchio ed il nuovo, messi mirabilmente
insieme, sono capaci di trasmettere messaggi positivi e far
riflettere sul ruolo che il dialetto ha avuto nel passato e
potrà ancora avere oggi. Una piccola frase, pronunciata
con il giusto tono, espressione del sentimento genuino e
libero, uscita dal cuore del popolo umile ma dal “cervello
fino”, vale più di un libro di cento pagine scritto con linguaggio erudito, ma privo dell’ “anima popolare”.
Ai tempi di internet, è una grossa sfida cercare di
riscoprire la “memoria orale”, di rielaborare senza snaturare
i proverbi dei saggi di una volta. Ci vuole il coraggio di chi
dalle radici più profonde di ieri, cerca di estrarre elementi di
attualità e modernità per i giovani di oggi. E’ indubbiamente un’operazione culturale di alto profilo, uno sforzo encomiabile. Apprezzare e sostenere la passione per la ricerca
è un dovere per una società che punta sui sani valori e che
trae dal passato linfa preziosa per costruire un futuro migliore.
Un mezzo di comunicazione moderno, la televisione, alla
fine del primo decennio del Duemila, consente ai giovani di
conoscere i proverbi dialettali abruzzesi. Le “pillole di saggezza popolare” vengono “somministrate” dall’antropologa
Lia Giancristofaro con il proverbio del giorno nell’innovativa e fortunata trasmissione televisiva “Buongiorno Regione”, inonda sulla terza rete della Rai, dalle 7,30 alle otto del
mattino. Una scommessa vincente. Nella sede regionale
Rai dell’Abruzzo, a Pescara, nel luglio del 2008, è stato sperimentato il programma con il “numero zero” che, avendo
avuto esito positivo, è stato approvato dai vertici dell’azienda radiotelevisiva di Stato. E così nel mese di ottobre del
2008 cominciava la programmazione nelle maggiori regioni
italiane, per poi estendersi dal gennaio del 2009 a tutte le
altre Sedi.
“Buongiorno Regione” porta rinformazione dentro il territorio: racconta il presente, ricorda il passato, guarda al
futuro. Vicina alla realtà e ai problemi della gente. E in un
momento in cui tanto si discute sull’utilità dell’insegnamento e della rivalutazione del dialetto, come capo redattore della Rai abruzzese ho pensato di coinvolgere l’antropologa Lia Giancristofaro.
Le ho telefonato: «Lia, sta per partire una nuova trasmissione. Mi è venuta un’idea, te la sottopongo: in trenta secondi devi dire un proverbio in dialetto e spiegare il
significato». La risposta di Lia: «Ci provo»!
Dopo un paio di giorni ho avuto la registrazione di una
decina di proverbi. Perfetto!
Proprio ciò che avevo in mente la studiosa è riuscito a
concretizzarlo. Incisività, rapidità, comunicatività. Ho richia-
mato la professoressa: «Ok, partiamo».
E così è nata la rubrica “Il proverbio del giorno”, che
viene quotidianamente seguita da migliaia di abruzzesi: tanti
ci scrivono e ci telefonano per testimoniare il loro apprezzamento, molti ci chiedono se esiste una pubblicazione. Un
giorno chiamo l’antropologa per ringraziarla per l’ottimo
lavoro di ricerca. Accetta con umiltà i complimenti e mi
preannuncia: «Ho deciso di pubblicare i proverbi trasmessi
in tv». La incoraggio. Dalle parole passa ai fatti. Quasi subito. Un fulmine di idee e di iniziative!
La concretezza delle donne. E la forte determinazione. A
metà novembre mi arriva un messaggio attraverso
Facebook: «Il libricino sui proverbi è pronto per la stampa.
Il ricavato andrà alla terremotata chiesa di Cocullo.
Manca solo... la tua prefazione». Altro messaggio poco
tempo dopo: «Basta una mezza paginetta, direttore
gentilissimo. Sto ripetendo le tappe di mio padre, che
collaborava con Rai 3 con rubriche sul folklore e poi ne
traeva libri con la prefazione del direttore! All’epoca,
c’era la Eri».
Come sottrarsi all’invito, come non commuoversi ricordando il lavoro svolto dallo storico delle tradizioni popolari professor Emiliano Giancristofaro per la Rai e per la cultura popolare abruzzese? Così ho accettato di scrivere la cronaca della nascita di un felice incontro tra la televisione e i
proverbi dialettali abruzzesi, proverbi che ho riletto con
piacere ed attenzione appena “l’innovativa” Lia me li ha
mandati: «Ecco a te il frutto delle mie recenti fatiche. Spero che ti piaccia! Alcuni li sto ancora ultimando. I proverbi più “osé” ovviamente in tv non li manderemo mai;
nel libro qualcuno tra i più “bonari” l’ho messo, con le
opportune censure terminologiche, ma se ritieni li elimino. Il tuo parere è importante». Risposta: «No, cara Lia,
perché eliminarli? Una ventata di freschezza, di originalità, di ironica attualità fa sempre bene». Ha messo dentro anche le “escort”. Una forzatura? Una stonatura? Una
caduta di stile? Io dico semplicemente all’autrice: «Imprevedibile Lia, non smettere mai di stupire, mantieni questa
tua carica di energia ed indipendenza intellettuale! I proverbi dialettali in tv hanno fatto “colpo” anche per il
modo con il quale Lia Giancristofaro riesce a renderli
comprensibili a tutti. Serenità e comunicatività. Con eleganza e dolcezza. Ma soprattutto coinvolgente. Una “novità” che, ribadisco - dati di ascolto alla mano (puntate
con lo share del 36-3896) come si dice nei tempi in cui
l’audience è purtroppo la “madre di tutti i giudizi” -,
giovani e meno giovani hanno dimostrato di gradire fin
dalle prime puntate. Quanto è emozionante sentire dalla
voce della giovane “signora delle tradizioni”, i proverbi
tramandati dagli anziani. Omaggio alla cultura popolare
abruzzese e al suo dialetto definito mirabilmente dal grande
Corrado Alvaro in uno dei suoi tanti scritti sull’Abruzzo.
«Vi sono dialetti che serbano nella loro struttura un
tono liturgico» annotava nel 1933 sentendo parlare due
anziane donne abruzzesi sul pullman che lo portava a Chieti
(fuggito da Roma era stato costretto a rifugiarsi nella città
abruzzese durante il fascismo, ospitato da amici: abitava in
una casa del centro sotto falso nome e dava lezioni di inglese per poter vivere). E oggi, grazie all’aiuto della tv, una
brava antropologa abruzzese, come Lia Giancristofaro, cerca di non far scomparire il “dialetto dal tono liturgico”,
appreso da Alvaro quasi 80 anni fa.
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Il vernacolo è cultura
Un linguaggio vivo - Ieri sinonimo di ignoranza oggi di comunicazione
Calabria Ora
Oggi il dialetto circoscrive la conversazione e la delimita
entro l’ambiente storico e affettivo del “noi”: non parliamo
certo in dialetto con gli sconosciuti, né è questo il canale
che scegliamo per approcciare persone di altri territori. Il
dialetto è un mezzo di comunicazione pratico ed efficace,
ilsinonimo di una ricchezza culturale, uno strumento
empatico che consente di esternare in modo colorito i sentimenti, le passioni, le emozioni con chi ci conosce bene.
D’altronde, lastoriaèilvissuto materiale di un popolo, e fanno parte di essa i costumi, le tradizioni e soprattutto il linguaggio, che nelle
varie comunità si identifica consapevolmente col dialetto
locale. Questo accade da tempi relativamente recenti, cioè
da quando si è avuta coscienza dellapredominanzadella “lingua nazionale” su ogni altro tipo di parlata. Grazie alla
scolarizzazione ed alla televisione, la conquista dell’italiano da parte di tutti i ceti sociali è stata rapidissima, se si
pensa che per molti secoli le migliaia di comunità deEa Penisola avevano organizzato la loro esistenza sul dialetto.
Questo drastico cambiamento culturale, acceleratosi
soprattutto negli ultimi cinquantanni, avevafatto ipotizzare, aUa fine degli anni ‘60, l’imminente morte del dialetto,
cioè la suaprogressiva esclusione dal repertorio linguistico. Per adattarsi ai modelli industriali e metropolitani, ci si
distaccò il più possibile dalla vita agricola e paesana e dalsuo
stigma di stagnazione. Chi non poteva adeguarsi (per
esempio, l’anziano analfabeta o esclusivamente
dialettofono) veniva costretto al silenzio, tanto che, specie
nelle occasioni formali, trent’annifainon-ni contadini talvolta venivano messi all’angolo per non rovinare, con la
loro “arretratezza”, le moderne occasioni della vita sociale.
All’inizio del Terzo Millennio, la situazione a livello
nazionale appare più articolata e complessa di quanto si
pensava: infatti, apartire dal 1980, non solo il calo nella
diffusione del dialetto non ha avuto l’andamento progressivo che ci si aspettava, ma la sua conoscenza si è estesa ai
giovani e agli immigrati. Dunque, la vergogna delle origini
si è
esauritasenzadanni, cioèsen-za una reale rimozione del
dialetto. A differenza dei manufatti, che una volta eliminati
non tornano, nella quotidiana riproduzione degli schemi
sociali il vernacolo si è affiancato all’italiano attraverso lo
stratagemmadelbilinguismo. Il dialetto, che fino ad alcuni
decenni fa marchiava a fuoco i popolani inchiodandoli aUa
loro subalternità, nella comunicazione verbale può essere
adoperato per scelta e in modo alternato, senza conflittualità con Vitaliano. Allora, come inquadrare questa anomalia
deUaprogressiva omologazione linguistica verso l’italiano
unico? Semplicemente come una sopravvivenza dei mondi
passati, come un retaggio familiare ed affettivo, oppure si
deve pensare che il dialetto soddisfa esigenze nuove?
(Dal volume di Iia Giancri-stofaro, Galateo Abruzzese.
Proverbi dialettali in tv, Lanciano, Edizioni della Rivista
Abruzzese, 2009)
“ta prammata ti scola”
Il Grecanico entra a scuola
Il progetto ha l’obiettivo di valorizzare la
lingua minoritaria dell’area
Francesco Iriti - Calabria Ora
Un progetto da realizzare negli istituti scolastici appartenenti alle minoranze linguistiche storiche piano di interventi per progetti da realizzare negli istituti scolastici appartenenti alle minoranze linguistiche storiche nel biennio
2009/2011. Concetta Sinicropi, dirigente del circolo didattico di Melito Porto Salvo, con la collaborazione delle docenti Melina Orlando e Lea Stentano ha creato il Progetto
“Ta pramata ti scola” mirato all’insegnamento del greco di
Calabria. Il progetto rientra all’interno delle scelte fatte dal
Ministero della Pubblica Istruzione a favore delle minoranze linguistiche. Sono stati il Circolo Didattico “P.Me-gali”
di Melito Porto Salvo, l’istituto comprensivo di Condofuri
Marina e la direzione didattica “Corrado Mvaro”di Reggio
Calabria ad interagire attraverso un progetto che avrà durata biennale e che permetterà l’interazione delle esperienze didattiche ed istituzionali grazie alle risorse professionali a disposizione delle singole scuole. L’obiettivo è quello
di valorizzare la lingua
minoritaria presente nell’area che appunto viene denominata “grecanica”.
Inoltre, la scuola interverrà nei metodi di insegnamento
attraverso l’utilizzo di tecnologie informatiche che permetteranno ai giovani di poter interagire e conoscere da vicino
le peculiarità della lingua grecanica che, altrimenti, verrebbe dimenticata, ma che rappresenta un bene dell’intera comunità. Questo permetterà dei percorsi interattivi dinamici e
flessibili rispondenti alle necessità di una generazione in
rapida trasformazione.
Il piano di intervento si articolerà in diversi moduli che
prevedono l’insegnamento della lingua minoritaria rivolta
agli alunni della scuola e corsi di formazione sulla disciplina, storia, cultura e tradizioni locali destinate ai docenti
delle scuole della rete con l’intervento di esperti qualificati.
Il tutto sarà coordinato dal circolo didattico capofila
“Megali”. Il progetto prevede la creazione anche di materiale originale, sia cartaceo che multimediale.
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... ma conosciamo tutti
veramente la lingua italiana?
Quanto appresso è stato rilevato durante la correzione dei compiti agli esami di
abilitazione per gli avvocati e, quindi, bocciati agli esami
Mauro Barletta - Gazzetta del Sud
TORINO «Habbiamo» invece di «abbiamo»: i test dei torinesi e così via).
E se è vero che il fenomeno «non riguarda solo i
proprio così, con l’acca davanti!
Oppure «correzzione» con due zeta. O «violenza giovani della città pugliese – precisano al
Palagiustizia subalpino – è altrettanto vero che gli
delle norme» anziché «violazione» delle norme.
E sono solo alcuni degli strafalcioni commessi da- elaborati tradiscono non soltanto poca dimestigli aspiranti avvocati alle prove d’esame per l’am- chezza con la penna, ma anche una scarsa conoscenza dei meccanismi del diritto.
missione all’albo.
Un esempio è «apParola di uno dei comNon possiamo negare che vi è un
plicazione
della permissari, un veterano delimpoverimento della lingua italiana,
sonalità»
in
luogo di
le aule di giustizia torinesempre meno conosciuta e sempre più
«esplicazione della
si, che denuncia di essersi
adulterata da termini di provenienza
personalità».
straniera che anche se hanno il loro
trovato alle prese con lafascino,
potrebbero
e
dovrebbero
essere
Ma uno dei casi più
vori pieni di «errori di
evitati anche perchè spesso vengono usati a
gravi, ad avviso delmorfologia, grammatisproposito
(non parliamo poi
l’Avvocato, è «... i giuca e sintassi al punto
di quando vengono scritti!)
dici di piazza Cavour
che – spiega – per un
Però a noi sembra che nel discorso del
hanno
stabilito
motivo o per l’altro abCommissario, veterano delle aule
definitivamente
quebiamo mandato algiudiziarie torinesi, vi sia una certa
sto assunto», frase
l’orale solo una media
inopportuna animosità prova ne sia che
che contiene dieci paquando cita l’espressione dell’esaminando
di tre candidati su dieci
che
dice
“...
i
giudici
di
piazza
Cavour
...”
e
role e tre scivoloni.
... e vi assicuro con
lo taccia di ignoranza perchè a Piazza
«Innanzitutto chi
grande fatica».
Cavour
è
ubicato
l’ingresso
secondario
l’ha
scritta fa coinciL’arma principale dedella sede della Suprema Corte di
dere la Corte di
gli avvocati, almeno dei
Cassazione, dimentica che nella
Cassazione con l’inpenalisti, resta l’eloquenterminologia comune, in tutte le sedi, si
gresso posteriore delza: ma nel loro bagaglio
identifica la Suprema Corte con
l’edificio.
tecnico non può manca“ I giudici di piazza Cavour”
Poi utilizza l’avverre la padronanza dell’itab
i
o
liano.
«Personalmente – dice quindi il commissario – “definitivamente” come se nessuno gli avesse
ho stabilito che non può essere ammesso agli orali spiegato che la giurisprudenza è in continua e
chi ignora la nostra lingua. Ecco perché boccio. costante evoluzione.
Infine dimostra di non conoscere il significato
Non ne faccio una questione di stile: ci sono
del
termine “assunto”».
errori che alle scuole elementari, una volta, la
Il Commissario, comunque, non risparmia nessumaestra sanzionava con la matita blu, come
no.
l’apostrofo sbagliato.
Se la prende, tanto per cominciare, con «i buroUn collega mi ha detto di aver dovuto respingere un candidato quando ha letto per la terza crati del Ministero» che hanno prodotto tracce
d’esame abborracciate e cervellotiche.
volta il verbo “habbiamo” nel suo compito».
E conclude allargando il discorso: «Guardate che
Le sette commissioni istituite dalla Corte d’appello di Torino si stanno occupando delle prove scritte lo stupidario dell’avvocatura è identico allo
dei praticanti procuratori di Bari (la faccenda fun- stupidario della magistratura. E non solo».
ziona più o meno a rotazione, a Venezia correggono
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