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proposta per un ecomuseo della canna palustre nel parco regionale

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proposta per un ecomuseo della canna palustre nel parco regionale
 Università degli Studi di Ferrara C.A.R.I.D.
Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Operatore del Turismo Culturale
DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA ED EVOLUZIONE
Insegnamento di Ecoturismo
PROPOSTA PER UN ECOMUSEO
DELLA CANNA PALUSTRE
NEL PARCO REGIONALE VENETO
DEL DELTA DEL PO
Relatore: Prof. Marilena Leis Laureanda: Giorgia Santaterra Anno Accademico 2009‐2010 ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ INDICE
1. SCOPO
Pag. 2
2. INTRODUZIONE
Pag. 3
2.1 Il Parco Regionale Veneto del Delta del Po
Pag. 3
2.1.1 Evoluzione geomorfologica
Pag. 4
2.1.2 Lagune e sacche
Pag. 7
2.1.3 Valli
Pag. 7
2.1.4 Dune fossili
Pag. 8
2.1.5 Flora e fauna
Pag. 9
2.2 Offerte turistiche del Parco Regionale Veneto del Delta del Po
Pag. 11
2.3 Gli ecomusei
Pag. 13
3. RISULTATI
3.1 Ecomuseo della Canna palustre
3.1.1 Sede dell’ecomuseo
Pag. 18
Pag. 18
Pag. 20
3.1.1.1 Canna palustre – Phragmites australis
Pag. 20
3.1.1.2 Manufatti in Canna palustre ieri ed oggi
Pag. 21
3.1.1.3 Fitodepurazione
Pag. 24
3.1.1.4 Architettura bioecologica
Pag. 27
3.1.1.5 Un po’ di mitologia…Siringa e il dio Pan…
Pag. 30
3.1.2 Siti ecomuseali: alla scoperta del Delta
Pag. 32
3.1.2.1 Biodiversità tra i canneti del grande fiume
Pag. 32
3.1.2.2 Un passato che ritorna: lavorare con le Canne palustri
Pag. 35
3.1.2.2.1 I “canaroi”
Pag. 35
3.1.2.2.2 Azienda Agricola Depiccoli: una realtà come poche
Pag. 39
3.1.2.3 Le antiche dimore del Veneto
Pag. 43
3.1.2.3.1 I casoni veneti
Pag. 43
3.1.2.3.2 Scanno Boa e i casoni del Delta del Po
Pag. 44
3.1.3 Museo delle Api: laboratorio didattico
Pag. 49
4. CONCLUSIONI
Pag. 52
5. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
Pag. 54
6. RINGRAZIAMENTI
Pag. 56
1
1. SCOPO
Vivo a Rosolina, uno dei comuni del delta del Po, in un territorio in cui l'acqua da secoli
continua ad essere la protagonista, disegnando sempre nuovi confini in una perenne lotta
tra uomo, mare, fiume, terra.
Il ricordo va alle gite domenicali della mia infanzia, biciclettate e passeggiate grazie alle
quali ho imparato a conoscere e ad apprezzare la mia terra.
Ricordo lo stupore all'alzarsi improvviso di uno stormo di uccelli che al mio passaggio si
spaventavano fuggendo e il profumo di salsedine quando d'inverno cercavo le conchiglie
in riva al mare.
Questo mio interesse per il Delta del Po è aumentato da quando per il C.T.G. Nunziatella
(Centro Turistico Giovanile) sono diventata animatrice culturale e naturalistica e ho
iniziato ad accompagnare gruppi di turisti, soprattutto in primavera, nei vari percorsi che
offre il Delta.
In ogni escursione ho scoperto paesaggi unici mai visti prima, come i tantissimi colori del
cielo riflessi nell'acqua o il silenzio e la pace che si possono percepire solo fermandosi
immobili con una piccola barca in mezzo ai canneti.
Studiando e lavorando sul territorio ho potuto scoprire le attività e il sistema museale
rivolti ai turisti all'interno del Parco Regionale Veneto del Delta del Po. Vengono
valorizzati molti aspetti tra cui l'archeologia, l'evoluzione del Delta e le sue bonifiche, la
civiltà contadina e gli aspetti naturalistici. Le proposte di visitazione per chi vuole
conoscere il territorio non mancano, nonostante questo il Parco non riesce ad ottenere il
ruolo di rilievo che merita, sia a livello nazionale sia locale, per questo è utile, e a mio
avviso importante, proporre idee sempre nuove per aumentare l’attrazione turistica e per
arricchire la conoscenza sia della popolazione locale, aumentando in questo modo il
legame con il territorio, sia di chi scopre il Delta del Po per la prima volta.
Con la mia tesi vorrei evidenziare l’importanza della Canna di palude, la Phragmites
australis (= Phragmites communis Trinius), grande risorsa del passato, del presente e del
futuro.
Nelle pagine seguenti vi è la proposta progettuale per la creazione un ecomuseo della
Canna palustre, con lo scopo di far conoscere questa pianta dalle numerose potenzialità e
di aumentare ed arricchire l'offerta turistica del Parco Regionale Veneto del Delta del Po.
2
2. INTRODUZIONE
2.1 PARCO REGIONALE VENETO DEL DELTA DEL PO
Il Delta del Po è un complesso di zone umide e terre emerse che si estende in due regioni e
tre province: in Veneto, provincia di Rovigo, in cui si trova la parte attiva del fiume e in
Emilia Romagna, province di Ferrara e Ravenna, in cui si trova la parte storica, dove
secoli fa si trovavano i rami principali.
I cosiddetti "due Delta", Veneto ed Emiliano – Romagnolo, ripartiti nelle due regioni e
separati dal Po di Goro, sono in realtà un unico organismo con fittissimi interscambi al suo
interno.
Il Parco Regionale del Delta del Po è stato costituito l'8 settembre 1997, con la legge
regionale n. 36, con il fine di tutelare, recuperare, valorizzare e conservare i caratteri
naturalistici, storici e culturali del territorio del Delta del Po, per assicurare adeguata
promozione e tutela delle attività economiche tipiche dell'area e concorrere al
miglioramento della qualità della vita delle comunità locali.
I comuni appartenenti al Parco Regionale sono: Adria, Corbola, Loreo, Papozze, Porto
Tolle, Porto Viro, Rosolina, Taglio di Po e Ariano Polesine in cui si trova la sede del
Parco.
Al suo interno si estendono 120 chilometri quadrati di aree definite protette dalla Rete
Ecologica Europea “Natura 2000” con l'obiettivo di conservare la biodiversità,
salvaguardare l'efficienza e la funzionalità ecologica degli habitat e delle specie di
interesse comunitario. La Rete Natura 2000 è costituita dall'insieme dei siti S.I.C. Siti di
Importanza Comunitaria luoghi tutelati perchè contribuiscono a mantenere habitat naturali
o specie di piante e animali rari o minacciati di estinzione che, a loro volta terminato l'iter
di individuazione e designazione, divengono Z.S.C. Zone Speciali di Conservazione
secondo le procedure della Direttiva 92/43/CEE; e dall'insieme dei siti Z.P.S. Zone di
Protezione Speciale definite dalla Direttiva 79//409/CEE ”Uccelli” con lo scopo di tutelare
zone in cui questi animali possano vivere e riprodursi.
Fondamentale per la tutela della biodiversità del singolo sito e dell'intera rete è il Piano di
Gestione, uno strumento operativo che disciplina gli usi del territorio al fine di renderli
compatibili con la presenza in condizioni ottimali degli habitat e delle specie che hanno
determinato l'individuazione delle Z.P.S. individuando le azioni e gli interventi per il loro
3
mantenimento e/o ripristino. I siti vengono monitorati regolarmente con relazioni
periodiche sullo stato di conservazione e su eventuali sviluppi in atto.
Il gruppo di lavoro per la redazione del Piano di Gestione della ZPS IT 3270023 "Delta
Po" è costituto dall'Ente Regionale Parco Delta del Po, dal Consorzio Ferrara Ricerche Istituto Delta Srl e dall'Università IUAV di Venezia - Facoltà di Pianificazione del
Territorio (www.parcodeltapo.org)
2.1.1 Evoluzione geomorfologica
Dal punto di vista geologico un Delta è un accumulo di sedimenti che si forma grazie ad
una combinazione di processi fluviali e marini che operano in un'area di foce, facendo così
avanzare la linea di costa verso il mare. Lo sviluppo e la forma dipendono dall’intensità
della sedimentazione fluviale da una parte e dall’azione demolitrice marina dall’altra.
L'abbandono del carico da parte del fiume avviene generalmente a partire dai materiali più
grossolani, al contrario quelli più fini come limi e argille sono abbandonati per ultimi
perchè trasportati dalle correnti del bacino.
La maggior parte del sedimento che giunge ad un Delta è portato dalle piene. Se queste
giungono in un periodo di mare calmo si ha una minima dispersione di sedimenti e
massima intensità dei processi di deposizione fluviale, e quindi si assiste al fenomeno
dell'accrescimento del Delta. Mentre quando il mare è grosso e l'apporto fluviale scarso si
ha la distribuzione del sedimento in arrivo, l'erosione ed il ripulimento di quello già
depositato e pertanto si verifica un fenomeno di distribuzione del Delta (Piva e
Scortegagna, 2005)
Il Po, il grande fiume che nasce dal Monviso con un tragitto ormai consolidato di 650
chilometri ha nel corso dei secoli profondamente modificato la sua forma, e la sua
evoluzione è la chiave di lettura per comprenderne le sue bellezze. Alla fine dell'Età del
Bronzo e all'inizio dell'Età del Ferro (circa X sec. a.C.), in un periodo di clima mite secco
ma ormai tendente al freddo, erano due le principali linee lungo le quali le acque del Po
defluivano in mare: la più settentrionale il Po di Adria, che passando per Adria, Porto Viro,
trovava foce presso Loreo e la più meridionale il Po di Spina che sfociava in territorio
Ferrarese. Con il progressivo peggioramento del clima e le abbondanti precipitazioni
verificatesi intorno all'ottavo sec. a.C. si ebbero importanti mutamenti della morfologia
degli alvei fluviali e dei loro percorsi, in particolare una rotta avvenuta presso Sermide
4
(Mantova) segnò l'inizio della decadenza del Po di Adria e la nascita di un nuovo corso
chiamato Poazzo che confluiva nel Po di Ferrara. A sud il Po di Ferrara si creava
un'ulteriore suddivisione: Eridano e Volano. Fra i sec. VII e VIII d.C. si estinse il ramo
Eridano e i principali rami del Po diventarono Volano e il nuovo ramo del Primaro.
Nel XII sec. all'inizio di un nuovo ciclo piovoso si verificò un importante sconvolgimento
nella storia evolutiva del Po: in seguito ad una serie di rotte avvenute presso Ficarolo
(Rovigo) le acque iniziarono a defluire nell'attuale alveo (Po Grande), denominato allora
Po di Ficarolo, e diviso in due rami, il Po di Fornaci con tre rami deltizi (Tramontana,
Levante e Scirocco) e il Po di Ariano con due rami deltizi (Goro e Abate). La fine del XVI
sec. segnò, dopo una lenta agonia, la definitiva estinzione del Po di Ferrara a favore del Po
di Ficarolo, denominato per l'acquisita importanza Po Grande.
Per il timore che i sedimenti del suo ramo più settentrionale, il Po di Tramontana,
provocassero l'interramento della Laguna di Venezia i tecnici veneziani decisero di
realizzare, fra il 1598 ed il 1604, la deviazione verso sud-est del corso terminale del Po
Grande. Con questa grande opera di ingegneria idraulica detta “Taglio di Porto Viro”
iniziò la costruzione del delta Moderno.
Attualmente (Fig. 1), dopo aver attraversato quasi tutta la Pianura Padana, il Po, in
prossimità della sua foce, si suddivide in diversi rami di cui il principale è il Po di Venezia
(o Po Grande) che nella parte conclusiva del suo tragitto assume il nome di Po di Pila, il
quale a sua volta sfocia in mare suddividendosi in altre tre piccoli rami: Busa di
Tramontana, Busa Dritta e Busa di Scirocco. Dal Po di Venezia si diramano inoltre il Po di
Goro, il Po della Donzella, il Po delle Tolle e il Po di Maistra. Per quanto concerne il Po di
Levante va detto che questo ramo è ormai isolato dal sistema delta al quale è collegato
solo con un piccolo canale artificiale (Biconca di Volta Grimana) (AA.VV., 2004).
5
Fig. 1 Mappa attuale del Delta del Po veneto: in rosso i vari rami del Po e altri invasi (da Verza, 2008).
6
2.1.2 Lagune e sacche
Nel Delta le lagune e le sacche si estendono per circa 11.000 ettari: dagli oltre 3.000 della
Sacca di Scardovari a meno di 400 per quella più piccola, come il Basson.
Le lagune del Delta allo stato naturale hanno una struttura di base comune: una grande
estensione centrale di acqua salmastra poco profonda circondata da bonelli, labirinti
impenetrabili di canneti, solcati da tortuosi canaletti (paradeli), spesso tenuti aperti
dall'uomo per poterci navigare a fatica, che conducono in piccoli specchi d'acqua interni.
Questi canneti, soggetti all'escursione della marea, crescono su labili fondali e
contribuiscono a fermare il sedimento, primo passo per la creazione di nuove terre emerse.
La sabbia e l'argilla trasportate dal fiume vengono disperse dalle correnti marine,
distribuite dalle onde formano barre di foce, gli scanni, sottili lingue sabbiose emerse
parallelamente alla costa, dalla geometria sempre instabile e che difendono le lagune dalla
forza del mare e cingono tutto il Delta come una corona (Touring Club Italiano, 2006).
L'intervento dell'uomo ha in parte alterato tale morfologia: l'abbassamento del terreno, il
progressivo interramento di alcuni rami secondari del Po, l'escavo dei fondali hanno fatto
aumentare la salinità. Le lagune completamente salinizzate, quali ad esempio Caleri e
Scardovari, sono diventate sacche ovvero bracci interni di mare; mentre molte lagune
soprattutto nel 1800 e nei primi del 1900 sono state trasformate in valli da pesca mediante
argini e idrovore.
Sempre agli inizi del 1900 i canneti lagunari vennero trasformati in risaie ma presto
abbandonati perchè inghiottiti dalle acque salmastre per l'abbassamento del terreno
(subsidenza), dovuto all'estrazione del metano dal sottosuolo. Vestigia di tale passato sono
i magazzini per il riso che svettano nelle lagune e nelle sacche (Verza, 2008)
2.1.3 Valli
Le valli hanno origine dalla chiusura, mediante argini, di bracci di laguna e sono grandi
bacini idrici con acqua salmastra poco profonda. Tutti i complessi vallivi hanno la
caratteristica di ambienti di transizione tra le campagne, poste alle loro spalle, e le “acque
vive” delle lagune e del mare che le fronteggiano. Possono avere origine naturale nel caso
in cui vi sia stato l’abbassamento del terreno (subsidenza naturale o artificiale) o antropica
nel caso in cui sia l’uomo a costruire le arginature, “valle” deriva dal termine romano
7
vallum, i primi ad utilizzare questo sistema furono infatti i Romani (AA.VV, 2004).
Caratteristica principale è il fatto di essere gestite e mantenute attivamente e
sapientemente dall'azione antropica. Nelle valli l'acqua salata entra dalle lagune e dalle
sacche, mentre quella dolce dai rami del Po, o da canali di campagna da loro derivati,
utilizzando sifoni e chiaviche per farla entrare e pompe idrovore per farla uscire. Al loro
interno sono presenti laghi salmastri poco profondi ma anche zone d'acqua relativamente
dolce soprattutto lungo i margini dove si possono trovare, in prossimità dei fiumi, canali e
piccolo laghetti. Sono composte da molte ripartizioni interne divise tra loro da barene,
isolotti sabbiosi sempre emersi. Tutto viene deciso e guidato dalla mano dell'uomo: per
evitare eutrofizzazioni e anossie l'acqua viene fatta circolare continuamente, la geometria
delle barene spesso modificata, vengono scavati canali per eliminare i sedimenti in
eccesso e decise salinità, livello e ripartizione tra i vari laghi. Attualmente ogni valle è di
proprietà privata, in concessione ad Aziende faunistico-venatorie. Le attività principali
sono l'allevamento del pesce, sia estensivo che intensivo (Orata, Branzino, Cefalo,
Anguilla, ecc...) e la caccia. Proprio queste due attività caratterizzano ogni valle che risulta
o a principale indirizzo ittico e quindi con livelli idrici più elevati, soprattutto d'estate, o
venatorio con livelli d'acqua più bassi perchè più congeniali all'avifauna acquatica (Verza,
2008)
2.1.4 Dune fossili
Le dune sono corpi sabbiosi di origine eolica cioè si formano per l'azione del vento a
contatto con il terreno. La loro altezza e la loro forma dipendono dalla direzione del vento,
dal rifornimento di sabbia e dalla vegetazione che intrappola il sedimento. Gran parte di
queste morfologie nel territorio del Delta sono considerate fossili sono cioè imputabili a
fenomeni già completamente conclusi nel tempo (AA.VV, 2004). Le dune costituivano in
passato le vecchie linee di costa, si estendevano in maniera continua ricoperte da selve
impenetrabili e interrotte solo dai rami del Po. I cordoni dunosi più antichi sono di epoca
Etrusca, rinvenibili nei pressi di Ariano Polesine. Con il continuo trasporto dei detriti
deltizi, verso foce, la linea di costa avanzava e si formavano nuovi litorali dunosi, gli
ultimi in epoca Rinascimentale. L'aumento dell'antropizzazione ha comportato nel tempo
un loro parziale smantellamento, importanti centri abitati quali Rosolina, Porto Viro e
Taglio di Po vi sono stati costruiti sopra. Durante il primo 1900 vennero in gran parte
8
disboscati e convertiti a zone di coltivazione essendo il loro sottosuolo sabbioso indicato
per la coltivazione di ortaggi. Dal dopoguerra iniziò una fase di riforestazione che ha
portato al loro aspetto attuale. Rimangono ancora oggi un importante elemento storico del
paesaggio, sia per motivi culturali perché utilizzati in epoca Romana come linee di
spostamento (strada Popillia ora S.S. 309 Romea), sia per motivi naturalistici (Verza,
2008)
2.1.5 Flora e fauna
L'attuale flora del Polesine è il risultato delle evoluzioni climatiche che hanno interessato
la Pianura Padana durante l'ultimo periodo glaciale (120 – 70.000 anni fa) e il successivo
periodo postglaciale e dall’azione esercitata dall'uomo sull'ambiente.
Durante le glaciazioni, la calotta artica raggiungeva i margini della Pianura Padana
causando la perdita di molte entità legate ai climi caldi precedenti, e la discesa di specie
settentrionali. Durante le fasi interglaciali il clima si riscaldava determinando il ritiro delle
specie artiche e la risalita degli elementi termofili. Nel corso dell'ultima glaciazione (circa
10.000 a.C.) la pianura Padana era ricoperta da una tundra a pino silvestre, betulla e salice.
Il progressivo addolcimento del clima (fra 7.000 e 5.500 a.C.) ha determinato la
sostituzione di boschi di pino silvestre con boschi di quercia e nocciolo. Un ulteriore
riscaldamento (2.500 – 800 a.C.) portava verso nord la flora mediterranea: il Leccio
(Quercus ilex) faceva la sua comparsa lungo la costa Adriatica e sui Colli Euganei e con
esso si diffondevano altri elementi termofili quali la Fillirea (Phyllirea angustifolia), la
Robbia (Rubia peregrina) e il Pungitopo (Ruscus aculeatus). Il clima oltre che più caldo
era anche più arido e questo favoriva verso ovest la migrazione di specie orientali e
steppiche che andavano ad insediarsi soprattutto sui greti fluviali e sui litorali, come ad
esempio l'Apocino veneto (Trachomitum venetum). Un successivo raffreddamento del
clima, destinato a durare fino ai giorni nostri, confinava la vegetazione mediterranea in
stazione relitte quali il litorali del Delta del Po, grazie ad un microclima leggermente più
caldo dovuto alla presenza mitigatrice del mare, alla maggiore intensità della radiazione
solare riflessa dall'acqua e trattenuta dalla sabbia. Con l'insediamento umano le foreste
venivano abbattute, i prati aridi e incolti distrutti, gli acquitrini prosciugati e le terre
coltivate, introducendo però anche specie alloctone (Benetti, 1998).
Il Delta del Po oggi è caratterizzato da una straordinaria varietà di ambienti naturali e da
9
una importante biodiversità.
Nella battigia del litorale e nelle dune retrostanti si possono ammirare associazioni1 di
vegetazione psammofila, associazioni che vivono in suoli molto sabbiosi come il Cakileto
(Salsolo-Cakiletum aegyptiacae subbas. xanthietosum), l'Agropireto (Sporobolo arenariiAgropyretum juncei), l'Ammofileto (Echinophoro spinosae-Ammophiletum arenarie).
Nelle lagune, nelle sacche e nelle valli ovvero in tutte le zone in cui vi è la presenza di
acqua salmastra vivono associazioni di vegetazione alofila che tollerano la salinità del
substrato come i Salicornieti (Salicornietum venetae) che nei periodi autunnali si colorano
di giallo, rosso e arancione creando paesaggi di straordinario effetto o gli Zostereti
(Zosteretum noltii) i quali vivono perennemente sommersi dall’acqua. Negli ambiti
fluviali, lungo i rami del Po e all'interno delle golene si hanno associazioni di vegetazione
igrofila. Le golene sono zone di espansione laterale del fiume, ricevono le acque con le
piene del fiume o con l'alzarsi della marea e permettono all'acqua in eccesso di non
esondare nelle campagne circostanti. Esempi di vegetazione strettamente legata alla
presenza dell'acqua dolce sono la Cannuccia di palude (Phragmites australis) o, seguendo
l'interramento delle sponde, i boschi ripariali con Pioppi bianco e nero (Populus alba,
Populus nigra) e Salice bianco (Salix alba) (Piva e Scortegagna, 2005).
Per gli appassionati di birdwatching il Delta del Po rappresenta un vero paradiso naturale
visto gli oltre 300 specie di uccelli, nidificanti, svernanti, e soprattutto in transito
migratorio: la zona è, infatti, sul 45° parallelo, cioè esattamente a metà tra polo ed
equatore, in posizione centrale rispetto al Mediterraneo, sulla costa, e sulla rotta migratoria
di molte popolazioni ornitiche dell'Europa nord-orientale. Tutto questo fa del Delta un
crocevia per i migratori. La comunità ornitica appare complessa: ogni mese si susseguono
specie differenti, ed ogni anno riserva gradite sorprese. A farla da padroni sono
ovviamente gli uccelli acquatici, in particolare ardeidi, tra questi i caratteristici Airone
rosso (Ardea purpurea), Airone cenerino (Ardea cinerea) e Airone bianco maggiore
(Casmerodius albus), ed anatidi come per esempio la Volpoca (Tadorna tadorna) e il
Germano reale (Anas platyrhynchos), con punte di oltre 70.000 individui, sparpagliati in
1
Associazione: è intesa come l’insieme di individui che crescono in un luogo determinato in equilibrio fra
loro nella concorrenza per lo spazio, le sostanze nutritive, l’acqua e la luce,viene identificata in base alle
specie che la compongono e viene denominata con i nomi di una o due specie caratteristiche o
particolarmente abbondanti, facendo seguire il suffisso – etum.
10
valli e lagune, ma molto interessante è anche la situazione dei rapaci e dei passeriformi
legati alle zone umide (www.ebnitalia.it).
Ma non è presente solo l’avifauna infatti esplorando i Delta si possono avvistate
mammiferi, per la maggior parte di piccola taglia, come il Riccio (Erinaceus europaeus),
la Donnola (Mustela nivalis), la Lepre (Lepus europaesus), la Volpe (Vulpes vulpes) e il
Daino (Dama dama), specie quest’ultima non autoctona. Vi sono rettili come la tipica
Lucertola campestre (Podarcis sicula) e nelle zone dove la vegetazione è più fitta si può
notare il Ramarro (Lacerta viridis) che spicca per i suoi vivissimi colori verde e azzurro; e
anfibi come il Rospo comune (Bufo bufo), la Raganella (Hyla arborea), nel 2005 inoltre è
stata scoperta una popolazione di Pelobate fosco italiano (Pelobates fuscus insubricus) tra
gli anfibi italiani a maggior rischio di estinzione e tutelato da numerose leggi
internazionali. Oggetto di attenzione e interesse sono anche le tartarughe, in particolare la
Tartaruga di palude (Emys orbicularis) e la Tartaruga comune (Testudo hermanni)
(Servizio Forestale Regionale per le province di Padova e Rovigo, 2003).
Chi decide di esplorare questo territorio non può che rimanere meravigliato dalla grande
ricchezza di flora e fauna, dai colori e dai profumi che la natura offre, dal silenzio che si
interrompe con il cinguettare degli uccelli.
Per tutti noi che ormai viviamo in una società caotica, in cui si è sempre di fretta, luoghi
come il Delta diventano indispensabili per ritrovare pace e serenità, per rigenerarci e
affrontare con spirito diverso le nuove sfide della vita.
2.2 OFFERTE TURISTICHE DEL PARCO REGIONALE VENETO DEL DELTA
DEL PO
I musei dei nove comuni del Parco fanno parte del Sistema Museale Provinciale del
Polesine, avviato dall'Assessorato alla Cultura della provincia di Rovigo, in collaborazione
con gli Enti Locali, la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto e privati titolari
di musei, allo scopo di diffondere e valorizzare la conoscenza del ricchissimo patrimonio
culturale polesano.
I musei, grandi e piccoli, attivi nel territorio, aderiscono e collaborano alla promozione
culturale, alla realizzazione di nuove iniziative e di nuovi progetti confrontandosi e
lavorando in modo sinergico (www.smppolesine.it).
Il Parco, nonostante la sua giovane età, ha già una importante rete museale, grazie alla
11
quale il turista può comprendere l'evoluzione e la formazione di questa giovane area
deltizia e scoprire le tracce degli antichi insediamenti Greci, Etruschi, Romani,
Medioevali, fino all'età moderna e contemporanea. In tabella 1 è illustrato l’elenco delle
realtà museali del Parco.

Museo Archeologico Nazionale

Septem Maria Museum
Loreo

Antiquarium
Ariano Polesine

Centro Turistico Culturale San Basilio
Porto Viro

Museo delle Api loc. Ca' Cappellino

Museo della Corte loc. Ca' Cappello
Taglio di Po

Museo Regionale della Bonifica di Ca' Vendramin
Porto Tolle

Centro di Documentazione della Civiltà Contadina

Museo Laboratorio L'Ocarina
Adria
Tabella 1. Elenco dei musei del Parco al 2010.
Il Delta del Po è il territorio più giovane d'Italia, formatosi soli 400 anni fa ma si
caratterizza per un’unicità per la bellezza degli scorci e l'incanto di una natura, per molti
aspetti apparentemente incontaminata, ma dalle caratteristiche antropiche peculiari.
La sua complessità, i suoi fragili equilibri, il susseguirsi di unicità che lo compongono,
rappresentano un mondo tutto da scoprire per chi, spesso distratto dal vivere quotidiano,
fatica a cogliere l'originalità dell'ambiente che lo circonda.
Per comprendere appieno il Delta lo si deve vivere e il modo più emozionale è percorrerlo
per le vie d'acqua. Molteplici sono le possibilità: si può navigare lungo il ramo principale,
il Po di Venezia, o nelle sue diramazioni, percorrendo il Po di Goro, di Gnocca, di Tolle, di
Maistra e di Levante. In modo più intimo ci si può addentrare, con piccole imbarcazioni,
le famose “batane” a fondo piatto o con canoe, nei paradeli, i tortuosi canaletti all'interno
dei canneti che si trovano alle foci.
La bici è un altro possibile mezzo per andare praticamente ovunque, in modo divertente e
totalmente libero. Esistono due percorsi anche ciclabili: la via delle valli nord e la via delle
valli sud che tracciano un suggestivo percorso tra specchi d'acqua, lagune e mare, dove si
possono scorgere i casoni di valle, basi d'appoggio per la pesca e alloggi famigliari, dal
tipico colore rosso e con il caratteristico grande camino dal comignolo a dado, che
12
colorano il paesaggio.
Molteplici sono i modi e i metodi con cui scoprire il Delta: suggestiva è un'escursione a
cavallo o una passeggiata al tramonto lungo gli argini della Sacca di Scardovari,
osservando gabbiani e cormorani che si riposano sulle “peociare”, le strutture per
l'allevamento di cozze.
Il Parco non offre solo musei, luoghi cioè appositamente adibiti alla cultura, ma anche siti
naturalistici protetti, importanti per conoscere aspetti paesaggistici e habitat tra i più rari e
riconosciuti a livello internazionale quali:

Giardino Botanico Litoraneo di Rosolina

Oasi di Ca' Mello

Golena di Ca' Pisani

Golena di Volta Grimana

Golena di Panarella

Dune fossili di Donada
Dopo una visita nel delta tante saranno le immagini di grande bellezza che rimarranno
impresse nella mente e nel cuore di chi ha effettuato un’escursione in questa straordinaria
terra.
2.3 GLI ECOMUSEI
L’ecomuseo è un museo molto particolare sia per l’argomento che tratta sia per il modo
col quale se ne occupa. La sua nascita non deriva da esperienze isolate ma è il frutto di una
rivoluzione sociale e museologica, da riflessioni di lungo periodo sui concetti di
patrimonio culturale e di museo.
Nella seconda metà del 1800 per patrimonio culturale si intendevano le grandi opere d’arte
e le collezioni naturalistiche, oggetti preziosi curiosi e insoliti, abiti appartenuti a persone
illustri, o monumenti ed edifici legati ad episodi storici importanti.
Verso la fine del ‘800 si è iniziato a dare importanza a quegli aspetti che fino ad allora
erano considerati “minori”, aspetti che facevano parte della vita delle persone comuni
come per esempio i vestiti che venivano usati fino alla consumazione, oggetti di uso
quotidiano che non venivano conservati poiché ritenuti senza alcun valore. Oggi
definiamo “patrimonio” l’insieme delle vite e degli stili di vita delle comunità, siano essi
elementi materiali come architetture tradizionali, tradizioni gastronomiche, abbigliamenti
13
tipici sia immateriali come lingue, dialetti, storie e mestieri perduti.
Quindi non solo l’idea di patrimonio culturale è cambiata ma anche le esigenze museali. Il
museo si differenzia da altre iniziative culturali per il fatto che possiede una collezione di
oggetti tangibili, perché garantisce la cura delle raccolte, la ricerca sui reperti e sui loro
significati, con possibili interpretazioni e la comunicazione con il pubblico per diffondere
le conoscenze. Dalla fine del 1700 fino alla metà del 1900 i musei contenevano opere
dell’uomo e della natura, estrapolate dal loro contesto originario, perché si pensava che
avessero valore in sé e che i musei fossero una sorta di enciclopedia della cultura. Negli
ultimi 50 anni i musei hanno intensificato il legame con il territorio, per non essere più
solo una vetrina di opere d’arte ma per giocare un ruolo più incisivo nella vita culturale
della società di appartenenza e per dare un contributo attivo alla trasformazione del
mondo.
Un momento di passaggio simbolico verso questa nuova trasformazione è venuto dalla
conferenza dell’ICOM (Consiglio internazionale dei musei) a Santiago del Cile nel 1972: i
delegati dei musei di tutto il mondo in quell’occasione hanno stabilito i parametri del
nuovo museo. La riforma si basava su pochi e semplici principi: il museo è a servizio
dell’uomo e non viceversa, tempo e spazio non devono essere imprigionati all’interno di
muri e porte, l’arte non è la sola espressione dell’umanità ma esiste anche ciò che oggi si
definisce “cultura materiale”, il professionista museale è un essere sociale e un attore del
cambiamento al servizio della società mentre il visitatore non è un consumatore passivo
ma un essere creativo che può e deve partecipare all’attività di ricerca del museo.
L’intenzione era quella di applicare questi principi a tutti i musei, ma in realtà solo gli
ecomusei hanno raccolto queste idee (Maggi e Murtas, 2004).
Il termine ecomuseo viene introdotto in Francia nella primavera del 1971, in un ristorante
parigino dove si sono trovati per un pranzo di lavoro Georges Henri Rivière, museologo
francese, Serge Antoine, consigliere per il ministero dell’ambiente e Hugues de Varine,
allora direttore dell’ICOM, per discutere sulla conferenza generale ICOM che si sarebbe
tenuta quell’anno tra Parigi, Digione e Grenoble. La discussione era incentrata sulla
giornata di Digione, in cui sarebbero stati ricevuti dal ministro dell’ambiente e sul fatto
che sarebbe stato importante legare il concetto di museo a quello di ambiente e territorio.
Serge Antoine era, reticente a legare un concetto che sapeva di passato come quello di
museo con quelli di nuovo interesse come lo sviluppo e la difesa ambientale: così è stata
abbandonata la parola museo e, combinando le due parole museo ed ecologia, de Varine ha
14
creato il termine ecomuseo, termine che è stato pronunciato e ufficializzato dal ministro
dell’ambiente pochi mesi dopo, davanti a 500 museologi di tutto il mondo (Maggi e
Falletti, 2000).
La prima esperienza è stata messa a regime tra il 1971 e il 1974, nell’ambito della
comunità metropolitana di Creusot Montceau - Les Mines in Borgogna, una regione con
una forte produzione di ferro e acciaio che, dopo una profonda crisi economica, ha subito
uno stato di declino e disoccupazione. Questa esperienza si è concretizzata, grazie a Jo
Lyonnete, Marcel Evrard e lo stesso Hugues de Varine, con la creazione di un museo
dell’uomo e dell’industria nel quale la comunità nel suo insieme costituiva un museo
vivente, all’interno del quale si ritrovava il pubblico. Elaborare l’idea di un ecomuseo in
quella regione è stato un modo per aumentare la consapevolezza storica della popolazione
locale
e
per
rivitalizzare
il
contesto
socio-economico
del
luogo
(www.osservatorioecomusei.net).
Dopo le prime esperienze pionieristiche negli ultimi venti anni del Novecento e all’inizio
del nuovo millennio gli ecomusei si sono rapidamente diffusi, assumendo le forme più
disparate, perdendo e ritrovando i valori del filone originario. Il concetto di ecomuseo è
quindi relativamente recente e in continua evoluzione e dunque soggetto ad interpretazioni
non sempre corrette. Probabilmente le intenzioni degli stessi fondatori non erano quelle di
creare un modello unico ed esportabile in tutto il mondo ma, essendo musei del territorio,
ognuno può rispondere alle caratteristiche del proprio patrimonio-territorio e ogni
comunità potrà usare il proprio linguaggio per narrare la propria storia e le proprie
tradizioni (Rivière, 1985).
Una delle definizioni più efficaci di ecomuseo è quindi quella originariamente proposta da
Rivière e De Varine, che fa riferimento alle differenze tra musei tradizionali ed ecomusei,
di seguito riassunta.
MUSEO
ECOMUSEO
Collezione
Patrimonio
Immobile
Territorio
Pubblico
Popolazione
Un’altra definizione chiara di ecomuseo è data dall’IRES (Istituto ricerche economicosociali del Piemonte) che lo indica come una iniziativa museale dietro cui sta un patto con
15
il quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio, dove per:

Patto si intende un accordo non scritto e generalmente condiviso e non insieme di
norme che obbligano o proibiscono qualcosa

Comunità si intendono tutti i soggetti protagonisti non sono solo le istituzioni
poiché il loro ruolo propulsivo, importantissimo, deve essere accompagnato da un
coinvolgimento più largo dei cittadini e della società locale;

Prendersi cura significa conservare ma anche saper utilizzare, per l’oggi e per il
futuro, il proprio patrimonio culturale, in modo da aumentarne il valore anziché
consumarlo;

Territorio viene inteso non solo in senso fisico ma anche come storia della
popolazione che ci vive e dei segni materiali e immateriali lasciati da coloro che lo
hanno abitato in passato.
L’elemento caratterizzante degli ecomusei è quindi il legame con il territorio, tanto da
poterli definire “musei del territorio o del patrimonio territoriale”. Il territorio che viene
musealizzato non è semplicemente il paesaggio storico o naturale ma è l’insieme delle
attività sociali ed economiche che hanno caratterizzato una comunità, delle tradizioni e dei
valori della collettività, è il teatro delle testimonianze archeologiche e storico-artistiche
che lo differenziano da tutti gli altri.
L’aspetto più importante è il ruolo attivo dei locali che, coinvolti nel progetto assieme alle
istituzioni pubbliche, concepiscono, costruiscono e sviluppano le idee, mentre lo scopo più
importante da raggiungere è il mantenimento del legame di una comunità al proprio
territorio, al proprio ambiente, alla conoscenza e alla scoperta della propria storia con
conseguente cura dei luoghi (Maggi e Murtas, 2004).
In Italia le leggi che si occupano degli ecomusei sono esclusivamente regionali e
attualmente solo le regioni Piemonte (la più attiva in campo ecomuseale), Friuli Venezia
Giulia, Sardegna, Lombardia e la provincia autonoma di Trento si sono date leggi che si
esprimono direttamente ed esplicitamente sugli ecomusei. In molte regioni dove ancora
non si è legiferato si sta muovendo comunque qualcosa in questa direzione, come per
esempio la regione Veneto che sta lavorando alla proposta di legge per l’istituzione
dell’Ecomuseo della laguna di Venezia. L’assenza di leggi non significa che non ci siano
strumenti legislativi per operare in questo senso, il percorso risulta però più complesso e
articolato e fondamentali sono, anche in questi casi, i rapporti tra istituzioni e gruppi locali
(www.corsotoscanaecomusei.txt).
16
Nel corso degli ultimi anni le esperienze museologiche di questo tipo si sono moltiplicate
in molti paesi sia europei, soprattutto Svezia (Hahn et al., 2006) Francia, Spagna,
Portogallo (Boatti, 2004), ed est-europa, sia extraeuropei, soprattutto Canada, Messico,
Brasile, Giappone e, più recentemente, Cina (Dongai, 2008), denotando una crescente
partecipazione di comunità ed enti locali alla valorizzazione del territorio e delle culture
ad esso legate Tuttavia non si assiste ad una progettualità standardizzata nelle scelte
museologiche.
L’ecomuseo è quindi un concetto in continua evoluzione ed esistono molte e diverse
tipologie di organizzazione; non è quindi in alcun modo possibile trarre conclusioni
definitive e identificare un modello formale unico in quanto risulta collegato alle
trasformazioni della società. Inoltre i musei contemporanei sono sempre più spesso “musei
di idee” più che “di oggetti” e questo rende difficile definire i campi di interesse in modo
rigoroso.
Nelle pagine seguenti, proprio su questa affermazione, esporrò alcune idee per la
creazione e la realizzazione di un ecomuseo legato ad una pianta, ma comprendente tutta
una serie di realtà naturali, ambientali, antropiche, storiche e culturali: l’ecomuseo della
Canna palustre. Questa tipologia di ecomuseo la legherei ad un esempio da Maggi e Faletti
(2000) che propongono tra le varie tipologie organizzative degli ecomusei, l’ombrello
ecomuseale che rappresenta “…un ecomuseo sviluppato su un’estensione geografica che
incorpora numerose emergenze patrimoniali, legate tra loro da una storia e spesso anche
da una attività materiale comune. Occupa un’area che interessa diversi comuni e dispone
in genere di più di un sito museale vero e proprio. I profili di interpretazione del
patrimonio sono sia diacronici che spaziali. Il collegamento fra le diverse emergenze è
realizzato non solo sulla base di itinerari predisposti, ma attraverso un progetto di sviluppo
territoriale condiviso da governo e collettività locali. Il coinvolgimento della comunità
costituisce quindi un aspetto essenziale a questa tipologia”.
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3. RISULTATI
3.1 ECOMUSEO DELLA CANNA PALUSTRE
L’area del Parco Regionale del Delta del Po comprende nove comuni e questi, assieme ad
altri comuni limitrofi, anche non appartenenti al Parco, sono legati da una comunanza di
aspetti ambientali, tradizioni storiche e culturali e particolarità naturali, per questo motivo
l’ecomuseo della Canna palustre, proposto nelle pagine seguenti, vuole essere un progetto
che comprende l’intero territorio del delta, in un senso più ampio e quindi si applica a più
comuni, sia del Parco sia di zone adiacenti. La tipologia organizzativa più idonea credo sia
quella indicata nell’introduzione, ovvero l’ombrello ecomuseale che prevede la
coesistenza di più siti ecomuseali, sia immobili sia ambienti aperti: sono previste quindi
una sede e una serie di escursioni, indispensabili per far conoscere le diverse realtà attuali
e del passato e così comprendere appieno l’importanza culturale e naturalistica della
Canna palustre. Infine viene proposto anche un laboratorio didattico, rivolto a due diverse
tipologie di visitatori, adulti e bambini, per sperimentare le conoscenze acquisite.
Come sede dell’ecomuseo viene proposto il Rifugio Parco Delta del Po di Gorino Sullam,
Ca’ Vendramin - Taglio di Po (Ro), in quanto situato in una posizione strategica, perché
vicino ai principali punti d’interesse previsti nel progetto.
I visitatori in questa sede potranno venire a conoscenza delle molteplici peculiarità della
Canna palustre e potranno trovare filmati esplicativi e racconti in diretta che illustrano le
caratteristiche naturalistiche pianta, del suo habitat, dei suoi utilizzi nel passato e potranno
comprendere quindi il suo grande valore culturale. Il museo è proiettato anche nel futuro
in quanto verranno esposte le grandi potenzialità della pianta ed i suoi utilizzi sia nei
settori della fitodepurazione sia della architettura bioecologica.
Una volta fornita ai turisti/visitatori un’adeguata conoscenza di base sulla Phragmites
australis verrà proposta una serie di escursioni nelle quali verranno approfonditi i temi
precedentemente affrontati. Per iniziare si propone un piccolo viaggio all’interno dei più
grandi canneti del Parco, presso le foci del Po di Gnocca o del Po di Pila, in cui si potrà
osservare l’avifauna, ma non solo: questi ambienti sono infatti frequentati anche da altre
particolari specie di animali. Si propongono poi due escursioni legate tra loro: la prima è
un incontro con gli anziani di Scardovari, i “canaroi” coloro che un tempo vivevano della
raccolta delle canne, previsto presso l’argine del Po di Tolle, vecchio punto d’attracco
18
delle loro “canaroe”. Queste barche, che servivano per il trasporto delle canne, sono
ancora oggi molto utilizzate e in quest’occasione verranno ricreate situazioni del passato,
con gli antichi attrezzi che servivano per il taglio e la lavorazione della canna e con le
antiche divise. La seconda una visita all’Azienda Agricola Depiccoli, a S.Anna di
Chioggia (Ve), una delle poche aziende italiane che ancora oggi lavora e costruisce con la
Canna palustre. Un’altra escursione proposta è a Scanno Boa: per anni questo scanno è
stato la sede di un piccolo villaggio di pescatori, dalle tipiche case del Delta del Po
costruite in canna e dove, ancora oggi, è possibile vederne l’ultimo casone ancora integro
e gestito dalla Cooperativa Pescatori Delta Padano, che si occupa della sua manutenzione.
Grazie alla disponibilità della Cooperativa si potrà, durante l’escursione, visitare questa
antica e preziosa testimonianza e toccare con mano, nel vero senso della parola, le pareti
ed il tetto. L’ultimo step proposto ai visitatori è un laboratorio didattico presso il Museo
delle Api di Ca’ Cappellino in cui, grazie all’esperienza del gestore, verrà proposta la
creazione di modellini di casoni, facendo così comprendere appieno il modo, del tutto
particolare, con cui in passato venivano costruite le abitazioni e permettendo di scoprire
anche i più piccoli segreti.
Nelle pagine seguenti vengo illustrati, nel dettaglio i vari punti di questo ecomuseo, dalla
sede alle escursioni ed, infine, al laboratorio.
19
3.1.1 SEDE DELL’ECOMUSEO
In questa sede vengono spiegate, attraverso filmati, racconti, pannelli ed oggetti da toccare
le caratteristiche della canna palustre e tutte le sue peculiarità. Numerosi pannelli
illustreranno anche gli animali, che è possibile incontrare nei vari itinerari proposti e che
sono illustrati nella sezione 3.1.2.1. daranno
3.1.1.1 Canna palustre – Phragmites australis
Nome volgare: Canna di palude
Nome scientifico: Phragmites australis
(Cav.) Trin. ex Steud.
(= Phragmites communis Trin.
= Phragmites vulgaris Lam.)
Famiglia: Graminaceae (= Poaceae)
Fig. 2 Canna palustre
La Canna di palude (Fig. 2) è una delle più alte graminacee nostrane, originaria forse
dell’Eurasia, ma è diffusa in tutto il mondo. E’ una specie erbacea perenne nelle parti
sotterranee e annuale nelle parti aeree. La parte sotterranea è composta da un grosso
rizoma orizzontale nodoso da cui si dipartono le radici, data la presenza di numerose
cavità questa parte può occupare fino al 60% del volume totale della pianta. La parte aerea
presenta fusti rigidi, interamente cavi, che si ergono dai rizomi, e che possono raggiungere
anche i 4 metri di altezza. Le foglie, opposte, sono ampie e laminari, lunghe da 15 a 60
cm, larghe 1-6 cm, glabre, verdi o glauche. L’infiorescenza ha una morfologia a
pannocchia, lunga fino a 40 cm, di colore bruno o violaceo e fiorisce tra luglio e ottobre.
Specie igrofila predilige le acque dolci ma tollera un moderato livello di salinità. Tipica
pianta palustre può crescere su suoli temporaneamente o permanentemente sommersi, più
facilmente in terreni argillosi dove il livello dell’acqua oscilla tra i -15 + 15 cm. E’ quindi
20
molto abbondante in zone paludose e aree umide, sulle sponde di laghi, stagni, fossati,
ambiti fluviali, nei canali artificiali e di bonifica e in terreni incolti bagnati, fino ai 2000
metri di altitudine. Nel Delta del Po le zone più estese di canneti si possono trovare alla
foce del Po di Pila, del Po di Gnocca e del Po di Goro.
È una specie nettamente dominante per effetto della sua fitta copertura e dello sviluppato
intreccio delle sue radici che ostacolano la crescita di altre piante ed è difficile da sradicare
in
quanto
i
rizomi
possono
raggiungere
anche
i
10
metri
di
lunghezza
(www.istitutoveneto.it). L’associazione del Phragmitetum, quando presente, vede due
diversi tipi di popolamenti: di acqua salmastra e di acqua dolce. Il popolamento di acqua
salmastra comprende principalmente e, a seconda del grado di salinità, il Limonio
(Limonium virgatum), l’Astro marino (Aster tripolium) e il Giunco (Juncus acutus, J.
maritimum, J. gerardii), mentre nel secondo popolamento si segnalano il Vilucchione
(Calystegia sepium), il Campanellino (Leucojum aestivum), la Dulcamara (Solanum
dulcamara), cespugli di Salici (Salix alba) e Indaco bastardo (Amorpha fruticosa) (Rallo e
Pandolfi, 1988).
Nelle foci dei nostri fiumi è molto importante il ruolo di canneti che da sempre compiono
il primo passo per la creazione di nuove terre emerse, poichè contribuiscono a fermare i
sedimenti trasportati dai fiumi, rallentando la velocità dell’acqua e favorendo il deposito
dei detriti alla base dei loro fusti, mentre, durante le mareggiate ,smorzano la violenza
delle onde. In ambienti fortemente antropizzati, come nello specifico il Delta del Po,
vengono effettuate periodiche opere idrauliche come l’escavo dei fondali e delle foci
stesse, con le quali si mantiene inalterata l’attuale morfologia e viene impedito il naturale
processo di sedimentazione.
3.1.1.2 Manufatti in Canna palustre ieri ed oggi
Al ga’l fogo in tle pavière è un detto che si usa ancora in Polesine per indicare chi ha molta
fretta, ma la frase ha perso il senso drammatico di un tempo, quando la sussistenza della
povera gente era legata ai prodotti palustri e, spesso, i proprietari davano fuoco alle valli e
ci si doveva affrettare nella raccolta. Non solo la Phragmites australis ma anche altre
piante tipiche delle nostre zone paludose venivano raccolte, come la Tifa (Typha latifoglia
e T. angustifolia), in dialetto chiamata “pavièra”, o i Giunchi (Juncus acutus, J.
maritimum, J. gerardii e J. maritimus), in dialetto “car’sìna”, ed impiegate per la
21
produzione di manufatti, utili alla vita quotidiana. Tutte queste erbe erano ampiamente
utilizzate e lavorate: caratteristiche sono le borse rustiche e le sedute delle sedie fatte con
l’intreccio dei fusti della Tifa o del Giunco ed è interessante sapere anche come, prima
della scoperta del nylon, si utilizzassero corde fatte con i Giunchi. Tra tutte queste piante
però la più utilizzata era la Phragmites australis che serviva per la produzione di stuoie, le
famose “grisole” ovvero pannelli di Canne palustri legate assieme con corde di giunchi,
che venivano utilizzate in agricoltura (Fig. 3) e in floricoltura, per riparare, nei campi, i
fiori e gli ortaggi dal sole estivo e da forti venti e che attualmente sono sostituiti da teli di
plastica, inquinanti.
Fig. 3 Coltivazioni protette con stuoie in canna
Le “grisole” venivano anche impiegate nelle valli da pesca, il lavoriero, uno strumento
molto antico, ma ancora efficiente e fondamentale per la pesca. Si tratta di un manufatto
formato da una serie di bacini comunicanti a forma di punta di freccia, in cui i pesci
vengono fatti convergere in una serie di passaggi obbligatori e poi catturati. Anche questo
un tempo era costruito con pannelli in Canna palustre mentre oggi è in cemento con griglie
metalliche.
Presso il famoso squero di Loreo, oggi Cantieri Navali Stocco & C. srl con sede lungo il
Po di Goro, i fasci di canna erano utilizzati come combustibile per la costruzione degli
scafi (Fig. 4). La canna bruciando produceva un fuoco che veniva descritto come un fuoco
dolce, con il quale si scaldavano e si curvavano i legnami, utilizzati per lo scheletro delle
imbarcazioni.
Con il pennacchio, l’infiorescenza delle piante che venivano raccolte tra agosto e
settembre, si realizzavano scope e scopini indispensabili per la vita domestica.
22
Sembra inoltre impossibile pensare che anche le canne da pesca, in un certo periodo, non
nella preistoria, ma 40-50 anni fa, fossero create con i fusti delle Canne palustri che erano
di varie lunghezze, arrivando fino ad 8 metri. Per la loro produzione venivano selezionate
più canne, con i fusti migliori e più dritti e si costruiva la tipica canna a innesti, inserendo
cioè una canna dopo l’altra e rafforzando le congiunture con degli inserti metallici. Queste
però sono state abbandonate molto precocemente, perché sostituite dal bambou, il quale
presenta minor leggerezza e flessibilità ma maggior robustezza e, quindi, maggior durata
nel tempo (www.lamiapesca.com).
Non solo attrezzi di lavoro ma anche i giochi erano in canna palustre: poveri ma tali
comunque da far divertire e sognare i bambini di tempi passati, ma non troppo lontani da
noi: i “carioli” (Fig. 5) si possono considerare come i predecessori delle macchine
radiocomandate in circolazione oggi ed erano costruiti con un volante era un filo di ferro
veniva fatto scorrere all’interno di un segmento del fusto della canna per poi congiungersi
con le ruote, anch’esse in filo di ferro.
Fig. 5 Il cariolo
Fig. 4 Squero di Loreo
Manufatti ancora attuali sono le “coegie” (Fig. 6), ripari e nascondigli per i cacciatori. Le
“coegie” sono botti in cemento che vengono posizionate all’interno delle lagune, poggiate
al fondale e ricoperte, per mimetizzarle, con la Canna palustre. Si possono avere due
diverse opzioni: “coegie” aperte su un lato così che i cacciatori si possono posizionare
all’interno stando su di una piccola barca, oppure “coegie” totalmente chiuse, che possono
contenere al massimo due persone ed in questo caso i cacciatori vengono accompagnati da
terzi e poi ripresi al termine dell’attività.
La Phragmites australis è una delle più caratteristiche graminacee presenti nelle zone del
Delta del Po ma è anche presente in tutta Italia ed in altre parti del mondo e all’interno
23
dell’ecomuseo può essere interessante una illustrazione dei suoi impieghi in altre aree.
L’esempio più eclatante lo si trova in Sardegna, nella penisola del Sinis, precisamente
negli stagni oristanesi di Cabras e Santa Giusta. Per la pesca la caratteristica barca
impiegata erano i “su fassoni” (Fig. 7), piccole imbarcazioni adatte alla navigazione in
acque basse e ricche di piante acquatiche. I “su fassoni” venivano realizzati totalmente con
fasci di Canna palustre, legati con corde di Giunco e internamente fissati con chiodi,
sempre di canna, per irrigidire la struttura. La forma era molto particolare in quanto la
prua era molto pronunciata e la poppa era mozzata. Pochissimi ormai sono gli artigiani che
custodiscono la manualità per loro costruzione e per non disperdere questo patrimonio
culturale ogni anno, la prima domenica di agosto, nello stagno di Santa Giusta, viene
organizzata la tradizionale regata dei “fassonis” (www.castelsardo-info.it).
Fig. 6 Coegia
Fig. 7 Su fassoni
3.1.1.3 Fitodepurazione
Per fitodepurazione si intende un insieme di processi naturali di trattamento di acque
inquinate basati sullo sfruttamento del sistema suolo – vegetazione quale filtro naturale
per la depurazione dell’acqua. I sistemi di fitodepurazione sono numerosi e si prestano per
la depurazione di acque di scarico di diversa provenienza, civile, agricola e industriale, se
confrontati con i metodi tradizionali richiedono un superiore impegno di superficie ma un
minore fabbisogno energetico e tecnologico. La fitodepurazione può quindi essere
24
considerata a pieno titolo una “ecotecnologia”. Già i Romani usavano scaricare le acque di
fogna nelle paludi da dove uscivano certamente migliorate.
La percezione scientifica del ruolo dei sistemi vegetali nel depurare le acque è avvenuta
solo nella seconda metà del secolo scorso, con l’inizio di programmi di monitoraggio. In
Germania nel 1952 al Max Planck Institute di Plone si è realizzato il primo caso di studio
del trattamento di acque reflue di un caseificio con piante di giunco. Da allora le ricerche
si sono moltiplicate ed oggi la fitodepurazione vanta numerose e crescenti applicazioni
all’estero, sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo. Negli anni ’70 anche in
Italia si era manifestato un certo interesse per la depurazione naturale ma queste
esperienze non hanno avuto ricadute applicative di rilievo e il dibattito su questo tema è
stato accantonato anche per la mancanza di un adeguato sostegno alla sperimentazione e lo
scarso stimolo per la ricerca di soluzioni alternative ai tradizionali sistemi di depurazione
delle acque. Una ripresa in questa direzione si è avuta agli inizi degli anni ’90 grazie ad
una crescente spinta della domanda di natura da parte dell’opinione pubblica. Anche le
scelte, a livello normativo, si sono, negli ultimi anni, orientate alla promozione degli
interventi naturali per il trattamento delle acque reflue, primo fra tutti il Dlgs 152 del 1999
secondo cui “per tutti gli insediamenti con popolazione compresa tra 50 e 2000 abitanti
equivalenti si ritiene auspicabile il ricorso a tecnologie di depurazioni naturali quali il
lagunaggio o la fitodepurazione” e le successive modifiche e integrazioni (Borin, 2003).
La tendenza oggi è quella di preservare le aree naturali esistenti e di progettare e costruire
nuove aree umide ed impianti artificiali per il trattamento depurativo, in quanto offrono un
maggior grado di controllo degli inquinanti, consentendo una precisa valutazione della
loro efficacia, con la possibilità di scegliere il sito, le dimensioni, le geometrie, la
vegetazione da utilizzare, il controllo dei flussi idraulici e i tempi di ritenzione in un’ottica
di sostenibilità ambientale. Tra gli impianti di fitodepurazione si distinguono sistemi a
“flusso sottosuperficiale” dove il refluo viene mantenuto al di sotto del substrato di
riempimento delle vasche, i quali possono a loro volta essere a flusso orizzontale o a
flusso verticale (Fig. 8), da sistemi a “flusso superficiale” in cui il bacino è perennemente
o periodicamente sommerso dall’acqua da depurare e da sistemi “galleggianti” dove le
piante vengono sorrette da idonee strutture galleggianti e le cui radici sono fluttuanti nel
flusso idrico da depurare ( Tocchetto e Lajo, 2007).
La maggioranza delle sostanze inquinanti diffuse nella biosfera sono continuamente
prodotte e consumate da processi chimici, fisici e biologici della natura stessa e si tratta di
25
sostanze assolutamente naturali che nella biosfera si trovano in tracce. L’uomo le scova e
le usa restituendole all’ambiente in concentrazioni molto superiori a quelle che si
riscontrano abitualmente, determinando quindi uno squilibrio nei cicli naturali di alcuni
elementi tra cui l’azoto, il fosforo, il carbonio ecc. e la loro tossicità e pericolosità è
dovuta alla quantità e non alla sostanza in sé (Mazzoni, 2005). L’azione di depurazione di
alcuni di questi elementi è svolta principalmente dai microrganismi che vivono in simbiosi
con la pianta, sia in condizione aerobiche che anaerobiche, mettendo in atto una serie di
reazioni chimiche e fisiche di degradazione degli inquinanti stessi. Una parte è invece
svolta dalle piante che assorbono anche elementi non indispensabili per la loro vita, che
vengono così sottratti dalle acque.
La Phragmites australis è una delle specie più produttive, diffuse e plastiche fra quelle
utilizzabili nella fitodepurazione e per questo è la pianta maggiormente utilizzata negli
impianti europei e costituisce un vero e proprio microlaboratorio chimico e biologico. Le
canne hanno la capacità di catturare l’ossigeno dell’atmosfera e di trasferirlo, attraverso la
loro struttura, fino alle radici. In un’area umida attorno all’apparato radicale si crea una
microzona aerobica, ossigenata, circondata da sedimento anaerobico. La contiguità di
questi due microambienti è la condizione necessaria per la rimozione dell’azoto dalla
colonna dell’acqua. L’azoto organico viene degradato, per via batterica, ad azoto
ammoniacale nel sedimento. Altri batteri presenti nella microzona aerobica, attorno alle
radici delle canne di palude, trasformano l’azoto ammoniacale in nitrato. Quest’ultimo, a
contatto con l’ambiente anaerobico del sedimento, viene trasformato in azoto gassoso ed il
processo, che prende il nome di denitrificazione, permette il trasferimento dell’azoto dalla
colonna d’acqua all’atmosfera in una forma chimica non più inquinante. Altri inquinanti,
come il fosforo e i metalli pesanti, all’interno dell’area umida, sedimentano grazie alle
ridotte velocità dell’acqua e alla tortuosità del percorso che le particelle solide compiono
attraverso il canneto. Le sostanze che raggiungono il fondo entrano così a far parte dei
cicli biogeochimici come componenti della biomassa dei vari organismi che popolano
un’area umida. Inoltre, nel tempo, il suolo di un’area umida si arricchisce di una frazione
organica a lenta degradazione che contribuisce ad adsorbire e, quindi, a bloccare
all’interno dell’area stessa, le sostanze che si depositano (www.ConsorziodibonificaAdigeBacchiglione.it.).
Il Po raccoglie tutto ciò che le città a le fabbriche padane scartano, comprese grandi
quantità di sostanze azotate di scarto agricolo, caratteristica di questo fiume, per fortuna, è
26
la sua elevata resilienza, ovvero la capacità di ripulirsi in fretta, questo grazie alla
presenza, sia nelle golene sia nelle foci, di estesi canneti che svolgono un’azione di
fitodepurazione (Fig. 9).
Fig. 8 Impianto di fitodepurazione sottosuperficiale a flusso verticale (da www.artecambiente.it)
Fig. 9 Canneti della bocca del Po di Tolle
3.1.1.4 Architettura bioecologica
Si definisce architettura bioecologica o bioarchitettura l'insieme delle discipline che
attuano e presuppongono un atteggiamento ecologicamente corretto nei confronti
dell'ecosistema. In una visione caratterizzata dalla più ampia interdisciplinarietà e da un
27
utilizzo razionale e ottimale delle risorse, la bioarchitettura tende a conciliare ed integrare
le attività ed i comportamenti umani con le preesistenze ambientali ed i fenomeni naturali,
si confronta con la specifica realtà, scoprendo con rinnovata sensibilità la continuità con la
storia, le tradizioni ed il paesaggio, attraverso le nuove consapevolezze della
biocompatibilità e della ecosostenibilità.
Bio
→ riferito ad una architettura fatta per la vita, in grado di creare “edifici” e quindi
“città” intese come organismi viventi.
Ecologico
→
rappresenta la volontà, per l’architettura, di creare luoghi capaci di
rapportarsi in modo equilibrato con l’ambiente in cui si inseriscono e che, inevitabilmente,
trasformano.
Ciò al fine di realizzare un miglioramento della qualità della vita attuale e futura secondo
il principio dello sviluppo sostenibile, uno sviluppo cioè che soddisfa i bisogni delle
generazioni odierne senza compromettere la possibilità alle generazioni future di
soddisfare i loro. La novità programmatica della bioarchitettura non risiede nella
specificità delle singole discipline, quanto nelle connessioni capaci di determinare una
visione olistica del territorio e della qualità architettonica.
Ugo Sasso, bioarchitetto italiano, termine che lui stesso ha contribuito a definire, è
considerato uno dei padri fondatori della bioarchitettura. Nel vasto panorama
internazionale ha portato un concetto originale tutto italiano, quello che il progetto
ecologico non deve esaurirsi nell’edificio ecosostenibile, ma deve avere al centro l’uomo,
la qualità sociale del vivere della persona che vi andrà ad abitare, l’appartenenza al luogo
geografico e sociale e la salvaguardia del suo mondo di relazioni.
Sasso si occupa, con un piccolo gruppo di architetti, di come costruire rispettando l’uomo
e l’ambiente, quando in Italia la maggir parte del grande pubblico non conosce ancora la
parola “ecologia” e, nel 1991, fonda l’Istituto Nazionale di Bioarchitettura a Bolzano.
Oggi l'Istituto è finalizzato alla tutela e alla valorizzazione dell'ambiente naturale ed
antropico, in una strategia finalizzata alla qualità, che contempla la salvaguardia della
salute e una oculata gestione delle risorse (www.bioarchitettura.it).
Si possono quindi individuare tre obiettivi specifici che la bioarchitettura pone come
obiettivo generale:
1. un rapporto sostenibile con l’ambiente;
2. un’attività progettuale ed edilizia improntata al risparmio energetico;
28
3. un uso salubre di tecnologie e materiali naturali.
Secondo dati dell’Unione Europea, riportati nella direttiva 91 del 2002 sulla certificazione
energetica, gli edifici residenziali e terziari assorbono il 40,4% della domanda finale di
energia, i trasporti il 31,3% e l’industria il 28,3%. Se si considera che parte significativa
dell’industria e dei trasposti lavorano per l’edilizia, è chiaro che il settore edilizio è, in
assoluto, il maggiore utilizzatore di energia e di conseguenza il principale responsabile
della produzione di gas serra.
Uno tra i più importanti obiettivi della bioarchitettura è attualmente quello di migliorare
l’isolamento delle costruzioni, per un risparmio energetico. Secondo alcuni la soluzione
strategica per risparmiare energia è isolare gli edifici con gli espansi derivati dal petrolio,
dimenticando però che questi materiali necessitano di un gran dispendio di energia per
essere prodotti, per l’estrazione, il trasporto, la raffinazione, la trasformazione e poi, alla
fine del ciclo di vita, per lo smaltimento o il riciclo. Un modo più intelligente per isolare
gli edifici consiste nell’usare isolanti puliti e rinnovabili. Questi materiali possono essere
di origine minerale come ad esempio l’argilla espansa e la pomice, oppure provenire dal
mondo animale come la lana di pecora o ancora dal mondo vegetale come le fibre di
canapa, lino, legno etc. che sono prodotti dall’agricoltura, sono materiali disponibili
localmente e sono, per una certa quota, rinnovabili (Giordano, 2008).
La canna palustre rappresenta uno tra i possibili isolanti di origine vegetale: è un materiale
con un buon comportamento termico e acustico, è traspirante, non assorbe ne acqua ne
umidità, garantendo un isolamento costante nel tempo, non contiene sostanze tossiche e, in
nessuna delle fasi di raccolta, lavorazione e utilizzo è dannosa per la salute e per
l’ambiente. Non è molto conosciuta dall’opinione pubblica ma in bioarchitettura si sta
valorizzando sempre più. Si tratta di canne provenienti principalmente da laghi e zone
paludose dell’Austria e dell’Ungheria, che vengono compresse e legate meccanicamente
con filo di ferro zincato prodotto con metallo in parte recuperato e i pannelli che ne
derivano hanno un’altezza di 2 metri, ovvero pari all’intera altezza della canna. Questi
pannelli possono essere utilizzarti esclusivamente da portaintonaco ed in questo caso viene
utilizzato solo un pannello singolo, con canne disposte in modo orizzontale, su cui viene
applicato l’intonaco, oppure da isolanti ed in questo caso vengono disposti due o più strati
sfalsati di pannelli, in maniera da evitare punti di debolezza, aggiungendo poi un pannello
finale a canne orizzontali che funge da portaintonaco (Fig. 10). I pannelli trovano
applicazione in cappotti interni ed esterni, in intercapedini di pareti, solai e coperture di
29
strutture in legno, in soffitti, controsoffitti ed in pareti divisorie interne. I pannelli sono
anche riutilizzabili se vengono smontati interi e sono comunque biodegradabili e
compostabili, mentre quelli intonacati possono essere portati alla discarica degli inerti
(www.regione.piemonte.it).
Fig. 10 Strato di isolamento in cannicciato palustre
3.1.1.5 Un po’ di mitologia…Siringa e il dio Pan…
Pan è una divinità pastorale greca, dio dei boschi e dei pascoli, del bestiame e degli
animali selvatici, dei pastori e dei cacciatori ed il suo culto, partito dall’Arcadia, si è
esteso in tutta la Grecia e poi nel mondo romano dove è stato identificato con il nome
locale di dio Fauno. La figura originaria del dio arcade si è nel tempo complicata in
numerose leggende ma la tradizione lo vuole figlio di Ermes e della Ninfa Driope che,
spaventata dal suo aspetto mostruoso, lo ha abbandonato appena nato ed Ermes lo ha
raccolto, avvolto in una pelle di lepre e portato nell’Olimpo dove lo ha mostrato a “tutti”
gli dei, da cui deriva il nome Pan, che nella lingua greca significa “tutto”. La sua
rappresentazione tipica è di uomo dai piedi caprini, barbuto e peloso, con le corna di capra
sul capo. Come altre divinità delle foreste era temuto dai viaggiatori, ai quali appariva
d’improvviso suscitando molto terrore e la paura improvvisa era associata a lui e chiamata
“timor panico” o solo “panico”, termine rimasto ancora oggi nell’uso comune. Il suo
carattere e gli aspetti malvagi emergono nei suoi amori, per lo più aventi per oggetto le
Ninfe e solitamente non corrisposti. Si racconta che il dio si sia innamorato della Ninfa
30
Siringa ma non corrisposto e che un giorno, preso da un improvviso raptus, abbia iniziato
a seguirla. La Ninfa, in fuga giunge alle rive del fiume Ladone dove, rendendosi conto di
non poter più proseguire nella sua fuga, supplica le Ninfe del fiume di mutarla d’aspetto e
così, mentre Pan è proteso a possederla si ritrova all’improvviso a stringere tra le mani
solo Canne palustri. L’aria, vibrando all’interno delle canne, produce un suono soave ed il
dio decide quindi di tagliarle e di unirle tra loro in modo da creare una strumento musicale
che, in onore della fanciulla, è chiamato “siringa”.
Molte sono le vicende della vita di Pan rievocate nella letteratura e molte anche le
rappresentazioni nell’arte, gli attributi del dio più comuni sono un corto mantello che porta
sulle spalle e la siringa, lo strumento musicale. Si racconta, inoltre, che Pan abbia una
particolare predilezione per i piaceri sensuali, per questo nel Rinascimento alla sua figura
viene associata l’immagine della lussuria e il dio viene spesso ritratto mentre rincorre la
Ninfa Siringa (Fig. 11) (Impelluso, 2002).
Fig. 11 Pan e Siringa Jan Bruegel e Pieter Paul Rubens, Milano, Pinacoteca di Brera
31
3.1.2 SITI ECOMUSEALI: ALLA SCOPERTA DEL DELTA
In questa parte vengono proposte ed illustrate le finalità delle escursioni da effettuare nei
siti che fanno parte dell’ecomuseo.
3.1.2.1 Biodiversità tra i canneti del grande fiume
La storia delle zone umide2 è quella di luoghi un tempo inospitali per l’uomo, vissuti da
sempre come sedi di temute malattie, aree dense di nebbie ed acque immobili. Finito il
periodo della paura e della difesa da malattie incurabili, l’uomo oggi è in grado di
riconoscerne la bellezza e di capirne l’importanza, in una dimensione culturale e sociale
mutata nella quale resta il rammarico per un patrimonio perduto. A causa di opere di
bonifica idraulica iniziate già ai tempi degli Etruschi, continuate dai Romani e nel
rinascimento ed intensificatesi negli ultimi 50 anni, le zone umide del Polesine sono molto
diminuite, nonostante ciò l’area del Delta del Po rimane ancora oggi una delle più
importanti zone umide italiane ed europee, importante a tal punto che, nel 1997, è stato
costituito, con il fine di tutelarle, recuperarle, valorizzarle e conservarle, il Parco
Regionale Veneto del Delta del Po.
Zone di particolare interesse naturalistico del Parco sono le aree di foce, in cui vi sono
zone estese di canneti, i cosiddetti “bonelli” formati da popolamenti quasi esclusivi di
Phragmites australis. I più grandi canneti si trovano presso la foce del Po di Pila, il quale
si divide in 3 piccoli canali, chiamati Busa Dritta, Busa di Scirocco e Busa di Tramontana,
presso la foce del Po di Gnocca e quella del Po di Goro. Questi ambienti sono
caratterizzati da fondali melmosi su cui cresce la canna, da piccoli laghetti interni e da
stretti canaletti, i “paradeli” (Fig. 12), creati e mantenuti aperti dall’uomo per potervi
navigare. I canneti possono essere visitati dai turisti esclusivamente con l’ausilio delle
“batane” caratteristiche imbarcazioni di dimensioni ridotte, con fondo piatto, con cui si
riesce a navigare in modo agevole tra i “paradeli”.
L’osservazione diretta consente di comprendere quanto complesso sia il popolamento
dell’avifauna: in spazi ridotti, l’una accanto all’altra, vivono infatti numerose specie, da
2
Definizione internazionale di zone umide: le zone umide sono aree palustri, acquitrinose o torbose o
comunque specchi d’acqua, naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua ferma o corrente,
dolce, salmastra o salata, compresi i tratti di mare la cui profondità non ecceda i sei metri con la bassa
marea.
32
quelle minuscole ai grandi uccelli acquatici. I più grandi sono della famiglia Ardeidae,
tipici uccelli da canneto che, se allarmati, tendono il collo e il becco verso l’alto
mimetizzandosi con i fusti delle canne e rimanendo anche per molto tempo immobili. A
questi esemplari appartengono il Tarabuso (Botaurus stellaris) che si arrampica afferrando
le canne a mazzi, il Tarabusino (Ixobrychus minutus) nidificante proprio nei canneti e più
difficile da identificare perché più piccolo, che compie spesso brevi voli sopra le canne e
talvolta per sfuggire ai pericoli corre invece di volare e l’Airone rosso (Ardea purpurea)
anch’esso nidificante. Si possono trovare poi esemplari di dimensioni più ridotte,
appartenenti alla famiglia Anatidae come la Moretta (Aythya fuligula), la Moretta
Tabaccata (Aythya nyroca) e il Moriglione (Aythya ferina) tutte anatre tuffatrici che
utilizzano i laghetti interni per procurarsi il cibo, nuotando sott’acqua. Di taglia medio
piccola sono invece uccelli della famiglia Rallidae, con corpi tarchiati, zampe e dita
lunghe, piuttosto schivi e quasi sempre nascosti tra la vegetazione: il Porciglione (Rallus
aquaticus) chiamato così per il suo verso simile ad un maiale infastidito, il Voltolino
(Porzana porzana), la Schiribilla (Porzana parva), la Gallinella d’acqua (Gallinula
chloropus) e la Folaga (Fulica atra). Unico esemplare di uccelli da preda è il Falco di
palude (Circus aeruginosus), nidificante, lo si vede volare appena sopra le canne con i
suoi tipici battiti rigidi. In realtà le specie più abbondanti all’interno dei canneti sono i
piccoli Passeriformi, alcuni vi nidificano, altri frequentano l’ambiente alla ricerca di cibo
o per la sosta durante le migrazioni e la loro caratteristica più interessante è il fatto che
molti hanno una propria postazione, mantenuta abitualmente, in parti distinte del fusto
della canna (Fig. 13). Tra i nidificanti vi sono: la Cannaiola comune (Acrocephalus
scirpaceus) che fabbrica un elaborato nido a canestro, intessuto su 3-4 canne adiacenti,
particolarissimo, in quanto riesce a spostarsi verticalmente sui fusti, alzandosi o
abbassandosi seguendo le maree, il Cannareccione (Acrocephalus arundinaceus) spesso
esposto in cima alle canne, specialmente quando canta nelle prime ore del giorno, il
Pendolino (Remiz pendulinus) che costruisce anch’esso un curioso nido, a borsa, sospeso
all’estremità dei fusti, soprattutto dei salici che si protendono al di sopra del canneto e il
Migliarino di palude (Emberiza schoeniclus) (Fracasso et al., 2003). Altre specie che
frequentano i canneti sono le Rondini (Hirundo rustica), lo Scricciolo (Troglodytes
troglodytes), la Passera scopaiola (Prunella modularis), la Passera mattugia (Passer
montanus), il Forapaglie (Acrocephalus schoenobaenus), il Forapaglie castagnolo (A.
melanopogon) che canta spesso in volo o dalla cime delle canne, il Forapaglie
33
macchiettato (Locustella naevia) sempre ben nascosto nel folto della vegetazione e che,
solo se disturbato, vola basso sulle piante per piccoli tratti, il Pagliarolo (Acrocephalus
paludicola), la Cannaiola verdognola (A. palustris) ottima imitatrice dei canti di altri
uccelli e, infine, il Basettino (Panurus biarmicus) che si arrampica sulle canne con piccoli
movimenti e saltelli e si nutre di semi di canne (Hayman e Hube, 2003). Negli ultimi anni,
a causa dell’intenso fenomeno di subsidenza, delle opere di bonifica che hanno
determinato l’abbassamento della falda acquifera dolce, della diminuita portata solida da
parte del fiume e dei fenomeni di salinizzazione, la struttura dei canneti ha subito dei
mutamenti e, nelle zone più esposte all’influenza del mare, anche notevoli arretramenti e
regressioni. L’aumento del tenore di salinità, quindi, rende i canneti progressivamente più
radi e meno alti, fattore questo che mette a rischio la nidificazione delle specie citate, in
particolare degli ardeidi e del Falco di Palude.
Fig. 12 Interno di canneti, paradeli
Fig. 13 Disposizione verticale dei passeriformi
Nei canneti non è presente solo l’avifauna, si possono infatti incontrare anche insettivori
come il Toporagno acquatico di Miller (Neomys anomalus), anfibi come la Raganella
italica (Hyla intermedia), i serpenti d’acqua quali la Natrice tassellata (Natrix tassellata) e
la Natrice dal collare (Natrix natrix), riconoscibili dalla forma piuttosto spigolosa della
testa e dagli occhi leggermente rivolti verso l’alto e i roditori come l’Arvicola d’acqua
(Arvicola terrestris), il Surmolotto (Rattus norvegicus) che costruisce cunicoli e gallerie in
cui stabilisce la dimora e alleva i piccoli, abbondanti tra questi sono il Topolino delle risaie
(Micromys minutus) e la Nutria (Myocastor corpus). Quest’ultima specie, originaria del
sud America, è stata importata per la sua pelliccia circa un centinaio di anni fa ma, in
34
seguito a fughe e a rilasci, si è in parte naturalizzata e viene abitualmente ritrovata in
acque stagnanti dove si sviluppa una fitta vegetazione che le garantisce un’adeguata
copertura e protezione. La sua presenza però crea molti problemi poiché scava ampie
gallerie lungo le rive determinando instabilità agli argini (Rallo e Pandolfi, 1988).
3.1.2.2 Un passato che ritorna: lavorare con le Canne palustri
3.1.2.2.1 I “canaroi”
Canaroi è un termine dialettale veneto che indica coloro che, in passato, raccoglievano le
Canne palustri (Fig. 14). Il sostentamento della popolazione del Polesine si basava
principalmente su tre attività: la pesca, l’agricoltura e la raccolta delle canne palustri. Già
un atto notarile del 29 e 30 novembre del 1587 registra il nome di tutti i capi famiglia di
Adria che si dichiaravano canaroi; il paese a quei tempi non doveva superare i 3.000
abitanti ed i nomi registrati erano ben 109, questo significa che oltre la metà della
popolazione, circa 1.600 individui, viveva con la raccolta e con la lavorazione delle Canne
palustri (Zunica, 1984).
Fig. 14 I canaroi
L’anno era diviso in due periodi, quello caldo in cui la popolazione si dedicava alla pesca e
all’agricoltura e l’inverno, in cui la campagna non offriva più lavoro ma soprattutto la
pesca era scarsa e l’attività di sostentamento principale delle famiglie diventava la raccolta
35
delle canne palustri. Gli unici in grado di sopportare un così duro lavoro, erano i capi
famiglia, gli uomini: canaroi di Porto Tolle, soprattutto della frazione di Scardovari, ma
anche dei paesi limitrofi come Rosolina, Taglio di Po e l’attuale Porto Viro, si recavano
nelle valli e nelle lagune dell’estremo Delta. Coloro che provenivano da lontano per tutta
la settimana vivevano nei casoni di canna (che saranno illustrati nella sezione 3.1.2.3.2),
dedicandosi esclusivamente al lavoro, per ritornare a casa solo la domenica. Alla prima
bora, momento in cui le canne si strofinavano vicendevolmente e perdevano le foglie, si
poteva iniziare la raccolta, poiché della parte aerea della pianta rimanevano solo il gambo
e il pennacchio dell’infiorescenza, diventando più leggere e, soprattutto, non avevano
bisogno di essere pulite e lavorate ulteriormente prima della vendita. I mesi principali per
questa attività erano quelli a cavallo tra dicembre e febbraio, ma molti iniziavano già da
novembre, continuando fino a marzo. Unico lavoro svolto in estate, dal 23 di agosto al 13
di settembre circa, era la raccolta dei “pnaci” (Fig. 15), i pennacchi, le infiorescenze della
Canna palustre. I canaroli tagliavano il pennacchio assieme alla parte terminale del fusto,
togliendo manualmente le foglie rimaste ed indossando guanti di pelle per proteggersi le
mani dal margine tagliente delle foglie stesse, coi quali produrre scope utilizzabili per le
pulizie delle case.
Fig. 15 Ragazzo che trasporta pnaci
Nel periodo invernale si partiva, quando ancora era buio, con la “canarola” (Fig. 16), la
tipica barca con fondo piatto e con la superficie totalmente aperta, per agevolare il lavoro,
ottenendo la massima capienza per trasportare più fasci di canne contemporaneamente.
All’alba si era già in mezzo ai paradeli, i piccoli canali che attraversavano i canneti e si
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lavorava duramente fino a mezzogiorno. A volte, se queste grandi erbe palustri erano
bagnate o se si voleva sfruttare il vantaggio della bassa marea, si lavorava da metà mattino
fino al tardo pomeriggio.
Chi andava a “far canna” lavorava duramente per buona parte della giornata e l’abitudine
era quella di portare con sé un po’ di vino, per scaldarsi dal freddo dell’inverno e una
merenda per ritrovare la carica. La tipica merenda, che oggi è diventata un piatto
tradizionale nella cucina del Delta è rappresentata dai “risi e fasoi alla canarola”; gli
ingredienti di questo piatto povero ma calorico sono semplici: riso e fagioli. Le mogli ne
preparavano in grandi quantità perché si mantenevano e si potevano mangiare per più
giorni e venivano trasportati all’interno di pentolini e, all’ora della merenda, i canaroi li
riscaldavano accendendo un piccolo fuoco con le Canne palustri da cui prende nome del
piatto.
Le divise dei canaroi erano semplici: si trattava di giacche impermeabili, di lunghi stivali
di gomma e, per non sprofondare nel suolo melmoso e per evitare di bucare stivali e piedi
sulle punte taglienti delle canne già asportate, venivano indossate le “galosse” (Fig. 17)
tavolette di legno, con una parte in lamiera, calzate sopra gli stivali e simili a racchette da
neve.
Fig. 17 Le galosse
Fig. 16 La canarola
Poveri erano anche gli strumenti di lavoro: la “bareta” (Fig. 18), composta da due assi
verticali, due orizzontali e due incrociati che veniva conficcata nella melma dove
rimaneva in bilico ed era utilizzata come appoggio per le canne e la “msura” (Fig. 19),
una falce messoria formata da una lama curvata ad arco, con un manico che poteva essere
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di 35 cm o più lungo di 60/70 cm. che serviva per il taglio delle canne. Le due diverse
lunghezze sono correlabili ai due differenti modi di lavorare dei canaroi: o scendere e
camminare a fatica nella melma per recidere, alla base, i fusti con la falce con il manico
corto, oppure rimanere in barca ed utilizzare la falce con il manico lungo per arrivare fino
alla canna.
Solitamente si formavano fasci di canne alti 2 metri, ovvero tutta l’altezza dei fusti e di 80,
90 cm o di 1 m di circonferenza. Secondo la necessità si arrivava anche a fasci di 120 cm,
i fascioni, dal peso variabile dai 20/30 ai 40 kg che venivano legati in due parti, verso le
estremità, con la “car’sìna”, i Giunchi, altra tipica pianta palustre. Questi fasci venivano
trasportati con le barche (Fig. 20) e depositati sugli argini in attesa di essere venduti.
Fig. 19 La msura
Fig. 18 La bareta
Tutti i canaroi lavoravano in proprio e, nonostante fosse un lavoro faticoso, era redditizio
in quanto le uniche spese riguardavano la manutenzione della barca e dei pochi attrezzi
usati: fino agli anni 1980 ogni fascio veniva pagato dalle 3.000 alle 3.300 lire, non si
vendeva a peso e ogni canarolo poteva arrivare, in un giorno, anche a raccogliere 20 fasci.
38
Fig. 20 Trasporto di fasci
Un antico proverbio indicava il tempo in cui il canarolo doveva tornare a fare il pescatore
quand’che la cana la punse, la passara la unse: è la primavera il periodo in cui affiorano
le “punte” della nuova canna e la passera (intesa come specie ittica del genere
Pleuronectes) è molto grassa e perciò, se messa sulla graticola, unge. Questo è il momento
di ritornare alla pesca.
3.1.2.2.2 Azienda Agricola Depiccoli: una realtà come poche
A S. Anna di Chioggia (Ve) vi è una delle poche aziende italiane che si occupa di
lavorazioni in Canna palustre. L’Azienda Agricola è gestita dal signor Nello Depiccoli, dal
figlio Orazio e dalle rispettive mogli. Si tratta di una famiglia dedita al lavoro, con una
passione straordinaria e con una ricca storia alle spalle, essendo loro la 4° generazione
impegnata in questo ambito lavorativo. Per molti anni a Scardovari la famiglia Casellato
ha prodotto e commercializzato stuoie in canna ma da circa 15 anni la fabbrica è stata
chiusa e la maggior parte dei macchinari è stata comprata da altre aziende del settore, tra
le quali la ditta dei sig. Depiccoli.
Negli ultimi anni si è assistito ad una crescita sempre maggiore della domanda, da parte
dell’opinione pubblica, di biologico, di natura e di ambienti salutari, per questo il mercato
della Canna palustre ed affini, dopo un periodo abbastanza buio, sta ritornando ad avere
l’importanza di un tempo. Il mercato ha subito negli anni una graduale evoluzione e le
stuoie prodotte dall’Azienda, che in passato venivano vendute soprattutto agli agricoltori,
per essere utilizzate nei campi a protezione delle colture, oggi sono state sostituite con teli
di plastica e le richieste arrivano dai privati, che le usano nell’abbellimento di recinti o di
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terrazze, ma soprattutto da molte strutture ricettive e da molti stabilimenti balneari. Le
“grisole” vengono ora apprezzate per la loro ombra e, principalmente per la loro estetica,
infatti l’azienda è specializzata soprattutto nella costruzione di tetti e di ombrelloni in
canna palustre che ricreano un paesaggio “naturale”. Presso la sede vengono prodotte
stuoie di varie misure e scope, queste ultime sia in Canna palustre sia in Saggina (Sorgum
saccarathum) altra graminacea, più robusta e più dura al tatto. Un tempo esistevano gli
“scoetari” coloro che commissionavano ad altre persone grandi quantità di scope per poi
rivenderle, oggi questi “aspirapolveri naturali” sono stati sostituiti da quelli in nuovi
materiali sintetici, ma vi è ancora una certa richiesta. Il grande pregio delle scope in canna
è il non alzare la polvere e per questo motivo vengono richieste soprattutto da ospedali e
da parrucchieri. Due sono i passaggi e i macchinari usati per la loro costruzione: i
pennacchi della pianta vengono legati al manico della scopa, utilizzando filo di ferro
zincato. Compito del primo macchinario (Fig. 21) è quello di bloccare il filo di ferro in
modo che l’artigiano possa tirare verso di sé il manico e fissare i pennacchi molto
strettamente, così da evitare il loro sfaldamento nel tempo; in un secondo momento si
prosegue con la cucitura della scopa e si utilizza, a questo punto, la seconda macchina,
meccanica e più complessa, in cui viene inserita la scopa e, con del filo di nylon, viene
cucita in più punti (Fig. 22).
Fig. 22 2° macchinario utilizzato
Fig. 21 1° macchinario utilizzato
La famiglia Depiccoli possiede ancora un vecchissimo attrezzo di legno (Fig. 23), di quasi
200 anni, che veniva utilizzato per sostenere le scope nella fase di cucitura, ovviamente a
40
mano, con corde di Giunchi e che ora viene esposto, molto orgogliosamente, per il suo
grande valore affettivo e culturale.
Fig. 23 Vecchio attrezzo in legno per la cucitura delle scope
Per produrre le stuoie la famiglia Depiccoli utilizza macchinari differenti ed anche questi,
come i precedenti, hanno più di 80 anni ma sono ancora perfettamente funzionanti. Due
sono i macchinari presenti in ditta (Fig. 24), identici tra loro che vengono utilizzati
principalmente dalle mogli. Le canne vengono appoggiate su due cavalletti di legno, per
essere prese più agevolmente ed il lavoro viene svolto manualmente prendendo uno o due
fusti per volta, inserendoli all’interno del macchinario, azionato sempre manualmente con
una leva, e le canne vengono infine legate tra loro con filo di ferro zincato (Fig. 25). Le
stuoie prodotte possono essere di varie lunghezze a seconda delle richieste, mentre
l’altezza rispecchia l’altezza naturale di 2 m delle canne stesse.
Fig. 24 Macchinari per produzione stuoie
Fig. 25 Sig.ra Depiccoli al lavoro
41
Quando vengono richiesti tetti in Canna palustre per prima cosa, padre e figlio, si recano
per un sopralluogo, per osservare e capire le caratteristiche fisiche della zona in cui verrà
costruita la struttura. L’azienda molto spesso non si occupa solo del tetto ma di tutta la
struttura, pareti comprese, e viene costruita in legno con una tecnica particolare e assodata
da anni, soprattutto per quanto riguarda il tetto, per il quale si crea uno scheletro composto
da grossi travi verticali a circa 1 m di distanza l’uno dall’altro e una struttura secondaria,
con travi più fini, posizionate in modo orizzontale e distanti tra loro circa 35 cm. Se la
struttura nel complesso è molto grande, all’interno, tra le falde, si inseriscono dei sostegni
sempre in legno. La canna viene utilizzata in tutta la sua lunghezza, pennacchi compresi,
la parte del fusto vicina alla radice ha una circonferenza più ampia che diminuisce molto
arrivando al pennacchio; questa forma conica del fusto è importante per ottenere una
pendenza adeguata delle falde. Segreto importantissimo, infatti, per rendere il tutto
impermeabile, senza l’aggiunta di altro materiale, è la pendenza molto accentuata del tetto,
creata sia dalla conicità del materiale sia dalla pendenza dello scheletro delle falde: in
questo modo l’acqua non ristagna e scivola lungo le canne fino a terra. I fasci di canna
vengono poi inseriti, uno ad uno, partendo dalla parte del tetto più bassa, arrivando fino
all’apice, e vengono posti a circa 40 cm l’uno dall’altro, o meno, a seconda della
grandezza totale della struttura (Fig. 26). Una volta fissati vengono battuti molto
delicatamente con una spatola di legno, per non essere danneggiati (Fig. 27), in modo che,
a lavoro concluso, la canna si presenti uniforme. Stesso procedimento si attua per strutture
di forme diverse, quadrate, rettangolari, rotonde ed anche per costruire ombrelloni,
anch’essi di varie misure.
Fig. 26 Costruzione del tetto
Fig. 27 Assestamento delle canne con spatola
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3.1.2.3 Le antiche dimore del Veneto
3.1.2.3.1 I casoni veneti
Il casone era l’umile dimora di una popolazione generalmente dedita alle attività agricole,
ed era, in passato, la più diffusa abitazione nel Veneto, soprattutto nell’arco lagunare. Non
è del tutto chiaro il significato del termine “casone” ma è abbastanza logico ritenere che si
tratti della derivazione accrescitiva della parola casa, intesa come abitazione di campagna.
Diverse interpretazioni vengono comunque attribuite a questo nome e pare che venisse
utilizzato in modo frequente in passato a Venezia per indicare le prigioni; l’unico rapporto
che si riesce a stabilire tra queste dimore con diversa funzione è comunque la stessa
povertà che rappresentavano. Predecessore del casone era la capanna, rifugio fatto
dall’uomo per ripararsi dalle intemperie e per difendersi dagli animali, con una struttura
conica di paglia che, dall’apice, scendeva fino a terra. La natura circostante offriva a poco
costo materiali come l’argilla, le erbe palustri, la paglia, il legname e la costruzione di
un’abitazione migliore delle capanne non era impossibile e forte era la lusinga di una vita
più confortevole. Dopo una lunga e graduale trasformazione, nel 1400, si sono ritrovati i
primi esempi di casoni con una struttura mantenutasi fino ai nostri giorni, fatta in muratura
e in Canna palustre. Non vi era una tipologia unica nella costruzione di queste abitazioni,
la struttura generale e i materiali utilizzati erano gli stessi nell’intero territorio regionale,
ma molte le particolarità che cambiavano da una provincia all’altra come tra Padova,
Venezia, Treviso e Rovigo. La parte perimetrale aveva un’altezza di circa due metri, due
metri e mezzo, e veniva costruita in muratura. I mattoni utilizzati erano ottenuti
dall’argilla che veniva impastata mediante pigiatura con dell’acqua, ottenendo una
poltiglia di media durezza che era poi riversata in appositi stampi di legno, i quali
venivano esposti al sole fino alla solidificazione del contenuto. Solo in tempi successivi e
a seconda della disponibilità economiche delle famiglie si utilizzavano mattoni cotti in
fornace. La muratura poteva essere fatta dai proprietari in modo autonomo ma la creazione
del tetto, in canna palustre, era più complessa e per questo era compito specifico di una
persona particolarmente competente: il casoniere. Si iniziava con la travatura principale
costituita da quattro grossi tronchi d’albero ben squadrati che, partendo dai quattro angoli
della muratura, si univano in alto a due a due e venivano poi congiunti alla loro sommità
da un’altra grossa trave. Venivano quindi segnati i quattro spioventi, triangolari i due ai
43
lati e trapezoidali i due ai fronti. In un secondo momento numerosissimi altri pali più
sottili venivano posizionati sia in verticale sia in orizzontale per creare una struttura di
sostegno in cui fissare i fasci di canna palustre che venivano bloccati con rami di salice e,
in tempi successivi, con filo zincato. La parte terminale superiore era fissata talvolta da
erbe palustri strettamente intrecciate, altre volte coperta da tegole sia per tenere unite le
canne sul punto di congiunzione sia per far scivolare via l’acqua là dove più facilmente la
pioggia poteva concentrarsi e penetrare all’interno.
I casoni erano composti inizialmente da una sola stanza in cui la cucina era un tutt’uno
con il reparto notte, arrivando poi a comprendere anche più stanze disposte in parallelo tra
loro, sempre in un unico piano. I pavimenti erano di terra battuta che, al momento del
disgelo, molto spesso perdeva la sua compattezza, diventando ondulata, ma in estate pare
favorisse una maggior freschezza degli ambienti. Nei pochi casoni più ricchi la
pavimentazione era fatta di mattonelle rettangolari in cotto rosso. Queste antiche dimore si
differenziavano per piccoli particolari da una provincia all’altra. Nella provincia di Padova
i casoni avevano base rettangolare e nei tetti era presente un’apertura, una specie di
abbaino, che serviva a porre nel sottotetto il fieno destinato agli animali, nel periodo
invernale. I casoni del territorio veneziano si differenziavano da quelli padovani per la
base più quadrata e per l’apertura dell’abbaino, che partiva dalla sommità del tetto,
giungendo, con un graduale distacco, alla linea di gronda, ottenendo un’apertura più ampia
ed imponente. I casoni della marca trevigiana, sviluppati su una pianta rettangolare si
presentavano ancora più diversi nel tetto: la falda sul fronte principale non si abbassava
fino a sopravanzare leggermente i muri perimetrali dell’abitazione, come i rimanenti tre
lati, ma si arrestava settanta-ottanta centimetri al di sopra, in modo da lasciare scoperta
una fascia longitudinale segnata da una intelaiatura di legno a mo’ di loggia (Tieto, 1979).
Anche in Polesine i casoni costituivano l’abitazione più frequente, con struttura generale e
materiali tipici: perimetro in muratura, tetto in canna palustre e poche unità abitative. La
grande e spettacolare differenza era rappresenta dai casoni del basso Polesine nel Delta del
Po, che saranno illustrati nel paragrafo seguente.
3.1.2.3.2 Scanno Boa e i casoni del Delta del Po
Il Delta del Po è il territorio più giovane d'Italia formatosi a partire dal 1600 e l’uomo, in
antitesi e in gara con la natura, mano a mano che le terre emergevano grazie al naturale
44
processo di sedimentazione, ha cercato di plasmare il paesaggio naturale con interventi
idraulici lungo i rami dei fiumi e, soprattutto, con azioni di bonifica al fine di poter
utilizzare per il proprio sostentamento le nuove terre emerse. La precarietà delle
condizioni di queste aree ha dato luogo ad una popolazione rada e dispersa, una
popolazione povera, dedita soprattutto alla pesca e, solo in un secondo momento, grazie
alle continue bonifiche, anche all’agricoltura.
I casoni erano le più umili abitazioni dei pescatori, a pianta rettangolare, con dimensioni
ridotte (solitamente quattro metri per tre) e con la particolarità delle pareti costruite non
più in muratura ma in Canna palustre. Le canne venivano unite con il legno o con corde
fatte di rami di Salice e inserite su orditure di robusti pali. Queste pareti erano composte
da un doppio strato, quello esterno più spesso e quello interno più sottile e la camera d’aria
era riempita di canna sfusa. I tetti erano principalmente a due falde, raramente anche di
quattro, sorretti da intelaiature di travi in legno. In difesa contro il vento l’altezza dei
casoni era molto ridotta e i tetti sporgevano sulle pareti perimetrali, per lo stesso motivo il
colmo era spesso composto da una falda più corta ed una più lunga, quella posta a nordest, per proteggere la struttura dalla bora (fig. 28), vento dominante e di maggior forza. Il
vento non era però l’unico problema e per evitare che l’acqua piovana si infiltrasse spesso
si proteggeva la congiuntura delle due falde con fasci di canne posizionate in modo
orizzontale, sia all’interno sia all’esterno, cambiando la morfologia esterna di questi
casoni (Fig. 29), all’interno della stessa area.
Fig. 28 Tetto a due falde diverse
Fig. 29 Tetto con fasci di canne interni
Unico particolare in comune con i casoni veneti era il camino. Considerata l’estrema
combustibilità del tetto in canna palustre era indispensabile l’utilizzo di un materiale non
45
infiammabile: veniva quindi costruito in muratura, ma, anche in questo caso, non vi era
una tipologia unica nella costruzione. Si poteva trovare un focolare di dimensioni molto
ridotte in un angolo del casone oppure ai lati, costruito con mattoni posti a protezione
delle pareti di canna e del pavimento in terra, con un camino di muratura che, perforando
il tetto, portava all’esterno il fumo (Fig. 30). Oppure, come nella maggior parte dei casi, il
camino era totalmente in muratura, costruito come una specie di abside, una struttura
apparentemente estranea al casone (Fig. 31). In entrambi i casi i camini erano il più
possibile lontano dalle falde ed orientati a seconda dei venti dominanti, per evitare incendi
che potevano essere causati dallo sprigionamento delle faville. L’arredo era molto
spartano, la cucina era un tutt’uno con il reparto notte, era composta da un tavolo (Fig. 32)
ed alcune sedie, una scansia o una credenza mal ridotta che conteneva le poche
suppellettili in terra cotta, indispensabili al bisogno famigliare. I letti (Fig. 33) erano
formati da cavalletti di legno, non molto alti, sui quali appoggiavano tavole o pali su cui
veniva posato il materasso. Anche questo era di canna e, confrontandolo con quelli di oggi
si notano sostanziali differenze, solitamente si trattava di fasci di canne ricoperte con un
panno mentre, nei casi più fortunati, si utilizzava un grande sacco chiuso contenente le
canne che vi venivano inserite attraverso un’apertura laterale. Importante per capire le
dure condizioni di vita all’interno di queste case è il tenero pensiero di un bambino,
Giuseppe Marangon che, nel 1950 era alunno della seconda elementare e che scriveva nei
sui quaderni Oh Signore mio, fa che mi si faccia una casa di pietra perché non abbia a
soffrire quelle matte paure durante i temporali!
Fig. 31 Camino totalmente in muratura
Fig. 30 Focolare interno
46
Fig. 33 Letto in canna palustre
Fig. 32 Cucina del casone
Anche la vita dei pescatori era estremamente dura: per molti decenni la pesca è stata
esercitata presso le foci del Po e nelle lagune, dedicandosi soprattutto alla cattura delle
anguille specie, allora come ora, pregiata. Una lunga contesa in merito alle concessioni e
alla regolamentazione delle aree lagunari ha visto per decenni i pescatori contrapporsi ai
proprietari dei terreni adiacenti, questi ultimi reclamavano come proprie estese zone
lagunari che, nella maggioranza dei casi, erano terreni invasi dalle acque del mare e mai
più prosciugati. Ma è soprattutto il cinquantennio dal 1880 al 1935 il periodo in cui la
pesca conosce il momento più buio della sua storia e i pescatori, spinti da una lunga
controversia, hanno deciso di ritirarsi nelle zone più depresse e meno pescose delle lagune,
negli scanni della laguna del Basson (Laurenti, 2006). La popolazione di Porto Tolle più
vicina di altre a questa zona si recava al lavoro giornalmente, mentre i pescatori di
Rosolina, Taglio di Po e della odierna Porto Viro, a causa del lungo viaggio che dovevano
affrontare, erano costretti a trasferirsi per lungo tempo. Nasce in questo periodo il
villaggio di pescatori di scanno Boa (Fig. 34) dove in primavera ci si dedicava in alla
pesca di passere e di cefali, seguiva quella dello storione, da ottobre fino a dicembre quella
delle anguille e, finalmente, nel periodo natalizio si ritornava a casa. Si trattava di un
villaggio formato da tante case in canna, in cui si trasferivano le intere famiglie dei
pescatori e dove la vita era scandita dai ritmi del solo lavoro: di notte si dormiva tutti
assieme nei letti di canna e di giorno si pescava. Caratteristica particolare erano le zucche
“botasse”, le zucche vuote che appese alle pareti, rivelavano la presenza di una famiglia,
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erano infatti i “candvei” dell’epoca, ovvero galleggianti di segnalazione e collegamento
delle reti calate in acqua (Fig. 35).
Fig. 34 Villaggio di Scanno Boa
Fig. 35 Casoni con zucche botasse
Era una vita “bestiale”, come viene descritta nella testimonianza Ivana Zaia, che, nel 1988,
in una intervista ha raccontato di quando i vigili del fuoco, nel 1951, quando era bambina,
hanno salvato lei e tutti gli abitanti dello scanno, dall’alluvione tremenda che ha
interessato tutto il territorio del Polesine (Villani, 1988). Ma è solo nel 1960 che la
maggior parte dei pescatori decide di abbandonare definitivamente il villaggio. Oggi di
quel gruppo di case ne rimangono alcune in disuso e abbandonate a se stesse mentre un
solo casone è ancora in buonissimo stato (Fig. 36) ed è gestito dalla Cooperativa Pescatori
Delta Padano di Scardovari. Questo viene utilizzato dai soci della cooperativa per pranzi e
per giornate di pesca, a volte anche pernottando nei periodi primaverili o autunnali, mai in
quelli invernali in quanto è sprovvisto di riscaldamento. I soci, inoltre, si occupano
personalmente, quando necessario, della manutenzione, sia interna che esterna. La
struttura esternamente è ancora in canna palustre e, quando le canne sono vecchie e
rovinate, vengono tolte e sostituite con canne nuove, mentre internamente il casone è
ormai dotato di pareti in legno, coperte con pannelli in cannicciato per mantenere l’antica
atmosfera. Questo potrebbe essere musealizzato e rappresentare uno dei siti da visitare in
dettaglio.
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Fig. 36 Casone della Co. Pescatori Delta Padano
Il Delta del Po è una terra di miti e di leggende amata da pittori, scrittori e raccontata più
volte anche dal cinema che ha sempre riservato al Grande fiume un interesse particolare.
Molti sono i film girati sulle acque del Po, ad esempio del 1945 è la Donna del fiume di
Mario Soldati interpretato da una giovanissima Sophia Loren; nel 1957 si è immersa nelle
nebbie padane a Pila e a Ca’ Venier nel Grido di Michelangelo Antonioni, un’altra diva,
Alida Valli. Il fiume è un set ideale, soprattutto per storie violente e a tinte forti,
particolare suggestione suscita il film Scano Boa – Violenza sul fiume del regista Renato
Dall’Ara, tratto dall’omonimo romanzo del polesano Giannantonio Cibotto. Il romanzo e
il film descrivono con passione la magia sprigionata in quel luogo, raccontano la vita aspra
e precaria di un angolo di terra al termine del mondo, proponendo un ritratto preciso e
reale di quello che era lo scanno ed il villaggio di pescatori.
3.1.3 Museo delle Api: laboratorio didattico
A pochi chilometri da Porto Viro, nel cuore del Parco del Delta del Po, sorge il paese di
Ca' Cappellino. Dal 1998 presso l'ex scuola elementare del paese, gli apicoltori del Delta
in collaborazione con l'amministrazione comunale di Porto Viro, hanno allestito un centro
di apicoltura, gestito da sempre dal Signor Giuliano Mattiazzi. Il centro, costituito da due
locali, la sala di smielatura, un locale igienicamente idoneo all'estrazione, maturazione e
invasettamento del miele e il punto vendita, ha permesso di riunire, sotto un unico
marchio, il miele del Parco del Delta del Po, il miele prodotto nel Parco. Le prassi
igieniche e i regolamenti produttivi imposti agli apicoltori associati, danno la garanzia di
acquistare un prodotto genuino, vergine e integrale ed il centro offre assistenza tecnico
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professionale agli apicoltori locali e a chiunque altro voglia intraprendere questa attività.
All'interno è allestita una particolare mostra che porta il visitatore alla scoperta della vita
delle api nei suoi molteplici aspetti e alla conoscenza dei suoi preziosi prodotti: il miele, la
propoli, il polline, la pappa reale e la cera (www.smppolesine.it).
I visitatori possono osservare in modo diretto la vita delle api nell’apiario annesso,
visionare video e, cosa ancora più interessante, sperimentare nei laboratori varie attività.
Giuliano riesce a trasmettere l’amore per la sua terra come pochi, si tratta di una persona
vulcanica, sempre attiva di energia e moltissime sono le scolaresche che, ogni anno
visitano il centro, trovando sempre nuove e originali proposte di attività pratiche e
manuali.
Quando non ha impegni con gruppi o con singoli ospiti si dedica alle sue passioni, le erbe
palustri e con la tifa realizza piccole anatre. Ai laboratori che attualmente Giuliano
propone, ovvero la realizzazione di candele con la cera delle api e la realizzazione di
oggetti in terracotta, si può pensare di aggiungere un’altra attività con la canna palustre,
che ora è a livello di hobby, quella cioè di ricreare in miniatura i vecchi casoni.
Viene quindi proposto, all’interno del percorso museale, un laboratorio in cui Giuliano
insegna, a gruppi sia di scolari che di adulti, il modo di costruire le tipiche case del Delta
del Po, per offrire, a chi visita questo stupendo territorio, non solo nozioni didattiche ma
anche un lavoro manuale, grazie al quale possono essere impressi nella mente particolari
che altrimenti sfuggirebbero. Poiché nel passato le tecniche costruttive dei casoni erano
molteplici anche Giuliano ne ripropone diverse, unica cosa aggiunta, rispetto la realtà,
sono gli scheletri in legno, indispensabili per mantenere la struttura, troppo piccola, per
essere fatta solamente con canna. Per costruire lo scheletro vengono utilizzate cassette di
legno, in precedenza usate per il trasporto di frutta e verdura e donate da vari supermercati
del luogo. In base al gruppo di lavoro vengono scelti gli attrezzi e il materiale con cui
costruire il casone: se il gruppo è composto da bambini viene utilizzata la colla, altrimenti
filo di ferro plasticato, chiodi e trapano. Il laboratorio proposto è molto divertente e, in
meno di una giornata, i modellini dei casoni possono essere conclusi. Viene assemblato lo
scheletro, lasciato aperto in corrispondenza di una falda per poter lavorare in modo più
agevole e chiuso mano a mano che il lavoro procede; vengono ricreate porte e finestre,
utilizzando il legno precedentemente tolto. Si formano poi piccoli fasci di canna che
vengono legati ad uno ad uno con il filo di ferro, precedentemente inserito in fori fatti con
il trapano (Fig. 37). Se si opta per l’utilizzo della colla la modalità di inserimento delle
50
canne cambia, vengono posate assieme, non più in fasci ma unite allo scheletro mediante
un piccolo bastone di legno posizionato in modo orizzontale. In un secondo momento,
sempre con il legno delle cassette, viene creato il camino, l’unica parte del modellino che
rimarrà priva di canne (Fig. 38).
Fig. 37 Inserimento dei fasci con filo di ferro
Fig. 38 Camino
Ultimo compito prima di concludere il casone in miniatura è la pittura. Vengono pitturate
le porte, i balconi delle finestre e il camino con colori a tempera e, solitamente, le tonalità
scelte sono scure per rispecchiare il più possibile quelle reali dei casoni del passato (Fig.
39).
Fig. 39 Giuliano e il casone concluso
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4. CONCLUSIONI
Con questa proposta ecomuseale si è voluto porre in evidenza la grande importanza
naturalistica, storica e culturale della Canna palustre, graminacea caratteristica del nostro
territorio, che nei secoli ha trovato utilizzo in settori più vari della vita quotidiana degli
uomini del Polesine. Si tratta di una pianta dalle molteplici potenzialità, per il momento
poco o nulla conosciute dalla maggior parte del grande pubblico, ma che in un futuro non
lontano, potranno essere apprezzate in modo maggiore in quanto sfruttate per particolari
ambiti di importanza ecologica, quali la fitodepurazione e la bioarchitettura, tecniche
sempre più richieste e sempre più utilizzate.
Questo ecomuseo della Canna palustre non vuole però solo valorizzare la pianta ma nella
realtà due sono gli scopi che si vogliono ottenere dalla sua realizzazione:
- un arricchimento nell’offerta turistica del Parco Regionale Veneto del Delta del Po, un
parco importantissimo viste le sue peculiarità, ma che non riesce, forse a causa della sua
giovane età, forse per una tipologia di offerta turistica non ben strutturata, forse per una
mancanza di forme adeguate di divulgazione per il grande pubblico e per gli stranieri, non
solo ad avere un ruolo principe nell’offerta turistica italiana ma nemmeno ad essere
apprezzato e ad ottenere un ruolo di rilievo almeno a livello locale.
- un mantenimento ed anche e soprattutto un aumento del legame della comunità del basso
Polesine con il proprio territorio, con le proprie origini e la propria storia, perché anche la
fascia di popolazione più giovane possa arricchirsi culturalmente e possa utilizzare questo
nuovo background per imparare prima ad amare e poi a valorizzare in modo più adeguato
il territorio in cui vive e di conseguenza anche il Parco, che di questo territorio è parte
integrante.
L’aspetto principale in un ecomuseo è il ruolo attivo degli abitanti locali che coinvolti,
assieme alle istituzioni pubbliche, concepiscono, costruiscono e sviluppano le idee, in
questo ecomuseo della Canna palustre, inizialmente questo era percepito come il punto più
di debole nell’affrontare il progetto. Una piacevole sorpresa invece è stata l’estrema
disponibilità, non solo degli anziani, desiderosi di raccontarmi la propria esperienza e di
elogiare la propria vita, ma anche delle persone più giovani, che hanno interagito con il
progetto, dimostrando grande interesse ed aiutandomi, in un territorio così ampio come il
Delta del Po, nella delicata e difficile ricerca e selezione dei principali protagonisti
dell’ecomuseo e nello stabilirne i contatti.
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Il ruolo degli anziani è fondamentale in quanto rappresentano i depositari delle tradizioni,
gli unici in grado di raccontare la vita estrema nei casoni o il pesante lavoro del
raccoglitore di canne, ma i giovani rappresentano il futuro e senza il loro impegno
risulterebbe impossibile tramandare queste tradizioni e portare avanti nel tempo questo
importante progetto ecomuseale. Ci si auspica quindi che l’iniziale interesse generico
venga seguito da una attenzione maggiore per la storia del territorio e la sua
conservazione, e che possa alla fine esprimersi in una capacità di incrementare i posti di
lavoro, in ambito locale.
53
5. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
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www.osservatorioecomusei.net
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www.parcodeltapo.org
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www.regione.piemonte.it
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www.smppolesine.it
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6. RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare le numerose persone che mi hanno dato un prezioso contributo per la
realizzazione di questa tesi:
- la famiglia Depiccoli, la Sig.ra Stefania Schenato titolare del Rifugio Parco Delta del Po,
la Cooperativa Pescatori Delta Padano e coloro che un tempo vivevano con la raccolta
delle canne i Signori Giuliano Pezzolato, Cesellato Maurizio e Ascari Dino, per la loro
indispensabile collaborazione alla realizzazione del progetto ecomuseale
- per le preziosissime consulenze in merito alla bioarchitettura il Sig. Luca Giordano e alla
fitodepurazione il Sig. Davide Tocchetto, temi poco conosciuti dal grande pubblico e di
non facile comprensione
- grazie al Sig. Danilo Trombin, amico e naturalista di grande spessore culturale, per
avermi insegnato gran parte di quello che oggi so sul del Delta del Po e per avermi
trasmesso l’amore per questo territorio
- ringrazio il Sig. Giovanni Marangoni per avermi donato le foto dei casoni, immagini
ormai rare, con cui ho potuto illustrare nel dettaglio queste antiche dimore del Delta del Po
e un ringraziamento speciale per le bellissime foto, scattate appositamente per questo
progetto, al Sig. Rino Dissette, grande amico di famiglia che con grande pazienza mi ha
seguito in questo percorso
- il Sig. Ezio Rosa titolare della ditta Lacep snc di S. Savino, Magione (Pg), per le sue
utilissime e dettagliate spiegazioni in merito alle varie e possibili costruzioni in Canna
palustre
- ringrazio infine per il supporto e l’aiuto tecnico la Sig. Chiara Sfriso, la Sig.na Esther
Ferrari, l’Ing. Marco Ferro, il Prof. Lorenzo Santaterra e la Pro Loco di Porto Tolle.
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