proposta per un ecomuseo della canna palustre nel parco regionale
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proposta per un ecomuseo della canna palustre nel parco regionale
Università degli Studi di Ferrara C.A.R.I.D. Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Operatore del Turismo Culturale DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA ED EVOLUZIONE Insegnamento di Ecoturismo PROPOSTA PER UN ECOMUSEO DELLA CANNA PALUSTRE NEL PARCO REGIONALE VENETO DEL DELTA DEL PO Relatore: Prof. Marilena Leis Laureanda: Giorgia Santaterra Anno Accademico 2009‐2010 ‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ INDICE 1. SCOPO Pag. 2 2. INTRODUZIONE Pag. 3 2.1 Il Parco Regionale Veneto del Delta del Po Pag. 3 2.1.1 Evoluzione geomorfologica Pag. 4 2.1.2 Lagune e sacche Pag. 7 2.1.3 Valli Pag. 7 2.1.4 Dune fossili Pag. 8 2.1.5 Flora e fauna Pag. 9 2.2 Offerte turistiche del Parco Regionale Veneto del Delta del Po Pag. 11 2.3 Gli ecomusei Pag. 13 3. RISULTATI 3.1 Ecomuseo della Canna palustre 3.1.1 Sede dell’ecomuseo Pag. 18 Pag. 18 Pag. 20 3.1.1.1 Canna palustre – Phragmites australis Pag. 20 3.1.1.2 Manufatti in Canna palustre ieri ed oggi Pag. 21 3.1.1.3 Fitodepurazione Pag. 24 3.1.1.4 Architettura bioecologica Pag. 27 3.1.1.5 Un po’ di mitologia…Siringa e il dio Pan… Pag. 30 3.1.2 Siti ecomuseali: alla scoperta del Delta Pag. 32 3.1.2.1 Biodiversità tra i canneti del grande fiume Pag. 32 3.1.2.2 Un passato che ritorna: lavorare con le Canne palustri Pag. 35 3.1.2.2.1 I “canaroi” Pag. 35 3.1.2.2.2 Azienda Agricola Depiccoli: una realtà come poche Pag. 39 3.1.2.3 Le antiche dimore del Veneto Pag. 43 3.1.2.3.1 I casoni veneti Pag. 43 3.1.2.3.2 Scanno Boa e i casoni del Delta del Po Pag. 44 3.1.3 Museo delle Api: laboratorio didattico Pag. 49 4. CONCLUSIONI Pag. 52 5. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA Pag. 54 6. RINGRAZIAMENTI Pag. 56 1 1. SCOPO Vivo a Rosolina, uno dei comuni del delta del Po, in un territorio in cui l'acqua da secoli continua ad essere la protagonista, disegnando sempre nuovi confini in una perenne lotta tra uomo, mare, fiume, terra. Il ricordo va alle gite domenicali della mia infanzia, biciclettate e passeggiate grazie alle quali ho imparato a conoscere e ad apprezzare la mia terra. Ricordo lo stupore all'alzarsi improvviso di uno stormo di uccelli che al mio passaggio si spaventavano fuggendo e il profumo di salsedine quando d'inverno cercavo le conchiglie in riva al mare. Questo mio interesse per il Delta del Po è aumentato da quando per il C.T.G. Nunziatella (Centro Turistico Giovanile) sono diventata animatrice culturale e naturalistica e ho iniziato ad accompagnare gruppi di turisti, soprattutto in primavera, nei vari percorsi che offre il Delta. In ogni escursione ho scoperto paesaggi unici mai visti prima, come i tantissimi colori del cielo riflessi nell'acqua o il silenzio e la pace che si possono percepire solo fermandosi immobili con una piccola barca in mezzo ai canneti. Studiando e lavorando sul territorio ho potuto scoprire le attività e il sistema museale rivolti ai turisti all'interno del Parco Regionale Veneto del Delta del Po. Vengono valorizzati molti aspetti tra cui l'archeologia, l'evoluzione del Delta e le sue bonifiche, la civiltà contadina e gli aspetti naturalistici. Le proposte di visitazione per chi vuole conoscere il territorio non mancano, nonostante questo il Parco non riesce ad ottenere il ruolo di rilievo che merita, sia a livello nazionale sia locale, per questo è utile, e a mio avviso importante, proporre idee sempre nuove per aumentare l’attrazione turistica e per arricchire la conoscenza sia della popolazione locale, aumentando in questo modo il legame con il territorio, sia di chi scopre il Delta del Po per la prima volta. Con la mia tesi vorrei evidenziare l’importanza della Canna di palude, la Phragmites australis (= Phragmites communis Trinius), grande risorsa del passato, del presente e del futuro. Nelle pagine seguenti vi è la proposta progettuale per la creazione un ecomuseo della Canna palustre, con lo scopo di far conoscere questa pianta dalle numerose potenzialità e di aumentare ed arricchire l'offerta turistica del Parco Regionale Veneto del Delta del Po. 2 2. INTRODUZIONE 2.1 PARCO REGIONALE VENETO DEL DELTA DEL PO Il Delta del Po è un complesso di zone umide e terre emerse che si estende in due regioni e tre province: in Veneto, provincia di Rovigo, in cui si trova la parte attiva del fiume e in Emilia Romagna, province di Ferrara e Ravenna, in cui si trova la parte storica, dove secoli fa si trovavano i rami principali. I cosiddetti "due Delta", Veneto ed Emiliano – Romagnolo, ripartiti nelle due regioni e separati dal Po di Goro, sono in realtà un unico organismo con fittissimi interscambi al suo interno. Il Parco Regionale del Delta del Po è stato costituito l'8 settembre 1997, con la legge regionale n. 36, con il fine di tutelare, recuperare, valorizzare e conservare i caratteri naturalistici, storici e culturali del territorio del Delta del Po, per assicurare adeguata promozione e tutela delle attività economiche tipiche dell'area e concorrere al miglioramento della qualità della vita delle comunità locali. I comuni appartenenti al Parco Regionale sono: Adria, Corbola, Loreo, Papozze, Porto Tolle, Porto Viro, Rosolina, Taglio di Po e Ariano Polesine in cui si trova la sede del Parco. Al suo interno si estendono 120 chilometri quadrati di aree definite protette dalla Rete Ecologica Europea “Natura 2000” con l'obiettivo di conservare la biodiversità, salvaguardare l'efficienza e la funzionalità ecologica degli habitat e delle specie di interesse comunitario. La Rete Natura 2000 è costituita dall'insieme dei siti S.I.C. Siti di Importanza Comunitaria luoghi tutelati perchè contribuiscono a mantenere habitat naturali o specie di piante e animali rari o minacciati di estinzione che, a loro volta terminato l'iter di individuazione e designazione, divengono Z.S.C. Zone Speciali di Conservazione secondo le procedure della Direttiva 92/43/CEE; e dall'insieme dei siti Z.P.S. Zone di Protezione Speciale definite dalla Direttiva 79//409/CEE ”Uccelli” con lo scopo di tutelare zone in cui questi animali possano vivere e riprodursi. Fondamentale per la tutela della biodiversità del singolo sito e dell'intera rete è il Piano di Gestione, uno strumento operativo che disciplina gli usi del territorio al fine di renderli compatibili con la presenza in condizioni ottimali degli habitat e delle specie che hanno determinato l'individuazione delle Z.P.S. individuando le azioni e gli interventi per il loro 3 mantenimento e/o ripristino. I siti vengono monitorati regolarmente con relazioni periodiche sullo stato di conservazione e su eventuali sviluppi in atto. Il gruppo di lavoro per la redazione del Piano di Gestione della ZPS IT 3270023 "Delta Po" è costituto dall'Ente Regionale Parco Delta del Po, dal Consorzio Ferrara Ricerche Istituto Delta Srl e dall'Università IUAV di Venezia - Facoltà di Pianificazione del Territorio (www.parcodeltapo.org) 2.1.1 Evoluzione geomorfologica Dal punto di vista geologico un Delta è un accumulo di sedimenti che si forma grazie ad una combinazione di processi fluviali e marini che operano in un'area di foce, facendo così avanzare la linea di costa verso il mare. Lo sviluppo e la forma dipendono dall’intensità della sedimentazione fluviale da una parte e dall’azione demolitrice marina dall’altra. L'abbandono del carico da parte del fiume avviene generalmente a partire dai materiali più grossolani, al contrario quelli più fini come limi e argille sono abbandonati per ultimi perchè trasportati dalle correnti del bacino. La maggior parte del sedimento che giunge ad un Delta è portato dalle piene. Se queste giungono in un periodo di mare calmo si ha una minima dispersione di sedimenti e massima intensità dei processi di deposizione fluviale, e quindi si assiste al fenomeno dell'accrescimento del Delta. Mentre quando il mare è grosso e l'apporto fluviale scarso si ha la distribuzione del sedimento in arrivo, l'erosione ed il ripulimento di quello già depositato e pertanto si verifica un fenomeno di distribuzione del Delta (Piva e Scortegagna, 2005) Il Po, il grande fiume che nasce dal Monviso con un tragitto ormai consolidato di 650 chilometri ha nel corso dei secoli profondamente modificato la sua forma, e la sua evoluzione è la chiave di lettura per comprenderne le sue bellezze. Alla fine dell'Età del Bronzo e all'inizio dell'Età del Ferro (circa X sec. a.C.), in un periodo di clima mite secco ma ormai tendente al freddo, erano due le principali linee lungo le quali le acque del Po defluivano in mare: la più settentrionale il Po di Adria, che passando per Adria, Porto Viro, trovava foce presso Loreo e la più meridionale il Po di Spina che sfociava in territorio Ferrarese. Con il progressivo peggioramento del clima e le abbondanti precipitazioni verificatesi intorno all'ottavo sec. a.C. si ebbero importanti mutamenti della morfologia degli alvei fluviali e dei loro percorsi, in particolare una rotta avvenuta presso Sermide 4 (Mantova) segnò l'inizio della decadenza del Po di Adria e la nascita di un nuovo corso chiamato Poazzo che confluiva nel Po di Ferrara. A sud il Po di Ferrara si creava un'ulteriore suddivisione: Eridano e Volano. Fra i sec. VII e VIII d.C. si estinse il ramo Eridano e i principali rami del Po diventarono Volano e il nuovo ramo del Primaro. Nel XII sec. all'inizio di un nuovo ciclo piovoso si verificò un importante sconvolgimento nella storia evolutiva del Po: in seguito ad una serie di rotte avvenute presso Ficarolo (Rovigo) le acque iniziarono a defluire nell'attuale alveo (Po Grande), denominato allora Po di Ficarolo, e diviso in due rami, il Po di Fornaci con tre rami deltizi (Tramontana, Levante e Scirocco) e il Po di Ariano con due rami deltizi (Goro e Abate). La fine del XVI sec. segnò, dopo una lenta agonia, la definitiva estinzione del Po di Ferrara a favore del Po di Ficarolo, denominato per l'acquisita importanza Po Grande. Per il timore che i sedimenti del suo ramo più settentrionale, il Po di Tramontana, provocassero l'interramento della Laguna di Venezia i tecnici veneziani decisero di realizzare, fra il 1598 ed il 1604, la deviazione verso sud-est del corso terminale del Po Grande. Con questa grande opera di ingegneria idraulica detta “Taglio di Porto Viro” iniziò la costruzione del delta Moderno. Attualmente (Fig. 1), dopo aver attraversato quasi tutta la Pianura Padana, il Po, in prossimità della sua foce, si suddivide in diversi rami di cui il principale è il Po di Venezia (o Po Grande) che nella parte conclusiva del suo tragitto assume il nome di Po di Pila, il quale a sua volta sfocia in mare suddividendosi in altre tre piccoli rami: Busa di Tramontana, Busa Dritta e Busa di Scirocco. Dal Po di Venezia si diramano inoltre il Po di Goro, il Po della Donzella, il Po delle Tolle e il Po di Maistra. Per quanto concerne il Po di Levante va detto che questo ramo è ormai isolato dal sistema delta al quale è collegato solo con un piccolo canale artificiale (Biconca di Volta Grimana) (AA.VV., 2004). 5 Fig. 1 Mappa attuale del Delta del Po veneto: in rosso i vari rami del Po e altri invasi (da Verza, 2008). 6 2.1.2 Lagune e sacche Nel Delta le lagune e le sacche si estendono per circa 11.000 ettari: dagli oltre 3.000 della Sacca di Scardovari a meno di 400 per quella più piccola, come il Basson. Le lagune del Delta allo stato naturale hanno una struttura di base comune: una grande estensione centrale di acqua salmastra poco profonda circondata da bonelli, labirinti impenetrabili di canneti, solcati da tortuosi canaletti (paradeli), spesso tenuti aperti dall'uomo per poterci navigare a fatica, che conducono in piccoli specchi d'acqua interni. Questi canneti, soggetti all'escursione della marea, crescono su labili fondali e contribuiscono a fermare il sedimento, primo passo per la creazione di nuove terre emerse. La sabbia e l'argilla trasportate dal fiume vengono disperse dalle correnti marine, distribuite dalle onde formano barre di foce, gli scanni, sottili lingue sabbiose emerse parallelamente alla costa, dalla geometria sempre instabile e che difendono le lagune dalla forza del mare e cingono tutto il Delta come una corona (Touring Club Italiano, 2006). L'intervento dell'uomo ha in parte alterato tale morfologia: l'abbassamento del terreno, il progressivo interramento di alcuni rami secondari del Po, l'escavo dei fondali hanno fatto aumentare la salinità. Le lagune completamente salinizzate, quali ad esempio Caleri e Scardovari, sono diventate sacche ovvero bracci interni di mare; mentre molte lagune soprattutto nel 1800 e nei primi del 1900 sono state trasformate in valli da pesca mediante argini e idrovore. Sempre agli inizi del 1900 i canneti lagunari vennero trasformati in risaie ma presto abbandonati perchè inghiottiti dalle acque salmastre per l'abbassamento del terreno (subsidenza), dovuto all'estrazione del metano dal sottosuolo. Vestigia di tale passato sono i magazzini per il riso che svettano nelle lagune e nelle sacche (Verza, 2008) 2.1.3 Valli Le valli hanno origine dalla chiusura, mediante argini, di bracci di laguna e sono grandi bacini idrici con acqua salmastra poco profonda. Tutti i complessi vallivi hanno la caratteristica di ambienti di transizione tra le campagne, poste alle loro spalle, e le “acque vive” delle lagune e del mare che le fronteggiano. Possono avere origine naturale nel caso in cui vi sia stato l’abbassamento del terreno (subsidenza naturale o artificiale) o antropica nel caso in cui sia l’uomo a costruire le arginature, “valle” deriva dal termine romano 7 vallum, i primi ad utilizzare questo sistema furono infatti i Romani (AA.VV, 2004). Caratteristica principale è il fatto di essere gestite e mantenute attivamente e sapientemente dall'azione antropica. Nelle valli l'acqua salata entra dalle lagune e dalle sacche, mentre quella dolce dai rami del Po, o da canali di campagna da loro derivati, utilizzando sifoni e chiaviche per farla entrare e pompe idrovore per farla uscire. Al loro interno sono presenti laghi salmastri poco profondi ma anche zone d'acqua relativamente dolce soprattutto lungo i margini dove si possono trovare, in prossimità dei fiumi, canali e piccolo laghetti. Sono composte da molte ripartizioni interne divise tra loro da barene, isolotti sabbiosi sempre emersi. Tutto viene deciso e guidato dalla mano dell'uomo: per evitare eutrofizzazioni e anossie l'acqua viene fatta circolare continuamente, la geometria delle barene spesso modificata, vengono scavati canali per eliminare i sedimenti in eccesso e decise salinità, livello e ripartizione tra i vari laghi. Attualmente ogni valle è di proprietà privata, in concessione ad Aziende faunistico-venatorie. Le attività principali sono l'allevamento del pesce, sia estensivo che intensivo (Orata, Branzino, Cefalo, Anguilla, ecc...) e la caccia. Proprio queste due attività caratterizzano ogni valle che risulta o a principale indirizzo ittico e quindi con livelli idrici più elevati, soprattutto d'estate, o venatorio con livelli d'acqua più bassi perchè più congeniali all'avifauna acquatica (Verza, 2008) 2.1.4 Dune fossili Le dune sono corpi sabbiosi di origine eolica cioè si formano per l'azione del vento a contatto con il terreno. La loro altezza e la loro forma dipendono dalla direzione del vento, dal rifornimento di sabbia e dalla vegetazione che intrappola il sedimento. Gran parte di queste morfologie nel territorio del Delta sono considerate fossili sono cioè imputabili a fenomeni già completamente conclusi nel tempo (AA.VV, 2004). Le dune costituivano in passato le vecchie linee di costa, si estendevano in maniera continua ricoperte da selve impenetrabili e interrotte solo dai rami del Po. I cordoni dunosi più antichi sono di epoca Etrusca, rinvenibili nei pressi di Ariano Polesine. Con il continuo trasporto dei detriti deltizi, verso foce, la linea di costa avanzava e si formavano nuovi litorali dunosi, gli ultimi in epoca Rinascimentale. L'aumento dell'antropizzazione ha comportato nel tempo un loro parziale smantellamento, importanti centri abitati quali Rosolina, Porto Viro e Taglio di Po vi sono stati costruiti sopra. Durante il primo 1900 vennero in gran parte 8 disboscati e convertiti a zone di coltivazione essendo il loro sottosuolo sabbioso indicato per la coltivazione di ortaggi. Dal dopoguerra iniziò una fase di riforestazione che ha portato al loro aspetto attuale. Rimangono ancora oggi un importante elemento storico del paesaggio, sia per motivi culturali perché utilizzati in epoca Romana come linee di spostamento (strada Popillia ora S.S. 309 Romea), sia per motivi naturalistici (Verza, 2008) 2.1.5 Flora e fauna L'attuale flora del Polesine è il risultato delle evoluzioni climatiche che hanno interessato la Pianura Padana durante l'ultimo periodo glaciale (120 – 70.000 anni fa) e il successivo periodo postglaciale e dall’azione esercitata dall'uomo sull'ambiente. Durante le glaciazioni, la calotta artica raggiungeva i margini della Pianura Padana causando la perdita di molte entità legate ai climi caldi precedenti, e la discesa di specie settentrionali. Durante le fasi interglaciali il clima si riscaldava determinando il ritiro delle specie artiche e la risalita degli elementi termofili. Nel corso dell'ultima glaciazione (circa 10.000 a.C.) la pianura Padana era ricoperta da una tundra a pino silvestre, betulla e salice. Il progressivo addolcimento del clima (fra 7.000 e 5.500 a.C.) ha determinato la sostituzione di boschi di pino silvestre con boschi di quercia e nocciolo. Un ulteriore riscaldamento (2.500 – 800 a.C.) portava verso nord la flora mediterranea: il Leccio (Quercus ilex) faceva la sua comparsa lungo la costa Adriatica e sui Colli Euganei e con esso si diffondevano altri elementi termofili quali la Fillirea (Phyllirea angustifolia), la Robbia (Rubia peregrina) e il Pungitopo (Ruscus aculeatus). Il clima oltre che più caldo era anche più arido e questo favoriva verso ovest la migrazione di specie orientali e steppiche che andavano ad insediarsi soprattutto sui greti fluviali e sui litorali, come ad esempio l'Apocino veneto (Trachomitum venetum). Un successivo raffreddamento del clima, destinato a durare fino ai giorni nostri, confinava la vegetazione mediterranea in stazione relitte quali il litorali del Delta del Po, grazie ad un microclima leggermente più caldo dovuto alla presenza mitigatrice del mare, alla maggiore intensità della radiazione solare riflessa dall'acqua e trattenuta dalla sabbia. Con l'insediamento umano le foreste venivano abbattute, i prati aridi e incolti distrutti, gli acquitrini prosciugati e le terre coltivate, introducendo però anche specie alloctone (Benetti, 1998). Il Delta del Po oggi è caratterizzato da una straordinaria varietà di ambienti naturali e da 9 una importante biodiversità. Nella battigia del litorale e nelle dune retrostanti si possono ammirare associazioni1 di vegetazione psammofila, associazioni che vivono in suoli molto sabbiosi come il Cakileto (Salsolo-Cakiletum aegyptiacae subbas. xanthietosum), l'Agropireto (Sporobolo arenariiAgropyretum juncei), l'Ammofileto (Echinophoro spinosae-Ammophiletum arenarie). Nelle lagune, nelle sacche e nelle valli ovvero in tutte le zone in cui vi è la presenza di acqua salmastra vivono associazioni di vegetazione alofila che tollerano la salinità del substrato come i Salicornieti (Salicornietum venetae) che nei periodi autunnali si colorano di giallo, rosso e arancione creando paesaggi di straordinario effetto o gli Zostereti (Zosteretum noltii) i quali vivono perennemente sommersi dall’acqua. Negli ambiti fluviali, lungo i rami del Po e all'interno delle golene si hanno associazioni di vegetazione igrofila. Le golene sono zone di espansione laterale del fiume, ricevono le acque con le piene del fiume o con l'alzarsi della marea e permettono all'acqua in eccesso di non esondare nelle campagne circostanti. Esempi di vegetazione strettamente legata alla presenza dell'acqua dolce sono la Cannuccia di palude (Phragmites australis) o, seguendo l'interramento delle sponde, i boschi ripariali con Pioppi bianco e nero (Populus alba, Populus nigra) e Salice bianco (Salix alba) (Piva e Scortegagna, 2005). Per gli appassionati di birdwatching il Delta del Po rappresenta un vero paradiso naturale visto gli oltre 300 specie di uccelli, nidificanti, svernanti, e soprattutto in transito migratorio: la zona è, infatti, sul 45° parallelo, cioè esattamente a metà tra polo ed equatore, in posizione centrale rispetto al Mediterraneo, sulla costa, e sulla rotta migratoria di molte popolazioni ornitiche dell'Europa nord-orientale. Tutto questo fa del Delta un crocevia per i migratori. La comunità ornitica appare complessa: ogni mese si susseguono specie differenti, ed ogni anno riserva gradite sorprese. A farla da padroni sono ovviamente gli uccelli acquatici, in particolare ardeidi, tra questi i caratteristici Airone rosso (Ardea purpurea), Airone cenerino (Ardea cinerea) e Airone bianco maggiore (Casmerodius albus), ed anatidi come per esempio la Volpoca (Tadorna tadorna) e il Germano reale (Anas platyrhynchos), con punte di oltre 70.000 individui, sparpagliati in 1 Associazione: è intesa come l’insieme di individui che crescono in un luogo determinato in equilibrio fra loro nella concorrenza per lo spazio, le sostanze nutritive, l’acqua e la luce,viene identificata in base alle specie che la compongono e viene denominata con i nomi di una o due specie caratteristiche o particolarmente abbondanti, facendo seguire il suffisso – etum. 10 valli e lagune, ma molto interessante è anche la situazione dei rapaci e dei passeriformi legati alle zone umide (www.ebnitalia.it). Ma non è presente solo l’avifauna infatti esplorando i Delta si possono avvistate mammiferi, per la maggior parte di piccola taglia, come il Riccio (Erinaceus europaeus), la Donnola (Mustela nivalis), la Lepre (Lepus europaesus), la Volpe (Vulpes vulpes) e il Daino (Dama dama), specie quest’ultima non autoctona. Vi sono rettili come la tipica Lucertola campestre (Podarcis sicula) e nelle zone dove la vegetazione è più fitta si può notare il Ramarro (Lacerta viridis) che spicca per i suoi vivissimi colori verde e azzurro; e anfibi come il Rospo comune (Bufo bufo), la Raganella (Hyla arborea), nel 2005 inoltre è stata scoperta una popolazione di Pelobate fosco italiano (Pelobates fuscus insubricus) tra gli anfibi italiani a maggior rischio di estinzione e tutelato da numerose leggi internazionali. Oggetto di attenzione e interesse sono anche le tartarughe, in particolare la Tartaruga di palude (Emys orbicularis) e la Tartaruga comune (Testudo hermanni) (Servizio Forestale Regionale per le province di Padova e Rovigo, 2003). Chi decide di esplorare questo territorio non può che rimanere meravigliato dalla grande ricchezza di flora e fauna, dai colori e dai profumi che la natura offre, dal silenzio che si interrompe con il cinguettare degli uccelli. Per tutti noi che ormai viviamo in una società caotica, in cui si è sempre di fretta, luoghi come il Delta diventano indispensabili per ritrovare pace e serenità, per rigenerarci e affrontare con spirito diverso le nuove sfide della vita. 2.2 OFFERTE TURISTICHE DEL PARCO REGIONALE VENETO DEL DELTA DEL PO I musei dei nove comuni del Parco fanno parte del Sistema Museale Provinciale del Polesine, avviato dall'Assessorato alla Cultura della provincia di Rovigo, in collaborazione con gli Enti Locali, la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto e privati titolari di musei, allo scopo di diffondere e valorizzare la conoscenza del ricchissimo patrimonio culturale polesano. I musei, grandi e piccoli, attivi nel territorio, aderiscono e collaborano alla promozione culturale, alla realizzazione di nuove iniziative e di nuovi progetti confrontandosi e lavorando in modo sinergico (www.smppolesine.it). Il Parco, nonostante la sua giovane età, ha già una importante rete museale, grazie alla 11 quale il turista può comprendere l'evoluzione e la formazione di questa giovane area deltizia e scoprire le tracce degli antichi insediamenti Greci, Etruschi, Romani, Medioevali, fino all'età moderna e contemporanea. In tabella 1 è illustrato l’elenco delle realtà museali del Parco. Museo Archeologico Nazionale Septem Maria Museum Loreo Antiquarium Ariano Polesine Centro Turistico Culturale San Basilio Porto Viro Museo delle Api loc. Ca' Cappellino Museo della Corte loc. Ca' Cappello Taglio di Po Museo Regionale della Bonifica di Ca' Vendramin Porto Tolle Centro di Documentazione della Civiltà Contadina Museo Laboratorio L'Ocarina Adria Tabella 1. Elenco dei musei del Parco al 2010. Il Delta del Po è il territorio più giovane d'Italia, formatosi soli 400 anni fa ma si caratterizza per un’unicità per la bellezza degli scorci e l'incanto di una natura, per molti aspetti apparentemente incontaminata, ma dalle caratteristiche antropiche peculiari. La sua complessità, i suoi fragili equilibri, il susseguirsi di unicità che lo compongono, rappresentano un mondo tutto da scoprire per chi, spesso distratto dal vivere quotidiano, fatica a cogliere l'originalità dell'ambiente che lo circonda. Per comprendere appieno il Delta lo si deve vivere e il modo più emozionale è percorrerlo per le vie d'acqua. Molteplici sono le possibilità: si può navigare lungo il ramo principale, il Po di Venezia, o nelle sue diramazioni, percorrendo il Po di Goro, di Gnocca, di Tolle, di Maistra e di Levante. In modo più intimo ci si può addentrare, con piccole imbarcazioni, le famose “batane” a fondo piatto o con canoe, nei paradeli, i tortuosi canaletti all'interno dei canneti che si trovano alle foci. La bici è un altro possibile mezzo per andare praticamente ovunque, in modo divertente e totalmente libero. Esistono due percorsi anche ciclabili: la via delle valli nord e la via delle valli sud che tracciano un suggestivo percorso tra specchi d'acqua, lagune e mare, dove si possono scorgere i casoni di valle, basi d'appoggio per la pesca e alloggi famigliari, dal tipico colore rosso e con il caratteristico grande camino dal comignolo a dado, che 12 colorano il paesaggio. Molteplici sono i modi e i metodi con cui scoprire il Delta: suggestiva è un'escursione a cavallo o una passeggiata al tramonto lungo gli argini della Sacca di Scardovari, osservando gabbiani e cormorani che si riposano sulle “peociare”, le strutture per l'allevamento di cozze. Il Parco non offre solo musei, luoghi cioè appositamente adibiti alla cultura, ma anche siti naturalistici protetti, importanti per conoscere aspetti paesaggistici e habitat tra i più rari e riconosciuti a livello internazionale quali: Giardino Botanico Litoraneo di Rosolina Oasi di Ca' Mello Golena di Ca' Pisani Golena di Volta Grimana Golena di Panarella Dune fossili di Donada Dopo una visita nel delta tante saranno le immagini di grande bellezza che rimarranno impresse nella mente e nel cuore di chi ha effettuato un’escursione in questa straordinaria terra. 2.3 GLI ECOMUSEI L’ecomuseo è un museo molto particolare sia per l’argomento che tratta sia per il modo col quale se ne occupa. La sua nascita non deriva da esperienze isolate ma è il frutto di una rivoluzione sociale e museologica, da riflessioni di lungo periodo sui concetti di patrimonio culturale e di museo. Nella seconda metà del 1800 per patrimonio culturale si intendevano le grandi opere d’arte e le collezioni naturalistiche, oggetti preziosi curiosi e insoliti, abiti appartenuti a persone illustri, o monumenti ed edifici legati ad episodi storici importanti. Verso la fine del ‘800 si è iniziato a dare importanza a quegli aspetti che fino ad allora erano considerati “minori”, aspetti che facevano parte della vita delle persone comuni come per esempio i vestiti che venivano usati fino alla consumazione, oggetti di uso quotidiano che non venivano conservati poiché ritenuti senza alcun valore. Oggi definiamo “patrimonio” l’insieme delle vite e degli stili di vita delle comunità, siano essi elementi materiali come architetture tradizionali, tradizioni gastronomiche, abbigliamenti 13 tipici sia immateriali come lingue, dialetti, storie e mestieri perduti. Quindi non solo l’idea di patrimonio culturale è cambiata ma anche le esigenze museali. Il museo si differenzia da altre iniziative culturali per il fatto che possiede una collezione di oggetti tangibili, perché garantisce la cura delle raccolte, la ricerca sui reperti e sui loro significati, con possibili interpretazioni e la comunicazione con il pubblico per diffondere le conoscenze. Dalla fine del 1700 fino alla metà del 1900 i musei contenevano opere dell’uomo e della natura, estrapolate dal loro contesto originario, perché si pensava che avessero valore in sé e che i musei fossero una sorta di enciclopedia della cultura. Negli ultimi 50 anni i musei hanno intensificato il legame con il territorio, per non essere più solo una vetrina di opere d’arte ma per giocare un ruolo più incisivo nella vita culturale della società di appartenenza e per dare un contributo attivo alla trasformazione del mondo. Un momento di passaggio simbolico verso questa nuova trasformazione è venuto dalla conferenza dell’ICOM (Consiglio internazionale dei musei) a Santiago del Cile nel 1972: i delegati dei musei di tutto il mondo in quell’occasione hanno stabilito i parametri del nuovo museo. La riforma si basava su pochi e semplici principi: il museo è a servizio dell’uomo e non viceversa, tempo e spazio non devono essere imprigionati all’interno di muri e porte, l’arte non è la sola espressione dell’umanità ma esiste anche ciò che oggi si definisce “cultura materiale”, il professionista museale è un essere sociale e un attore del cambiamento al servizio della società mentre il visitatore non è un consumatore passivo ma un essere creativo che può e deve partecipare all’attività di ricerca del museo. L’intenzione era quella di applicare questi principi a tutti i musei, ma in realtà solo gli ecomusei hanno raccolto queste idee (Maggi e Murtas, 2004). Il termine ecomuseo viene introdotto in Francia nella primavera del 1971, in un ristorante parigino dove si sono trovati per un pranzo di lavoro Georges Henri Rivière, museologo francese, Serge Antoine, consigliere per il ministero dell’ambiente e Hugues de Varine, allora direttore dell’ICOM, per discutere sulla conferenza generale ICOM che si sarebbe tenuta quell’anno tra Parigi, Digione e Grenoble. La discussione era incentrata sulla giornata di Digione, in cui sarebbero stati ricevuti dal ministro dell’ambiente e sul fatto che sarebbe stato importante legare il concetto di museo a quello di ambiente e territorio. Serge Antoine era, reticente a legare un concetto che sapeva di passato come quello di museo con quelli di nuovo interesse come lo sviluppo e la difesa ambientale: così è stata abbandonata la parola museo e, combinando le due parole museo ed ecologia, de Varine ha 14 creato il termine ecomuseo, termine che è stato pronunciato e ufficializzato dal ministro dell’ambiente pochi mesi dopo, davanti a 500 museologi di tutto il mondo (Maggi e Falletti, 2000). La prima esperienza è stata messa a regime tra il 1971 e il 1974, nell’ambito della comunità metropolitana di Creusot Montceau - Les Mines in Borgogna, una regione con una forte produzione di ferro e acciaio che, dopo una profonda crisi economica, ha subito uno stato di declino e disoccupazione. Questa esperienza si è concretizzata, grazie a Jo Lyonnete, Marcel Evrard e lo stesso Hugues de Varine, con la creazione di un museo dell’uomo e dell’industria nel quale la comunità nel suo insieme costituiva un museo vivente, all’interno del quale si ritrovava il pubblico. Elaborare l’idea di un ecomuseo in quella regione è stato un modo per aumentare la consapevolezza storica della popolazione locale e per rivitalizzare il contesto socio-economico del luogo (www.osservatorioecomusei.net). Dopo le prime esperienze pionieristiche negli ultimi venti anni del Novecento e all’inizio del nuovo millennio gli ecomusei si sono rapidamente diffusi, assumendo le forme più disparate, perdendo e ritrovando i valori del filone originario. Il concetto di ecomuseo è quindi relativamente recente e in continua evoluzione e dunque soggetto ad interpretazioni non sempre corrette. Probabilmente le intenzioni degli stessi fondatori non erano quelle di creare un modello unico ed esportabile in tutto il mondo ma, essendo musei del territorio, ognuno può rispondere alle caratteristiche del proprio patrimonio-territorio e ogni comunità potrà usare il proprio linguaggio per narrare la propria storia e le proprie tradizioni (Rivière, 1985). Una delle definizioni più efficaci di ecomuseo è quindi quella originariamente proposta da Rivière e De Varine, che fa riferimento alle differenze tra musei tradizionali ed ecomusei, di seguito riassunta. MUSEO ECOMUSEO Collezione Patrimonio Immobile Territorio Pubblico Popolazione Un’altra definizione chiara di ecomuseo è data dall’IRES (Istituto ricerche economicosociali del Piemonte) che lo indica come una iniziativa museale dietro cui sta un patto con 15 il quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio, dove per: Patto si intende un accordo non scritto e generalmente condiviso e non insieme di norme che obbligano o proibiscono qualcosa Comunità si intendono tutti i soggetti protagonisti non sono solo le istituzioni poiché il loro ruolo propulsivo, importantissimo, deve essere accompagnato da un coinvolgimento più largo dei cittadini e della società locale; Prendersi cura significa conservare ma anche saper utilizzare, per l’oggi e per il futuro, il proprio patrimonio culturale, in modo da aumentarne il valore anziché consumarlo; Territorio viene inteso non solo in senso fisico ma anche come storia della popolazione che ci vive e dei segni materiali e immateriali lasciati da coloro che lo hanno abitato in passato. L’elemento caratterizzante degli ecomusei è quindi il legame con il territorio, tanto da poterli definire “musei del territorio o del patrimonio territoriale”. Il territorio che viene musealizzato non è semplicemente il paesaggio storico o naturale ma è l’insieme delle attività sociali ed economiche che hanno caratterizzato una comunità, delle tradizioni e dei valori della collettività, è il teatro delle testimonianze archeologiche e storico-artistiche che lo differenziano da tutti gli altri. L’aspetto più importante è il ruolo attivo dei locali che, coinvolti nel progetto assieme alle istituzioni pubbliche, concepiscono, costruiscono e sviluppano le idee, mentre lo scopo più importante da raggiungere è il mantenimento del legame di una comunità al proprio territorio, al proprio ambiente, alla conoscenza e alla scoperta della propria storia con conseguente cura dei luoghi (Maggi e Murtas, 2004). In Italia le leggi che si occupano degli ecomusei sono esclusivamente regionali e attualmente solo le regioni Piemonte (la più attiva in campo ecomuseale), Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Lombardia e la provincia autonoma di Trento si sono date leggi che si esprimono direttamente ed esplicitamente sugli ecomusei. In molte regioni dove ancora non si è legiferato si sta muovendo comunque qualcosa in questa direzione, come per esempio la regione Veneto che sta lavorando alla proposta di legge per l’istituzione dell’Ecomuseo della laguna di Venezia. L’assenza di leggi non significa che non ci siano strumenti legislativi per operare in questo senso, il percorso risulta però più complesso e articolato e fondamentali sono, anche in questi casi, i rapporti tra istituzioni e gruppi locali (www.corsotoscanaecomusei.txt). 16 Nel corso degli ultimi anni le esperienze museologiche di questo tipo si sono moltiplicate in molti paesi sia europei, soprattutto Svezia (Hahn et al., 2006) Francia, Spagna, Portogallo (Boatti, 2004), ed est-europa, sia extraeuropei, soprattutto Canada, Messico, Brasile, Giappone e, più recentemente, Cina (Dongai, 2008), denotando una crescente partecipazione di comunità ed enti locali alla valorizzazione del territorio e delle culture ad esso legate Tuttavia non si assiste ad una progettualità standardizzata nelle scelte museologiche. L’ecomuseo è quindi un concetto in continua evoluzione ed esistono molte e diverse tipologie di organizzazione; non è quindi in alcun modo possibile trarre conclusioni definitive e identificare un modello formale unico in quanto risulta collegato alle trasformazioni della società. Inoltre i musei contemporanei sono sempre più spesso “musei di idee” più che “di oggetti” e questo rende difficile definire i campi di interesse in modo rigoroso. Nelle pagine seguenti, proprio su questa affermazione, esporrò alcune idee per la creazione e la realizzazione di un ecomuseo legato ad una pianta, ma comprendente tutta una serie di realtà naturali, ambientali, antropiche, storiche e culturali: l’ecomuseo della Canna palustre. Questa tipologia di ecomuseo la legherei ad un esempio da Maggi e Faletti (2000) che propongono tra le varie tipologie organizzative degli ecomusei, l’ombrello ecomuseale che rappresenta “…un ecomuseo sviluppato su un’estensione geografica che incorpora numerose emergenze patrimoniali, legate tra loro da una storia e spesso anche da una attività materiale comune. Occupa un’area che interessa diversi comuni e dispone in genere di più di un sito museale vero e proprio. I profili di interpretazione del patrimonio sono sia diacronici che spaziali. Il collegamento fra le diverse emergenze è realizzato non solo sulla base di itinerari predisposti, ma attraverso un progetto di sviluppo territoriale condiviso da governo e collettività locali. Il coinvolgimento della comunità costituisce quindi un aspetto essenziale a questa tipologia”. 17 3. RISULTATI 3.1 ECOMUSEO DELLA CANNA PALUSTRE L’area del Parco Regionale del Delta del Po comprende nove comuni e questi, assieme ad altri comuni limitrofi, anche non appartenenti al Parco, sono legati da una comunanza di aspetti ambientali, tradizioni storiche e culturali e particolarità naturali, per questo motivo l’ecomuseo della Canna palustre, proposto nelle pagine seguenti, vuole essere un progetto che comprende l’intero territorio del delta, in un senso più ampio e quindi si applica a più comuni, sia del Parco sia di zone adiacenti. La tipologia organizzativa più idonea credo sia quella indicata nell’introduzione, ovvero l’ombrello ecomuseale che prevede la coesistenza di più siti ecomuseali, sia immobili sia ambienti aperti: sono previste quindi una sede e una serie di escursioni, indispensabili per far conoscere le diverse realtà attuali e del passato e così comprendere appieno l’importanza culturale e naturalistica della Canna palustre. Infine viene proposto anche un laboratorio didattico, rivolto a due diverse tipologie di visitatori, adulti e bambini, per sperimentare le conoscenze acquisite. Come sede dell’ecomuseo viene proposto il Rifugio Parco Delta del Po di Gorino Sullam, Ca’ Vendramin - Taglio di Po (Ro), in quanto situato in una posizione strategica, perché vicino ai principali punti d’interesse previsti nel progetto. I visitatori in questa sede potranno venire a conoscenza delle molteplici peculiarità della Canna palustre e potranno trovare filmati esplicativi e racconti in diretta che illustrano le caratteristiche naturalistiche pianta, del suo habitat, dei suoi utilizzi nel passato e potranno comprendere quindi il suo grande valore culturale. Il museo è proiettato anche nel futuro in quanto verranno esposte le grandi potenzialità della pianta ed i suoi utilizzi sia nei settori della fitodepurazione sia della architettura bioecologica. Una volta fornita ai turisti/visitatori un’adeguata conoscenza di base sulla Phragmites australis verrà proposta una serie di escursioni nelle quali verranno approfonditi i temi precedentemente affrontati. Per iniziare si propone un piccolo viaggio all’interno dei più grandi canneti del Parco, presso le foci del Po di Gnocca o del Po di Pila, in cui si potrà osservare l’avifauna, ma non solo: questi ambienti sono infatti frequentati anche da altre particolari specie di animali. Si propongono poi due escursioni legate tra loro: la prima è un incontro con gli anziani di Scardovari, i “canaroi” coloro che un tempo vivevano della raccolta delle canne, previsto presso l’argine del Po di Tolle, vecchio punto d’attracco 18 delle loro “canaroe”. Queste barche, che servivano per il trasporto delle canne, sono ancora oggi molto utilizzate e in quest’occasione verranno ricreate situazioni del passato, con gli antichi attrezzi che servivano per il taglio e la lavorazione della canna e con le antiche divise. La seconda una visita all’Azienda Agricola Depiccoli, a S.Anna di Chioggia (Ve), una delle poche aziende italiane che ancora oggi lavora e costruisce con la Canna palustre. Un’altra escursione proposta è a Scanno Boa: per anni questo scanno è stato la sede di un piccolo villaggio di pescatori, dalle tipiche case del Delta del Po costruite in canna e dove, ancora oggi, è possibile vederne l’ultimo casone ancora integro e gestito dalla Cooperativa Pescatori Delta Padano, che si occupa della sua manutenzione. Grazie alla disponibilità della Cooperativa si potrà, durante l’escursione, visitare questa antica e preziosa testimonianza e toccare con mano, nel vero senso della parola, le pareti ed il tetto. L’ultimo step proposto ai visitatori è un laboratorio didattico presso il Museo delle Api di Ca’ Cappellino in cui, grazie all’esperienza del gestore, verrà proposta la creazione di modellini di casoni, facendo così comprendere appieno il modo, del tutto particolare, con cui in passato venivano costruite le abitazioni e permettendo di scoprire anche i più piccoli segreti. Nelle pagine seguenti vengo illustrati, nel dettaglio i vari punti di questo ecomuseo, dalla sede alle escursioni ed, infine, al laboratorio. 19 3.1.1 SEDE DELL’ECOMUSEO In questa sede vengono spiegate, attraverso filmati, racconti, pannelli ed oggetti da toccare le caratteristiche della canna palustre e tutte le sue peculiarità. Numerosi pannelli illustreranno anche gli animali, che è possibile incontrare nei vari itinerari proposti e che sono illustrati nella sezione 3.1.2.1. daranno 3.1.1.1 Canna palustre – Phragmites australis Nome volgare: Canna di palude Nome scientifico: Phragmites australis (Cav.) Trin. ex Steud. (= Phragmites communis Trin. = Phragmites vulgaris Lam.) Famiglia: Graminaceae (= Poaceae) Fig. 2 Canna palustre La Canna di palude (Fig. 2) è una delle più alte graminacee nostrane, originaria forse dell’Eurasia, ma è diffusa in tutto il mondo. E’ una specie erbacea perenne nelle parti sotterranee e annuale nelle parti aeree. La parte sotterranea è composta da un grosso rizoma orizzontale nodoso da cui si dipartono le radici, data la presenza di numerose cavità questa parte può occupare fino al 60% del volume totale della pianta. La parte aerea presenta fusti rigidi, interamente cavi, che si ergono dai rizomi, e che possono raggiungere anche i 4 metri di altezza. Le foglie, opposte, sono ampie e laminari, lunghe da 15 a 60 cm, larghe 1-6 cm, glabre, verdi o glauche. L’infiorescenza ha una morfologia a pannocchia, lunga fino a 40 cm, di colore bruno o violaceo e fiorisce tra luglio e ottobre. Specie igrofila predilige le acque dolci ma tollera un moderato livello di salinità. Tipica pianta palustre può crescere su suoli temporaneamente o permanentemente sommersi, più facilmente in terreni argillosi dove il livello dell’acqua oscilla tra i -15 + 15 cm. E’ quindi 20 molto abbondante in zone paludose e aree umide, sulle sponde di laghi, stagni, fossati, ambiti fluviali, nei canali artificiali e di bonifica e in terreni incolti bagnati, fino ai 2000 metri di altitudine. Nel Delta del Po le zone più estese di canneti si possono trovare alla foce del Po di Pila, del Po di Gnocca e del Po di Goro. È una specie nettamente dominante per effetto della sua fitta copertura e dello sviluppato intreccio delle sue radici che ostacolano la crescita di altre piante ed è difficile da sradicare in quanto i rizomi possono raggiungere anche i 10 metri di lunghezza (www.istitutoveneto.it). L’associazione del Phragmitetum, quando presente, vede due diversi tipi di popolamenti: di acqua salmastra e di acqua dolce. Il popolamento di acqua salmastra comprende principalmente e, a seconda del grado di salinità, il Limonio (Limonium virgatum), l’Astro marino (Aster tripolium) e il Giunco (Juncus acutus, J. maritimum, J. gerardii), mentre nel secondo popolamento si segnalano il Vilucchione (Calystegia sepium), il Campanellino (Leucojum aestivum), la Dulcamara (Solanum dulcamara), cespugli di Salici (Salix alba) e Indaco bastardo (Amorpha fruticosa) (Rallo e Pandolfi, 1988). Nelle foci dei nostri fiumi è molto importante il ruolo di canneti che da sempre compiono il primo passo per la creazione di nuove terre emerse, poichè contribuiscono a fermare i sedimenti trasportati dai fiumi, rallentando la velocità dell’acqua e favorendo il deposito dei detriti alla base dei loro fusti, mentre, durante le mareggiate ,smorzano la violenza delle onde. In ambienti fortemente antropizzati, come nello specifico il Delta del Po, vengono effettuate periodiche opere idrauliche come l’escavo dei fondali e delle foci stesse, con le quali si mantiene inalterata l’attuale morfologia e viene impedito il naturale processo di sedimentazione. 3.1.1.2 Manufatti in Canna palustre ieri ed oggi Al ga’l fogo in tle pavière è un detto che si usa ancora in Polesine per indicare chi ha molta fretta, ma la frase ha perso il senso drammatico di un tempo, quando la sussistenza della povera gente era legata ai prodotti palustri e, spesso, i proprietari davano fuoco alle valli e ci si doveva affrettare nella raccolta. Non solo la Phragmites australis ma anche altre piante tipiche delle nostre zone paludose venivano raccolte, come la Tifa (Typha latifoglia e T. angustifolia), in dialetto chiamata “pavièra”, o i Giunchi (Juncus acutus, J. maritimum, J. gerardii e J. maritimus), in dialetto “car’sìna”, ed impiegate per la 21 produzione di manufatti, utili alla vita quotidiana. Tutte queste erbe erano ampiamente utilizzate e lavorate: caratteristiche sono le borse rustiche e le sedute delle sedie fatte con l’intreccio dei fusti della Tifa o del Giunco ed è interessante sapere anche come, prima della scoperta del nylon, si utilizzassero corde fatte con i Giunchi. Tra tutte queste piante però la più utilizzata era la Phragmites australis che serviva per la produzione di stuoie, le famose “grisole” ovvero pannelli di Canne palustri legate assieme con corde di giunchi, che venivano utilizzate in agricoltura (Fig. 3) e in floricoltura, per riparare, nei campi, i fiori e gli ortaggi dal sole estivo e da forti venti e che attualmente sono sostituiti da teli di plastica, inquinanti. Fig. 3 Coltivazioni protette con stuoie in canna Le “grisole” venivano anche impiegate nelle valli da pesca, il lavoriero, uno strumento molto antico, ma ancora efficiente e fondamentale per la pesca. Si tratta di un manufatto formato da una serie di bacini comunicanti a forma di punta di freccia, in cui i pesci vengono fatti convergere in una serie di passaggi obbligatori e poi catturati. Anche questo un tempo era costruito con pannelli in Canna palustre mentre oggi è in cemento con griglie metalliche. Presso il famoso squero di Loreo, oggi Cantieri Navali Stocco & C. srl con sede lungo il Po di Goro, i fasci di canna erano utilizzati come combustibile per la costruzione degli scafi (Fig. 4). La canna bruciando produceva un fuoco che veniva descritto come un fuoco dolce, con il quale si scaldavano e si curvavano i legnami, utilizzati per lo scheletro delle imbarcazioni. Con il pennacchio, l’infiorescenza delle piante che venivano raccolte tra agosto e settembre, si realizzavano scope e scopini indispensabili per la vita domestica. 22 Sembra inoltre impossibile pensare che anche le canne da pesca, in un certo periodo, non nella preistoria, ma 40-50 anni fa, fossero create con i fusti delle Canne palustri che erano di varie lunghezze, arrivando fino ad 8 metri. Per la loro produzione venivano selezionate più canne, con i fusti migliori e più dritti e si costruiva la tipica canna a innesti, inserendo cioè una canna dopo l’altra e rafforzando le congiunture con degli inserti metallici. Queste però sono state abbandonate molto precocemente, perché sostituite dal bambou, il quale presenta minor leggerezza e flessibilità ma maggior robustezza e, quindi, maggior durata nel tempo (www.lamiapesca.com). Non solo attrezzi di lavoro ma anche i giochi erano in canna palustre: poveri ma tali comunque da far divertire e sognare i bambini di tempi passati, ma non troppo lontani da noi: i “carioli” (Fig. 5) si possono considerare come i predecessori delle macchine radiocomandate in circolazione oggi ed erano costruiti con un volante era un filo di ferro veniva fatto scorrere all’interno di un segmento del fusto della canna per poi congiungersi con le ruote, anch’esse in filo di ferro. Fig. 5 Il cariolo Fig. 4 Squero di Loreo Manufatti ancora attuali sono le “coegie” (Fig. 6), ripari e nascondigli per i cacciatori. Le “coegie” sono botti in cemento che vengono posizionate all’interno delle lagune, poggiate al fondale e ricoperte, per mimetizzarle, con la Canna palustre. Si possono avere due diverse opzioni: “coegie” aperte su un lato così che i cacciatori si possono posizionare all’interno stando su di una piccola barca, oppure “coegie” totalmente chiuse, che possono contenere al massimo due persone ed in questo caso i cacciatori vengono accompagnati da terzi e poi ripresi al termine dell’attività. La Phragmites australis è una delle più caratteristiche graminacee presenti nelle zone del Delta del Po ma è anche presente in tutta Italia ed in altre parti del mondo e all’interno 23 dell’ecomuseo può essere interessante una illustrazione dei suoi impieghi in altre aree. L’esempio più eclatante lo si trova in Sardegna, nella penisola del Sinis, precisamente negli stagni oristanesi di Cabras e Santa Giusta. Per la pesca la caratteristica barca impiegata erano i “su fassoni” (Fig. 7), piccole imbarcazioni adatte alla navigazione in acque basse e ricche di piante acquatiche. I “su fassoni” venivano realizzati totalmente con fasci di Canna palustre, legati con corde di Giunco e internamente fissati con chiodi, sempre di canna, per irrigidire la struttura. La forma era molto particolare in quanto la prua era molto pronunciata e la poppa era mozzata. Pochissimi ormai sono gli artigiani che custodiscono la manualità per loro costruzione e per non disperdere questo patrimonio culturale ogni anno, la prima domenica di agosto, nello stagno di Santa Giusta, viene organizzata la tradizionale regata dei “fassonis” (www.castelsardo-info.it). Fig. 6 Coegia Fig. 7 Su fassoni 3.1.1.3 Fitodepurazione Per fitodepurazione si intende un insieme di processi naturali di trattamento di acque inquinate basati sullo sfruttamento del sistema suolo – vegetazione quale filtro naturale per la depurazione dell’acqua. I sistemi di fitodepurazione sono numerosi e si prestano per la depurazione di acque di scarico di diversa provenienza, civile, agricola e industriale, se confrontati con i metodi tradizionali richiedono un superiore impegno di superficie ma un minore fabbisogno energetico e tecnologico. La fitodepurazione può quindi essere 24 considerata a pieno titolo una “ecotecnologia”. Già i Romani usavano scaricare le acque di fogna nelle paludi da dove uscivano certamente migliorate. La percezione scientifica del ruolo dei sistemi vegetali nel depurare le acque è avvenuta solo nella seconda metà del secolo scorso, con l’inizio di programmi di monitoraggio. In Germania nel 1952 al Max Planck Institute di Plone si è realizzato il primo caso di studio del trattamento di acque reflue di un caseificio con piante di giunco. Da allora le ricerche si sono moltiplicate ed oggi la fitodepurazione vanta numerose e crescenti applicazioni all’estero, sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo. Negli anni ’70 anche in Italia si era manifestato un certo interesse per la depurazione naturale ma queste esperienze non hanno avuto ricadute applicative di rilievo e il dibattito su questo tema è stato accantonato anche per la mancanza di un adeguato sostegno alla sperimentazione e lo scarso stimolo per la ricerca di soluzioni alternative ai tradizionali sistemi di depurazione delle acque. Una ripresa in questa direzione si è avuta agli inizi degli anni ’90 grazie ad una crescente spinta della domanda di natura da parte dell’opinione pubblica. Anche le scelte, a livello normativo, si sono, negli ultimi anni, orientate alla promozione degli interventi naturali per il trattamento delle acque reflue, primo fra tutti il Dlgs 152 del 1999 secondo cui “per tutti gli insediamenti con popolazione compresa tra 50 e 2000 abitanti equivalenti si ritiene auspicabile il ricorso a tecnologie di depurazioni naturali quali il lagunaggio o la fitodepurazione” e le successive modifiche e integrazioni (Borin, 2003). La tendenza oggi è quella di preservare le aree naturali esistenti e di progettare e costruire nuove aree umide ed impianti artificiali per il trattamento depurativo, in quanto offrono un maggior grado di controllo degli inquinanti, consentendo una precisa valutazione della loro efficacia, con la possibilità di scegliere il sito, le dimensioni, le geometrie, la vegetazione da utilizzare, il controllo dei flussi idraulici e i tempi di ritenzione in un’ottica di sostenibilità ambientale. Tra gli impianti di fitodepurazione si distinguono sistemi a “flusso sottosuperficiale” dove il refluo viene mantenuto al di sotto del substrato di riempimento delle vasche, i quali possono a loro volta essere a flusso orizzontale o a flusso verticale (Fig. 8), da sistemi a “flusso superficiale” in cui il bacino è perennemente o periodicamente sommerso dall’acqua da depurare e da sistemi “galleggianti” dove le piante vengono sorrette da idonee strutture galleggianti e le cui radici sono fluttuanti nel flusso idrico da depurare ( Tocchetto e Lajo, 2007). La maggioranza delle sostanze inquinanti diffuse nella biosfera sono continuamente prodotte e consumate da processi chimici, fisici e biologici della natura stessa e si tratta di 25 sostanze assolutamente naturali che nella biosfera si trovano in tracce. L’uomo le scova e le usa restituendole all’ambiente in concentrazioni molto superiori a quelle che si riscontrano abitualmente, determinando quindi uno squilibrio nei cicli naturali di alcuni elementi tra cui l’azoto, il fosforo, il carbonio ecc. e la loro tossicità e pericolosità è dovuta alla quantità e non alla sostanza in sé (Mazzoni, 2005). L’azione di depurazione di alcuni di questi elementi è svolta principalmente dai microrganismi che vivono in simbiosi con la pianta, sia in condizione aerobiche che anaerobiche, mettendo in atto una serie di reazioni chimiche e fisiche di degradazione degli inquinanti stessi. Una parte è invece svolta dalle piante che assorbono anche elementi non indispensabili per la loro vita, che vengono così sottratti dalle acque. La Phragmites australis è una delle specie più produttive, diffuse e plastiche fra quelle utilizzabili nella fitodepurazione e per questo è la pianta maggiormente utilizzata negli impianti europei e costituisce un vero e proprio microlaboratorio chimico e biologico. Le canne hanno la capacità di catturare l’ossigeno dell’atmosfera e di trasferirlo, attraverso la loro struttura, fino alle radici. In un’area umida attorno all’apparato radicale si crea una microzona aerobica, ossigenata, circondata da sedimento anaerobico. La contiguità di questi due microambienti è la condizione necessaria per la rimozione dell’azoto dalla colonna dell’acqua. L’azoto organico viene degradato, per via batterica, ad azoto ammoniacale nel sedimento. Altri batteri presenti nella microzona aerobica, attorno alle radici delle canne di palude, trasformano l’azoto ammoniacale in nitrato. Quest’ultimo, a contatto con l’ambiente anaerobico del sedimento, viene trasformato in azoto gassoso ed il processo, che prende il nome di denitrificazione, permette il trasferimento dell’azoto dalla colonna d’acqua all’atmosfera in una forma chimica non più inquinante. Altri inquinanti, come il fosforo e i metalli pesanti, all’interno dell’area umida, sedimentano grazie alle ridotte velocità dell’acqua e alla tortuosità del percorso che le particelle solide compiono attraverso il canneto. Le sostanze che raggiungono il fondo entrano così a far parte dei cicli biogeochimici come componenti della biomassa dei vari organismi che popolano un’area umida. Inoltre, nel tempo, il suolo di un’area umida si arricchisce di una frazione organica a lenta degradazione che contribuisce ad adsorbire e, quindi, a bloccare all’interno dell’area stessa, le sostanze che si depositano (www.ConsorziodibonificaAdigeBacchiglione.it.). Il Po raccoglie tutto ciò che le città a le fabbriche padane scartano, comprese grandi quantità di sostanze azotate di scarto agricolo, caratteristica di questo fiume, per fortuna, è 26 la sua elevata resilienza, ovvero la capacità di ripulirsi in fretta, questo grazie alla presenza, sia nelle golene sia nelle foci, di estesi canneti che svolgono un’azione di fitodepurazione (Fig. 9). Fig. 8 Impianto di fitodepurazione sottosuperficiale a flusso verticale (da www.artecambiente.it) Fig. 9 Canneti della bocca del Po di Tolle 3.1.1.4 Architettura bioecologica Si definisce architettura bioecologica o bioarchitettura l'insieme delle discipline che attuano e presuppongono un atteggiamento ecologicamente corretto nei confronti dell'ecosistema. In una visione caratterizzata dalla più ampia interdisciplinarietà e da un 27 utilizzo razionale e ottimale delle risorse, la bioarchitettura tende a conciliare ed integrare le attività ed i comportamenti umani con le preesistenze ambientali ed i fenomeni naturali, si confronta con la specifica realtà, scoprendo con rinnovata sensibilità la continuità con la storia, le tradizioni ed il paesaggio, attraverso le nuove consapevolezze della biocompatibilità e della ecosostenibilità. Bio → riferito ad una architettura fatta per la vita, in grado di creare “edifici” e quindi “città” intese come organismi viventi. Ecologico → rappresenta la volontà, per l’architettura, di creare luoghi capaci di rapportarsi in modo equilibrato con l’ambiente in cui si inseriscono e che, inevitabilmente, trasformano. Ciò al fine di realizzare un miglioramento della qualità della vita attuale e futura secondo il principio dello sviluppo sostenibile, uno sviluppo cioè che soddisfa i bisogni delle generazioni odierne senza compromettere la possibilità alle generazioni future di soddisfare i loro. La novità programmatica della bioarchitettura non risiede nella specificità delle singole discipline, quanto nelle connessioni capaci di determinare una visione olistica del territorio e della qualità architettonica. Ugo Sasso, bioarchitetto italiano, termine che lui stesso ha contribuito a definire, è considerato uno dei padri fondatori della bioarchitettura. Nel vasto panorama internazionale ha portato un concetto originale tutto italiano, quello che il progetto ecologico non deve esaurirsi nell’edificio ecosostenibile, ma deve avere al centro l’uomo, la qualità sociale del vivere della persona che vi andrà ad abitare, l’appartenenza al luogo geografico e sociale e la salvaguardia del suo mondo di relazioni. Sasso si occupa, con un piccolo gruppo di architetti, di come costruire rispettando l’uomo e l’ambiente, quando in Italia la maggir parte del grande pubblico non conosce ancora la parola “ecologia” e, nel 1991, fonda l’Istituto Nazionale di Bioarchitettura a Bolzano. Oggi l'Istituto è finalizzato alla tutela e alla valorizzazione dell'ambiente naturale ed antropico, in una strategia finalizzata alla qualità, che contempla la salvaguardia della salute e una oculata gestione delle risorse (www.bioarchitettura.it). Si possono quindi individuare tre obiettivi specifici che la bioarchitettura pone come obiettivo generale: 1. un rapporto sostenibile con l’ambiente; 2. un’attività progettuale ed edilizia improntata al risparmio energetico; 28 3. un uso salubre di tecnologie e materiali naturali. Secondo dati dell’Unione Europea, riportati nella direttiva 91 del 2002 sulla certificazione energetica, gli edifici residenziali e terziari assorbono il 40,4% della domanda finale di energia, i trasporti il 31,3% e l’industria il 28,3%. Se si considera che parte significativa dell’industria e dei trasposti lavorano per l’edilizia, è chiaro che il settore edilizio è, in assoluto, il maggiore utilizzatore di energia e di conseguenza il principale responsabile della produzione di gas serra. Uno tra i più importanti obiettivi della bioarchitettura è attualmente quello di migliorare l’isolamento delle costruzioni, per un risparmio energetico. Secondo alcuni la soluzione strategica per risparmiare energia è isolare gli edifici con gli espansi derivati dal petrolio, dimenticando però che questi materiali necessitano di un gran dispendio di energia per essere prodotti, per l’estrazione, il trasporto, la raffinazione, la trasformazione e poi, alla fine del ciclo di vita, per lo smaltimento o il riciclo. Un modo più intelligente per isolare gli edifici consiste nell’usare isolanti puliti e rinnovabili. Questi materiali possono essere di origine minerale come ad esempio l’argilla espansa e la pomice, oppure provenire dal mondo animale come la lana di pecora o ancora dal mondo vegetale come le fibre di canapa, lino, legno etc. che sono prodotti dall’agricoltura, sono materiali disponibili localmente e sono, per una certa quota, rinnovabili (Giordano, 2008). La canna palustre rappresenta uno tra i possibili isolanti di origine vegetale: è un materiale con un buon comportamento termico e acustico, è traspirante, non assorbe ne acqua ne umidità, garantendo un isolamento costante nel tempo, non contiene sostanze tossiche e, in nessuna delle fasi di raccolta, lavorazione e utilizzo è dannosa per la salute e per l’ambiente. Non è molto conosciuta dall’opinione pubblica ma in bioarchitettura si sta valorizzando sempre più. Si tratta di canne provenienti principalmente da laghi e zone paludose dell’Austria e dell’Ungheria, che vengono compresse e legate meccanicamente con filo di ferro zincato prodotto con metallo in parte recuperato e i pannelli che ne derivano hanno un’altezza di 2 metri, ovvero pari all’intera altezza della canna. Questi pannelli possono essere utilizzarti esclusivamente da portaintonaco ed in questo caso viene utilizzato solo un pannello singolo, con canne disposte in modo orizzontale, su cui viene applicato l’intonaco, oppure da isolanti ed in questo caso vengono disposti due o più strati sfalsati di pannelli, in maniera da evitare punti di debolezza, aggiungendo poi un pannello finale a canne orizzontali che funge da portaintonaco (Fig. 10). I pannelli trovano applicazione in cappotti interni ed esterni, in intercapedini di pareti, solai e coperture di 29 strutture in legno, in soffitti, controsoffitti ed in pareti divisorie interne. I pannelli sono anche riutilizzabili se vengono smontati interi e sono comunque biodegradabili e compostabili, mentre quelli intonacati possono essere portati alla discarica degli inerti (www.regione.piemonte.it). Fig. 10 Strato di isolamento in cannicciato palustre 3.1.1.5 Un po’ di mitologia…Siringa e il dio Pan… Pan è una divinità pastorale greca, dio dei boschi e dei pascoli, del bestiame e degli animali selvatici, dei pastori e dei cacciatori ed il suo culto, partito dall’Arcadia, si è esteso in tutta la Grecia e poi nel mondo romano dove è stato identificato con il nome locale di dio Fauno. La figura originaria del dio arcade si è nel tempo complicata in numerose leggende ma la tradizione lo vuole figlio di Ermes e della Ninfa Driope che, spaventata dal suo aspetto mostruoso, lo ha abbandonato appena nato ed Ermes lo ha raccolto, avvolto in una pelle di lepre e portato nell’Olimpo dove lo ha mostrato a “tutti” gli dei, da cui deriva il nome Pan, che nella lingua greca significa “tutto”. La sua rappresentazione tipica è di uomo dai piedi caprini, barbuto e peloso, con le corna di capra sul capo. Come altre divinità delle foreste era temuto dai viaggiatori, ai quali appariva d’improvviso suscitando molto terrore e la paura improvvisa era associata a lui e chiamata “timor panico” o solo “panico”, termine rimasto ancora oggi nell’uso comune. Il suo carattere e gli aspetti malvagi emergono nei suoi amori, per lo più aventi per oggetto le Ninfe e solitamente non corrisposti. Si racconta che il dio si sia innamorato della Ninfa 30 Siringa ma non corrisposto e che un giorno, preso da un improvviso raptus, abbia iniziato a seguirla. La Ninfa, in fuga giunge alle rive del fiume Ladone dove, rendendosi conto di non poter più proseguire nella sua fuga, supplica le Ninfe del fiume di mutarla d’aspetto e così, mentre Pan è proteso a possederla si ritrova all’improvviso a stringere tra le mani solo Canne palustri. L’aria, vibrando all’interno delle canne, produce un suono soave ed il dio decide quindi di tagliarle e di unirle tra loro in modo da creare una strumento musicale che, in onore della fanciulla, è chiamato “siringa”. Molte sono le vicende della vita di Pan rievocate nella letteratura e molte anche le rappresentazioni nell’arte, gli attributi del dio più comuni sono un corto mantello che porta sulle spalle e la siringa, lo strumento musicale. Si racconta, inoltre, che Pan abbia una particolare predilezione per i piaceri sensuali, per questo nel Rinascimento alla sua figura viene associata l’immagine della lussuria e il dio viene spesso ritratto mentre rincorre la Ninfa Siringa (Fig. 11) (Impelluso, 2002). Fig. 11 Pan e Siringa Jan Bruegel e Pieter Paul Rubens, Milano, Pinacoteca di Brera 31 3.1.2 SITI ECOMUSEALI: ALLA SCOPERTA DEL DELTA In questa parte vengono proposte ed illustrate le finalità delle escursioni da effettuare nei siti che fanno parte dell’ecomuseo. 3.1.2.1 Biodiversità tra i canneti del grande fiume La storia delle zone umide2 è quella di luoghi un tempo inospitali per l’uomo, vissuti da sempre come sedi di temute malattie, aree dense di nebbie ed acque immobili. Finito il periodo della paura e della difesa da malattie incurabili, l’uomo oggi è in grado di riconoscerne la bellezza e di capirne l’importanza, in una dimensione culturale e sociale mutata nella quale resta il rammarico per un patrimonio perduto. A causa di opere di bonifica idraulica iniziate già ai tempi degli Etruschi, continuate dai Romani e nel rinascimento ed intensificatesi negli ultimi 50 anni, le zone umide del Polesine sono molto diminuite, nonostante ciò l’area del Delta del Po rimane ancora oggi una delle più importanti zone umide italiane ed europee, importante a tal punto che, nel 1997, è stato costituito, con il fine di tutelarle, recuperarle, valorizzarle e conservarle, il Parco Regionale Veneto del Delta del Po. Zone di particolare interesse naturalistico del Parco sono le aree di foce, in cui vi sono zone estese di canneti, i cosiddetti “bonelli” formati da popolamenti quasi esclusivi di Phragmites australis. I più grandi canneti si trovano presso la foce del Po di Pila, il quale si divide in 3 piccoli canali, chiamati Busa Dritta, Busa di Scirocco e Busa di Tramontana, presso la foce del Po di Gnocca e quella del Po di Goro. Questi ambienti sono caratterizzati da fondali melmosi su cui cresce la canna, da piccoli laghetti interni e da stretti canaletti, i “paradeli” (Fig. 12), creati e mantenuti aperti dall’uomo per potervi navigare. I canneti possono essere visitati dai turisti esclusivamente con l’ausilio delle “batane” caratteristiche imbarcazioni di dimensioni ridotte, con fondo piatto, con cui si riesce a navigare in modo agevole tra i “paradeli”. L’osservazione diretta consente di comprendere quanto complesso sia il popolamento dell’avifauna: in spazi ridotti, l’una accanto all’altra, vivono infatti numerose specie, da 2 Definizione internazionale di zone umide: le zone umide sono aree palustri, acquitrinose o torbose o comunque specchi d’acqua, naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua ferma o corrente, dolce, salmastra o salata, compresi i tratti di mare la cui profondità non ecceda i sei metri con la bassa marea. 32 quelle minuscole ai grandi uccelli acquatici. I più grandi sono della famiglia Ardeidae, tipici uccelli da canneto che, se allarmati, tendono il collo e il becco verso l’alto mimetizzandosi con i fusti delle canne e rimanendo anche per molto tempo immobili. A questi esemplari appartengono il Tarabuso (Botaurus stellaris) che si arrampica afferrando le canne a mazzi, il Tarabusino (Ixobrychus minutus) nidificante proprio nei canneti e più difficile da identificare perché più piccolo, che compie spesso brevi voli sopra le canne e talvolta per sfuggire ai pericoli corre invece di volare e l’Airone rosso (Ardea purpurea) anch’esso nidificante. Si possono trovare poi esemplari di dimensioni più ridotte, appartenenti alla famiglia Anatidae come la Moretta (Aythya fuligula), la Moretta Tabaccata (Aythya nyroca) e il Moriglione (Aythya ferina) tutte anatre tuffatrici che utilizzano i laghetti interni per procurarsi il cibo, nuotando sott’acqua. Di taglia medio piccola sono invece uccelli della famiglia Rallidae, con corpi tarchiati, zampe e dita lunghe, piuttosto schivi e quasi sempre nascosti tra la vegetazione: il Porciglione (Rallus aquaticus) chiamato così per il suo verso simile ad un maiale infastidito, il Voltolino (Porzana porzana), la Schiribilla (Porzana parva), la Gallinella d’acqua (Gallinula chloropus) e la Folaga (Fulica atra). Unico esemplare di uccelli da preda è il Falco di palude (Circus aeruginosus), nidificante, lo si vede volare appena sopra le canne con i suoi tipici battiti rigidi. In realtà le specie più abbondanti all’interno dei canneti sono i piccoli Passeriformi, alcuni vi nidificano, altri frequentano l’ambiente alla ricerca di cibo o per la sosta durante le migrazioni e la loro caratteristica più interessante è il fatto che molti hanno una propria postazione, mantenuta abitualmente, in parti distinte del fusto della canna (Fig. 13). Tra i nidificanti vi sono: la Cannaiola comune (Acrocephalus scirpaceus) che fabbrica un elaborato nido a canestro, intessuto su 3-4 canne adiacenti, particolarissimo, in quanto riesce a spostarsi verticalmente sui fusti, alzandosi o abbassandosi seguendo le maree, il Cannareccione (Acrocephalus arundinaceus) spesso esposto in cima alle canne, specialmente quando canta nelle prime ore del giorno, il Pendolino (Remiz pendulinus) che costruisce anch’esso un curioso nido, a borsa, sospeso all’estremità dei fusti, soprattutto dei salici che si protendono al di sopra del canneto e il Migliarino di palude (Emberiza schoeniclus) (Fracasso et al., 2003). Altre specie che frequentano i canneti sono le Rondini (Hirundo rustica), lo Scricciolo (Troglodytes troglodytes), la Passera scopaiola (Prunella modularis), la Passera mattugia (Passer montanus), il Forapaglie (Acrocephalus schoenobaenus), il Forapaglie castagnolo (A. melanopogon) che canta spesso in volo o dalla cime delle canne, il Forapaglie 33 macchiettato (Locustella naevia) sempre ben nascosto nel folto della vegetazione e che, solo se disturbato, vola basso sulle piante per piccoli tratti, il Pagliarolo (Acrocephalus paludicola), la Cannaiola verdognola (A. palustris) ottima imitatrice dei canti di altri uccelli e, infine, il Basettino (Panurus biarmicus) che si arrampica sulle canne con piccoli movimenti e saltelli e si nutre di semi di canne (Hayman e Hube, 2003). Negli ultimi anni, a causa dell’intenso fenomeno di subsidenza, delle opere di bonifica che hanno determinato l’abbassamento della falda acquifera dolce, della diminuita portata solida da parte del fiume e dei fenomeni di salinizzazione, la struttura dei canneti ha subito dei mutamenti e, nelle zone più esposte all’influenza del mare, anche notevoli arretramenti e regressioni. L’aumento del tenore di salinità, quindi, rende i canneti progressivamente più radi e meno alti, fattore questo che mette a rischio la nidificazione delle specie citate, in particolare degli ardeidi e del Falco di Palude. Fig. 12 Interno di canneti, paradeli Fig. 13 Disposizione verticale dei passeriformi Nei canneti non è presente solo l’avifauna, si possono infatti incontrare anche insettivori come il Toporagno acquatico di Miller (Neomys anomalus), anfibi come la Raganella italica (Hyla intermedia), i serpenti d’acqua quali la Natrice tassellata (Natrix tassellata) e la Natrice dal collare (Natrix natrix), riconoscibili dalla forma piuttosto spigolosa della testa e dagli occhi leggermente rivolti verso l’alto e i roditori come l’Arvicola d’acqua (Arvicola terrestris), il Surmolotto (Rattus norvegicus) che costruisce cunicoli e gallerie in cui stabilisce la dimora e alleva i piccoli, abbondanti tra questi sono il Topolino delle risaie (Micromys minutus) e la Nutria (Myocastor corpus). Quest’ultima specie, originaria del sud America, è stata importata per la sua pelliccia circa un centinaio di anni fa ma, in 34 seguito a fughe e a rilasci, si è in parte naturalizzata e viene abitualmente ritrovata in acque stagnanti dove si sviluppa una fitta vegetazione che le garantisce un’adeguata copertura e protezione. La sua presenza però crea molti problemi poiché scava ampie gallerie lungo le rive determinando instabilità agli argini (Rallo e Pandolfi, 1988). 3.1.2.2 Un passato che ritorna: lavorare con le Canne palustri 3.1.2.2.1 I “canaroi” Canaroi è un termine dialettale veneto che indica coloro che, in passato, raccoglievano le Canne palustri (Fig. 14). Il sostentamento della popolazione del Polesine si basava principalmente su tre attività: la pesca, l’agricoltura e la raccolta delle canne palustri. Già un atto notarile del 29 e 30 novembre del 1587 registra il nome di tutti i capi famiglia di Adria che si dichiaravano canaroi; il paese a quei tempi non doveva superare i 3.000 abitanti ed i nomi registrati erano ben 109, questo significa che oltre la metà della popolazione, circa 1.600 individui, viveva con la raccolta e con la lavorazione delle Canne palustri (Zunica, 1984). Fig. 14 I canaroi L’anno era diviso in due periodi, quello caldo in cui la popolazione si dedicava alla pesca e all’agricoltura e l’inverno, in cui la campagna non offriva più lavoro ma soprattutto la pesca era scarsa e l’attività di sostentamento principale delle famiglie diventava la raccolta 35 delle canne palustri. Gli unici in grado di sopportare un così duro lavoro, erano i capi famiglia, gli uomini: canaroi di Porto Tolle, soprattutto della frazione di Scardovari, ma anche dei paesi limitrofi come Rosolina, Taglio di Po e l’attuale Porto Viro, si recavano nelle valli e nelle lagune dell’estremo Delta. Coloro che provenivano da lontano per tutta la settimana vivevano nei casoni di canna (che saranno illustrati nella sezione 3.1.2.3.2), dedicandosi esclusivamente al lavoro, per ritornare a casa solo la domenica. Alla prima bora, momento in cui le canne si strofinavano vicendevolmente e perdevano le foglie, si poteva iniziare la raccolta, poiché della parte aerea della pianta rimanevano solo il gambo e il pennacchio dell’infiorescenza, diventando più leggere e, soprattutto, non avevano bisogno di essere pulite e lavorate ulteriormente prima della vendita. I mesi principali per questa attività erano quelli a cavallo tra dicembre e febbraio, ma molti iniziavano già da novembre, continuando fino a marzo. Unico lavoro svolto in estate, dal 23 di agosto al 13 di settembre circa, era la raccolta dei “pnaci” (Fig. 15), i pennacchi, le infiorescenze della Canna palustre. I canaroli tagliavano il pennacchio assieme alla parte terminale del fusto, togliendo manualmente le foglie rimaste ed indossando guanti di pelle per proteggersi le mani dal margine tagliente delle foglie stesse, coi quali produrre scope utilizzabili per le pulizie delle case. Fig. 15 Ragazzo che trasporta pnaci Nel periodo invernale si partiva, quando ancora era buio, con la “canarola” (Fig. 16), la tipica barca con fondo piatto e con la superficie totalmente aperta, per agevolare il lavoro, ottenendo la massima capienza per trasportare più fasci di canne contemporaneamente. All’alba si era già in mezzo ai paradeli, i piccoli canali che attraversavano i canneti e si 36 lavorava duramente fino a mezzogiorno. A volte, se queste grandi erbe palustri erano bagnate o se si voleva sfruttare il vantaggio della bassa marea, si lavorava da metà mattino fino al tardo pomeriggio. Chi andava a “far canna” lavorava duramente per buona parte della giornata e l’abitudine era quella di portare con sé un po’ di vino, per scaldarsi dal freddo dell’inverno e una merenda per ritrovare la carica. La tipica merenda, che oggi è diventata un piatto tradizionale nella cucina del Delta è rappresentata dai “risi e fasoi alla canarola”; gli ingredienti di questo piatto povero ma calorico sono semplici: riso e fagioli. Le mogli ne preparavano in grandi quantità perché si mantenevano e si potevano mangiare per più giorni e venivano trasportati all’interno di pentolini e, all’ora della merenda, i canaroi li riscaldavano accendendo un piccolo fuoco con le Canne palustri da cui prende nome del piatto. Le divise dei canaroi erano semplici: si trattava di giacche impermeabili, di lunghi stivali di gomma e, per non sprofondare nel suolo melmoso e per evitare di bucare stivali e piedi sulle punte taglienti delle canne già asportate, venivano indossate le “galosse” (Fig. 17) tavolette di legno, con una parte in lamiera, calzate sopra gli stivali e simili a racchette da neve. Fig. 17 Le galosse Fig. 16 La canarola Poveri erano anche gli strumenti di lavoro: la “bareta” (Fig. 18), composta da due assi verticali, due orizzontali e due incrociati che veniva conficcata nella melma dove rimaneva in bilico ed era utilizzata come appoggio per le canne e la “msura” (Fig. 19), una falce messoria formata da una lama curvata ad arco, con un manico che poteva essere 37 di 35 cm o più lungo di 60/70 cm. che serviva per il taglio delle canne. Le due diverse lunghezze sono correlabili ai due differenti modi di lavorare dei canaroi: o scendere e camminare a fatica nella melma per recidere, alla base, i fusti con la falce con il manico corto, oppure rimanere in barca ed utilizzare la falce con il manico lungo per arrivare fino alla canna. Solitamente si formavano fasci di canne alti 2 metri, ovvero tutta l’altezza dei fusti e di 80, 90 cm o di 1 m di circonferenza. Secondo la necessità si arrivava anche a fasci di 120 cm, i fascioni, dal peso variabile dai 20/30 ai 40 kg che venivano legati in due parti, verso le estremità, con la “car’sìna”, i Giunchi, altra tipica pianta palustre. Questi fasci venivano trasportati con le barche (Fig. 20) e depositati sugli argini in attesa di essere venduti. Fig. 19 La msura Fig. 18 La bareta Tutti i canaroi lavoravano in proprio e, nonostante fosse un lavoro faticoso, era redditizio in quanto le uniche spese riguardavano la manutenzione della barca e dei pochi attrezzi usati: fino agli anni 1980 ogni fascio veniva pagato dalle 3.000 alle 3.300 lire, non si vendeva a peso e ogni canarolo poteva arrivare, in un giorno, anche a raccogliere 20 fasci. 38 Fig. 20 Trasporto di fasci Un antico proverbio indicava il tempo in cui il canarolo doveva tornare a fare il pescatore quand’che la cana la punse, la passara la unse: è la primavera il periodo in cui affiorano le “punte” della nuova canna e la passera (intesa come specie ittica del genere Pleuronectes) è molto grassa e perciò, se messa sulla graticola, unge. Questo è il momento di ritornare alla pesca. 3.1.2.2.2 Azienda Agricola Depiccoli: una realtà come poche A S. Anna di Chioggia (Ve) vi è una delle poche aziende italiane che si occupa di lavorazioni in Canna palustre. L’Azienda Agricola è gestita dal signor Nello Depiccoli, dal figlio Orazio e dalle rispettive mogli. Si tratta di una famiglia dedita al lavoro, con una passione straordinaria e con una ricca storia alle spalle, essendo loro la 4° generazione impegnata in questo ambito lavorativo. Per molti anni a Scardovari la famiglia Casellato ha prodotto e commercializzato stuoie in canna ma da circa 15 anni la fabbrica è stata chiusa e la maggior parte dei macchinari è stata comprata da altre aziende del settore, tra le quali la ditta dei sig. Depiccoli. Negli ultimi anni si è assistito ad una crescita sempre maggiore della domanda, da parte dell’opinione pubblica, di biologico, di natura e di ambienti salutari, per questo il mercato della Canna palustre ed affini, dopo un periodo abbastanza buio, sta ritornando ad avere l’importanza di un tempo. Il mercato ha subito negli anni una graduale evoluzione e le stuoie prodotte dall’Azienda, che in passato venivano vendute soprattutto agli agricoltori, per essere utilizzate nei campi a protezione delle colture, oggi sono state sostituite con teli di plastica e le richieste arrivano dai privati, che le usano nell’abbellimento di recinti o di 39 terrazze, ma soprattutto da molte strutture ricettive e da molti stabilimenti balneari. Le “grisole” vengono ora apprezzate per la loro ombra e, principalmente per la loro estetica, infatti l’azienda è specializzata soprattutto nella costruzione di tetti e di ombrelloni in canna palustre che ricreano un paesaggio “naturale”. Presso la sede vengono prodotte stuoie di varie misure e scope, queste ultime sia in Canna palustre sia in Saggina (Sorgum saccarathum) altra graminacea, più robusta e più dura al tatto. Un tempo esistevano gli “scoetari” coloro che commissionavano ad altre persone grandi quantità di scope per poi rivenderle, oggi questi “aspirapolveri naturali” sono stati sostituiti da quelli in nuovi materiali sintetici, ma vi è ancora una certa richiesta. Il grande pregio delle scope in canna è il non alzare la polvere e per questo motivo vengono richieste soprattutto da ospedali e da parrucchieri. Due sono i passaggi e i macchinari usati per la loro costruzione: i pennacchi della pianta vengono legati al manico della scopa, utilizzando filo di ferro zincato. Compito del primo macchinario (Fig. 21) è quello di bloccare il filo di ferro in modo che l’artigiano possa tirare verso di sé il manico e fissare i pennacchi molto strettamente, così da evitare il loro sfaldamento nel tempo; in un secondo momento si prosegue con la cucitura della scopa e si utilizza, a questo punto, la seconda macchina, meccanica e più complessa, in cui viene inserita la scopa e, con del filo di nylon, viene cucita in più punti (Fig. 22). Fig. 22 2° macchinario utilizzato Fig. 21 1° macchinario utilizzato La famiglia Depiccoli possiede ancora un vecchissimo attrezzo di legno (Fig. 23), di quasi 200 anni, che veniva utilizzato per sostenere le scope nella fase di cucitura, ovviamente a 40 mano, con corde di Giunchi e che ora viene esposto, molto orgogliosamente, per il suo grande valore affettivo e culturale. Fig. 23 Vecchio attrezzo in legno per la cucitura delle scope Per produrre le stuoie la famiglia Depiccoli utilizza macchinari differenti ed anche questi, come i precedenti, hanno più di 80 anni ma sono ancora perfettamente funzionanti. Due sono i macchinari presenti in ditta (Fig. 24), identici tra loro che vengono utilizzati principalmente dalle mogli. Le canne vengono appoggiate su due cavalletti di legno, per essere prese più agevolmente ed il lavoro viene svolto manualmente prendendo uno o due fusti per volta, inserendoli all’interno del macchinario, azionato sempre manualmente con una leva, e le canne vengono infine legate tra loro con filo di ferro zincato (Fig. 25). Le stuoie prodotte possono essere di varie lunghezze a seconda delle richieste, mentre l’altezza rispecchia l’altezza naturale di 2 m delle canne stesse. Fig. 24 Macchinari per produzione stuoie Fig. 25 Sig.ra Depiccoli al lavoro 41 Quando vengono richiesti tetti in Canna palustre per prima cosa, padre e figlio, si recano per un sopralluogo, per osservare e capire le caratteristiche fisiche della zona in cui verrà costruita la struttura. L’azienda molto spesso non si occupa solo del tetto ma di tutta la struttura, pareti comprese, e viene costruita in legno con una tecnica particolare e assodata da anni, soprattutto per quanto riguarda il tetto, per il quale si crea uno scheletro composto da grossi travi verticali a circa 1 m di distanza l’uno dall’altro e una struttura secondaria, con travi più fini, posizionate in modo orizzontale e distanti tra loro circa 35 cm. Se la struttura nel complesso è molto grande, all’interno, tra le falde, si inseriscono dei sostegni sempre in legno. La canna viene utilizzata in tutta la sua lunghezza, pennacchi compresi, la parte del fusto vicina alla radice ha una circonferenza più ampia che diminuisce molto arrivando al pennacchio; questa forma conica del fusto è importante per ottenere una pendenza adeguata delle falde. Segreto importantissimo, infatti, per rendere il tutto impermeabile, senza l’aggiunta di altro materiale, è la pendenza molto accentuata del tetto, creata sia dalla conicità del materiale sia dalla pendenza dello scheletro delle falde: in questo modo l’acqua non ristagna e scivola lungo le canne fino a terra. I fasci di canna vengono poi inseriti, uno ad uno, partendo dalla parte del tetto più bassa, arrivando fino all’apice, e vengono posti a circa 40 cm l’uno dall’altro, o meno, a seconda della grandezza totale della struttura (Fig. 26). Una volta fissati vengono battuti molto delicatamente con una spatola di legno, per non essere danneggiati (Fig. 27), in modo che, a lavoro concluso, la canna si presenti uniforme. Stesso procedimento si attua per strutture di forme diverse, quadrate, rettangolari, rotonde ed anche per costruire ombrelloni, anch’essi di varie misure. Fig. 26 Costruzione del tetto Fig. 27 Assestamento delle canne con spatola 42 3.1.2.3 Le antiche dimore del Veneto 3.1.2.3.1 I casoni veneti Il casone era l’umile dimora di una popolazione generalmente dedita alle attività agricole, ed era, in passato, la più diffusa abitazione nel Veneto, soprattutto nell’arco lagunare. Non è del tutto chiaro il significato del termine “casone” ma è abbastanza logico ritenere che si tratti della derivazione accrescitiva della parola casa, intesa come abitazione di campagna. Diverse interpretazioni vengono comunque attribuite a questo nome e pare che venisse utilizzato in modo frequente in passato a Venezia per indicare le prigioni; l’unico rapporto che si riesce a stabilire tra queste dimore con diversa funzione è comunque la stessa povertà che rappresentavano. Predecessore del casone era la capanna, rifugio fatto dall’uomo per ripararsi dalle intemperie e per difendersi dagli animali, con una struttura conica di paglia che, dall’apice, scendeva fino a terra. La natura circostante offriva a poco costo materiali come l’argilla, le erbe palustri, la paglia, il legname e la costruzione di un’abitazione migliore delle capanne non era impossibile e forte era la lusinga di una vita più confortevole. Dopo una lunga e graduale trasformazione, nel 1400, si sono ritrovati i primi esempi di casoni con una struttura mantenutasi fino ai nostri giorni, fatta in muratura e in Canna palustre. Non vi era una tipologia unica nella costruzione di queste abitazioni, la struttura generale e i materiali utilizzati erano gli stessi nell’intero territorio regionale, ma molte le particolarità che cambiavano da una provincia all’altra come tra Padova, Venezia, Treviso e Rovigo. La parte perimetrale aveva un’altezza di circa due metri, due metri e mezzo, e veniva costruita in muratura. I mattoni utilizzati erano ottenuti dall’argilla che veniva impastata mediante pigiatura con dell’acqua, ottenendo una poltiglia di media durezza che era poi riversata in appositi stampi di legno, i quali venivano esposti al sole fino alla solidificazione del contenuto. Solo in tempi successivi e a seconda della disponibilità economiche delle famiglie si utilizzavano mattoni cotti in fornace. La muratura poteva essere fatta dai proprietari in modo autonomo ma la creazione del tetto, in canna palustre, era più complessa e per questo era compito specifico di una persona particolarmente competente: il casoniere. Si iniziava con la travatura principale costituita da quattro grossi tronchi d’albero ben squadrati che, partendo dai quattro angoli della muratura, si univano in alto a due a due e venivano poi congiunti alla loro sommità da un’altra grossa trave. Venivano quindi segnati i quattro spioventi, triangolari i due ai 43 lati e trapezoidali i due ai fronti. In un secondo momento numerosissimi altri pali più sottili venivano posizionati sia in verticale sia in orizzontale per creare una struttura di sostegno in cui fissare i fasci di canna palustre che venivano bloccati con rami di salice e, in tempi successivi, con filo zincato. La parte terminale superiore era fissata talvolta da erbe palustri strettamente intrecciate, altre volte coperta da tegole sia per tenere unite le canne sul punto di congiunzione sia per far scivolare via l’acqua là dove più facilmente la pioggia poteva concentrarsi e penetrare all’interno. I casoni erano composti inizialmente da una sola stanza in cui la cucina era un tutt’uno con il reparto notte, arrivando poi a comprendere anche più stanze disposte in parallelo tra loro, sempre in un unico piano. I pavimenti erano di terra battuta che, al momento del disgelo, molto spesso perdeva la sua compattezza, diventando ondulata, ma in estate pare favorisse una maggior freschezza degli ambienti. Nei pochi casoni più ricchi la pavimentazione era fatta di mattonelle rettangolari in cotto rosso. Queste antiche dimore si differenziavano per piccoli particolari da una provincia all’altra. Nella provincia di Padova i casoni avevano base rettangolare e nei tetti era presente un’apertura, una specie di abbaino, che serviva a porre nel sottotetto il fieno destinato agli animali, nel periodo invernale. I casoni del territorio veneziano si differenziavano da quelli padovani per la base più quadrata e per l’apertura dell’abbaino, che partiva dalla sommità del tetto, giungendo, con un graduale distacco, alla linea di gronda, ottenendo un’apertura più ampia ed imponente. I casoni della marca trevigiana, sviluppati su una pianta rettangolare si presentavano ancora più diversi nel tetto: la falda sul fronte principale non si abbassava fino a sopravanzare leggermente i muri perimetrali dell’abitazione, come i rimanenti tre lati, ma si arrestava settanta-ottanta centimetri al di sopra, in modo da lasciare scoperta una fascia longitudinale segnata da una intelaiatura di legno a mo’ di loggia (Tieto, 1979). Anche in Polesine i casoni costituivano l’abitazione più frequente, con struttura generale e materiali tipici: perimetro in muratura, tetto in canna palustre e poche unità abitative. La grande e spettacolare differenza era rappresenta dai casoni del basso Polesine nel Delta del Po, che saranno illustrati nel paragrafo seguente. 3.1.2.3.2 Scanno Boa e i casoni del Delta del Po Il Delta del Po è il territorio più giovane d'Italia formatosi a partire dal 1600 e l’uomo, in antitesi e in gara con la natura, mano a mano che le terre emergevano grazie al naturale 44 processo di sedimentazione, ha cercato di plasmare il paesaggio naturale con interventi idraulici lungo i rami dei fiumi e, soprattutto, con azioni di bonifica al fine di poter utilizzare per il proprio sostentamento le nuove terre emerse. La precarietà delle condizioni di queste aree ha dato luogo ad una popolazione rada e dispersa, una popolazione povera, dedita soprattutto alla pesca e, solo in un secondo momento, grazie alle continue bonifiche, anche all’agricoltura. I casoni erano le più umili abitazioni dei pescatori, a pianta rettangolare, con dimensioni ridotte (solitamente quattro metri per tre) e con la particolarità delle pareti costruite non più in muratura ma in Canna palustre. Le canne venivano unite con il legno o con corde fatte di rami di Salice e inserite su orditure di robusti pali. Queste pareti erano composte da un doppio strato, quello esterno più spesso e quello interno più sottile e la camera d’aria era riempita di canna sfusa. I tetti erano principalmente a due falde, raramente anche di quattro, sorretti da intelaiature di travi in legno. In difesa contro il vento l’altezza dei casoni era molto ridotta e i tetti sporgevano sulle pareti perimetrali, per lo stesso motivo il colmo era spesso composto da una falda più corta ed una più lunga, quella posta a nordest, per proteggere la struttura dalla bora (fig. 28), vento dominante e di maggior forza. Il vento non era però l’unico problema e per evitare che l’acqua piovana si infiltrasse spesso si proteggeva la congiuntura delle due falde con fasci di canne posizionate in modo orizzontale, sia all’interno sia all’esterno, cambiando la morfologia esterna di questi casoni (Fig. 29), all’interno della stessa area. Fig. 28 Tetto a due falde diverse Fig. 29 Tetto con fasci di canne interni Unico particolare in comune con i casoni veneti era il camino. Considerata l’estrema combustibilità del tetto in canna palustre era indispensabile l’utilizzo di un materiale non 45 infiammabile: veniva quindi costruito in muratura, ma, anche in questo caso, non vi era una tipologia unica nella costruzione. Si poteva trovare un focolare di dimensioni molto ridotte in un angolo del casone oppure ai lati, costruito con mattoni posti a protezione delle pareti di canna e del pavimento in terra, con un camino di muratura che, perforando il tetto, portava all’esterno il fumo (Fig. 30). Oppure, come nella maggior parte dei casi, il camino era totalmente in muratura, costruito come una specie di abside, una struttura apparentemente estranea al casone (Fig. 31). In entrambi i casi i camini erano il più possibile lontano dalle falde ed orientati a seconda dei venti dominanti, per evitare incendi che potevano essere causati dallo sprigionamento delle faville. L’arredo era molto spartano, la cucina era un tutt’uno con il reparto notte, era composta da un tavolo (Fig. 32) ed alcune sedie, una scansia o una credenza mal ridotta che conteneva le poche suppellettili in terra cotta, indispensabili al bisogno famigliare. I letti (Fig. 33) erano formati da cavalletti di legno, non molto alti, sui quali appoggiavano tavole o pali su cui veniva posato il materasso. Anche questo era di canna e, confrontandolo con quelli di oggi si notano sostanziali differenze, solitamente si trattava di fasci di canne ricoperte con un panno mentre, nei casi più fortunati, si utilizzava un grande sacco chiuso contenente le canne che vi venivano inserite attraverso un’apertura laterale. Importante per capire le dure condizioni di vita all’interno di queste case è il tenero pensiero di un bambino, Giuseppe Marangon che, nel 1950 era alunno della seconda elementare e che scriveva nei sui quaderni Oh Signore mio, fa che mi si faccia una casa di pietra perché non abbia a soffrire quelle matte paure durante i temporali! Fig. 31 Camino totalmente in muratura Fig. 30 Focolare interno 46 Fig. 33 Letto in canna palustre Fig. 32 Cucina del casone Anche la vita dei pescatori era estremamente dura: per molti decenni la pesca è stata esercitata presso le foci del Po e nelle lagune, dedicandosi soprattutto alla cattura delle anguille specie, allora come ora, pregiata. Una lunga contesa in merito alle concessioni e alla regolamentazione delle aree lagunari ha visto per decenni i pescatori contrapporsi ai proprietari dei terreni adiacenti, questi ultimi reclamavano come proprie estese zone lagunari che, nella maggioranza dei casi, erano terreni invasi dalle acque del mare e mai più prosciugati. Ma è soprattutto il cinquantennio dal 1880 al 1935 il periodo in cui la pesca conosce il momento più buio della sua storia e i pescatori, spinti da una lunga controversia, hanno deciso di ritirarsi nelle zone più depresse e meno pescose delle lagune, negli scanni della laguna del Basson (Laurenti, 2006). La popolazione di Porto Tolle più vicina di altre a questa zona si recava al lavoro giornalmente, mentre i pescatori di Rosolina, Taglio di Po e della odierna Porto Viro, a causa del lungo viaggio che dovevano affrontare, erano costretti a trasferirsi per lungo tempo. Nasce in questo periodo il villaggio di pescatori di scanno Boa (Fig. 34) dove in primavera ci si dedicava in alla pesca di passere e di cefali, seguiva quella dello storione, da ottobre fino a dicembre quella delle anguille e, finalmente, nel periodo natalizio si ritornava a casa. Si trattava di un villaggio formato da tante case in canna, in cui si trasferivano le intere famiglie dei pescatori e dove la vita era scandita dai ritmi del solo lavoro: di notte si dormiva tutti assieme nei letti di canna e di giorno si pescava. Caratteristica particolare erano le zucche “botasse”, le zucche vuote che appese alle pareti, rivelavano la presenza di una famiglia, 47 erano infatti i “candvei” dell’epoca, ovvero galleggianti di segnalazione e collegamento delle reti calate in acqua (Fig. 35). Fig. 34 Villaggio di Scanno Boa Fig. 35 Casoni con zucche botasse Era una vita “bestiale”, come viene descritta nella testimonianza Ivana Zaia, che, nel 1988, in una intervista ha raccontato di quando i vigili del fuoco, nel 1951, quando era bambina, hanno salvato lei e tutti gli abitanti dello scanno, dall’alluvione tremenda che ha interessato tutto il territorio del Polesine (Villani, 1988). Ma è solo nel 1960 che la maggior parte dei pescatori decide di abbandonare definitivamente il villaggio. Oggi di quel gruppo di case ne rimangono alcune in disuso e abbandonate a se stesse mentre un solo casone è ancora in buonissimo stato (Fig. 36) ed è gestito dalla Cooperativa Pescatori Delta Padano di Scardovari. Questo viene utilizzato dai soci della cooperativa per pranzi e per giornate di pesca, a volte anche pernottando nei periodi primaverili o autunnali, mai in quelli invernali in quanto è sprovvisto di riscaldamento. I soci, inoltre, si occupano personalmente, quando necessario, della manutenzione, sia interna che esterna. La struttura esternamente è ancora in canna palustre e, quando le canne sono vecchie e rovinate, vengono tolte e sostituite con canne nuove, mentre internamente il casone è ormai dotato di pareti in legno, coperte con pannelli in cannicciato per mantenere l’antica atmosfera. Questo potrebbe essere musealizzato e rappresentare uno dei siti da visitare in dettaglio. 48 Fig. 36 Casone della Co. Pescatori Delta Padano Il Delta del Po è una terra di miti e di leggende amata da pittori, scrittori e raccontata più volte anche dal cinema che ha sempre riservato al Grande fiume un interesse particolare. Molti sono i film girati sulle acque del Po, ad esempio del 1945 è la Donna del fiume di Mario Soldati interpretato da una giovanissima Sophia Loren; nel 1957 si è immersa nelle nebbie padane a Pila e a Ca’ Venier nel Grido di Michelangelo Antonioni, un’altra diva, Alida Valli. Il fiume è un set ideale, soprattutto per storie violente e a tinte forti, particolare suggestione suscita il film Scano Boa – Violenza sul fiume del regista Renato Dall’Ara, tratto dall’omonimo romanzo del polesano Giannantonio Cibotto. Il romanzo e il film descrivono con passione la magia sprigionata in quel luogo, raccontano la vita aspra e precaria di un angolo di terra al termine del mondo, proponendo un ritratto preciso e reale di quello che era lo scanno ed il villaggio di pescatori. 3.1.3 Museo delle Api: laboratorio didattico A pochi chilometri da Porto Viro, nel cuore del Parco del Delta del Po, sorge il paese di Ca' Cappellino. Dal 1998 presso l'ex scuola elementare del paese, gli apicoltori del Delta in collaborazione con l'amministrazione comunale di Porto Viro, hanno allestito un centro di apicoltura, gestito da sempre dal Signor Giuliano Mattiazzi. Il centro, costituito da due locali, la sala di smielatura, un locale igienicamente idoneo all'estrazione, maturazione e invasettamento del miele e il punto vendita, ha permesso di riunire, sotto un unico marchio, il miele del Parco del Delta del Po, il miele prodotto nel Parco. Le prassi igieniche e i regolamenti produttivi imposti agli apicoltori associati, danno la garanzia di acquistare un prodotto genuino, vergine e integrale ed il centro offre assistenza tecnico 49 professionale agli apicoltori locali e a chiunque altro voglia intraprendere questa attività. All'interno è allestita una particolare mostra che porta il visitatore alla scoperta della vita delle api nei suoi molteplici aspetti e alla conoscenza dei suoi preziosi prodotti: il miele, la propoli, il polline, la pappa reale e la cera (www.smppolesine.it). I visitatori possono osservare in modo diretto la vita delle api nell’apiario annesso, visionare video e, cosa ancora più interessante, sperimentare nei laboratori varie attività. Giuliano riesce a trasmettere l’amore per la sua terra come pochi, si tratta di una persona vulcanica, sempre attiva di energia e moltissime sono le scolaresche che, ogni anno visitano il centro, trovando sempre nuove e originali proposte di attività pratiche e manuali. Quando non ha impegni con gruppi o con singoli ospiti si dedica alle sue passioni, le erbe palustri e con la tifa realizza piccole anatre. Ai laboratori che attualmente Giuliano propone, ovvero la realizzazione di candele con la cera delle api e la realizzazione di oggetti in terracotta, si può pensare di aggiungere un’altra attività con la canna palustre, che ora è a livello di hobby, quella cioè di ricreare in miniatura i vecchi casoni. Viene quindi proposto, all’interno del percorso museale, un laboratorio in cui Giuliano insegna, a gruppi sia di scolari che di adulti, il modo di costruire le tipiche case del Delta del Po, per offrire, a chi visita questo stupendo territorio, non solo nozioni didattiche ma anche un lavoro manuale, grazie al quale possono essere impressi nella mente particolari che altrimenti sfuggirebbero. Poiché nel passato le tecniche costruttive dei casoni erano molteplici anche Giuliano ne ripropone diverse, unica cosa aggiunta, rispetto la realtà, sono gli scheletri in legno, indispensabili per mantenere la struttura, troppo piccola, per essere fatta solamente con canna. Per costruire lo scheletro vengono utilizzate cassette di legno, in precedenza usate per il trasporto di frutta e verdura e donate da vari supermercati del luogo. In base al gruppo di lavoro vengono scelti gli attrezzi e il materiale con cui costruire il casone: se il gruppo è composto da bambini viene utilizzata la colla, altrimenti filo di ferro plasticato, chiodi e trapano. Il laboratorio proposto è molto divertente e, in meno di una giornata, i modellini dei casoni possono essere conclusi. Viene assemblato lo scheletro, lasciato aperto in corrispondenza di una falda per poter lavorare in modo più agevole e chiuso mano a mano che il lavoro procede; vengono ricreate porte e finestre, utilizzando il legno precedentemente tolto. Si formano poi piccoli fasci di canna che vengono legati ad uno ad uno con il filo di ferro, precedentemente inserito in fori fatti con il trapano (Fig. 37). Se si opta per l’utilizzo della colla la modalità di inserimento delle 50 canne cambia, vengono posate assieme, non più in fasci ma unite allo scheletro mediante un piccolo bastone di legno posizionato in modo orizzontale. In un secondo momento, sempre con il legno delle cassette, viene creato il camino, l’unica parte del modellino che rimarrà priva di canne (Fig. 38). Fig. 37 Inserimento dei fasci con filo di ferro Fig. 38 Camino Ultimo compito prima di concludere il casone in miniatura è la pittura. Vengono pitturate le porte, i balconi delle finestre e il camino con colori a tempera e, solitamente, le tonalità scelte sono scure per rispecchiare il più possibile quelle reali dei casoni del passato (Fig. 39). Fig. 39 Giuliano e il casone concluso 51 4. CONCLUSIONI Con questa proposta ecomuseale si è voluto porre in evidenza la grande importanza naturalistica, storica e culturale della Canna palustre, graminacea caratteristica del nostro territorio, che nei secoli ha trovato utilizzo in settori più vari della vita quotidiana degli uomini del Polesine. Si tratta di una pianta dalle molteplici potenzialità, per il momento poco o nulla conosciute dalla maggior parte del grande pubblico, ma che in un futuro non lontano, potranno essere apprezzate in modo maggiore in quanto sfruttate per particolari ambiti di importanza ecologica, quali la fitodepurazione e la bioarchitettura, tecniche sempre più richieste e sempre più utilizzate. Questo ecomuseo della Canna palustre non vuole però solo valorizzare la pianta ma nella realtà due sono gli scopi che si vogliono ottenere dalla sua realizzazione: - un arricchimento nell’offerta turistica del Parco Regionale Veneto del Delta del Po, un parco importantissimo viste le sue peculiarità, ma che non riesce, forse a causa della sua giovane età, forse per una tipologia di offerta turistica non ben strutturata, forse per una mancanza di forme adeguate di divulgazione per il grande pubblico e per gli stranieri, non solo ad avere un ruolo principe nell’offerta turistica italiana ma nemmeno ad essere apprezzato e ad ottenere un ruolo di rilievo almeno a livello locale. - un mantenimento ed anche e soprattutto un aumento del legame della comunità del basso Polesine con il proprio territorio, con le proprie origini e la propria storia, perché anche la fascia di popolazione più giovane possa arricchirsi culturalmente e possa utilizzare questo nuovo background per imparare prima ad amare e poi a valorizzare in modo più adeguato il territorio in cui vive e di conseguenza anche il Parco, che di questo territorio è parte integrante. L’aspetto principale in un ecomuseo è il ruolo attivo degli abitanti locali che coinvolti, assieme alle istituzioni pubbliche, concepiscono, costruiscono e sviluppano le idee, in questo ecomuseo della Canna palustre, inizialmente questo era percepito come il punto più di debole nell’affrontare il progetto. Una piacevole sorpresa invece è stata l’estrema disponibilità, non solo degli anziani, desiderosi di raccontarmi la propria esperienza e di elogiare la propria vita, ma anche delle persone più giovani, che hanno interagito con il progetto, dimostrando grande interesse ed aiutandomi, in un territorio così ampio come il Delta del Po, nella delicata e difficile ricerca e selezione dei principali protagonisti dell’ecomuseo e nello stabilirne i contatti. 52 Il ruolo degli anziani è fondamentale in quanto rappresentano i depositari delle tradizioni, gli unici in grado di raccontare la vita estrema nei casoni o il pesante lavoro del raccoglitore di canne, ma i giovani rappresentano il futuro e senza il loro impegno risulterebbe impossibile tramandare queste tradizioni e portare avanti nel tempo questo importante progetto ecomuseale. Ci si auspica quindi che l’iniziale interesse generico venga seguito da una attenzione maggiore per la storia del territorio e la sua conservazione, e che possa alla fine esprimersi in una capacità di incrementare i posti di lavoro, in ambito locale. 53 5. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA AA.VV. Atlante del territorio costiero, lagunare e vallivo del Delta del Po, Biblioteca del Parco Regionale Veneto del delta del Po, Taglio di Po, Grafiche Adriatica srl, 2004 Benetti G. Guida alla flora e alle vegetazioni del Polesine, Rovigo, I.P.A.G. 1998 Boatti A. Ricerche per la progettazione del paesaggio, Firenze University Press 2004 Borin M. Fitodepurazione Soluzione per il trattamento dei reflui con le piante, Bologna, Il Sole 24 ORE Ed Agricole srl, 2003 Dongai S. The Concept of the Ecomuseum and its Practice in China. UNESCO Publishing and Blackwell Publishing Ltd. 2008 Fracasso G., Verza E., Boschetti E. Atlante degli uccelli nidificanti in provincia di Rovigo, Provincia di Rovigo, Sandrino, Studio Eikon, 2003 Giordano L. Casa ermetica o traspirante, Firenze, Alinea editrice srl, 2008 Hahn T., Olsson P., Folke C. and Johansson K. Trust-building, Knowledge Generation and Organizational Innovations: The Role of a Bridging Organization for Adaptive Comanagement of a Wetland Landscape around Kristianstad, Sweden. Human Ecology 34, 2006 Hayman P. Hube R. La nuova guida del Birdwatcher, Roma, Franco Muzzio Editore 2003 Impelluso L. Eroi e Dei dell’antichità Dizionario dell’arte, Milano, Elemon spa, 2002 Laurenti D. La pesca e la vita 70 anni di Delta Padano, Taglio di Po, Arti Grafiche Di emme, 2006 Maggi M. Murtas D. Ecomusei, il progetto, Torino, IRES 2004 Maggi M. Faletti V. Gli ecomusei Cosa sono, cosa potrebbero diventare, Ires Piemonte, 2000 Mazzoni M. Linee guida per la progettazione e gestione di zone umide artificiali per la depurazione dei reflui civili, Firenze, Litografia I.P. 2005 Piva E. Scortegagna S. I boschi del Delta del Po, Guida alle vegetazioni legnose del Parco, Porto Viro, Tipografia Astolfi, 2005 54 Rallo G. Pandolfi M. Le zone Umide del Veneto, Padova, Franco Muzzio Editore, 1988 Rivière G.H. The Ecomuseum - an evolutive definition, Museum International ed. 1985 Servizio Forestale Regionale per le province di Padova e Rovigo, Il Giardino Botanico Litoraneo del Veneto, Padova, Flash srl, 2003 Tieto P. I casoni veneti, Padova, Panda Edizioni, 1979 Tocchetto D. Lajo M. Tecnologie applicate Fitodepurazione: applicazioni e vantaggi , L’Ambiente, 1 ottobre 2007 Touring Club Italiano, Parco del Delta del Po, Birdwatching e percorsi naturalistici, Milano, Touring Editore srl, 2006 Verza E., Quaderno faunistico della provincia di Rovigo, Provincia di Rovigo, Assessorato alle Risorse Faunistiche e Asessorato al Turismo, Rovigo, Europrint srl, 2008 Villani N. Quella bambina sono io Carlino Rovigo, anno 103 numero 181, 19 luglio 1988 Zunica M. Il Delta del Po Terra e gente aldilà dei monti di sabbia, Milano, Rusconi Libri spa, 1984 www.artecambiente.it www.bioarchitettura.it www.castelsardo-info.it www.consorziodibonificaadige-bacchiglione.it www.corsotoscanaecomusei.txt www.ebnitalia.it www.istitutoveneto.it www.lamiapesca.com www.osservatorioecomusei.net www.parcodeltapo.org www.regione.piemonte.it www.smppolesine.it 55 6. RINGRAZIAMENTI Desidero ringraziare le numerose persone che mi hanno dato un prezioso contributo per la realizzazione di questa tesi: - la famiglia Depiccoli, la Sig.ra Stefania Schenato titolare del Rifugio Parco Delta del Po, la Cooperativa Pescatori Delta Padano e coloro che un tempo vivevano con la raccolta delle canne i Signori Giuliano Pezzolato, Cesellato Maurizio e Ascari Dino, per la loro indispensabile collaborazione alla realizzazione del progetto ecomuseale - per le preziosissime consulenze in merito alla bioarchitettura il Sig. Luca Giordano e alla fitodepurazione il Sig. Davide Tocchetto, temi poco conosciuti dal grande pubblico e di non facile comprensione - grazie al Sig. Danilo Trombin, amico e naturalista di grande spessore culturale, per avermi insegnato gran parte di quello che oggi so sul del Delta del Po e per avermi trasmesso l’amore per questo territorio - ringrazio il Sig. Giovanni Marangoni per avermi donato le foto dei casoni, immagini ormai rare, con cui ho potuto illustrare nel dettaglio queste antiche dimore del Delta del Po e un ringraziamento speciale per le bellissime foto, scattate appositamente per questo progetto, al Sig. Rino Dissette, grande amico di famiglia che con grande pazienza mi ha seguito in questo percorso - il Sig. Ezio Rosa titolare della ditta Lacep snc di S. Savino, Magione (Pg), per le sue utilissime e dettagliate spiegazioni in merito alle varie e possibili costruzioni in Canna palustre - ringrazio infine per il supporto e l’aiuto tecnico la Sig. Chiara Sfriso, la Sig.na Esther Ferrari, l’Ing. Marco Ferro, il Prof. Lorenzo Santaterra e la Pro Loco di Porto Tolle. 56