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Dipinti dell`Ottocento e del primo Novecento

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Dipinti dell`Ottocento e del primo Novecento
Dipinti dell’Ottocento
e del primo Novecento
a cura di
Marco Bertoli
dal 19 novembre al 19 dicembre 2010
Palazzo Cremonini
Modena
Note font: Goudy Old Syle
Che cos’è davvero l’Arte?
Anche se ogni persona potrà sempre dare la propria interpretazione, emozionale o logica, inquietante
o serena, concettuale o realista, astratta o figurativa, resta il fatto che senza di essa perderemmo la
possibilità di cogliere quello che vedevano e provavano gli artisti, le loro emozioni ed i loro sentimenti
e quello che inconsapevolmente ci hanno lasciato … attimi di pura bellezza.
Quando l’apporto di un pensiero profondo, di un’illuminazione, trascende il semplice lato estetico
dell’opera d’arte, prende corpo un inestimabile e insostituibile valore, che ci permette di arricchire
le nostre vite.
Marco Bertoli
Dipinti
Giovanni Boldini
Ferrara 1842 - Parigi 1931
Volto di bimbo
olio su tela, cm. 26,3 x 24,5
Firmato in basso a sinistra
Sul retro: cartiglio “The New York Cultural Center, 2 Columbus Circle, New York 10019”
Esposizioni: Ninetheen century italian painting, New York, 1972;
The Artworks Collected by Arturo Toscanini, Parma-Livorno, 2007
Bibliografia: Ninetheen century italian painting, New York, 1972, p. 57, n. 9;
The Artworks Collected by Arturo Toscanini, a cura di R. Miracco, Parma, Palazzo Bossi Bocchi,
15 aprile-10 giugno 2007, Livorno, Teatro Goldoni, settembre-novembre 2007, Milano, 2007, pp. 77, 123;
Toscanini fra note e colore. Collezione Toscanini, catalogo dei dipinti e delle sculture, a cura di E. Palminteri Matteucci,
Milano, Fondazione Biblioteca di via Senato, 31 marzo-7 ottobre 2007, Milano, 2007, p. 127, n. 20
6
Il dipinto faceva parte della collezione di Arturo Toscanini
che, secondo le recenti ricerche documentarie, era composta da oltre centocinquanta opere, tra dipinti e sculture
d’illustri artisti italiani e stranieri, raccolte dal Maestro nel
corso degli anni. L’amico Vittore Grubicy De Dragon,
mercante, pittore e critico d’arte, era riuscito ad affinare la
sensibilità collezionistica di Toscanini verso le correnti più
all’“avanguardia” della seconda metà dell’Ottocento: dalla
scuola dei Macchiaioli, al Divisionismo, dalla Scapigliatura alla scuola di Posillipo.
“La musica e la pittura sono sorelle e, direi, anche sorelle
gemelle [...] la mia stessa bacchetta è un allegorico pennello
che rotea nell’aria ed esprime quei colori che l’esecuzione tradurrà in suoni”, scriveva nel 1931 Toscanini e d’altra parte,
il quadro stesso suggeriva al Maestro uno stato d’animo,
un sentimento, una musica, una sinfonia. In questo piccolo
dipinto, il pennello di Boldini, allora impiegato soprattutto per ritrarre la flessuosa femminilità delle dame del bel
mondo, si piega a tenerezze impreviste, dove l’incisività
critica del segno si stempera in una descrizione minuta ed
affettuosa, perdendosi nella serica lucentezza di una chioma o nell’incarnato del bimbo paffuto, nella descrizione
attenta dell’intimità di un gesto privato, divenuto centro
dell’universo visivo dell’artista. Sul foglio, contrassegnato
sullo sfondo dalla quadrettatura, il pennello del pittore si
concentra nella rappresentazione naturalistica del volto
del bimbo, insistendo sul roseo incarnato, sui capelli, sullo
sguardo intenso rivolto alla persona cara.
Il resto della raffigurazione appare velocemente abbozzata,
con veloci tratti che delineano un braccio che trattiene il
bambino che viene imboccato con un cucchiaio. Su questo versante più soggettivo, il pittore ferrarese si abbandona volentieri ad una maggiore libertà espressiva, sintetica,
ma penetrante, capace di cogliere le variazioni minime
del sentimento.
7
Evaristo CappElli
Formigine 1868 - Modena 1951
Mercato in Piazza Grande a Modena
tempera su carta applicata su tela, cm. 170 x 62,5
Firmato in basso a destra
8
I temi agresti del lavoro nei campi e gli angoli della città di
Modena, la veduta della Torre dell’Orologio, i mercatini,
la piazzetta delle Ova, la piazza Grande con le bancarelle,
costituiscono la grande fonte di ispirazione per la pittura
del Cappelli.
“Il suo pennello accentua, sembra anzi imprimersi su alcune
immagini e lascia pause misteriose negli sfondi, risolve dimensioni volumetriche e spaziali in un apparente abbozzo
che si dispiega in un’armonia a distanza, accentua i punti focali in un contesto abbandonato all’immaginazione”
(L. Frigieri Leonelli, Pittori modenesi dell’Ottocento, Modena, 1986, p. 247).
La veduta urbana della piazza principale della città di Modena, protagonista anche del vivacissimo “Mercato in piazza Grande” del 1930, conservato nel Museo Civico locale,
è realizzata attraverso la scomposizione del segno e accesa
dai riflessi di pennellate rapide ed incisive, che vivificano il
mercato in primo piano, dove brevi tratti di verde, di azzurro e di ocra animano la veduta, restituendo la vitalità
della folla raccolta all’ombra dei tendoni delle bancarelle
del mercato.
Memore della lezione del Graziosi, che aveva trovato a
Modena altri esponenti del filone post impressionista in
Giovanni Forghieri, Casimiro Jodi e nel giovane Mario
Vellani Marchi, il pittore mostra un linguaggio sintetico ed
abbreviato, una pittura spoglia ed essenziale nella trattazione degli elementi tratti dal vero, una pennellata mobile
e sciolta, che accenna più che definire l’immagine, che si
chiude sullo sfondo con la mole del Palazzo Comunale.
La facciata del seicentesco Palazzo, che aveva unito gli
antichi palazzi medievali del Comune e della Ragione, si
contraddistingue per il caratteristico portico e per la Torre
dell’Orologio, che, con il suo volume, costituisce la vera
protagonista della veduta.
Utilizzando un taglio stretto e lungo infatti, il pittore sembra accentuare maggiormente la verticalità della mole della
torre, che svetta fra nuvole candide, alternate alle ampie
campiture dell’azzurro intenso del cielo.
9
Guido CasCiaro
Napoli 1900 - 1963
Il tram al Vomero
olio su tela, cm. 96 x 107
Firmato e datato in basso a sinistra Napoli, 1932
Bibliografia: III Mostra Sindacato Fascista-Belle Arti Campania-Febbraio-Marzo-1932-X, tav. 21, b.n.
10
Dopo una brillante esposizione della sua produzione nel
1929 a Roma, alla Casa d’Arte “Baldi”, tra il 1930 e il 1934
il pittore, adottando un linguaggio più autonomo e maturo, fu interprete di un’intensa rappresentazione plastica,
utilizzando una serie di tonalità terrose e sviluppando una
pittura affine all’Espressionismo tedesco. In questi anni il
pittore viene ad emanciparsi definitivamente dalla pittura del padre, esponendo al Premio Bergamo, nel 1931 alla
Quadriennale romana e alla Biennale Veneziana del 1934,
mostra che rappresentò una specie di passaggio di consegne fra il figlio e il padre, non esponendovi più, quest’ultimo, proprio a partire da questa data.
La tela si caratterizza per un linguaggio autonomo e contemporaneo, con ampie campiture di tinte piatte e con
accostamenti cromatici inaspettati, improntati su colori
freddi, che rileggono il paesaggio urbano in chiave contemporanea. La visione contemplativa del pittore si esprime nell’equilibrata soluzione pittorica, che scaturisce dal
rapporto tra i volumi dei palazzi, tanti parallelepipedi colorati, il prato verde, il grigio dell’asfalto e, prima ancora,
nell’essenziale impostazione definitiva, con un taglio allar-
gato che, parallelamente alla strada in primo piano, sviluppa la prospettica profondità del dipinto.
La veduta si caratterizza per il digradare di piani verso il
fondo, in una serie di passaggi successivi, che suddividono
il paesaggio urbano, chiuso sullo sfondo da alcune colline
grigie che si stagliano sul cielo coperto.
Un alto palazzo sulla destra, incombente come una quinta teatrale, sottolinea la modernità che avanza assieme alla
dinamicità del tram, il primo tram elettrico, il numero 7,
che cominciò ad arrampicarsi verso il Vomero nel 1899,
un’idea del progresso che avanza in cui “…si legge chiaro il messaggio artistico di Guido: l’irrefrenabile progredire
dell’arte rispetto alle sopite e sorpassate tradizioni” (Guido
Casciaro, a cura di R. Caputo, Napoli, 2006, p. 23)
11
BEppE Ciardi
Venezia 1875 - Quinto di Treviso 1932
Barca da trasporto
olio su tavola, cm. 29,5 x 39,5
Firmato in basso a sinistra
Sul retro: Firma e titolo
12
Abbandonata la lezione del padre e maestro Guglielmo
Ciardi, il pittore intraprende un’autonoma ricerca figurativa, maturata nella sperimentazione degli anni precedenti, in cui si era misurato non solo con l’evoluzione
della pittura nell’ambiente veneziano, ma anche con le
opzioni più aggiornate dell’arte, che emergevano in ambito europeo, portandolo mano a mano a riassumere al
minimo gli elementi narrativi e descrittivi, aprendo la
strada ad un approccio più sintetico al vero. La stesura
che accosta pennellate corpose e larghe a tratti nervosi,
intrisi di luce, le scelte cromatiche piuttosto omogenee
e una predilezione per le tonalità calde, adatte quindi a
restituire effetti di luce avvolgenti, caratterizzano la sua
produzione matura.
Il dipinto, che rivela sensibili analogie stilistiche con
l’opera “Il ritorno dei pescatori”, realizzata dal pittore intorno al 1920 e conservata nella Collezione della Banca
d’Intesa, è impostato sui medesimi contrasti chiaroscurali, su simili effetti di trasparenze luminose e caratterizzato
da un’analoga resa pittorica a rapidi tocchi di colore.
Il pittore costruisce un meditato, serrato impianto com-
positivo, che contribuisce alla definizione di uno spazio
in cui lo sguardo è attirato verso il fondo, seguendo la
direttrice prospettica del nastro dorato sull’acqua, il riflesso del sole rosso, velato da nuvole rosate, che sta tramontando sull’orizzonte, una linea quasi impercettibile,
che separa il cielo dallo specchio della laguna.
La scrittura pittorica è immediata nella fissazione dell’immagine con pochi elementi compositivi, la barca da trasporto in primo piano, e una più distante verso l’orizzonte, proiettano sull’acqua increspata della laguna la loro
ombra. Il soggetto diventa per il pittore quasi un pretesto
per creare una visione altamente evocativa, in grado di risvegliare toccanti reazioni attraverso una pittura pastosa,
mossa, vibrante di luce crepuscolare, in cui le atmosfere
brumose si stemperano nella luce del sole che tramonta.
Ne esce un’immagine suggestiva, lirica pervasa poeticamente da una profonda malinconia, in cui la marina si
trasfigura in un visione quasi irreale.
13
GuGliElmo Ciardi
Venezia 1842 - 1917
Il canneto (Paesaggio sul Sile) 1897 ca.
olio su tavola, cm. 25 x 35,5
Firmato in basso a destra
Sul retro: a matita Mulino del Croda
14
Dai primi anni Settanta contemporaneamente ai più noti dipinti di laguna, il pittore si dedica ai paesaggi dell’entroterra
trevigiana, descritti ed indagati in decine e decine di opere.
“…Da un lato il pittore si sente particolarmente attratto
dagli sbalzi cromatici della campagna veneta e se ne fa fedele interprete, dall’altro si immerge, a seguito delle lunghe
permanenze a Ospedaletto e a Quinto di Treviso nel contesto
della vita popolare, dedicando molte opere al lavoro e alla
vita dura dei contadini, senza tralasciare l’eco delle pause
liete, come nel caso delle celebri riprese del mercato a Badoere” (Guglielmo Ciardi, catalogo generale dei dipinti, a cura
di N. Stringa, Treviso, 2007, p. 278).
Questi anni sono caratterizzati dalla maturazione della poetica del vero, contraddistinta dalla riduzione al minimo
degli elementi narrativi e descrittivi, aprendo la strada ad
un approccio più sintetico della veduta, seppure ricco di
qualità pittoriche e di attenzione per il colore, i cui elementi compositivi si fondono in un sorprendente equilibrio
dettato dalla sicurezza nell’uso dei mezzi espressivi.
A partire dagli anni Ottanta il pittore realizza una serie di
dipinti dedicati alla pianura trevigiana, percorsa dalle chia-
re acque del Sile e ritmata dalle sagome regolari dei mulini
che sorgono lungo le rive, “… dove – secondo N. Stringa
– la frammentazione del colore e dei riverberi luminosi evidenziano una maggiore attenzione alle vibrazioni atmosferiche, in conseguenza anche di una diretta conoscenza delle
opere dell’impressionismo”.
Stilisticamente il dipinto è del tutto simile alla veduta “Paesaggio sul Sile” del 1897 (Guglielmo Ciardi …, 2007, cit.
n. 245) sia per la sapiente impaginazione prospettica, qui
leggermente spostata verso sinistra, a cui fa riscontro la
modulazione cromatica delle infinite tonalità di verdi, ripetute e amplificate dalla vasta superficie dello stagno, che
riflette la profondità del cielo.
La liquida trasparenza della luce, nella placida fermezza
dello specchio d’acqua, si insinua fra le rigogliose piante
acquatiche verso il fondo della veduta, amplificandone
lo spazio.
15
ElisEo Fausto Coppini
Milano 1870 - Buenos Aires 1945
Il parasole rosso
olio su tela, cm. 150 x 75
Firmato in basso a destra
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L’artista con una semplicità di mezzi, che in realtà dissimula una rara sapienza compositiva, riesce in questo dipinto
a creare un’ampia dilatazione dello spazio pittorico, nonostante il taglio lungo e stretto del quadro, scandendo la
profondità attraverso una serie successiva di piani prospettici, che digradano verso l’orizzonte.
L’invenzione compositiva dell’intera raffigurazione è caratterizzata dalla rappresentazione di due episodi, quasi
indipendenti, all’interno della stessa veduta.
Il pittore suddivide le due scene attraverso la scomposizione dello spazio in un primo piano, dove raffigura una
vecchia fioraia, di profilo, con uno sguardo assorto, quasi
indifferente al resto della scena, mentre dietro, una giovane
donna accovacciata, che porge un vaso alla signora con il
parasole, diventa il tramite, la figura di collegamento fra
il primo e il secondo piano. Delimitato sulla destra da una
quinta di verde, si apre, sullo sfondo della veduta, il dolcissimo paesaggio del parco, bagnato da una luce calda, che
mette in risalto il verde brillante dell’erba e delle piante e il
sentiero che collega il primo piano con lo sfondo.
L’altra invenzione compositiva è incentrata su uno straor-
dinario gioco di rimandi cromatici, dove il rosso del parasole della giovane donna al centro del dipinto, in sontuoso
abito scuro di satin, richiama la gonna della giovane, la stessa tonalità di alcuni fiori, la decorazione della veste della
vecchia, i parasoli in lontananza, dimostrando l’eccezionale capacità dell’artista di trasmutare in forma e stile motivi
compositivi e luminosi tratti dal vero.
Mentre il contrasto fra le due figure femminili in primo
piano, può avere una suggestiva chiave di lettura, interpretando le due donne come simboli della giovinezza e della vecchiaia, diventano metafora della caducità della vita,
un’interpretazione rafforzata anche dalla rappresentazione dei fiori recisi in primo piano.
17
Bruno Croatto
Trieste 1875 - Roma 1948
Natura morta con pesche
olio su tavola, cm. 84 x 73
Firmato e datato in basso a sinistra Roma, 1940
18
La qualità della luce e la straordinaria definizione dei particolari, sono gli aspetti che maggiormente sorprendono in
questa come in altre nature morte realizzate dal pittore a
partire dagli anni Venti, ad esempio in “Cedri” del 1939 e
nella “Grande natura morta” del 1943, entrambi conservati
nel Museo Revoltella di Trieste. Prima degli anni Venti il lessico artistico del pittore, che dal 1925 si era stabilito a Roma,
era vicino alla lezione impressionista e risentiva profondamente dell’influsso tedesco dell’Accademia di Belle arti di
Monaco dove si era formato nel 1892.
Precursore del lessico iperrealista “… il Croatto appare maestro di sincerità anche nel rapporto immediato che è tra la sua
struttura sentimentale e mentale e l’arte sua. C’è in ogni sua
opera quell’esprimersi a tratti chiari e sommari quel parlare
lucido e conciso e soprattutto quella sua istintiva adozione in
chiave armonica nel tono generale del taglio” (A. Colantuoni,
Bruno Croatto pittore acquafortista, Roma, 1949, s.p.).
La pittura è fatta di forme nitide e colori splendenti, con uno
sguardo da una parte al Novecento italiano e dall’altra alle
nature morte del Seicento olandese, soprattutto per quel gusto del particolare reso con una meticolosità analitica.
La composizione apparentemente casuale, ma in realtà sapientemente equilibrata, mescola elementi naturali, come
le pesche, accostati ad un piatto di vetro e un vaso di ceramica sullo sfondo di un drappeggiato e morbido broccato
dai serici riflessi. La natura morta viene illuminata da una
luce in alto a sinistra che, investendo gli oggetti, in un gioco di chiaroscuri, attraverso lo studio sapiente delle ombre,
determina l’amplificarsi della volumetria soprattutto delle
pesche, che assumono una consistenza quasi fisica. Il pittore concentra la sua attenzione sui diversi materiali, impegnando tutta la sua maestria tecnica nel rappresentare la
superficie degli oggetti; così sembra riuscire a riprodurre
la sensazione tattile del broccato e della peluria delle pesche o i magici riflessi di luce del vaso di vetro e del piatto
sullo sfondo. Tutto è forma e colore, in un accordo di toni
cromatici intensi, gioiosi e squillanti, quasi permeati da
un’immateriale soluzione cristallina.
19
EuGEnio dE Blaas
Albano Laziale 1845 - Venezia 1931
La velata
olio su tavola cm. 28,5 x 18,6
Firmato e datato sul lato sinistro 1882
20
Presente alle mostre dell’Accademia fin dal 1860, già alla
metà degli anni Sessanta il pittore maturò un progressivo
interesse per le tematiche del “vero”, incentrate sulla pittura
di genere, legata alla dimensione popolare di Venezia, letta
attraverso tematiche accattivanti, “… nelle quali l’immagine femminile è protagonista di una stagione di spensierata
giovinezza” (La pittura nel Veneto. L’Ottocento, a cura di
G. Pavanello, Martellago (VE), 2003, vol. II, p. 651).
A questa produzione il pittore affiancò la ritrattistica, rivelandosi un autore elegante e raffinato, soprattutto ne
“Il ritratto della duchessa Ersilia Canevaro” realizzato dal
De Blaas nel 1881, ora conservato al Museo Civico Revoltella di Trieste, che lo colloca nell’alveo dello stile “internazionale”.
Solamente l’anno successivo, nel 1882, realizza questo dipinto, in cui l’artista sembra rivelare una pittura diversa da
quella ufficiale, più libera e moderna, esempio di un linguaggio più dinamico e sintetico, in cui le pennellate si fanno più
veloci e delicate, mentre la figura femminile è priva di quella
solennità che caratterizza tanti suoi ritratti, svelando un approccio del pittore verso il soggetto, più intimo e profondo.
La tavola costituisce un delizioso frammento nel quale l’artista propone, lontano dalla formalità delle regole del dipinto ufficiale, un’abilità cromatica fresca, tutta giocata su
tonalità fredde unita ad una matura capacità introspettiva.
Il pittore utilizza poche semplici tinte, il grigio azzurrato
dello sfondo, dato a larghe e veloci pennellate, pone in risalto il profilo della giovane donna, dal delicato incarnato
e dallo sguardo abbassato, quasi pudico, sottolineato anche
dal lieve rossore delle gote.
Lo stesso rosso più acceso ed intenso che il pittore utilizza
per le labbra, che contrasta con il nero dei capelli, dai serici
riflessi, raccolti e coperti da un delicatissimo velo bianco
ricamato, che le scende sulle spalle sfumandosi e perdendo
consistenza verso i margini della tavoletta.
La ricerca introspettiva fa emergere l’aspetto più meditativo e quasi sensuale, allontanando il pittore non solo dai ritratti tradizionali, ma anche dal quel realismo aneddotico
di molta pittura veneziana.
21
GiusEppE dE nittis
Barletta 1846 - Saint German 1884
Figura di donna
olio su tavola, cm. 15,8 x 8,7
Firmato e dedicato in alto a sinistra Brandon - De Nittis
22
La tavoletta, realizzata probabilmente, secondo Christine
Farese Sperken, durante il primo soggiorno parigino di De
Nittis, dall’agosto al settembre 1867, è dedicata al pittore
Edouard Brandon. Jacques Emile Edouard Brandon (Parigi, 1831 – 1897), era un pittore di scene storiche, paesaggi,
scene di genere e di carattere religioso. Amico di Camille Corot ed Edgar Degas, espose assieme a De Nittis alla
prima e molto controversa mostra impressionista del 1874
(Le Salon des Refusés). Brandon iniziò la sua carriera con
scene religiose ispirate al cristianesimo, prima di passare,
dal 1860, ad argomenti ebraici. Il pittore francese fu amico e frequentatore dell’artista Giuseppe De Nittis, come
testimoniano diverse lettere tra cui quella del pittore pugliese all’amico Adriano Cecioni del 5 agosto del 1867
da Parigi, in cui De Nittis racconta il primo incontro con
Brandon descrivendolo come “… un artista molto in voga
oggi” ed ancora “… il Brandon mi fece mille flatteries e si
pigliò l’interesse d’invitare Goupil e darmi la vendita (di
alcuni dipinti) come fatta quasi”. (P. Dini, G. L. Marini,
De Nittis, La vita, i documenti, le opere dipinte, Torino,
1990, p. 248). In una lettera di De Nittis al Cecioni, di
alcune settimane successive, datata sempre agosto 1867,
il pittore fa riferimento alla celeberrima tavoletta “Marina
grigia”, altrimenti denominata “Posillipo”, definendola un
“… piccolo Posillipo lungo poco più di un palmo”, che, dopo
essere stata mostrata a Meisonier, dal resto della lettera, si
deduce che venne in seguito donata dal pittore a Brandon
(ibidem).
La tavoletta esposta viene messa in relazione dalla professoressa Farese Sperken con il “Ritratto di Adriano Cecioni” di una collezione privata di Milano, realizzato “… con
ogni probabilità, nel 1867 e concepito con lo stesso spirito di
semplicità ed essenzialità”.
Una semplificazione formale e cromatica che caratterizza
la stesura piatta dello sfondo della piccola tavoletta, realizzato con magre pennellate di colore caldo e terroso, che
contrasta con la nitidezza della forma sinuosa della figura,
le pieghe precise dell’abito, le ombre che danno corposità e
distacco. Risalta una figura di giovane donna caratterizzata
da abito, cappello e ombrello di color nero, il cui portamento altezzoso e fiero dell’esile figura rigida e impettita, con la mano appoggiata sulla vita sottile, ben si adatta
all’espressione del volto, con le labbra serrate, lo sguardo
fisso, diretto e quasi distaccato verso lo spettatore.
23
sEraFino dE tivoli
Livorno 1826 - Firenze 1892
Barca sulla riva della Senna
olio su tavola, cm. 15,8 x 23,8
Firmato in basso a destra
Sul retro: Cartiglio con autentica da testamento della nipote del pittore,
Bianca Castelnuovo, in data 1 settembre 1920
Esposizioni: Mostra di opere pittoriche dei Grandi Maestri dell’Ottocento,
Galleria d’Arte Sant’Ambrogio, Milano, 7- 30 aprile 1970, n. 17
Bibliografia: I Macchiaioli nella cultura europea dell’Ottocento, a cura di P. Nicholls, Firenze,
Palazzo Ridolfi, 21 settembre-11 ottobre 1987, Milano, 1987, pp. 21, 22
24
Il dipinto originariamente era intitolato “Barche al pontile
sulla Senna”, titolo che recava al verso e che mantenne fino
al 1920, secondo una testimonianza scritta contemporanea, come riporta anche il catalogo dell’esposizione a Milano del 1970 (cit., n. 18, tav. IX). La veduta, come sostiene Paul Nicholls, “... è del tipo ricorrente nelle opere degli
Impressionisti, ma i colori sono ancora legati alla pittura
della Scuola di Barbizon, che De Tivoli conosceva fin dalla
sua prima visita a Parigi nel 1855” (I Macchiaioli nella
cultura europea dell’Ottocento, cit., p. 21). Nel 1855, durante il primo soggiorno del pittore nella capitale francese,
con l’amico Altamura, - sarà nuovamente a Parigi dal 1873
al 1890, dove parteciperà al Salon del 1880 - ha modo di
visitare la “Terza Esposizione Internazionale” e gli studi
di Décamps, Troyon e di Rosa Bonheur. L’Esposizione
parigina fu un avvenimento di straordinaria importanza,
che rivelò per la prima volta, con sufficiente completezza,
quale fosse il panorama artistico europeo contemporaneo,
ma più dei sorprendenti dipinti di Courbet, raccolti nel
celebre Pavillon du Realisme, furono le opere dei paesaggisti di Barbizon che attrassero maggiormente gli artisti
italiani. La tipologia del taglio della veduta e il linguaggio
pittorico di De Tivoli richiamano il lessico impressionista,
a cui il pittore si era avvicinato, come testimoniano quattro
piccole vedute francesi pubblicate dal Matteucci, nel 1984
(The Macchiaioli. Tiscan painters of the sunlight, a cura
di G. Matteucci, New York, 14 marzo – 20 aprile 1984,
tavv. 18 – 21) e altre due rese note dal Borgiotti nell’esposizione del 1963 a New York (The Macchiaioli. The first
Europeans in Tuscany, a cura di E. Cecchi, M. Borgiotti,
E. Piceni, New York, Seattle … San Francisco, sett. 1963
– ott. 1964, pp. 128, 129, 132, 133). La tavoletta si caratterizza per lo studio della luce e del colore, dei riflessi
sull’acqua, che, attraverso i toni e la materia stessa, che si
va facendo qua e là più densa, tende a distinguere le varie
superfici, nel contrappuntistico gioco della luce e dell’ombra. In questa accentuazione del chiaroscuro pittorico, attraverso il quale il pittore recupera la necessaria solidità e
il rilievo plastico di una visione delle cose più prossima al
reale, si abbandona alla costruzione dell’immagine pittorica realizzata per macchie di colore.
25
GErolamo induno
Milano 1825 - 1890
Il corteggiamento
olio su tela, cm. 64,5 x 86,5
Firmato e datato in basso a sinistra 1870
Sul retro: timbro della Galleria d’Arte Cerruti, Milano
26
Negli anni postunitari, dall’inizio del settimo decennio, il
pittore si cimenta nella produzione di preziose rievocazioni in costume di scene neosettecentesche, particolarmente
ricercate nell’ambito della pittura di genere, dal collezionismo e dal mercato internazionali nella seconda metà
dell’Ottocento, grazie anche all’incentivo di mercanti
importanti come Goupil e la produzione di pittori celebri
sulla scena parigina, come Meissonier, Fortuny e Boldini.
In Italia Gerolamo Induno e Mosé Bianchi sono stati i
sostenitori di questo repertorio neosettecentesco, che ha
conosciuto all’epoca grande fama, soprattutto presso il
collezionismo borghese. Abbandonando l’impegno celebrativo dei grandi quadri militari e quello sentimentale
delle scenette risorgimentali, che avevano caratterizzato la
sua stagione precedente, il pittore in questi anni si cimenta nella produzione di tele di genere, a cui si aggiungeva
anche un nuovo interesse verso il paesaggio, sfociato nella
rappresentazione di scorci di Pescarenico e vedute della
campagna lombarda.
A questi temi il pittore affianca una produzione in cui raffigura scene piacevoli e frivole, in cui il pennello indugia
nella ricchezza dei salotti settecenteschi e nelle pieghe delle
stoffe dei costumi sfarzosi.
In questo dipinto Induno, come il suo ideale pendant costituito dalla Lezione di ballo (G. Nicodemi, Domenico e
Gerolamo Induno, Milano, Editore G. G. Gorlich, 1945,
tav. 163), “... ha saputo - secondo Ferdinando Mazzocca - interpretare benissimo questo spirito, smorzandone quella che
poteva apparire come una dimensione stucchevole con una
garbata vena ironica legata alla fine osservazione del costume come delle psicologie, in una dimensione da commedia
che può assumere... accenti quasi goldoniani.
Ma quello che più conta è la maestria davvero stupefacente
del pittore che, descrivendo con minuziosa raffinatezza figure, costumi, arredi e i dettagli dell’ambiente, da prova di
sapersi misurare con i grandi campioni europei del genere e
restituire così, attraverso le seduzioni di una pittura sapientemente modulata, l’incanto di quei tempi sereni”.
27
EGisto lanCErotto
Noale 1847 - Venezia 1916
La lettrice
olio su tela, cm. 48 x 64, 5
Firmato in basso a sinistra
28
A partire dagli anni Ottanta l’artista si orientò verso la
pittura di genere ritraendo, da una parte, scene popolari,
tratte dalla realtà quotidiana della città lagunare, con una
delicata capacità di penetrare lo spirito e il costume della
gente veneta, mentre dall’altra si dedicò alla pittura d’interni, dove il tema prediletto fu senza dubbio l’immagine
femminile, che ritrasse con maliziosa dolcezza.
Il verismo aneddotico e popolare che caratterizzò gran parte della produzione artistica, si permeò spesso di una seducente vena di tardo – romanticismo, che sfociò allo scader
del secolo, in una pittura sfaldata, dalle atmosfere evanescenti e dagli esiti scapigliati. Il tema della giovane donna
che legge in un interno, uno dei più cari ai pittori del tardo
romanticismo, testimonia anche il cambiamento dei tempi
ed un rapporto diverso con l’universo maschile.
Una nuova iconografia, in cui le figure femminili non sono legate esclusivamente alle tradizionali occupazioni domestiche,
come il cucito o la cura dei bambini, ma ampliata anche ad una
sfera più intima, come può essere appunto la lettura, che meglio
consente l’inserimento in un ambito di emergente contemporaneità, e isola l’immagine in un’autonomia compositiva, che
favorisce la concentrazione sui problemi formali.
Per la sua lettrice Lancerotto sceglie un inedito formato marcatamente orizzontale, un interno in cui la figura
femminile è completamente assorta nella lettura, attività
che la lascia indifferente sia al lavoro del pittore, che allo
sguardo dello spettatore. L’artista insiste così sul raccoglimento della scena, realizzata in un interno cupo ed intimo, rischiarato da una finestra, che, unica fonte luminosa,
mostra l’abilità dell’artista nella sapiente distribuzione
della luce e delle ombre sui corpi.
La pulsante incidenza delle luci sulle superfici evidenzia alcuni oggetti della stanza, come il tavolino in primo
piano su cui è appoggiato un bicchiere d’acqua, il libro
aperto sulle ginocchia, il manicotto bianco, i serici riflessi
delle pieghe dell’abito e il grande specchio alle spalle della
giovane che, riflettendo l’immagine della stanza, sembra
moltiplicare lo spazio. L’immobilità del modello, le tonalità smorzate, appena riscaldate dalle varie sfumature del
drappo rosso, che copre la cassapanca e dal tono dall’abito
di seta turchese della giovane, creano l’atmosfera raccolta
e silenziosa di una sala d’aspetto.
29
Gaston dE latouChE
Saint Cloud 1854 - Hauts de Seine 1913
La passeggiata
olio su tavola, cm. 48 x 55
Sul retro: Firma e dedica A Marie Therese Elrotte pour ses 39 ans
30
Dagli inizi degli anni Novanta, sotto l’influenza dell’amico Felix Bracquemond, la pittura di Latouche subisce un
profondo cambiamento, che coinvolge non solo la tecnica
pittorica, ma anche i soggetti raffigurati.
Il pittore abbandona la tavolozza scura e le tematiche che
avevano caratterizzato la sua produzione giovanile, ispirati dal realismo sociale dei romanzi dell’amico Zola, per
colori chiari e tinte zuccherine, scene di ambientazione
borghese o mitologica, riprendendo soggetti cari alle opere del Settecento francese di Fragonard e Watteau. Questi
dipinti sono realizzati con una tecnica vicina al divisionismo, caratterizzata da linee brevissime e svolazzanti di
pennello, che ricompongono la complessità delle sfumature di colore. Esemplificativa di questa nuova maniera è
la tela “Peonie” esposta nel 1890 alla Société Nationale
des Beaux-Arts; il dipinto rappresenta l’inizio di un cambiamento radicale, che coinvolge la pittura di Latouche,
tanto che il pittore nel corso del 1891 distrugge, dando
alle fiamme, gran parte dei dipinti della sua precedente
produzione, appartenente alla fase socio - realista.
Nella tavola esposta, Latouche coglie il dinamismo di una
città contemporanea, frivola, densa di vita, espressa da
pennellate molteplici e sfrangiate, create dall’articolarsi di
tanti piccoli segni, virgolature, filamenti, da tocchi sapienti che accendono un’atmosfera viva, intrisa delle vibrazioni luminose della stagione primaverile.
Ardite macchie di luce che filtrano dalle fronde degli alberi, segni che si confondono e si strappano, rendendo
impossibile non essere attratti e coinvolti nel vortice che
invade lo spazio visivo, mentre una concitazione di segni,
quasi febbrile, rende illeggibili interi spezzoni del discorso
pittorico dello sfondo.
Il pennello scivola sui tessuti preziosi degli eleganti abiti
della coppia, sul candido chiffon dell’abito della dama,
che, con lo sguardo abbassato, sembra evitare la scena
che si svolge in primo piano, dove due lavoratori scavano
una buca.
Il pittore sembra accentuare il contrasto sia fra due mondi
così netti e contrapposti, da una parte l’ambiente elegante
e luminoso della borghesia e dall’altra il mondo duro dei
lavoratori, sia fra i soggetti della produzione giovanile e
quelli della più recente.
31
GioaCChino isaCCo lEvi
Busseto 1818 - 1908
Sogno d’amore
olio su tela, cm. 93 x 118
Firmato e datato in basso a sinistra 1869
32
Pur partendo da una formazione accademica, dunque classicista, una delle componenti proprie dello stile di Levi è
il realismo, che si esprime soprattutto nella ritrattistica,
denotando una grande capacità di introspezione psicologica, che costituisce l’elemento veramente moderno della
pittura dell’artista.
La sensualità della figura della giovane, abilmente espressa
con un linguaggio accademico e classicheggiante, che richiama le raffigurazioni emblematiche e un certo formalismo di carattere hayeziano, rivela una calibrata composizione, fra le ricercatezze disegnative e quelle psicologiche.
La composizione cromatica è studiata e calcolata, sempre
secondo i principi di equilibrio visivo impeccabile; ad una
estenuata dolcezza della raffinata partitura grafica, risponde una stesura cromatica sui toni dei bianchi, accesi dai rossi cangianti della coperta e dai verdi del pesante tendaggio,
che inquadrano il soggetto. La sensuale figura femminile
sembra richiamare la tradizione romantica e le note amanti
dei coevi romanzi ottocenteschi, suggerendo un confronto
non solo con la letteratura degli Scapigliati, ma anche un
riferimento ai romanzi d’appendice della produzione let-
teraria francese, da Alexandre Dumas figlio, alle eroine di
George Sand, piuttosto che di Flaubert, ma anche ai soggetti teatrali del melodramma contemporaneo.
Accanto alle scelte di carattere estetico, il pittore introduce
una certa inclinazione sentimentale e un’insistita e voyeristica resa tattile; l’atteggiamento di dolce abbandono, pare
seguire ed intrecciarsi con l’armonico fluire delle pieghe
del candido cuscino e del lenzuolo, e nell’inclinazione
pensosa del volto noncurante della veste che scivola, lasciando scoperto il delicato e sensuale pallore delle diafane
carni, delle spalle e del seno. L’intensità dello sguardo nel
ricordo dell’amato, si concentra verso il ritratto che la giovane regge con la mano destra, una miniatura racchiusa in
un medaglione decorato, allora spesso donata come pegno
d’amore.
La stessa luce della mattina si insinua timidamente sulla
scena, posandosi sul volto assorto, sui capelli sciolti, mentre i chiaroscuri si concentrano nel primo piano del dipinto, in quella zona che fa da confine fra l’intimità del letto e
il resto della camera.
33
antonio manCini
Albano Laziale 1852 - Roma 1930
Sorriso
olio su tela, cm. 70 x 60
Firmato in basso a sinistra
Sul retro: Cartiglio della “Mondial Gallery Milano, novembre - dicembre 1971”
e timbro del “Centro Espositivo Permanente. Dipinti dell’800 e del 900. Treviso”
Bibliografia: La Fiamma, 12 settembre 1920, numero consacrato alla gloria di Antonio Mancini;
XII Biennale d’Arte della città di Venezia 1920, p. 77, n. 17; G. Guida, Antonio Mancini, Roma, 1952, S.I.P.;
Mancini, a cura di A. Schettini, Napoli, 1953, tav. LXVII
34
Il ritratto, realizzato dal pittore nel 1919, ed esposto alla
XII Biennale di Venezia nel 1920, colpisce per il singolare contrasto tra l’incarnato del viso ben definito e il progressivo sfumare dei contorni del corpo, con i capelli che
svaniscono sullo sfondo e l’abito, costituito da una grande massa nera, i cui bordi arrivano quasi a dissolversi. Dal
1912 al 1918 il Mancini lavora quasi esclusivamente per
Du Chenè, l’industriale di origini francesi, che divenne
l’ultimo vero e importante mecenate del pittore. In questi
anni anche i soggetti dei dipinti del Mancini sono mutati,
agli scugnizzi napoletani e al tumulto della città di Napoli, si sostituiscono i salotti borghesi di gusto umbertino.
Questi ritratti, che raffigurano personaggi appartenenti
alla ricca borghesia, di nuovo prestigio economico e sociale, di recente affermazione mondana, si caratterizzano per
l’utilizzo del nero pece, non solo negli sfondi, che poneva
in risalto visi e sguardi fortemente espressivi.
Pur nella delicatezza della modulazione dei toni caldi e terrosi, su uno sfondo scuro, in primissimo piano ravvicinato,
di forte intensità espressiva, si staglia una figura femminile
che rivolge al pittore e allo spettatore uno sguardo enigma-
tico e penetrante. Il pittore si concentra nella descrizione
del volto, dall’espressione ambigua e misteriosa, che risalta
attraverso il contrasto chiaroscurale, tra la luce che colpisce
il chiaro incarnato e mette in risalto il nitore dei guanti e
le decorazioni del colletto, mentre nello sfondo terroso lo
spazio è abolito da pennellate scarse di materia pittorica,
che lasciano intravvedere la trama della tela.
Il resto del dipinto si caratterizza per la massa di pigmenti,
densa, formata da uno spessore di strati sovrapposti, contraddistinta da voluminose e pesanti pennellate di “materialità lucente”. “Nel Mancini - ricorda Alferdo Schettini
- è soltanto la visione realistica sempre più chiara e vibrante,
che tende ad abolire le ombre e a intensificare le proprie qualità plastiche e tonali, portandole a un grado di straordinaria
energia e concretezza pittorica” (Antonio Mancini, a cura di
A. Schettini, Napoli, 1953, p. 184).
35
raymond pErry rodGErs nEilson
New York 1881 - 1964
La collana di ambra
olio su tela, cm. 114, 5 x 81,5
Firmato e datato in basso a sinistra 1927
Sul retro: Cartiglio del “The Minneapolis Istitute of Arts” e “Malcolm Vallance, Works of Arts”
36
Raymond Perry Rodgers Neilson, come altri artisti americani contemporanei, tra cui Hassam, Glackens e Prendergast, pur rappresentando la corrente accademica dell’arte
americana, seppe tuttavia modulare il lessico delle avanguardie europee, che aveva conosciuto durate gli anni parigini, attraverso la mediazione dell’ “… idioma nativo”
appreso all’Art Students’ League e al Museum of Fine Arts
School di Boston (Raymond Perry Rodgers Neilson, a cura
di R. Kommel, Triton Press, New York, s.d.).
Nella sua opera di ritrattista, il pittore divenne il riflesso
della vita politica e dei cambiamenti dell’alta società e della
borghesia americana; i personaggi raffigurati, che si distinguono per l’affermazione mondana, il prestigio economico
o sociale, diventano non solo specchio veridico del gusto
del momento, ma documenti, testimonianze di un’epoca
essi stessi.
Il ritratto ci rivela, la penetrazione e l’originalità della visione del pittore, del taglio, dell’inquadratura leggermente dall’alto e l’efficacia della sua tecnica nell’immediato
contatto con la realtà, attraverso un sapiente gioco di luci
ed ombre. Un’immediatezza che la disinvolta ed elegante
debuttante ha fatto propria, rivolgendo al pittore e allo
spettatore uno sguardo diretto, franco, un sorriso insieme
amichevole e distaccato. Pur nella delicatezza della modulazione dei toni perlacei e dei bianchi, il Neilson riesce a
restituire tutto il vigore caratteriale e la freschezza della
giovane fanciulla che risalta, in un primo piano ravvicinato, colpita da una sciabolata di luce, sul fondo scuro quasi
indistinto, animato dalle figure evanescenti di un dipinto
appeso. Le labbra sono di un rosso acceso, l’incarnato del
volto è incorniciato da piccoli ricci scuri e da lunghi pendenti, la pelle candida risalta sull’abito bianco, mentre la
lunga collana di ambra, con la quale sembra giocare, sottolinea una sensualità maliziosamente provocante.
La giovane, rappresentante dell’ambiente della ricca borghesia americana, sembra colta in un attimo di riposo, i
guanti bianchi abbandonati sullo schienale della poltrona,
eroina e protagonista di quel mondo fatto di feste sontuose, di musica e trasgressioni, che in quegli anni divennero scenario del romanzo di Scott Fitzgerald “Il grande
Gatsby”, pubblicato nel 1925, ultimi barlumi di un mondo
che troverà il proprio destino da lì a pochi anni, con la crisi
finanziaria del 1929.
37
Filippo palizzi
Vasto 1818 - Napoli 1899
La caccia
olio su tela, cm 94,5 x 132,5
Firmato e datato in basso a destra 1847
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Il tema più volte affrontato dal pittore nella sua produzione giovanile, ne è un esempio il dipinto “Famiglia reale
di Napoli a caccia”, conservato a Firenze nella Galleria di
Palazzo Pitti, può trovare senza dubbio il raffronto più calzante con l’immagine dell’opera “Caccia alla Volpe”, della
collezione Marzotto a Valdagno, realizzata dal pittore pochi anni dopo il nostro dipinto, nel 1850, in cui il pittore
“… appare già assoluto padrone dei suoi mezzi espressivi …”
(P. Ricci, I fratelli Palizzi, Milano, 1960, tav. 7).
L’opera che appartiene alla fase giovanile dell’artista, realizzata a due anni di distanza dalla memorabile esposizione del 1845, nella quale aveva esordito assieme al fratello
Giuseppe, a Morelli e agli amici Altamura e Celentano, si
caratterizza per il determinante apporto del realismo, nella
resa particolareggiata e meticolosa dei dettagli naturalistici.
Nella pittura di Filippo Palizzi si compongono “… il verismo di natura e il realismo pittorico, chiaroscuro napoletano, un certo sentimento biblico e georgico della plasticità animale …” (I Fratelli Palizzi, a cura di A, Ricciardi,
Vasto, Palazzo d’Avalos, 8 luglio – 5 settembre 1989, Firenze,
1989, p. 15).
I cacciatori che si riposano durante una battuta di caccia
alla volpe, accompagnati dai loro cani e dai cavalli, sono
descritti in modo preciso e minuzioso, le giacche rosse
impeccabili, le tube, gli stivali scintillanti, in un paesaggio
suggestivo e lirico, immersi in un’aria tersa, ricca di vibrazioni luminose. Il caratteristico atteggiamento di fedeltà
nei confronti della realtà, porta il pittore a ritrarre con
scrupoloso zelo gli elementi naturali; la resa precisa e veritiera del terreno erboso, delle fronde degli alberi, e soprattutto la resa calligrafica e particolareggiata degli animali, ai
quali il pittore abruzzese aveva dedicato numerosi studi e
dipinti, puntuali ed acutissimi.
Una tematica, quella “animalista”, eletta da Palizzi, fin dagli
esordi, come fonte di ispirazione della sua poetica naturalista e antiaccademica. Nella tela in esame, la propensione
palizziana ad un’integrale rappresentazione del vero, porta l’artista ad unire alla resa analitica della composizione,
risolta mediante l’uso di una pennellata sciolta e veloce,
l’indagine luministica più attenta.
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alBErto pasini
Busseto 1826 - Cavoretto 1899
Il raduno della mandria
olio su tavola, cm. 23 x 39
Firmato e datato in basso a sinistra 1865
Bibliografia: Ottocento, catalogo d’Arte italiana dell’Ottocento,
n. 36, Milano, 2007, tav. a colori
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Nel 1855 Pasini venne aggregato, nella qualità di disegnatore, alla missione diplomatica che, agli ordini del ministro
francese Prosper Bourée, si spostò dalla Persia all’Arabia,
dall’Egitto, fino alla Siria e alla Turchia. In una serie di
taccuini il pittore riversò le sue vive impressioni e l’amore
per l’Oriente, di cui rimase affascinato, e da questi l’artista,
al suo ritorno, trasse uno straordinario numero di dipinti. L’immenso patrimonio di memorie diede vita nelle sue
opere ai piccoli caffè persiani sotto gli alberi, alle cavalcate sfrenate, alle cacce al falco, alle lunghe carovane; tutto
questo si innestò su un a precoce sensibilità per il taglio en
plein air, mai banale o oleografico, decantato da qualsiasi vezzo pittoresco. Fondamentali per lo sviluppo del linguaggio pittorico dell’artista, furono non solo l’esperienza
parigina e l’incontro con il maestro Théodore Chassériau,
ma anche la formazione del pittore a Fontainebleau, che
lo portò ad un’attenzione specifica per la complessità delle
architetture, dei decori dei costumi, avvicinati con la meticolosità analitica del documento di studio quasi antropologico, con lame di luce che tagliano strategicamente i
dipinti, evidenziando l’animato. Il pittore osservò con gli
occhi curiosi del viaggiatore una realtà così diversa; appuntò, schizzò, tracciò con una pennellata precisa e puntuale il paesaggio e le usanze di paesi di grande fascino:
“… in Oriente, tutto è talmente grigio ed arido, in particolare in Persia e in Asia Minore, dove qui e là c’è un po’
di vegetazione brilla di un chiarore che noi non possiamo
immaginare in Europa …” (lettera di Pasini del 1863 a
Biscarra).
In questa veduta il pittore coglie la rapidità e il movimento del turbinio dei cavalieri che, in maniera disordinata,
fra la sabbia del deserto sollevata, cercano di radunare la
mandria; è con questa immediatezza che l’artista traduce, in quelle sue abbrevianti impressioni, la realtà esotica
con i suoi colori, facendone un’immagine viva, palpitante,
poetico frammento d’una più ampia ed esotica bellezza. Il
pittore è attratto dal movimento degli animali, dagli spari di fucili a polvere, dai cavalieri arabi a briglia sciolta sui
loro focosi destrieri, dagli stendardi colorati, mentre il paesaggio è relegato sullo sfondo con poche pennellate che
descrivono sulla destra del dipinto, fra le tende, le palme
di un’oasi.
41
salvatorE postiGlionE
Napoli 1861 - 1906
La venditrice di profumi
olio su tela, cm. 41 x 33,5
Firmato in basso a sinistra
42
Il dipinto esprime tutta la passione dell’artista per una
pittura sempre caratterizzata da una grande potenza di
disegno e di colore, che si esprime sia nella raffigurazione
di scene dal carattere storico o religioso, sia negli interni
popolari o nei luminosi paesaggi campestri, ma soprattutto nella visione che trae ispirazione da scene e personaggi
della vita quotidiana della sua amata Napoli, in cui esprime
tutta la sua anima partenopea.
Postiglione affida a tagli molto particolari e dettati dalla
frequentazione diretta di alcune zone di Napoli, le sue
vedute della città, in cui il riferimento al monumento architettonico o alla veduta urbana, passa in secondo piano
rispetto all’elemento dinamico, costituito dalla vita dei
quartieri, dei mercati, dei vicoli, che fanno da sfondo a ritratti di giovani ed aggraziate figure femminili, dolci e vigorose allo stesso tempo.
In queste scene il pittore sembra utilizzare magici colori,
luci abbaglianti e riflessi iridati illuminati “… dagli antichi
bagliori rinascimentali, barocchi, luministici - attraverso i
quali - l’unità cromatica del Postiglione si modula con grazia
di colore e di forma, mai sfiorata da compiacenti allocuzio-
ni, o da calligrafici arabeschi declamatori” (Don Riccardo,
Artecatalogo dell’Ottocento Vesuvio dei pittori napoletani,
Roma, 1973, p. 190).
L’artista si affida al colore della tela che usa come sfondo,
che anima con toni vivaci, sapientemente accostati tra loro
attraverso veloci pennellate, impregnate di luce e di colore,
per fissare un momento, uno sguardo, l’istantanea del sorriso di questa giovane figura femminile.
L’accentuazione cromatica è tutta giocata su diversi toni,
dai bagliori argentei dell’edicola, stesi a leggere pennellate,
agli azzurri dell’abito e dello scialle, dal grigio della strada,
ai fiori che, “... quasi sempre immancabili, sembrano allietare di fragranza le dolci sembianze di una tipica bellezza,
appaiono soffusi di delicatezza corallina, quasi perlacea”
(Ibidem).
Lo sfondo scuro del vicolo fa da contrappunto ai bagliori
argentei del primo piano, mentre la figura dei venditori, riassorbita da un puro concepimento a macchia che la pone
nell’anonimato, vale a segnalare la costante presenza della
vitalità della città.
43
GaEtano prEviati
Ferrara 1852 - Lavagna 1920
Le muse
olio su tela, cm. 33 x 92
Sul retro: cartiglio “The New York Cultural Center, 2 Columbus Circle, New York 10019”
Esposizioni: Milano, 1922, p. 14, n. 23; Ninetheen century italian painting, New York, 1972;
Italian Paintings 1850-1910, Williamstown, MA, 1982;
The Artworks Collected by Arturo Toscanini, Parma-Livorno, 2007
Bibliografia: A. Lualdi, Arturo Toscanini, un uomo, in “La Lettura”, a. XX, n. 11, 1 novembre, pp. 787-793;
Ninetheen century italian painting, New York, 1972, p. 100, n. 47;
The Artworks Collected by Arturo Toscanini, a cura di R. Miracco, Parma, Palazzo Bossi Bocchi,
15 aprile-10 giugno 2007, Livorno, Teatro Goldoni, settembre-novembre 2007, Milano, 2007, pp. 82-83, 125, n. 24 ;
Toscanini fra note e colore. Collezione Toscanini, catalogo dei dipinti e delle sculture, a cura di E. Palminteri
Matteucci, Milano, Fondazione Biblioteca di via Senato, 31 marzo-7 ottobre 2007, Milano, 2007, p. 144, n. 131
44
Il dipinto, erroneamente pubblicato sul testo di Miracco
con il titolo “Allegoria della musica”, appare per la prima
volta citato in un articolo di Adriano Lualdi nel novembre
del 1920, in cui l’autore dava ampio spazio alla personalità e soprattutto alla raccolta artistica di Toscanini, di cui
quest’opera, che raffigura le nove muse della mitologia greca, faceva parte.
L’autore cercava di tracciare un ritratto del Maestro, al di là
del suo carattere intemperante o del profilo professionale,
cercando di esplorare gli interessi più intimi e le passioni
di Toscanini, che si esprimevano soprattutto nella sua vasta raccolta d’arte, costituita da numerosi ed importanti
pezzi riuniti attraverso il rilevante contributo e consiglio
dell’amico e pittore Vittore De Gubricy.
Dopo aver analizzato alcuni dipinti della collezione del
Maestro, particolare rilievo veniva dato a quest’opera di
Previati, al quale Toscanini sembrava molto attaccato:
“Io l’ho trovato più volte, nel suo appartamento così ricco di
opere d’arte, a meditare estatico davanti a un bellissimo e
grande bozzetto del Previati “Le muse”. Il dipinto era nella
minore sala da pranzo e mutava continuamente posizione.
In terra, appoggiato al pianoforte, o sopra il pianoforte [...]
E Toscanini se la godeva, e assaporava i toni freddi degli
alberi di sfondo e del cielo, e gustava la disposizione delle
figure e i loro atteggiamenti e il loro ritmo - due, due, due,
tre - e ricordava le teorie di Leonardo da Vinci e i suoi insegnamenti, e i suoi appassionati confronti fra la pittura e
le altre arti; e sviscerava il significato del quadro e ne traeva
fuori tutto il sentimento - così come avrebbe potuto fare di
una pagina di musica”.
45
ruBEns santoro
Mongrassano 1859 - Napoli 1942
Venezia
olio su tela, cm. 49,3 x 36,5
Firmato in basso a sinistra
Bibliografia: Ottocento, Catalogo dell’arte italiana dell’Ottocento,
n. 38, Milano, 2009, tav. a colori, ad vocem
46
Capace come nessun altro artista di rendere le variazioni
della luce sull’acqua, Santoro fa del paesaggio lagunare,
uno dei motivi privilegiati della propria attività pittorica,
negli anni della sua permanenza a Venezia. Della serie fa
parte questo straordinario dipinto in cui il tratto, calligrafico e nervoso, risulta equilibratamente dosato, delineando
i caratteri grafici della visione del canale, su cui si affacciano una serie di palazzi.
Santoro elude le impostazioni stantie e tradizionali delle
vedute della città lagunare, cogliendo con originalità quelle inflessioni legate al particolare, alla ricchezza cromatica e
alla straordinaria luminosità, alla resa dei riflessi dell’acqua,
il reciproco influenzarsi dei colori e i più fuggevoli e repentini effetti di luce, ottenuti attraverso una tecnica rapida
e concisa. Il quadro si caratterizza per una grande abilità
compositiva, che porta il pittore a costruire una prospettiva molto accentuata, scorciata e leggermente decentrata,
data dal susseguirsi di case, portoni, finestre e balconi, che
si succedono affacciandosi sul canale che, direttrice prospettica verso il fondo, si insinua fra le case fino a perdersi
nel passaggio sotto il ponte sullo sfondo.
Il pennello si concentra nella resa dei particolari dei balconi fioriti, dei muri delle case dagli intonaci scrostati, colpiti
da una luce radente, dei variopinti panni stesi, delle gondole che animano il canale, con i loro passeggeri, delle piante
che spuntano dalle mura dei giardini interni. Lo scorcio è
animato dalla vita quotidiana, dove aggraziate figure femminili, protette da parasoli colorati o da grandi ventagli,
diventano una stimolante interpretazione delle molteplici
ed articolate suggestioni offerte dalla città.
La mobilità della velocissima pennellata, si concentra
in primo piano nella riproduzione dello sfuggente moto
dell’acqua, attraverso la resa discontinua del movimento
per mezzo di linee ondulate e diagonali vibranti di luce.
Su questo dipason elevato di tonalità luminose, la ricerca
dei valori timbrici e i delicati passaggi fra luce e ombra,
diventano i veri protagonisti nell’osservazione attenta
dell’atmosfera.
47
pompilio sEvEso
Milano 1877 - 1949
Il pediluvio
olio su tela, cm. 90 x 62
Firmato in basso a destra
48
Accanto alle impegnative composizioni di paesaggio, che
per la verità costituiscono quasi per intero la totalità della
produzione pittorica di Seveso, il pittore milanese eseguì
anche una serie di tele di figura di medio e piccolo formato, nelle quali sperimentò, a suo modo, sia il ritratto che la
pittura di genere, poco concedendo al facile effetto aneddotico allora imperante.
Nel dipinto divisionista “Le piccole amiche”, che costituisce un eccellente compendio di questa sua ultima produzione, il pittore narra un episodio di vita infantile, illuminato
dal sorriso dei piccoli modelli, che trasforma in personaggi
a tutto tondo, svelando nella sua riflessione sull’infanzia,
alcuni lati più profondi della sua sensibilità.
Nei ritratti “Anna che dorme” ed “Esterina seduta sulla
palizzata” Seveso, con una pennellata corposa e modellante, tutta giocata su colori chiari e brillanti, dà vita a vivaci
immagini femminili. La tela qui esposta costituisce un momento importante di tale sequenza, sia in considerazione
del formato grande al vero, sia della sua esemplare qualità pittorica. Con una pennellata veloce, il pittore sembra
sia riuscito a sottrarre un momento all’intimità di questa
giovane donna, mettendo in evidenza una consapevole e
cosciente maliziosa sensualità femminile, data dalla grazia
con cui la modella lascia cadere la spallina, facendo intravvedere la candida carnagione del petto, e nell’armonia del
gesto con cui, con la mano, solleva leggermente la sottoveste bianca, rivelando allo spettatore la coscia tornita, mentre si accarezza il polpaccio con l’altra.
Le coordinate entro le quali si muove la pittura di Seveso
sono significativamente presenti nella tela; la sapiente stesura del fondo piatto, realizzato con una serie di pennellate
larghe e sciolte, d’un grigio azzurrognolo, contrasta con il
marrone del pavimento e con il panno candido, dai contorni sfaldati che ricopre la sedia, facendo risaltare l’incarnato
della modella, con il volto leggermente abbassato, messo in
risalto dalla bruna acconciatura accennata con leggerezza
di tocchi che l’arricchiscono di riflessi.
La cromia, caratterizzata dai pacati colori freddi, tutti giocati
sui toni del grigio e del bianco, è arricchita in cadenza dal blu
intenso della decorazione della bacinella in primo piano.
49
adolFo tommasi
Livorno 1851 - Firenze 1933
Borgo ligure (Riomaggiore)
olio su cartone, cm. 34,8 x 24,2
Firmato in basso a destra
50
Dopo un breve periodo all’Accademia di Firenze sotto la
guida di Carlo Markò, alla fine degli anni Settanta, grazie
all’amicizia con Silvestro Lega, presso la tenuta dei Tommasi a Bellariva, il pittore si avvicinò, attraverso la pittura
en plein air, alla poetica naturalistica. Nel 1880 il Tommasi
espone alla Promotrice torinese “Dopo la brina”, un dipinto fortemente scorciato che rappresenta un orto invernale,
in cui sono disposte quattro filari di cavolfiori. Il soggetto,
che provocò allora un grande scandalo nell’ambiente di
una mostra così ortodossa, costituisce uno dei più singolari avvenimenti del tentativo di rinnovamento della pittura
toscana di quegli anni. Il dipingere del “pittore dei cavoli”,
così soprannominato bonariamente dagli amici Cecioni,
Signorini e Lega, trovò una sua originalissima declinazione
e sensibilità, capace di rispondere agli umori e a quelle stesse sensazioni che, traducendosi in un flusso creativo, spinsero l’artista allo studio della luce, degli effetti chiaroscurali e ad una ricerca luminosa ed atmosferica, che lo portò ad
esiti impressionistici poi quasi simbolisti.
Così, come ricorda Raffaele Monti, “… questa specifica
cadenza di ipersensibilità tesa nei cieli di riverbero o di tra-
monto annuvolato, nelle ombre improvvise su campi e casolari di temporali estivi, nella descrizione affabulata di ville e
giardini in cui è presente l’affinità ed amicizia con il Pascoli
di cui Tommasi fu anche illustratore, sembra addirittura avvicinare il nostro ad una particolarissima aura boeckliniana, che a Firenze, città della vecchiaia del maestro svizzero,
non coinvolse in questo scorcio del secolo, nessun altro pittore
toscano” (Le mutazioni della “macchia”, a cura di R. Monti,
Roma, 1989, pp. 28,29).
Originale nel taglio compositivo, con questo quadro Tommasi conferma la sua attenzione alla resa del dato reale,
mutuato attraverso una gamma di colori dai toni spenti e
delicati, in cui la luce definisce i contorni delle montagne
frastagliate sullo sfondo dove, con tocchi di colore, l’artista
indica la neve non ancora sciolta sul crinale, le rocce e i
pascoli verdi.
In primo piano la serie di case dagli intonaci sporchi e
scrostati addossate una all’altra e punteggiate di finestre e
balconcini che si protendono sul torrente, resi con veloci e
leggere pennellate, diventano una quinta intesa a definire
la profondità dello spazio verso il fondo.
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vittorE zanEtti zilla
Venezia 1864 - Milano 1946
Campo San Giovanni e Paolo
olio su lastra metallica, cm. 120 x 140
Siglato e datato in basso a sinistra 1938
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Il dipinto, realizzato nel 1938, a tre anni della Mostra dei
Quarant’anni, tenuta a Venezia, nel 1935, in cui il pittore aveva presentato sei opere, ben si inserisce nell’ambito
della produzione matura di Zanetti Zilla, improntata sulle
vedute dell’amata e lontana Venezia.
Il quadro si caratterizza per una grande capacità compositiva, in cui l’andamento orizzontale della veduta è attenuato
da una prospettiva molto accentuata, che amplia il senso
di spazio, data dal canale del campo San Giovanni e Paolo,
che diventa una vera e propria direttrice prospettica verso
il fondo, il cui punto di fuga porta l’occhio a perdersi tra le
dolci atmosfere delle calli dello sfondo.
Il ponte costituisce il punto focale della veduta, caratterizzata sulla destra dall’imponente mole della facciata
dell’edificio rinascimentale della Scuola di San Marco,
realizzata in marmo bianco e policromo, decorata da un
portale con protiro a colonne e una serie di edicole e lesene corinzie, che suddividono armoniosamente lo spazio in
due ordini sovrapposti, coronati sulla sommità da una serie
di lunette e statue realizzate dal Codussi.
I freddi toni del canale, dosati con cura tra un verde azzur-
ro, un blu inteso e il marrone e il nero delle gondole in primo piano, contrastano con il giallo rosato dei monumenti,
con il chiarore del cielo nuvoloso, con il colore della vela
sulla sinistra e dell’intonaco dei palazzi, che si affacciano e
che si specchiano nelle acque del canale.
Il dipinto, in cui si trovano i peculiari accenti del personale
congegno espressivo degni di una grande composizione,
colpisce per la delicata, eppur decisa, luce che avvolge la
scena e che sembra sfaldare i contorni degli oggetti, delle
case, delle statue, attraverso dense e materiche pennellate.
D’altra parte il carattere stesso della riscoperta da parte
del pittore della città lagunare resta interamente affidata
all’istinto e alle sue impressioni.
Venezia diviene quindi la città, non soltanto scenario di
una storia da far rivivere in una composizione narrativa, né
come luministica pagina d’una canalettiana inquadratura,
ma svelandosi come viva immagine, parte di un ricordo.
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Biografie
Giovanni Boldini
Ferrara 1842 - Parigi 1931
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Giovanni Boldini nasce a Ferrara il 31 dicembre 1842.
Il padre Antonio era originario di Spoleto ed esercitava
l’attività di pittore e di restauratore.
Trascorre un’infanzia difficile a causa della fragile costituzione fisica e la forzata inattività, causata dalle malferme
condizioni di salute, lo portano ad appassionarsi al disegno, un interesse approvato ed assecondato dal padre.
All’età di vent’anni, grazie ad un lascito finanziario, di
modesto importo, di uno zio sacerdote, Boldini si reca a
Firenze per studiare all’Accademia d’Arte. Nella città toscana frequenta gli ambienti culturali e le sale del Caffé
Michelangelo dove conosce i pittori più noti dell’epoca,
tra i quali Giovanni Fattori e Signorini, esponenti di rilievo del movimento dei Macchiaioli, dai quali trae insegnamento per incrementare le sue già spiccate doti d’artista.
Le aspirazioni di Giovanni Boldini verso la mondanità e la
ricchezza lo spingono a frequentare un altro famoso Caffè di Firenze, il Caffè Doney nelle cui sale si ritrovavano i
maggiori esponenti della colonia di intellettuali e di personalità pubbliche inglesi residenti in Toscana. Sull’onda di
queste nuove stimolanti frequentazioni inizia a viaggiare,
spinto dall’interesse per centri culturali quali Parigi, dove
si reca per la prima volta nel 1867 in occasione dell’Esposizione Universale, e Londra. Dopo un breve soggiorno
londinese, Boldini si stabilisce definitivamente a Parigi nel
1871, dove ha modo di frequentare assiduamente alcuni
impressionisti fra cui Alfred Sisley, Eduard Manet, Gustave Caillebotte e soprattutto Edgar Degas. Dopo aver la-
vorato per il famoso mercante d’arte Goupil, realizzando
una serie di opere di soggetto neo - settecentesco, il pittore
si dedica al ritratto, divenendo in pochi anni il ritrattista
più richiesto dal “bel mondo”.
Nel 1875 espone il ritratto della “Contessa Gabrielle de
Rasty” al Salon, nel 1886 realizza quello di “Giuseppe
Verdi”, ma fra i ritratti più famosi ricordiamo quello della “Duchessa Grazioli”, di “Donna Franca Florio”, della
“Marchesa Casati”, di “Madame Ferguson” e di “Madame
Lanthème”. La pittura di Boldini, nonostante i soggetti
femminili estremamente seducenti, gli abiti lussuosi e gli
ambienti tipici degli scenari borghesi e nobiliari, lascia
trasparire un’innata malinconia per la fugacità temporale
della bellezza esteriore della donna.
Il grande pittore ferrarese muore, all’età di ottantanove
anni, a Parigi nel 1931, ma per sua volontà testamentaria la
salma viene trasferita nella Certosa di Ferrara, la sua città,
che non aveva mai dimenticato.
Evaristo CappElli
Formigine 1868 - Modena 1951
Nato a Formigine nel 1868, frequenta l’Istituto di Belle
Arti di Modena dal 1883 al 1889, dove diviene allievo di
Antonio Simonazzi. Esordisce nel 1886 con un ritratto
della sorella “Laura”, mentre nel 1895 condivide il premio
Muzzioli, giungendo al primo posto, pari merito con Ruini e Giovanni Pellacani.
La produzione del pittore è caratterizzata da una parte, dai
paesaggi della campagna della pianura emiliana, dall’attività dei campi, dal mondo agricolo, mentre dall’altra Cappelli descrive gli angoli più caratteristici di Modena, tra
mercati e vedute di vicoli e piazze. Tra questi meritano una
particolare menzione “L’aratura”, “La torre dell’Orologio”,
“Di fronte al Duomo”, “Donna con fiori” del 1881 e “Carro con buoi” del 1908, “La vendemmia” entrambi realizzati
nel 1910, il dipinto “Maggengo”, esposto nel 1928 alla Promotrice di Torino e “L’osteria di Fossalta” del 1941.
“La città e i suoi angoli, la terra con le sue esigenze di lavoro, costituiscono il mondo che il suo sguardo raccoglieva e il
pennello trasmetteva in vibrante, riassuntiva partecipazione”
(L. Frigieri Leonelli, Pittori modenesi dell’Ottocento, Modena, 1986, p. 247).
Inizialmente vicino al verismo tardo ottocentesco che, ancora agli esordi del nuovo secolo, era a Modena coltivato
con successo da autori, quali Eugenio Zampighi e Gaetano
Bellei, Cappelli tende a distaccarsene progressivamente,
anche attraverso l’adozione del nuovo linguaggio del Graziosi, fino ad approdare al movimento del post Impressionismo.
Insegnante di figura all’Istituto di Belle Arti di Modena,
Cappelli partecipò alle mostre locali e alle Triennali della
Società di Incoraggiamento. Contemporaneamente a questa attività, il pittore si dedicò alla pittura di carattere religioso e alla decorazione, affrescando la Chiesa Parrocchiale di Castelnuovo Rangone. Nel 1922 realizzò gli affreschi
dello scalone d’onore della allora sede della Banca Popolare
di Modena e Congregazione di Carità e quelli della lunetta
sul portale del Tempio Monumentale dei Caduti.
Nei primi anni del 1900, i modi del pittore si avvicinano
alla corrente liberty, che sfocia progressivamente nel Simbolismo, con la serie di affreschi realizzati nel 1910 nella
Villa Spezzani Cionini a Magreta di Formigine e con quelli
del 1920 nella volta dell’atrio del Palazzo Fantini di Modena. Il pittore si spegne a Modena nel 1951.
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Guido CasCiaro
Napoli 1900 - 1963
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Nato a Napoli nel 1900 dal famoso pastellista Giuseppe,
fin dall’infanzia rivelò la sua precoce inclinazione all’arte,
e se, nelle opere giovanili è ancora visibile l’influenza degli
insegnamenti paterni, a partire dalla metà degli anni Venti egli se ne discostò, cercando un linguaggio autonomo.
Questo nuovo lessico si manifesta sia nell’adozione e nel
primato della pittura ad olio, con dipinti anche di grande
formato, sia nell’influenza esercitata dall’evoluzione stilistica nazionale ed europea del tempo. Pur mantenendo vivi
i legami con la tradizione pittorica partenopea, di cui sono
prova i dipinti con ricchi impasti e luci penetranti, e pur
risentendo dell’influenza della scuola di Portici e soprattutto negli anni della maturità, di pittori quali il Mancini
e il Cammarano, il Casciaro seppe approfondire gli esiti
della pittura post-impressionista ed in particolare quella
dei francesi Paul Cezanne e Claude Monet. Nei suoi primi
dipinti scelse paesaggi moderni e scene urbane, fabbricati e
strade in costruzione, cantieri e baracche, resi con pennellate rapide e vibranti.
“La sua pittura indaga soprattutto il macrocosmo campano e lo trasfigura. Di questo macrocosmo l’artista si pone
come uno dei maggiori interpreti nel contesto storico nel
primo Novecento, a partire dalla metà degli anni Venti”
(P. Perrone Burali d’Arezzo, Guido Casciaro, un maestro
del primo 900, Napoli, 2003, p. 23). Nel 1920 il pittore si
era già distinto sia alla Prima Biennale Nazionale d’Arte
della città di Napoli, che alla XXXIX Mostra della Società
Promotrice, dove aveva esposto una serie di quattro vedute
di Capri. Dal 1932, il pittore cominciò anche a dedicarsi alla
figura umana e alle nature morte dai colori densi e brillanti,
che riprendono la tradizione napoletana del Seicento.
Nel 1932 ottiene la medaglia d’oro al Premio Bologna, con
il dipinto “Paesaggio urbano”. Tra le altre opere spiccano
inoltre il dipinto del 1934 “Via di città”, “Impressioni” e
“Vita Cittadina”, tutti ambientati nella strada del quartiere
napoletano, dove il pittore visse buona parte della vita.
Partecipò a numerose edizioni delle Biennali veneziane
dal 1934 al 1948, e alle Quadriennali romane dal 1931
al 1943, nonché a numerose mostre organizzate con il
“Gruppo Flegreo”, che egli stesso fondò nel 1927, insieme
ad altri artisti tra cui Vincenzo Irolli, Biagio Mercadante, Luca Postiglione e Gennaro Villani. Durante gli anni
Trenta prese parte alle importanti mostre d’arte italiana
all’estero; espose a Praga, a Varsavia nel 1934, a Cracovia,
Sofia, Bucarest e Bruxelles nel 1935, e a Riga, Tallin e San
Paolo del Brasile nel 1937. Il pittore si spegne nella sua città natale nel 1963.
BEppE Ciardi
Venezia 1875 - Quinto di Treviso 1932
Nato a Venezia nel 1875, figlio del pittore Guglielmo Ciardi e fratello di Emma, dopo aver compiuto gli studi classici
e aver frequentato per breve tempo i corsi di scienze naturali presso l’università di Padova, nel 1896 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Segue i corsi di figura di
Ettore Tito e frequenta quelli di paesaggio del padre, sotto
la cui guida aveva già dipinto fin da giovane en plein air.
Nel 1894, ancora giovanissimo, infatti, espone sessanta
studi dal vero, realizzati tra i quindici e i diciannove anni,
al Castello Sforzesco di Milano. La pittura giovanile di
Beppe risente dell’influenza della forte personalità artista
del padre, non solo nella tecnica pittorica, ma anche per la
scelta dei soggetti paesistici, che spaziano dalle vedute lagunari, alla campagna trevigiana. Seppe pian piano emanciparsi dall’influenza paterna, attraverso l’adozione di uno
scoperto pittoricismo, enfatizzando gli effetti luministici,
rinnovando la grande tradizione veneta con opere dai suggestivi timbri pittorici e dalla tipica dilatazione spaziale. La
sua produzione artistica, caratterizzata dall’inconfondibile
pennellata veloce e vibrante, giunge nella maturità a inflessioni divisioniste, mutuate dalla frequentazione dell’amico Vittore Gubricy, ma non rimanendo insensibile anche
alle esperienze più moderne di Segantini. Nel 1899 espone
alla Biennale di Venezia i dipinti “Monte Rosa” e “Terra
in fiore”, quest’ultimo conservato nel Museo Marangoni
di Udine. L’anno successivo partecipa all’Esposizione di
Brera, in occasione della quale vince il premio Fumagalli, all’Internazionale di Monaco del 1901 e all’Esposizio-
ne di San Francisco del 1904, dove vince rispettivamente
una medaglia d’oro e una d’argento. La pittura della fine
del secolo si caratterizza per la presenza di suggestioni velatamente simboliste di carattere bokliniano, influenzate
anche dalla conoscenza degli artisti nordici, presenti alle
prime biennali veneziane. Queste suggestioni persistono
fino alla metà del primo decennio del secolo, quando lasciano il posto ad una più cauta sensibilità naturalistica di
matrice ottocentesca. Le opere di questo periodo sono caratterizzate dalla frequente adozione di soggetti tratti dalla
laguna e altri ispirati alla campagna veneta, in particolare
la zona del Sile, a Quinto, dove trascorreva lunghi periodi
dipingendo all’aperto. Si segnalano le mostre di Vienna,
Barcellona e Bruxelles, quelle personali realizzate a Firenze, Milano, Roma, Napoli, Trieste e la personale del pittore
allestita alla Biennale di Venezia nel 1912, oltre alla Mostra dei Quarant’anni di carriera, sempre a Venezia, ed al
Castello Sforzesco a Milano, nel 1936. L’artista muore a
Quinto di Treviso nel 1932.
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GuGliElmo Ciardi
Venezia 1842 - 1917
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Nato a Venezia nel 1842, dopo aver terminato gli studi
classici, nel 1860 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di
Venezia e frequenta le lezioni di Moja e in seguito di Bresolin. Quest’ultimo, che già dai primissimi anni Sessanta,
aveva sviluppato una pittura in rapporto diretto con la realtà, porta gli allievi a dipingere all’aria aperta; ne emergono opere come “Il Grappa d’inverno” del 1866 e “Luci
sulle barene” del 1867. Tale rinnovamento avrà in seguito
sviluppo in personalità di forte rilievo, quale quella appunto del Ciardi, che negli anni Settanta ed Ottanta diventa
un’artista di spicco nell’ambito del paesaggismo europeo, considerato per la luce delle sue opere, il “poeta della
laguna”, esemplare la famosa tela “Canale della Giudecca”
del 1869.
Le immagini della campagna trevigiana, ritratta en plein
air, e le sue “Lagune” ampie e spaziate, vedute tra mare e
cielo, segnate nei piani in profondità da una barca o da
una vela, rappresentano un momento fondamentale della
pittura di paesaggio, non solo nell’arte italiana. Nel 1868,
l’artista, su invito del Zandomeneghi, si trasferisce a Firenze, dove viene introdotto nell’ambiente dei Macchiaioli.
La stimolante immersione nel nuovo clima artistico che
gravitava intorno al “Caffè Michelangelo” e alle personalità
di spicco di Signorini e di Fattori, consentì al pittore di liberarsi dai precetti vincolanti dell’Accademia, grazie anche
alla conoscenza della pittura francese, in particolare dalle
opere di Corot, raccolte nella collezione Demidoff. Nel
suo Tour per l’Italia, Ciardi si reca quindi a Roma, dove
stringe amicizia con Nino Costa, e a Napoli dove invece
si avvicina, questa volta grazie alla mediazione di Pompeo
Marino Molmenti, a Domenico Morelli e a Filippo Palizzi,
ma anche ai rappresentanti della scuola di Resina, Federico Rossano, Giuseppe De Nittis e Adriano Cecioni. Dopo
queste significative esperienze, di ritorno a Venezia, nel
1869, il suo stile si era arricchito di nuove capacità espressive, adottando un fare più sciolto, meno nitido. I grandi
capolavori di Ciardi risalgono agli anni Settanta, anni in
cui il pittore approfondendo le ricerche stilistiche, realizza
una serie di dipinti, caratterizzati da un gusto coloristico e
dagli effetti vibranti della luce veneziana, a cui fa seguito
una fervida attività segnata da varie ed importanti esposizioni nei capoluoghi italiani, da Milano a Firenze, da Torino a Napoli.
Nel 1883 realizza “Messidoro”, medaglia d’oro a Berlino
nel 1886, esposto poi a Nizza e Venezia, acquistato dallo
Stato Italiano nel 1887 per la Galleria d’Arte Moderna di
Roma. Dopo un soggiorno a Parigi nel 1878, che non sembra aver influito sulla sua attività pittorica, l’artista diventa
insegnante di paesaggio all’Accademia di Venezia.
Muore a Venezia nel 1917.
ElisEo Fausto Coppini
Milano 1870 - Buenos Aires 1945
Nato nel 1870 a Milano, si iscrive l’Accademia di Brera, dove
frequenta le lezioni di Pio Sanquirico e Girolamo Induno,
divenendo in seguito anche allievo di Giuseppe Mentessi.
Titolare della cattedra di Paesaggio dal 1887, Mentessi
favorirà nel Coppini, come in altri allievi, lo studio della
prospettiva, attraverso una sua innovazione nel metodo
didattico per l’insegnamento della geometria proiettiva,
realizzando set prospettici dove posizionare gli oggetti e
copiarli dal vero.
Dopo questo periodo di alunnato presso l’Accademia, il pittore prosegue la sua attività in modo autonomo. Scarse sono le
notizie dettagliate relative alla vicenda dell’autore, così come
limitata è la documentazione del suo repertorio figurativo.
Il suo corpus pittorico comunque comprende numerosi
paesaggi, tra cui “Paesaggio costiero”, “Il lago nel bosco” e
“Campagna”, in cui il pittore utilizza un linguaggio preciso
e meticoloso nel rappresentare il dato reale.
Si dedica inoltre ai soggetti storici e ai ritratti, tra cui possiamo ricordare “Ritratto di giovane donna con fiori” e “Ritratto di giovane”, e alla natura morta, con “Anemoni”e “Rose”,
eccellendo comunque nelle scene di genere, di cui Coppini fu
un esecutore raffinato e preciso nell’interpretare in modo un
po’ malinconico frammenti della vita quotidiana.
Queste opere non offrono soltanto le apparenze di una realtà, spesso pittoresca, ma cercano di coinvolgere lo spettatore attraverso la sfera emotiva. Colti nel loro dettaglio più
accattivante o sentimentale, i protagonisti, spesso di condizioni umili, in maniera da esaltare maggiormente l’effetto
sentimentale e patetico, sono realizzati con sapiente realismo e ricercata cura dei particolari.
Anche nel trattare i soggetti storici, il pittore non rinunciò
alla rappresentazione del riflesso “privato” dei medesimi
eventi storici, andando alla ricerca di quei frangenti intimi e confidenziali, presenti soprattutto nella sua pittura
di genere.
Nel 1915, Coppini ottiene una medaglia d’argento all’Esposizione Internazionale di San Francisco. Trasferitosi in Argentina e stabilitosi a Buenos Aires, il pittore qui si spegne
nel 1945. Molte sue opere furono presentate all’Esposizione
“Pittura e scultura del XX secolo in Argentina” tenutasi nel
1952-1953 ed alcune di queste sono conservate oggi nel
Museo di Buenos Aires.
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Bruno Croatto
Trieste 1875 - Roma 1948
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Nato a Trieste nel 1875, nel 1891 si iscrive all’Imperial
Scuola Industriale, dove segue i corsi di pittura decorativa,
sotto la guida di Ciro Garzolini.
Nel 1892 frequenta a Monaco di Baviera l’Akademie der Bildenden Künste, dove diviene discepolo di Gabriel Hackl e
Anton Aschbe, assieme ad altri artisti suoi concittadini, fra cui
Arturo Fittke, Oscar Hermann Lamb e Arturo Tamburini.
In questi anni giovanili il pittore subisce da una parte l’influsso della Secessione viennese e dall’altra il linguaggio
artistico di matrice impressionista, riveduto e corretto in
area tedesca. Croatto sembra attratto anche dalla cultura
preraffaellita, che ripropone in un a serie di ritratti in cui
il pittore sembra rifarsi ad un’iconografia religiosa. Esordisce alla II Biennale di Venezia nel 1897, in cui ottiene i
primi successi con dipinti di paesaggio.
Dal 1908 il pittore si avvicina alla tecnica dell’acquaforte
e dell’acquatinta, realizzando una serie di incisioni, per lo
più di paesaggi, in cui trascurò il disegno a favore degli effetti di colore e di chiaroscuro. Croatto realizza molteplici
vedute di Venezia, di Villa Borghese, con la Fontana dei
Mascheroni, di Orvieto e Perugia, alcune delle quali sono
state esposte alla Biennale di Venezia, alla II Esposizione
Internazionale dell’Incisione Moderna di Firenze e alle
Mostre internazionali di Monaco di Baviera. Nel 1924
produce inoltre una serie di incisioni per la casa editrice
triestina “Parnaso”, un’icastica sequenza di suggestivi ed
equilibrati ricordi del paesaggio siciliano.
Parallelamente a queste opere, dal 1912 si accentua nella
produzione del pittore la ricerca realistica, specie nella figura, a discapito del paesaggio, in cui Croatto sembra privilegiare soprattutto la ricerca della resa atmosferica e lo
studio della luce.
A partire dal trasferimento dell’artista a Roma nel 1925, il
linguaggio pittorico, che si sviluppa quasi esclusivamente
nel genere del ritratto e della natura morta, acquista una
cifra molto personale, divenendo il pittore quasi un precursore del lessico iperrealista.
I dipinti acquistano un estremo nitore, in cui la rigorosa precisione analitica nel descrivere le figure e l’accuratezza calligrafica nella rappresentazione degli oggetti
delle nature morte, richiama la pittura fiamminga del
XIV – XV secolo, anche per i forti contrasti chiaroscurali e cromatici, proponendo con tecnica esecutiva perfetta,
un’assoluta fedeltà al vero, che si traduce in una condizione
singolare di emarginazione dell’opera del pittore, rispetto
alle correnti artistiche del Novecento.
Il pittore si spegne a Roma nel 1948.
EuGEnio dE Blaas
Albano Laziale 1845 - Venezia 1931
Nato ad Albano Laziale nel 1845, dal pittore nazareno
Karl De Blaas, professore all’Accademia di Venezia prima
e di Vienna poi, e fratello del meno noto Giulio, riceve i
primi rudimenti artistici dal padre.
Nel 1856 la famiglia si trasferisce a Venezia, città in cui De
Blass inizia a frequentare con regolarità all’Accademia i
corsi tenuti dal padre, professore di Pittura. Negli anni della formazione artistica, si distingue nella pittura di soggetto storico, vincendo una medaglia nel 1858 e il concorso
“Selvatico” l’anno successivo.
Esordisce nel 1860 alla mostra dell’Accademia con il piccolo dipinto “Cimabue che scopre Giotto”, mentre, nello
stesso anno affresca, insieme al padre, la sala della Fama
dell’Arsenale di Vienna.
Nel 1862, ancora giovanissimo, viene nominato Socio
d’Arte dell’Accademia di Venezia ed in seguito professore
Onorario di Pittura dal 1884 al 1890.
Dopo una serie di soggiorni in Francia, Belgio ed Olanda, nel 1863 il pittore realizza per la parrocchiale di San
Valentino di Merano la “Conversione dei Reti ad opera
di San Valentino”, tela nella quale De Blaas “… si esprime
con un linguaggio aulico che non esclude tuttavia note di
un vivace realismo, soprattutto nella resa dei brani paesistici e nei volti di alcuni personaggi” (La pittura nel Veneto.
L’Ottocento, a cura di G. Pavanello, Martellago (VE), 2003,
vol. II, p. 651).
Tra gli anni Sessanta e Settanta, il pittore espone con regolarità a Venezia negli spazi dell’Accademia poi, dopo il
1865, in quelli della Promotrice di Belle Arti, dove presenta anche alcune opere di gusto romano, dovute a brevi soggiorni laziali, tra le quali “Costume Romano” e due
“Vedute della campagna romana” del 1875.
Dalla metà degli anni Sessanta, superato il periodo accademico e della giovinezza, il pittore approda ad una maniera
più matura, contraddistinta da una materia smaltata e dai
colori sgargianti, sviluppando contemporaneamente un
interesse verso le tematiche della pittura di genere, legate
alla dimensione popolare veneziana.
Il dipinto “Ninetta”, presentato all’Esposizione Nazionale
di Venezia del 1887, costituisce un esempio di questa nuova pittura, nella quale spesso, l’immagine femminile diventa una conturbante protagonista.
De Blaas fu anche un valente ritrattista e il ritratto dell’uomo d’affari “Philip Morris” e della “Duchessa Ersilia Canevaro”, quest’ultimo conservato al Museo Revoltella di
Trieste, rivelano un interprete sensibile e raffinato, tanto
da partecipare con un ritratto anche all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1898.
Il pittore muore a Venezia nel 1931.
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GiusEppE dE nittis
Barletta 1846 - Saint German 1884
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Nato a Barletta nel 1846, dopo aver frequentato per un
breve periodo l’Accademia di Napoli come allievo di Gabriele Smargiassi e di Giuseppe Mancinelli, si trasferisce a
Portici unendosi a Marco De Gregorio e Federico Rossano
che, insieme a Adriano Cecioni, costituivano la “Scuola di
Resina”. Questo movimento, opponendosi al classicismo
accademico, propugnava una pittura realizzata attraverso
l’osservazione diretta della natura.
Nel 1864 esordisce con due piccoli paesaggi, dal medesimo
titolo, “L’avanzarsi della tempesta” alla III Promotrice napoletana, che furono notati ed elogiati da Adriano Cecioni.
Nel 1866 espone, sempre alla Promotrice, quattro paesaggi che saranno acquistati da Vittorio Emanuele II per
il Museo di Capodimonte. In quell’anno il pittore lascia
Napoli per Firenze dove prende contatto con il gruppo dei
Macchiaioli, visita Salerno e Roma, dove soggiorna circa
un mese, per trasferirsi in seguito a Parigi, dove conosce
Meissonier e il mercante d’arte Goupil. Nei primi anni
parigini, sotto l’influenza di Meissonier, il pittore esegue
scene di genere in costume, poi abbandonate, a seguito anche del suo ritorno in Italia nel 1870, a causa della guerra
franco-prussiana. Nel lungo soggiorno in Italia, fino
all’inizio del 1873, il pittore realizza una serie di paesaggi improntati ad una nuova freschezza di visione, ma caratterizzati da una diversa ricerca, che si esplicita in modo
particolare in una serie di sessanta dipinti, quasi sempre
realizzati su tavoletta, dedicati al Vesuvio. L’artista, con
interesse quasi scientifico, realizza questa serie di vedute in
condizioni atmosferiche e di luce molto diverse, in varie
ore del giorno, applicando un rigoroso processo di semplificazione formale e cromatico. Dopo il ritorno a Parigi e
svariate partecipazioni al Salon, nel 1873 ottiene un’affermazione importante con due accese vedute vesuviane e nel
1874 trionfa con il dipinto “Che freddo”; il pittore diviene
in breve tempo il celebrato cronista della vita urbana della
capitale francese.
Dopo il successo, De Nittis si reca a Londra in cerca di
nuovi stimoli ed ispirazioni, grazie anche alla protezione
del ricchissimo banchiere Kaye Kowles, grande estimatore della sua pittura. Realizza una serie di vedute della città
inglese fra cui, “La National Gallery a Londra”, “Trafalgar
Square” ed “Westminister”, presentate con grande successo
all’Esposizione Universale di Parigi del 1878, assieme ad
altre opere. Dal 1879 il pittore è affascinato da una nuova
tecnica, quella del pastello e vi si dedica traendone motivo
per altre affermazioni e nuovi successi. Indebolito da una
bronchite che lo colpisce nel 1883, De Nittis si spegne
l’anno successivo a Saint German (Parigi).
sEraFino dE tivoli
Livorno 1826 - Firenze 1892
Nato a Livorno nel 1826, si trasferisce con la famiglia a
Firenze nel 1838, dove compie gli studi presso il collegio
degli Scolopi. Si dedica, con il fratello Felice, alla pittura
di paesaggio e diventa allievo dell’ungherese Carlo Markò
padre. Nel 1848 si unisce agli studenti toscani per combattere gli Austriaci partecipando alle battaglie di Curtatone e
Montanara, e nel 1849 ai garibaldini per difendere Roma.
Qui conosce Induno, Pagliano e Costa, condividendone
l’interesse per il vedutismo francese. Una volta tornato a
Firenze partecipa con alcune vedute di Roma alla Promotrice. Nel 1853 espone alcuni paesaggi propri della campagna toscana, che ancora risentono dello stile “arcaizzante”
del suo maestro Markò. Una svolta si ha a partire dall’anno
seguente, quando, con Saverio Altamura, Lorenzo Gelati e
i fratelli Markò, dipinge nella campagna senese, una serie di
paesaggi caratterizzati da una resa più luminosa. Diventa,
poi, uno dei più vivaci animatori del Caffè Michelangelo,
soprattutto dopo il ritorno da Parigi, nel 1855, dove aveva visitato, insieme all’amico Altamura, l’Esposizione Universale
e gli studi di Décamps, Troyon e di Rosa Bonheur, riferendo
agli amici del Caffè, le novità proprie dei pittori di Barbizon
e dei “forti effetti chiaroscurali” propri di Décamps.
Il suo quadro “La Pastura”, oggi nella Galleria di Arte Moderna di Firenze, venne considerato dal Cecioni come
l’emblema della “nuova arte realistica toscana”. La “macchia” nacque dunque come “accentuazione del chiaroscuro
pittorico”, attraverso il quale recuperare, nella realizzazione
artistica, la necessaria solidità e il rilievo plastico, che nella
visione accademica difettavano. L’abbandono del disegno
e la costruzione dell’immagine pittorica per macchie di
colore fortemente chiaroscurate, costituivano, unitamente
alla pittura en plein air, senza l’intervento di alcun metodo
scolastico, una nuova poetica dell’immagine.
Nel 1864 De Tivoli raggiunge il fratello Felice a Londra, per
poi trasferirsi stabilmente nel 1873 a Parigi. Nella capitale
francese risente degli influssi impressionistici dell’ambiente
artistico; ne è l’emblema il dipinto “Pescaia a Bougival” con
cui partecipa all’Esposizione Nazionale di Torino del 1880.
Nel 1889 partecipa con alcune vedute della Senna all’Esposizione Universale di Parigi, mentre l’anno successivo, sperando di trovare una situazione a lui più favorevole, viste
le precarie condizioni economiche, ritorna a Firenze dove
continua a esporre alle Promotrici alcune vedute della
campagna toscana fino al 1891.
Il pittore si spegne ammalato e povero nel 1892 in un ospizio di Firenze.
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GErolamo induno
Milano 1825 - 1890
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Nato a Milano nel 1825, fratello di Domenico, rispetto al quale era più giovane di dieci anni, si formò presso
l’Accademia di Brera sotto la direzione di Luigi Sabatelli.
Nel 1845 esordisce con una serie di studi dal vero e ritratti
all’esposizione braidense, esponendovi anche l’anno successivo una “Scena dei Promessi Sposi”. Nel 1848, animato
da una profonda passione patriottica, partecipò ai moti
delle Cinque Giornate di Milano, per poi riparare in Svizzera a seguito del ritorno degli austriaci.
Raggiunti poi i volontari a Firenze prese parte alla campagna romana, durante la quale rimase ferito nella difesa di
palazzo Barberini dagli attacchi delle truppe francesi. Di
nuovo a Milano, nel 1850 espone alcune tele ispirate ai fatti romani, a cui aveva già dedicato “Legionari garibaldini
in difesa di Roma” e “Il bivacco dei volontari” entrambi del
1849. Negli stessi anni il pittore affianca a questa produzione ispirata ai recenti fatti bellici risorgimentali, la pittura di genere rivelando, in queste opere, la forte ascendenza
del fratello Domenico.
“Lo sciancato che suona il mandolino”, “La nonna” e “Povera madre” costituiscono notevoli esempi di questa produzione, in cui le scene di vita quotidiana, raffigurate in
poveri interni, sono percorse da una vena patetica che, dal
decennio successivo, sembrano acquisire una tematica patriottica, mutuata dai soggetti risorgimentali. Nel 1855 il
pittore torna alle armi nella guerra di Crimea, traendo da
questa sua esperienza militare, una serie di disegni e schizzi, tradotti nella famosa tela del 1859 della “Battaglia della
Cernaia” e in una precisa registrazione topografica delle
imprese belliche in “Panorami”, una serie di litografie per
le tavole dell’Album realizzato nel 1857 dal Ministero della Guerra del Regno Sardo. Negli anni Sessanta l’artista si
cimenta in numerosi dipinti dedicati agli episodi garibaldini tra cui “L’imbarco di Garibaldi a Quarto”, “Garibaldi
ferito in Aspromonte”.
Nel 1861 realizza il “Ritratto equestre di Vittorio Emanuele II” e una serie di dipinti di formato monumentale, atti
alla celebrazione delle lotte risorgimentali tra cui la “Battaglia di Magenta” del 1861 e “Morte di Enrico Cairoli”
del 1867, che confermano definitivamente il pittore quale
interprete dell’epopea risorgimentale, anche di carattere
ufficiale. Dagli anni Settanta partecipa a grandi imprese
decorative, realizzando le “Allegorie di Roma e di Firenze”
per i nuovi ambienti della stazione Ferroviaria di Milano
e il sipario con “Il giorno del plebiscito di Napoli” per il
teatro di Gallarate. In questi anni il pittore si cimenta anche nella pittura di paesaggio realizzando numerose vedute
di Pescarenico, intrise di suggestione manzoniana, mentre
scorci della campagna lombarda fanno da cornice a scene
di genere, dove il patriottismo si sfuma nell’idillio agreste.
Nell’ultimo decennio di attività si affiancano a questi temi
tele di gusto neosettecentesco.
Il pittore muore a Milano nel 1890.
EGisto lanCErotto
Noale 1847 - Venezia 1916
Nato a Noale nel 1847, frequenta l’Accademia di Venezia,
seguendo con particolare interesse le lezioni di Pompeo
Molmenti, poi di Napoleone Nani. Rimangono poche
tracce della sua attività giovanile, a parte un grande dipinto di ispirazione storico e letteraria dal titolo “L’assedio
di Firenze”, realizzato attorno al 1883, sulla traccia di un
cartone premiato nel 1872, eseguito ai tempi degli studi
accademici. Questa grande opera di carattere storico rimase tuttavia un’eccezione nel curriculum dell’artista, che
sviluppò la sua attività pittorica su altra scala, dedicandosi
soprattutto alla realizzazione di dipinti da cavalletto, per
lo più appartenenti alla pittura di genere, nell’ambito del
Realismo veristico veneto di fine secolo.
Fu un continuatore della tradizione pittorica veneta, distinguendosi nelle raffigurazioni di vita quotidiana, spesso
realizzate con realismo pungente.
La produzione del pittore risentì in parte dell’influenza
dalla lezione dei pittori veneti contemporanei, soprattutto
di Favretto e di Ciardi, distinguendosi per una profonda
capacità di introspezione dei soggetti, soprattutto nei ritratti, nei quali mostrò indubbie e pregevoli capacità.
Gli anni della maturità furono contrassegnati da una vasta produzione di soggetti briosi, ambientati sia in laguna,
“Chioggiotti in porto” della Galleria d’Arte Moderna di
Ca’ Pesaro, che in campagna, come “Matrimonio in Brianza”, esposto alla Civica Quadreria del Comune di Noale.
Nonostante qualche ambientazione vedutistica, come il
dipinto la “Regata”, del 1887, opera ricca di cromatismi, la
pittura dell’artista fu in larga misura una pittura d’interni.
Partecipò a molte delle principali esposizioni dell’epoca,
soprattutto a partire dagli anni Settanta, che allargarono
il successo commerciale dell’artista non solo a Venezia,
ma in molte altre città italiane. Partecipò ai più prestigiosi appuntamenti europei, inviando i suoi dipinti a Parigi
nel 1878, a Nizza nel 1884, a Londra, sia nel 1884 che nel
1888, ad Anversa e a Monaco.
A partire dagli anni Novanta il pittore gradualmente diradò l’attività espositiva, soprattutto a partire dalla fine del
secolo, quando la stesura del colore si fa larga e pastosa,
con zone spesse di materia. Cercò di adeguarsi alle nuove
tendenze artistiche avvicinandosi ad una dimensione simbolista ed onirica in alcune opere quali, il “Sogno”, “L’apparizione”, “Il concerto”, in cui tema prediletto continua ad
essere l’immagine femminile. Negli anni che precedettero
la prima guerra mondiale, minato dalla malattia polmonare che lo aveva colpito, si trasferisce a Noale dove dipinse le
sue ultime opere. L’artista si spegne, in grande indigenza,
nell’Ospedale di Venezia nel 1916.
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Gaston dE latouChE
Saint Cloud 1854 - Hauts de Seine 1913
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Nato a Saint Cloud, vicino Parigi, nel 1854, mostra una
precoce vocazione per la carriera artistica, prendendo lezioni di disegno dall’età di dieci anni, poi interrotte dallo
scoppio della guerra franco-prussiana del 1870, per il trasferimento della famiglia in Normandia.
Fondamentalmente autodidatta, Latouche non ha mai ricevuto alcun perfezionamento formale, ma viene influenzato da due pittori più anziani, l’amico Félix Bracquemond
e Edouard Manet. Dopo la Comune di Parigi, il pittore
inizia a frequentare il “Café de la Nouvelle-Athènes”, in cui
si riunivano regolarmente per discutere di arte e di altre
questioni di attualità alcuni pittori, fra cui Manet e Degas, il critico Duranty, il collezionista Theodore Duret e
lo scrittore Emile Zola. Durante questo periodo, forse influenzato dal realismo sociale dei romanzi di quest’ultimo,
come L’Assommoir e Germinal, il pittore trae ispirazione
dalla vita quotidiana dei minatori e dei contadini, raffigurandoli in cupi dipinti di denuncia sociale.
Dagli anni Novanta la tavolozza, la tecnica e i soggetti
della produzione del pittore cambiano a poco a poco radicalmente; dal 1890 al 1896 si assiste ad una evoluzione
artistica che, partendo dal realismo, approda ad una maniera vicina alle opere del Settecento francese di Fragonard
e Watteau. Sotto l’influsso dell’amico Félix Bracquemond,
pittore, incisore, ceramista e litografo, le tele di Latouche
diventano più luminose nella rappresentazione di un mondo di fontane, di parchi e giardini, soprattutto quelli di
Versailles, feste campestri e scene mitologiche, in cui la na-
tura è rappresentata in termini di colore e di luce, con una
serie di elementi di fantasia, che definiscono la sua nuova
pittura. La tecnica si caratterizza per veloci e svolazzanti
pennellate di diverse tonalità, che sembrano richiamare la
tecnica divisionista, dando ai suoi quadri una dimensione,
che sembra molto lontana dal mondo quotidiano, evidente
nelle opere “Il tempio dell’Amore” e “Sera d’estate”.
Membro degli Artisti Francesi dal 1883, ottiene il riconoscimento della medaglia di bronzo nel 1884 e d’argento
nel 1888, riceve un premio all’Esposizione Universale del
1889 e una medaglia d’oro a quella del 1900. Il pittore
espone regolarmente al Salon de la Société Nationale des
Beaux-Arts e alla Société des Peintres et Sculpteurs, nonchè presso la Société de la Peinture al’Eau, che aveva fondato nel 1906 e di cui era presidente.
Latouche ha ricevuto la Légion d’Honneur nel 1900 e, nel
1906 una commissione ufficiale per dipingere una festa a
Versailles, per il Palazzo dell’Eliseo.
La morte ha colto il pittore improvvisamente, mentre dipingeva, nel luglio del 1913.
GioaCChino isaCCo lEvi
Busseto 1818 - 1908
Nato a Busseto nel 1818, in un’agiata famiglia ebrea, fin
da subito manifestò le sue inclinazioni e velleità artistiche.
Studiò pittura a Parma presso l’Accademia di Belle Arti,
dove, dopo alcuni saggi accademici, l’opera “Creazione
d’Adamo” fu premiata nel 1848 e, l’anno successivo, il pittore vinse il pensionato di studio, che gli permise di recarsi
a Roma nel 1852 per perfezionarsi.
Nella capitale il pittore realizzò l’opera “Caino che medita
il fratricidio”, in cui appaiono intensificati gli elementi naturalistici, influenzati dal contatto con l’aperto ambiente
culturale romano e probabilmente anche con quello fiorentino. Negli anni romani il pittore acquista quel carattere artistico che caratterizzerà la sua futura ed intensa produzione, influenzata nondimeno dal romanticismo locale,
mutuato da quello piemontese e lombardo.
Nel 1852 il pittore riceve la commissione dall’Istituzione
benefica del Monte di Pietà di Busseto per l’opera “Il canonico Pelati legge a Girolamo, Ermete e Francesco Pallavicino le regole per la fondazione del Monte di Pietà a Busseto
nel 1537, presente il Padre Majavacca”.
Tra le altre opere di soggetto religioso possiamo citare il
dipinto “Giacobbe giacente”, una serie di affreschi realizzati per la cattedrale di Lambrate, raffiguranti “L’Annunciazione” e “Nascita di Cristo” e un “San Bernolto”, un “San
Evasio” e una “Santa Cecilia” eseguiti per la cattedrale di
Mondovì. Traducendo in pittura le note musicali dell’opera lirica di Giuseppe Verdi, il Nabucco, nel 1855 eseguì su
commissione della Società parmense d’Incoraggiamento
alle Belle Arti, “Noi appendemmo le cetre ai salici”, con
il quale interpretò il dramma degli ebrei che piangono la
patria lontana. Nel 1856 ebbe l’incarico di insegnante di
Figura al Collegio Nazionale di Torino, dove partecipò a
diverse mostre esponendo numerosi quadri, tra i quali “Il
cantastorie” e “La venditrice di numeri”. Nel 1860 realizza
il dipinto “Madonna Cia degli Ubaldini”, nel cui sfondo
compare la veduta del cortile della Rocca di Busseto.
Nello stesso anno Levi si trasferisce a Milano, dove diventa insegnante presso l’Accademia Militare. Socio onorario
dell’Accademia delle Belle Arti della città di Urbino e Parma, nel 1865 decorò ad affresco la volta del Teatro Verdi di
Busseto, con una serie di medaglioni che rappresentano le
quattro allegorie del teatro: la Tragedia, la Commedia, il
Melodramma e il Dramma romantico.
I bozzetti ad olio di queste figure sono conservati al Museo
Teatrale della Scala di Milano. Fu anche un valente ritrattista; nel 1865 dipinse una tela raffigurante il “Ritratto della
moglie nelle vesti di Ofelia”, personaggio tratto dall’Amleto di Shakespeare, drammaturgo a cui si ispirò per altre
opere di soggetto letterario tra cui “Titania”, “Ariel”, “Oberon” e “Puck”.
Il pittore si dedicò anche alla letteratura, scrivendo alcune
novelle, tra cui “Il barbiere suonatore”, che riscosse un notevole successo.
Levi si spegne nel 1908 a Busseto.
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antonio manCini
Albano Laziale 1852 - Roma 1930
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Nato ad Albano Laziale nel 1852, frequenta l’Istituto di
Belle Arti di Napoli fino al 1873, dove diventa allievo di
Domenico Morelli e del Palizzi. Si dedica a ritratti e quadri
aneddotici, interessandosi in modo particolare allo studio
della pittura del Seicento e agli effetti chiaroscurali.
Le opere eseguite tra il 1866 e il 1870 sono caratterizzate
da una maniera larga di modellare e da un incisivo risalto
dell’immagine sul fondo e nello stesso tempo da una ricchezza di velature cromatiche, come nei dipinti “Ritratto
di bimba” 1867, e “Scugnizzo” dell’anno successivo.
Questi soggetti, vicini a quelli di Gioacchino Toma, sono tratti dalle vie dei quartieri più popolari di Napoli, dove il pittore
condivise lo studio con lo scultore Vincenzo Gemito fino al
1873. Nel 1872 partecipa al Salon parigino, inviando i dipinti
“Ultimo sonno” e “Fanciullo che va alla scuola”.
L’anno successivo il Mancini si trasferisce a Parigi, dove lavora per la Maison Goupil, poi per il mecenate e pittore olandese Mesdag. Nella capitale francese studia il riflettersi e il
vibrare della luce e, a contatto con gli impressionisti, a poco
a poco abbandona i bruni, tipici della sua prima produzione
ed approda ad un colorismo più vivace e luminoso.
Questa materialità cromatica si accentua una decina d’anni
dopo, dal 1880, quando il pittore tende ad ispessire sempre
di più il fondo pittorico con pennellate dense e sfarfallanti,
fino ad inserire in diverse tele, alcuni oggetti come per esempio un nastro, un frammento di vetro, un pezzo di latta.
Tornato a Napoli, a causa di gravi e frequenti crisi nervose che lo avevano colpito nella capitale francese, il pittore
rimane per quattro anni in una casa di cura dove realizza
alcuni straordinari ritratti. Dopo qualche tempo riprende
a lavorare compiendo alcuni viaggi in Europa e soggiornando di nuovo a Parigi e a Londra.
Nel 1879 torna a Napoli e nel 1883 si stabilisce a Roma,
dove sottoscrive un contratto con due mercanti d’arte: prima con il Messinger, poi con il Du Chêne, che gli mette a
disposizione una villa a Frascati dove il pittore risiede per
undici anni, fra i più prolifici nella sua produzione.
Negli ultimi anni di vita, vengono allestite a Milano e a
Londra numerose mostre personali dell’artista, che consegue attestazioni di carattere ufficiale, quali la cittadinanza
onoraria di Napoli nel 1923 e la nomina ad Accademico
d’Italia nel 1927.
Pochi anni dopo, nel 1930 il pittore muore a Roma.
raymond pErry rodGErs nEilson
New York 1881 - 1964
Nato a New York nel 1881, spinto dalle forti tradizioni
militari familiari, era nipote dell’ammiraglio Christopher
Raymond Perry Rodgers, presidente del Collegio Navale
di Washington e soprintendente dell’Accademia Navale
degli Stati Uniti, si laurea nel 1905 all’Accademia Navale.
Solo dopo tre anni, nel 1908, decide di abbandonare la marina per dedicarsi ad una carriera artistica, ma viene reintegrato come tenente dell’ammiragliato a Londra, durante la
prima Guerra mondiale.
Dopo aver appreso i primi rudimenti artistici a New York
dal 1912 al 1914, studia con William Merritt Chase ed in
seguito si iscrive all’Art Students’ League, diventando allievo di George Bridgman, George Bellows, Luis Mora e
Frank DuMond.
Espone presso la Pennsylvania Academy of Fine Art dal
1913 al 1916, anno in cui entra al Museum of Fine Arts
School di Boston. Dopo la fine della guerra, il pittore si
reca a Parigi, dove continua la sua educazione artistica
frequentando prima l’Académie Julian, divenendo allievo di Jean –Paul Laurens, poi l’Ecole des Beaux-Arts e
l’Académie Colarossi, ed infine iscrivendosi all’Academie
Grande Chaumière, dove segue le lezioni Lucien Simon
e Richard Miller.
Nel 1914 il pittore ottiene la medaglia d’oro, esponendo
al Salon des Artistes Français di Parigi e, nel 1915, il primo premio all’Esposizione Internazionale Panama Pacific
di San Francisco. Nel medesimo anno il governo francese acquista il dipinto “Il cappello nero” per il Museo del
Lussemburgo. Ritornato negli Stati Uniti, il pittore inizia
una carriera come ritrattista, cimentandosi tuttavia, seppur
marginalmente, anche con la pittura di paesaggio e dedicandosi anche alla natura morta. Dal 1926 al 1927 diventa insegnante presso l’Art Students’ League e dal 1927 al
1934 della Nation Academy of Design, in cui presta servizio anche come segretario del consiglio dal 1937 al 1946.
La produzione del pittore comprende quasi esclusivamente
ritratti di numerose figure di rilievo a lui contemporanee,
del campo della politica, dell’economia e della cultura, tra
cui possiamo ricordare il ritratto dell’Ammiraglio William
Halsey e di P. Robert Patterson.
Realizzò inoltre i ritratti di “Harriet Whitney Frishmuth”
nel 1925, di “Hayley Lever” nel 1938, di “Boris Lovet –
Lorski” nel 1945 e di “Carl Schmitz” nel 1945. La carriera
dell’artista è caratterizzata da numerose esposizioni, in cui
ha ottenuto diversi riconoscimenti; il pittore ha partecipato alla National Academy of Design dal 1916 al 1946, dove
ha ottenuto un premio nel 1941, all’East Hampton Guild,
all’Allied Artists of America, ha conseguito un riconoscimento nel 1945 al Salmagundi Club e alla Accademia di
Belle Arti del Connecticut nel 1944 e nel 1949.
Il pittore si spegne a New York nel 1964.
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Filippo palizzi
Vasto 1818 - Napoli 1899
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Secondogenito della famiglia Palizzi, Filippo nasce a Vasto nel 1818. Dopo essersi stabilito a Napoli nel 1837,
frequenta il Reale Istituto di Belle Arti, quale discepolo di
Camillo Guerra e di Costanzo Angelini. Lasciato l’Istituto, intraprende gli studi dal vero, attraverso l’insegnamento di Giuseppe Bonolis, che lo portano a ritrarre con estrema attenzione i particolari della natura e degli animali, che
diventeranno i soggetti preferiti della sua produzione, come
rivela uno dei suoi primi dipinti “Interno di una stalla”. Le sue
prime opere incentrate su soggetti romantico - popolari gli
fanno guadagnare la stima del re, dal quale riceve la commissione per la realizzazione di alcune tele. Tra il 1841 e il 1842
trascorre alcuni mesi in Lucania, dove ritrae scene pastorali.
L’anno successivo compie un viaggio in oriente, facendo
tappa a Smirne, Costantinopoli e Galatz, poi in Moldavia,
dove si pone a servizio di alcuni esponenti dell’aristocrazia
boiarda, eseguendo numerosi ritratti e paesaggi.
Tornato in Italia nel 1844, dopo la partenza del fratello
Giuseppe per Parigi, nel 1847 trascorre per la prima volta
l’estate a Cava dei Tirreni, località che elegge a luogo ideale
per i suoi studi dal vero, divenendo sede ricorrente dei suoi
soggiorni estivi, in cui realizza diversi bozzetti, che rielabora poi a Napoli. Nel 1848, l’anno dei moti insurrezionali
nel regno delle Due Sicilie, dipinge “Le barricate del 15
maggio a Napoli” e “La sera del dì 11 febbraio 1848”, in
cui il pittore descrive i festeggiamenti popolari per la vittoria. Nel 1855 intraprende un viaggio in Olanda e Francia,
soggiornando a Parigi in occasione dell’Esposizione. In
questo periodo il pittore risente del decisivo apporto del
realismo, che si manifesta nell’indagine luministica più attenta e nella resa particolareggiata e meticolosa dei dettagli
naturalistici.
Nel 1861 fonda a Napoli la Società Promotrice di Belle Arti assieme al Morelli e allo Smargiassi e nello stesso
anno riceve da Vittorio Emanuele II la commissione per
il dipinto “Uscita degli animali dall’Arca”, che termina nel
1864. L’anno successivo si trasferisce in Francia dove, nel
1867, partecipa all’Esposizione Universale di Parigi con il
dipinto “Dopo il Diluvio”, che ottiene la medaglia d’oro.
Dopo gli anni Sessanta sperimenta gli effetti di controluce
nelle scene ambientate negli interni, soprattutto di stalle e
ovili, in cui utilizza maggiormente il chiaroscuro.
Diviene Presidente del Real Istituto di Belle Arti di Napoli
nel 1877 e l’anno dopo direttore delle scuole della Società
Operaia Napoletana e, nel 1880, contribuisce alla fondazione delle Scuole del Museo Artistico Industriale. Nel
1891, dopo anche la morte del fratello Giuseppe, il pittore
dona circa trecento opere sue e dei suoi fratelli alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, un secondo nucleo alla città di Vasto e lascia, nel 1898, un altro cospicuo
gruppo di opere alla Galleria dell’Accademia di Belle Arti
di Napoli, città nella quale si spegne nel 1899.
alBErto pasini
Busseto 1826 - Cavoretto 1899
Nato a Busseto nel 1826, si iscrive all’Accademia di Belle
Arti di Parma, dove studia con Giuseppe Boccaccio e Girolamo Magnani. Dopo aver combattuto nella prima guerra
d’Indipendenza, il pittore si recò a Torino, poi nel 1851 a
Ginevra e a Parigi, dove si dedicò principalmente alla pittura di paesaggio.
Nella capitale francese Pasini incontrò il litografo Tirpelle
e gli incisori Dupont e Ciceri. In quegli stessi anni entrò
in contatto con gli esponenti della scuola di Barbizon, soprattutto con Rousseau e Daubigny, che influirono sulla
produzione di questo periodo, incentrata su vedute della
città di Parigi, della Senna e della foresta di Fontainebleau. Interessato anche alla pittura orientalista di Fromentin,
nel 1855, grazie all’amicizia con il pittore Théodore Chassériau, ottiene di essere aggregato come disegnatore alla
missione diplomatica che, agli ordini del ministro Prosper
Bourée, toccò i principali paesi del medio Oriente.
In una serie di studi e in un taccuino, oggi conservato al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, il pittore riversò le sue vive impressioni, da cui trasse numerosi dipinti.
La sua prevalente produzione fu appunto incentrata sui
temi orientalisti; paesaggi, figure, costumi, mercati, bazar,
carovane nel deserto o fra le gole dei monti, oasi, vedute
e panorami soprattutto del Bosforo e di Costantinopoli,
città in cui soggiornerà, non continuativamente, dal 1867
al 1869. Divenendo Parigi stabile dimora del pittore, dal
1857 iniziò ad esporre la sua produzione di tele orientaliste al Salon, dove venne premiato nel 1859, nel 1863, nel
1864 e nel 1868. Il Pasini intervallò i suoi frequenti viaggi
in Oriente - è di nuovo in Asia Minore nel 1873 - a quelli
in Europa, visitando il Belgio e la Spagna nel 1869, dove
ritornò anche nel 1883, riportando studi di paesaggio e
scorci architettonici.
Dal 1871 si ritira sulle colline torinesi, a Cavoretto, dove,
anche in quest’ultimo periodo, sull’onda dei ricordi, l’artista ritorna alla pittura orientalista con uguale abilità, ma
con minore vigore, palesando una tavolozza più spenta. Al
contrario, i paesaggi che il pittore dipinge dal vero realizzati nel corso dei frequenti viaggi, soprattutto a Parigi e a
Venezia, dove il pittore soggiornò a più riprese dal 1878 al
1885, e, fra essi anche quelli della collina torinese, conservano la vivacità d’impressione del soggetto.
Nel 1878 partecipa all’Esposizione Universale di Parigi,
dove riceve la medaglia della Legione d’Onore, nel 1896
ancora al Salon, mentre nel 1898 espone alla Promotrice
di Torino circa duecento studi dal vero, che gli valsero un
grande successo di pubblico e critica.
Il pittore si spegne a Cavoretto l’anno successivo.
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salvatorE postiGlionE
Napoli 1861 - 1906
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Nato a Napoli 1861, apprese i primi rudimenti dal padre Luigi, pittore di quadri religiosi, e dallo zio Raffaele, valente disegnatore, studioso delle opere di Raffaello e professore all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove il pittore si iscrisse.
Frequentò le lezioni di Domenico Morelli, acquistandone
le tonalità brillanti e i soggetti tendenti al pittoresco, influenzati in parte anche dalla lezione michettiana.
Il linguaggio del pittore rimase tuttavia ancorato ad un forte realismo, sia nei dipinti di carattere storico – letterari,
quali “Dante e Matelda” e “Petrarca e Boccaccio”, sia nei
soggetti religiosi: “… è già attraverso le poetiche visioni che
in la “Benedizione di Giacobbe”, “Maddalena ai piedi di
Gesù”, “Mosè che libera le figlie di Madian” … “Erodiade”
si calibrando dolcemente fra il retorico fantasioso ed il “liricizzante” sapido delle sue intime immagini, la sua vena
creativa evidenzia chiaramente uno spiraglio individuale per
più acute osservazioni” (Don Riccardo, Artecatalogo dell’Ottocento Vesuvio dei pittori napoletani, Roma, 1973, p. 189).
Compì studi approfonditi sull’opera dei grandi interpreti
del colore del Rinascimento, quali Tiziano, Raffaello, poi
Rembrant e Rubens in particolare, dai cui trasse ispirazione per il “Ratto delle Sabine”, il “Ratto delle figlie di Leucippo” e la “Sconfitta di Sennacherib”.
D’altra parte non si potrebbe pensare ad opere tipiche
della produzione del pittore, legate alla tematica di genere,
quali “Amore in collera” e “Dita di fata” senza il dipinto
rubensiano “Rubens e Hélène Fourment in giardino”.
Praticò vari generi pittorici, tra cui il ritratto, con parti-
colare predilezione per la figura femminile, il paesaggio e
scene tratte dalla vita monacale.
Nel 1883 espose con successo a Roma “Anche tu fosti sposa, o Maria!”, mentre nel 1884 presentò all’Esposizione di
Torino il dipinto “Arnaldo da Brescia e Papa Adriano IV”.
Nel 1887, alla Biennale di Venezia, espose “Pier Damiano
e la Contessa Adelaide di Susa” e “Il ritratto del mio maestro”, opera conservata alla Galleria d’Arte Moderna di
Roma, mentre nel 1906 partecipa all’Esposizione di Milano con il dipinto “Pane quotidiano”.
Il pittore si affermò tuttavia anche come decoratore, affrescando alcuni saloni del castello di Miramare a Trieste e del
Palazzo De Riseis a Napoli.
Postiglione si spegne a Napoli nel 1906 all’età di soli quarantacinque anni.
Il 24 maggio 1907 fu commemorato all’Accademia di Belle Arti di Napoli, mentre nel 1910 furono esposte ad una
mostra retrospettiva dedicata al pittore ed organizzata alla
Biennale di Venezia, i dipinti “Interno” e “Cuore contento”.
GaEtano prEviati
Ferrara 1852 - Lavagna 1920
Nato a Ferrara nel 1852, svolge gli studi artistici nella sua
città natale con Domenichini e Pagliarini, ma presto si trasferisce prima a Firenze dove diventa allievo di Cassioli ed
infine a Milano, dove frequenta l’Accademia di Brera con
Bertini. Del periodo giovanile sono alcuni dipinti di chiara impostazione accademica come “Gli ostaggi di Crema”,
eseguito durante gli anni di studio a Milano, che gli valse
il premio Canonica nel 1879. Nel capoluogo lombardo il
pittore, influenzato nella tecnica soprattutto da Tranquillo
Cremona, realizza alcuni dipinti di tema storico caratterizzati da un sentire lirico e patetico, eludendo la tendenza al
tema patriottico del suo tempo. Con una rappresentazione
visionaria della storia, di influenza morelliana e cremonese,
realizza “Paolo e Francesca”, “Gli ostaggi di Crema”, opera
con cui vinse nel 1887 il premio Canonica e “Le orge di
Cesare Borgia a Capua”, con il quale aveva impressionato la
critica e il pubblico per la capacità di narratore, in un opera
di così grandi dimensioni.
Il pittore rimase fedele a questa tematica storica fino al 1887,
quando, a seguito dell’incontro con il pittore Vittore Gubricy
de Dragon, l’artista abbracciò le nuove aspirazioni artistiche
e luminose del Divisionismo, sull’uso cioè del colore a stesure filamentose, a partire dal dipinto “La maternità” del 1891,
esposto alla Triennale di Milano, seguito poi dalla “Madonna
dei gigli” del 1894. Altre opere coeve di immediata ispirazione sono “La danza delle ore” e “Poesia pura”, dipinti a cui ne
fece seguire altri ispirati dal puro misticismo religioso, quali
“Marie spasimanti sotto la Croce” e “I Re Magi”.
Particolarmente vicine al gusto del tempo sono le opere
realizzate nell’ultimo decennio dell’Ottocento, nelle quali il pittore adegua il simbolismo alla tecnica divisionista,
per dar vita per esempio all’episodio storico del “Re Sole”,
conservato nella Galleria d’Arte Moderna di Milano. Nelle opere eseguite dall’artista dopo il 1900 appare un più
approfondito convincimento dei mezzi tecnici della poetica divisionista, soprattutto nel “Trittico del giorno” del
1907 e ne “La caduta degli angeli”, esposto nella Galleria
Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Il pittore seppe dare
concretezza pittorica alle immagini quali ci appaiono nei
sogni, in cui, le deformazioni delle sue figure, sono parte
del suo pensiero artisticamente spiritualizzato, del quale dissertò nei tre volumi sulla teoria e tecnica pittorica
“I principi scientifici del divisionismo” del 1906. Previati
si spegne a Lavagna, vicino a Genova, nel 1920, ma già dal
1917, a seguito di alcune vicende famigliari, l’artista si era
allontanato dalla pittura.
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ruBEns santoro
Mongrassano 1859 - Napoli 1942
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Nato a Mongrassano, in provincia di Cosenza nel 1859, apprende i primi rudimenti dell’arte dal padre scultore. Dopo
aver frequentato soltanto un anno l’Istituto di Belle Arti di
Napoli, l’artista si dedica alla pittura dal vero. Tuttavia nei
suoi dipinti, Santoro risente dell’influenza del Morelli, del
Dalbono e del Lojacono, come si nota anche nel dipinto
“Una fanciulla che ride”, che il pittore presenta nel 1875
all’Esposizione di Venezia, vincendo la medaglia d’argento.
Dopo l’incontro con Mariano Fortuny nel 1874, il pittore
impreziosì la propria tavolozza di tinte brillanti e luminose.
I dipinti “Al sole” del 1878 e “Idillio”, opera eseguita dal pittore l’anno successivo, costituiscono due importanti testimonianze di questa nuova pittura. Nel 1874 e nel 1876 Santoro partecipa alle mostre della Promotrice Salvator Rosa,
esponendo soprattutto marine e scene di genere, soggetti
che ricorreranno in tutta la sua produzione.
Nel 1877 presenta all’Esposizione Nazionale, tenutasi a Napoli, i dipinti “Marina di Maiori” e “Una lezione di musica”.
Nel decennio compreso fra il 1880 e 1890, il pittore partecipa con successo a numerose esposizioni fra cui quella di
Torino, quella mondiale Colombiana tenutasi a Chicago,
quella di Parigi e all’Esposizione di Palermo, dove il dipinto
“Pescarenico”, premiato con la medaglia d’oro, viene acquistato dal re Umberto I.
Dal 1880 soggiorna per alcuni anni a Venezia e nel 1884 si
trasferisce a Verona, città nella quale realizza numerose vedute, derivate da piccoli studi preparatori realizzati ad olio
e, più spesso, ad acquarello. La luce, il motivo conduttore
di tutta l’opera dell’artista, è studiata sulle mura di case rustiche,
o sul viso di vecchie, contadini piuttosto che pescatori, o come
fine strato argenteo, nelle marine o nelle calli veneziane.
L’alta qualità della pittura gli permise di entrare in contatto, tramite il mercante Gupil, con il mercato internazionale.
Nel 1911, dopo aver partecipato col dipinto “Un canale a
Venezia” all’Esposizione Internazionale di Buenos Aires,
viene premiato a Barcellona con la medaglia d’argento per
il dipinto “Verona”.
Alla morte di Domenico Morelli, l’artista ottiene una cattedra presso l’Istituto di Belle Arti di Napoli. Santoro si spegne nella città partenopea nel gennaio del 1942.
pompilio sEvEso
Milano 1877 - 1949
Nato a Milano nel 1877, dopo un primo apprendimento
da autodidatta, si iscrive all’Accademia di Brera, seguendo
i corsi tra il 1893 e il 1895.
In seguito il pittore frequenta la Libera Scuola del nudo,
sempre presso l’Accademia, dal 1904 al 1909 e poi dal
1915 al 1916.
L’artista milanese intraprende, rispetto ai percorsi tradizionali, un autonomo percorso di avvicinamento alla pittura,
orientato dall’osservazione delle opere di grandi maestri,
quali Filippo Carcano e soprattutto Leonardo Bazzaro,
che Seveso conobbe e frequentò assiduamente.
Da quest’ultimo, il pittore milanese adotta il lessico per la
rappresentazione di paesaggi lacustri e montani, di figure
e scene di genere legate alla vita contadina, traendo in più
occasioni ispirazione dai frequenti periodi di soggiorno
trascorsi a Feriolo, sul Lago Maggiore, e dai panorami osservati in Valmalenco e in Valtellina.
Significativi della sua produzione pittorica appaiono diversi paesaggi fra cui “Valtellina nei dintorni di Bormio”,
“Bosco a Caglio”, “In montagna” e “Paesaggio lacustre”.
Pur nel rispetto dei tradizionali canoni del paesaggismo
lombardo del tardo Ottocento, cui l’artista aveva aderito
fin dagli esordi, i suoi paesaggi rivelano tuttavia nuove soluzioni formali, individuabili in un’impostazione compositiva priva di compiacimenti descrittivi.
Ne risulta una pittura spoglia ed essenziale nella trattazione di
alcuni elementi naturali, che diventano quasi segni stilizzati,
alternati a campiture di colore più ampie, giocate su alcune
gamme sapientemente sfaldate nelle loro diverse tonalità.
Protagonista di una carriera piuttosto appartata rispetto ai
tradizionali circuiti espositivi dell’epoca, la resa abbreviata
e semplificata delle immagini, colloca il pittore nel clima
di transizione dal Naturalismo al Simbolismo, tipico di
molti artisti operanti nei primi decenni del Novecento,
avvicinandosi negli anni della maturità, anche attraverso
l’influenza dell’amico Emilio Longoni, a sperimentazioni
divisioniste.
Il pittore si spegne a Milano nel 1949.
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adolFo tommasi
Livorno 1851 - Firenze 1933
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Nato a Livorno nel 1851, cugino dei fratelli Angiolo e Ludovico Tommasi, studia all’Accademia di Firenze sotto la
guida di Carlo Markò junior e, tra il 1876 e il 1877 esordisce
alla Promotrice di Firenze con i dipinti “Ingresso al castello
di Signa” e “Monte Acuto”, opere che fecero intuire a Silvestro Lega il talento del giovane pittore livornese. Alla fine
degli anni Settanta, l’artista trovò in Lega una guida capace
di indirizzare la sua sensibilità artistica verso una pittura più
naturalista. Dipingendo assiduamente en plein air, Tommasi presentò nel 1880 varie opere all’Esposizione Società Donatello e a Torino il dipinto “Dopo la brina”. Le ricerche di
questi anni si concentrano sulla resa atmosferica e alla veduta dal vero, manifestando un chiaro rapporto con la corrente naturalista, alternando paesaggi, marine toscane e scene
campestri quali “La raccolta del fieno” del 1881.
Nel 1884, dopo aver presentato all’Esposizione Nazionale
di Torino “Il fischio del vapore” e “Idillio”, nella ricerca di
nuove soglie di sperimentazione pittorica dal vero, il pittore si trasferisce sul litorale ligure, a Recco, dove realizza una
ventina di piccole vedute.
La ricerca luministica di questi anni risente delle influenze
dell’Impressionismo, conferendo ai paesaggi del pittore
un’atmosfera altamente evocativa, solennemente espressa
nella tela di grandi dimensioni dal titolo “Primavera”, opera acquistata nel 1892 da re Umberto per la Galleria d’Arte
Moderna, in cui un semplice campo di carciofi esprime una
quiete idilliaca, che sembra rifarsi alla poetica di Giovanni
Pascoli, divenuto intimo amico del pittore.
Nel 1893 Tommasi vince la medaglia d’oro all’Esposizione
Internazionale di Milano con “Effetto di neve”, opera che
siglò il successo dell’artista e la sua eccellenza nella pittura
di paesaggio, cosa che si può ammirare anche nel dipinto
“Tramonto invernale”, una marina presentata nel 1896 a
Venezia, che si apriva alla pittura simbolista di carattere
bockliniano di fine secolo.
Al 1897 risale la nomina del pittore ad insegnante di disegno all’Accademia Navale di Livorno.
Una malattia del sistema nervoso impedì a Tommasi di lavorare
dal 1907 fino al 1912 quando, con il dipinto “I rifiuti del mare”,
riprese la sua attività, esponendo a Milano con successo.
In questi anni di maturità artistica, non mancò di sperimentare tecniche nuove, tali da esaltare la resa luministica, realizzando numerose vedute della campagna livornese e lucchese,
marine, villaggi apuani e liguri.
Nel 1925 Tommasi si ammala nuovamente e muore a Firenze nel 1933.
vittorE zanEtti zilla
Venezia 1864 - Milano 1946
Nato a Venezia nel 1864, frequenta lo studio di Giacomo
Favretto e nel 1882 si iscrive all’Accademia di Belle Arti
di Venezia, divenendo allievo, negli anni successivi, di Guglielmo Ciardi. Nelle opere giovanili l’artista si dedica alla
pittura di genere e scene in costume ambientate a Venezia,
influenzate dalla lezione di Favretto e Lancerotto. Maggiormente vicino al lessico di Guglielmo Ciardi si rivela
la successiva produzione legata al paesaggio, con soggetti
lagunari e scene campestri.
Trasferitosi a Napoli, poi in Sicilia, dove soggiorna per
quattro anni, dal 1884 al 1888, durante i quali entra in
contatto con le scuole dei pittori meridionali, Vittore matura uno stile personale, che si esprime sopratutto nell’ambito del paesaggio. In un lungo viaggio in Europa, intorno
alla fine del secolo, che porta il pittore prima in Francia,
in Inghilterra e in Spagna, poi in Germania e in Austria,
ha modo di entrare in contatto con le correnti pittoriche
più innovative e di approfondire la conoscenza dei pittori
stranieri, di cui già aveva avuto modo di vedere le opere
esposte alla prima Internazionale di Venezia.
Dal 1897 al 1932 espone in maniera continuativa alle
Biennali veneziane; tra questi dipinti si devono ricordare
“Mattino alla Giudecca” esposto nel 1899 e ora conservato
nella Galleria d’Arte Moderna di Roma, le opere “Rapporti” e “La casa del pittore” del 1907 e “Isola Sacra”, che, esposta nel 1922 assieme a “Gemelli” e “Reti al sole”, costituisce
una delle sue migliori opere. Nei primi anni del Novecento, quando aggiunge il secondo cognome Zilla, per evita-
re di essere confuso con il pittore emiliano Miti Zanetti,
l’artista veneziano approda ad un nuovo linguaggio che lo
porta ad abbandonare il tradizionale realismo.
Sperimentando una nuova tecnica pittorica di sua invenzione, una tempera grassa con velature ad olio, Vittore
realizza un vocabolario caratterizzato da eleganti tonalità.
Nel 1908 il pittore tiene una mostra personale a Vienna, in
cui ottiene un grande successo di pubblico e critica, dovuto
anche all’avvicinamento agli stilemi decorativi del lessico
jugendstil. Nel 1914 conquista il primo grande riconoscimento anche in Italia, a seguito della prima personale alla
Biennale di Venezia, in cui il pittore espone ventidue opere, fra cui “Scirocco”, “Oleandri in fiore” e “Traboccoli”.
Allo scoppio della Grande Guerra, Zanetti Zilla si trasferisce a Milano, dove continua a dipingere e trattare temi di
Venezia e della laguna, senza mai abbandonare le vedute di
boschi e foreste.
Il pittore muore a Milano nel 1946.
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Coordinamento
Dott.ssa Isabella Fogliani
Impaginazione
Chiara Giordani
Foto
Produzione (Treviso)
Stampa
Grafiche Veneziane (Venezia)
Confezione
Legatoria Verrati (Venezia)
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