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Il tempo ritrovato

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Il tempo ritrovato
Marcel Proust
Le Temps retrouvé
Il tempo ritrovato
Il cappotto di Marcel Proust, conservato ma non esposto al
Musée Carnavalet di Parigi. Per gentile concessione della
Direzione del Museo. Fotografia di Roberto Maggiani.
LR
www. a echerche.it
eBook n. 158
Pubblicato da LaRecherche.it
[ Romanzo in lingua francese ]
Traduzione dell’incipit in italiano a cura di
Alessandra Ponticelli Conti
Introduzione a cura di
Gennaro Oliviero
Proposto nel centenario della pubblicazione di
Du côté de chez Swann, Grasset, 1913
§
Leggi anche, su www.ebook-larecherche.it:
Du côté de chez Swann, [ eBook n. 144 ]
À l’ombre des jeunes filles en fleurs, [ eBook n. 146 ]
Le Côté de Guermantes, [ eBook n. 149 ]
Sodome et Gomorrhe, [ eBook n. 151 ]
La Prisonnière, [ eBook n. 154 ]
Albertine disparue [ eBook n. 157 ]
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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SOMMARIO
INTRODUZIONE
Il Tempo ritrovato: un po’ di tempo allo stato puro
nell’atmosfera della Grande Guerra
di Gennaro Oliviero
(Direttore della rivista Quaderni proustiani)
- Introduzione
- Il segreto del romanziere
- Il mondo delle ombre e della morte prima della resurrezione
- Il pastiche dei Goncourt
- La rappresentazione della Grande Guerra
- Cosa pensava realmente Proust della guerra?
- Il Tempo ritrovato di Raoul Ruiz
- La bellezza del mondo
(pensando al libro La Bellezza non si somma di Roberto Maggiani)
-
Appendice
Argomento e genesi del Tempo ritrovato
Incipit di LE TEMPS RETROUVÉ
traduzione di Alessandra Ponticelli Conti
LE TEMPS RETROUVÉ
Chapitre I - Tansonville
Chapitre II - M. de Charlus pendant la guerre ; ses opinions, ses
plaisirs
Chapitre III - Matinée chez la princesse de Guermantes
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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L’AUTORE
COLLANA LIBRI LIBERI [ eBook ]
AUTORIZZAZIONI
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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INTRODUZIONE
Il Tempo ritrovato: un po’ di tempo allo stato puro
nell’atmosfera della Grande Guerra
di Gennaro Oliviero
(Direttore della rivista Quaderni proustiani)
Introduzione
«A metà agosto del 1909, dal Grand Hôtel di Cabourg
dove si alza alle nove e mezzo di sera, Proust scrive a
Madame Straus: “ Mi leggerete – e più di quanto non
vorreste – perché ho appena cominciato – e finito – tutto un
lungo libro… Tutto è scritto, ma molte cose sono da
rimaneggiare». Proust intendeva dire che del suo romanzo ha
steso, di seguito, l’inizio e la fine. «Quest’opera è così
meticolosamente “composta”…che l’ultimo capitolo
dell’ultimo volume è stato scritto immediatamente dopo il
primo capitolo del primo volume. Tutto quello che c’è di
mezzo è stato scritto dopo, ma tanto tempo fa», spiegherà,
dieci anni più tardi, nel dicembre del 1919, a Paul Souday».
Ho inteso iniziare questo scritto riportando – alla
lettera – l’incipit dell’introduzione con la quale Daria
Galateria presenta la sua annotazione del Tempo ritrovato nel
Meridiano Mondadori del 1993: un tributo affettuoso
all’amica Daria e – al tempo stesso – il modo migliore per
comprendere, attraverso le due affermazioni di Proust
soprariportate – il “segreto” più profondo della struttura
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circolare della Recherche. Prosegue Daria Galateria: «Le
primissime tracce del Tempo ritrovato si affacciano già nel
Cahier de 1908: i motivi della vecchiaia e della memoria
involontaria […] e il passaggio: “Alberi non avete più nulla
da dirmi”, che riaffiora, come citazione dell’epoca
dell’impotenza letteraria, nella sequenza della riflessione
estetica, l’Adoration perpétuelle – che, per essere collocata
durante la matinée dai Guermantes, Proust chiama
ironicamente “l’estetica nel buffett”. Molti momenti di
questa meditazione sono presenti nei primi dieci quaderni
preparatori della Recherche, quelli chiamati Contre Sainte-Beuve
perché Proust esita tra il romanzo e il progetto di un saggio
polemico sul metodo del grande critico».
Il segreto del romanziere
Il Tempo ritrovato è il volume in cui, dopo una serie di
riflessioni costanti e per certi versi conclusive (si ricordi però
che Proust non ha avuto modo di rivedere integralmente il
testo), nel Narratore si chiarisce progressivamente la natura
della vocazione letteraria. In quello spazio sospeso che la
biblioteca dei Guermantes diventa nell’ultima sezione del
volume si avverano due movimenti sovrapponibili,
centrifughi e centripeti insieme; le “intermittenze del cuore”
si convertono in vere e proprie epifanie di senso, mentre il
rapporto del soggetto con il Tempo si scioglie nel recupero
dell’esperienza passata, che deve però ancora avvenire
attraverso il racconto, la finzione; per il tramite delle
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riflessioni del Narratore, è Proust stesso a portare a termine
una meditazione, che risale alle sue prime prove di critico,
sul realismo in letteratura e sul proprio mezzo espressivo, la
scrittura letteraria.
Si è fatto cenno al “segreto” della Recherche;
soffermiamoci quindi fuggevolmente sul “segreto del
romanziere” tout-court.
«L’intelligenza di un romanziere non ha altro scopo che
d’illuminare il più possibile il segreto che si cela in lui. Questo
segreto, al centro dell’opera, è multiplo fin quando l’autore
non ha trovato la sua unità, e può essere alla fine anche un
centro unico, dal quale riceverà luce tutta l’opera. Ricerca
della felicità in Stendhal, Principio unico e divino della
creazione in Balzac, occhio potente di Dio in Hugo.
Cosicché, per ciascun scrittore, noi dobbiamo cercare di
cogliere il punto di vista centrale a partire dal quale tutta
l’opera si illumina e acquista un senso. In Flaubert questo
sarà senza dubbio il sentimento della fatalità; in Gide la
sincerità, in Proust ciò che egli chiama “Il tempo ritrovato”».
Ho citato questa frase di Guy Michaud contenuta in L’œuvre
et ses techniques (Libraire Nizet, Paris, 1957, pp. 119-120)
perché ci da la misura del segreto della Recherche, opera in cui
tutto sembra un arabesco, ricco di meandri sinuosi; ma si
tratta solo di apparenza, di un effetto ottico, perché nella sua
opera ogni dettaglio è smisuratamente ingrandito. Bisogna
quindi guardare tutto da un punto di vista più alto: tutto
procede in modo rettilineo ma non in superficie, ma nel
senso della profondità. E’ una continua esplorazione a
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partire dalla frattura della quotidianità, a partire dalla
madeleine inzuppata nel thé, la ricerca di una “essenza
preziosa” fino alla scoperta del Tempo ritrovato. La scoperta
del motivo del Tempo, mediatore tra identità e alterità, è il
“segreto” fondamentale sul quale riposa tutta la Recherche:
questo “immenso edificio del ricordo”.
Il mondo delle ombre e della morte prima della resurrezione
Le passeggiate notturne del Narratore in compagnia di
Gilberte aprono lo scenario del Tempo ritrovato. Sotto il chiar
di luna il Narratore si ferma con la sua compagna al bordo di
una valle: «au moment d’y descendre comme deux insectes
qui vont s’enfoncer au coeur d’un calice bleuâtre».
L’ouverture del Tempo ritrovato continua il movimento
discendente verso il mondo delle ombre e della morte,
cominciato già in quella lontana sera di Combray, nel bel
chiaro di luna, quando il bambino tormentato assiste dalla
finestra alla partenza di Swann. La luna, simbolo del tempo e
della morte illumina i grandi boulevards, ma Parigi è «plus
noir que n’était le Combray de mon enfance».
Nel corso della passeggiata del Narratore e del barone
di Charlus, la luce irreale della luna fonde le passeggiate del
1914 e del 1916 in una sola, ma nel 1914 il compagno del
Narratore si chiama Saint-Loup. I riflessi della luna hanno il
potere di evocare non solo i momenti del passato di una
persona ma anche il tempo antico della storia e della
leggenda.
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La luna della Bibbia e delle Mille e una Notte è sempre la
stessa che illumina la Parigi della guerra. Questo «splendeur
antique inchangée d’une lune cruellement, mystérieusement
sereine» ricorda le epoche e gli uomini scomparsi. Sotto il
regno della Morte si inscrivono le città maledette cadute in
rovina. Quando il Narratore, accompagnato da Charlus, si
avvia nell’ultimo cerchio del suo girone infernale pensa
all’iscrizione ritrovata sui muri di Pompei: Sodoma e Gomora.
La frase presente sulle decorazioni pompeiane della casa di
tolleranza di Jupien ricorda «la fin de la révolution française».
La crudeltà dell’Oriente persiste nella civiltà moderna.
Noi sappiamo come Mme Verdurin può essere feroce;
ella s’aggrappa ai superstiti, cercando di convincerli che sono
più utili alla Francia restando a Parigi; mangia i suoi
croissants meditando le catastrofi descritte nel giornale,
rivolgendo così il pensiero del lettore verso il simbolo della
crudeltà, come anche la rue de la Seine «qui devait
ressembler au Bosphore» ci fa conoscere il pensiero del
Narratore.
Se Charlus ha pensato poco prima agli spettacoli
asiatici, il Narratore da parte sua potrebbe ricordarsi degli
stessi sogni delle atmosfere orientali. La passeggiata sotto la
luna rinforza il loro legame: legami che si rafforzano tra i
personaggi ma che al tempo stesso mostrano il loro viso di
condannati a morte. Anche Saint-Loup sente che egli è
«condamné d’avance». Prima della matinée conclusiva, la vita
appare come un sogno, per il Narratore che viaggia in una
vettura che sembra scivolare senza rumore nelle «allées
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couvertes d’un sable fin ou de feuilles mortes». Egli rivive le
sue passeggiate infantili sugli Champs-Élysées lungo i viali, in
compagnia della nonna ammalata, nel momento in cui le
prime ombre del tramonto riportano alla mente la città
dannata di Pompei. Il tempo sembra che gli rivolga la parola
e che si incarni sotto le spoglie della vecchiaia. Il trionfo del
tempo risalta sotto il grido di Ubi sunt (Où sont les amis
d’antan). Luna, rovine, vecchiaia fondono i loro segni in una
verità sub lunare e destano nel viaggiatore impressioni
profonde. Se i segni felici dei suoi cinque sensi hanno
prodotto il miracolo, la resurrezione del tempo perduto - nel
momento in cui il Narratore perde l’equilibrio sul selciato del
cortile dei Guermantes - tenta di riportare la vittoria finale;
che questa volta si presenta sotto una figura troppo semplice
per essere presa sul serio, un orologio «où le ressort
déclenché de l’horlogerie va sonner l’heure». Il tempo
manifesta il suo aspetto a-temporale attraverso la perdita
dell’equilibrio: «Mais je manquai trois fois de tomber en
descendant l’escalier». Al posto della resurrezione felice
appaiono tre perdite: la memoria, la forza e il pensiero. Il
futuro creatore sarà privato delle sue facoltà di lavoro. La sua
vita sarà la preparazione al riposo eterno. Il letto, il punto di
partenza del viaggiatore, l’attende al suo arrivo, quel letto che
gli ricorda la tomba.
Chiuso dietro la «porte funéraire» l’idea della morte si
installa definitivamente come un amore presso il Narratore e
gli tiene compagnia. E’ una risposta tardiva al giovane autore
dei Plaisirs et les Jours che si chiede, nel brano intitolato Regrets
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et Rêveries, se dalle nozze con la morte potrà nascere la
cosciente immortalità. Questo giovane autore chiamato
Dominique (firma di Proust nel Figaro) incontra uno
straniero che desidera che Dominique mandi via i suoi
invitati per restare con lui, ma Dominique rifiuta. Egli è
troppo giovane per restare solo. Questo straniero,
incarnazione della morte fraterna, è riconosciuto dall’autore
della Recherche.
Nel Tempo ritrovato il «rendez-vous urgent capital avec
moi-même» si scontra con la realtà rassicurata. Il tempo
ritrovato è dunque la temporalità ritrovata, l’esperienza della
presenza della morte come condizione stessa dell’arte. Se
tutti gli artisti, Elstir, Bergotte, Vinteuil, si dissolvono per
lasciare posto al nascente creatore, un altro personaggio
appare sulla scena. E’ la Berma morente, abbandonata dai
suoi figli. Questa figura dell’artista racchiude la verità del
contrappunto del romanzo: la Berma muore e con essa
muore anche la sua arte. E malgrado tutto non è nella stessa
temporalità dell’arte che consiste la sua grande bellezza?
Come scrisse Sigbrit Swahn, nel Bulletin de la Société des Amis
de Marcel Proust et des Amis de Combray (N. 27 – 1977) «en
laissant la victoire au Temps, Proust a retrouvé le seul moyen
de le vaincre. Sa plus belle incarnation de l’artiste reste la
mère profanée qu’est la Berma». Il che equivale a dire che in
Proust l’esperienza artistica viene vissuta come rinuncia alla
vita, in nome di una promessa di resurrezione che si presenta
al Narratore proprio alla fine della sua opera; egli è – come
ha scritto Jean-Yves Tadié – il più grande scrittore del XX
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secolo: con costanza e determinazione ha rinunciato ai
caratteri del romanzo classico unificando il suo discorso
romanzesco attraverso il ricorrere di temi e immagini
indimenticabili che sono scaturite dall’ “essenza” della sua
vita.
Il pastiche dei Goncourt
Nelle pagine dedicate al pastiche dei Goncourt, presenti
nel Tempo ritrovato, emerge con forza l’idea della creazione
artistica come frutto della capacità di andare oltre lo strato
superficiale delle cose. Proust – contrariamente a quanto fa il
Narratore nella Recherche, che invece di primo acchito si
mette in discussione – condanna in maniera inequivocabile
l’eccessiva attenzione ai dati della realtà, attribuendo
all’artista un ruolo differente dalla pura trascrizione di ciò
che ascolta e dall’esatta riproduzione di ciò che osserva. Le
affinità tra Proust ed i Goncourt non mancano e si basano
sull’attenzione alla psicologia dei personaggi che nei
Goncourt è portata all’eccesso. Se, ancora, la ricchezza dei
dettagli per Proust non è indice di per sé di genio creativo, il
fatto che nelle pagine dei Goncourt il dettaglio sia
valorizzato a scapito della concatenazione generale e la
giustapposizione a scapito della concreta nozione logica,
risulta apparentabile alla scelta proustiana delle inserzioni e
delle digressioni. Forse proprio tale parziale contiguità
condusse Proust a inserire il pastiche tra le pagine del Tempo
ritrovato, ponendo l’accento sulla capacità di fare della propria
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vita e delle proprie esperienze un romanzo. Ne consegue che
in Proust non vi è l’idea di una letteratura non realistica, ma
di una letteratura che cerca di rappresentarci la realtà altra,
una verità vera («Così la letteratura che s’accontenta di
“descrivere le cose”, di darne appena un miserabile rilievo di
linee di superfici, è, pur chiamandosi realista, la più lontana
dalla realtà, quella che più ci impoverisce e ci rattrista, perché
interrompe bruscamente ogni comunicazione del nostro io
presente con il passato, di cui le cose serbavano l’essenza, e
con il futuro, dove ci incitano a goderne nuovamente. E’
questa essenza che un’arte degna di tale nome deve
esprimere; e se fallisce, dalla sua impotenza si può ancora
trarre un insegnamento (mentre non se ne può trarre alcuno
dalle riuscite del realismo), e ciò che si tratta di una essenza
parzialmente soggettiva e incomunicabile»).
La realtà quindi non è un «residuo dell’esperienza» ma,
come Proust fa dire al Narratore, «è il rapporto tra le
sensazioni e i ricordi che circolano simultaneamente».
La rappresentazione della Grande Guerra
La narrazione riguardante la prima guerra mondiale
occupa nell’ultimo volume della Recherche un posto
significativo, che appare tale anche alla luce dei saggi e delle
conferenze che nel corso dello scorso anno e nel 2014 si
sono registrati. Per limitarci a quanto svoltosi nell’ambito
dell’Associazione Amici di Marcel Proust va ricordato il
saggio di Sabrina Martina, di cui si dirà in seguito, la
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conferenza di Gennaro Oliviero nel gennaio 2014 presso la
Società Italiana dei Francesisti a Salerno e quella recente di
Philiphe Chardin, promossa da Silvia Disegni dell’Università
“Federico II” e da Gennaro Oliviero, svoltasi a Napoli l’8
aprile ultimo 2014. Ritengo quindi meritevole di particolare
interesse una trattazione ampia dell’argomento in questione.
Come ha messo bene in evidenza Sabrina Martina (in
“Quaderni proustiani” – 2014) lo storico si trova spesso
davanti ad una massa opaca di fatti che deve cercare di
interpretare. La scelta del romanziere è più agevole, perché
egli non può che partire dal suo punto di osservazione, da
quel segmento che si cela in lui. Proust sceglie quello della
notte. Che la dimensione notturna, connessa al sonno e al
sogno, sia collegata in un rapporto stretto con la dimensione
storica dell’esistenza umana, è un fatto che appare
confermato fin dalla prima pagina della Recherche, laddove il
Narratore semiaddormentato ci dice che, durante il sonno
che precedeva i suoi risvegli notturni, le riflessioni del libro
avevano preso un aspetto particolare: «Mi sembrava di essere
io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un
quartetto, la rivalità di Francesco I e Carlo V». L’inclusione
all’interno di questi pensieri divenuti sogni di un tema di
portata epocale come la contrapposizione tra i due grandi
sovrani del sedicesimo secolo rispecchia la volontà di Proust
di dare una dimensione storica all’opera appena intrapresa,
che si manifesta fin dalla sua ouverture.
Questa lettura corrisponde ad una risposta affermativa
al quesito che quasi tutti i lettori che si sono occupati del
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tema della guerra nella Recherche hanno posto d’emblée come
ineludibile: riuscì Proust a integrare il lungo capitolo sulla
guerra, composto sotto la pressione immediata di un
avvenimento storico che al momento della concezione
dell’opera (già terminata nel 1913 quanto ad architettura e
partizioni fondamentali) non poteva immaginare né
prevedere? Come si giustifica questa “irruzione del presente”
nel tempo di scrittura della Recherche? Lo scrittore–cercatore
di leggi e lo storico avrebbero molto in comune. La notte
orienta la riflessione del Narratore sulla storia; tale riflessione
sembra “un colpo di pistola nel mezzo di un concerto”.
La notte domina le passeggiate notturne del narratore a
Parigi nel 1916 sotto il coprifuoco, quando “Parigi era
almeno in certi quartieri, più buia di quanto non fosse la
Combray della mia infanzia”, e il ricordo delle visite notturne
di Swann interviene immediatamente dopo a collegare il
tema della notte della storia e dell’identità narrativa dei
personaggi allo spazio e al tempo in cui si svolge la
narrazione proustiana.
Nel cuore della Grande Guerra, e soprattutto a partire
dal 1916, Il Tempo ritrovato si arricchisce di tutto un universo,
che Proust sintetizza in una lettera del dicembre del 1919,
con una folgorante e ironica attenuazione: «Alla
pubblicazione di Swann nel 1913, erano già scritti non
soltanto À l’ombre des jeunes filles en fleurs, Le Côté de Guermantes
e Le Temps retrouvé, ma anche una gran parte di Sodome et
Gomorrhe. Ma durante la guerra (e senza toccar niente nella
fine del libro, Le Temps retrouvé) ho aggiunto qualcosa sulla
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guerra che conveniva al carattere del signore di Charlus»
(lettera a Rosny aîné). Vale la pena riportare l’osservazione al
riguardo di Daria Galateria: «L’evocazione della guerra, i
nuovi linguaggi e gli usi che suscita, il disfattismo di Charlus
e il bordello di Jupien, tutte le alterazioni che il conflitto
induce in Parigi – buia e silenziosa come Combray durante
l’oscuramento, wagneriana nel corso dei bombardamenti,
mondana o dannata nei suoi inferi, i rifugi dei grandi alberghi
e i sotterranei del métro – sono miniaturizzati da Proust nel
suo “qualcosa sulla guerra”».
Dai tempi di Sodome Proust stendeva il manoscritto del
romanzo sui quaderni di scuola che numerava, in cifre
romane, da I a XX. Dalla metà del XV all’ultimo, sono
occupati dal Tempo ritrovato. Proust morì prima di aver fatto
eseguire il dattiloscritto dei quaderni del Tempo ritrovato, che
uscì in due volumi, nel 1927, presso la Nouvelle Revue
Française; come gli altri volumi postumi, La Prigioniera e
Albertine scomparsa, era curato da suo fratello Robert, aiutato
da Jean Paulhan. Le appassionate proteste proustiane sulla
separazione tra l’io sociale e l’io che scrive nel Tempo ritrovato
subiscono una forte attenuazione; la dimensione tra il
Narratore e lo scrittore si accorcia, come nella Prigioniera per
il protagonista chiamato per una volta Marcel, nel Tempo
ritrovato una serie di lievi allusioni – alla traduzione di Sésame
et les lys di Ruskin, ai Plaisirs et les jours «primo libro
dell’autore», alle paperoles; tutto ciò fa segno a un sottinteso:
un’identità, o meglio un travestimento.
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La confusione tra il Narratore e Marcel Proust va ben
oltre l’innata tendenza del lettore a confondere l’istanza
narrante di un romanzo e l’autore di esso. Basta pensare ai
fenomeni di adesione che ancora oggi provocano la figura di
Marcel Proust e la sua opera, con associazioni di amatori che
si alimentano della suggestione dell’ “aura” proustiana,
spesso interessati a rintracciare possibili rapporti tra
personaggi e luoghi della finzione e personaggi e luoghi
realmente esistiti. Philippe Lejeune è il teorico che più di
altri, e a più riprese, ha riflettuto sulla natura del je della
Recherche, arrivando a definire quelli che dovremmo
riconoscere come elementi di un patto autobiografico che si
instaura tra autore di un testo e lettore implicito.
Cosa pensava realmente Proust della guerra?
Si può avere un’idea ciò che Proust veramente pensava
della guerra leggendo le sue lettere dell’epoca. Se queste
rivelano che durante gli anni 1914-1918 Proust era
soprattutto preoccupato per la redazione del suo romanzo,
per l’intento di essere riformato, da parecchi problemi di
salute (riguardo agli occhi, particolarmente) e dalle
inquietudini dovute alla situazione finanziaria, esse indicano
chiaramente che, come il Narratore della Recherche, egli non
era da meno interessato all’evoluzione del conflitto bellico.
Proust afferma a più riprese che legge parecchi giornali al
giorno per essere al corrente degli ultimi sviluppi e, in una
lettera a Lucien Daudet del febbraio 1915, in risposta a una
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“diceria” secondo la quale «quando gli si parlava della guerra
egli rispondeva: Quale Guerra? Non ho ancora il tempo per
pensarci, mi occupo in questo momento dell’affaire Caillaux»,
egli insorge: «Ho tutte le ragioni del mondo, purtroppo non
ho cessato un minuto di pensare alla guerra fin dall’inizio
della mobilitazione e ho accompagnato mio fratello alla Gare
de l’Est, e anche successivamente “strategicamente”,
studiando ridicolmente la pianta dello Stato Maggiore».
Essendo stato suo fratello e molti amici e conoscenti
mobilizzati, Proust trascorre in effetti i quattro anni di guerra
in uno stato di angoscia quasi permanente, giustificato anche
dal fatto che perderà per effetto del conflitto due dei suoi
più cari amici, Bertrand de Fénelon e Robert d’Humières.
Scrive nel 1914 a Gabriel Astruc: «Sono molto inquieto per
mio fratello e per molti amici dei quali tremo all’idea di
trovare i loro nomi nella liste dei caduti». Aggiunge poi nel
1917: «Piango la morte di tutti, anche di persone che non ho
mai conosciuto» spiegando «che è un sentimento che la
guerra ha indotto in noi, a causa dell’angoscia quotidiana,
quello di farci soffrire per degli sconosciuti». Va anche più
lontano l’anno successivo, quando scrive a Jacques Truelle
che «piange tutta la giornata, come un rammollito, per i paesi
occupati e per le cattedrali distrutte, ancor più di quanto lo
faccia per i caduti». A questa ansietà e compassione si
aggiungono l’umiliazione e il senso di colpevolezza per non
essere stato arruolato: «Sono molto umiliato perché quando
tutti servono il paese, io mi sento inutile». Pensa anche ai
suoi problemi di salute che attenuano questo senso di
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colpevolezza: «benedico la malattia che mi fa soffrire, perché
se questa sofferenza non serve a nessuno, almeno mi evita
quella più grande che mi darebbe lo star bene, la vita facile,
mentre soffrono e muoiono tante persone a cui va
costantemente il mio pensiero».
Un atteggiamento del genere avvicina Proust al
Narratore del romanzo. Inoltre, sempre come quest’ultimo,
la sua compassione per i soldati al fronte non gli impedisce
di interessarsi al conflitto dal punto di vista strategico. Per
citare Jean-Yves Tadié, «Proust si mostra […] nelle sue
lettere un fine osservatore militare, desideroso di elevarsi, al
di là dei fatti, fino alle idee generali, ai motivi che fanno agire
l’avversario, alle leggi del loro pensiero». Il Proust della
corrispondenza annuncia il Narratore del romanzo che non
riesce a sottrarsi al lato estetico della guerra come quando, in
occasione di un allarme aereo, non nasconde il suo
entusiasmo. Va ricordato al riguardo quanto ha scritto Luc
Fraisse: «Proust percepisce la guerra attraverso un certo
numero di suggestioni artistiche».
Non v’è dubbio che Proust parteggi per l’armata
francese (a differenza di quanto scrive a proposito di Charlus
nel corso del conflitto) e si augura la vittoria del suo paese
pur sperando, come scrive a Reynaldo Hahn nell’agosto del
1914: «… che ci abbracceremo tutti a Parigi quando questi
perfidi tedeschi saranno vinti. Ma nell’attesa quanto male essi
fanno ai francesi». Quando la vittoria arriva, nel 1918, la sua
reazione è misurata; egli non può fare a meno di pensare a
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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quelli che non vedranno questa vittoria. Il giorno
dell’armistizio scrive a Mme Straus:
«Abbiamo troppo condiviso la preoccupazione per la guerra
perché non ci scambiamo, la sera della vittoria, un saluto
affettuoso, allegro per il nostro successo, malinconico per
coloro che amiamo e che non lo vedranno. Meraviglioso
questo finale “allegro presto” dopo un inizio e un
andamento lentissimi. Che drammaturgo il destino, o l’uomo
che ne è stato strumento. […] Ma per quanto grande sia la
gioia per questa immensa, insperata vittoria, abbiamo tanti
morti da piangere che un certo tipo di gaiezza non è la
maniera più auspicabile di celebrare».
Proust non è in effetti mai caduto nel patriottismo
cieco, non ha mai condiviso l’isteria collettiva che dominava
allora in Francia o creduto alle menzogne dei giornali di cui
parla Charlus nel suo romanzo. Al contrario, stando alle sue
lettere, egli non ha cessato di dar prova di una lucidità e di
una obiettività ammirevoli. Così, nella notte dal 2 al 3 agosto
1914, qualche ora dunque prima che la Germania dichiarasse
guerra alla Francia, in una lettera a Lionel Huser, mostra la
sua opposizione a questa guerra di cui prevede uno
spaventoso bilancio: «In questi giorni tremendi ho altro da
fare che scrivere lettere e occuparmi dei miei poveri affari
che, ti giuro, mi sembrano irrilevanti quando penso che
milioni di uomini stanno per essere massacrati in una Guerra
di mondi paragonabile a quella di Wells, perché l’imperatore
d’Austria ritiene che gli farebbe comodo uno sbocco sul Mar
Nero. […] Ho appena accompagnato mio fratello che
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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partiva per Verdun a mezzanotte. Purtroppo ha voluto farsi
mandare in prima linea. […] Non sapendo esattamente dove
sono, dove vanno, cosa rischiano in questa terribile guerra le
persone a cui vuoi bene, stà certo che la mia più calorosa
simpatia le accompagna e ti accompagna. […] Spero ancora,
io non credente, in un supremo miracolo che fermi all’ultimo
istante lo scatenamento della macchina mortifera. Ma mi
chiedo come un credente, un cattolico praticante come
l’imperatore Francesco Giuseppe, persuaso di doversi
presentare dopo la sua morte che non è lontana a Dio, possa
accettare l’idea di dovergli rendere conto dei milioni di vite
umane che dipendeva da lui non sacrificare».
In seguito, dimostrando che egli non è affetto dalla
propaganda onnipresente, scrive a più riprese, come dirà di
Charlus, che egli non ha nulla contro i Tedeschi e che non
comprende come persone preparate e intelligenti possano
rifiutare la cultura germanica. Scrive a Lucien Daudet:
«Anch’io sono stato in pena, carissimo, per mio fratello. Il
suo ospedale è stato bombardato mentre stava operando,
con gli obici che scuotevano il tavolo operatorio. Ha avuto
una citazione nell’ordine del giorno, ma non per questo, ma
per i molti altri gesti di coraggio che compie di continuo.
Purtroppo si espone a gravissimi pericoli, e finché durerà la
guerra non saprò che notizie mi porterà il domani […] spero
che non ci siano molti amici vostri fra i caduti sul campo
dell’onore, ma si amano anche gli estranei, si piangono anche
gli sconosciuti».
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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Dopo aver appreso la morte al fronte di Bertrand de
Fénelon, ne fa l’elogio in una lettera a Louis d’Albufera: «Il
suo coraggio è stato tanto più sublime in quanto non era
mescolato a nessun odio. Egli conosceva a fondo la
letteratura tedesca che io ignoro completamente. E
diplomaticamente non era la Germania […] che egli riteneva
responsabile delle guerra. Che questo punto di vista fosse
erroneo è molto probabile; ma ciò testimonia almeno, fino a
prova contraria, che il patriottismo di quest’eroe non aveva
nulla di esclusivo e cieco».
Più tardi, nel 1917, dopo aver letto il testo di una
conferenza di Walter Berry, scrive non senza ironia a
quest’ultimo: «E a questo proposito io vedo che voi siete
mille volte peggiore di Capus che sopprime Strauss, Hegel
ma che, accettando Goethe e Beethoven, non cancella tutto
un secolo. Voi scrivete che i Tedeschi sono affetti da
militarismo irriducibile fin dall’epoca di Cristo…».
Di Walter Berry scrive anche a Lionel Husser che le sue
«manifestazioni di odio […] antigermaniche non
appartengono né al mio temperamento, né al mio gusto». In
effetti, Proust si augura la vittoria della Francia, ma critica
molto raramente i Tedeschi, scagliandosi contro di essi solo
in una lettera a Louis d’Albufera, nella quale ironicamente,
dopo l’elogio di Fénelon e dopo aver affermato «che si
generalizza troppo sui crimini tedeschi, egli rimprovera loro
di essersi accaniti contro la cattedrale di Reims».
Se, come scrive a Lucien Daudet, «Boche non figura nel
mio vocabolario, e […] le cose mi sembrano molto meno
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chiare di quanto non pensino molte persone», ciò dipende
dal fatto che contrariamente alla maggioranza dei suoi
compatrioti (e come Charlus) egli non è manipolato dalla
stampa e non cessa di attaccarne le menzogne.
Fin dal 1914, in effetti, egli denuncia a Daniel Halévy:
«In questo tempo in cui vi è tanto di sublime nei fatti, e così
poco nelle parole e negli scritti, nei quali tutti dichiarano che
la Guerra ha trasformato gli spiriti, ma lo annunciano in uno
stile che mostra troppo che non ha trasformato proprio
nulla, perché le stesse sciocchezze, le stesse banalità
ritornano ancora nel confronto con i grandi avvenimenti che
essi pensano di esprimere, […] in questo tempo dove non si
può leggere un giornale senza disgusto e dove forse non c’è
ancora una frase decente scritta sulla guerra».
Più tardi scrive a Robert Dreyfus che egli trova tutti i
giornali stupidi, tranne la Situation militaire di Bidou e a
Gaston Gallimard che «i giornali sono veramente bestiali».
Egli ne legge molti ogni giorni per seguire l’evoluzione del
conflitto meglio che può, avendo cura di includere tra questi
anche l’austero Journal de Genève apprezzato per la sua
imparzialità.
Tra i rari giornalisti che non vengono condannati da
Proust figura Paul Souday del Temps, al quale egli scrive nel
1915: «Provo molto piacere a dirvi quanto ho apprezzato,
per la loro giustezza, la loro verve, il loro coraggio, gli articoli
dove quasi soltanto voi, in tutta la stampa avete saputo dire e
osare cose che bisogna pensare, ciò che molti pensano di
Wagner e di Saint-Saëns, di Strauss».
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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Il patriottismo eccessivo non trova spazio nelle idee di
Proust, che in una lettera a Mme Catusse si prende gioco di
Robert de Montesquiou per aver, nel giugno del 1915
pubblicato Les Offrandes blessées (188 elegie sulla guerra): «Ha
dovuto iniziare il primo giorno della mobilitazione. Quale
fecondità!». Sempre a Mme Catusse, egli raccomanda che
suo figlio ferito non riparta troppo presto per il fronte e
aggiunge, riaffermando così la sua posizione sulla guerra:
«Voi forse troverete i miei consigli troppo pacifici e vi prego
di credere che non provengono da un animo volgare. Ma io
non ho mai accettato che si faccia dell’eroismo sulla pelle
degli altri».
Insomma, Jean-Yves Tadié non ha torto di pensare che
«le opinioni di M. de Charlus vanno […] al di là delle
opinioni più moderate di Proust»; una lettura attenta delle
lettere che egli ha scritto tra il 1914 e il 1918 confermano
l’intuizione di Maurice Rieuneau che, senza all’epoca
conoscere la maggior parte delle lettere che abbiamo citato,
scriveva nel 1974: «La critica del nazionalismo passionale è
troppo convincente, troppo irrefutabile perché Proust non
ne tenga conto» in modo che «sul problema della guerra,
Proust era emotivamente con Saint-Loup, ma molto lucido
per giudicare i suoi compatrioti con lo spirito di Charlus».
Il tema della guerra è percorso nel Tempo ritrovato da una
tensione verso una verità che trascenda la sfera dell’azione,
della storia nella sua bruta attualità, per raggiungere una
comprensione non riduttiva, non ideologica del reale. Proust
si accorge dell’inanità di ogni propaganda, della sua essenza
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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manipolativa che svaluta anche le cause più nobili, e si vota
alla ricerca della più scomoda delle verità, quella che emerge
dalla distruzione di tutte le forme di falsa coscienza su cui
riposa abitualmente la nostra certezza di essere in buona
fede.
Il Tempo ritrovato di Raoul Ruiz
Dalla metà degli anni Sessanta in poi, la sfida posta al
cinema dall’opera proustiana è stata raccolta da personalità
artistiche quali Ennio Flaiano, Harold Pinter, Luchino
Visconti e Joseph Losey: l’avventuroso progetto produttivo
che li ha visti protagonisti ha avuto termine solo nel 1984
con Un amore di Swann di Volker Schlöndorff. Bisogna però
attendere la fine del secolo scorso perché i film di Raoul
Ruiz (Le Temps retrouvé, 1999) e Chantal Akerman (La captive,
2000) trasferiscano al cinema gli elementi più profondi della
Recherche, senza perderne né sottigliezza né impatto poetico.
Il bel libro di Anna Masecchia, Al cinema con Proust,
(Marsilio, 2008) affronta l’argomento nella premessa di
fondo che il rapporto tra romanzo e film, nel caso di A la
recherche du temps perdu, merita un’attenzione in più per la
particolare natura del romanzo, per il modo in cui è
collocato nella storia delle forme letterarie e per come il
cinematografo, scrittura del movimento e del tempo, pare
essersi sentito sfidato dal capolavoro francese.
Il contesto culturale ed epocale in cui il romanzo è stato
scritto e alcune delle sue caratteristiche strutturali hanno
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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infatti motivato un rapporto quasi inevitabile tra il cinema e
la Recherche, nonostante l’idea “pessimistica” che Proust
aveva del cinema («C’era chi pretendeva che il romanzo
fosse una sorta di sfilata cinematografica delle cose. Questa
concezione era assurda. Niente si allontana da ciò che
abbiamo percepito in realtà più d’una tale visione
cinematografica»).
Il libro della Masecchia – ricco di stimoli per gli
studiosi e per gli amateurs di Proust – propone una
ricostruzione di tale rapporto, un’indagine sulla ricezione
cinematografica del testo e sull’eredità proustiana che il
cinema può aver raccolto.
La storia “ufficiale” della ricezione cinematografica della
Recherche ha inizio nel 1962, anno in cui la produttrice
francese Nicole Stéphane apre la trattativa per acquisire i
diritti di Du côté de chez Swann. Appassionata al progetto
proustiano, Stéphane riesce nel 1968, dopo lunghe trattative
con la nipote di Proust, Suzy Mante-Proust, ad acquistare in
maniera definitiva i diritti di Un amore di Swann. La
produttrice dovrà attendere fino al 1984 per portare a
termine il suo progetto, quando la quarta sceneggiatura,
commissionata a Jean-Claude Carrière e a Peter Brook,
diverrà il film Un amore di Swann di Volker Schlöndorff.
Arriviamo al 1992, data di uscita del film di Raoul Ruiz, Le
Temps retrouvé, di cui esiste la versione con doppiaggio in
italiano, integralmente visibile nel web. L’interesse che i
lettori possono avere nei confronti di un film ispirato al
volume della Recherche più ricco di suggestioni estetiche,
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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filosofiche, storiche etc… può rendere utile la messa in
evidenza di alcune caratteristiche del film di Ruiz, che
schematicamente possono essere così individuate, come
puntualmente scrive Anna Masecchia:
- trattasi di un film in cui – in coerenza con un elemento
caratteristico dell’intera filmografia di tale autore – si
sfalda qualsiasi idea di consequenzialità narrativa;
- la prossimità tra il percorso creativo ruiziano e la
materia narrativa ed estetica presente nella scrittura
romanzesca della Recherche appaiono davvero notevoli;
- le epifanie, fulcro attorno al quale si costruisce la
rivelazione estetica presente in Le Temps retrouvé,
avvengono con un processo in cui l’estasi coincide con
la visione della propria vita nella sua interezza e con
l’annullarsi della paura della morte;
- ognuna delle macrosequenze del film può essere
ricondotta alle parti, anch’esse dai confini molto labili,
in cui si suddivide l’ultimo volume della Recherche, con la
sottolineatura che mai come nel Temps retrouvé riflessioni
sull’arte, sull’amore, sulla gelosia, sulla Storia, sulla
società contemporanea sono interconnesse le une con
le altre, e questa caratteristica determina anche nel film
che la messa in sequenza dei pochi elementi collocabili
allo sviluppo lineare del racconto entri in connessione
con i numerosi flash-back memoriali e soggettivi,
visioni mentali del protagonista.
Si può riassuntivamente dire quanto segue, partendo dalla
riflessione che nel Tempo ritrovato vi è l’esperienza di un’estasi
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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metacronica provocata da ricordi involontari, estasi che
suscita nel Narratore importanti riflessioni sulla possibilità di
salvare dall’oblio e dall’errore mentale l’essenza varia ed
individuale della vita: nel Temps retrouvé di Raoul Ruiz è in
gioco una sorta di fratellanza poetica tra autore letterario e
regista che, se consente la ri-creazione di temi e forme del
romanzo all’interno del laboratorio creativo e artistico del
regista, allo stesso tempo offre una nuova chiave
interpretativa del testo e dell’universo proustiani.
Queste notazioni (ma val la pena prendere diretta visione
del libro di Anna Masecchia nel quale l’analisi è sviluppata
attraverso numerosi livelli di lettura) ci fanno ben
comprendere l’affermazione di Ruiz di aver coltivato il
progetto di un film tratto dal romanzo proustiano, per
almeno quindici anni.
La bellezza del mondo
(pensando al libro La Bellezza non si somma di Roberto Maggiani)
Come dire e descrivere la bellezza del mondo? Per far
questo, afferma Proust, bisogna superare «il disaccordo tra le
nostre impressioni e la loro espressione». Ma che cosa
significa accordo tra impressione ed espressione? In base a
quale criterio si può apprezzarne la giustezza? Proust sa
bene che l’emozione non si comunica in virtù della sola
intensità. Essa deve conquistare i mezzi, verbali, pittorici,
ecc… che la interpreteranno per manifestarla. Per nascere, i
poteri della parola richiedono un percorso di apprendistato,
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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un progresso iniziatico. E da qui che nasce la “grandiosità”
del Tempo ritrovato: l’ultimo volume della Recherche ripercorre –
con gli strumenti della maturità infine raggiunta – tutta la
serie semi-fittizia (ritorna il rapporto tra vita e opera) dei
tentativi ingenui, degli errori, dei traviamenti, delle ferite che
precedettero la chiara consapevolezza del compito da
svolgere. Ma tutto ciò ha avuto un prezzo; la padronanza
tardiva è stata pagata con l’accettazione di molte perdite, e
soprattutto con l’ammissione del soccorso della memoria
involontaria che va di pari passo con l’ascesi volontaria e con
il rifiuto di ogni “idolatria”. Solo una volta invecchiato,
l’adolescente esaltato che avrà ormai attraversato tanti lutti,
tante futilità mondane, potrà descrivere l’emozione provata
dinanzi allo spettacolo del tempo passato, nella spettacolare
kermesse del Bal de têtes della Matinée Guermantes.
La testimonianza dei ricordi del passato porta con sé,
nello stesso istante, un compito etico; il senso di un dovere e
un imperativo di conoscenza, «vedere più chiaro», vengono
distintamente percepiti al di là del trasporto estetico. Il
Narratore se ne rende conto attraverso la successione dei
ricordi “involontari”, superando la sensazione di
inquietudine che accompagna l’ebbrezza di tante nuove
scoperte. Il giovane del passato era stato il testimone –
affascinato, inerme, consapevole – di un futuro in cui il
mondo gli sarebbe apparso in tutta la “verità”. («Certe frasi
vorrebbero farmi credere d’esser quelle, ma non può essere
vero. Dove sarebbe, dunque, la bellezza che trovavo in esse
?»).
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Attraverso la memoria riflessiva, in risposta ai tanti
segni che le intermittenze del cuore provocano in lui, il
Narratore riconquista lo spettacolo della vita trascorsa.
Retrospettivamente comprende che il tempo “perduto” è
stato “ritrovato”; i tanti episodi narrati nei volumi precedenti
erano stati solo gli antecedenti amorfi di ciò che ora si
dispiega nelle pagine del Tempo ritrovato, in una scrittura
“letteraria” perfettamente articolata. Il dovere viene alla fine
soddisfatto, la conoscenza è acquisita: giustizia è infine resa a
quell’ “istante” miracoloso che è il passato. Ecco allora
apparire una gioia inesprimibile, ecco il superamento di ogni
insufficienza e del passato timore di non riuscire a cogliere l’
“essenza” della vita.
La narrazione offerta al lettore del Tempo ritrovato paga
dunque un debito antico, consegnando al nostro sguardo
tutta l’architettura, la cattedrale costruita nel corso della
intera opera. La Recherche salda quindi un debito; espia, in un
certo senso, un tempo in cui la verità delle sensazioni non
era stata riconosciuta, e dà voce a una percezione del mondo
che fino a quel momento non aveva trovato l’espressione
compiuta. E’ la conferma che l’espressione è sempre in
ritardo sull’impressione.
Proust lo rivela accentuando lo scarto tra i due
momenti. Il presente della sensazione non può essere
descritto che al passato. E per giunta questo passato è una
finzione : quello che leggiamo è un romanzo. Il miraggio
letterario, la sua bellezza, consiste nel rendere credibile il
gesto che li cattura, nel far credere che lo scrittore non sia
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interamente passato accanto alla vita, e alla verità. Proust
non è stato il primo né il solo a sperimentare il “disaccordo”
tra ciò che si offre allo sguardo e ciò che il linguaggio è in
grado di dire. La distanza è troppo grande, la bellezza troppo
inafferrabile, e lo spirito, per quanto faccia esso stesso parte
di quel mondo che lo incanta, sente di non avere la forza di
registrarlo e fissarlo: La Bellezza non si somma.
Appendice
Argomento e genesi del Tempo ritrovato
L’ultimo volume della Recherche è composto di tre parti:
il soggiorno a Tansonville da Gilberte, il signore di Charlus
durante la guerra, la matinée dalla principessa di Guermantes;
ma solo quest’ultima parte rispecchia il titolo del volume,
poiché le prime due non sono che la preparazione della
scoperta finale.
Durante il soggiorno a Tansonville il Narratore, che
prima scopre che in realtà le due “parti” della sua infanzia
non sono inconciliabili e poi la verità sul comportamento di
un tempo di Gilberte, riflette nuovamente sui cambiamenti
di Saint-Loup, divenuto omosessuale, e su Albertine; ma
soprattutto, sente di nuovo la propria impotenza a scrivere
che, in questa occasione, gli viene confermata dalla lettura
del Journal dei Gouncourt (in realtà un pastiche composto da
Proust). Forse , la magia della letteratura è illusoria. Il
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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Narratore cerca di consolarsi ritirandosi in una casa di cura
dove resterà fino al 1916.
Rientrando a Parigi durante la guerra, il Narratore vi
constata, recandosi dai Verdurin, i cambiamenti della moda e
del “mondo”. Riceve alcune notizie da Gilberte: Combray è
occupata dai tedeschi. Saint-Loup gli fa una visita.
L’eroe, passeggiando di notte per le strade di Parigi,
incontra Charlus, decaduto dalla sua posizione mondana,
divenuto germanofilo, e che sempre più assomiglia agli altri
omosessuali. Norpois e Brichot scrivono articoli di
propaganda. Nel corso di una lunga conversazione con il
Narratore, Charlus paragona Parigi a Pompei. Dopo averlo
lasciato, il Narratore cerca un albergo: si imbatte, e entra, in
una casa di tolleranza, tenuta da Jupien, dove Charlus si fa
flagellare; scopre inoltre che Saint-Loup vi si è certamente
recato. A causa di un bombardamento tutti i clienti si
rifugiano nella metropolitana. Alcuni giorni dopo muore
Saint-Loup; ripensando alla sua vita il Narratore la immagina
parallela a quella di Albertine. Alla fine il Narratore si ritira in
una nuova casa di cura, dove però non guarisce.
Trascorrono molti anni, e arriviamo così all’ultima
parte, la “Matinée dalla principessa di Guermantes”. Come
risulta anche da un progetto, apparso all’inizio delle Fanciulle
in fiore nell’edizione del 1919, questa parte è divisa in due
sezioni, “L’adoration perpétuelle” e “Le temps retrouvé”
(nel Cahier 51 del 1909, e nel 1910-1911 questa ultima
sezione era intitolata “Le bal de têtes”). La prima sezione si
apre con ritorno del Narratore a Parigi, durante il quale
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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constata la propria mancanza di doti letterarie. Invitato a una
matinée dalla principessa di Guermantes, lungo il percorso,
incontra Charlus, ormai decaduto. Nel cortile del palazzo
Guermantes si ha un vero e proprio colpo di scena:
inciampando nel pavé ineguale, il Narratore prova una felicità
simile a quella che aveva provato grazie alla madeleine. Così,
ritrova il tempo perduto e comprende che l’opera d’arte è il
solo mezzo per interpretare questi segni. Pensa allora,
delineandola, a quella che dovrà essere la sua estetica: i
materiali della sua opera gli saranno dati dalla sua vita
passata, il dolore è servito a sviluppare la forza del suo
spirito e comprende così la funzione dell’amore, della gelosia
e dell’omosessualità. Tuttavia, poiché ci insegna che
l’universale sta accanto al particolare, l’opera è segno di
felicità.
Il Narratore – e siamo giunti alla sezione della Matinée –
entra nel salone della principessa di Guermantes (che ora
non è altro che la signora Verdurin, che il principe ha
sposato, in seconde nozze). Qui non riconosce più nessuno:
tutti i personaggi, lui compreso, hanno subito una
metamorfosi, fisica e morale, ad opera del tempo. E tutti
quelli che sono ancora vivi vengono allora passati in
rassegna. Ci si accorge così che tutti i rapporti fra i diversi
individui sono cambiati e che alcuni riassetti sociali hanno
avuto luogo. Durante questo periodo la Berma è stata
abbandonata da tutti. Apprendiamo il declino della duchessa
di Guermantes, il legame del duca con Odette. Grazie
all’incontro con la signorina di Saint-Loup, figlia di Robert e
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di Gilberte, la giovinezza del Narratore resuscita, anche col
soccorso della parziale rivalutazione dell’intelligenza
(«Sentivo peraltro che le verità che l’intelligenza ricava
direttamente dalla realtà non sono del tutto da disprezzare,
perché potrebbero incastonare in una materia meno pura,
ma pur sempre imbevuta di spiritualità, le impressioni che ci
giungono al di fuori del tempo dall’essenza comune alle
sensazioni del passato e del presente, ma che, se sono più
preziose, sono anche troppo rare perché l’opera d’arte possa
esserne unicamente composta. Sentivo premere dentro di
me, suscettibili d’essere utilizzate a tale scopo, una folla di
verità concernenti le passioni, i caratteri, i costumi.
Percepirle mi dava gioia; eppure mi sembrava di ricordare
che alcune le avevo scoperte nella sofferenza, altre in ben
mediocri piaceri»).
Le ultime pagine dell’opera costituiscono una
conclusione estetica. In esse viene fatto un abbozzo di quello
che dovrebbe essere il libro del Narratore che, malato,
minacciato continuamente dalla morte, incompreso, lavora
di notte. Nella sua opera darà la forma del Tempo, e ai suoi
personaggi un posto considerevole in esso, poiché occupano
età molto diverse nel Tempo, prima e ultima parola del libro
e termine principale del titolo. Ma “assaporiamo” le parole di
Proust: «Se mi fosse stata lasciata, quella forza, per il tempo
sufficiente a compiere la mia opera, non avrei dunque
mancato di descrivervi innanzitutto gli uomini, a costo di
farli sembrare mostruosi, come esseri che occupano un
posto così considerevole accanto a quello così angusto che è
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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riservato loro nello spazio, un posto, al contrario, prolungato
a dismisura poiché toccano simultaneamente, come giganti
immersi negli anni, periodi vissuti da loro a tanta distanza e
fra cui tanti giorni si sono depositati – nel Tempo».
****
Lunga e movimentata è la genesi del Tempo ritrovato. Il
Sainte-Beuve era costituito solo da “ricordi di una mattinata” e
la sua narrazione era integralmente retrospettiva. Ma
scrivendo, Proust scopre l’articolazione fra il presente e il
passato. Nello stesso anno in cui abbandona il Sainte-Beuve,
scrive “Le bal de têtes”; ritornando in un salotto dopo
un’assenza di quindici anni constata l’invecchiamento dei
personaggi. Tra il 1910 e il 1911 riprende questo testo
aggiungendovi un altro episodio, “L’adoration perpétuelle”
in cui espone la sua estetica. Al tempo stesso Proust riporta
nel Tempo ritrovato un certo numero di riflessioni che in un
primo momento aveva posto all’inizio del romanzo in
concomitanza con lo svolgimento degli avvenimenti: è
questo il caso delle esperienze della memoria involontaria e
di François le Champi, che il Narratore legge in “Swann” ma di
cui si ricorda nel Tempo ritrovato. Quest’ultimo episodio
diviene così la vera conclusione dell’opera, ne segna al tempo
stesso la fine e la spiegazione. Del resto l’incertezza,
l’interrogativo e la tensione sono mantenuti sino alla fine:
dove ci porta l’Autore? Si capisce allora come il Tempo
ritrovato si sia arricchito di tutto ciò che era stato tolto dai
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volumi precedenti. A partire da questi due capitoli (la cui
prima versione, nei Cahiers 51, 58 e 57, è stata pubblicata da
H. Bonnet e da B. Brun con il titolo “Matinée chez la
princesse de Guermantes”) Proust aggiunge a ritroso, da una
parte, all’inizio, il soggiorno a Tansonville da Gilberte di
Saint-Loup, previsto fin da subito e annunciato nel prologo
di “Swann”, dall’altra, “Parigi durante la guerra del 1914”;
questa sezione, composta sotto la pressione degli eventi
sostituisce gli ultimi sviluppi previsti per Charlus che rimane
tuttavia il personaggio principale del nuovo episodio. Infine,
quattro cahier supplementari redatti tra il 1917 e il 1922
contengono solo dei frammenti destinati a essere integrati
nella struttura d’insieme, ovviamente nei volumi inediti.
Il Tempo ritrovato uscì in due volumi, nel 1927, presso la
«Nouvelle Revue Française»; come gli altri volumi postumi,
La Prigioniera e Albertine scomparsa, era curato da Robert
Proust, aiutato da Jean Paulhan. Il manoscritto – scrive
Daria Galateria - che Proust rimaneggiò fino alla fine era
ancora da rivedere: affiorano alcuni errori e qualche
ripetizione, due personaggi risuscitano, talvolta le aggiunte
sono di dubbia collocazione; soprattutto, Proust non ha
probabilmente fatto in tempo a integrare nel testo certi
passaggi magistrali, come la rivelazione, introdotta nel modo
più inatteso, improvviso e sconcertante per il lettore – e per
Madame Cottard, che ne rinviene la traccia nelle lettere del
marito defunto - , di un’antica e mai sospesa relazione del
dottor Cottard con Odette.
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Nonostante questa complessa stratificazione, e lunga
sedimentazione del Tempo ritrovato, l’orchestrazione dei
rimandi e dei riferimenti risponde a una strategia rigorosa.
****
Ad un (quasi) ottantenne, autore di questo scritto, sia
consentito riportare una frase del finale del Tempo ritrovato
ricca di suggestioni e riflessi personali : «Adesso capivo
perché il duca di Guermantes, di cui guardandolo quando era
seduto su una sedia, avevo ammirato quanto poco fosse
invecchiato sebbene avesse sotto di sé tanti anni più di quelli
che avevo io, non appena si era alzato e s’era sforzato di
reggersi in piedi aveva vacillato su due gambe malferme
come quelle di quei vecchi arcivescovi che non hanno più
nulla di solido tranne la loro croce di metallo e attorno ai
quali s’affacciano giovani seminaristi gagliardi, e non era poi
riuscito ad avanzare che tremando come una foglia sulla
poco praticabile cima dei suoi ottantatre anni, come se gli
uomini fossero appollaiati su trampoli viventi che
aumentano senza sosta sino a diventare, a volte più alti di
campanili, sino a rendere difficili e perigliosi i loro passi, e da
cui improvvisamente precipitano».
G. O.
Nota: Le citazioni della Recherche e della corrispondenza di Proust, presenti nel
testo, si riferiscono alle edizioni di consueto riferimento: quella dei Meridiani
Mondadori e quella di Gallimard, «Pléiade».
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Incipit di LE TEMPS RETROUVÉ
traduzione di Alessandra Ponticelli Conti
Tutta la giornata, in quella dimora di Tansonville un po’
troppo di campagna, che pareva un banale luogo di siesta tra
una passeggiata e l’altra o durante un acquazzone, una di
quelle dimore dove ogni sala assomiglia a un pergolato nel
verde e dove, sulla tappezzeria delle camere, le rose del
giardino nell’ una, gli uccelli degli alberi nell’ altra, vi hanno
raggiunto e vi fanno compagnia – isolati se non altro – visto
che si trattava di quelle vecchie tappezzerie nelle quali ogni
rosa era separata dall’altra quel tanto perché la si potesse
cogliere, se fosse stata vera, ogni uccello metterlo in gabbia e
addomesticarlo, senza niente di quelle pesanti decorazioni
delle camere di oggi dove, su uno sfondo d’argento, tutti i
meli di Normandia son venuti a profilarsi in stile giapponese,
per allucinare le ore che trascorrete a letto; tutta la giornata la
passavo nella mia camera che si affacciava sulla bella
vegetazione del parco e sui lillà dell’ingresso, sulle foglie
verdi dei grandi alberi in riva all’acqua, scintillanti di sole, e
sul bosco di Méséglise. Se, alla fine, guardavo tutto ciò con
piacere era perché potevo dirmi: “è bello godere di così tanto
verde dalla finestra della propria camera”, fino a che nell’
ampio quadro verdeggiante, non riconobbi, lui, al contrario
dipinto di blu scuro, semplicemente perché era più lontano,
il campanile della chiesa di Combray, non una mia
figurazione di quel campanile, ma il campanile stesso, che,
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esibendomi, così, sotto gli occhi, la distanza delle leghe e
degli anni, era venuto, in mezzo alla luminosa vegetazione e
con tutt’altro tono, tanto scuro da sembrare quasi solo
disegnato, a incorniciarsi nel riquadro della mia finestra. E se
uscivo un attimo di camera, scorgevo in fondo al corridoio,
poiché era orientato in modo diverso, come una striscia di
scarlatto la tappezzeria di un salottino, che altro non era se
non una semplice e leggera mussola, ma rossa e pronta a
prendere fuoco non appena vi si fosse posato un minimo
raggio di sole.
Durante le nostre passeggiate, Gilberte mi parlava di
come Robert si allontanasse da lei, ma per correre appresso
ad altre donne. Ed è vero che erano in molte ad affollare la
sua vita, ma, come certo cameratismo maschile per gli
uomini che amano le donne, con quello spirito di difesa
inutilmente prestata e di posto vanamente usurpato che
hanno, nella maggior parte delle case, gli oggetti che non
servono a niente.
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Orologio sulla vetrata del Musée d'Orsay (Parigi) sovrapposto alla Cattedrale di
Amiens (Francia). Fotografie e composizione di Roberto Maggiani
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LE TEMPS RETROUVÉ
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Chapitre I
Tansonville
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Toute la journée, dans cette demeure de Tansonville un
peu trop campagne, qui n'avait l'air que d'un lieu de sieste
entre deux promenades ou pendant l'averse, une de ces
demeures où chaque salon a l'air d'un cabinet de verdure, et
où sur la tenture des chambres, les roses du jardin dans l'une,
les oiseaux des arbres dans l'autre, vous ont rejoints et vous
tiennent compagnie – isolés du moins – car c'étaient de
vieilles tentures où chaque rose était assez séparée pour
qu'on eût pu, si elle avait été vivante, la cueillir, chaque
oiseau le mettre en cage et l'apprivoiser, sans rien de ces
grandes décorations des chambres d'aujourd'hui où, sur un
fond d'argent, tous les pommiers de Normandie sont venus
se profiler en style japonais, pour halluciner les heures que
vous passez au lit, toute la journée je la passais dans ma
chambre qui donnait sur les belles verdures du parc et les
lilas de l'entrée, sur les feuilles vertes des grands arbres au
bord de l'eau, étincelants de soleil, et sur la forêt de
Méséglise. Je ne regardais, en somme, tout cela avec plaisir
que parce que je me disais : c'est joli d'avoir tant de verdure
dans la fenêtre de ma chambre, jusqu'au moment où dans le
vaste tableau verdoyant je reconnus, peint lui au contraire en
bleu sombre, simplement parce qu'il était plus loin, le
clocher de l'église de Combray, non pas une figuration de ce
clocher, ce clocher lui-même qui, mettant ainsi sous mes
yeux la distance des lieues et des années, était venu, au milieu
de la lumineuse verdure et d'un tout autre ton, si sombre
qu'il paraissait presque seulement dessiné, s'inscrire dans le
carreau de ma fenêtre. Et si je sortais un moment de ma
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chambre, au bout du couloir j'apercevais, parce qu'il était
orienté autrement, comme une bande d'écarlate, la tenture
d'un petit salon qui n'était qu'une simple mousseline mais
rouge, et prête à s'incendier si un rayon de soleil y donnait.
Pendant nos promenades, Gilberte me parlait de Robert
comme se détournant d'elle, mais pour aller auprès d'autres
femmes. Et il est vrai que beaucoup encombraient sa vie, et,
comme certaines camaraderies masculines pour les hommes
qui aiment les femmes, avec ce caractère de défense
inutilement faite et de place vainement usurpée qu'ont dans
la plupart des maisons les objets qui ne peuvent servir à rien.
Une fois, que j'avais quitté Gilberte assez tôt, je m'éveillai
au milieu de la nuit dans la chambre de Tansonville, et
encore à demi endormi j'appelai : « Albertine ». Ce n'était pas
que j'eusse pensé à elle, ni rêvé d'elle, ni que je la prisse pour
Gilberte. Ma mémoire avait perdu l'amour d'Albertine, mais
il semble qu'il y ait une mémoire involontaire des membres,
pâle et stérile imitation de l'autre, qui vive plus longtemps
comme certains animaux ou végétaux inintelligents vivent
plus longtemps que l'homme. Les jambes, les bras sont
pleins de souvenirs engourdis. Une réminiscence éclose en
mon bras m'avait fait chercher derrière mon dos la sonnette,
comme dans ma chambre de Paris. Et ne la trouvant pas,
j'avais appelé : « Albertine », croyant que mon amie défunte
était couchée auprès de moi, comme elle faisait souvent le
soir, et que nous nous endormions ensemble, comptant, au
réveil, sur le temps qu'il faudrait à Françoise avant d'arriver,
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pour qu'Albertine pût sans imprudence tirer la sonnette que
je ne trouvais pas.
Robert vint plusieurs fois à Tansonville pendant que j'y
étais. Il était bien différent de ce que je l'avais connu. Sa vie
ne l'avait pas épaissi, comme M. de Charlus, tout au
contraire, mais, opérant en lui un changement inverse, lui
avait donné l'aspect désinvolte d'un officier de cavalerie – et
bien qu'il eût donné sa démission au moment de son mariage
– à un point qu'il n'avait jamais eu. Au fur et à mesure que
M. de Charlus s'était alourdi, Robert (et sans doute il était
infiniment plus jeune, mais on sentait qu'il ne ferait que se
rapprocher davantage de cet idéal avec l'âge), comme
certaines femmes qui sacrifient résolument leur visage à leur
taille et à partir d'un certain moment ne quittent plus
Marienbad (pensant que, ne pouvant espérer garder à la fois
plusieurs jeunesses, c'est encore celle de la tournure qui sera
la plus capable de représenter les autres), était devenu plus
élancé, plus rapide, effet contraire d'un même vice. Cette
vélocité avait d'ailleurs diverses raisons psychologiques, la
crainte d'être vu, le désir de ne pas sembler avoir cette
crainte, la fébrilité qui naît du mécontentement de soi et de
l'ennui. Il avait l'habitude d'aller dans certains mauvais lieux,
et, comme il aimait qu'on ne le vît ni y entrer, ni en sortir, il
s'engouffrait pour offrir aux regards malveillants des
passants hypothétiques le moins de surface possible, comme
on monte à l'assaut. Et cette allure de coup de vent lui était
restée. Peut-être aussi schématisait-elle l'intrépidité apparente
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de quelqu'un qui veut montrer qu'il n'a pas peur et ne veut
pas se donner le temps de penser.
Pour être complet il faudrait faire entrer en ligne de
compte le désir, plus il vieillissait, de paraître jeune, et même
l'impatience de ces hommes, toujours ennuyés, toujours
blasés, que sont les gens trop intelligents pour la vie
relativement oisive qu'ils mènent et où leurs facultés ne se
réalisent pas. Sans doute l'oisiveté même de ceux-là peut se
traduire par de la nonchalance. Mais, surtout depuis la faveur
dont jouissent les exercices physiques, l'oisiveté a pris une
forme sportive, même en dehors des heures de sport et qui
se traduit par une vivacité fébrile qui croit ne pas laisser à
l'ennui le temps ni la place de se développer.
Devenant beaucoup plus sec, il ne faisait presque plus
preuve vis-à-vis de ses amis, par exemple vis-à-vis de moi,
d'aucune sensibilité. Et en revanche il avait avec Gilberte des
affectations de sensibleries poussées jusqu'à la comédie, qui
déplaisaient. Ce n'est pas qu'en réalité Gilberte lui fût
indifférente. Non, Robert l'aimait. Mais il lui mentait tout le
temps, et son esprit de duplicité, sinon le fond même de ses
mensonges, était perpétuellement découvert. Et alors il ne
croyait pouvoir s'en tirer qu'en exagérant dans des
proportions ridicules la tristesse réelle qu'il avait de peiner
Gilberte. Il arrivait à Tansonville obligé, disait-il, de repartir
le lendemain matin pour une affaire avec un certain
Monsieur du pays qui était censé l'attendre à Paris et qui,
précisément rencontré dans la soirée près de Combray,
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dévoilait involontairement le mensonge au courant duquel
Robert avait négligé de le mettre, en disant qu'il était venu
dans le pays se reposer pour un mois et ne retournerait pas à
Paris d'ici là. Robert rougissait, voyait le sourire
mélancolique et fin de Gilberte, se dépêtrait – en l'insultant –
du gaffeur, rentrait avant sa femme, lui faisait remettre un
mot désespéré où il lui disait qu'il avait fait un mensonge
pour ne pas lui faire de peine, pour qu'en le voyant repartir
pour une raison qu'il ne pouvait pas lui dire elle ne crût pas
qu'il ne l'aimait pas (et tout cela, bien qu'il l'écrivît comme un
mensonge, était en somme vrai), puis faisait demander s'il
pouvait entrer chez elle et là, moitié tristesse réelle, moitié
énervement de cette vie, moitié simulation chaque jour plus
audacieuse, sanglotait, s'inondait d'eau froide, parlait de sa
mort prochaine, quelquefois s'abattait sur le parquet comme
s'il se fût trouvé mal. Gilberte ne savait pas dans quelle
mesure elle devait le croire, le supposait menteur à chaque
cas particulier, et s'inquiétait de ce pressentiment d'une mort
prochaine, mais pensait que d'une façon générale elle était
aimée, qu'il avait peut-être une maladie qu'elle ne savait pas,
et n'osait pas à cause de cela le contrarier et lui demander de
renoncer à ses voyages. Je comprenais, du reste, d'autant
moins pourquoi il se faisait que Morel fût reçu comme
l'enfant de la maison partout où étaient les Saint-Loup, à
Paris, à Tansonville.
Françoise, qui avait déjà vu tout ce que M. de Charlus avait
fait pour Jupien et tout ce que Robert de Saint-Loup faisait
pour Morel, n'en concluait pas que c'était un trait qui
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reparaissait à certaines générations chez les Guermantes,
mais plutôt – comme Legrandin aidait beaucoup Théodore –
elle avait fini, elle personne si morale et si pleine de préjugés,
par croire que c'était une coutume que son universalité
rendait respectable. Elle disait toujours d'un jeune homme,
que ce fût Morel ou Théodore : « Il a trouvé un Monsieur
qui s'est toujours intéressé à lui et qui lui a bien aidé. » Et
comme en pareil cas les protecteurs sont ceux qui aiment,
qui souffrent, qui pardonnent, Françoise, entre eux et les
mineurs qu'ils détournaient, n'hésitait pas à leur donner le
beau rôle, à leur trouver « bien du cœur ». Elle blâmait sans
hésiter Théodore qui avait joué bien des tours à Legrandin,
et semblait pourtant ne pouvoir guère avoir de doutes sur la
nature de leurs relations, car elle ajoutait : « Alors le petit a
compris qu'il fallait y mettre du sien et y a dit : « Prenez-moi
avec vous, je vous aimerai bien, je vous cajolerai bien », et
ma foi ce Monsieur a tant de cœur que bien sûr que
Théodore est sûr de trouver près de lui peut-être bien plus
qu'il ne mérite, car c'est une tête brûlée, mais ce Monsieur est
si bon que j'ai souvent dit à Jeannette (la fiancée de
Théodore) : Petite, si jamais vous êtes dans la peine, allez
vers ce Monsieur. Il coucherait plutôt par terre et vous
donnerait son lit. Il a trop aimé le petit Théodore pour le
mettre dehors, bien sûr qu'il ne l'abandonnera jamais. »
De même estimait-elle plus Saint-Loup que Morel et
jugeait-elle que, malgré tous les coups que Morel avait faits,
le marquis ne le laisserait jamais dans la peine, car c'est un
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homme qui avait trop de cœur, ou alors il faudrait qu'il lui
soit arrivé à lui-même de grands revers.
C'est au cours d'un de ces entretiens, qu'ayant demandé le
nom de famille de Théodore, qui vivait maintenant dans le
Midi, je compris brusquement que c'était lui qui m'avait écrit
pour mon article du Figaro cette lettre, d'une écriture
populaire et d'un langage charmant, dont le nom du
signataire m'était alors inconnu.
Saint-Loup insistait pour que je restasse à Tansonville et
laissa échapper une fois, bien qu'il ne cherchât visiblement
plus à me faire plaisir, que ma venue avait été pour sa femme
une joie telle qu'elle en était restée, à ce qu'elle lui avait dit,
transportée de joie tout un soir, un soir où elle se sentait si
triste que je l'avais, en arrivant à l'improviste,
miraculeusement sauvée du désespoir, « peut-être du pire »,
ajouta-t-il. Il me demandait de tâcher de la persuader qu'il
l'aimait, me disant que la femme qu'il aimait aussi, il l'aimait
moins qu'elle et romprait bientôt. « Et pourtant », ajouta-t-il,
avec une telle félinité et un tel besoin de confidence que je
croyais par moments que le nom de Charlie allait, malgré
Robert, « sortir » comme le numéro d'une loterie, « j'avais de
quoi être fier. Cette femme qui me donna tant de preuves de
sa tendresse et que je vais sacrifier à Gilberte, jamais elle
n'avait fait attention à un homme, elle se croyait elle-même
incapable d'être amoureuse. Je suis le premier. Je savais
qu'elle s'était refusée à tout le monde tellement que, quand
j'ai reçu la lettre adorable où elle me disait qu'il ne pouvait y
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avoir de bonheur pour elle qu'avec moi, je n'en revenais pas.
Évidemment, il y aurait de quoi me griser, si la pensée de
voir cette pauvre petite Gilberte en larmes ne m'était pas
intolérable. Ne trouves-tu pas qu'elle a quelque chose de
Rachel ? », me disait-il. Et en effet j'avais été frappé d'une
vague ressemblance qu'on pouvait à la rigueur trouver
maintenant entre elles. Peut-être tenait-elle à une similitude
réelle de quelques traits (dus par exemple à l'origine
hébraïque pourtant si peu marquée chez Gilberte) à cause de
laquelle Robert, quand sa famille avait voulu qu'il se mariât,
s'était senti attiré vers Gilberte. Elle tenait aussi à ce que
Gilberte, ayant surpris des photographies de Rachel,
cherchait pour plaire à Robert à imiter certaines habitudes
chères à l'actrice, comme d'avoir toujours des nœuds rouges
dans les cheveux, un ruban de velours noir au bras, et se
teignait les cheveux pour paraître brune. Puis sentant que ses
chagrins lui donnaient mauvaise mine, elle essayait d'y
remédier. Elle le faisait parfois sans mesure. Un jour où
Robert devait venir le soir pour vingt-quatre heures à
Tansonville, je fus stupéfait de la voir venir se mettre à table
si étrangement différente de ce qu'elle était, non seulement
autrefois, mais même les jours habituels, que je restai
stupéfait comme si j'avais eu devant moi une actrice, une
espèce de Théodora. Je sentais que malgré moi je la regardais
trop fixement dans ma curiosité de savoir ce qu'elle avait de
changé. Cette curiosité fut d'ailleurs bientôt satisfaite quand
elle se moucha, car, malgré toutes les précautions qu'elle y
mit, par toutes les couleurs qui restèrent sur le mouchoir, en
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faisant une riche palette, je vis qu'elle était complètement
peinte. C'était cela qui lui faisait cette bouche sanglante et
qu'elle s'efforçait de rendre rieuse en croyant que cela lui
allait bien, tandis que l'heure du train qui s'approchait sans
que Gilberte sût si son mari arrivait vraiment ou s'il
n'enverrait pas une de ces dépêches dont M. de Guermantes
avait spirituellement fixé le modèle : « Impossible venir,
mensonge suit », pâlissait ses joues et cernait ses yeux.
« Ah ! vois-tu, me disait Saint-Loup – avec un accent
volontairement tendre qui contrastait tant avec sa tendresse
spontanée d'autrefois, avec une voix d'alcoolique et des
modulations d'acteur – Gilberte heureuse, il n'y a rien que je
ne donnerais pour cela. Elle a tant fait pour moi. Tu ne peux
pas savoir. » Et ce qui était le plus déplaisant dans tout cela
était encore l'amour-propre, car Saint-Loup était flatté d'être
aimé par Gilberte, et, sans oser dire que c'était Morel qu'il
aimait, donnait pourtant sur l'amour que le violoniste était
censé avoir pour lui des détails qu'il savait bien exagérés
sinon inventés de toute pièce, lui à qui Morel demandait
chaque jour plus d'argent. Et c'était en me confiant Gilberte
qu'il repartait pour Paris. J'eus, du reste, l'occasion, pour
anticiper un peu, puisque je suis encore à Tansonville, de l'y
apercevoir une fois dans le monde, et de loin, où sa parole,
malgré tout vivante et charmante, me permettait de retrouver
le passé. Je fus frappé de voir combien il changeait. Il
ressemblait de plus en plus à sa mère. Mais la manière de
sveltesse hautaine qu'il avait héritée d'elle et qu'elle avait
parfaite, chez lui, grâce à l'éducation la plus accomplie,
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s'exagérait, se figeait ; la pénétration du regard propre aux
Guermantes lui donnait l'air d'inspecter tous les lieux au
milieu desquels il passait, mais d'une façon quasi
inconsciente, par une sorte d'habitude et de particularité
animale ; même immobile, la couleur qui était la sienne plus
que de tous les Guermantes, d'être seulement de
l'ensoleillement d'une journée d'or devenue solide, lui
donnait comme un plumage si étrange, faisait de lui une
espèce si rare, si précieuse, qu'on aurait voulu la posséder
pour une collection ornithologique ; mais quand, de plus,
cette lumière changée en oiseau se mettait en mouvement,
en action, quand par exemple je voyais Robert de Saint-Loup
entrer dans une soirée où j'étais, il avait des redressements de
sa tête si joyeusement et si fièrement huppée sous l'aigrette
d'or de ses cheveux un peu déplumés, des mouvements de
cou tellement plus souples, plus fiers et plus coquets que
n'en ont les humains, que devant la curiosité et l'admiration
moitié mondaine, moitié zoologique qu'il vous inspirait, on
se demandait si c'était dans le faubourg Saint-Germain qu'on
se trouvait ou au Jardin des Plantes et si on regardait un
grand seigneur traverser un salon, ou se promener dans sa
cage un merveilleux oiseau. Pour peu qu'on y mît un peu
d'imagination, le ramage ne se prêtait pas moins à cette
interprétation que le plumage. Il disait ce qu'il croyait grand
siècle et par là imitait les manières des Guermantes. Mais un
rien d'indéfinissable faisait qu'elles devenaient les manières
de M. de Charlus. « Je te quitte un instant, me dit-il, dans
cette soirée où Mme de Marsantes était un peu plus loin. Je
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vais faire un doigt de cour à ma nièce. » Quant à cet amour
dont il me parlait sans cesse, il n'était pas d'ailleurs que celui
pour Charlie, bien que ce fût le seul qui comptât pour lui.
Quel que soit le genre d'amours d'un homme, on se trompe
toujours sur le nombre des personnes avec qui il a des
liaisons, parce qu'on interprète faussement des amitiés
comme des liaisons, ce qui est une erreur par addition, mais
aussi parce qu'on croit qu'une liaison prouvée en exclut une
autre, ce qui est un autre genre d'erreur. Deux personnes
peuvent dire : « la maîtresse de X..., je la connais »,
prononcer deux noms différents et ne se tromper ni l'une ni
l'autre. Une femme qu'on aime suffit rarement à tous nos
besoins et on la trompe avec une femme qu'on n'aime pas.
Quant au genre d'amours que Saint-Loup avait hérité de M.
de Charlus, un mari qui y est enclin fait habituellement le
bonheur de sa femme. C'est une loi générale à laquelle les
Guermantes trouvaient le moyen de faire exception parce
que ceux qui avaient ce goût voulaient faire croire qu'ils
avaient, au contraire, celui des femmes. Ils s'affichaient avec
l'une ou l'autre et désespéraient la leur. Les Courvoisier en
usaient plus sagement. Le jeune vicomte de Courvoisier se
croyait seul sur la terre, et depuis l'origine du monde, à être
tenté par quelqu'un de son sexe. Supposant que ce penchant
lui venait du diable, il lutta contre lui, épousa une femme
ravissante, lui fit des enfants... Puis un de ses cousins lui
enseigna que ce penchant est assez répandu, poussa la bonté
jusqu'à le mener dans des lieux où il pouvait le satisfaire. M.
de Courvoisier n'en aima que plus sa femme, redoubla de
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zèle prolifique et elle et lui étaient cités comme le meilleur
ménage de Paris. On n'en disait point autant de celui de
Saint-Loup parce que Robert au lieu de se contenter de
l'inversion, faisait mourir sa femme de jalousie en cherchant
sans plaisir des maîtresses !
Il est possible que Morel, étant excessivement noir, fût
nécessaire à Saint-Loup comme l'ombre l'est au rayon de
soleil. On imagine très bien dans cette famille si ancienne un
grand seigneur blond, doré, intelligent, doué de tous les
prestiges et recelant à fond de cale un goût secret, ignoré de
tous, pour les nègres. Robert, d'ailleurs, ne laissait jamais la
conversation toucher à ce genre d'amours qui était le sien. Si
je disais un mot : « Oh ! je ne sais pas, répondait-il avec un
détachement si profond qu'il en laissait tomber son monocle,
je n'ai pas soupçon de ces choses-là. Si tu désires des
renseignements là-dessus, mon cher, je te conseille de
t'adresser ailleurs. Moi, je suis un soldat, un point c'est tout.
Autant ces choses-là m'indiffèrent, autant je suis avec
passion la guerre balkanique. Autrefois cela t'intéressait,
l'histoire des batailles. Je te disais alors qu'on reverrait, même
dans les conditions les plus différentes, les batailles typiques,
par exemple le grand essai d'enveloppement par l'aile de la
bataille d'Ulm. Eh bien ! si spéciales que soient ces guerres
balkaniques, Lullé-Burgas c'est encore Ulm, l'enveloppement
par l'aile. Voilà les sujets dont tu peux me parler. Mais pour
le genre de choses auxquelles tu fais allusion, je m'y connais
autant qu'en sanscrit. » Ces sujets que Robert dédaignait
ainsi, Gilberte, au contraire, quand il était reparti, les abordait
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volontiers en causant avec moi. Non, certes, relativement à
son mari car elle ignorait, ou feignait d'ignorer tout. Mais elle
s'étendait volontiers sur eux en tant qu'ils concernaient les
autres, soit qu'elle y vît une sorte d'excuse indirecte pour
Robert, soit que celui-ci, partagé comme son oncle entre un
silence sévère à l'égard de ces sujets et un besoin de
s'épancher et de médire, l'eût instruite pour beaucoup. Entre
tous, M. de Charlus n'était pas épargné ; c'était sans doute
que Robert, sans parler de Morel à Gilberte, ne pouvait
s'empêcher, avec elle, de lui répéter, sous une forme ou sous
une autre, ce que le violoniste lui avait appris. Et il
poursuivait son ancien bienfaiteur de sa haine. Ces
conversations, que Gilberte affectionnait, me permirent de
lui demander si, dans un genre parallèle, Albertine, dont c'est
par elle que j'avais entendu la première fois le nom, quand
jadis elles étaient amies de cours, avait de ces goûts. Gilberte
refusa de me donner ce renseignement. Au reste, il y avait
longtemps qu'il eût cessé d'offrir quelque intérêt pour moi.
Mais je continuais à m'en enquérir machinalement, comme
un vieillard qui, ayant perdu la mémoire, demande de temps
à autre des nouvelles du fils qu'il a perdu.
Un autre jour je revins à la charge et demandai encore à
Gilberte si Albertine aimait les femmes. « Oh ! pas du tout. –
Mais vous disiez autrefois qu'elle avait mauvais genre. – J'ai
dit cela, moi ? vous devez vous tromper. En tout cas si je l'ai
dit – mais vous faites erreur – je parlais au contraire
d'amourettes avec des jeunes gens. À cet âge-là, du reste, cela
n'allait probablement pas bien loin. »
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Gilberte disait-elle cela pour me cacher qu'elle-même,
selon ce qu'Albertine m'avait dit, aimait les femmes et avait
fait à Albertine des propositions ? Ou bien (car les autres
sont souvent plus renseignés sur notre vie que nous ne
croyons) savait-elle que j'avais aimé, que j'avais été jaloux
d'Albertine et (les autres pouvant savoir plus de vérité que
nous ne croyons, mais l'étendre aussi trop loin et être dans
l'erreur par des suppositions excessives, alors que nous les
avions espérés dans l'erreur par l'absence de toute
supposition) s'imaginait-elle que je l'étais encore et me
mettait-elle sur les yeux, par bonté, ce bandeau qu'on a
toujours tout prêt pour les jaloux ? En tout cas, les paroles
de Gilberte, depuis « le mauvais genre » d'autrefois jusqu'au
certificat de bonne vie et mœurs d'aujourd'hui, suivaient une
marche inverse des affirmations d'Albertine qui avait fini
presque par avouer des demi-rapports avec Gilberte.
Albertine m'avait étonné en cela comme sur ce que m'avait
dit Andrée, car pour toute cette petite bande, si j'avais
d'abord cru, avant de la connaître, à sa perversité, je m'étais
rendu compte de mes fausses suppositions, comme il arrive
si souvent quand on trouve une honnête fille et presque
ignorante des réalités de l'amour dans le milieu qu'on avait
cru à tort le plus dépravé. Puis j'avais refait le chemin en sens
contraire, reprenant pour vraies mes suppositions du début.
Mais peut-être Albertine avait-elle voulu me dire cela pour
avoir l'air plus expérimentée qu'elle n'était et pour m'éblouir,
à Paris, du prestige de sa perversité comme la première fois,
à Balbec, par celui de sa vertu. Et tout simplement, quand je
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lui avais parlé des femmes qui aimaient les femmes, pour ne
pas avoir l'air de ne pas savoir ce que c'était, comme dans
une conversation on prend un air entendu si on parle de
Fourier ou de Tobolsk encore qu'on ne sache pas ce que
c'est. Elle avait peut-être vécu près de l'amie de Mlle Vinteuil
et d'Andrée, séparée par une cloison étanche d'elles qui
croyaient qu'elle n'en était pas, ne s'était renseignée ensuite –
comme une femme qui épouse un homme de lettres cherche
à se cultiver – qu'afin de me complaire en se faisant capable
de répondre à mes questions, jusqu'au jour où elle avait
compris qu'elles étaient inspirées par la jalousie et où elle
avait fait machine en arrière, à moins que ce ne fût Gilberte
qui me mentît. L'idée me vint que c'était pour avoir appris
d'elle, au cours d'un flirt qu'il aurait conduit dans le sens qui
l'intéressait, qu'elle ne détestait pas les femmes, que Robert
l'avait épousée, espérant des plaisirs qu'il n'avait pas dû
trouver chez lui puisqu'il les prenait ailleurs. Aucune de ces
hypothèses n'était absurde, car chez des femmes comme la
fille d'Odette ou les jeunes filles de la petite bande il y a une
telle diversité, un tel cumul de goûts alternants, si même ils
ne sont pas simultanés, qu'elles passent aisément d'une
liaison avec une femme à un grand amour pour un homme,
si bien que définir le goût réel et dominant reste difficile.
C'est ainsi qu'Albertine avait cherché à me plaire pour me
décider à l'épouser, mais elle y avait renoncé elle-même à
cause de mon caractère indécis et tracassier. C'était, en effet,
sous cette forme trop simple que je jugeais mon aventure
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avec Albertine, maintenant que je ne voyais plus cette
aventure que du dehors.
Ce qui est curieux et ce sur quoi je ne puis m'étendre, c'est
à quel point, vers cette époque-là, toutes les personnes
qu'avait aimées Albertine, toutes celles qui auraient pu lui
faire faire ce qu'elles auraient voulu, demandèrent,
implorèrent, j'oserai dire mendièrent, à défaut de mon
amitié, quelques relations avec moi. Il n'y aurait plus eu
besoin d'offrir de l'argent à Mme Bontemps pour qu'elle me
renvoyât Albertine. Ce retour de la vie, se produisant quand
il ne servait plus à rien, m'attristait profondément, non à
cause d'Albertine, que j'eusse reçue sans plaisir si elle m'eût
été ramenée, non plus de Touraine mais de l'autre monde,
mais à cause d'une jeune femme que j'aimais et que je ne
pouvais arriver à voir. Je me disais que si elle mourait, ou si
je ne l'aimais plus, tous ceux qui eussent pu me rapprocher
d'elle tomberaient à mes pieds. En attendant, j'essayais en
vain d'agir sur eux, n'étant pas guéri par l'expérience, qui
aurait dû m'apprendre – si elle apprenait jamais rien –
qu'aimer est un mauvais sort comme ceux qu'il y a dans les
contes contre quoi on ne peut rien jusqu'à ce que
l'enchantement ait cessé.
– Justement, reprit Gilberte, le livre que je tiens parle de
ces choses. C'est un vieux Balzac que je pioche pour me
mettre à la hauteur de mes oncles, la Fille aux yeux d'Or.
Mais c'est absurde, invraisemblable, un beau cauchemar.
D'ailleurs, une femme peut, peut-être, être surveillée ainsi
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par une autre femme, jamais par un homme. – Vous vous
trompez, j'ai connu une femme qu'un homme qui l'aimait
était arrivé véritablement à séquestrer ; elle ne pouvait jamais
voir personne et sortait seulement avec des serviteurs
dévoués. – Hé bien, cela devrait vous faire horreur à vous
qui êtes si bon. Justement nous disions avec Robert que
vous devriez vous marier. Votre femme vous guérirait et
vous feriez son bonheur. – Non, parce que j'ai trop mauvais
caractère. – Quelle idée ! – Je vous assure ! J'ai, du reste, été
fiancé, mais je n'ai pas pu.
Je ne voulus pas emprunter à Gilberte la Fille aux yeux
d'Or puisqu'elle le lisait. Mais elle me prêta, le dernier soir
que je passai chez elle, un livre qui me produisit une
impression assez vive et mêlée. C'était un volume du journal
inédit des Goncourt.
J'étais triste, ce dernier soir, en remontant dans ma
chambre, de penser que je n'avais pas été une seule fois
revoir l'église de Combray qui semblait m'attendre au milieu
des verdures dans une fenêtre toute violacée. Je me disais : «
Tant pis, ce sera pour une autre année si je ne meurs pas d'ici
là », ne voyant pas d'autre obstacle que ma mort et
n'imaginant pas celle de l'église qui me semblait devoir durer
longtemps après ma mort comme elle avait duré longtemps
avant ma naissance.
Quand, avant d'éteindre ma bougie, je lus le passage que je
transcris plus bas, mon absence de disposition pour les
lettres, pressentie jadis du côté de Guermantes, confirmée
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durant ce séjour dont c'était le dernier soir – ce soir des
veilles de départ où, l'engourdissement des habitudes qui
vont finir cessant, on essaie de se juger – me parut quelque
chose de moins regrettable, comme si la littérature ne
révélait pas de vérité profonde, et en même temps il me
semblait triste que la littérature ne fût pas ce que j'avais cru.
D'autre part, moins regrettable me semblait l'état maladif qui
allait me confiner dans une maison de santé, si les belles
choses dont parlent les livres n'étaient pas plus belles que ce
que j'avais vu. Mais par une contradiction bizarre,
maintenant que ce livre en parlait, j'avais envie de les voir.
Voici les pages que je lus jusqu'à ce que la fatigue me fermât
les yeux :
« Avant-hier tombe ici, pour m'emmener dîner chez lui,
Verdurin, l'ancien critique de la Revue, l'auteur de ce livre
sur Whistler où vraiment le faire, le coloriage artiste de
l'original Américain est souvent rendu avec une grande
délicatesse par l'amoureux de tous les raffinements, de toutes
les joliesses de la chose peinte qu'est Verdurin. Et tandis que
je m'habille pour le suivre, c'est, de sa part, tout un récit où il
y a, par moments, comme l'épellement apeuré d'une
confession sur le renoncement à écrire aussitôt après son
mariage avec la « Madeleine » de Fromentin, renoncement
qui serait dû à l'habitude de la morphine et aurait eu cet
effet, au dire de Verdurin, que la plupart des habitués du
salon de sa femme, ne sachant même pas que le mari eût
jamais écrit, lui parlaient de Charles Blanc, de Saint-Victor,
de Sainte-Beuve, de Burty, comme d'individus auxquels ils le
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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croyaient, lui, tout à fait inférieur. « Voyons, vous Goncourt,
vous savez bien, et Gautier le savait aussi, que mes salons
étaient autre chose que ces piteux Maîtres d'autrefois crus un
chef-d'œuvre dans la famille de ma femme. » Puis, par un
crépuscule où il y a près des tours du Trocadéro comme le
dernier allumement d'une lueur qui en fait des tours
absolument pareilles aux tours enduites de gelée de groseille
des anciens pâtissiers, la causerie continue dans la voiture qui
doit nous conduire quai Conti où est leur hôtel, que son
possesseur prétend être l'ancien hôtel des Ambassadeurs de
Venise et où il y aurait un fumoir dont Verdurin me parle
comme d'une salle transportée telle quelle, à la façon des
Mille et une Nuits, d'un célèbre palazzo, dont j'oublie le
nom, palazzo à la margelle du puits représentant un
couronnement de la Vierge que Verdurin soutient être
absolument du plus beau Sansovino et qui servirait, pour
leurs invités, à jeter la cendre de leurs cigares. Et ma foi,
quand nous arrivons, dans le glauque et le diffus d'un clair de
lune vraiment semblable à ceux dont la peinture classique
abrite Venise, et sur lequel la coupole silhouettée de l'Institut
fait penser à la Salute dans les tableaux de Guardi, j'ai un peu
l'illusion d'être au bord du Grand Canal. L'illusion est
entretenue par la construction de l'hôtel où du premier étage
on ne voit pas le quai et par le dire évocateur du maître de
maison affirmant que le nom de la rue du Bac – du diable si
j'y avais jamais pensé – viendrait du bac sur lequel des
religieuses d'autrefois, les Miramiones, se rendaient aux
offices de Notre-Dame. Tout un quartier où a flâné mon
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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enfance quand ma tante de Courmont l'habitait, et que je me
prends à « raimer » en retrouvant, presque contiguë à l'hôtel
des Verdurin, l'enseigne du « Petit Dunkerque », une des
rares boutiques survivant ailleurs que vignettées dans le
crayonnage et les frottis de Gabriel de Saint-Aubin, où le
XVIIIe siècle curieux venait asseoir ses moments d'oisiveté
pour le marchandage des jolités françaises et étrangères et «
tout ce que les arts produisent de plus nouveau », comme dit
une facture de ce Petit Dunkerque, facture dont nous
sommes seuls, je crois, Verdurin et moi, à posséder une
épreuve et qui est bien un des volants chefs-d'œuvre de
papier ornementé sur lequel le règne de Louis XV faisait ses
comptes, avec son en-tête représentant une mer toute
vagueuse, chargée de vaisseaux, une mer aux vagues ayant
l'air d'une illustration de l'Édition des Fermiers Généraux de
l'Huître et des Plaideurs. La maîtresse de la maison, qui va
me placer à côté d'elle, me dit aimablement avoir fleuri sa
table rien qu'avec des chrysanthèmes japonais, mais des
chrysanthèmes disposés en des vases qui seraient de
rarissimes chefs-d'œuvre, l'un entre autres, fait de bronze,
sur lequel des pétales en cuivre rougeâtre sembleraient être la
vivante effeuillaison de la fleur. Il y a là Cottard, le docteur et
sa femme, le sculpteur polonais Viradobetski, Swann le
collectionneur, une grande dame russe, une princesse au
nom en or qui m'échappe, et Cottard me souffle à l'oreille
que c'est elle qui aurait tiré à bout portant sur l'archiduc
Rodolphe et d'après qui j'aurais en Galicie et dans tout le
nord de la Pologne une situation absolument exceptionnelle,
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une jeune fille ne consentant jamais à promettre sa main sans
savoir si son fiancé est un admirateur de la Faustin.
« Vous ne pouvez pas comprendre cela, vous autres
Occidentaux – jette en manière de conclusion la princesse,
qui me fait l'effet, ma foi, d'une intelligence tout à fait
supérieure – cette pénétration par un écrivain de l'intimité de
la femme. » Un homme au menton et aux lèvres rasés, aux
favoris de maître d'hôtel, débitant sur un ton de
condescendance des plaisanteries de professeur de seconde
qui fraye avec les premiers de sa classe pour la SaintCharlemagne, et c'est Brichot, l'universitaire. À mon nom
prononcé par Verdurin, il n'a pas une parole qui marque qu'il
connaisse nos livres, et c'est en moi un découragement
colère éveillé par cette conspiration qu'organise contre nous
la Sorbonne, apportant, jusque dans l'aimable logis où je suis
fêté, la contradiction, l'hostilité d'un silence voulu. Nous
passons à table et c'est alors un extraordinaire défilé
d'assiettes qui sont tout bonnement des chefs-d'œuvre de
l'art du porcelainier, celui dont, pendant un repas délicat,
l'attention chatouillée d'un amateur écoute le plus
complaisamment le bavardage artiste – des assiettes de
Yung-Tsching à la couleur capucine de leurs rebords, au
bleuâtre, à l'effeuillé turgide de leurs iris d'eau, à la traversée,
vraiment décoratoire, par l'aurore d'un vol de martinspêcheurs et de grues, aurore ayant tout à fait ces tons
matutinaux qu'entre-regarde quotidiennement, boulevard
Montmorency, mon réveil – des assiettes de Saxe plus
mièvres dans le gracieux de leur faire, à l'endormement, à
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l'anémie de leurs roses tournées au violet, au déchiquetage
lie-de-vin d'une tulipe, au rococo d'un œillet ou d'un
myosotis – des assiettes de Sèvres engrillagées par le fin
guillochis de leurs cannelures blanches, verticillées d'or, ou
que noue, sur l'à-plat crémeux de la pâte, le galant relief d'un
ruban d'or – enfin toute une argenterie où courent ces
myrtes de Luciennes que reconnaîtrait la Dubarry. Et ce qui
est peut-être aussi rare, c'est la qualité vraiment tout à fait
remarquable des choses qui sont servies là dedans, un
manger finement mijoté, tout un fricoté comme les
Parisiens, il faut le dire bien haut, n'en ont jamais dans les
plus grands dîners, et qui me rappelle certains cordons bleus
de Jean d'Heurs. Même le foie gras n'a aucun rapport avec la
fade mousse qu'on sert habituellement sous ce nom, et je ne
sais pas beaucoup d'endroits où la simple salade de pommes
de terre est faite ainsi de pommes de terre ayant la fermeté
de boutons d'ivoire japonais, le patiné de ces petites cuillers
d'ivoire avec lesquelles les Chinoises versent l'eau sur le
poisson qu'elles viennent de pêcher. Dans le verre de Venise
que j'ai devant moi, une riche bijouterie de rouges est mise
par un extraordinaire Léoville acheté à la vente de M.
Montalivet et c'est un amusement pour l'imagination de l'œil
et aussi, je ne crains pas de le dire, pour l'imagination de ce
qu'on appelait autrefois la gueule, de voir apporter une
barbue qui n'a rien des barbues pas fraîches qu'on sert sur les
tables les plus luxueuses et qui ont pris dans les retards du
voyage le modelage sur leur dos de leurs arêtes ; une barbue
qu'on sert non avec la colle à pâte que préparent, sous le
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nom de sauce blanche, tant de chefs de grande maison, mais
avec de la véritable sauce blanche, faite avec du beurre à cinq
francs la livre ; de voir apporter cette barbue dans un
merveilleux plat Tching-Hon traversé par les pourpres
rayages d'un coucher de soleil sur une mer où passe la
navigation drolatique d'une bande de langoustes, au pointillis
grumeleux si extraordinairement rendu qu'elles semblent
avoir été moulées sur des carapaces vivantes, plat dont le
marli est fait de la pêche à la ligne par un petit Chinois d'un
poisson qui est un enchantement de nacreuse couleur par
l'argentement azuré de son ventre. Comme je dis à Verdurin
le délicat plaisir que ce doit être pour lui que cette raffinée
mangeaille dans cette collection comme aucun prince n'en
possède à l'heure actuelle derrière ses vitrines : « On voit
bien que vous ne le connaissez pas », me jette
mélancoliquement la maîtresse de maison, et elle me parle de
son mari comme d'un original maniaque, indifférent à toutes
ces jolités, « un maniaque, répète-t-elle, oui, absolument cela,
un maniaque qui aurait plutôt l'appétit d'une bouteille de
cidre, bue dans la fraîcheur un peu encanaillée d'une ferme
normande ». Et la charmante femme à la parole vraiment
amoureuse des colorations d'une contrée nous parle avec un
enthousiasme débordant de cette Normandie qu'ils ont
habitée, une Normandie qui serait un immense parc anglais,
à la fragrance de ses hautes futaies à la Lawrence, au velours
cryptomeria, dans leur bordure porcelainée d'hortensias
roses, de ses pelouses naturelles, au chiffonnage de roses
soufre dont la retombée sur une porte de paysans, où
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l'incrustation de deux poiriers enlacés simule une enseigne
tout à fait ornementale, fait penser à la libre retombée d'une
branche fleurie dans le bronze d'une applique de Gouthière,
une Normandie qui serait absolument insoupçonnée des
Parisiens en vacances et que protège la barrière de chacun de
ses clos, barrières que les Verdurin me confessent ne pas
s'être fait faute de lever toutes. À la fin du jour, dans un
éteignement sommeilleux de toutes les couleurs où la
lumière ne serait plus donnée que par une mer presque
caillée ayant le bleuâtre du petit lait – mais non, rien de la
mer que vous connaissez, proteste ma voisine
frénétiquement, en réponse à mon dire que Flaubert nous
avait menés, mon frère et moi, à Trouville, rien, absolument
rien, il faudra venir avec moi, sans cela vous ne saurez jamais
– ils rentraient, à travers les vraies forêts en fleurs de tulle
rose que faisaient les rhododendrons, tout à fait grisés par
l'odeur des jardineries qui donnaient au mari d'abominables
crises d'asthme – oui, insista-t-elle, c'est cela, de vraies crises
d'asthme. »
« Là-dessus, l'été suivant, ils revenaient, logeant toute une
colonie d'artistes dans une admirable habitation
moyenâgeuse que leur faisait un cloître ancien loué par eux,
pour rien. Et, ma foi, en entendant cette femme qui, en
passant par tant de milieux vraiment distingués, a gardé
pourtant dans sa parole un peu de la verdeur de la parole
d'une femme du peuple, une parole qui vous montre les
choses avec la couleur que votre imagination y voit, l'eau me
vient à la bouche de la vie qu'elle me confesse avoir menée
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là-bas, chacun travaillant dans sa cellule, et où, dans le salon,
si vaste qu'il possédait deux cheminées, tout le monde venait
avant le déjeuner pour des causeries tout à fait supérieures,
mêlées de petits jeux, me refaisant penser à celles qu'évoque
ce chef-d'œuvre de Diderot, les lettres à Mademoiselle
Volland. Puis, après le déjeuner, tout le monde sortait, même
les jours de grains dans le coup de soleil, le rayonnement
d'une ondée lignant de son filtrage lumineux les nodosités
d'un magnifique départ de hêtres centenaires qui mettaient
devant la grille le beau végétal affectionné par le XVIIIe
siècle, et d'arbustes ayant pour boutons fleurissants dans la
suspension de leurs rameaux des gouttes de pluie. On
s'arrêtait pour écouter le délicat barbotis, énamouré de
fraîcheur, d'un bouvreuil se baignant dans la mignonne
baignoire minuscule de nymphembourg qu'est la corolle
d'une rose blanche. Et comme je parle à Mme Verdurin des
paysages et des fleurs de là-bas délicatement pastellisés par
Elstir : « Mais c'est moi qui lui ai fait connaître tout cela,
jette-t-elle avec un redressement colère de la tête, tout vous
entendez bien, tout, les coins curieux, tous les motifs, je le
lui ai jeté à la face quand il nous a quittés, n'est-ce pas,
Auguste ? tous les motifs qu'il a peints. Les objets, il les a
toujours connus, cela il faut être juste, il faut le reconnaître.
Mais les fleurs, il n'en avait jamais vu, il ne savait pas
distinguer un althéa d'une passe-rose. C'est moi qui lui ai
appris à reconnaître, vous n'allez pas me croire, à reconnaître
le jasmin. » Et il faut avouer qu'il y a quelque chose de
curieux à penser que le peintre des fleurs que les amateurs
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d'art nous citent aujourd'hui comme le premier, comme
supérieur même à Fantin-Latour, n'aurait peut-être jamais,
sans la femme qui est là, su peindre un jasmin. « Oui, ma
parole, le jasmin ; toutes les roses qu'il a faites, c'est chez moi
ou bien c'est moi qui les lui apportais. On ne l'appelait chez
nous que Monsieur Tiche. Demandez à Cottard, à Brichot, à
tous les autres, si on le traitait ici en grand homme. Luimême en aurait ri. Je lui apprenais à disposer ses fleurs ; au
commencement il ne pouvait pas en venir à bout. Il n'a
jamais su faire un bouquet. Il n'avait pas de goût naturel
pour choisir, il fallait que je lui dise : « Non, ne peignez pas
cela, cela n'en vaut pas la peine, peignez ceci. » Ah ! s'il nous
avait écoutés aussi pour l'arrangement de sa vie comme pour
l'arrangement de ses fleurs et s'il n'avait pas fait ce sale
mariage ! » Et brusquement, les yeux enfiévrés par
l'absorption d'une rêverie tournée vers le passé, avec le
nerveux taquinage, dans l'allongement maniaque de ses
phalanges, du floche des manches de son corsage, c'est, dans
le contournement de sa pose endolorie, comme un
admirable tableau qui n'a, je crois, jamais été peint, et où se
liraient toute la révolte contenue, toutes les susceptibilités
rageuses d'une amie outragée dans les délicatesses, dans la
pudeur de la femme. Là-dessus elle nous parle de l'admirable
portrait qu'Elstir a fait pour elle, le portrait de la famille
Collard, portrait donné par elle au Luxembourg au moment
de sa brouille avec le peintre, confessant que c'est elle qui a
donné au peintre l'idée de faire l'homme en habit pour
obtenir tout ce beau bouillonnement du linge et qui a choisi
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la robe de velours de la femme, robe faisant un appui au
milieu de tout le papillotage des nuances claires des tapis, des
fleurs, des fruits, des robes de gaze des fillettes pareilles à des
tutus de danseuses. Ce serait elle aussi qui aurait donné l'idée
de ce coiffage, idée dont on a fait ensuite honneur à l'artiste,
idée qui consistait, en somme, à peindre la femme, non pas
en représentation mais surprise dans l'intime de sa vie de
tous les jours. « Je lui disais : Mais dans la femme qui se
coiffe, qui s'essuie la figure, qui se chauffe les pieds, quand
elle ne croit pas être vue, il y a un tas de mouvements
intéressants, des mouvements d'une grâce tout à fait
léonardesque ! » Mais sur un signe de Verdurin indiquant le
réveil de ces indignations comme malsain pour la grande
nerveuse que serait au fond sa femme, Swann me fait
admirer le collier de perles noires porté par la maîtresse de la
maison et achetées par elle, toutes blanches, à la vente d'un
descendant de Mme de La Fayette à qui elles auraient été
données par Henriette d'Angleterre, perles devenues noires à
la suite d'un incendie qui détruisit une partie de la maison
que les Verdurin habitaient dans une rue dont je ne me
rappelle plus le nom, incendie après lequel fut retrouvé le
coffret où étaient ces perles, mais devenues entièrement
noires. « Et je connais le portrait de ces perles, aux épaules
mêmes de Mme de La Fayette, oui, parfaitement, leur
portrait, insista Swann devant les exclamations des convives
un brin ébahis, leur portrait authentique, dans la collection
du duc de Guermantes. » Une collection qui n'a pas son
égale au monde, proclame-t-il, et que je devrais aller voir,
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une collection héritée par le célèbre duc, qui était son neveu
préféré, de Mme de Beausergent sa tante, de Mme de
Beausergent depuis Mme d'Hayfeld, la sœur de la marquise
de Villeparisis et de la princesse de Hanovre. Mon frère et
moi nous l'avons tant aimé autrefois sous les traits du
charmant bambin appelé Basin, qui est bien en effet le
prénom du duc. Là-dessus, le docteur Cottard, avec une
finesse qui décèle chez lui l'homme tout à fait distingué,
ressaute à l'histoire des perles et nous apprend que des
catastrophes de ce genre produisent dans le cerveau des gens
des altérations tout à fait pareilles à celles qu'on remarque
dans la matière inanimée et cite d'une façon vraiment plus
philosophique que ne feraient bien des médecins le propre
valet de chambre de Mme Verdurin qui, dans l'épouvante de
cet incendie où il avait failli périr, était devenu un autre
homme, ayant une écriture tellement changée qu'à la
première lettre que ses maîtres, alors en Normandie, reçurent
de lui leur annonçant l'événement, ils crurent à la
mystification d'un farceur. Et pas seulement une autre
écriture, selon Cottard, qui prétend que de sobre cet homme
était devenu si abominablement pochard que Mme Verdurin
avait été obligée de le renvoyer. Et la suggestive dissertation
passa, sur un signe gracieux de la maîtresse de maison, de la
salle à manger au fumoir vénitien dans lequel Cottard me dit
avoir assisté à de véritables dédoublements de la
personnalité, nous citant le cas d'un de ses malades, qu'il
s'offre aimablement à m'amener chez moi et à qui il suffisait
qu'il touchât les tempes pour l'éveiller à une seconde vie, vie
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pendant laquelle il ne se rappelait rien de la première, si bien
que, très honnête homme dans celle-là, il y aurait été
plusieurs fois arrêté pour des vols commis dans l'autre où il
serait tout simplement un abominable gredin. Sur quoi Mme
Verdurin remarque finement que la médecine pourrait
fournir des sujets plus vrais à un théâtre où la cocasserie de
l'imbroglio reposerait sur des méprises pathologiques, ce qui,
de fil en aiguille, amène Mme Cottard à narrer qu'une
donnée toute semblable a été mise en œuvre par un amateur
qui est le favori des soirées de ses enfants, l'Écossais
Stevenson, un nom qui met dans la bouche de Swann cette
affirmation péremptoire : « Mais c'est tout à fait un grand
écrivain, Stevenson, je vous assure, M. de Goncourt, un très
grand, l'égal des plus grands. » Et comme, sur mon
émerveillement des plafonds à caissons écussonnés
provenant de l'ancien palazzo Barberini, de la salle où nous
fumons, je laisse percer mon regret du noircissement
progressif d'une certaine vasque par la cendre de nos «
londrès », Swann, ayant raconté que des taches pareilles
attestent sur les livres ayant appartenu à Napoléon Ier, livres
possédés, malgré ses opinions antibonapartistes, par le duc
de Guermantes, que l'empereur chiquait, Cottard, qui se
révèle un curieux vraiment pénétrant en toutes choses,
déclare que ces taches ne viennent pas du tout de cela – mais
là, pas du tout, insiste-t-il avec autorité – mais de l'habitude
qu'il avait d'avoir toujours dans la main, même sur les
champs de bataille, des pastilles de réglisse, pour calmer ses
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douleurs de foie. « Car il avait une maladie de foie et c'est de
cela qu'il est mort, conclut le docteur. »
Je m'arrêtai là, car je partais le lendemain et, d'ailleurs,
c'était l'heure où me réclamait l'autre maître au service de qui
nous sommes chaque jour, pour une moitié de notre temps.
La tâche à laquelle il nous astreint, nous l'accomplissons les
yeux fermés. Tous les matins il nous rend à notre autre
maître, sachant que sans cela nous nous livrerions mal à la
sienne. Curieux, quand notre esprit a rouvert ses yeux, de
savoir ce que nous avons bien pu faire chez le maître qui
étend ses esclaves avant de les mettre à une besogne
précipitée, les plus malins, à peine la tâche finie, tâchent de
subrepticement regarder. Mais le sommeil lutte avec eux de
vitesse pour faire disparaître les traces de ce qu'ils voudraient
voir. Et depuis tant de siècles, nous ne savons pas
grand'chose là-dessus. – Je fermai donc le journal des
Goncourt. Prestige de la littérature ! J'aurais voulu revoir les
Cottard, leur demander tant de détails sur Elstir, aller voir la
boutique du Petit Dunkerque si elle existait encore,
demander la permission de visiter cet hôtel des Verdurin où
j'avais dîné. Mais j'éprouvais un vague trouble. Certes, je ne
m'étais jamais dissimulé que je ne savais pas écouter ni, dès
que je n'étais plus seul, regarder ; une vieille femme ne
montrait à mes yeux aucune espèce de collier de perles et ce
qu'on en disait n'entrait pas dans mes oreilles. Tout de
même, ces êtres-là, je les avais connus dans la vie
quotidienne, j'avais souvent dîné avec eux, c'étaient les
Verdurin, c'était le duc de Guermantes, c'étaient les Cottard,
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chacun d'eux m'avait paru aussi commun qu'à ma
grand'mère ce Basin dont elle ne se doutait guère qu'il était le
neveu chéri, le jeune héros délicieux, de Mme de
Beausergent, chacun d'eux m'avait semblé insipide ; je me
rappelais les vulgarités sans nombre dont chacun était
composé... « Et que tout cela fît un astre dans la nuit ! ! ! »
Je résolus de laisser provisoirement de côté les objections
qu'avaient pu faire naître en moi contre la littérature ces
pages des Goncourt. Même en mettant de côté l'indice
individuel de naïveté qui est frappant chez le mémorialiste, je
pouvais d'ailleurs me rassurer à divers points de vue.
D'abord, en ce qui me concernait personnellement, mon
incapacité de regarder et d'écouter, que le journal cité avait si
péniblement illustrée pour moi, n'était pourtant pas totale. Il
y avait en moi un personnage qui savait plus ou moins bien
regarder, mais c'était un personnage intermittent, ne
reprenant vie que quand se manifestait quelque essence
générale, commune à plusieurs choses, qui faisait sa
nourriture et sa joie. Alors le personnage regardait et
écoutait, mais à une certaine profondeur seulement, de sorte
que l'observation n'en profitait pas. Comme un géomètre
qui, dépouillant les choses de leurs qualités sensibles, ne voit
que leur substratum linéaire, ce que racontaient les gens
m'échappait, car ce qui m'intéressait, c'était non ce qu'ils
voulaient dire, mais la manière dont ils le disaient, en tant
qu'elle était révélatrice de leur caractère ou de leurs ridicules ;
ou plutôt c'était un objet qui avait toujours été plus
particulièrement le but de ma recherche parce qu'il me
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donnait un plaisir spécifique, le point qui était commun à un
être et à un autre. Ce n'était que quand je l'apercevais que
mon esprit – jusque-là sommeillant, même derrière l'activité
apparente de ma conversation, dont l'animation masquait
pour les autres un total engourdissement spirituel – se
mettait tout à coup joyeusement en chasse, mais ce qu'il
poursuivait alors – par exemple l'identité du salon Verdurin
dans divers lieux et divers temps – était situé à miprofondeur, au delà de l'apparence elle-même, dans une zone
un peu plus en retrait. Aussi le charme apparent, copiable,
des êtres m'échappait parce que je n'avais plus la faculté de
m'arrêter à lui, comme le chirurgien qui, sous le poli d'un
ventre de femme, verrait le mal interne qui le ronge. J'avais
beau dîner en ville, je ne voyais pas les convives, parce que
quand je croyais les regarder je les radiographiais. Il en
résultait qu'en réunissant toutes les remarques que j'avais pu
faire dans un dîner sur les convives, le dessin des lignes
tracées par moi figurait un ensemble de lois psychologiques
où l'intérêt propre qu'avait eu dans ses discours le convive ne
tenait presque aucune place. Mais cela enlevait-il tout mérite
à mes portraits puisque je ne les donnais pas pour tels ? Si
l'un de ces portraits, dans le domaine de la peinture, met en
évidence certaines vérités relatives au volume, à la lumière,
au mouvement, cela fait-il qu'il soit nécessairement inférieur
à tel portrait ne lui ressemblant aucunement de la même
personne, dans lequel mille détails qui sont omis dans le
premier seront minutieusement relatés, deuxième portrait
d'où l'on pourra conclure que le modèle était ravissant tandis
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qu'on l'eût cru laid dans le premier, ce qui peut avoir une
importance documentaire et même historique, mais n'est pas
nécessairement une vérité d'art. Puis ma frivolité, dès que je
n'étais pas seul, me faisait désirer de plaire, plus désireux
d'amuser en bavardant que de m'instruire en écoutant, à
moins que je ne fusse allé dans le monde pour interroger sur
quelque point d'art, ou quelque soupçon jaloux qui m'avait
occupé l'esprit avant ! Mais j'étais incapable de voir ce dont
le désir n'avait pas été éveillé en moi par quelque lecture, ce
dont je n'avais pas d'avance désiré moi-même le croquis que
je désirais ensuite confronter avec la réalité. Que de fois, je le
savais bien, même si cette page de Goncourt ne me l'eût pas
appris, je suis resté incapable d'accorder mon attention à des
choses ou à des gens qu'ensuite, une fois que leur image
m'avait été présentée dans la solitude par un artiste, j'aurais
fait des lieues, risqué la mort pour retrouver. Alors mon
imagination était partie, avait commencé à peindre. Et ce
devant quoi j'avais bâillé l'année d'avant, je me disais avec
angoisse, le contemplant d'avance, le désirant : « Sera-t-il
vraiment impossible de le voir ? Que ne donnerais-je pas
pour cela ! » Quand on lit des articles sur des gens, même
simplement des gens du monde, qualifiés de « derniers
représentants d'une société dont il n'existe plus aucun
témoin », sans doute on peut s'écrier : « Dire que c'est d'un
être si insignifiant qu'on parle avec tant d'abondance et
d'éloges ! c'est cela que j'aurais déploré de ne pas avoir connu
si je n'avais fait que lire les journaux et les revues, et si je
n'avais pas vu « l'homme », mais j'étais plutôt tenté en lisant
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de telles pages dans les journaux de penser : « Quel malheur
– alors que j'étais seulement préoccupé de retrouver Gilberte
ou Albertine – que je n'aie pas fait plus attention à ce
monsieur, je l'avais pris pour un raseur du monde, pour un
simple figurant, c'était une figure ! » Cette disposition-là, les
pages de Goncourt que je lus me la firent regretter. Car peutêtre j'aurais pu conclure d'elles que la vie apprend à rabaisser
le prix de la lecture, et nous montre que ce que l'écrivain
nous vante ne valait pas grand'chose ; mais je pouvais tout
aussi bien en conclure que la lecture, au contraire, nous
apprend à relever la valeur de la vie, valeur que nous n'avons
pas su apprécier et dont nous nous rendons compte
seulement par le livre combien elle était grande. À la rigueur,
nous pouvons nous consoler de nous être peu plu dans la
société d'un Vinteuil, d'un Bergotte, puisque le
bourgeoisisme pudibond de l'un, les défauts insupportables
de l'autre ne prouvent rien contre eux, puisque leur génie est
manifesté par leurs œuvres ; de même la prétentieuse
vulgarité d'un Elstir à ses débuts. Ainsi le journal des
Goncourt m'avait fait découvrir qu'Elstir n'était autre que le
« Monsieur Tiche » qui avait tenu jadis de si exaspérants
discours à Swann, chez les Verdurin. Mais quel est l'homme
de génie qui n'a pas adopté les irritantes façons de parler des
artistes de sa bande, avant d'arriver (comme c'était venu pour
Elstir et comme cela arrive rarement) à un bon goût
supérieur. Les lettres de Balzac, par exemple, ne sont-elles
pas semées de termes vulgaires que Swann eût souffert mille
morts d'employer ? Et cependant il est probable que Swann,
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si fin, si purgé de tout ridicule haïssable, eût été incapable
d'écrire la Cousine Bette et le Curé de Tours. Que ce soit
donc les Mémoires qui aient tort de donner du charme à leur
société alors qu'elle nous a déplu est un problème de peu
d'importance, puisque, même si c'est l'écrivain de Mémoires
qui se trompe, cela ne prouve rien contre la valeur de la vie
qui produit de tels génies et qui n'existait pas moins dans les
œuvres de Vinteuil, d'Elstir et de Bergotte.
Tout à l'autre extrémité de l'expérience, quand je voyais
que les plus curieuses anecdotes, qui font la matière
inépuisable, divertissement des soirées solitaires pour le
lecteur, du journal des Goncourt, lui avaient été contées par
ces convives que nous eussions à travers ces pages envié de
connaître et qui ne m'avaient pas laissé à moi trace d'un
souvenir intéressant, cela n'était pas trop inexplicable encore.
Malgré la naïveté de Goncourt, qui concluait de l'intérêt de
ces anecdotes à la distinction probable de l'homme qui les
contait, il pouvait très bien se faire que des hommes
médiocres eussent eu dans leur vie, ou entendu raconter, des
choses curieuses et les contassent à leur tour. Goncourt
savait écouter, comme il savait voir ; je ne le savais pas.
D'ailleurs, tous ces faits auraient eu besoin d'être jugés un à
un M. de Guermantes ne m'avait certes pas donné
l'impression de cet adorable modèle des grâces juvéniles que
ma grand'mère eût tant voulu connaître et me proposait
comme modèle inimitable d'après les Mémoires de Mme de
Beausergent. Mais il faut songer que Basin avait alors sept
ans, que l'écrivain était sa tante, et que même les maris qui
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doivent divorcer quelques mois après vous font un grand
éloge de leur femme. Une des plus jolies poésies de SainteBeuve est consacrée à l'apparition devant une fontaine d'une
jeune enfant couronnée de tous les dons et de toutes les
grâces, la jeune Mlle de Champlâtreux, qui ne devait pas
avoir alors dix ans. Malgré toute la tendre vénération que le
poète de génie qu'est la comtesse de Noailles portait à sa
belle-mère, la duchesse de Noailles, née Champlâtreux, il est
possible, si elle avait eu à en faire le portrait, que celui-ci eût
contrasté assez vivement avec celui que Sainte-Beuve en
traçait cinquante ans plus tôt.
Ce qui eût peut-être été plus troublant, c'était l'entre-deux,
c'étaient ces gens desquels ce qu'on dit implique, chez eux,
plus que la mémoire qui a su retenir une anecdote curieuse,
sans que pourtant on ait, comme pour les Vinteuil, les
Bergotte, le recours de les juger sur leur œuvre ; ils n'en ont
pas créé, ils en ont seulement – à notre grand étonnement à
nous qui les trouvions si médiocres – inspiré. Passe encore
que le salon qui, dans les musées, donnera la plus grande
impression d'élégance, depuis les grandes peintures de la
Renaissance, soit celui de la petite bourgeoise ridicule que
j'eusse, si je ne l'avais pas connue, rêvé devant le tableau de
pouvoir approcher dans la réalité, espérant apprendre d'elle
les secrets les plus précieux que l'art du peintre, que sa toile
ne me donnaient pas et de qui la pompeuse traîne de velours
et de dentelles est un morceau de peinture comparable aux
plus beaux du Titien. Si j'avais compris jadis que ce n'est pas
le plus spirituel, le plus instruit, le mieux relationné des
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hommes, mais celui qui sait devenir miroir et peut refléter
ainsi sa vie, fût-elle médiocre, qui devient un Bergotte (les
contemporains le tinssent-ils pour moins homme d'esprit
que Swann et moins savant que Brichot), on peut souvent à
plus forte raison en dire autant des modèles de l'artiste. Dans
l'éveil de l'amour de la beauté, chez l'artiste, qui peut tout
peindre, de l'élégance où il pourra trouver de si beaux motifs,
le modèle lui sera fourni par des gens un peu plus riches que
lui, chez qui il trouvera ce qu'il n'a pas d'habitude dans son
atelier d'homme de génie méconnu qui vend ses toiles
cinquante francs, un salon avec des meubles recouverts de
vieille soie, beaucoup de lampes, de belles fleurs, de beaux
fruits, de belles robes – gens modestes relativement, ou qui
le paraîtraient à des gens vraiment brillants (qui ne
connaissent même pas leur existence), mais qui, à cause de
cela, sont plus à portée de connaître l'artiste obscur, de
l'apprécier, de l'inviter, de lui acheter ses toiles, que les gens
de l'aristocratie qui se font peindre, comme le Pape et les
chefs d'État, par les peintres académiciens. La poésie d'un
élégant foyer et des belles toilettes de notre temps ne se
trouvera-t-elle pas plutôt, pour la postérité, dans le salon de
l'éditeur Charpentier par Renoir que dans le portrait de la
princesse de Sagan ou de la comtesse de la Rochefoucauld
par Cotte ou Chaplin ? Les artistes qui nous ont donné les
plus grandes visions d'élégance en ont recueilli les éléments
chez des gens qui étaient rarement les grands élégants de leur
époque, lesquels se font rarement peindre par l'inconnu
porteur d'une beauté qu'ils ne peuvent pas distinguer sur ses
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toiles, dissimulée qu'elle est par l'interposition d'un poncif de
grâce surannée qui flotte dans l'œil du public comme ces
visions subjectives que le malade croit effectivement posées
devant lui. Mais que ces modèles médiocres que j'avais
connus eussent en outre inspiré, conseillé certains
arrangements qui m'avaient enchanté, que la présence de tel
d'entre eux dans les tableaux fût plus que celle d'un modèle,
mais d'un ami qu'on veut faire figurer dans ses toiles, c'était à
se demander si tous les gens que nous regrettons de ne pas
avoir connus parce que Balzac les peignait dans ses livres ou
les leur dédiait en hommage d'admiration, sur lesquels
Sainte-Beuve ou Baudelaire firent leurs plus jolis vers, si, à
plus forte raison, toutes les Récamier, toutes les Pompadour
ne m'eussent pas paru d'insignifiantes personnes, soit par
une infirmité de ma nature, ce qui me faisait alors enrager
d'être malade et de ne pouvoir retourner voir tous les gens
que j'avais méconnus, soit qu'elles ne dussent leur prestige
qu'à une magie illusoire de la littérature, ce qui forçait à
changer de dictionnaire pour lire et me consolait de devoir
d'un jour à l'autre, à cause des progrès que faisait mon état
maladif, rompre avec la société, renoncer au voyage, aux
musées, pour aller me soigner dans une maison de santé.
Peut-être, pourtant, ce côté mensonger, ce faux-jour n'existet-il dans les Mémoires que quand ils sont trop récents, trop
près des réputations, qui plus tard s'anéantiront si vite, aussi
bien intellectuelles que mondaines. (Et si l'érudition essaye
alors de réagir contre cet ensevelissement, parvient-elle à
détruire un sur mille de ces oublis qui vont s'entassant ?)
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Ces idées, tendant, les unes à diminuer, les autres à
accroître mon regret de ne pas avoir de dons pour la
littérature, ne se présentèrent plus à ma pensée pendant les
longues années que je passai à me soigner, loin de Paris, dans
une maison de santé où, d'ailleurs, j'avais tout à fait renoncé
au projet d'écrire, jusqu'à ce que celle-ci ne pût plus trouver
de personnel médical, au commencement de 1916. Je rentrai
alors dans un Paris bien différent de celui où j'étais déjà
revenu une première fois, comme on le verra tout à l'heure,
en août 1914, pour subir une visite médicale, après quoi
j'avais rejoint ma maison de santé.
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Chapitre II
M. de Charlus pendant la guerre ; ses opinions, ses plaisirs
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Un des premiers soirs dès mon nouveau retour à Paris en
1916, ayant envie d'entendre parler de la seule chose qui
m'intéressait alors, la guerre, je sortis, après le dîner, pour
aller voir Mme Verdurin, car elle était, avec Mme Bontemps,
une des reines de ce Paris de la guerre qui faisait penser au
Directoire. Comme par l'ensemencement d'une petite
quantité de levure, en apparence de génération spontanée,
des jeunes femmes allaient tout le jour coiffées de hauts
turbans cylindriques comme aurait pu l'être une
contemporaine de Mme Tallien. Par civisme, ayant des
tuniques égyptiennes droites, sombres, très « guerre », sur
des jupes très courtes, elles chaussaient des lanières rappelant
le cothurne selon Talma, ou de hautes guêtres rappelant
celles de nos chers combattants ; c'est, disaient-elles, parce
qu'elles n'oubliaient pas qu'elles devaient réjouir les yeux de
ces combattants qu'elles se paraient encore, non seulement
de toilettes « floues », mais encore de bijoux évoquant les
armées par leur thème décoratif, si même leur matière ne
venait pas des armées, n'avait pas été travaillée aux armées ;
au lieu d'ornements égyptiens rappelant la campagne
d'Égypte, c'étaient des bagues ou des bracelets faits avec des
fragments d'obus ou des ceintures de 75, des allumecigarettes composés de deux sous anglais, auxquels un
militaire était arrivé à donner, dans sa cagna, une patine si
belle que le profil de la reine Victoria y avait l'air tracé par
Pisanello ; c'est encore parce qu'elles y pensaient sans cesse,
disaient-elles, qu'elles portaient à peine le deuil quand l'un
des leurs tombait, sous le prétexte qu'il était « mêlé de fierté
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», ce qui permettait un bonnet de crêpe anglais blanc (du
plus gracieux effet et autorisant tous les espoirs), dans
l'invincible certitude du triomphe définitif, et permettait ainsi
de remplacer le cachemire d'autrefois par le satin et la
mousseline de soie, et même de garder ses perles, « tout en
observant le tact et la correction qu'il est inutile de rappeler à
des Françaises ».
Le Louvre, tous les musées étaient fermés, et quand on
lisait en tête d'un article de journal : « Une exposition
sensationnelle », on pouvait être sûr qu'il s'agissait d'une
exposition non de tableaux, mais de robes, de robes
destinées, d'ailleurs, à éveiller « ces délicates joies d'art dont
les Parisiennes étaient depuis trop longtemps sevrées ». C'est
ainsi que l'élégance et le plaisir avaient repris ; l'élégance, à
défaut des arts, cherchait à s'excuser comme ceux-ci en 1793,
année où les artistes exposant au Salon révolutionnaire
proclamaient que ce serait à tort qu'il paraîtrait « étrange à
d'austères républicains que nous nous occupions des arts
quand l'Europe coalisée assiège le territoire de la liberté ».
Ainsi faisaient en 1916 les couturiers qui, d'ailleurs, avec une
orgueilleuse conscience d'artistes, avouaient que « chercher
du nouveau, s'écarter de la banalité, préparer la victoire,
dégager pour les générations d'après la guerre une formule
nouvelle du beau, telle était l'ambition qui les tourmentait, la
chimère qu'ils poursuivaient, ainsi qu'on pouvait s'en rendre
compte en venant visiter leurs salons délicieusement installés
rue de la..., où effacer par une note lumineuse et gaie les
lourdes tristesses de l'heure semble être le mot d'ordre, avec
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la discrétion toutefois qu'imposent les circonstances. Les
tristesses de l'heure, il est vrai, pourraient avoir raison des
énergies féminines si nous n'avions tant de hauts exemples
de courage et d'endurance à méditer. Aussi en pensant à nos
combattants qui au fond de leur tranchée rêvent de plus de
confort et de coquetterie pour la chère absente laissée au
foyer, ne cesserons-nous pas d'apporter toujours plus de
recherche dans la création de robes répondant aux nécessités
du moment. La vogue, cela se conçoit, est surtout aux
maisons anglaises, donc alliées, et on raffole cette année de la
robe-tonneau dont le joli abandon nous donne à toutes un
amusant petit cachet de rare distinction. Ce sera même une
des plus heureuses conséquences de cette triste guerre,
ajoutait le charmant chroniqueur (en attendant la reprise des
provinces perdues, le réveil du sentiment national), ce sera
même une des plus heureuses conséquences de cette guerre
que d'avoir obtenu de jolis résultats en fait de toilette, sans
luxe inconsidéré et de mauvais aloi, avec très peu de chose,
d'avoir créé de la coquetterie avec des riens. À la robe du
grand couturier éditée à plusieurs exemplaires on préfère en
ce moment les robes faites chez soi, parce qu'affirmant
l'esprit, le goût et les tendances indiscutables de chacun. »
Quant à la charité, en pensant à toutes les misères nées de
l'invasion, à tant de mutilés, il était bien naturel qu'elle fût
obligée de se faire « plus ingénieuse encore », ce qui obligeait
les dames à hauts turbans à passer la fin de l'après-midi dans
les thés autour d'une table de bridge, en commentant les
nouvelles du « front », tandis qu'à la porte les attendaient
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leurs automobiles ayant sur le siège un beau militaire qui
bavardait avec le chasseur. Ce n'était pas, du reste, seulement
les coiffures surmontant les visages de leur étrange cylindre
qui étaient nouvelles. Les visages l'étaient aussi. Les dames à
nouveaux chapeaux étaient des jeunes femmes venues on ne
savait trop d'où et qui étaient la fleur de l'élégance, les unes
depuis six mois, les autres depuis deux ans, les autres depuis
quatre. Ces différences avaient, d'ailleurs, pour elles autant
d'importance qu'au temps où j'avais débuté dans le monde
en avaient entre deux familles comme les Guermantes et les
La Rochefoucauld trois ou quatre siècles d'ancienneté
prouvée. La dame qui connaissait les Guermantes depuis
1914 regardait comme une parvenue celle qu'on présentait
chez eux en 1916, lui faisait un bonjour de douairière, la
dévisageait de son face-à-main et avouait dans une moue
qu'on ne savait même pas au juste si cette dame était ou non
mariée. « Tout cela est assez nauséabond », concluait la dame
de 1914, qui eût voulu que le cycle des nouvelles admissions
s'arrêtât après elle. Ces personnes nouvelles, que les jeunes
gens trouvaient fort anciennes, et que d'ailleurs certains
vieillards qui n'avaient pas été que dans le grand monde
croyaient bien reconnaître pour ne pas être si nouvelles que
cela, n'offraient pas seulement à la société les divertissements
de conversation politique et de musique dans l'intimité qui
lui convenaient ; il fallait encore que ce fussent elles qui les
offrissent, car pour que les choses paraissent nouvelles,
même si elles sont anciennes, et même si elles sont
nouvelles, il faut en art, comme en médecine, comme en
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mondanité, des noms nouveaux (ils étaient d'ailleurs
nouveaux en certaines choses). Ainsi Mme Verdurin était
allée à Venise pendant la guerre, mais comme ces gens qui
veulent éviter de parler chagrin et sentiment, quand elle
disait que c'était épatant, ce qu'elle admirait ce n'était ni
Venise, ni Saint-Marc, ni les palais, tout ce qui m'avait tant
plu et dont elle faisait bon marché, mais l'effet des
projecteurs dans le ciel, des projecteurs sur lesquels elle
donnait des renseignements appuyés de chiffres. (Ainsi d'âge
en âge renaît un certain réalisme en réaction contre l'art
admiré jusque-là.) Le salon Sainte-Euverte était une étiquette
défraîchie, sous laquelle la présence des plus grands artistes,
des ministres les plus influents, n'eût attiré personne. On
courait, au contraire, pour écouter un mot prononcé par le
secrétaire des uns ou le sous-chef de cabinet des autres, chez
les nouvelles dames à turban, dont l'invasion ailée et
jacassante emplissait Paris. Les dames du Premier Directoire
avaient une reine qui était jeune et belle et s'appelait Madame
Tallien. Celles du second en avaient deux qui étaient vieilles
et laides et qui s'appelaient Mme Verdurin et Mme
Bontemps. Qui eût pu tenir rigueur à Mme Bontemps que
son mari eût joué un rôle, âprement critiqué par l'Écho de
Paris, dans l'affaire Dreyfus ? Toute la Chambre étant à un
certain moment devenue révisionniste, c'était forcément
parmi d'anciens révisionnistes, comme parmi d'anciens
socialistes, qu'on avait été obligé de recruter le parti de
l'Ordre social, de la Tolérance religieuse, de la Préparation
militaire. On aurait détesté autrefois M. Bontemps parce que
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les antipatriotes avaient alors le nom de dreyfusards. Mais
bientôt ce nom avait été oublié et remplacé par celui
d'adversaire de la loi de trois ans. M. Bontemps était, au
contraire, un des auteurs de cette loi, c'était donc un patriote.
Dans le monde (et ce phénomène social n'est, d'ailleurs,
qu'une application d'une loi psychologique bien plus
générale), les nouveautés coupables ou non n'excitent
l'horreur que tant qu'elles ne sont pas assimilées et entourées
d'éléments rassurants. Il en était du dreyfusisme comme du
mariage de Saint-Loup avec la fille d'Odette, mariage qui
avait d'abord fait crier. Maintenant qu'on voyait chez les
Saint-Loup tous les gens « qu'on connaissait », Gilberte
aurait pu avoir les mœurs d'Odette elle-même que, malgré
cela, on y serait « allé » et qu'on eût approuvé Gilberte de
blâmer comme une douairière des nouveautés morales non
assimilées. Le dreyfusisme était maintenant intégré dans une
série de choses respectables et habituelles. Quant à se
demander ce qu'il valait en soi, personne n'y songeait, pas
plus pour l'admettre maintenant qu'autrefois pour le
condamner. Il n'était plus « shocking ». C'était tout ce qu'il
fallait. À peine se rappelait-on qu'il l'avait été, comme on ne
sait plus au bout de quelque temps si le père d'une jeune fille
fut un voleur ou non. Au besoin, on peut dire : « Non, c'est
du beau-frère, ou d'un homonyme que vous parlez, mais
contre celui-là il n'y a jamais eu rien à dire. » De même il y
avait certainement eu dreyfusisme et dreyfusisme, et celui qui
allait chez la duchesse de Montmorency et faisait passer la loi
de trois ans ne pouvait être mauvais. En tout cas, à tout
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péché miséricorde. Cet oubli qui était octroyé au dreyfusisme
l'était a fortiori aux dreyfusards. Il n'y avait plus qu'eux, du
reste, dans la politique, puisque tous à un moment l'avaient
été s'il voulaient être du Gouvernement, même ceux qui
représentaient le contraire de ce que le dreyfusisme, dans sa
choquante nouveauté, avait incarné (au temps où Saint-Loup
était sur une mauvaise pente) : l'antipatriotisme, l'irréligion,
l'anarchie, etc. Ainsi le dreyfusisme de M. Bontemps,
invisible et contemplatif comme celui de tous les hommes
politiques, ne se voyait pas plus que les os sous la peau.
Personne ne se fût rappelé qu'il avait été dreyfusard, car les
gens du monde sont distraits et oublieux, parce qu'aussi il y
avait de cela un temps fort long, et qu'ils affectaient de croire
plus long, car c'était une des idées les plus à la mode de dire
que l'avant-guerre était séparé de la guerre par quelque chose
d'aussi profond, simulant autant de durée qu'une période
géologique, et Brichot lui-même, ce nationaliste, quand il
faisait allusion à l'affaire Dreyfus disait : « Dans ces temps
préhistoriques ». À vrai dire, ce changement profond opéré
par la guerre était en raison inverse de la valeur des esprits
touchés, du moins à partir d'un certain degré, car, tout en
bas, les purs sots, les purs gens de plaisir ne s'occupaient pas
qu'il y eût la guerre. Mais tout en haut, ceux qui se sont fait
une vie intérieure ambiante ont peu d'égard à l'importance
des événements. Ce qui modifie profondément pour eux
l'ordre des pensées, c'est bien plutôt quelque chose qui
semble en soi n'avoir aucune importance et qui renverse
pour eux l'ordre du temps en les faisant contemporains d'un
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autre temps de leur vie. Un chant d'oiseau dans le parc de
Montboissier, ou une brise chargée de l'odeur de réséda, sont
évidemment des événements de moindre conséquence que
les plus grandes dates de la Révolution et de l'Empire. Ils ont
cependant inspiré à Chateaubriand, dans les Mémoires
d'Outre-tombe, des pages d'une valeur infiniment plus
grande.
M. Bontemps ne voulait pas entendre parler de paix avant
que l'Allemagne eût été réduite au même morcellement qu'au
moyen âge, la déchéance de la maison de Hohenzollern
prononcée, Guillaume ayant reçu douze balles dans la peau.
En un mot, il était ce que Brichot appelait un «
Jusquauboutiste », c'était le meilleur brevet de civisme qu'on
pouvait lui donner. Sans doute, les trois premiers jours, Mme
Bontemps avait été un peu dépaysée au milieu des personnes
qui avaient demandé à Mme Verdurin à la connaître, et ce
fut d'un ton légèrement aigre que Mme Verdurin répondit : «
Le comte, ma chère », à Mme Bontemps qui lui disait : «
C'est bien le duc d'Haussonville que vous venez de me
présenter », soit par entière ignorance et absence de toute
association entre le nom Haussonville et un titre quelconque,
soit, au contraire, par excessive instruction et association
d'idées avec le « Parti des Ducs », dont on lui avait dit que M.
d'Haussonville était un des membres à l'Académie. À partir
du quatrième jour elle avait commencé d'être solidement
installée dans le faubourg Saint-Germain. Quelquefois
encore on voyait autour d'elle les fragments inconnus d'un
monde qu'on ne connaissait pas et qui n'étonnaient pas plus
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que des débris de coquille autour du poussin, ceux qui
savaient l'œuf d'où Mme Bontemps était sortie. Mais dès le
quinzième jour, elle les avait secoués, et avant la fin du
premier mois, quand elle disait : « Je vais chez les Lévi », tout
le monde comprenait, sans qu'elle eût besoin de préciser,
qu'il s'agissait des Lévis-Mirepoix, et pas une duchesse ne se
serait couchée sans avoir appris de Mme Bontemps ou de
Mme Verdurin, au moins par téléphone, ce qu'il y avait dans
le communiqué du soir, ce qu'on y avait omis, où on en était
avec la Grèce, quelle offensive on préparait, en un mot tout
ce que le public ne saurait que le lendemain ou plus tard, et
dont on avait ainsi comme une sorte de répétition des
couturières. Dans la conversation, Mme Verdurin, pour
communiquer les nouvelles, disait : « nous » en parlant de la
France. « Hé bien, voici : nous exigeons du roi de Grèce qu'il
se retire du Péloponèse, etc. ; nous lui envoyons, etc. » Et
dans tous ses récits revenait tout le temps le G.Q.G. (j'ai
téléphoné au G.Q.G.), abréviation qu'elle avait à prononcer
le même plaisir qu'avaient naguère les femmes qui ne
connaissaient pas le prince d'Agrigente à demander en
souriant, quand on parlait de lui et pour montrer qu'elles
étaient au courant : « Grigri ? », un plaisir qui dans les
époques peu troublées n'est connu que par les mondains,
mais que dans ces grandes crises le peuple même connaît.
Notre maître d'hôtel, par exemple, si on parlait du roi de
Grèce, était capable, grâce aux journaux, de dire comme
Guillaume II : « Tino », tandis que jusque-là sa familiarité
avec les rois était restée plus vulgaire, ayant été inventée par
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lui, comme quand jadis, pour parler du Roi d'Espagne, il
disait : « Fonfonse ». On peut remarquer, d'ailleurs, qu'au fur
et à mesure qu'augmenta le nombre des gens brillants qui
firent des avances à Mme Verdurin, le nombre de ceux
qu'elle appelait les « ennuyeux » diminua. Par une sorte de
transformation magique, tout ennuyeux qui était venu lui
faire une visite et avait sollicité une invitation devenait
subitement quelqu'un d'agréable, d'intelligent. Bref, au bout
d'un an le nombre des ennuyeux était réduit dans une
proportion tellement forte, que la « peur et l'impossibilité de
s'ennuyer », qui avait tenu une si grande place dans la
conversation et joué un si grand rôle dans la vie de Mme
Verdurin, avait presque entièrement disparu. On eût dit que
sur le tard cette impossibilité de s'ennuyer (qu'autrefois,
d'ailleurs, elle assurait ne pas avoir éprouvée dans sa prime
jeunesse) la faisait moins souffrir, comme certaines
migraines, certains asthmes nerveux qui perdent de leur
force quand on vieillit. Et l'effroi de s'ennuyer eût sans doute
entièrement abandonné Mme Verdurin, faute d'ennuyeux, si
elle n'avait, dans une faible mesure, remplacé ceux qui ne
l'étaient plus par d'autres recrutés parmi les anciens fidèles.
Du reste, pour en finir avec les duchesses qui fréquentaient
maintenant chez Mme Verdurin, elles venaient y chercher,
sans qu'elles s'en doutassent, exactement la même chose que
les dreyfusards autrefois, c'est-à-dire un plaisir mondain
composé de telle manière que sa dégustation assouvît les
curiosités politiques et rassasiât le besoin de commenter
entre soi les incidents lus dans les journaux. Mme Verdurin
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disait : « Vous viendrez à 5 heures parler de la guerre »,
comme autrefois « parler de l'affaire », et dans l'intervalle : «
Vous viendrez entendre Morel ». Or Morel n'aurait pas dû
être là, pour la raison qu'il n'était nullement réformé.
Simplement il n'avait pas rejoint et était déserteur, mais
personne ne le savait. Une autre étoile du salon était « dans
les choux », qui malgré ses goûts sportifs s'était fait réformer.
Il était devenu tellement pour moi l'auteur d'une œuvre
admirable à laquelle je pensais constamment que ce n'est que
par hasard, quand j'établissais un courant transversal entre
deux séries de souvenirs, que je songeais qu'il était celui qui
avait amené le départ d'Albertine de chez moi. Et encore ce
courant transversal aboutissait, en ce qui concernait ces
reliques de souvenirs d'Albertine, à une voie s'arrêtant en
pleine friche à plusieurs années de distance. Car je ne pensais
plus jamais à elle. C'était une voie non fréquentée de
souvenirs, une ligne que je n'empruntais plus. Tandis que les
œuvres de « dans les choux » étaient récentes et cette ligne de
souvenirs perpétuellement fréquentée et utilisée par mon
esprit.
Je dois, du reste, dire que la connaissance du mari
d'Andrée n'était ni très facile ni très agréable à faire, et que
l'amitié qu'on lui vouait était promise à bien des déceptions.
Il était, en effet, à ce moment déjà fort malade et s'épargnait
les fatigues autres que celles qui lui paraissaient devoir peutêtre lui donner du plaisir. Or il ne classait parmi celles-là que
les rendez-vous avec des gens qu'il ne connaissait pas encore
et que son ardente imagination lui représentait sans doute
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comme ayant une chance d'être différents des autres. Mais
pour ceux qu'il connaissait déjà, il savait trop bien comment
ils étaient, comment ils seraient, ils ne lui paraissaient plus
valoir la peine d'une fatigue dangereuse pour lui et peut-être
mortelle. C'était, en somme, un très mauvais ami. Et peutêtre dans son goût pour des gens nouveaux se retrouvait-il
quelque chose de l'audace frénétique qu'il portait jadis, à
Balbec, aux sports, au jeu, à tous les excès de table. Quant à
Mme Verdurin, elle voulait à chaque fois me faire faire la
connaissance d'Andrée, ne pouvant admettre que je l'eusse
connue depuis longtemps. D'ailleurs Andrée venait rarement
avec son mari, mais elle était pour moi une amie admirable et
sincère. Fidèle à l'esthétique de son mari, qui était en
réaction contre les Ballets russes, elle disait du marquis de
Polignac : « Il a sa maison décorée par Bakst ; comment
peut-on dormir là dedans, j'aimerais mieux Dubufe. »
D'ailleurs les Verdurin, par le progrès fatal de l'esthétisme,
qui finit par se manger la queue, disaient ne pas pouvoir
supporter le modern style (de plus c'était munichois) ni les
appartements blancs et n'aimaient plus que les vieux meubles
français dans un décor sombre.
On fut très étonné à cette époque, où Mme Verdurin
pouvait avoir chez elle qui elle voulait, de lui voir faire
indirectement des avances à une personne qu'elle avait
complètement perdue de vue, Odette. On trouvait qu'elle ne
pourrait rien ajouter au brillant milieu qu'était devenu le petit
groupe. Mais une séparation prolongée, en même temps
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qu'elle apaise les rancunes, réveille quelquefois l'amitié. Et
puis le phénomène qui amène non seulement les mourants à
ne prononcer que des noms autrefois familiers, mais les
vieillards à se complaire dans leurs souvenirs d'enfance, ce
phénomène a son équivalent social. Pour réussir dans
l'entreprise de faire revenir Odette chez elle, Mme Verdurin
n'employa pas, bien entendu, les « ultras », mais les habitués
moins fidèles qui avaient gardé un pied dans l'un et l'autre
salon. Elle leur disait : « Je ne sais pas pourquoi on ne la voit
plus ici. Elle est peut-être brouillée, moi pas. En somme,
qu'est-ce que je lui ai fait ? C'est chez moi qu'elle a connu ses
deux maris. Si elle veut revenir, qu'elle sache que les portes
lui sont ouvertes. » Ces paroles, qui auraient dû coûter à la
fierté de la Patronne si elles ne lui avaient pas été dictées par
son imagination, furent redites, mais sans succès. Mme
Verdurin attendit Odette sans la voir venir, jusqu'à ce que
des événements qu'on verra plus loin amenassent pour de
tout autres raisons ce que n'avait pu l'ambassade pourtant
zélée des lâcheurs. Tant il est peu de réussites faciles, et
d'échecs définitifs.
Les choses étaient tellement les mêmes, tout en paraissant
différentes, qu'on retrouvait tout naturellement les mots
d'autrefois : « bien pensants, mal pensants ». Et de même
que les anciens communards avaient été antirévisionnistes,
les plus grands dreyfusards voulaient faire fusiller tout le
monde et avaient l'appui des généraux, comme ceux-ci au
temps de l'affaire avaient été contre Galliffet. À ces réunions,
Mme Verdurin invitait quelques dames un peu récentes,
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connues par les œuvres et qui les premières fois venaient
avec des toilettes éclatantes, de grands colliers de perles
qu'Odette, qui en avait un aussi beau, de l'exhibition duquel
elle-même avait abusé, regardait, maintenant qu'elle était en «
tenue de guerre » à l'imitation des dames du faubourg, avec
sévérité. Mais les femmes savent s'adapter. Au bout de trois
ou quatre fois elles se rendaient compte que les toilettes
qu'elles avaient crues chic étaient précisément proscrites par
les personnes qui l'étaient, elles mettaient de côté leurs robes
d'or et se résignaient à la simplicité.
Mme Verdurin disait : « C'est désolant, je vais téléphoner à
Bontemps de faire le nécessaire pour demain, on a encore «
caviardé » toute la fin de l'article de Norpois et simplement
parce qu'il laissait entendre qu'on avait « limogé » Percin. »
Car la bêtise courante faisait que chacun tirait sa gloire d'user
des expressions courantes, et croyait montrer qu'elle était
ainsi à la mode comme faisait une bourgeoise en disant,
quand on parlait de M. de Bréauté ou de Charlus : « Qui ?
Bebel de Bréauté, Mémé de Charlus ? » Les duchesses font
de même, d'ailleurs, et avaient le même plaisir à dire «
limoger » car, chez les duchesses, c'est, pour les roturiers un
peu poètes, le nom qui diffère, mais elles s'expriment selon la
catégorie d'esprit à laquelle elles appartiennent et où il y a
aussi énormément de bourgeois. Les classes d'esprit n'ont
pas égard à la naissance.
Tous ces téléphonages de Mme Verdurin n'étaient pas,
d'ailleurs, sans inconvénient. Quoique nous ayons oublié de
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le dire, le « salon » Verdurin, s'il continuait en esprit et en
vérité, s'était transporté momentanément dans un des plus
grands hôtels de Paris, le manque de charbon et de lumière
rendant plus difficiles les réceptions des Verdurin dans
l'ancien logis, fort humide, des Ambassadeurs de Venise. Le
nouveau salon ne manquait pas, du reste, d'agrément.
Comme à Venise la place, comptée à cause de l'eau,
commande la forme des palais, comme un bout de jardin
dans Paris ravit plus qu'un parc en province, l'étroite salle à
manger qu'avait Mme Verdurin à l'hôtel faisait d'une sorte de
losange aux murs éclatants de blancheur comme un écran
sur lequel se détachaient à chaque mercredi, et presque tous
les jours, tous les gens les plus intéressants, les plus variés,
les femmes les plus élégantes de Paris, ravis de profiter du
luxe des Verdurin qui, grâce à leur fortune, allait croissant à
une époque où les plus riches se restreignaient faute de
toucher leurs revenus. La forme donnée aux réceptions se
trouvait modifiée sans qu'elles cessassent d'enchanter
Brichot, qui, au fur et à mesure que les relations des
Verdurin allaient s'étendant, y trouvait des plaisirs nouveaux
et accumulés dans un petit espace comme des surprises dans
un chausson de Noël. Enfin, certains jours, les dîneurs
étaient si nombreux que la salle à manger de l'appartement
privé était trop petite, on donnait le dîner dans la salle à
manger immense d'en bas, où les fidèles, tout en feignant
hypocritement de déplorer l'intimité d'en haut, étaient ravis
au fond – en faisant bande à part comme jadis dans le petit
chemin de fer – d'être un objet de spectacle et d'envie pour
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les tables voisines. Sans doute dans les temps habituels de la
paix une note mondaine subrepticement envoyée au Figaro
ou au Gaulois aurait fait savoir à plus de monde que n'en
pouvait tenir la salle à manger du Majestic que Brichot avait
dîné avec la duchesse de Duras. Mais depuis la guerre, les
courriéristes mondains ayant supprimé ce genre
d'informations (ils se rattrapaient sur les enterrements, les
citations et les banquets franco-américains), la publicité ne
pouvait plus exister que par ce moyen enfantin et restreint,
digne des premiers âges, et antérieur à la découverte de
Gutenberg, être vu à la table de Mme Verdurin. Après le
dîner on montait dans les salons de la Patronne, puis les
téléphonages commençaient. Mais beaucoup de grands
hôtels étaient, à cette époque, peuplés d'espions qui notaient
les nouvelles téléphonées par Bontemps avec une
indiscrétion que corrigeait seulement par bonheur le manque
de sûreté de ses informations, toujours démenties par
l'événement.
Avant l'heure où les thés d'après-midi finissaient, à la
tombée du jour, dans le ciel encore clair, on voyait de loin de
petites taches brunes qu'on eût pu prendre, dans le soir bleu,
pour des moucherons ou pour des oiseaux. Ainsi quand on
voit de très loin une montagne on pourrait croire que c'est
un nuage. Mais on est ému parce qu'on sait que ce nuage est
immense, à l'état solide, et résistant. Ainsi étais-je ému parce
que la tache brune dans le ciel d'été n'était ni un moucheron,
ni un oiseau, mais un aéroplane monté par des hommes qui
veillaient sur Paris. Le souvenir des aéroplanes que j'avais
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vus avec Albertine dans notre dernière promenade, près de
Versailles, n'entrait pour rien dans cette émotion, car le
souvenir de cette promenade m'était devenu indifférent.
À l'heure du dîner les restaurants étaient pleins et si,
passant dans la rue, je voyais un pauvre permissionnaire,
échappé pour six jours au risque permanent de la mort, et
prêt à repartir pour les tranchées, arrêter un instant ses yeux
devant les vitrines illuminées, je souffrais comme à l'hôtel de
Balbec quand les pêcheurs nous regardaient dîner, mais je
souffrais davantage parce que je savais que la misère du
soldat est plus grande que celle du pauvre, les réunissant
toutes, et plus touchante encore parce qu'elle est plus
résignée, plus noble, et que c'est d'un hochement de tête
philosophe, sans haine, que, prêt à repartir pour la guerre, il
disait en voyant se bousculer les embusqués retenant leurs
tables : « On ne dirait pas que c'est la guerre ici. » Puis à 9 h.
½, alors que personne n'avait encore eu le temps de finir de
dîner, à cause des ordonnances de police on éteignait
brusquement toutes les lumières et la nouvelle bousculade
des embusqués arrachant leurs pardessus aux chasseurs du
restaurant où j'avais dîné avec Saint-Loup un soir de perme
avait lieu à 9 h. 35 dans une mystérieuse pénombre de
chambre où l'on montre la lanterne magique, ou de salle de
spectacle servant à exhiber les films d'un de ces cinémas vers
lesquels allaient se précipiter dîneurs et dîneuses. Mais après
cette heure-là, pour ceux qui, comme moi, le soir dont je
parle, étaient restés à dîner chez eux, et sortaient pour aller
voir des amis, Paris était, au moins dans certains quartiers,
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encore plus noir que n'était le Combray de mon enfance ; les
visites qu'on se faisait prenaient un air de visites de voisins
de campagne. Ah ! si Albertine avait vécu, qu'il eût été doux,
les soirs où j'aurais dîné en ville, de lui donner rendez-vous
dehors, sous les arcades. D'abord, je n'aurais rien vu, j'aurais
eu l'émotion de croire qu'elle avait manqué au rendez-vous,
quand tout à coup j'eusse vu se détacher du mur noir une de
ses chères robes grises, ses yeux souriants qui m'auraient
aperçu, et nous aurions pu nous promener enlacés sans que
personne nous distinguât, nous dérangeât et rentrer ensuite à
la maison. Hélas, j'étais seul et je me faisais l'effet d'aller faire
une visite de voisin à la campagne, de ces visites comme
Swann venait nous en faire après le dîner, sans rencontrer
plus de passants dans l'obscurité de Tansonville, par ce petit
chemin de halage, jusqu'à la rue du Saint-Esprit, que je n'en
rencontrais maintenant dans les rues devenues de sinueux
chemins rustiques de la rue Clotilde à la rue Bonaparte.
D'ailleurs, comme ces fragments de paysage, que le temps
qu'il fait modifie, n'étaient plus contrariés par un cadre
devenu nuisible, les soirs où le vent chassait un grain glacial
je me croyais bien plus au bord de la mer furieuse, dont
j'avais jadis tant rêvé, que je ne m'y étais senti à Balbec ; et
même d'autres éléments de nature qui n'existaient pas
jusque-là à Paris faisaient croire qu'on venait, descendant du
train, d'arriver pour les vacances, en pleine campagne : par
exemple le contraste de lumière et d'ombre qu'on avait à
côté de soi par terre les soirs de clair de lune. Celui-ci
donnait de ces effets que les villes ne connaissent pas, même
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en plein hiver ; ses rayons s'étalaient sur la neige qu'aucun
travailleur ne déblayait plus, boulevard Haussmann, comme
ils eussent fait sur un glacier des Alpes. Les silhouettes des
arbres se reflétaient nettes et pures sur cette neige d'or
bleuté, avec la délicatesse qu'elles ont dans certaines
peintures japonaises ou dans certains fonds de Raphaël ; elles
étaient allongées à terre au pied de l'arbre lui-même, comme
on les voit souvent dans la nature au soleil couchant, quand
celui-ci inonde et rend réfléchissantes les prairies où des
arbres s'élèvent à intervalles réguliers. Mais, par un
raffinement d'une délicatesse délicieuse, la prairie sur laquelle
se développaient ces ombres d'arbres, légères comme des
âmes, était une prairie paradisiaque, non pas verte mais d'un
blanc si éclatant, à cause du clair de lune qui rayonnait sur la
neige de jade, qu'on aurait dit que cette prairie était tissée
seulement avec des pétales de poiriers en fleurs. Et sur les
places, les divinités des fontaines publiques tenant en main
un jet de glace avaient l'air de statues d'une matière double
pour l'exécution desquelles l'artiste avait voulu marier
exclusivement le bronze au cristal. Par ces jours
exceptionnels, toutes les maisons étaient noires. Mais au
printemps, au contraire, parfois de temps à autre, bravant les
règlements de la police, un hôtel particulier, ou seulement un
étage d'un hôtel, ou même seulement une chambre d'un
étage, n'ayant pas fermé ses volets apparaissait, ayant l'air de
se soutenir toute seule sur d'impalpables ténèbres, comme
une projection purement lumineuse, comme une apparition
sans consistance. Et la femme qu'en levant les yeux bien
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haut on distinguait dans cette pénombre dorée prenait, dans
cette nuit où l'on était perdu et où elle-même semblait
recluse, le charme mystérieux et voilé d'une vision d'Orient.
Puis on passait et rien n'interrompait plus l'hygiénique et
monotone piétinement rythmique dans l'obscurité.
Je songeais que je n'avais revu depuis bien longtemps
aucune des personnes dont il a été question dans cet
ouvrage. En 1914, pendant les deux mois que j'avais passés à
Paris, j'avais aperçu M. de Charlus et vu Bloch et Saint-Loup,
ce dernier seulement deux fois. La seconde fois était
certainement celle où il s'était le plus montré lui-même ; il
avait effacé toutes les impressions peu agréables de manque
de sincérité qu'il m'avait produites pendant le séjour à
Tansonville que je viens de rapporter et j'avais reconnu en
lui toutes les belles qualités d'autrefois. La première fois que
je l'avais vu après la déclaration de guerre, c'est-à-dire au
début de la semaine qui suivit, tandis que Bloch faisait
montre des sentiments les plus chauvins, Saint-Loup n'avait
pas assez d'ironie pour lui-même qui ne reprenait pas de
service et j'avais été presque choqué de la violence de son
ton. Saint-Loup revenait de Balbec. « Non, s'écria-t-il avec
force et gaîté, tous ceux qui ne se battent pas, quelque raison
qu'ils donnent, c'est qu'ils n'ont pas envie d'être tués, c'est
par peur. » Et avec le même geste d'affirmation plus
énergique encore que celui avec lequel il avait souligné la
peur des autres, il ajouta : « Et moi, si je ne reprends pas de
service, c'est tout bonnement par peur, na. » J'avais déjà
remarqué chez différentes personnes que l'affectation des
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sentiments louables n'est pas la seule couverture des
mauvais, mais qu'une plus nouvelle est l'exhibition de ces
mauvais, de sorte qu'on n'ait pas l'air au moins de s'en
cacher. De plus, chez Saint-Loup cette tendance était
fortifiée par son habitude, quand il avait commis une
indiscrétion, fait une gaffe, et qu'on aurait pu les lui
reprocher, de les proclamer en disant que c'était exprès.
Habitude qui, je crois bien, devait lui venir de quelque
professeur à l'École de Guerre dans l'intimité de qui il avait
vécu et pour qui il professait une grande admiration. Je n'eus
donc aucun embarras pour interpréter cette boutade comme
la ratification verbale d'un sentiment que Saint-Loup aimait
mieux proclamer, puisqu'il avait dicté sa conduite et son
abstention dans la guerre qui commençait. « Est-ce que tu as
entendu dire, demanda-t-il en me quittant, que ma tante
Oriane divorcerait ? Personnellement je n'en sais absolument
rien. On dit cela de temps en temps et je l'ai entendu
annoncer si souvent que j'attendrai que ce soit fait pour le
croire. J'ajoute que ce serait très compréhensible ; mon oncle
est un homme charmant, non seulement dans le monde,
mais pour ses amis, pour ses parents. Même, d'une façon, il a
beaucoup plus de cœur que ma tante qui est une sainte, mais
qui le lui fait terriblement sentir. Seulement c'est un mari
terrible, qui n'a jamais cessé de tromper sa femme, de
l'insulter, de la brutaliser, de la priver d'argent. Ce serait si
naturel qu'elle le quitte que c'est une raison pour que ce soit
vrai, mais aussi pour que cela ne le soit pas parce que c'en est
une pour qu'on en ait l'idée et qu'on le dise. Et puis du
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moment qu'elle l'a supporté si longtemps... Maintenant je
sais bien qu'il y a tant de choses qu'on annonce à tort, qu'on
dément, et puis qui plus tard deviennent vraies. » Cela me fit
penser à lui demander s'il avait jamais été question, avant son
mariage avec Gilberte, qu'il épousât Mlle de Guermantes. Il
sursauta et m'assura que non, que ce n'était qu'un de ces
bruits du monde, qui naissent de temps à autre on ne sait
pourquoi, s'évanouissent de même et dont la fausseté ne
rend pas ceux qui ont cru en eux plus prudents, dès que naît
un bruit nouveau de fiançailles, de divorce, ou un bruit
politique, pour y ajouter foi et le colporter. Quarante-huit
heures n'étaient pas passées que certains faits que j'appris me
prouvèrent que je m'étais absolument trompé dans
l'interprétation des paroles de Robert : « Tous ceux qui ne
sont pas au front, c'est qu'ils ont peur. » Saint-Loup avait dit
cela pour briller dans la conversation, pour faire de
l'originalité psychologique, tant qu'il n'était pas sûr que son
engagement serait accepté. Mais il faisait pendant ce temps-là
des pieds et des mains pour qu'il le fût, étant en cela moins
original, au sens qu'il croyait qu'il fallait donner à ce mot,
mais plus profondément français de Saint-André-desChamps, plus en conformité avec tout ce qu'il y avait à ce
moment-là de meilleur chez les Français de Saint-André-desChamps, seigneurs, bourgeois et serfs respectueux des
seigneurs ou révoltés contre les seigneurs, deux divisions
également françaises de la même famille, sousembranchement Françoise et sous-embranchement Sauton,
d'où deux flèches se dirigeaient à nouveau dans une même
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direction, qui était la frontière. Bloch avait été enchanté
d'entendre l'aveu de la lâcheté d'un nationaliste (qui l'était
d'ailleurs si peu) et, comme Saint-Loup avait demandé si luimême devait partir, avait pris une figure de grand-prêtre
pour répondre : « Myope. » Mais Bloch avait complètement
changé d'avis sur la guerre quelques jours après où il vint me
voir affolé. Quoique « myope », il avait été reconnu bon
pour le service. Je le ramenais chez lui quand nous
rencontrâmes Saint-Loup qui avait rendez-vous, pour être
présenté au Ministère de la Guerre à un colonel, avec un
ancien officier, « M. de Cambremer », me dit-il. « Ah ! c'est
vrai, mais c'est d'une ancienne connaissance que je te parle.
Tu connais aussi bien que moi Cancan. » Je lui répondis que
je le connaissais en effet et sa femme aussi, que je ne les
appréciais qu'à demi. Mais j'étais tellement habitué, depuis
que je les avais vus pour la première fois, à considérer la
femme comme une personne malgré tout remarquable,
connaissant à fond Schopenhauer et ayant accès, en somme,
dans un milieu intellectuel qui était fermé à son grossier
époux, que je fus d'abord étonné d'entendre Saint-Loup
répondre : « Sa femme est idiote, je te l'abandonne. Mais lui
est un excellent homme qui était doué et qui est resté fort
agréable. » Par l'« idiotie » de la femme, Saint-Loup entendait
sans doute le désir éperdu de celle-ci de fréquenter le grand
monde, ce que le grand monde juge le plus sévèrement. Par
les qualités du mari, sans doute quelque chose de celles que
lui reconnaissait sa nièce quand elle le trouvait le mieux de la
famille. Lui, du moins, ne se souciait pas de duchesses, mais
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à vrai dire c'est là une « intelligence » qui diffère autant de
celle qui caractérise les penseurs, que « l'intelligence »
reconnue par le public à tel homme riche « d'avoir su faire sa
fortune ». Mais les paroles de Saint-Loup ne me déplaisaient
pas en ce qu'elles rappelaient que la prétention avoisine la
bêtise et que la simplicité a un goût un peu caché mais
agréable. Je n'avais pas eu, il est vrai, l'occasion de savourer
celle de M. de Cambremer. Mais c'est justement ce qui fait
qu'un être est tant d'êtres différents selon les personnes qui
le jugent, en dehors même des différences de jugement. De
Cambremer je n'avais connu que l'écorce. Et sa saveur, qui
m'était attestée par d'autres, m'était inconnue. Bloch nous
quitta devant sa porte, débordant d'amertume contre SaintLoup, lui disant qu'eux autres, « beaux fils galonnés »,
paradant dans les États-Majors, ne risquaient rien, et que lui,
simple soldat de 2e classe, n'avait pas envie de se faire «
trouer la peau » pour Guillaume. « Il paraît qu'il est
gravement malade, l'Empereur Guillaume », répondit SaintLoup. Bloch qui, comme tous les gens qui tiennent de près à
la Bourse, accueillait avec une facilité particulière les
nouvelles sensationnelles, ajouta : « On dit même beaucoup
qu'il est mort. » À la Bourse tout souverain malade, que ce
soit Edouard VII ou Guillaume II, est mort, toute ville sur le
point d'être assiégée est prise. « On ne le cache, ajouta Bloch,
que pour ne pas déprimer l'opinion chez les Boches. Mais il
est mort dans la nuit d'hier. Mon père le tient d'une source
de tout premier ordre. » Les sources de tout premier ordre
étaient les seules dont tînt compte M. Bloch le père, alors
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que, par la chance qu'il avait, grâce à de « hautes relations »,
d'être en communication avec elles, il en recevait la nouvelle
encore secrète que l'Extérieure allait monter ou la de Beers
fléchir. D'ailleurs, si à ce moment précis se produisait une
hausse sur la de Beers, ou des « offres » sur l'Extérieure, si le
marché de la première était « ferme » et « actif », celui de la
seconde « hésitant », « faible », et qu'on s'y tînt « sur la
réserve », la source de premier ordre n'en restait pas moins
une source de premier ordre. Aussi Bloch nous annonça-t-il
la mort du Kaiser d'un air mystérieux et important, mais
aussi rageur. Il était surtout particulièrement exaspéré
d'entendre Robert dire : « l'Empereur Guillaume ». Je crois
que sous le couperet de la guillotine Saint-Loup et M. de
Guermantes n'auraient pas pu dire autrement. Deux
hommes du monde restant seuls vivants dans une île déserte,
où ils n'auraient à faire preuve de bonnes façons pour
personne, se reconnaîtraient à ces traces d'éducation, comme
deux latinistes citeraient correctement du Virgile. Saint-Loup
n'eût jamais pu, même torturé par les Allemands, dire
autrement que « l'Empereur Guillaume ». Et ce savoir-vivre
est malgré tout l'indice de grandes entraves pour l'esprit.
Celui qui ne sait pas les rejeter reste un homme du monde.
Cette élégante médiocrité est d'ailleurs délicieuse – surtout
avec tout ce qui s'y allie de générosité cachée et d'héroïsme
inexprimé – à côté de la vulgarité de Bloch, à la fois pleutre
et fanfaron, qui criait à Saint-Loup : « Tu ne pourrais pas
dire « Guillaume » tout court ? C'est ça, tu as la frousse, déjà
ici tu te mets à plat ventre devant lui ! Ah ! ça nous fera de
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beaux soldats à la frontière, ils lécheront les bottes des
Boches. Vous êtes des galonnés qui savez parader dans un
carrousel. Un point, c'est tout. » « Ce pauvre Bloch veut
absolument que je ne fasse que parader », me dit Saint-Loup
en souriant, quand nous eûmes quitté notre camarade. Et je
sentais bien que parader n'était pas du tout ce que désirait
Robert, bien que je ne me rendisse pas compte alors de ses
intentions aussi exactement que je le fis plus tard quand, la
cavalerie restant inactive, il obtint de servir comme officier
d'infanterie, puis de chasseurs à pied, et enfin quand vint la
suite qu'on lira plus loin. Mais du patriotisme de Robert,
Bloch ne se rendit pas compte, simplement parce que Robert
ne l'exprimait nullement. Si Bloch nous avait fait des
professions de foi méchamment antimilitaristes une fois qu'il
avait été reconnu « bon », il avait eu préalablement les
déclarations les plus chauvines quand il se croyait réformé
pour myopie. Mais ces déclarations, Saint-Loup eût été
incapable de les faire ; d'abord par une espèce de délicatesse
morale qui empêche d'exprimer les sentiments trop profonds
et qu'on trouve tout naturels. Ma mère autrefois non
seulement n'eût pas hésité une seconde à mourir pour ma
grand'mère, mais aurait horriblement souffert si on l'avait
empêchée de le faire. Néanmoins, il m'est impossible
d'imaginer rétrospectivement dans sa bouche une phrase
telle que : « Je donnerais ma vie pour ma mère. » Aussi tacite
était, dans son amour de la France, Robert qu'en ce moment
je trouvais beaucoup plus Saint-Loup (autant que je pouvais
me représenter son père) que Guermantes. Il eût été
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préservé aussi d'exprimer ces sentiments-là par la qualité en
quelque sorte morale de son intelligence. Il y a chez les
travailleurs intelligents et vraiment sérieux une certaine
aversion pour ceux qui mettent en littérature ce qu'ils font, le
font valoir. Nous n'avions été ensemble ni au lycée, ni à la
Sorbonne, mais nous avions séparément suivi certains cours
des mêmes maîtres, et je me rappelle le sourire de SaintLoup en parlant de ceux qui, tout en faisant un cours
remarquable, voulaient se faire passer pour des hommes de
génie en donnant un nom ambitieux à leurs théories. Pour
peu que nous en parlions, Robert riait de bon cœur.
Naturellement notre prédilection n'allait pas d'instinct aux
Cottard ou aux Brichot, mais enfin nous avions une certaine
considération pour les gens qui savaient à fond le grec ou la
médecine et ne se croyaient pas autorisés pour cela à faire les
charlatans. De même que toutes les actions de maman
reposaient jadis sur le sentiment qu'elle eût donné sa vie
pour sa mère, comme elle ne s'était jamais formulé ce
sentiment à elle-même, en tout cas elle eût trouvé non pas
seulement inutile et ridicule, mais choquant et honteux de
l'exprimer aux autres ; de même il m'était impossible
d'imaginer Saint-Loup (me parlant de son équipement, des
courses qu'il avait à faire, de nos chances de victoire, du peu
de valeur de l'armée russe, de ce que ferait l'Angleterre)
prononçant une des phrases les plus éloquentes que peut
dire le Ministre le plus sympathique aux députés debout et
enthousiastes. Je ne peux cependant pas dire que, dans ce
côté négatif qui l'empêchait d'exprimer les beaux sentiments
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qu'il ressentait, il n'y avait pas un effet de l'« esprit des
Guermantes », comme on en a vu tant d'exemples chez
Swann. Car si je le trouvais Saint-Loup surtout, il restait
Guermantes aussi et par là, parmi les nombreux mobiles qui
excitaient son courage, il y en avait qui n'étaient pas les
mêmes que ceux de ses amis de Doncières, ces jeunes gens
épris de leur métier avec qui j'avais dîné chaque soir et dont
tant se firent tuer à la bataille de la Marne ou ailleurs en
entraînant leurs hommes. Les jeunes socialistes qu'il pouvait
y avoir à Doncières quand j'y étais, mais que je ne
connaissais pas parce qu'ils ne fréquentaient pas le milieu de
Saint-Loup, purent se rendre compte que les officiers de ce
milieu n'étaient nullement des « aristos » dans l'acception
hautainement fière et bassement jouisseuse que le « populo »,
les officiers sortis des rangs, les francs-maçons donnaient à
ce surnom. Et pareillement d'ailleurs, ce même patriotisme,
les officiers nobles le rencontrèrent pleinement chez les
socialistes que je les avais entendu accuser, pendant que
j'étais à Doncières, en pleine affaire Dreyfus, d'être des sanspatrie. Le patriotisme des militaires, aussi sincère, aussi
profond, avait pris une forme définie qu'ils croyaient
intangible et sur laquelle ils s'indignaient de voir jeter «
l'opprobre », tandis que les patriotes en quelque sorte
inconscients, indépendants, sans religion patriotique définie,
qu'étaient les radicaux-socialistes, n'avaient pas su
comprendre quelle réalité profonde vivait dans ce qu'ils
croyaient de vaines et haineuses formules. Sans doute SaintLoup comme eux s'était habitué à développer en lui, comme
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la partie la plus vraie de lui-même, la recherche et la
conception des meilleures manœuvres en vue des plus
grands succès stratégiques et tactiques, de sorte que, pour lui
comme pour eux, la vie de son corps était quelque chose de
relativement peu important qui pouvait être facilement
sacrifié à cette partie intérieure, véritable noyau vital chez
eux, autour duquel l'existence personnelle n'avait de valeur
que comme un épiderme protecteur. Je parlai à Saint-Loup
de son ami le directeur du Grand Hôtel de Balbec qui,
paraît-il, avait prétendu qu'il y avait eu au début de la guerre
dans certains régiments français des défections, qu'il appelait
des « défectuosités », et avait accusé de les avoir provoquée
ce qu'il appelait le « militariste prussien », disant d'ailleurs en
riant à propos de son frère : « Il est dans les tranchées, ils
sont à trente mètres des Boches ! » jusqu'à ce qu'ayant appris
qu'il l'était lui-même on l'eût mis dans un camp de
concentration. « À propos de Balbec, te rappelles-tu l'ancien
liftier de l'hôtel ? » me dit en me quittant Saint-Loup sur le
ton de quelqu'un qui n'avait pas trop l'air de savoir qui c'était
et qui comptait sur moi pour l'éclairer. « Il s'engage et m'a
écrit pour le faire entrer dans l'aviation. » Sans doute le liftier
était-il las de monter dans la cage captive de l'ascenseur, et
les hauteurs de l'escalier du Grand Hôtel ne lui suffisaient
plus. Il allait « prendre ses galons » autrement que comme
concierge, car notre destin n'est pas toujours ce que nous
avions cru. « Je vais sûrement appuyer sa demande, me dit
Saint-Loup. Je le disais encore à Gilberte ce matin, jamais
nous n'aurons assez d'avions. C'est avec cela qu'on verra ce
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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que prépare l'adversaire. C'est cela qui lui enlèvera le
bénéfice le plus grand d'une attaque, celui de la surprise,
l'armée la meilleure sera peut-être celle qui aura les meilleurs
yeux. Eh bien, et la pauvre Françoise a-t-elle réussi à faire
réformer son neveu ? » Mais Françoise, qui avait fait depuis
longtemps tous ses efforts pour que son neveu fût réformé
et qui, quand on lui avait proposé une recommandation, par
la voie des Guermantes, pour le général de Saint-Joseph,
avait répondu d'un ton désespéré : « Oh ! non, ça ne servirait
à rien, il n'y a rien à faire avec ce vieux bonhomme-là, c'est
tout ce qu'il y a de pis, il est patriotique », Françoise, dès qu'il
avait été question de la guerre, et quelque douleur qu'elle en
éprouvât, trouvait qu'on ne devait pas abandonner les «
pauvres Russes », puisqu'on était « alliancé ». Le maître
d'hôtel, persuadé d'ailleurs que la guerre ne durerait que dix
jours et se terminerait par la victoire éclatante de la France,
n'aurait pas osé, par peur d'être démenti par les événements,
et n'aurait même pas eu assez d'imagination pour prédire une
guerre longue et indécise. Mais cette victoire complète et
immédiate, il tâchait au moins d'en extraire d'avance tout ce
qui pouvait faire souffrir Françoise. « Ça pourrait bien faire
du vilain, parce qu'il paraît qu'il y en a beaucoup qui ne
veulent pas marcher, des gars de seize ans qui pleurent. » Il
tâchait aussi pour la « vexer » de lui dire des choses
désagréables, c'est ce qu'il appelait « lui jeter un pépin, lui
lancer une apostrophe, lui envoyer un calembour ». « De
seize ans, Vierge Marie », disait Françoise, et un instant
méfiante : « On disait pourtant qu'on ne les prenait qu'après
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vingt ans, c'est encore des enfants. – Naturellement les
journaux ont ordre de ne pas dire cela. Du reste, c'est toute
la jeunesse qui sera en avant, il n'en reviendra pas lourd.
D'un côté, ça fera du bon, une bonne saignée, là, c'est utile
de temps en temps, ça fera marcher le commerce. Ah !
dame, s'il y a des gosses trop tendres qui ont une hésitation,
on les fusille immédiatement, douze balles dans la peau, vlan
! D'un côté, il faut ça. Et puis, les officiers, qu'est-ce que ça
peut leur faire ? Ils touchent leurs pesetas, c'est tout ce qu'ils
demandent. » Françoise pâlissait tellement pendant chacune
de ces conversations qu'on craignait que le maître d'hôtel ne
la fît mourir d'une maladie de cœur. Elle ne perdait pas ses
défauts pour cela. Quand une jeune fille venait me voir, si
mal aux jambes qu'eût la vieille servante, m'arrivait-il de
sortir un instant de ma chambre, je la voyais au haut d'une
échelle, dans la penderie, en train, disait-elle, de chercher
quelque paletot à moi pour voir si les mites ne s'y mettaient
pas, en réalité pour nous écouter. Elle gardait malgré toutes
mes critiques sa manière insidieuse de poser des questions
d'une façon indirecte pour laquelle elle avait utilisé depuis
quelque temps un certain « parce que sans doute ». N'osant
pas me dire : « Est-ce que cette dame a un hôtel ? » elle me
disait, les yeux timidement levés comme ceux d'un bon chien
: « Parce que sans doute cette dame a un hôtel particulier... »,
évitant l'interrogation flagrante, moins pour être polie que
pour ne pas sembler curieuse. Enfin, comme les
domestiques que nous aimons le plus – surtout s'ils ne nous
rendent presque plus les services et les égards de leur emploi
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– restent, hélas, des domestiques et marquent plus nettement
les limites (que nous voudrions effacer) de leur caste au fur
et à mesure qu'ils croient le plus pénétrer la nôtre, Françoise
avait souvent à mon endroit (pour me piquer, eût dit le
maître d'hôtel) de ces propos étranges qu'une personne du
monde n'aurait pas ; avec une joie aussi dissimulée mais aussi
profonde que si c'eût été une maladie grave, si j'avais chaud
et que la sueur – je n'y prenais pas garde – perlât à mon front
: « Mais vous êtes en nage », me disait-elle, étonnée comme
devant un phénomène étrange, souriant un peu avec le
mépris que cause quelque chose d'indécent, « vous sortez,
mais vous avez oublié de mettre votre cravate », prenant
pourtant la voix préoccupée qui est chargée d'inquiéter
quelqu'un sur son état. On aurait dit que moi seul dans
l'univers avais jamais été en nage. Car dans son humilité,
dans sa tendre admiration pour des êtres qui lui étaient
infiniment inférieurs, elle adoptait leur vilain tour de langage.
Sa fille s'étant plaint d'elle à moi et m'ayant dit (je ne sais de
qui elle l'avait appris) : « Elle a toujours quelque chose à dire,
que je ferme mal les portes, et patati patali et patata patala »,
Françoise crut sans doute que son incomplète éducation
seule l'avait privée jusqu'ici de ce bel usage. Et sur ses lèvres
où j'avais vu fleurir jadis le français le plus pur, j'entendis
plusieurs fois par jour : « Et patati patali et patata patala ». Il
est du reste curieux combien non seulement les expressions
mais les pensées varient peu chez une même personne. Le
maître d'hôtel ayant pris l'habitude de déclarer que M.
Poincaré était mal intentionné, pas pour l'argent, mais parce
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qu'il avait voulu absolument la guerre, il redisait cela sept à
huit fois par jour devant le même auditoire habituel et
toujours aussi intéressé. Pas un mot n'était modifié, pas un
geste, une intonation. Bien que cela ne durât que deux
minutes, c'était invariable, comme une représentation. Ses
fautes de français corrompaient le langage de Françoise tout
autant que les fautes de sa fille.
Elle ne dormait plus, ne mangeait plus, se faisait lire les
communiqués, auxquels elle ne comprenait rien, par le
maître d'hôtel qui n'y comprenait guère davantage, et chez
qui le désir de tourmenter Françoise était souvent dominé
par une allégresse patriotique ; il disait avec un rire
sympathique, en parlant des Allemands : « Ça doit chauffer,
notre vieux Joffre est en train de leur tirer des plans sur la
comète. » Françoise ne comprenait pas trop de quelle
comète il s'agissait, mais n'en sentait pas moins que cette
phrase faisait partie des aimables et originales extravagances
auxquelles une personne bien élevée doit répondre avec
bonne humeur, par urbanité, et haussant gaiement les
épaules d'un air de dire : « Il est bien toujours le même », elle
tempérait ses larmes d'un sourire. Au moins était-elle
heureuse que son nouveau garçon boucher qui, malgré son
métier, était assez craintif (il avait cependant commencé dans
les abattoirs) ne fût pas d'âge à partir. Sans quoi elle eût été
capable d'aller trouver le Ministre de la Guerre.
Le maître d'hôtel n'eût pu imaginer que les communiqués
ne fussent pas excellents et qu'on ne se rapprochât pas de
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Berlin, puisqu'il lisait : « Nous avons repoussé, avec de fortes
pertes pour l'ennemi, etc. », actions qu'il célébrait comme de
nouvelles victoires. J'étais cependant effrayé de la rapidité
avec laquelle le théâtre de ces victoires se rapprochait de
Paris, et je fus même étonné que le maître d'hôtel, ayant vu
dans un communiqué qu'une action avait eu lieu près de
Lens, n'eût pas été inquiet en voyant dans le journal du
lendemain que ses suites avaient tourné à notre avantage à
Jouy-le-Vicomte, dont nous tenions solidement les abords.
Le maître d'hôtel savait, connaissait pourtant bien le nom,
Jouy-le-Vicomte, qui n'était pas tellement éloigné de
Combray. Mais on lit les journaux comme on aime, un
bandeau sur les yeux. On ne cherche pas à comprendre les
faits. On écoute les douces paroles du rédacteur en chef,
comme on écoute les paroles de sa maîtresse. On est battu et
content parce qu'on ne se croit pas battu, mais vainqueur.
Je n'étais pas, du reste, demeuré longtemps à Paris et
j'avais regagné assez vite ma maison de santé. Bien qu'en
principe le docteur nous traitât par l'isolement, on m'y avait
remis à deux époques différentes une lettre de Gilberte et
une lettre de Robert. Gilberte m'écrivait (c'était à peu près en
septembre 1914) que, quelque désir qu'elle eût de rester à
Paris pour avoir plus facilement des nouvelles de Robert, les
raids perpétuels de taubes au-dessus de Paris lui avaient
causé une telle épouvante, surtout pour sa petite fille, qu'elle
s'était enfuie de Paris par le dernier train qui partait encore
pour Combray, que le train n'était même pas allé à Combray
et que ce n'était que grâce à la charrette d'un paysan sur
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laquelle elle avait fait dix heures d'un trajet atroce, qu'elle
avait pu gagner Tansonville ! « Et là, imaginez-vous ce qui
attendait votre vieille amie, m'écrivait en finissant Gilberte.
J'étais partie de Paris pour fuir les avions allemands, me
figurant qu'à Tansonville je serais à l'abri de tout. Je n'y étais
pas depuis deux jours que vous n'imaginerez jamais ce qui
arrivait : les Allemands qui envahissaient la région après
avoir battu nos troupes près de La Fère, et un état-major
allemand suivi d'un régiment qui se présentait à la porte de
Tansonville, et que j'étais obligée d'héberger, et pas moyen
de fuir, plus un train, rien. » L'état-major allemand s'était-il
bien conduit, ou fallait-il voir dans la lettre de Gilberte un
effet par contagion de l'esprit des Guermantes, lesquels
étaient de souche bavaroise, apparentée à la plus haute
aristocratie d'Allemagne, mais Gilberte ne tarissait pas sur la
parfaite éducation de l'état-major, et même des soldats qui
lui avaient seulement demandé « la permission de cueillir un
des ne-m'oubliez-pas qui poussaient auprès de l'étang »,
bonne éducation qu'elle opposait à la violence désordonnée
des fuyards français, qui avaient traversé la propriété en
saccageant tout, avant l'arrivée des généraux allemands. En
tout cas, si la lettre de Gilberte était par certains côtés
imprégnée de l'esprit des Guermantes – d'autres diraient de
l'internationalisme juif, ce qui n'aurait probablement pas été
juste, comme on verra – la lettre que je reçus pas mal de
mois plus tard de Robert était, elle, beaucoup plus SaintLoup que Guermantes, reflétant de plus toute la culture
libérale qu'il avait acquise, et, en somme, entièrement
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sympathique. Malheureusement il ne me parlait pas de
stratégie comme dans ses conversations de Doncières et ne
me disait pas dans quelle mesure il estimait que la guerre
confirmât ou infirmât les principes qu'il m'avait alors
exposés. Tout au plus me dit-il que depuis 1914 s'étaient en
réalité succédé plusieurs guerres, les enseignements de
chacune influant sur la conduite de la suivante. Et, par
exemple, la théorie de la « percée » avait été complétée par
cette thèse qu'il fallait avant de percer bouleverser
entièrement par l'artillerie le terrain occupé par l'adversaire.
Mais ensuite on avait constaté qu'au contraire ce
bouleversement rendait impossible l'avance de l'infanterie et
de l'artillerie dans des terrains dont des milliers de trous
d'obus avaient fait autant d'obstacles. « La guerre, disait-il,
n'échappe pas aux lois de notre vieil Hegel. Elle est en état
de perpétuel devenir. » C'était peu auprès de ce que j'aurais
voulu savoir. Mais ce qui me fâchait davantage encore c'est
qu'il n'avait plus le droit de me citer de noms de généraux.
Et d'ailleurs, par le peu que me disait le journal, ce n'était pas
ceux dont j'étais à Doncières si préoccupé de savoir lesquels
montreraient le plus de valeur dans une guerre, qui
conduisaient celle-ci. Geslin de Bourgogne, Galliffet, Négrier
étaient morts. Pau avait quitté le service actif presque au
début de la guerre. De Joffre, de Foch, de Castelnau, de
Pétain, nous n'avions jamais parlé. « Mon petit, m'écrivait
Robert, si tu voyais tout ce monde, surtout les gens du
peuple, les ouvriers, les petits commerçants, qui ne se
doutaient pas de ce qu'ils recelaient en eux d'héroïsme et
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seraient morts dans leur lit sans l'avoir soupçonné, courir
sous les balles pour secourir un camarade, pour emporter un
chef blessé, et, frappés eux-mêmes, sourire au moment où ils
vont mourir parce que le médecin-chef leur apprend que la
tranchée a été reprise aux Allemands, je t'assure, mon cher
petit, que cela donne une belle idée du Français et que ça fait
comprendre les époques historiques qui nous paraissaient un
peu extraordinaires dans nos classes. L'époque est tellement
belle que tu trouverais comme moi que les mots ne sont plus
rien. Au contact d'une telle grandeur, le mot « poilu » est
devenu pour moi quelque chose dont je ne sens pas plus s'il
a pu contenir d'abord une allusion ou une plaisanterie que
quand nous lisons « chouans » par exemple. Mais je sais «
poilu » déjà prêt pour de grands poètes, comme les mots
déluge, ou Christ, ou barbares qui étaient déjà pétris de
grandeur avant que s'en fussent servis Hugo, Vigny, ou les
autres. Je dis que le peuple est ce qu'il y a de mieux, mais
tout le monde est bien. Le pauvre Vaugoubert, le fils de
l'ambassadeur, a été sept fois blessé avant d'être tué, et
chaque fois qu'il revenait d'une expédition sans avoir écopé,
il avait l'air de s'excuser et de dire que ce n'était pas sa faute.
C'était un être charmant. Nous nous étions beaucoup liés, les
pauvres parents ont eu la permission de venir à
l'enterrement, à condition de ne pas être en deuil et de ne
rester que cinq minutes à cause du bombardement. La mère,
un grand cheval que tu connais peut-être, pouvait avoir
beaucoup de chagrin, on ne distinguait rien. Mais le pauvre
père était dans un tel état que je t'assure que moi, qui ai fini
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par devenir tout à fait insensible à force de prendre
l'habitude de voir la tête du camarade, qui est en train de me
parler, subitement labourée par une torpille ou même
détachée du tronc, je ne pouvais pas me contenir en voyant
l'effondrement du pauvre Vaugoubert qui n'était plus qu'une
espèce de loque. Le Général avait beau lui dire que c'était
pour la France, que son fils s'était conduit en héros, cela ne
faisait que redoubler les sanglots du pauvre homme qui ne
pouvait pas se détacher du corps de son fils. Enfin, et c'est
pour cela qu'il faut se dire qu'« ils ne passeront pas », tous
ces gens-là, comme mon pauvre valet de chambre, comme
Vaugoubert, ont empêché les Allemands de passer. Tu
trouves peut-être que nous n'avançons pas beaucoup, mais il
ne faut pas raisonner, une armée se sent victorieuse par une
impression intime, comme un mourant se sent foutu. Or
nous savons que nous aurons la victoire et nous la voulons
pour dicter la paix juste, je ne veux pas dire seulement pour
nous, vraiment juste, juste pour les Français, juste pour les
Allemands. »
De même que les héros d'un esprit médiocre et banal
écrivant des poèmes pendant leur convalescence se plaçaient
pour décrire la guerre non au niveau des événements, qui en
eux-mêmes ne sont rien, mais de la banale esthétique, dont
ils avaient suivi les règles jusque-là, parlant, comme ils
eussent fait dix ans plus tôt, de la « sanglante aurore », du «
vol frémissant de la victoire », etc., Saint-Loup, lui, beaucoup
plus intelligent et artiste, restait intelligent et artiste, et notait
avec goût pour moi des paysages pendant qu'il était
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immobilisé à la lisière d'une forêt marécageuse, mais comme
si ç'avait été pour une chasse au canard. Pour me faire
comprendre certaines oppositions d'ombre et de lumière qui
avaient été « l'enchantement de sa matinée », il me citait
certains tableaux que nous aimions l'un et l'autre et ne
craignait pas de faire allusion à une page de Romain Rolland,
voire de Nietzsche, avec cette indépendance des gens du
front qui n'avaient pas la même peur de prononcer un nom
allemand que ceux de l'arrière, et même avec cette pointe de
coquetterie à citer un ennemi que mettait, par exemple, le
colonel du Paty de Clam, dans la salle des témoins de l'affaire
Zola, à réciter en passant devant Pierre Quillard, poète
dreyfusard de la plus extrême violence et que, d'ailleurs, il ne
connaissait pas, des vers de son drame symboliste : La Fille
aux mains coupées. Saint-Loup me parlait-il d'une mélodie
de Schumann, il n'en donnait le titre qu'en allemand et ne
prenait aucune circonlocution pour me dire que quand, à
l'aube, il avait entendu un premier gazouillement à la lisière
d'une forêt, il avait été enivré comme si lui avait parlé
l'oiseau de ce « sublime Siegfried » qu'il espérait bien
entendre après la guerre.
Et maintenant, à mon second retour à Paris, j'avais reçu
dès le lendemain de mon arrivée, une nouvelle lettre de
Gilberte, qui sans doute avait oublié celle, ou du moins le
sens de celle que j'ai rapportée, car son départ de Paris à la
fin de 1914 y était représenté rétrospectivement d'une
manière assez différente. « Vous ne savez peut-être pas, mon
cher ami, me disait-elle, que voilà bientôt deux ans que je
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suis à Tansonville. J'y suis arrivée en même temps que les
Allemands. Tout le monde avait voulu m'empêcher de partir.
On me traitait de folle. – Comment, me disait-on, vous êtes
en sûreté à Paris et vous partez pour ces régions envahies,
juste au moment où tout le monde cherche à s'en échapper.
– Je ne méconnaissais pas tout ce que ce raisonnement avait
de juste. Mais, que voulez-vous, je n'ai qu'une seule qualité,
je ne suis pas lâche, ou, si vous aimez mieux, je suis fidèle, et
quand j'ai su mon cher Tansonville menacé, je n'ai pas voulu
que notre vieux régisseur restât seul à le défendre. Il m'a
semblé que ma place était à ses côtés. Et c'est, du reste, grâce
à cette résolution que j'ai pu sauver à peu près le château –
quand tous les autres dans le voisinage, abandonnés par leurs
propriétaires affolés, ont été presque tous détruits de fond
en comble – et non seulement le château, mais les précieuses
collections auxquelles mon cher Papa tenait tant. » En un
mot, Gilberte était persuadée maintenant qu'elle n'était pas
allée à Tansonville, comme elle me l'avait écrit en 1914, pour
fuir les Allemands et pour être à l'abri, mais au contraire
pour les rencontrer et défendre contre eux son château. Ils
n'étaient pas restés à Tansonville, d'ailleurs, mais elle n'avait
plus cessé d'avoir chez elle un va-et-vient constant de
militaires qui dépassait de beaucoup celui qui tirait les larmes
à Françoise dans la rue de Combray, et de mener, comme
elle disait cette fois en toute vérité, la vie du front. Aussi
parlait-on dans les journaux avec les plus grands éloges de
son admirable conduite et il était question de la décorer. La
fin de sa lettre était entièrement exacte. « Vous n'avez pas
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idée de ce que c'est que cette guerre, mon cher ami, et de
l'importance qu'y prend une route, un pont, une hauteur.
Que de fois j'ai pensé à vous, aux promenades, grâce à vous
rendues délicieuses, que nous faisions ensemble dans tout ce
pays aujourd'hui ravagé, alors que d'immenses combats se
livrent pour la possession de tel chemin, de tel coteau que
vous aimiez, où nous sommes allés si souvent ensemble.
Probablement vous comme moi, vous ne vous imaginiez pas
que l'obscur Roussainville et l'assommant Méséglise, d'où on
nous portait nos lettres, et où on était allé chercher le
docteur quand vous avez été souffrant, seraient jamais des
endroits célèbres. Eh bien, mon cher ami, ils sont à jamais
entrés dans la gloire au même titre qu'Austerlitz ou Valmy.
La bataille de Méséglise a duré plus de huit mois, les
Allemands y ont perdu plus de cent mille hommes, ils ont
détruit Méséglise, mais ils ne l'ont pas pris. Le petit chemin
que vous aimiez tant, que nous appelions le raidillon aux
aubépines et où vous prétendez que vous êtes tombé dans
votre enfance amoureux de moi, alors que je vous assure en
toute vérité que c'était moi qui étais amoureuse de vous, je
ne peux pas vous dire l'importance qu'il a prise. L'immense
champ de blé auquel il aboutit, c'est la fameuse cote 307
dont vous avez dû voir le nom revenir si souvent dans les
communiqués. Les Français ont fait sauter le petit pont sur
la Vivonne qui, disiez-vous, ne vous rappelait pas votre
enfance autant que vous l'auriez voulu, les Allemands en ont
jeté d'autres ; pendant un an et demi ils ont eu une moitié de
Combray et les Français l'autre moitié. »
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Le lendemain du jour où j'avais reçu cette lettre, c'est-àdire l'avant-veille de celui où, cheminant dans l'obscurité,
j'entendais sonner le bruit de mes pas, tout en remâchant
tous ces souvenirs, Saint-Loup venu du front, sur le point d'y
retourner, m'avait fait une visite de quelques secondes
seulement, dont l'annonce seule m'avait violemment ému.
Françoise avait d'abord voulu se précipiter sur lui, espérant
qu'il pourrait faire réformer le timide garçon boucher, dont,
dans un an, la classe allait partir. Mais elle fut arrêtée ellemême en pensant à l'inutilité de cette démarche, car depuis
longtemps le timide tueur d'animaux avait changé de
boucherie, et soit que la patronne de la nôtre craignît de
perdre notre clientèle, soit qu'elle fût de bonne foi, elle avait
déclaré à Françoise qu'elle ignorait où ce garçon, « qui,
d'ailleurs, ne ferait jamais un bon boucher », était employé.
Françoise avait bien cherché partout, mais Paris est grand,
les boucheries nombreuses, et elle avait eu beau entrer dans
un grand nombre, elle n'avait pu retrouver le jeune homme
timide et sanglant.
Quand Saint-Loup était entré dans ma chambre, je l'avais
approché avec ce sentiment de timidité, avec cette
impression de surnaturel que donnaient au fond tous les
permissionnaires et qu'on éprouve quand on est introduit
auprès d'une personne atteinte d'un mal mortel et qui
cependant se lève, s'habille, se promène encore. Il semblait
(il avait surtout semblé au début, car pour qui n'avait pas
vécu comme moi loin de Paris, l'habitude était venue qui
retranche aux choses que nous avons vues plusieurs fois la
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racine d'impression profonde et de pensée qui leur donne
leur sens réel), il semblait presque qu'il y eût quelque chose
de cruel dans ces permissions données aux combattants. Aux
premières, on se disait : « Ils ne voudront pas repartir, ils
déserteront. » Et en effet, ils ne venaient pas seulement de
lieux qui nous semblaient irréels parce que nous n'en avions
entendu parler que par les journaux et que nous ne pouvions
nous figurer qu'on eût pris part à ces combats titaniques et
revenir seulement avec une contusion à l'épaule ; c'était des
rivages de la mort, vers lesquels ils allaient retourner, qu'ils
venaient un instant parmi nous, incompréhensibles pour
nous, nous remplissant de tendresse, d'effroi, et d'un
sentiment de mystère, comme ces morts que nous évoquons,
qui nous apparaissent une seconde, que nous n'osons pas
interroger et qui, du reste, pourraient tout au plus nous
répondre : « Vous ne pourriez pas vous figurer. » Car il est
extraordinaire à quel point chez les rescapés du front que
sont les permissionnaires parmi les vivants, ou chez les
morts qu'un médium hypnotise ou évoque, le seul effet d'un
contact avec le mystère soit d'accroître s'il est possible
l'insignifiance des propos. Tel j'abordai Robert qui avait
encore au front une cicatrice plus auguste et plus mystérieuse
pour moi que l'empreinte laissée sur la terre par le pied d'un
géant. Et je n'avais pas osé lui poser de question et il ne
m'avait dit que de simples paroles. Encore étaient-elles fort
peu différentes de ce qu'elles eussent été avant la guerre,
comme si les gens, malgré elle, continuaient à être ce qu'ils
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étaient ; le ton des entretiens était le même, la matière seule
différait, et encore !
Je crus comprendre que Robert avait trouvé aux armées
des ressources qui lui avaient fait peu à peu oublier que
Morel s'était aussi mal conduit avec lui qu'avec son oncle.
Pourtant il lui gardait une grande amitié et était pris de
brusques désirs de le revoir, qu'il ajournait sans cesse. Je crus
plus délicat envers Gilberte de ne pas indiquer à Robert que
pour retrouver Morel il n'avait qu'à aller chez Mme
Verdurin.
Je dis avec humilité à Robert combien on sentait peu la
guerre à Paris, il me dit que même à Paris c'était quelquefois
« assez inouï ». Il faisait allusion à un raid de zeppelins qu'il y
avait eu la veille et il me demanda si j'avais bien vu, mais
comme il m'eût parlé autrefois de quelque spectacle d'une
grande beauté esthétique. Encore au front comprend-on
qu'il y ait une sorte de coquetterie à dire : « C'est merveilleux,
quel rose ! et ce vert pâle ! », au moment où on peut à tout
instant être tué, mais ceci n'existait pas chez Saint-Loup, à
Paris, à propos d'un raid insignifiant. Je lui parlai de la beauté
des avions qui montaient dans la nuit. « Et peut-être encore
plus de ceux qui descendent, me dit-il. Je reconnais que c'est
très beau le moment où ils montent, où ils vont faire
constellation et obéissent en cela à des lois tout aussi
précises que celles qui régissent les constellations, car ce qui
te semble un spectacle est le ralliement des escadrilles, les
commandements qu'on leur donne, leur départ en chasse,
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etc. Mais est-ce que tu n'aimes pas mieux le moment où,
définitivement assimilés aux étoiles, ils s'en détachent pour
partir en chasse ou rentrer après la berloque, le moment où
ils « font apocalypse », même les étoiles ne gardant plus leur
place. Et ces sirènes, était-ce assez wagnérien, ce qui, du
reste, était bien naturel pour saluer l'arrivée des Allemands,
ça faisait très hymne national, très Wacht am Rhein, avec le
Kronprinz et les princesses dans la loge impériale ; c'était à
se demander si c'était bien des aviateurs et pas plutôt des
Walkyries qui montaient. » Il semblait avoir plaisir à cette
assimilation des aviateurs et des Walkyries et l'expliquait,
d'ailleurs, par des raisons purement musicales : « Dame, c'est
que la musique des sirènes était d'une Chevauchée. Il faut
décidément l'arrivée des Allemands pour qu'on puisse
entendre du Wagner à Paris. » À certains points de vue la
comparaison n'était pas fausse. La ville semblait une masse
informe et noire qui tout d'un coup passait des profondeurs
de la nuit dans la lumière et dans le ciel où un à un les
aviateurs s'élevaient à l'appel déchirant des sirènes,
cependant que d'un mouvement plus lent, mais plus
insidieux, plus alarmant, car ce regard faisait penser à l'objet
invisible encore et peut-être déjà proche qu'il cherchait, les
projecteurs se remuaient sans cesse, flairaient l'ennemi, le
cernaient dans leurs lumières jusqu'au moment où les avions
aiguillés bondiraient en chasse pour le saisir. Et escadrille
après escadrille chaque aviateur s'élançait ainsi de la ville,
transporté maintenant dans le ciel, pareil à une Walkyrie.
Pourtant des coins de la terre, au ras des maisons,
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s'éclairaient et je dis à Saint-Loup que s'il avait été à la
maison la veille, il aurait pu, tout en contemplant
l'apocalypse dans le ciel, voir sur la terre, comme dans
l'enterrement du comte d'Orgaz du Greco où ces différents
plans sont parallèles, un vrai vaudeville joué par des
personnages en chemise de nuit, lesquels, à cause de leurs
noms célèbres, eussent mérité d'être envoyés à quelque
successeur de ce Ferrari dont les notes mondaines nous
avaient si souvent amusés, Saint-Loup et moi, que nous nous
amusions pour nous-mêmes à en inventer. Et c'est ce que
nous aurions fait encore ce jour-là comme s'il n'y avait pas la
guerre, bien que sur un sujet fort « guerre » : la peur des
Zeppelins – reconnu : la duchesse de Guermantes superbe
en chemise de nuit, le duc de Guermantes inénarrable en
pyjama rose et peignoir de bain, etc., etc. « Je suis sûr, me
dit-il, que dans tous les grands hôtels on a dû voir les juives
américaines en chemise, serrant sur leur sein décati le collier
de perles qui leur permettra d'épouser un duc décavé. L'hôtel
Ritz, ces soirs-là, doit ressembler à l'Hôtel du libre échange. »
Je demandai à Saint-Loup si cette guerre avait confirmé ce
que nous disions des guerres passées à Doncières. Je lui
rappelai des propos que lui-même avait oubliés, par exemple
sur les pastiches des batailles par les généraux à venir. « La
feinte, lui disais-je, n'est plus guère possible dans ces
opérations qu'on prépare d'avance avec de telles
accumulations d'artillerie. Et ce que tu m'as dit depuis sur les
reconnaissances par les avions, qu'évidemment tu ne pouvais
pas prévoir, empêche l'emploi des ruses napoléoniennes. –
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Comme tu te trompes, me répondit-il, cette guerre,
évidemment, est nouvelle par rapport aux autres et se
compose elle-même de guerres successives, dont la dernière
est une innovation par rapport à celle qui l'a précédée. Il faut
s'adapter à une formule nouvelle de l'ennemi pour se
défendre contre elle, et alors lui-même recommence à
innover, mais, comme en toute chose humaine, les vieux
trucs prennent toujours. Pas plus tard qu'hier au soir, le plus
intelligent des critiques militaires écrivait : « Quand les
Allemands ont voulu délivrer la Prusse orientale, ils ont
commencé l'opération par une puissante démonstration fort
au sud contre Varsovie, sacrifiant dix mille hommes pour
tromper l'ennemi. Quand ils ont créé, au début de 1915, la
masse de manœuvre de l'archiduc Eugène pour dégager la
Hongrie menacée, ils ont répandu le bruit que cette masse
était destinée à une opération contre la Serbie. C'est ainsi
qu'en 1800 l'armée qui allait opérer contre l'Italie était
essentiellement qualifiée d'armée de réserve et semblait
destinée non à passer les Alpes, mais à appuyer les armées
engagées sur les théâtres septentrionaux. La ruse
d'Hindenburg attaquant Varsovie pour masquer l'attaque
véritable sur les lacs de Mazurie est imitée d'un plan de
Napoléon de 1812. » Tu vois que M. Bidou reproduit
presque les paroles que tu me rappelles et que j'avais
oubliées. Et comme la guerre n'est pas finie, ces ruses-là se
reproduiront encore et réussiront, car on ne perce rien à
jour, ce qui a pris une fois a pris parce que c'était bon et
prendra toujours. » Et en effet, bien longtemps après cette
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conversation avec Saint-Loup, pendant que les regards des
Alliés étaient fixés sur Pétrograd, contre laquelle capitale on
croyait que les Allemands commençaient leur marche, ils
préparaient la plus puissante offensive contre l'Italie. SaintLoup me cita bien d'autres exemples de pastiches militaires,
ou, si l'on croit qu'il n'y a pas un art mais une science
militaire, d'application de lois permanentes. « Je ne veux pas
dire, il y aurait contradiction dans les mots, ajouta SaintLoup, que l'art de la guerre soit une science. Et s'il y a une
science de la guerre, il y a diversité, dispute et contradiction
entre les savants. Diversité projetée pour une part dans la
catégorie du temps. Ceci est assez rassurant, car, pour autant
que cela est, cela n'indique pas forcément erreur mais vérité
qui évolue. » Il devait me dire plus tard : « Vois dans cette
guerre l'évolution des idées sur la possibilité de la percée, par
exemple. On y croit d'abord, puis on vient à la doctrine de
l'invulnérabilité des fronts, puis à celle de la percée possible,
mais dangereuse, de la nécessité de ne pas faire un pas en
avant sans que l'objectif soit d'abord détruit (un journaliste
péremptoire écrira que prétendre le contraire est la plus
grande sottise qu'on puisse dire), puis, au contraire, à celle
d'avancer avec une très faible préparation d'artillerie, puis on
en vient à faire remonter l'invulnérabilité des fronts à la
guerre de 1870 et à prétendre que c'est une idée fausse pour
la guerre actuelle, donc une idée d'une vérité relative. Fausse
dans la guerre actuelle à cause de l'accroissement des masses
et du perfectionnement des engins (voir Bidou du 2 juillet
1918), accroissement qui d'abord avait fait croire que la
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prochaine guerre serait très courte, puis très longue, et enfin
a fait croire de nouveau à la possibilité des décisions
victorieuses. Bidou cite les Alliés sur la Somme, les
Allemands vers Paris en 1918. De même à chaque conquête
des Allemands on dit : le terrain n'est rien, les villes ne sont
rien, ce qu'il faut c'est détruire la force militaire de
l'adversaire. Puis les Allemands à leur tour adoptent cette
théorie en 1918 et alors Bidou explique curieusement (2
juillet 1918) comment certains points vitaux, certains espaces
essentiels s'ils sont conquis décident de la victoire. C'est,
d'ailleurs, une tournure de son esprit. Il a montré comment
si la Russie était bouchée sur mer elle serait défaite et qu'une
armée enfermée dans une sorte de camp d'emprisonnement
est destinée à périr. »
Il faut dire pourtant que si la guerre n'avait pas modifié le
caractère de Saint-Loup, son intelligence, conduite par une
évolution où l'hérédité entrait pour une grande part, avait
pris un brillant que je ne lui avais jamais vu. Quelle distance
entre le jeune blondin qui jadis était courtisé par les femmes
chic ou aspirait à le devenir, et le discoureur, le doctrinaire
qui ne cessait de jouer avec les mots ! À une autre
génération, sur une autre tige, comme un acteur qui reprend
le rôle joué jadis par Bressant ou Delaunay, il était comme
un successeur – rose, blond et doré, alors que l'autre était
mi-partie très noir et tout blanc – de M. de Charlus. Il avait
beau ne pas s'entendre avec son oncle sur la guerre, s'étant
rangé dans cette fraction de l'aristocratie qui faisait passer la
France avant tout tandis que M. de Charlus était au fond
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défaitiste, il pouvait montrer à celui qui n'avait pas vu le «
créateur du rôle » comment on pouvait exceller dans l'emploi
de raisonneur. « Il paraît que Hindenbourg c'est une
révélation, lui dis-je. – Une vieille révélation, me répondit-il
du « tac au tac », ou une future révélation. » Il aurait fallu, au
lieu de ménager l'ennemi, laisser faire Mangin, abattre
l'Autriche et l'Allemagne et européaniser la Turquie au lieu
de montégriniser la France. « Mais nous aurons l'aide des
États-Unis, lui dis-je. – En attendant, je ne vois ici que le
spectacle des États désunis. Pourquoi ne pas faire des
concessions plus larges à l'Italie par la peur de déchristianiser
la France ? – Si ton oncle Charlus t'entendait ! lui dis-je. Au
fond tu ne serais pas fâché qu'on offense encore un peu plus
le Pape, et lui pense avec désespoir au mal qu'on peut faire
au trône de François-Joseph. Il se dit, d'ailleurs, en cela dans
la tradition de Talleyrand et du Congrès de Vienne. – L'ère
du Congrès de Vienne est révolue, me répondit-il ; à la
diplomatie secrète il faut opposer la diplomatie concrète.
Mon oncle est au fond un monarchiste impénitent à qui on
ferait avaler des carpes comme Mme Molé ou des escarpes
comme Arthur Meyer, pourvu que carpes et escarpes fussent
à la Chambord. Par haine du drapeau tricolore, je crois qu'il
se rangerait plutôt sous le torchon du Bonnet rouge, qu'il
prendrait de bonne foi pour le Drapeau blanc. » Certes, ce
n'était que des mots et Saint-Loup était loin d'avoir
l'originalité quelquefois profonde de son oncle. Mais il était
aussi affable et charmant de caractère que l'autre était
soupçonneux et jaloux. Et il était resté charmant et rose
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comme à Balbec, sous tous ses cheveux d'or. La seule chose
où son oncle ne l'eût pas dépassé était cet état d'esprit du
faubourg Saint-Germain dont sont empreints ceux qui
croient s'en être le plus détachés et qui leur donne à la fois ce
respect des hommes intelligents pas nés (qui ne fleurit
vraiment que dans la noblesse et rend les révolutions si
injustes) et cette niaise satisfaction de soi. De par ce mélange
d'humilité et d'orgueil, de curiosité d'esprit acquise et
d'autorité innée, M. de Charlus et Saint-Loup, par des
chemins différents et avec des opinions opposées, étaient
devenus, à une génération d'intervalle, des intellectuels que
toute idée nouvelle intéresse et des causeurs de qui aucun
interrupteur ne peut obtenir le silence. De sorte qu'une
personne un peu médiocre pouvait les trouver l'un et l'autre,
selon la disposition où elle se trouvait, éblouissants ou
raseurs.
Tout en me rappelant la visite de Saint-Loup j'avais
marché, puis, pour aller chez Mme Verdurin, fait un long
crochet ; j'étais presque au pont des Invalides. Les lumières,
assez peu nombreuses (à cause des gothas), étaient allumées
un peu trop tôt, car le changement d'heure avait été fait un
peu trop tôt, quand la nuit venait encore assez vite, mais
stabilisé pour toute la belle saison (comme les calorifères
sont allumés et éteints à partir d'une certaine date), et audessus de la ville nocturnement éclairée, dans toute une
partie du ciel – du ciel ignorant de l'heure d'été et de l'heure
d'hiver, et qui ne daignait pas savoir que 8 h. ½ était devenu
9 h. ½ – dans toute une partie du ciel bleuâtre il continuait à
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faire un peu jour. Dans toute la partie de la ville que
dominent les tours du Trocadéro, le ciel avait l'air d'une
immense mer nuance de turquoise qui se retire, laissant déjà
émerger toute une ligne légère de rochers noirs, peut-être
même de simples filets de pêcheurs alignés les uns auprès
des autres, et qui étaient de petits nuages. Mer en ce moment
couleur turquoise et qui emporte avec elle, sans qu'ils s'en
aperçoivent, les hommes entraînés dans l'immense
révolution de la terre, de la terre sur laquelle ils sont assez
fous pour continuer leurs révolutions à eux, et leurs vaines
guerres, comme celle qui ensanglantait en ce moment la
France. Du reste, à force de regarder le ciel paresseux et trop
beau, qui ne trouvait pas digne de lui de changer son horaire
et au-dessus de la ville allumée prolongeait mollement, en
ces tons bleuâtres, sa journée qui s'attardait, le vertige prenait
: ce n'était plus une mer étendue, mais une gradation
verticale de bleus glaciers. Et les tours du Trocadéro qui
semblaient si proches des degrés de turquoise devaient en
être extrêmement éloignées, comme ces deux tours de
certaines villes de Suisse qu'on croirait dans le lointain
voisines avec la pente des cimes. Je revins sur mes pas, mais
une fois quitté le pont des Invalides, il ne faisait plus jour
dans le ciel, il n'y avait même guère de lumières dans la ville,
et butant çà et là contre des poubelles, prenant un chemin
pour un autre, je me trouvai sans m'en douter, en suivant
machinalement un dédale de rues obscures, arrivé sur les
boulevards. Là, l'impression d'Orient que je venais d'avoir se
renouvela et, d'autre part, à l'évocation du Paris du
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Directoire succéda celle du Paris de 1815. Comme en 1815
c'était le défilé le plus disparate des uniformes des troupes
alliées ; et, parmi elles, des Africains en jupe-culotte rouge,
des Hindous enturbannés de blanc suffisaient pour que de ce
Paris où je me promenais je fisse toute une imaginaire cité
exotique, dans un Orient à la fois minutieusement exact en
ce qui concernait les costumes et la couleur des visages,
arbitrairement chimérique en ce qui concernait le décor,
comme de la ville où il vivait, Carpaccio fit une Jérusalem ou
une Constantinople en y assemblant une foule dont la
merveilleuse bigarrure n'était pas plus colorée que celle-ci.
Marchant derrière deux zouaves qui ne semblaient guère se
préoccuper de lui, j'aperçus un homme gras et gros, en feutre
mou, en longue houppelande et sur la figure mauve duquel
j'hésitai si je devais mettre le nom d'un acteur ou d'un peintre
également connus pour d'innombrables scandales
sodomistes. J'étais certain en tout cas que je ne connaissais
pas le promeneur, aussi fus-je bien surpris, quand ses regards
rencontrèrent les miens, de voir qu'il avait l'air gêné et fit
exprès de s'arrêter et de venir à moi comme un homme qui
veut montrer que vous ne le surprenez nullement en train de
se livrer à une occupation qu'il eût préféré laisser secrète.
Une seconde je me demandai qui me disait bonjour : c'était
M. de Charlus. On peut dire que pour lui l'évolution de son
mal ou la révolution de son vice était à ce point extrême où
la petite personnalité primitive de l'individu, ses qualités
ancestrales, sont entièrement interceptées par le passage en
face d'elles du défaut ou du mal générique dont ils sont
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accompagnés. M. de Charlus était arrivé aussi loin qu'il était
possible de soi-même, ou plutôt il était lui-même si
parfaitement masqué par ce qu'il était devenu et qui
n'appartenait pas à lui seul, mais à beaucoup d'autres invertis,
qu'à la première minute je l'avais pris pour un autre d'entre
eux, derrière ces zouaves, en plein boulevard, pour un autre
d'entre eux qui n'était pas M. de Charlus, qui n'était pas un
grand seigneur, qui n'était pas un homme d'imagination et
d'esprit et qui n'avait pour toute ressemblance avec le baron
que cet air commun à eux tous, et qui maintenant chez lui,
au moins avant qu'on se fût appliqué à bien regarder,
couvrait tout. C'est ainsi qu'ayant voulu aller chez Mme
Verdurin j'avais rencontré M. de Charlus. Et certes, je ne
l'eusse pas comme autrefois trouvé chez elle ; leur brouille
n'avait fait que s'aggraver et Mme Verdurin se servait même
des événements présents pour le discréditer davantage.
Ayant dit depuis longtemps qu'elle le trouvait usé, fini, plus
démodé dans ses prétendues audaces que les plus pompiers,
elle résumait maintenant cette condamnation et dégoûtait de
lui toutes les imaginations en disant qu'il était « avant-guerre
». La guerre avait mis entre lui et le présent, selon le petit
clan, une coupure qui le reculait dans le passé le plus mort.
D'ailleurs – et ceci s'adressait plutôt au monde politique, qui
était moins informé – elle le représentait comme aussi « toc
», aussi « à côté » comme situation mondaine que comme
valeur intellectuelle. « Il ne voit personne, personne ne le
reçoit », disait-elle à M. Bontemps, qu'elle persuadait
aisément. Il y avait d'ailleurs du vrai dans ces paroles. La
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situation de M. de Charlus avait changé. Se souciant de
moins en moins du monde, s'étant brouillé par caractère
quinteux et ayant, par conscience de sa valeur sociale,
dédaigné de se réconcilier avec la plupart des personnes qui
étaient la fleur de la société, il vivait dans un isolement relatif
qui n'avait pas, comme celui où était morte Mme de
Villeparisis, l'ostracisme de l'aristocratie pour cause, mais qui
aux yeux du public paraissait pire pour deux raisons. La
mauvaise réputation, maintenant connue, de M. de Charlus
faisait croire aux gens peu renseignés que c'était pour cela
que ne le fréquentaient point les gens que de son propre chef
il refusait de fréquenter. De sorte que ce qui était l'effet de
son humeur atrabilaire semblait celui du mépris des
personnes à l'égard de qui elle s'exerçait. D'autre part, Mme
de Villeparisis avait eu un grand rempart : la famille. Mais M.
de Charlus avait multiplié entre elle et lui les brouilles. Elle
lui avait, d'ailleurs – surtout côté vieux faubourg, côté
Courvoisier – semblé inintéressante. Et il ne se doutait
guère, lui qui avait fait vers l'art, par opposition aux
Courvoisier, des pointes si hardies, que ce qui eût intéressé le
plus en lui un Bergotte, par exemple, c'était sa parenté avec
tout ce vieux faubourg, c'eût été le pouvoir de décrire la vie
quasi provinciale menée par ses cousines de la rue de la
Chaise, à la place du Palais-Bourbon et à la rue Garancière.
Point de vue moins transcendant et plus pratique, Mme
Verdurin affectait de croire qu'il n'était pas Français. « Quelle
est sa nationalité exacte, est-ce qu'il n'est pas Autrichien ?
demandait innocemment M. Verdurin. – Mais non, pas du
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tout, répondait la comtesse Molé, dont le premier
mouvement obéissait plutôt au bon sens qu'à la rancune. –
Mais non, il est Prussien, disait la Patronne, mais je vous le
dis, je le sais, il nous l'a assez répété qu'il était membre
héréditaire de la Chambre des Seigneurs de Prusse et
Durchlaucht. – Pourtant la reine de Naples m'avait dit... –
Vous savez que c'est une affreuse espionne, s'écriait Mme
Verdurin qui n'avait pas oublié l'attitude que la souveraine
déchue avait eue un soir chez elle. Je le sais et d'une façon
précise, elle ne vivait que de ça. Si nous avions un
gouvernement plus énergique, tout ça devrait être dans un
camp de concentration. Et allez donc ! En tout cas, vous
ferez bien de ne pas recevoir ce joli monde, parce que je sais
que le Ministre de l'Intérieur a l'œil sur eux, votre hôtel serait
surveillé. Rien ne m'enlèvera de l'idée que pendant deux ans
Charlus n'a pas cessé d'espionner chez moi. » Et pensant
probablement qu'on pouvait avoir un doute sur l'intérêt que
pouvaient présenter pour le gouvernement allemand les
rapports les plus circonstanciés sur l'organisation du petit
clan, Mme Verdurin, d'un air doux et perspicace, en
personne qui sait que la valeur de ce qu'elle dit ne paraîtra
que plus précieuse si elle n'enfle pas la voix pour le dire : « Je
vous dirai que dès le premier jour j'ai dit à mon mari : Ça ne
me va pas, la façon dont cet homme s'est introduit chez moi.
Ça a quelque chose de louche. Nous avions une propriété au
fond d'une baie, sur un point très élevé. Il était sûrement
chargé par les Allemands de préparer là une base pour leurs
sous-marins. Il y avait des choses qui m'étonnaient et que
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maintenant je comprends. Ainsi au début il ne pouvait pas
venir par le train avec les autres habitués. Moi je lui avais très
gentiment proposé une chambre dans le château. Hé bien,
non, il avait préféré habiter Doncières où il y avait
énormément de troupe. Tout ça sentait l'espionnage à plein
nez. » Pour la première des accusations dirigées contre le
baron de Charlus, celle d'être passé de mode, les gens du
monde ne donnaient que trop aisément raison à Mme
Verdurin. En fait, ils étaient ingrats, car M. de Charlus était
en quelque sorte leur poète, celui qui avait su dégager dans la
mondanité ambiante une sorte de poésie où il entrait de
l'histoire, de la beauté, du pittoresque, du comique, de la
frivole élégance. Mais les gens du monde, incapables de
comprendre cette poésie, n'en voyant aucune dans leur vie,
la cherchaient ailleurs et mettaient à mille pieds au-dessus de
M. de Charlus des hommes qui lui étaient infiniment
inférieurs, mais qui prétendaient mépriser le monde et, en
revanche, professaient des théories de sociologie et
d'économie politique. M. de Charlus s'enchantait à raconter
des mots involontairement lyriques, et à décrire les toilettes
savamment gracieuses de la duchesse de X..., la traitant de
femme sublime, ce qui le faisait considérer comme une
espèce d'imbécile par des femmes du monde qui trouvaient
la duchesse de X... une sotte sans intérêt, que les robes sont
faites pour être portées mais sans qu'on ait l'air d'y faire
aucune attention, et qui, elles, plus intelligentes, couraient à
la Sorbonne ou à la Chambre, si Deschanel devait parler.
Bref, les gens du monde s'étaient désengoués de M. de
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Charlus, non pas pour avoir trop pénétré, mais sans avoir
pénétré jamais sa rare valeur intellectuelle. On le trouvait «
avant-guerre », démodé, car ceux-là mêmes qui sont le plus
incapables de juger les mérites sont ceux qui pour les classer
adoptent le plus l'ordre de la mode ; ils n'ont pas épuisé, pas
même effleuré les hommes de mérite qu'il y avait dans une
génération, et maintenant il faut les condamner tous en bloc
car voici l'étiquette d'une génération nouvelle, qu'on ne
comprendra pas davantage. Quant à la deuxième accusation,
celle de germanisme, l'esprit juste-milieu des gens du monde
la leur faisait repousser, mais elle avait trouvé un interprète
inlassable et particulièrement cruel en Morel qui, ayant su
garder dans les journaux, et même dans le monde, la place
que M. de Charlus avait, en prenant, les deux fois, autant de
peine, réussi à lui faire obtenir, mais non pas ensuite à lui
faire retirer, poursuivait le baron d'une haine implacable ;
c'était non seulement cruel de la part de Morel, mais
doublement coupable, car quelles qu'eussent été ses relations
exactes avec le baron, il avait connu de lui ce qu'il cachait à
tant de gens, sa profonde bonté. M. de Charlus avait été avec
le violoniste d'une telle générosité, d'une telle délicatesse, lui
avait montré de tels scrupules de ne pas manquer à sa parole,
qu'en le quittant l'idée que Charlie avait emportée de lui
n'était nullement l'idée d'un homme vicieux (tout au plus
considérait-il le vice du baron comme une maladie) mais de
l'homme ayant le plus d'idées élevées qu'il eût jamais connu,
un homme d'une sensibilité extraordinaire, une manière de
saint. Il le niait si peu que, même brouillé avec lui, il disait
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sincèrement à des parents : « Vous pouvez lui confier votre
fils, il ne peut avoir sur lui que la meilleure influence. » Aussi
quand il cherchait par ses articles à le faire souffrir, dans sa
pensée ce qu'il bafouait en lui ce n'était pas le vice, c'était la
vertu. Un peu avant la guerre, de petites chroniques,
transparentes pour ce qu'on appelait les initiés, avaient
commencé à faire le plus grand tort à M. de Charlus. De
l'une intitulée : « Les mésaventures d'une douairière en us, les
vieux jours de la Baronne », Mme Verdurin avait acheté
cinquante exemplaires pour pouvoir la prêter à ses
connaissances, et M. Verdurin, déclarant que Voltaire même
n'écrivait pas mieux, en donnait lecture à haute voix. Depuis
la guerre le ton avait changé. L'inversion du baron n'était pas
seule dénoncée, mais aussi sa prétendue nationalité
germanique : « Frau Bosch », « Frau von den Bosch » étaient
les surnoms habituels de M. de Charlus. Un morceau d'un
caractère poétique avait ce titre emprunté à certains airs de
danse dans Beethoven : « Une Allemande ». Enfin deux
nouvelles : « Oncle d'Amérique et Tante de Francfort » et «
Gaillard d'arrière » lues en épreuves dans le petit clan,
avaient fait la joie de Brichot lui-même qui s'était écrié : «
Pourvu que très haute et très puissante Anastasie ne nous
caviarde pas ! » Les articles eux-mêmes étaient plus fins que
ces titres ridicules. Leur style dérivait de Bergotte mais d'une
façon à laquelle seul peut-être j'étais sensible, et voici
pourquoi. Les écrits de Bergotte n'avaient nullement influé
sur Morel. La fécondation s'était faite d'une façon toute
particulière et si rare que c'est à cause de cela seulement que
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je la rapporte ici. J'ai indiqué en son temps la manière si
spéciale que Bergotte avait, quand il parlait, de choisir ses
mots, de les prononcer. Morel, qui l'avait longtemps
rencontré, avait fait de lui alors des « imitations », où il
contrefaisait parfaitement sa voix, usant des mêmes mots
qu'il eût pris. Or maintenant, Morel pour écrire transcrivait
des conversations à la Bergotte, mais sans leur faire subir
cette transposition qui en eût fait du Bergotte écrit. Peu de
personnes ayant causé avec Bergotte, on ne reconnaissait pas
le ton, qui différait du style. Cette fécondation orale est si
rare que j'ai voulu la citer ici. Elle ne produit, d'ailleurs, que
des fleurs stériles.
Morel qui était au bureau de la presse et dont personne ne
connaissait la situation irrégulière affectait de trouver, son
sang français bouillant dans ses veines comme le jus des
raisins de Combray, que c'était peu de chose que d'être dans
un bureau pendant la guerre et feignait de vouloir s'engager
(alors qu'il n'avait qu'à rejoindre) pendant que Mme Verdurin
faisait tout ce qu'elle pouvait pour lui persuader de rester à
Paris. Certes, elle était indignée que M. de Cambremer, à son
âge, fût dans un état-major, et de tout homme qui n'allait pas
chez elle elle disait : « Où est-ce qu'il a encore trouvé le
moyen de se cacher celui-là ? », et si on affirmait que celui-là
était en première ligne depuis le premier jour, répondait sans
scrupule de mentir ou peut-être par habitude de se tromper :
« Mais pas du tout, il n'a pas bougé de Paris, il fait quelque
chose d'à peu près aussi dangereux que de promener un
ministre, c'est moi qui vous le dis, je vous en réponds, je le
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sais par quelqu'un qui l'a vu » ; mais pour les fidèles ce n'était
pas la même chose, elle ne voulait pas les laisser partir,
considérant la guerre comme une grande « ennuyeuse » qui
les faisait la lâcher ; aussi faisait-elle toutes les démarches
pour qu'ils restassent, ce qui lui donnerait le double plaisir de
les avoir à dîner et, quand ils n'étaient pas encore arrivés ou
déjà partis, de flétrir leur inaction. Encore fallait-il que le
fidèle se prêtât à cet embusquage, et elle était désolée de voir
Morel feindre de vouloir s'y montrer récalcitrant ; aussi lui
disait-elle : « Mais si, vous servez dans ce bureau, et plus
qu'au front. Ce qu'il faut, c'est d'être utile, faire vraiment
partie de la guerre, en être. Il y a ceux qui en sont et les
embusqués. Eh bien, vous, vous en êtes, et, soyez tranquille,
tout le monde le sait, personne ne vous jette la pierre. » Telle
dans des circonstances différentes, quand pourtant les
hommes n'étaient pas aussi rares et qu'elle n'était pas obligée
comme maintenant d'avoir surtout des femmes, si l'un d'eux
perdait sa mère, elle n'hésitait pas à lui persuader qu'il
pouvait sans inconvénient continuer à venir à ses réceptions.
« Le chagrin se porte dans le cœur. Vous voudriez aller au
bal (elle n'en donnait pas), je serais la première à vous le
déconseiller, mais ici, à mes petits mercredis ou dans une
baignoire, personne ne s'en étonnera. On sait bien que vous
avez du chagrin... » Maintenant les hommes étaient plus
rares, les deuils plus fréquents, inutiles même à les empêcher
d'aller dans le monde, la guerre suffisait. Elle voulait leur
persuader qu'ils étaient plus utiles à la France en restant à
Paris, comme elle leur eût assuré autrefois que le défunt eût
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été plus heureux de les voir se distraire. Malgré tout elle avait
peu d'hommes, peut-être regrettait-elle parfois d'avoir
consommé avec M. de Charlus une rupture sur laquelle il n'y
avait plus à revenir.
Mais si M. de Charlus et Mme Verdurin ne se
fréquentaient plus, chacun – avec quelques petites
différences sans grande importance – continuait, comme si
rien n'avait changé, Mme Verdurin à recevoir, M. de Charlus
à aller à ses plaisirs : par exemple, chez Mme Verdurin,
Cottard assistait maintenant aux réceptions dans un
uniforme de colonel de « l'île du Rêve », assez semblable à
celui d'un amiral haïtien et sur le drap duquel un large ruban
bleu ciel rappelait celui des « Enfants de Marie » ; quant à M.
de Charlus, se trouvant dans une ville d'où les hommes déjà
faits, qui avaient été jusqu'ici son goût, avaient disparu, il
faisait comme certains Français, amateurs de femmes en
France et vivant aux colonies : il avait, par nécessité d'abord,
pris l'habitude et ensuite le goût des petits garçons.
Encore le premier de ces traits caractéristiques du salon
Verdurin s'effaça-t-il assez vite, car Cottard mourut bientôt «
face à l'ennemi », dirent les journaux, bien qu'il n'eût pas
quitté Paris, mais se fût, en effet, surmené pour son âge,
suivi bientôt par M. Verdurin, dont la mort chagrina une
seule personne qui fut, le croirait-on, Elstir. J'avais pu étudier
son œuvre à un point de vue en quelque sorte absolu. Mais
lui, surtout au fur et à mesure qu'il vieillissait, la reliait
superstitieusement à la société qui lui avait fourni ses
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modèles et, après s'être ainsi, par l'alchimie des impressions,
transformée chez lui en œuvres d'art, lui avait donné son
public, ses spectateurs. De plus en plus enclin à croire
matériellement qu'une part notable de la beauté réside dans
les choses, ainsi que, pour commencer, il avait adoré en
Mme Elstir le type de beauté un peu lourde qu'il avait
poursuivie, caressé dans des peintures, des tapisseries, il
voyait disparaître avec M. Verdurin un des derniers vestiges
du cadre social, du cadre périssable – aussi vite caduc que les
modes vestimentaires elles-mêmes qui en font partie – qui
soutient un art, certifie son authenticité, comme la
Révolution en détruisant les élégances du XVIIIe aurait pu
désoler un peintre de Fêtes galantes ou affliger Renoir la
disparition de Montmartre et du Moulin de la Galette ; mais
surtout en M. Verdurin il voyait disparaître les yeux, le
cerveau, qui avaient eu de sa peinture la vision la plus juste,
où cette peinture, à l'état de souvenir aimé, résidait en
quelque sorte. Sans doute des jeunes gens avaient surgi qui
aimaient aussi la peinture, mais une autre peinture, et qui
n'avaient pas comme Swann, comme M. Verdurin, reçu des
leçons de goût de Whistler, des leçons de vérité de Monet,
leur permettant de juger Elstir avec justice. Aussi celui-ci se
sentait-il plus seul à la mort de M. Verdurin avec lequel il
était pourtant brouillé depuis tant d'années, et ce fut pour lui
comme un peu de la beauté de son œuvre qui s'éclipsait avec
un peu de ce qui existait dans l'univers de conscience de
cette beauté.
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Quant au changement qui avait affecté les plaisirs de M. de
Charlus, il resta intermittent. Entretenant une nombreuse
correspondance avec « le front » il ne manquait pas de
permissionnaires assez mûrs. En somme, d'une manière
générale, Mme Verdurin continua à recevoir et M. de
Charlus à aller à ses plaisirs comme si rien n'avait changé. Et
pourtant depuis deux ans l'immense être humain appelé
France et dont, même au point de vue purement matériel, on
ne ressent la beauté colossale que si on aperçoit la cohésion
des millions d'individus qui comme des cellules aux formes
variées le remplissent, comme autant de petits polygones
intérieurs, jusqu'au bord extrême de son périmètre, et si on
le voit à l'échelle où un infusoire, une cellule, verrait un
corps humain, c'est-à-dire grand comme le Mont Blanc,
s'était affronté en une gigantesque querelle collective avec cet
autre immense conglomérat d'individus qu'est l'Allemagne.
Au temps où je croyais ce qu'on disait, j'aurais été tenté, en
entendant l'Allemagne, puis la Bulgarie, puis la Grèce
protester de leurs intentions pacifiques, d'y ajouter foi. Mais
depuis que la vie avec Albertine et avec Françoise m'avait
habitué à soupçonner chez elles des pensées, des projets
qu'elles n'exprimaient pas, je ne laissais aucune parole juste
en apparence de Guillaume II, de Ferdinand de Bulgarie, de
Constantin de Grèce, tromper mon instinct qui devinait ce
que machinait chacun d'eux. Et sans doute mes querelles
avec Françoise, avec Albertine, n'avaient été que des
querelles particulières, n'intéressant que la vie de cette petite
cellule spirituelle qu'est un être. Mais de même qu'il est des
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corps d'animaux, des corps humains, c'est-à-dire des
assemblages de cellules dont chacun par rapport à une seule
est grand comme une montagne, de même il existe
d'énormes entassements organisés d'individus qu'on appelle
nations ; leur vie ne fait que répéter en les amplifiant la vie
des cellules composantes ; et qui n'est pas capable de
comprendre le mystère, les réactions, les lois de celles-ci, ne
prononcera que des mots vides quand il parlera des luttes
entre nations. Mais s'il est maître de la psychologie des
individus, alors ces masses colossales d'individus
conglomérés s'affrontant l'une l'autre prendront à ses yeux
une beauté plus puissante que la lutte naissant seulement du
conflit de deux caractères ; et il les verra à l'échelle où
verraient le corps d'un homme de haute taille des infusoires
dont il faudrait plus de dix mille pour remplir un cube d'un
millimètre de côté. Telles depuis quelque temps, la grande
figure France remplie jusqu'à son périmètre de millions de
petits polygones aux formes variées, et la figure remplie
d'encore plus de polygones Allemagne, avaient entre elles
deux une de ces querelles, comme en ont, dans une certaine
mesure, des individus.
Mais les coups qu'elles échangeaient étaient réglés par cette
boxe innombrable dont Saint-Loup m'avait exposé les
principes ; et parce que même en les considérant du point de
vue des individus elles en étaient de géants assemblages, la
querelle prenait des formes immenses et magnifiques,
comme le soulèvement d'un océan aux millions de vagues
qui essaye de rompre une ligne séculaire de falaises, comme
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des glaciers gigantesques qui tentent dans leurs oscillations
lentes et destructrices de briser le cadre de montagne où ils
sont circonscrits. Malgré cela, la vie continuait presque
semblable pour bien des personnes qui ont figuré dans ce
récit, et notamment pour M. de Charlus et pour les
Verdurin, comme si les Allemands n'avaient pas été aussi
près d'eux, la permanence menaçante bien qu'actuellement
enrayée d'un péril nous laissant entièrement indifférents si
nous ne nous le représentons pas. Les gens vont d'habitude à
leurs plaisirs sans penser jamais que, si les influences
étiolantes et modératrices venaient à cesser, la prolifération
des infusoires atteindrait son maximum, c'est-à-dire, faisant
en quelques jours un bond de plusieurs millions de lieues,
passerait d'un millimètre cube à une masse un million de fois
plus grande que le soleil, ayant en même temps détruit tout
l'oxygène, toutes les substances dont nous vivons, et qu'il n'y
aurait plus ni humanité, ni animaux, ni terre, ou, sans songer
qu'une irrémédiable et fort vraisemblable catastrophe
pourrait être déterminée dans l'éther par l'activité incessante
et frénétique que cache l'apparente immutabilité du soleil, ils
s'occupent de leurs affaires sans penser à ces deux mondes,
l'un trop petit, l'autre trop grand pour qu'ils aperçoivent les
menaces cosmiques qu'ils font planer autour de nous. Tels
les Verdurin donnaient des dîners (puis bientôt Mme
Verdurin seule, après la mort de M. Verdurin) et M. de
Charlus allait à ses plaisirs sans guère songer que les
Allemands fussent – immobilisés, il est vrai, par une
sanglante barrière toujours renouvelée – à une heure
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d'automobile de Paris. Les Verdurin y pensaient pourtant,
dira-t-on, puisqu'ils avaient un salon politique où on discutait
chaque soir de la situation, non seulement des armées, mais
des flottes. Ils pensaient, en effet, à ces hécatombes de
régiments anéantis, de passagers engloutis, mais une
opération inverse multiplie à tel point ce qui concerne notre
bien être et divise par un chiffre tellement formidable ce qui
ne le concerne pas, que la mort de millions d'inconnus nous
chatouille à peine et presque moins désagréablement qu'un
courant d'air. Mme Verdurin, souffrant pour ses migraines
de ne plus avoir de croissant à tremper dans son café au lait,
avait obtenu de Cottard une ordonnance qui lui permettait
de s'en faire faire dans certain restaurant dont nous avons
parlé. Cela avait été presque aussi difficile à obtenir des
pouvoirs publics que la nomination d'un général. Elle reprit
son premier croissant le matin où les journaux narraient le
naufrage du Lusitania. Tout en trempant le croissant dans le
café au lait et donnant des pichenettes à son journal pour
qu'il pût se tenir grand ouvert sans qu'elle eût besoin de
détourner son autre main des trempettes, elle disait : « Quelle
horreur ! Cela dépasse en horreur les plus affreuses tragédies.
» Mais la mort de tous ces noyés ne devait lui apparaître que
réduite au milliardième, car tout en faisant, la bouche pleine,
ces réflexions désolées, l'air qui surnageait sur sa figure,
amené probablement là par la saveur du croissant, si
précieux contre la migraine, était plutôt celui d'une douce
satisfaction.
***
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M. de Charlus allait plus loin que ne pas souhaiter
passionnément la victoire de la France ; il souhaitait sans se
l'avouer sinon que l'Allemagne triomphât, du moins qu'elle
ne fût pas écrasée comme tout le monde le souhaitait. La
cause en était que dans ces querelles les grands ensembles
d'individus appelés nations se comportent eux-mêmes, dans
une certaine mesure, comme des individus. La logique qui les
conduit est tout intérieure et perpétuellement refondue par la
passion, comme celle de gens affrontés dans une querelle
amoureuse ou domestique, comme la querelle d'un fils avec
son père, d'une cuisinière avec sa patronne, d'une femme
avec son mari. Celle qui a tort croit cependant avoir raison –
comme c'était le cas pour l'Allemagne – et celle qui a raison
donne parfois de son bon droit des arguments qui ne lui
paraissent irréfutables que parce qu'ils répondent à sa
passion. Dans ces querelles d'individus, pour être convaincu
du bon droit de n'importe laquelle des parties, le plus sûr est
d'être cette partie-là, un spectateur ne l'approuvera jamais
aussi complètement. Or, dans les nations, l'individu, s'il fait
vraiment partie de la nation, n'est qu'une cellule de l'individu
: nation. Le bourrage de crâne est un mot vide de sens. Eûton dit aux Français qu'ils allaient être battus qu'aucun
Français ne se fût moins désespéré que si on lui avait dit qu'il
allait être tué par les berthas. Le véritable bourrage de crâne
on se le fait à soi-même par l'espérance qui est un genre de
l'instinct de conservation d'une nation si l'on est vraiment
membre vivant de cette nation. Pour rester aveugle sur ce
qu'a d'injuste la cause de l'individu Allemagne, pour
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reconnaître à tout instant ce qu'a de juste la cause de
l'individu France, le plus sûr n'était pas pour un Allemand de
n'avoir pas de jugement, pour un Français d'en avoir, le plus
sûr pour l'un ou pour l'autre c'était d'avoir du patriotisme. M.
de Charlus, qui avait de rares qualités morales, qui était
accessible à la pitié, généreux, capable d'affection, de
dévouement, en revanche, pour des raisons diverses – parmi
lesquelles celle d'avoir eu une mère duchesse de Bavière
pouvait jouer un rôle – n'avait pas de patriotisme. Il était, par
conséquent, du corps France comme du corps Allemagne. Si
j'avais été moi-même dénué de patriotisme, au lieu de me
sentir une des cellules du corps France, il me semble que ma
façon de juger la querelle n'eût pas été la même qu'elle eût pu
être autrefois. Dans mon adolescence, où je croyais
exactement ce qu'on me disait, j'aurais sans doute, en
entendant le gouvernement allemand protester de sa bonne
foi, été tenté de ne pas la mettre en doute, mais depuis
longtemps je savais que nos pensées ne s'accordent pas
toujours avec nos paroles.
Mais enfin, je ne peux que supposer ce que j'aurais fait si je
n'avais pas été acteur, si je n'avais pas été une partie de
l'acteur France, comme dans mes querelles avec Albertine,
où mon regard triste et ma gorge oppressée étaient une
partie de mon individu passionnément intéressé à ma cause,
je ne pouvais arriver au détachement. Celui de M. de Charlus
était complet. Or, dès lors qu'il n'était plus qu'un spectateur,
tout devait le porter à être germanophile, du moment que,
n'étant pas véritablement français, il vivait en France. Il était
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très fin, les sots sont en tous pays les plus nombreux ; nul
doute que, vivant en Allemagne, les sots d'Allemagne
défendant avec sottise et passion une cause injuste ne
l'eussent irrité ; mais vivant en France, les sots français
défendant avec sottise et passion une cause juste ne
l'irritaient pas moins. La logique de la passion, fût-elle au
service du meilleur droit, n'est jamais irréfutable pour celui
qui n'est pas passionné. M. de Charlus relevait avec finesse
chaque faux raisonnement des patriotes. La satisfaction que
cause à un imbécile son bon droit et la certitude du succès
vous laissent particulièrement irrité. M. de Charlus l'était par
l'optimisme triomphant de gens qui ne connaissaient pas
comme lui l'Allemagne et sa force, qui croyaient chaque
mois à un écrasement pour le mois suivant, et au bout d'un
an n'étaient pas moins assurés dans un nouveau pronostic,
comme s'ils n'en avaient pas porté, avec tout autant
d'assurance, d'aussi faux, mais qu'ils avaient oubliés disant, si
on le leur rappelait, que « ce n'était pas la même chose ». Or,
M. de Charlus, qui avait certaines profondeurs dans l'esprit,
n'eût peut-être pas compris en Art que le « ce n'est pas la
même chose » opposé par les détracteurs de Monet à ceux
qui leur disent « on a dit la même chose pour Delacroix »,
répondait à la même tournure d'esprit. Enfin M. de Charlus
était pitoyable, l'idée d'un vaincu lui faisait mal, il était
toujours pour le faible, il ne lisait pas les chroniques
judiciaires pour ne pas avoir à souffrir dans sa chair des
angoisses du condamné et de l'impossibilité d'assassiner le
juge, le bourreau, et la foule ravie de voir que « justice est
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faite ». Il était certain, en tout cas, que la France ne pouvait
plus être vaincue, et, en revanche, il savait que les Allemands
souffraient de la famine, seraient obligés un jour ou l'autre de
se rendre à merci. Cette idée elle aussi lui était rendue plus
désagréable par ce fait qu'il vivait en France. Ses souvenirs
de l'Allemagne étaient malgré tout lointains, tandis que les
Français qui parlaient de l'écrasement de l'Allemagne avec
une joie qui lui déplaisait, c'étaient des gens dont les défauts
lui étaient connus, la figure antipathique. Dans ces cas-là on
plaint plus ceux qu'on ne connaît pas, ceux qu'on imagine,
que ceux qui sont tout près de nous dans la vulgarité de la
vie quotidienne, à moins alors d'être tout à fait ceux-là, de ne
faire qu'une chair avec eux ; le patriotisme fait ce miracle, on
est pour son pays comme on est pour soi-même dans une
querelle amoureuse. Aussi la guerre était-elle pour M. de
Charlus une culture extraordinairement féconde de ces
haines qui chez lui naissaient en un instant, avaient une
durée très courte mais pendant laquelle il se fût livré à toutes
les violences. En lisant les journaux, l'air de triomphe des
chroniqueurs présentant chaque jour l'Allemagne à bas : « La
Bête aux abois, réduite à l'impuissance », alors que le
contraire n'était que trop vrai, l'enivrait de rage par leur
sottise allègre et féroce. Les journaux étaient en partie
rédigés à ce moment-là par des gens connus qui trouvaient là
une manière de « reprendre du service », par des Brichot, par
des Norpois, par des Legrandin. M. de Charlus rêvait de les
rencontrer, de les accabler des plus amers sarcasmes.
Toujours particulièrement instruit des tares sexuelles, il les
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connaissait chez quelques-uns qui, pensant qu'elles étaient
ignorées chez eux, se complaisaient à les dénoncer chez les
souverains des « Empires de proie », chez Wagner, etc. Il
brûlait de se trouver face à face avec eux, de leur mettre le
nez dans leur propre vice devant tout le monde et de laisser
ces insulteurs d'un vaincu, déshonorés et pantelants. M. de
Charlus enfin avait encore des raisons plus particulières
d'être ce germanophile. L'une était qu'homme du monde, il
avait beaucoup vécu parmi les gens du monde, parmi les
gens honorables, parmi les hommes d'honneur, de ces gens
qui ne serreront pas la main à une fripouille, il connaissait
leur délicatesse et leur dureté ; il les savait insensibles aux
larmes d'un homme qu'ils font chasser d'un cercle ou avec
qui ils refusent de se battre, dût leur acte de « propreté
morale » amener la mort de la mère de la brebis galeuse.
Malgré lui, quelque admiration qu'il eût pour l'Angleterre,
cette Angleterre impeccable, incapable de mensonge,
empêchant le blé et le lait d'entrer en Allemagne, c'était un
peu cette nation d'hommes d'honneur, de témoins patentés,
d'arbitres en affaires d'honneur ; tandis qu'il savait que des
gens tarés, des fripouilles comme certains personnages de
Dostoïewski peuvent être meilleurs, et je n'ai jamais pu
comprendre pourquoi il leur identifiait les Allemands, le
mensonge et la ruse ne leur suffisant pas pour faire préjuger
un bon cœur qu'il ne semble pas que les Allemands aient
montré. Enfin, un dernier trait complétera cette
germanophilie de M. de Charlus : il la devait, et par une
réaction très bizarre, à son « charlisme ». Il trouvait les
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Allemands fort laids, peut-être parce qu'ils étaient un peu
trop près de son sang ; il était fou des Marocains, mais
surtout des Anglo-Saxons en qui il voyait comme des statues
vivantes de Phidias. Or, chez lui, le plaisir n'allait pas sans
une certaine idée cruelle dont je ne savais pas encore à ce
moment-là toute la force ; l'homme qu'il aimait lui
apparaissait comme un délicieux bourreau. Il eût cru, en
prenant parti contre les Allemands, agir comme il n'agissait
que dans les heures de volupté, c'est-à-dire en sens contraire
de sa nature pitoyable, c'est-à-dire enflammée pour le mal
séduisant et écrasant la vertueuse laideur. Il en fut encore
ainsi au moment du meurtre de Raspoutine, meurtre auquel
on fut surpris, d'ailleurs, de trouver un si fort cachet de
couleur russe, dans un souper à la Dostoïewski (impression
qui eût été encore bien plus forte si le public n'avait pas
ignoré de tout cela ce que savait parfaitement M. de
Charlus), parce que la vie nous déçoit tellement que nous
finissons par croire que la littérature n'a aucun rapport avec
elle et que nous sommes stupéfaits de voir que les précieuses
idées que les livres nous ont montrées s'étalent, sans peur de
s'abîmer, gratuitement, naturellement, en pleine vie
quotidienne et, par exemple, qu'un souper, un meurtre,
événement russe, ont quelque chose de russe.
La guerre se prolongeait indéfiniment et ceux qui avaient
annoncé de source sûre, il y avait déjà plusieurs années, que
les pourparlers de paix étaient commencés, spécifiant les
clauses du traité, ne prenaient pas la peine, quand ils
causaient avec vous, de s'excuser de leurs fausses nouvelles.
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Ils les avaient oubliées et étaient prêts à en propager
sincèrement d'autres, qu'ils oublieraient aussi vite. C'était
l'époque où il y avait continuellement des raids de gothas ;
l'air grésillait perpétuellement d'une vibration vigilante et
sonore d'aéroplanes français. Mais parfois retentissait la
sirène comme un appel déchirant de Walkyrie – seule
musique allemande qu'on eût entendue depuis la guerre –
jusqu'à l'heure où les pompiers annonçaient que l'alerte était
finie tandis qu'à côté d'eux la berloque, comme un invisible
gamin, commentait à intervalles réguliers la bonne nouvelle
et jetait en l'air son cri de joie.
M. de Charlus était étonné de voir que même des gens
comme Brichot qui avant la guerre avaient été militaristes,
reprochant surtout à la France de ne pas l'être assez, ne se
contentaient pas de reprocher les excès de son militarisme à
l'Allemagne, mais même son admiration de l'armée. Sans
doute ils changeaient d'avis dès qu'il s'agissait de ralentir la
guerre contre l'Allemagne et dénonçaient avec raison les
pacifistes. Mais, par exemple, Brichot, ayant accepté, malgré
ses yeux, de rendre compte dans des conférences de certains
ouvrages parus chez les neutres, exaltait le roman d'un Suisse
où sont raillés comme semence de militarisme deux enfants
tombant d'une admiration symbolique à la vue d'un dragon.
Cette raillerie avait de quoi déplaire pour d'autres raisons à
M. de Charlus, lequel estimait qu'un dragon peut être
quelque chose de fort beau. Mais surtout il ne comprenait
pas l'admiration de Brichot, sinon pour le livre, que le baron
n'avait pas lu, du moins pour son esprit, si différent de celui
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qui animait Brichot avant la guerre. Alors tout ce que faisait
un militaire était bien, fût-ce les irrégularités du général de
Boisdeffre, les travestissements et machinations du colonel
du Paty de Clam, le faux du colonel Henry. Par quelle volteface extraordinaire (et qui n'était en réalité qu'une autre face
de la même passion fort noble, la passion patriotique,
obligée, de militariste qu'elle était quand elle luttait contre le
dreyfusisme, lequel était de tendances antimilitaristes, à se
faire presque antimilitariste puisque c'était maintenant contre
la Germanie sur-militariste qu'elle luttait) Brichot s'écriait-il :
« Oh ! le spectacle bien mirifique et digne d'attirer la jeunesse
d'un siècle tout de brutalité, ne connaissant que le culte de la
force : un dragon ! On peut juger de ce que sera la vile
soldatesque d'une génération élevée dans le culte de ces
manifestations de force brutale ! » « Voyons, me dit M. de
Charlus, vous connaissez Brichot et Cambremer. Chaque
fois que je les vois ils me parlent de l'extraordinaire manque
de psychologie de l'Allemagne. Entre nous, croyez-vous que
jusqu'ici ils avaient eu grand souci de la psychologie, et que
même maintenant ils soient capables d'en faire preuve ? Mais
croyez bien que je n'exagère pas. Qu'il s'agisse du plus grand
Allemand, de Nietzsche, de Gœthe, vous entendrez Brichot
dire : « Avec l'habituel manque de psychologie qui caractérise
la race teutonne ». Il y a évidemment dans la guerre des
choses qui me font plus de peine. Mais avouez que c'est
énervant. Norpois est plus fin, je le reconnais, bien qu'il n'ait
pas cessé de se tromper depuis le commencement. Mais
qu'est-ce que ça veut dire que ces articles qui excitent
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l'enthousiasme universel ? Mon cher Monsieur, vous savez
aussi bien que moi ce que vaut Brichot, que j'aime beaucoup,
même depuis le schisme qui m'a séparé de sa petite église, à
cause de quoi je le vois beaucoup moins. Mais enfin j'ai une
certaine considération pour ce régent de collège, beau
parleur et fort instruit, et j'avoue que c'est fort touchant qu'à
son âge, et diminué comme il est, car il l'est très
sensiblement depuis quelques années, il se soit remis, comme
il dit, à servir. Mais enfin la bonne intention est une chose, le
talent en est une autre, et Brichot n'a jamais eu de talent.
J'avoue que je partage son admiration pour certaines
grandeurs de la guerre actuelle. Tout au plus est-il étrange
qu'un partisan aveugle de l'Antiquité comme Brichot, qui
n'avait pas assez de sarcasmes pour Zola trouvant plus de
poésie dans un ménage d'ouvriers, dans la mine, que dans les
palais historiques, ou pour Goncourt mettant Diderot audessus d'Homère et Watteau au-dessus de Raphaël, ne cesse
de nous répéter que les Thermopyles, qu'Austerlitz même, ce
n'était rien à côté de Vauquois. Cette fois, du reste, le public,
qui avait résisté aux modernistes de la littérature et de l'art,
suit ceux de la guerre, parce que c'est une mode adoptée de
penser ainsi et puis que les petits esprits sont écrasés non par
la beauté, mais par l'énormité de l'action. On n'écrit plus
Kolossal qu'avec un K, mais, au fond, ce devant quoi on
s'agenouille c'est bien du colossal.
« C'est, du reste, une étrange chose, ajouta M. de Charlus
de la petite voix pointue qu'il prenait par moments. J'entends
des gens qui ont l'air très heureux toute la journée, qui
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prennent d'excellents cocktails, déclarer qu'ils ne pourront
aller jusqu'au bout de la guerre, que leur cœur n'aura pas la
force, qu'ils ne peuvent pas penser à autre chose, qu'ils
mourront tout d'un coup, et le plus extraordinaire, c'est que
cela arrive en effet. Comme c'est curieux ! Est-ce une
question d'alimentation, parce qu'ils n'ingéreront plus que
des choses mal préparées, ou parce que pour prouver leur
zèle ils s'attellent à des besognes vaines mais qui détruisent le
régime qui les conservait ? Mais enfin j'enregistre un nombre
étonnant de ces étranges morts prématurées, prématurées au
moins au gré du défunt. Je ne sais plus ce que je vous disais,
que Brichot et Norpois admiraient cette guerre, mais quelle
singulière manière d'en parler ! D'abord avez-vous remarqué
ce pullulement d'expressions nouvelles qu'emploie Norpois
qui, quand elles ont fini par s'user à force d'être employées
tous les jours – car vraiment il est infatigable, et je crois que
c'est la mort de ma tante Villeparisis qui lui a donné une
seconde jeunesse, – sont immédiatement remplacées par
d'autres lieux communs ? Autrefois je me rappelle que vous
vous amusiez à noter ces modes de langage qui
apparaissaient, se maintenaient, puis disparaissaient : celui
qui sème le vent récolte la tempête ; les chiens aboient, la
caravane passe ; faites-moi de bonne politique et je vous
ferai de bonnes finances, disait le baron Louis ; il y a des
symptômes qu'il serait exagéré de prendre au tragique mais
qu'il convient de prendre au sérieux ; travailler pour le roi de
Prusse (celle-là a d'ailleurs ressuscité, ce qui était infaillible).
Hé bien, depuis, hélas, que j'en ai vu mourir ! Nous avons eu
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: le chiffon de papier, les empires de proie, la fameuse kultur
qui consiste à assassiner des femmes et des enfants sans
défense, la victoire appartient, comme disent les Japonais, à
celui qui sait souffrir un quart d'heure de plus que l'autre, les
Germano-Touraniens, la barbarie scientifique – si nous
voulons gagner la guerre, selon la forte expression de M.
Lloyd George – enfin ça ne se compte plus, et le mordant
des troupes, et le cran des troupes. Même la syntaxe de
l'excellent Norpois subit du fait de la guerre une altération
aussi profonde que la fabrication du pain ou la rapidité des
transports. Avez-vous remarqué que l'excellent homme,
tenant à proclamer ses désirs comme une vérité sur le point
d'être réalisée, n'ose pas tout de même employer le futur pur
et simple, qui risquerait d'être contredit par les événements,
mais a adopté comme signe de ce temps le verbe savoir ? »
J'avouai à M. de Charlus que je ne comprenais pas bien ce
qu'il voulait dire. Il me faut noter ici que le duc de
Guermantes ne partageait nullement le pessimisme de son
frère. Il était, de plus, aussi anglophile que M. de Charlus
était anglophobe. Enfin il tenait M. Caillaux pour un traître
qui méritait mille fois d'être fusillé. Quand son frère lui
demandait des preuves de cette trahison, M. de Guermantes
répondait que s'il ne fallait condamner que les gens qui
signent un papier où ils déclarent « j'ai trahi » on ne punirait
jamais le crime de trahison. Mais pour le cas où je n'aurais
pas l'occasion d'y revenir, je noterai aussi que, deux ans plus
tard, le duc de Guermantes, animé du plus pur
anticaillautisme, rencontra un attaché militaire anglais et sa
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femme, couple remarquablement lettré avec lequel il se lia,
comme au temps de l'affaire Dreyfus avec les trois dames
charmantes ; que dès le premier jour il eut la stupéfaction,
parlant de Caillaux dont il estimait la condamnation certaine
et le crime patent, d'entendre le couple charmant et lettré
dire : « Mais il sera probablement acquitté, il n'y a
absolument rien contre lui. » M. de Guermantes essaya
d'alléguer que M. de Norpois, dans sa déposition, avait dit en
regardant Caillaux atterré : « Monsieur Caillaux, vous êtes le
Giolitti de la France. » Mais le couple charmant avait souri,
tourné M. de Norpois en ridicule, cité des preuves de son
gâtisme et conclu qu'il avait dit cela devant M. Caillaux
atterré, disait le Figaro, mais probablement, en réalité, devant
M. Caillaux narquois. Les opinions du duc de Guermantes
n'avaient pas tardé à changer. Attribuer ce changement à
l'influence d'une Anglaise n'est pas aussi extraordinaire que
cela eût pu paraître si on l'eût prophétisé même en 1919, où
les Anglais n'appelaient les Allemands que les Huns et
réclamaient une féroce condamnation contre les coupables.
Leur opinion à eux aussi devait changer et toute décision
être approuvée par eux qui pouvait contrister la France et
venir en aide à l'Allemagne. Pour revenir à M. de Charlus : «
Mais si, répondit-il à l'aveu que je ne le comprenais pas : «
savoir », dans les articles de Norpois, est le signe du futur,
c'est-à-dire le signe des désirs de Norpois et des désirs de
nous tous d'ailleurs, ajouta-t-il, peut-être sans une complète
sincérité, vous comprenez bien que si « savoir » n'était pas
devenu le simple signe du futur, on comprendrait à la rigueur
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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que le sujet de ce verbe pût être un pays, par exemple chaque
fois que Norpois dit : « L'Amérique ne saurait rester
indifférente à ces violations répétées du droit », « La
monarchie bicéphale ne saurait manquer de venir à
résipiscence ». Il est clair que de telles phrases expriment les
désirs de Norpois (comme les miens, comme les vôtres),
mais enfin, là le verbe peut encore garder malgré tout son
sens ancien, car un pays peut « savoir », l'Amérique peut «
savoir », la monarchie « bicéphale » elle-même peut « savoir »
(malgré l'éternel manque de psychologie), mais le doute n'est
plus possible quand Norpois écrit : « Ces dévastations
systématiques ne sauraient persuader aux neutres », « La
région des lacs ne saurait manquer de tomber à bref délai
aux mains des alliés », « Les résultats de ces élections
neutralistes ne sauraient refléter l'opinion de la grande
majorité du pays. » Or il est certain que ces dévastations, ces
régions et ces résultats de votes sont des choses inanimées
qui ne peuvent pas « savoir ». Par cette formule Norpois
adresse simplement aux neutres l'injonction (à laquelle j'ai le
regret de constater qu'ils ne semblent pas obéir) de sortir de
la neutralité ou aux régions des lacs de ne plus appartenir aux
« Boches » (M. de Charlus mettait à prononcer le mot «
boche » le même genre de hardiesse que jadis dans le train de
Balbec à parler des hommes dont le goût n'est pas pour les
femmes). D'ailleurs, avez-vous remarqué avec quelles ruses
Norpois a toujours commencé, dès 1914, ses articles aux
neutres ? Il commence par déclarer que, certes, la France n'a
pas à s'immiscer dans la politique de l'Italie ou de la
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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Roumanie ou de la Bulgarie, etc. C'est à ces puissances seules
qu'il convient de décider en toute indépendance et en ne
consultant que l'intérêt national si elles doivent ou non sortir
de la neutralité. Mais si ces premières déclarations de l'article
(ce qu'on eût appelé autrefois l'exorde) sont si remarquables
et désintéressées, le morceau suivant l'est généralement
beaucoup moins. Toutefois, en continuant, dit en substance
Norpois, « il est bien clair que seules tireront un bénéfice
matériel de la lutte les nations qui se seront rangées du côté
du Droit et de la Justice. On ne peut attendre que les alliés
récompensent, en leur octroyant leurs territoires d'où s'élève
depuis des siècles la plainte de leurs frères opprimés, les
peuples qui, suivant la politique de moindre effort, n'auront
pas mis leur épée au service des alliés ». Ce premier pas fait
vers un conseil d'intervention, rien n'arrête plus Norpois, ce
n'est plus seulement le principe mais l'époque de
l'intervention sur lesquels il donne des conseils de moins en
moins déguisés. « Certes, dit-il en faisant ce qu'il appellerait
lui-même le bon apôtre, c'est à l'Italie, à la Roumanie seules
de décider de l'heure opportune et de la forme sous laquelle
il leur conviendra d'intervenir. Elles ne peuvent pourtant
ignorer qu'à trop tergiverser elles risquent de laisser passer
l'heure. Déjà les sabots des cavaliers russes font frémir la
Germanie traquée d'une indicible épouvante. Il est bien
évident que les peuples qui n'auront fait que voler au secours
de la victoire, dont on voit déjà l'aube resplendissante,
n'auront nullement droit à cette même récompense qu'ils
peuvent encore en se hâtant, etc. » C'est comme au théâtre
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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quand on dit : « Les dernières places qui restent ne tarderont
pas à être enlevées. Avis aux retardataires. » Raisonnement
d'autant plus stupide que Norpois le refait tous les six mois,
et dit périodiquement à la Roumanie : « L'heure est venue
pour la Roumanie de savoir si elle veut ou non réaliser ses
aspirations nationales. Qu'elle attende encore, il risque d'être
trop tard. » Or, depuis deux ans qu'il le dit, non seulement le
« trop tard » n'est pas encore venu, mais on ne cesse de
grossir les offres qu'on fait à la Roumanie. De même il invite
la France, etc., à intervenir en Grèce en tant que puissance
protectrice parce que le traité qui liait la Grèce à la Serbie n'a
pas été tenu. Or, de bonne foi, si la France n'était pas en
guerre et ne souhaitait pas le concours ou la neutralité
bienveillante de la Grèce, aurait-elle l'idée d'intervenir en tant
que puissance protectrice, et le sentiment moral qui la
pousse à se révolter parce que la Grèce n'a pas tenu ses
engagements avec la Serbie ne se tait-il pas aussi dès qu'il
s'agit de violation tout aussi flagrante de la Roumanie et de
l'Italie qui, avec raison, je le crois, comme la Grèce aussi,
n'ont pas rempli leurs devoirs, moins impératifs et étendus
qu'on ne dit, d'alliés de l'Allemagne. La vérité c'est que les
gens voient tout par leur journal, et comment pourraient-ils
faire
autrement
puisqu'ils
ne
connaissent
pas
personnellement les gens ni les événements dont il s'agit ?
Au temps de l'affaire qui passionnait si bizarrement à une
époque dont il est convenu de dire que nous sommes
séparés par des siècles, car les philosophes de la guerre ont
accrédité que tout lien est rompu avec le passé, j'étais choqué
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de voir des gens de ma famille accorder toute leur estime à
des anticléricaux, anciens communards que leur journal leur
avait présentés comme antidreyfusards, et honnir un général
bien né et catholique mais révisionniste. Je ne le suis pas
moins de voir tous les Français exécrer l'Empereur FrançoisJoseph qu'ils vénéraient, avec raison, je peux vous le dire,
moi qui l'ai beaucoup connu et qu'il veut bien traiter en
cousin. Ah ! je ne lui ai pas écrit depuis la guerre, ajouta-t-il
comme avouant hardiment une faute qu'il savait très bien
qu'on ne pouvait blâmer. Si, la première année, et une seule
fois. Mais qu'est-ce que vous voulez, cela ne change rien à
mon respect pour lui, mais j'ai ici beaucoup de jeunes
parents qui se battent dans nos lignes et qui trouveraient, je
le sais, fort mauvais que j'entretienne une correspondance
suivie avec le chef d'une nation en guerre avec nous. Que
voulez-vous ? me critique qui voudra, ajouta-t-il, comme
s'exposant hardiment à mes reproches, je n'ai pas voulu
qu'une lettre signée Charlus arrivât en ce moment à Vienne.
La plus grande critique que j'adresserais au vieux souverain,
c'est qu'un seigneur de son rang, chef d'une des maisons les
plus anciennes et les plus illustres d'Europe, se soit laissé
mener par ce petit hobereau, fort intelligent d'ailleurs, mais
enfin par un simple parvenu comme Guillaume de
Hohenzollern. Ce n'est pas une des anomalies les moins
choquantes de cette guerre. » Et comme, dès qu'il se
replaçait au point de vue nobiliaire, qui pour lui au fond
dominait tout, M. de Charlus arrivait à d'extraordinaires
enfantillages, il me dit du même ton qu'il m'eût parlé de la
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Marne ou de Verdun qu'il y avait des choses capitales et fort
curieuses que ne devrait pas omettre celui qui écrirait
l'histoire de cette guerre. « Ainsi, me dit-il, par exemple, tout
le monde est si ignorant que personne n'a fait remarquer
cette chose si marquante : le grand maître de l'ordre de
Malte, qui est un pur boche, n'en continue pas moins de
vivre à Rome où il jouit, en tant que grand maître de notre
ordre, du privilège de l'exterritorialité. C'est intéressant »,
ajouta-t-il d'un air de me dire : « Vous voyez que vous n'avez
pas perdu votre soirée en me rencontrant. » Je le remerciai et
il prit l'air modeste de quelqu'un qui n'exige pas de salaire. «
Qu'est-ce que j'étais donc en train de vous dire ? Ah ! oui,
que les gens haïssaient maintenant François-Joseph, d'après
leur journal. Pour le roi Constantin de Grèce et le tzar de
Bulgarie, le public a oscillé, à diverses reprises, entre
l'aversion et la sympathie, parce qu'on disait tour à tour qu'ils
se mettaient du côté de l'Entente ou de ce que Norpois
appelle les Empires centraux. C'est comme quand il nous
répète à tout moment que « l'heure de Venizelos va sonner ».
Je ne doute pas que M. Venizelos soit un homme d'État
plein de capacité, mais qui nous dit que les Grecs désirent
tant que cela Venizelos ? Il voulait, nous dit-on, que la Grèce
tînt ses engagements envers la Serbie. Encore faudrait-il
savoir quels étaient ces engagements et s'ils étaient plus
étendus que ceux que l'Italie et la Roumanie ont cru pouvoir
violer. Nous avons de la façon dont la Grèce exécute ses
traités et respecte sa constitution un souci que nous
n'aurions certainement pas si ce n'était pas notre intérêt.
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Qu'il n'y ait pas eu la guerre, croyez-vous que les puissances
« garantes » auraient même fait attention à la dissolution des
Chambres ? Je vois simplement qu'on retire un à un ses
appuis au Roi de Grèce pour pouvoir le jeter dehors ou
l'enfermer le jour où il n'aura plus d'armée pour le défendre.
Je vous disais que le public ne juge le Roi de Grèce et le Roi
des Bulgares que d'après les journaux. Et comment
pourraient-ils penser sur eux autrement que par le journal
puisqu'ils ne les connaissent pas ? Moi je les ai vus
énormément, j'ai beaucoup connu, quand il était diadoque,
Constantin de Grèce, qui était une pure merveille. J'ai
toujours pensé que l'Empereur Nicolas avait eu un énorme
sentiment pour lui. En tout bien tout honneur, bien entendu.
La princesse Christian en parlait ouvertement, mais c'est une
gale. Quant au tzar des Bulgares, c'est une fine coquine, une
vraie affiche, mais très intelligent, un homme remarquable. Il
m'aime beaucoup. »
M. de Charlus, qui pouvait être si agréable, devenait odieux
quand il abordait ces sujets. Il y apportait la satisfaction qui
agace déjà chez un malade qui vous fait tout le temps valoir
sa bonne santé. J'ai souvent pensé que, dans le tortillard de
Balbec, les fidèles qui souhaitaient tant les aveux devant
lesquels il se dérobait n'auraient peut-être pas pu supporter
cette espèce d'ostentation d'une manie et, mal à l'aise,
respirant mal comme dans une chambre de malade ou
devant un morphinomane qui tirerait devant vous sa
seringue, ce fussent eux qui eussent mis fin aux confidences
qu'ils croyaient désirer. De plus, on était agacé d'entendre
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accuser tout le monde, et probablement bien souvent sans
aucune espèce de preuve, par quelqu'un qui s'omettait luimême de la catégorie spéciale à laquelle on savait pourtant
qu'il appartenait et où il rangeait si volontiers les autres.
Enfin, lui si intelligent, s'était fait à cet égard une petite
philosophie étroite (à la base de laquelle il y avait peut-être
un rien des curiosités que Swann trouvait dans « la vie »)
expliquant tout par ces causes spéciales et où, comme
chaque fois qu'on verse dans son défaut, il était non
seulement au-dessous de lui-même mais exceptionnellement
satisfait de lui. C'est ainsi que lui si grave, si noble, eut le
sourire le plus niais pour achever la phrase que voici : «
Comme il y a de fortes présomptions du même genre que
pour Ferdinand de Cobourg à l'égard de l'Empereur
Guillaume, cela pourrait être la cause pour laquelle le tzar
Ferdinand s'est mis du côté des « Empires de proie ». Dame,
au fond, c'est très compréhensible, on est indulgent pour une
sœur, on ne lui refuse rien. Je trouve que ce serait très joli
comme explication de l'alliance de la Bulgarie avec
l'Allemagne. » Et de cette explication stupide M. de Charlus
rit longuement comme s'il l'avait vraiment trouvée très
ingénieuse alors que, même si elle avait reposé sur des faits
vrais, elle était aussi puérile que les réflexions que M. de
Charlus faisait sur la guerre quand il la jugeait en tant que
féodal ou que chevalier de Saint-Jean de Jérusalem. Il finit
par une remarque juste : « Ce qui est étonnant, dit-il, c'est
que ce public qui ne juge ainsi des hommes et des choses de
la guerre que par les journaux est persuadé qu'il juge par lui167
Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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même. » En cela M. de Charlus avait raison. On m'a raconté
qu'il fallait voir les moments de silence et d'hésitation
qu'avait Mme de Forcheville, pareils à ceux qui sont
nécessaires, non pas même seulement à l'énonciation, mais à
la formation d'une opinion personnelle, avant de dire, sur le
ton d'un sentiment intime : « Non, je ne crois pas qu'ils
prendront Varsovie » ; « Je n'ai pas l'impression qu'on puisse
passer un second hiver » ; « Ce que je ne voudrais pas, c'est
une paix boiteuse » ; « Ce qui me fait peur, si vous voulez
que je vous le dise, c'est la Chambre » ; « Si, j'estime tout de
même qu'on pourrait percer. » Et pour dire cela Odette
prenait un air mièvre qu'elle poussait à l'extrême quand elle
disait : « Je ne dis pas que les armées allemandes ne se
battent pas bien, mais il leur manque ce qu'on appelle le
cran. » Pour prononcer « le cran » (et même simplement
pour le « mordant ») elle faisait avec sa main le geste de
pétrissage et avec ses yeux le clignement des rapins
employant un terme d'atelier. Son langage à elle était
pourtant plus encore qu'autrefois la trace de son admiration
pour les Anglais, qu'elle n'était plus obligée de se contenter
d'appeler comme autrefois nos voisins d'outre-Manche, ou
tout au plus nos amis les Anglais, mais nos loyaux alliés !
Inutile de dire qu'elle ne se faisait pas faute de citer à tout
propos l'expression de « fair play » pour montrer les Anglais
trouvant les Allemands des joueurs incorrects, et « ce qu'il
faut c'est gagner la guerre », comme disent nos braves alliés.
Tout au plus associait-elle assez maladroitement le nom de
son gendre à tout ce qui touchait les soldats anglais et au
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plaisir qu'il trouvait à vivre dans l'intimité des Australiens
aussi bien que des Écossais, des Néo-Zélandais et des
Canadiens. « Mon gendre Saint-Loup connaît maintenant
l'argot de tous les braves « tommies », il sait se faire entendre
de ceux des plus lointains « dominions » et, aussi bien
qu'avec le général commandant la base, fraternise avec le
plus humble « private ».
Que cette parenthèse sur Mme de Forcheville m'autorise,
tandis que je descends les boulevards côte à côte avec M. de
Charlus, à une autre plus longue encore, mais utile pour
décrire cette époque, sur les rapports de Mme Verdurin avec
Brichot. En effet, si le pauvre Brichot était, ainsi que
Norpois, jugé sans indulgence par M. de Charlus (parce que
celui-ci était à la fois très fin et plus ou moins
inconsciemment germanophile), il était encore bien plus
maltraité par les Verdurin. Sans doute ceux-ci étaient
chauvins, ce qui eût dû les faire se plaire aux articles de
Brichot, lesquels d'autre part n'étaient pas inférieurs à bien
des écrits où se délectait Mme Verdurin. Mais d'abord on se
rappelle peut-être que, déjà à la Raspelière, Brichot était
devenu pour les Verdurin du grand homme qu'il leur avait
paru être autrefois, sinon une tête de Turc comme Saniette,
du moins l'objet de leurs railleries à peine déguisées. Du
moins restait-il, à ce moment-là, un fidèle entre les fidèles, ce
qui lui assurait une part des avantages prévus tacitement par
les statuts à tous les membres fondateurs associés du petit
groupe. Mais au fur et à mesure que, à la faveur de la guerre
peut-être, ou par la rapide cristallisation d'une élégance si
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longtemps retardée, mais dont tous les éléments nécessaires
et restés invisibles saturaient depuis longtemps le salon des
Verdurin, celui-ci s'était ouvert à un monde nouveau et que
les fidèles, appâts d'abord de ce monde nouveau, avaient fini
par être de moins en moins invités, un phénomène parallèle
se produisait pour Brichot. Malgré la Sorbonne, malgré
l'Institut, sa notoriété n'avait pas jusqu'à la guerre dépassé les
limites du salon Verdurin. Mais quand il se mit à écrire,
presque quotidiennement, des articles parés de ce faux
brillant qu'on l'a vu si souvent dépenser sans compter pour
les fidèles, riches, d'autre part, d'une érudition fort réelle, et
qu'en vrai sorbonien il ne cherchait pas à dissimuler de
quelques formes plaisantes qu'il l'entourât, le « grand monde
» fut littéralement ébloui. Pour une fois, d'ailleurs, il donnait
sa faveur à quelqu'un qui était loin d'être une nullité et qui
pouvait retenir l'attention par la fertilité de son intelligence et
les ressources de sa mémoire. Et pendant que trois
duchesses allaient passer la soirée chez Mme Verdurin, trois
autres se disputaient l'honneur d'avoir chez elles à dîner le
grand homme, lequel acceptait chez l'une, se sentant d'autant
plus libre que Mme Verdurin, exaspérée du succès que ses
articles rencontraient auprès du faubourg Saint-Germain,
avait soin de ne jamais avoir Brichot chez elle quand il devait
s'y trouver quelque personne brillante qu'il ne connaissait pas
encore et qui se hâterait de l'attirer. Ce fut ainsi que le
journalisme, dans lequel Brichot se contentait, en somme, de
donner tardivement, avec honneur et en échange
d'émoluments superbes, ce qu'il avait gaspillé toute sa vie
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gratis et incognito dans le salon des Verdurin (car ses articles
ne lui coûtaient pas plus de peine, tant il était disert et
savant, que ses causeries) eût conduit, et parut même un
moment conduire Brichot à une gloire incontestée, s'il n'y
avait pas eu Mme Verdurin. Certes, les articles de Brichot
étaient loin d'être aussi remarquables que le croyaient les
gens du monde. La vulgarité de l'homme apparaissait à tout
instant sous le pédantisme du lettré. Et à côté d'images qui
ne voulaient rien dire du tout (les Allemands ne pourront
plus regarder en face la statue de Beethoven ; Schiller a dû
frémir dans son tombeau ; l'encre qui avait paraphé la
neutralité de la Belgique était à peine séchée ; Lénine parle,
mais autant en emporte le vent de la steppe), c'étaient des
trivialités telles que : « Vingt mille prisonniers, c'est un
chiffre » ; « Notre commandement saura ouvrir l'œil et le
bon » ; « Nous voulons vaincre, un point c'est tout. » Mais,
mêlés à tout cela, tant de savoir, tant d'intelligence, de si
justes raisonnements. Or, Mme Verdurin ne commençait
jamais un article de Brichot sans la satisfaction préalable de
penser qu'elle allait y trouver des choses ridicules, et le lisait
avec l'attention la plus soutenue pour être certaine de ne les
pas laisser échapper. Or, il était malheureusement certain
qu'il y en avait quelques-unes. On n'attendait même pas de
les avoir trouvées. La citation la plus heureuse d'un auteur
vraiment peu connu, au moins dans l'œuvre à laquelle
Brichot se reportait, était incriminée comme preuve du
pédantisme le plus insoutenable et Mme Verdurin attendait
avec impatience l'heure du dîner pour déchaîner les éclats de
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rire de ses convives. « Hé bien, qu'est-ce que vous avez dit
du Brichot de ce soir ? J'ai pensé à vous en lisant la citation
de Cuvier. Ma parole, je crois qu'il devient fou. – Je ne l'ai
pas encore lu, disait un fidèle. – Comment, vous ne l'avez
pas encore lu ? Mais vous ne savez pas les délices que vous
vous refusez. C'est-à-dire que c'est d'un ridicule à mourir. »
Et contente au fond que quelqu'un n'eût pas encore lu le
Brichot pour avoir l'occasion d'en mettre elle-même en
lumière les ridicules, Mme Verdurin disait au maître d'hôtel
d'apporter le Temps et faisait elle-même la lecture à haute
voix, en faisant sonner avec emphase les phrases les plus
simples. Après le dîner, pendant toute la soirée ; cette
campagne anti-brichotiste continuait, mais avec de fausses
réserves. « Je ne le dis pas trop haut parce que j'ai peur que
là-bas, disait-elle en montrant la comtesse Molé, on n'admire
assez cela. Les gens du monde sont plus naïfs qu'on ne croit.
» Mme Molé, à qui on tâchait de faire entendre, en parlant
assez fort, qu'on parlait d'elle, tout en s'efforçant de lui
montrer par des baissements de voix, qu'on n'aurait pas
voulu être entendu d'elle, reniait lâchement Brichot qu'elle
égalait en réalité à Michelet. Elle donnait raison à Mme
Verdurin, et pour terminer pourtant par quelque chose qui
lui paraissait incontestable, disait : « Ce qu'on ne peut pas lui
retirer, c'est que c'est bien écrit. – Vous trouvez ça bien écrit,
vous ? disait Mme Verdurin, moi je trouve ça écrit comme
par un cochon », audace qui faisait rire les gens du monde,
d'autant plus que Mme Verdurin, effarouchée elle-même par
le mot de cochon, l'avait prononcé en le chuchotant la main
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rabattue sur les lèvres. Sa rage contre Brichot croissait
d'autant plus que celui-ci étalait naïvement la satisfaction de
son succès, malgré les accès de mauvaise humeur que
provoquait chez lui la censure, chaque fois que, comme il le
disait avec son habitude d'employer les mots nouveaux pour
montrer qu'il n'était pas trop universitaire, elle avait «
caviardé » une partie de son article. Devant lui Mme
Verdurin ne laissait pas trop voir, sauf par une maussaderie
qui eût averti un homme plus perspicace, le peu de cas
qu'elle faisait de ce qu'il écrivait. Elle lui reprocha seulement
une fois d'écrire si souvent « je ». Et il avait, en effet,
l'habitude de l'écrire continuellement, d'abord parce que, par
habitude de professeur, il se servait constamment
d'expressions comme « j'accorde que », « je veux bien que
l'énorme développement des fronts nécessite », etc., mais
surtout parce que, ancien antidreyfusard militant qui flairait
la préparation germanique bien longtemps avant la guerre, il
s'était trouvé écrire très souvent : « J'ai dénoncé dès 1897 » ;
« j'ai signalé en 1901 » ; « j'ai averti dans ma petite brochure
aujourd'hui rarissime (habent sua fata libelli) », et ensuite
l'habitude lui était restée. Il rougit fortement de l'observation
de Mme Verdurin, qui lui fut faite d'un ton aigre. « Vous
avez raison, Madame, quelqu'un qui n'aimait pas plus les
jésuites que M. Combes, encore qu'il n'ait pas eu de préface
de notre doux maître en scepticisme délicieux, Anatole
France, qui fut si je ne me trompe mon adversaire... avant le
Déluge, a dit que le moi est toujours haïssable. » À partir de
ce moment Brichot remplaça je par on, mais on n'empêchait
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pas le lecteur de voir que l'auteur parlait de lui et permit à
l'auteur de ne plus cesser de parler de lui, de commenter la
moindre de ses phrases, de faire un article sur une seule
négation, toujours à l'abri de on. Par exemple, Brichot avaitil dit, fût-ce dans un autre article, que les armées allemandes
avaient perdu de leur valeur, il commençait ainsi : « On ne
camoufle pas ici la vérité. On a dit que les armées allemandes
avaient perdu de leur valeur. On n'a pas dit qu'elles n'avaient
plus une grande valeur. Encore moins écrira-t-on qu'elles
n'ont plus aucune valeur. On ne dira pas non plus que le
terrain gagné, s'il n'est pas, etc. » Bref, rien qu'à énoncer tout
ce qu'il ne dirait pas, à rappeler tout ce qu'il avait dit il y avait
quelques années, et ce que Clausewitz, Ovide, Apollonius de
Tyane avaient dit il y avait plus ou moins de siècles, Brichot
aurait pu constituer aisément la matière d'un fort volume. Il
est à regretter qu'il n'en ait pas publié, car ces articles si
nourris sont maintenant difficiles à retrouver. Le faubourg
Saint-Germain, chapitré par Mme Verdurin, commença par
rire de Brichot chez elle, mais continua, une fois sorti du
petit clan, à admirer Brichot. Puis se moquer de lui devint
une mode comme ç'avait été de l'admirer, et celles mêmes
qu'il continuait d'intéresser en secret, dès le temps qu'elles
lisaient son article, s'arrêtaient et riaient dès qu'elles n'étaient
plus seules, pour ne pas avoir l'air moins fines que les autres.
Jamais on ne parla tant de Brichot qu'à cette époque dans le
petit clan, mais par dérision. On prenait comme critérium de
l'intelligence de tout nouveau ce qu'il pensait des articles de
Brichot ; s'il répondait mal la première fois, on ne se faisait
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pas faute de lui apprendre à quoi l'on reconnaît que les gens
sont intelligents.
« Enfin, mon pauvre ami, continua M. de Charlus, tout
cela est épouvantable et nous avons plus que d'ennuyeux
articles à déplorer. On parle de vandalisme, de statues
détruites. Mais est-ce que la destruction de tant de
merveilleux jeunes gens, qui étaient des statues polychromes
incomparables, n'est pas du vandalisme aussi ? Est-ce qu'une
ville qui n'aura plus de beaux hommes ne sera pas comme
une ville dont toute la statuaire aurait été brisée ? Quel plaisir
puis-je avoir à aller dîner au restaurant quand j'y suis servi
par de vieux bouffons moussus qui ressemblent au Père
Didon, si ce n'est pas par des femmes en cornette qui me
font croire que je suis entré au bouillon Duval. Parfaitement,
mon cher, et je crois que j'ai le droit de parler ainsi parce que
le Beau est tout de même le Beau dans une matière vivante.
Le grand plaisir d'être servi par des êtres rachitiques, portant
binocle, dont le cas d'exemption se lit sur le visage !
Contrairement à ce qui arrivait toujours jadis, si l'on veut
reposer ses yeux sur quelqu'un de bien dans un restaurant, il
ne faut plus regarder parmi les garçons qui servent mais
parmi les clients qui consomment. Mais on pouvait revoir un
servant, bien qu'ils changeassent souvent, mais allez donc
savoir qui est et quand reviendra ce lieutenant anglais qui
vient pour la première fois et sera peut-être tué demain.
Quand Auguste de Pologne, comme raconte le charmant
Morand, l'auteur délicieux de Clarisse, échangea un de ses
régiments contre une collection de potiches chinoises, il fit à
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mon avis une mauvaise affaire. Pensez que tous ces grands
valets de pied qui avaient deux mètres de haut et qui
ornaient les escaliers monumentaux de nos plus belles amies
ont tous été tués, engagés pour la plupart parce qu'on leur
répétait que la guerre durerait deux mois. Ah ! ils ne savaient
pas comme moi la force de l'Allemagne, la vertu de la race
prussienne, dit-il en s'oubliant – et puis, remarquant qu'il
avait trop laissé voir son point de vue – ce n'est pas tant
l'Allemagne que je crains pour la France que la guerre ellemême. Les gens de l'arrière s'imaginent que la guerre est
seulement un gigantesque match de boxe auquel ils assistent
de loin, grâce aux journaux. Mais cela n'a aucun rapport.
C'est une maladie qui quand elle semble conjurée sur un
point reprend sur un autre. Aujourd'hui Noyon sera délivré,
demain on n'aura plus ni pain ni chocolat, après-demain celui
qui se croyait tranquille et accepterait au besoin une balle
qu'il n'imagine pas s'affolera parce qu'il lira dans les journaux
que sa classe est rappelée. Quant aux monuments, un chefd'œuvre unique comme Reims par la qualité n'est pas
tellement ce dont la disparition m'épouvante, c'est surtout de
voir anéantis une telle quantité d'ensembles qui rendaient le
moindre village de France instructif et charmant. » Je pensai
aussitôt à Combray et qu'autrefois j'aurais cru me diminuer
aux yeux de Mme de Guermantes en avouant la petite
situation que ma famille occupait à Combray. Je me
demandai si elle n'avait pas été révélée aux Guermantes et à
M. de Charlus, soit par Legrandin, ou Swann, ou Saint-Loup,
ou Morel. Mais cette prétérition même était moins pénible
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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pour moi que des explications rétrospectives. Je souhaitai
seulement que M. de Charlus ne parlât pas de Combray. « Je
ne veux pas dire de mal des Américains, Monsieur, continuat-il, il paraît qu'ils sont inépuisablement généreux, et comme
il n'y a pas eu de chef d'orchestre dans cette guerre, que
chacun est entré dans la danse longtemps après l'autre, et
que les Américains ont commencé quand nous étions
quasiment finis, ils peuvent avoir une ardeur que quatre ans
de guerre ont pu calmer chez nous. Même avant la guerre ils
aimaient notre pays, notre art, ils payaient fort cher nos
chefs-d'œuvre. Beaucoup sont chez eux maintenant. Mais
précisément cet art déraciné, comme dirait M. Barrès, est
tout le contraire de ce qui faisait l'agrément délicieux de la
France. Le château expliquait l'église qui, elle-même, parce
qu'elle avait été un lieu de pèlerinage, expliquait la chanson
de geste. Je n'ai pas à surfaire l'illustration de mes origines et
de mes alliances, et d'ailleurs ce n'est pas de cela qu'il s'agit.
Mais dernièrement j'ai eu à régler une question d'intérêts, et,
malgré un certain refroidissement qu'il y a entre le ménage et
moi, à aller faire une visite à ma nièce Saint-Loup qui habite
à Combray. Combray n'était qu'une toute petite ville comme
il y en a tant. Mais nos ancêtres étaient représentés en
donateurs dans certains vitraux, dans d'autres étaient
inscrites nos armoiries. Nous y avions notre chapelle, nos
tombeaux. Cette église a été détruite par les Français et par
les Anglais parce qu'elle servait d'observatoire aux
Allemands. Tout ce mélange d'histoire survivante et d'art,
qui était la France, se détruit, et ce n'est pas fini. Et, bien
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entendu, je n'ai pas le ridicule de comparer, pour des raisons
de famille, la destruction de l'église de Combray à celle de la
cathédrale de Reims, qui était comme le miracle d'une
cathédrale gothique retrouvant naturellement la pureté de la
statuaire antique, ou de celle d'Amiens. Je ne sais si le bras
levé de Saint Firmin est aujourd'hui brisé. Dans ce cas la plus
haute affirmation de la foi et de l'énergie a disparu de ce
monde. – Son symbole, Monsieur, lui répondis-je. Et j'adore
autant que vous certains symboles. Mais il serait absurde de
sacrifier au symbole la réalité qu'il symbolise. Les cathédrales
doivent être adorées jusqu'au jour où, pour les préserver, il
faudrait renier les vérités qu'elles enseignent. Le bras levé de
Saint Firmin dans un geste de commandement presque
militaire disait : Que nous soyons brisés si l'honneur l'exige.
Ne sacrifiez pas des hommes à des pierres dont la beauté
vient justement d'avoir un moment fixé des vérités
humaines. – Je comprends ce que vous voulez dire, me
répondit M. de Charlus, et M. Barrès, qui nous a fait, hélas,
trop faire de pèlerinages à la statue de Strasbourg et au
tombeau de M. Déroulède, a été touchant et gracieux quand
il a écrit que la cathédrale de Reims elle-même nous était
moins chère que la vie de nos fantassins. Assertion qui rend
assez ridicule la colère de nos journaux contre le général
allemand qui commandait là-bas et qui disait que la
cathédrale de Reims lui était moins précieuse que celle d'un
soldat allemand. C'est, du reste, ce qui est exaspérant et
navrant, c'est que chaque pays dit la même chose. Les
raisons pour lesquelles les associations industrielles de
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l'Allemagne déclarent la possession de Belfort indispensable
à préserver leur nation contre nos idées de revanche sont les
mêmes que celles de Barrès exigeant Mayence pour nous
protéger contre les velléités d'invasion des Boches. Pourquoi
la restitution de l'Alsace-Lorraine a-t-elle paru à la France un
motif insuffisant pour faire la guerre, un motif suffisant pour
la continuer, pour la redéclarer à nouveau chaque année ?
Vous avez l'air de croire que la victoire est désormais
promise à la France, je le souhaite de tout mon cœur, vous
n'en doutez pas, mais enfin, depuis qu'à tort ou à raison les
Alliés se croient sûrs de vaincre (pour ma part je serais
naturellement enchanté de cette solution, mais je vois
surtout beaucoup de victoires sur le papier, de victoires à la
Pyrrhus, avec un coût qui ne nous est pas dit) et que les
Boches ne se croient plus sûrs de vaincre, on voit
l'Allemagne chercher à hâter la paix, la France à prolonger la
guerre, la France qui est la France juste et a raison de faire
entendre des paroles de justice, mais est aussi la douce
France et devrait faire entendre des paroles de pitié, fût-ce
seulement pour ses propres enfants et pour qu'à chaque
printemps les fleurs qui renaîtront aient autre chose à éclairer
que des tombes. Soyez franc, mon cher ami, vous-même
m'aviez fait une théorie sur les choses qui n'existent que
grâce à une création perpétuellement recommencée. La
création du monde n'a pas eu lieu une fois pour toutes, me
disiez-vous, elle a nécessairement lieu tous les jours. Hé bien,
si vous êtes de bonne foi, vous ne pouvez pas excepter la
guerre de cette théorie. Notre excellent Norpois a beau
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écrire – en sortant un des accessoires de rhétorique qui lui
sont aussi chers que « l'aube de la victoire » et le « Général
Hiver » : – « Maintenant que l'Allemagne a voulu la guerre »,
« Les dés en sont jetés », la vérité c'est que chaque matin on
déclare à nouveau la guerre. Donc celui qui veut la continuer
est aussi coupable que celui qui l'a commencée, plus peutêtre car ce premier n'en prévoyait peut-être pas toutes les
horreurs. Or rien ne dit qu'une guerre aussi prolongée,
même si elle doit avoir une issue victorieuse, ne soit pas sans
péril. Il est difficile de parler de choses qui n'ont point de
précédent et des répercussions sur l'organisme d'une
opération qu'on tente pour la première fois. Généralement, il
est vrai, ces nouveautés dont on s'alarme se passent fort
bien. Les républicains les plus sages pensaient qu'il était fou
de faire la séparation de l'Église. Elle a passé comme une
lettre à la poste. Dreyfus a été réhabilité, Picquart ministre de
la guerre, sans qu'on crie ouf. Pourtant que ne peut-on pas
craindre d'un surmenage pareil à celui d'une guerre
ininterrompue pendant plusieurs années ! Que feront les
hommes au retour ? seront-ils las ? la fatigue les aura-t-elle
rompus ou affolés ? Tout cela pourrait mal tourner, sinon
pour la France, au moins pour le gouvernement, peut-être
même pour la forme du gouvernement. Vous m'avez fait lire
autrefois l'admirable Aimée de Coigny de Maurras. Je serais
fort surpris que quelque Aimée de Coigny n'attendît pas du
développement de la guerre que fait la République ce qu'en
1812 Aimée de Coigny attendit de la guerre que faisait
l'Empire. Si l'Aimée actuelle existe, ses espérances se
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réaliseront-elles ? Je ne le désire pas. Pour en revenir à la
guerre elle-même, le premier qui l'a commencée est-il
l'empereur Guillaume ? J'en doute fort. Et si c'est lui, qu'a-t-il
fait autre chose que Napoléon par exemple, chose que moi je
trouve abominable mais que je m'étonne de voir inspirer tant
d'horreurs aux thuriféraires de Napoléon, aux gens qui, le
jour de la déclaration de guerre, se sont écriés comme le
général X. : « J'attendais ce jour-là depuis quarante ans. C'est
le plus beau jour de ma vie. » Dieu sait si personne a protesté
avec plus de force que moi quand on a fait dans la société
une place disproportionnée aux nationalistes, aux militaires,
quand tout ami des arts était accusé de s'occuper de choses
funestes à la patrie, toute civilisation qui n'était pas
belliqueuse étant délétère. C'est à peine si un homme du
monde authentique comptait auprès d'un général. Une folle
faillit me présenter à M. Syveton. Vous me direz que ce que
je m'efforçais de maintenir n'était que les règles mondaines.
Mais, malgré leur frivolité apparente, elles eussent peut-être
empêché bien des excès. J'ai toujours honoré ceux qui
défendent la grammaire, ou la logique. On se rend compte
cinquante ans après qu'ils ont conjuré de grands périls. Or
nos nationalistes sont les plus germanophobes, les plus
jusqu'auboutistes des hommes... Mais après quinze ans leur
philosophie a changé entièrement. En fait, ils poussent bien
à la continuation de la guerre. Mais ce n'est que pour
exterminer une race belliqueuse et par amour de la paix. Car
une civilisation guerrière, ce qu'ils trouvaient si beau il y a
quinze ans, leur fait horreur ; non seulement ils reprochent à
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la Prusse d'avoir fait prédominer chez elle l'élément militaire,
mais en tout temps ils pensent que les civilisations militaires
furent destructrices de tout ce qu'ils trouvent maintenant
précieux, non seulement les arts, mais même la galanterie. Il
suffit qu'un de leurs critiques se soit converti au nationalisme
pour qu'il soit devenu du même coup un ami de la paix... Il
est persuadé que, dans toutes les civilisations guerrières, la
femme avait un rôle humilié et bas. On n'ose lui répondre
que les « Dames » des chevaliers au moyen âge et la Béatrice
de Dante étaient peut-être placées sur un trône aussi élevé
que les héroïnes de M. Becque. Je m'attends un de ces jours
à me voir placé à table après un révolutionnaire russe ou
simplement après un de nos généraux faisant la guerre par
horreur de la guerre et pour punir un peuple de cultiver un
idéal qu'eux-mêmes jugeaient le seul tonifiant il y a quinze
ans. Le malheureux Tzar était encore honoré il y a quelques
mois parce qu'il avait réuni la conférence de La Haye. Mais
maintenant qu'on salue la Russie libre, on oublie le titre qui
permettait de la glorifier. Ainsi tourne la Roue du Monde. Et
pourtant l'Allemagne emploie tellement les mêmes
expressions que la France que c'est à croire qu'elle la cite, elle
ne se lasse pas de dire qu'elle « lutte pour l'existence ».
Quand je lis : « nous luttons contre un ennemi implacable et
cruel jusqu'à ce que nous ayons obtenu une paix qui nous
garantisse l'avenir de toute agression et pour que le sang de
nos braves soldats n'ait pas coulé en vain », ou bien : « qui
n'est pas pour nous est contre nous », je ne sais pas si cette
phrase est de l'Empereur Guillaume ou de M. Poincaré, car
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ils l'ont, à quelques variantes près, prononcée vingt fois l'un
et l'autre, bien qu'à vrai dire je doive confesser que
l'Empereur ait été en ce cas l'imitateur du Président de la
République. La France n'aurait peut-être pas tenu tant à
prolonger la guerre si elle était restée faible, mais surtout
l'Allemagne n'aurait peut-être pas été si pressée de la finir si
elle n'avait pas cessé d'être forte. D'être aussi forte, car forte,
vous verrez qu'elle l'est encore. » Il avait pris l'habitude de
crier très fort en parlant, par nervosité, par recherche d'issue
pour des impressions dont il fallait – n'ayant jamais cultivé
aucun art – qu'il se débarrassât, comme un aviateur de ses
bombes, fût-ce en plein champ, là où ses paroles
n'atteignaient personne, et surtout dans le monde où elles
tombaient au hasard et où il était écouté par snobisme, de
confiance et, tant il tyrannisait les auditeurs, on peut dire de
force et même par crainte. Sur les boulevards cette harangue
était de plus une marque de mépris à l'égard des passants
pour qui il ne baissait pas plus la voix qu'il n'eût dévié son
chemin. Mais elle y détonnait, y étonnait et surtout rendait
intelligibles à des gens qui se retournaient des propos qui
eussent pu nous faire prendre pour des défaitistes. Je le fis
remarquer à M. de Charlus sans réussir qu'à exciter son
hilarité. « Avouez que ce serait bien drôle, dit-il. Après tout,
ajouta-t-il, on ne sait jamais, chacun de nous risque chaque
soir d'être le fait divers du lendemain. En somme, pourquoi
ne serais-je pas fusillé dans les fossés de Vincennes ? La
même chose est bien arrivée à mon grand-oncle le duc
d'Enghien. La soif du sang noble affole une certaine
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populace qui en cela se montre plus raffinée que les lions.
Vous savez que pour ces animaux il suffirait pour qu'ils se
jetassent sur elle que Mme Verdurin eût une écorchure sur
son nez. Sur ce que dans ma jeunesse on eût appelé son pif !
» Et il se mit à rire à gorge déployée comme si nous avions
été seuls dans un salon. Par moments, voyant des individus
assez louches extraits de l'ombre par le passage de M. de
Charlus se conglomérer à quelque distance de lui, je me
demandais si je lui serais plus agréable en le laissant seul ou
en ne le quittant pas. Tel celui qui a rencontré un vieillard
sujet à de fréquentes crises épileptiformes et qui voit, par
l'incohérence de la démarche, l'imminence probable d'un
accès se demande si sa compagnie est plutôt désirée comme
celle d'un soutien, ou redoutée comme celle d'un témoin à
qui on voudrait cacher la crise et dont la présence seule peutêtre, quand le calme absolu réussirait à l'écarter, suffira à la
hâter. Mais la possibilité de l'événement duquel on ne sait si
l'on doit s'écarter ou non est révélée, chez le malade, par les
circuits qu'il fait comme un homme ivre. Tandis que pour M.
de Charlus les diverses positions divergentes, signe d'un
incident possible dont je n'étais pas bien sûr s'il souhaitait ou
redoutait que ma présence l'empêchât de se produire, étaient,
par une ingénieuse mise en scène, occupées non par le baron
lui-même, qui marchait fort droit, mais par tout un cercle de
figurants. Tout de même, je crois qu'il préférait éviter la
rencontre, car il m'entraîna dans une rue de traverse, plus
obscure que le boulevard et où celui-ci ne cessait de déverser
des soldats de toute arme et de toute nation, influx juvénile,
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compensateur et consolant, pour M. de Charlus, de ce reflux
de tous les hommes à la frontière qui avait fait
frénétiquement le vide dans Paris aux premiers temps de la
mobilisation. M. de Charlus ne cessait pas d'admirer les
brillants uniformes qui passaient devant nous et qui faisaient
de Paris une ville aussi cosmopolite qu'un port, aussi irréelle
qu'un décor de peintre qui n'a dressé quelques architectures
que pour avoir un prétexte à grouper les costumes les plus
variés et les plus chatoyants. Il gardait tout son respect et
toute son affection à de grandes dames accusées de
défaitisme, comme jadis à celles qui avaient été accusées de
dreyfusisme. Il regrettait seulement qu'en s'abaissant à faire
de la politique elles eussent donné prise « aux polémiques
des journalistes ». Pour lui, à leur égard, rien n'était changé.
Car sa frivolité était si systématique, que la naissance unie à
la beauté et à d'autres prestiges était la chose durable – et la
guerre, comme l'affaire Dreyfus, des modes vulgaires et
fugitives. Eût-on fusillé la duchesse de Guermantes pour
essai de paix séparée avec l'Autriche qu'il l'eût considérée
comme toujours aussi noble et pas plus dégradée que ne
nous apparaît aujourd'hui Marie-Antoinette d'avoir été
condamnée à la décapitation. En parlant à ce moment-là, M.
de Charlus, noble comme une espèce de Saint-Vallier ou de
Saint-Mégrin, était droit, rigide, solennel, parlait gravement,
ne faisait pour un moment aucune des manières où se
révèlent ceux de sa sorte. Et pourtant, pourquoi ne peut-il y
en avoir aucun dont la voix soit jamais absolument juste ?...
Même en ce moment où elle approchait le plus du grave, elle
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était fausse encore et aurait eu besoin de l'accordeur.
D'ailleurs, M. de Charlus ne savait littéralement où donner
de la tête et il la levait souvent avec le regret de ne pas avoir
une jumelle qui, d'ailleurs, ne lui eût pas servi à grand'chose,
car en plus grand nombre que d'habitude, à cause du raid de
zeppelins de l'avant-veille qui avait réveillé la vigilance des
pouvoirs publics, il y avait des militaires jusque dans le ciel.
Les aéroplanes que j'avais vus quelques heures plus tôt faire,
comme des insectes, des taches brunes sur le soir bleu
passaient maintenant dans la nuit qu'approfondissait encore
l'extinction partielle des réverbères comme de lumineux
brûlots. La plus grande impression de beauté que nous
faisaient éprouver ces étoiles humaines et filantes était peutêtre surtout de faire regarder le ciel vers lequel on lève peu
les yeux d'habitude dans ce Paris dont, en 1914, j'avais vu la
beauté presque sans défense attendre la menace de l'ennemi
qui se rapprochait. Il y avait certes, maintenant comme alors,
la splendeur antique inchangée d'une lune cruellement,
mystérieusement sereine, qui versait aux monuments encore
intacts l'inutile beauté de sa lumière, mais comme en 1914, et
plus qu'en 1914, il y avait aussi autre chose, des lumières
différentes et des feux intermittents, que soit de ces
aéroplanes, soit des projecteurs de la Tour Eiffel on savait
dirigés par une volonté intelligente, par une vigilance amie
qui donnait ce même genre d'émotion, inspirait cette même
sorte de reconnaissance et de calme que j'avais éprouvés
dans la chambre de Saint-Loup, dans la cellule de ce cloître
militaire où s'exerçaient, avant qu'ils consommassent un jour,
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sans une hésitation, en pleine jeunesse, leur sacrifice, tant de
cœurs fervents et disciplinés.
Après le raid de l'avant-veille, où le ciel avait été plus
mouvementé que la terre, il s'était calmé comme la mer après
une tempête. Mais comme la mer après une tempête il
n'avait pas encore repris son apaisement absolu. Des
aéroplanes montaient encore comme des fusées rejoindre les
étoiles et des projecteurs promenaient lentement, dans le ciel
sectionné, comme une pâle poussière d'astres, d'errantes
voies lactées. Cependant les aéroplanes venaient s'insérer au
milieu des constellations et on aurait pu se croire dans un
autre hémisphère en effet, en voyant ces « étoiles nouvelles ».
M. de Charlus me dit son admiration pour ces aviateurs, et
comme il ne pouvait pas plus s'empêcher de donner libre
cours à sa germanophilie qu'à ses autres penchants tout en
niant l'une comme les autres : « D'ailleurs j'ajoute que
j'admire autant les Allemands qui montent dans des gothas.
Et sur des zeppelins, pensez le courage qu'il faut. Mais ce
sont des héros tout simplement. Qu'est-ce que ça peut faire
que ce soit sur des civils qu'ils lancent leurs bombes puisque
ces batteries tirent sur eux ? Est-ce que vous avez peur des
gothas et du canon ? » J'avouai que non et peut-être je me
trompais. Sans doute ma paresse m'ayant donné l'habitude,
pour mon travail, de le remettre jour par jour au lendemain,
je me figurais qu'il pouvait en être de même pour la mort.
Comment aurait-on peur d'un canon dont on est persuadé
qu'il ne vous frappera pas ce jour-là ? D'ailleurs formées
isolément, ces idées de bombes lancées, de mort possible
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n'ajoutèrent pour moi rien de tragique à l'image que je me
faisais du passage des aéronefs allemands jusqu'à ce que
j'eusse vu de l'un d'eux ballotté, segmenté à mes regards par
les flots de brume d'un ciel agité, d'un aéroplane que, bien
que je le susse meurtrier, je n'imaginais que stellaire et
céleste, j'eusse vu un soir le geste de la bombe lancée vers
nous. Car la réalité originale d'un danger n'est perçue que de
cette chose nouvelle, irréductible à ce qu'on sait déjà, qui
s'appelle une impression et qui est souvent, comme ce fut le
cas là, résumée par une ligne, une ligne qui découvrait une
intention, une ligne où il y avait la puissance latente d'un
accomplissement qui la déformait, tandis que sur le pont de
la Concorde, autour de l'aéroplane menaçant et tragique, et
comme si s'étaient reflétées dans les nuages les fontaines des
Champs-Élysées, de la place de la Concorde et des Tuileries,
les jets d'eau lumineux des projecteurs s'infléchissaient dans
le ciel, lignes pleines d'intentions aussi, d'intentions
prévoyantes et protectrices, d'hommes puissants et sages
auxquels, comme la nuit au quartier de Doncières, j'étais
reconnaissant que leur force daignât prendre, avec cette
précision si belle, la peine de veiller sur nous.
La nuit était aussi belle qu'en 1914, comme Paris était aussi
menacé. Le clair de lune semblait comme un doux
magnésium continu permettant de prendre une dernière fois
des images nocturnes de ces beaux ensembles comme la
place Vendôme, la place de la Concorde, auxquels l'effroi
que j'avais des obus qui allaient peut-être les détruire
donnait, par contraste, dans leur beauté encore intacte, une
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sorte de plénitude, comme si elles se tendaient en avant,
offrant aux coups leurs architectures sans défense. « Vous
n'avez pas peur, répéta M. de Charlus. Les Parisiens ne se
rendent pas compte. On me dit que Mme Verdurin donne
des réunions tous les jours. Je ne le sais que par les on-dit,
moi je ne sais absolument rien d'eux, j'ai entièrement rompu
», ajouta-t-il en baissant non seulement les yeux comme si
avait passé un télégraphiste, mais aussi la tête, les épaules, et
en levant le bras avec le geste qui signifie sinon « je m'en lave
les mains », du moins « je ne peux rien vous dire » (bien que
je ne lui demandasse rien). « Je sais que Morel y va toujours
beaucoup », me dit-il (c'était la première fois qu'il m'en
reparlait). « On prétend qu'il regrette beaucoup le passé, qu'il
désire se rapprocher de moi », ajouta-t-il, faisant preuve à la
fois de cette même crédulité d'homme du faubourg qui dit : «
On dit beaucoup que la France cause plus que jamais avec
l'Allemagne et que les pourparlers sont même engagés » et de
l'amoureux que les pires rebuffades n'ont pas persuadé. « En
tout cas, s'il le veut il n'a qu'à le dire, je suis plus vieux que
lui, ce n'est pas à moi à faire les premiers pas. » Et sans doute
il était bien inutile de le dire tant c'était évident. Mais, de
plus, ce n'était même pas sincère, et c'est pour cela qu'on
était si gêné pour M. de Charlus, car on sentait qu'en disant
que ce n'était pas à lui de faire les premiers pas, il en faisait
au contraire un et attendait que j'offrisse de me charger du
rapprochement. Certes, je connaissais cette naïve ou feinte
crédulité des gens qui aiment quelqu'un, ou simplement ne
sont pas reçus chez quelqu'un, et imputent à ce quelqu'un un
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désir qu'il n'a pourtant pas manifesté, malgré des
sollicitations fastidieuses.
Malheureusement, dès le lendemain, disons-le tout de
suite, M. de Charlus se trouva dans la rue face à face avec
Morel ; celui-ci, pour exciter sa jalousie, le prit par le bras, lui
raconta des histoires plus ou moins vraies et quand M. de
Charlus éperdu, ayant besoin que Morel restât cette soirée
auprès de lui, le supplia de ne pas aller ailleurs, l'autre,
apercevant un camarade, dit adieu à M. de Charlus qui, de
colère, espérant que cette menace que, bien entendu, il
semblait ne devoir exécuter jamais, ferait rester Morel, lui dit
: « Prends garde, je me vengerai », et Morel, riant, partit en
tapotant sur le cou et en enlaçant par la taille son camarade
étonné.
À l'accent soudain tremblant avec lequel M. de Charlus
avait, en me parlant de Morel, scandé ses paroles, au regard
trouble qui vacillait au fond de ses yeux, j'eus l'impression
qu'il y avait autre chose qu'une banale insistance. Je ne me
trompais pas et je dirai tout de suite les deux faits qui me le
prouvèrent rétrospectivement (j'anticipe de beaucoup
d'années pour le second de ces faits, postérieur à la mort de
M. de Charlus. Or elle ne devait se produire que bien plus
tard, et nous aurons l'occasion de le revoir plusieurs fois,
bien différent de ce que nous l'avons connu, et en particulier
la dernière fois, à une époque où il avait entièrement oublié
Morel). Quant au premier de ces faits, il se produisit deux
ans seulement après le soir où je descendais ainsi les
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boulevards avec M. de Charlus. Donc environ deux ans
après cette soirée, je rencontrai Morel. Je pensai aussitôt à M.
de Charlus, au plaisir qu'il aurait à revoir le violoniste, et
j'insistai auprès de lui pour qu'il allât le voir, fût-ce une fois. «
Il a été bon pour vous, dis-je à Morel. Il est déjà vieux, il
peut mourir, il faut liquider les vieilles querelles et effacer les
traces de la brouille. » Morel parut entièrement de mon avis
quant à un apaisement désirable, mais il n'en refusa pas
moins catégoriquement de faire même une seule visite à M.
de Charlus. « Vous avez tort, lui dis-je. Est-ce par
entêtement, par paresse, par méchanceté, par amour-propre
mal placé, par vertu (soyez sûr qu'elle ne sera pas attaquée),
par coquetterie ? » Alors le violoniste, tordant son visage
pour un aveu qui lui coûtait sans doute extrêmement, me
répondit en frissonnant : « Non, ce n'est pour rien de tout
cela, la vertu je m'en fous ; la méchanceté, au contraire je
commence à le plaindre ; ce n'est pas par coquetterie, elle
serait inutile ; ce n'est pas par paresse, il y a des journées
entières où je reste à me tourner les pouces, non, ce n'est à
cause de rien de tout cela ; c'est, ne le dites jamais à personne
et je suis fou de vous le dire, c'est, c'est... c'est... par peur ! »
Il se mit à trembler de tous ses membres. Je lui avouai que je
ne le comprenais pas. « Non, ne me demandez pas, n'en
parlons plus, vous ne le connaissez pas comme moi, je peux
dire que vous ne le connaissez pas du tout. – Mais quel tort
peut-il vous faire ? il cherchera, d'ailleurs, d'autant moins à
vous en faire qu'il n'y aura plus de rancune entre vous. Et
puis, au fond, vous savez qu'il est très bon. – Parbleu si, je le
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sais qu'il est bon ! Et la délicatesse et la droiture. Mais
laissez-moi, ne m'en parlez plus, je vous en supplie, c'est
honteux à dire, j'ai peur ! » Le second fait date d'après la
mort de M. de Charlus. On m'apporta quelques souvenirs
qu'il m'avait laissés et une lettre à triple enveloppe, écrite au
moins dix ans avant sa mort. Mais il avait été gravement
malade, avait pris ses dispositions, puis s'était rétabli avant de
tomber plus tard dans l'état où nous le verrons le jour d'une
matinée chez la princesse de Guermantes – et la lettre, restée
dans un coffre avec les objets qu'il léguait à quelques amis,
était restée là sept ans, sept ans pendant lesquels il avait
entièrement oublié Morel. La lettre, tracée d'une écriture fine
et ferme, était ainsi conçue : « Mon cher ami, les voies de la
Providence sont inconnues. Parfois c'est du défaut d'un être
médiocre qu'elle use pour empêcher de faillir la suréminence
d'un juste. Vous connaissez Morel, d'où il est sorti, à quel
faîte j'ai voulu l'élever, autant dire à mon niveau. Vous savez
qu'il a préféré retourner non pas à la poussière et à la cendre
d'où tout homme, c'est-à-dire le véritable phœnix, peut
renaître, mais à la boue où rampe la vipère. Il s'est laissé
choir, ce qui m'a préservé de déchoir. Vous savez que mes
armes contiennent la devise même de Notre-Seigneur : «
Inculcabis super leonem et aspidem » avec un homme
représenté comme ayant à la plante de ses pieds, comme
support héraldique, un lion et un serpent. Or si j'ai pu fouler
ainsi le propre lion que je suis, c'est grâce au serpent et à sa
prudence, qu'on appelle trop légèrement parfois un défaut,
car la profonde sagesse de l'Évangile en fait une vertu, au
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moins une vertu pour les autres. Notre serpent aux
sifflements jadis harmonieusement modulés, quand il avait
un charmeur – fort charmé, du reste – n'était pas seulement
musical et reptile, il avait jusqu'à la lâcheté cette vertu que je
tiens maintenant pour divine, la Prudence. C'est cette divine
prudence qui l'a fait résister aux appels que je lui ai fait
transmettre de revenir me voir, et je n'aurai de paix en ce
monde et d'espoir de pardon dans l'autre que si je vous en
fais l'aveu. C'est lui qui a été en cela l'instrument de la
Sagesse divine, car, je l'avais résolu, il ne serait pas sorti de
chez moi vivant. Il fallait que l'un de nous deux disparût.
J'étais décidé à le tuer. Dieu lui a conseillé la prudence pour
me préserver d'un crime. Je ne doute pas que l'intercession
de l'Archange Michel, mon saint patron, n'ait joué là un
grand rôle et je le prie de me pardonner de l'avoir tant
négligé pendant plusieurs années et d'avoir si mal répondu
aux innombrables bontés qu'il m'a témoignées, tout
spécialement dans ma lutte contre le mal. Je dois à ce
serviteur, je le dis dans la plénitude de ma foi et de mon
intelligence, que le Père céleste ait inspiré à Morel de ne pas
venir. Aussi, c'est moi maintenant qui me meurs. Votre
fidèlement dévoué, Semper idem, P. G. Charlus. » Alors je
compris la peur de Morel ; certes il y avait dans cette lettre
bien de l'orgueil et de la littérature. Mais l'aveu était vrai. Et
Morel savait mieux que moi que le « côté presque fou » que
Mme de Guermantes trouvait chez son beau-frère ne se
bornait pas, comme je l'avais cru jusque-là, à ces dehors
momentanés de rage superficielle et inopérante.
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Mais il faut revenir en arrière. Je descends les boulevards à
côté de M. de Charlus, lequel vient de me prendre comme
vague intermédiaire pour des ouvertures de paix entre lui et
Morel. Voyant que je ne lui répondais pas, il continua ainsi :
« Je ne sais pas, du reste, pourquoi il ne joue pas, on ne fait
plus de musique sous prétexte que c'est la guerre, mais on
danse, on dîne en ville. Les fêtes remplissent ce qui sera
peut-être, si les Allemands avancent encore, les derniers
jours de notre Pompéi. Pour peu que la lave de quelque
Vésuve allemand (leurs pièces de marine ne sont pas moins
terribles qu'un volcan) vienne les surprendre à leur toilette et
éternise leur geste en l'interrompant, les enfants s'instruiront
plus tard en regardant dans les livres de classes illustrés Mme
Molé qui allait mettre une dernière couche de fard avant
d'aller dîner chez une belle-sœur, ou Sosthène de
Guermantes finissant de peindre ses faux sourcils ; ce sera
matière à cours pour les Brichot de l'avenir ; la frivolité d'une
époque quand dix siècles ont passé sur elle est digne de la
plus grave érudition, surtout si elle a été conservée intacte
par une éruption volcanique ou des matières analogues à la
lave projetées par bombardement. Quels documents pour
l'histoire future, quand les gaz asphyxiants analogues à ceux
qu'émettait le Vésuve et des écroulements comme ceux qui
ensevelirent Pompéi garderont intactes toutes les dernières
imprudentes qui n'ont pas fait encore filer pour Bayonne
leurs tableaux et leurs statues. D'ailleurs, n'est-ce pas déjà,
depuis un an, Pompéi par fragments, chaque soir, que ces
gens se sauvant dans les caves, non pas pour en rapporter
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quelque vieille bouteille de Mouton Rothschild ou de SaintÉmilion, mais pour cacher avec eux ce qu'ils ont de plus
précieux, comme les prêtres d'Herculanum surpris par la
mort au moment où ils emportaient les vases sacrés. C'est
toujours l'attachement à l'objet qui amène la mort du
possesseur. Paris, lui, ne fut pas, comme Herculanum, fondé
par Hercule. Mais que de ressemblances s'imposent ! et cette
lucidité qui nous est donnée n'est pas que de notre époque,
chacune l'a possédée. Si je pense que nous pouvons avoir
demain le sort des villes du Vésuve, celles-ci sentaient
qu'elles étaient menacées du sort des villes maudites de la
Bible. On a retrouvé sur les murs d'une des maisons de
Pompéi cette inscription révélatrice : « Sodoma, Gomora. »
Je ne sais si ce fut ce nom de Sodome et les idées qu'il éveilla
en lui, soit celle du bombardement, qui firent que M. de
Charlus leva un instant les yeux au ciel, mais il les ramena
bientôt sur la terre. « J'admire tous les héros de cette guerre,
dit-il. Tenez, mon cher, les soldats anglais que j'ai un peu
légèrement considérés au début de la guerre comme de
simples joueurs de football assez présomptueux pour se
mesurer avec des professionnels – et quels professionnels ! –
hé bien, rien qu'esthétiquement ce sont des athlètes de la
Grèce, vous entendez bien, de la Grèce, mon cher, ce sont
les jeunes gens de Platon, ou plutôt des Spartiates. J'ai un
ami qui est allé à Rouen où ils ont leur camp, il a vu des
merveilles, de pures merveilles dont on n'a pas idée. Ce n'est
plus Rouen, c'est une autre ville. Évidemment il y a aussi
l'ancien Rouen, avec les Saints émaciés de la cathédrale. Bien
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entendu, c'est beau aussi, mais c'est autre chose. Et nos
poilus ! je ne peux pas vous dire quelle saveur je trouve en
nos poilus, aux petits Parigots, tenez, comme celui qui passe
là, avec son air dessalé, sa mine éveillée et drôle. Il m'arrive
souvent de les arrêter, de faire un brin de causette avec eux,
quelle finesse, quel bon sens ! et les gars de province, comme
ils sont amusants et gentils avec leur roulement d'r et leur
jargon patoiseur !... Moi, j'ai toujours beaucoup vécu à la
campagne, couché dans les fermes, je sais leur parler, mais
notre admiration pour les Français ne doit pas nous faire
déprécier nos ennemis, ce serait nous diminuer nous-mêmes.
Et vous ne savez pas quel soldat est le soldat allemand, vous
ne l'avez pas vu comme moi défiler au pas de parade, au pas
de l'oie, « unter den Linden ». En revenant à l'idéal de virilité
qu'il m'avait esquissé à Balbec et qui avec le temps avait pris
chez lui une forme philosophique, usant, d'ailleurs, de
raisonnements absurdes, qui par moments, même quand il
venait d'être supérieur, laissaient voir la trame trop mince du
simple homme du monde, bien qu'homme du monde
intelligent : « Voyez-vous, me dit-il, le superbe gaillard qu'est
le soldat boche est un être fort, sain, ne pensant qu'à la
grandeur de son pays, « Deutschland über alles », ce qui n'est
pas si bête, et tandis qu'ils se préparaient virilement, nous
nous sommes abîmés dans le dilettantisme. » Ce mot
signifiait probablement pour M. de Charlus quelque chose
d'analogue à la littérature, car aussitôt se rappelant sans
doute que j'aimais les lettres et avais eu un moment
l'intention de m'y adonner, il me tapa sur l'épaule (profitant
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du geste pour s'y appuyer jusqu'à me faire aussi mal
qu'autrefois, quand je faisais mon service militaire, le recul
contre l'omoplate du « 76 »), il me dit comme pour adoucir le
reproche : « Oui, nous nous sommes abîmés dans le
dilettantisme, nous tous, vous aussi, rappelez-vous, vous
pouvez faire comme moi votre mea culpa, nous avons été
trop dilettantes. » Par surprise du reproche, manque d'esprit
de repartie, déférence envers mon interlocuteur et
attendrissement pour son amicale bonté, je répondis comme
si, ainsi qu'il m'y invitait, j'avais aussi à me frapper la poitrine,
ce qui était parfaitement stupide car je n'avais pas l'ombre de
dilettantisme à me reprocher. « Allons, me dit-il, je vous
quitte (le groupe qui l'avait escorté de loin ayant fini par nous
abandonner). Je m'en vais me coucher comme un très vieux
Monsieur, d'autant plus qu'il paraît que la guerre a changé
toutes nos habitudes, un de ces aphorismes qu'affectionne
Norpois. » Je savais, du reste, qu'en rentrant chez lui M. de
Charlus ne cessait pas pour cela d'être au milieu des soldats,
car il avait transformé son hôtel en hôpital militaire, cédant
du reste, je le crois, aux besoins bien moins de son
imagination que de son bon cœur.
Il faisait une nuit transparente et sans un souffle.
J'imaginais que la Seine coulant entre ses ponts circulaires,
faits de leur plateau et de son reflet, devait ressembler au
Bosphore. Et symbole soit de cette invasion que prédisait le
défaitisme de M. de Charlus, soit de la coopération de nos
frères musulmans avec les armées de la France, la lune
étroite et recourbée comme un sequin semblait mettre le ciel
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parisien sous le signe oriental du croissant. Pour un instant
encore il resta en arrêt devant un Sénégalais en me disant
adieu et en me serrant la main à me la broyer, ce qui est une
particularité allemande chez les gens qui sentent comme le
baron, et en continuant pendant quelque temps à me la
malaxer, eût dit jadis Cottard, comme si M. de Charlus avait
voulu rendre à mes articulations une souplesse qu'elles
n'avaient point perdue. Chez certains aveugles, le toucher
supplée dans une certaine mesure à la vue. Je ne sais trop de
quel sens il prenait la place ici. Il croyait peut-être seulement
me serrer la main comme il crut sans doute ne faire que voir
le Sénégalais qui passait dans l'ombre et ne daigna pas
s'apercevoir qu'il était admiré. Mais, dans ces deux cas, le
baron se trompait, il péchait par excès de contact et de
regards. « Est-ce que tout l'Orient de Decamps, de
Fromentin, d'Ingres, de Delacroix n'est pas là dedans ? me
dit-il, encore immobilisé par le passage du Sénégalais. Vous
savez, moi, je ne m'intéresse jamais aux choses et aux êtres
qu'en peintre, en philosophe. D'ailleurs je suis trop vieux.
Mais quel malheur, pour compléter le tableau, que l'un de
nous deux ne soit pas une odalisque. »
Ce ne fut pas l'Orient de Decamps, ni même de Delacroix
qui commença de hanter mon imagination quand le baron
m'eut quitté, mais le vieil Orient de ces Mille et une Nuits
que j'avais tant aimées, et, me perdant peu à peu dans le lacis
de ces rues noires, je pensais au calife Haroun Al Raschid en
quête d'aventures dans les quartiers perdus de Bagdad.
D'autre part, la chaleur du temps et de la marche m'avait
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donné soif, mais depuis longtemps tous les bars étaient
fermés, et à cause de la pénurie d'essence les rares taxis que
je rencontrais, conduits par des Levantins ou des Nègres, ne
prenaient même pas la peine de répondre à mes signes. Le
seul endroit où j'aurais pu me faire servir à boire et reprendre
des forces pour rentrer chez moi eût été un hôtel. Mais dans
la rue assez éloignée du centre où j'étais parvenu, tous,
depuis que sur Paris les gothas lançaient leurs bombes,
avaient fermé. Il en était de même de presque toutes les
boutiques de commerçants, lesquels, faute d'employés ou
eux-mêmes pris de peur, avaient fui à la campagne et laissé
sur la porte un avertissement habituel écrit à la main et
annonçant leur réouverture pour une époque éloignée et,
d'ailleurs, problématique. Les autres établissements qui
avaient pu survivre encore annonçaient de la même manière
qu'ils n'ouvraient que deux fois par semaine. On sentait que
la misère, l'abandon, la peur habitaient tout ce quartier. Je
n'en fus que plus surpris de voir qu'entre ces maisons
délaissées il y en avait une où la vie au contraire semblait
avoir vaincu l'effroi, la faillite, et entretenait l'activité et la
richesse. Derrière les volets clos de chaque fenêtre la
lumière, tamisée à cause des ordonnances de police, décelait
pourtant un insouci complet de l'économie. Et à tout instant
la porte s'ouvrait pour laisser entrer ou sortir quelque visiteur
nouveau. C'était un hôtel par qui la jalousie de tous les
commerçants voisins (à cause de l'argent que ses
propriétaires devaient gagner) devait être excitée ; et ma
curiosité le fut aussi quand je vis sortir rapidement, à une
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quinzaine de mètres de moi, c'est-à-dire trop loin pour que
dans l'obscurité profonde je pusse le reconnaître, un officier.
Quelque chose pourtant me frappa qui n'était pas sa figure
que je ne voyais pas, ni son uniforme dissimulé dans une
grande houppelande, mais la disproportion extraordinaire
entre le nombre de points différents par où passa son corps
et le petit nombre de secondes pendant lesquelles cette
sortie, qui avait l'air de la sortie tentée par un assiégé,
s'exécuta. De sorte que je pensai, si je ne le reconnus pas
formellement – je ne dirai pas même à la tournure ni à la
sveltesse, ni à l'allure, ni à la vélocité de Saint-Loup – mais à
l'espèce d'ubiquité qui lui était si spéciale. Le militaire
capable d'occuper en si peu de temps tant de positions
différentes dans l'espace avait disparu, sans m'avoir aperçu,
dans une rue de traverse, et je restais à me demander si je
devais ou non entrer dans cet hôtel dont l'apparence
modeste me fit fortement douter que ce fût Saint-Loup qui
en fût sorti. Je me rappelai involontairement que Saint-Loup
avait été injustement mêlé à une affaire d'espionnage parce
qu'on avait trouvé son nom dans les lettres saisies sur un
officier allemand. Pleine justice lui avait d'ailleurs été rendue
par l'autorité militaire. Mais malgré moi je rapprochai ce fait
de ce que je voyais. Cet hôtel servait-il de lieu de rendezvous à des espions ? L'officier avait depuis un moment
disparu quand je vis entrer de simples soldats de plusieurs
armes, ce qui ajouta encore à la force de ma supposition.
J'avais, d'autre part, extrêmement soif. « Il est probable que
je pourrai trouver à boire ici », me dis-je, et j'en profitai pour
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tâcher d'assouvir, malgré l'inquiétude qui s'y mêlait, ma
curiosité. Je ne pense donc pas que ce fut la curiosité de cette
rencontre qui me décida à monter le petit escalier de
quelques marches au bout duquel la porte d'une espèce de
vestibule était ouverte, sans doute à cause de la chaleur. Je
crus d'abord que, cette curiosité, je ne pourrais la satisfaire,
car je vis plusieurs personnes venir demander une chambre,
à qui on répondit qu'il n'y en avait plus une seule. Mais je
compris ensuite qu'elles n'avaient évidemment contre elles
que de ne pas faire partie du nid d'espionnage, car un simple
marin s'étant présenté un moment après on se hâta de lui
donner le n° 28. Je pus apercevoir sans être vu, grâce à
l'obscurité, quelques militaires et deux ouvriers qui causaient
tranquillement dans une petite pièce étouffée,
prétentieusement ornée de portraits en couleurs de femmes
découpés dans des magazines et des revues illustrées. Ces
gens causaient tranquillement, en train d'exposer des idées
patriotiques : « Qu'est-ce que tu veux, on fera comme les
camarades », disait l'un. « Ah ! pour sûr que je pense bien ne
pas être tué », répondait à un vœu que je n'avais pas entendu,
un autre qui, à ce que je compris, repartait le lendemain pour
un poste dangereux. « Par exemple, à vingt-deux ans, en
n'ayant encore fait que six mois, ce serait fort », criait-il avec
un ton où perçait encore plus que le désir de vivre
longtemps la conscience de raisonner juste, et comme si le
fait de n'avoir que vingt-deux ans devait lui donner plus de
chances de ne pas être tué, et que ce dût être une chose
impossible qu'il le fût. « À Paris c'est épatant, disait un autre ;
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on ne dirait pas qu'il y a la guerre. Et toi, Julot, tu t'engages
toujours ? – Pour sûr que je m'engage, j'ai envie d'aller y
taper un peu dans le tas à tous ces sales Boches. – Mais
Joffre, c'est un homme qui couche avec les femmes des
Ministres, c'est pas un homme qui a fait quelque chose. –
C'est malheureux d'entendre des choses pareilles, dit un
aviateur un peu plus âgé en se tournant vers l'ouvrier qui
venait de faire entendre cette proposition ; je vous
conseillerais pas de causer comme ça en première ligne, les
poilus vous auraient vite expédié. » La banalité de ces
conversations ne me donnait pas grande envie d'en entendre
davantage, et j'allais entrer ou redescendre quand je fus tiré
de mon indifférence en entendant ces phrases qui me firent
frémir : « C'est épatant, le patron qui ne revient pas, dame, à
cette heure-ci je ne sais pas trop où il trouvera des chaînes. –
Mais puisque l'autre est déjà attaché. – Il est attaché bien sûr,
il est attaché et il ne l'est pas, moi je serais attaché comme ça
que je pourrais me détacher. – Mais le cadenas est fermé. –
C'est entendu qu'il est fermé, mais ça peut s'ouvrir à la
rigueur. Ce qu'il y a, c'est que les chaînes ne sont pas assez
longues. Tu vas pas m'expliquer à moi ce que c'est, j'y ai tapé
dessus hier pendant toute la nuit que le sang m'en coulait sur
les mains. – C'est toi qui taperas ce soir. – Non, c'est pas
moi, c'est Maurice. Mais ça sera moi dimanche, le patron me
l'a promis. » Je compris maintenant pourquoi on avait eu
besoin des bras solides du marin. Si on avait éloigné de
paisibles bourgeois, ce n'était donc pas qu'un nid d'espions
que cet hôtel. Un crime atroce allait y être consommé, si on
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n'arrivait pas à temps pour le découvrir et faire arrêter les
coupables. Tout cela pourtant, dans cette nuit paisible et
menacée, gardait une apparence de rêve, de conte, et c'est à
la fois avec une fierté de justicier et une volupté de poète que
j'entrai délibérément dans l'hôtel. Je touchai légèrement mon
chapeau et les personnes présentes, sans se déranger,
répondirent plus ou moins poliment à mon salut. « Est-ce
que vous pourriez me dire à qui il faut m'adresser ? Je
voudrais avoir une chambre et qu'on m'y monte à boire. –
Attendez une minute, le patron est sorti. – Mais il y a le chef
là-haut, insinua un des causeurs. – Mais tu sais bien qu'on ne
peut pas le déranger. – Croyez-vous qu'on me donnera une
chambre ? – J'crois. – Le 43 doit être libre », dit le jeune
homme qui était sûr de ne pas être tué parce qu'il avait vingtdeux ans. Et il se poussa légèrement sur le sofa pour me faire
place. « Si on ouvrait un peu la fenêtre, il y a une fumée ici »,
dit l'aviateur ; et en effet chacun avait sa pipe ou sa cigarette.
« Oui, mais alors, fermez d'abord les volets, vous savez bien
qu'il est défendu d'avoir de la lumière à cause des Zeppelins.
– Il n'en viendra plus de Zeppelins. Les journaux ont même
fait allusion sur ce qu'ils avaient été tous descendus. – Il n'en
viendra plus, il n'en viendra plus, qu'est-ce que tu en sais ?
Quand tu auras comme moi quinze mois de front et que tu
auras abattu ton cinquième avion boche, tu pourras en
causer. Faut pas croire les journaux. Ils sont allés hier sur
Compiègne, ils ont tué une mère de famille avec ses deux
enfants. – Une mère de famille avec ses deux enfants », dit
avec des yeux ardents et un air de profonde pitié le jeune
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homme qui espérait bien ne pas être tué et qui avait, du
reste, une figure énergique, ouverte et des plus
sympathiques. « On n'a pas de nouvelles du grand Julot. Sa
marraine n'a pas reçu de lettre de lui depuis huit jours et c'est
la première fois qu'il reste si longtemps sans lui en donner. –
Qui est sa marraine ? – C'est la dame qui tient le chalet de
nécessité un peu plus bas que l'Olympia. – Ils couchent
ensemble ? – Qu'est-ce que tu dis là ; c'est une femme
mariée, tout ce qu'il y a de sérieuse. Elle lui envoie de l'argent
toutes les semaines parce qu'elle a bon cœur. Ah ! c'est une
chic femme. – Alors tu le connais, le grand Julot ? – Si je le
connais ! reprit avec chaleur le jeune homme de vingt-deux
ans. C'est un de mes meilleurs amis intimes. Il n'y en a pas
beaucoup que j'estime comme lui, et bon camarade, toujours
prêt à rendre service, ah ! tu parles que ce serait un rude
malheur s'il lui était arrivé quelque chose. » Quelqu'un
proposa une partie de dés et à la hâte fébrile avec laquelle le
jeune homme de vingt-deux ans retournait les dés et criait les
résultats, les yeux hors de la tête, il était aisé de voir qu'il
avait un tempérament de joueur. Je ne saisis pas bien ce que
quelqu'un lui dit ensuite, mais il s'écria d'un ton de profonde
pitié : « Julot, un maquereau ! C'est-à-dire qu'il dit qu'il est un
maquereau. Mais il n'est pas foutu de l'être. Moi je l'ai vu
payer sa femme, oui, la payer. C'est-à-dire que je ne dis pas
que Jeanne l'Algérienne ne lui donnait pas quelque chose,
mais elle ne lui donnait pas plus de cinq francs, une femme
qui était en maison, qui gagnait plus de cinquante francs par
jour. Se faire donner que cinq francs ! il faut qu'un homme
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soit trop bête. Et maintenant qu'elle est sur le front, elle a
une vie dure, je veux bien, mais elle gagne ce qu'elle veut ; eh
bien, elle ne lui envoie rien. Ah ! un maquereau, Julot ? Il y
en a beaucoup qui pourraient se dire maquereaux à ce
compte-là. Non seulement ce n'est pas un maquereau, mais à
mon avis c'est même un imbécile. » Le plus vieux de la
bande, et que le patron avait sans doute, à cause de son âge,
chargé de lui faire garder une certaine tenue, n'entendit, étant
allé un moment jusqu'aux cabinets, que la fin de la
conversation. Mais il ne put s'empêcher de me regarder et
parut visiblement contrarié de l'effet qu'elle avait dû produire
sur moi. Sans s'adresser spécialement au jeune homme de
vingt-deux ans qui venait pourtant d'exposer cette théorie de
l'amour vénal, il dit, d'une façon générale : « Vous causez
trop et trop fort, la fenêtre est ouverte, il y a des gens qui
dorment à cette heure-ci. Vous savez que si le patron rentrait
et vous entendait causer comme ça, il ne serait pas content. »
Précisément en ce moment on entendit la porte s'ouvrir et
tout le monde se tut croyant que c'était le patron, mais ce
n'était qu'un chauffeur d'auto étranger auquel tout le monde
fit grand accueil. Mais en voyant une chaîne de montre
superbe qui s'étalait sur la veste du chauffeur, le jeune
homme de vingt-deux ans lui lança un coup d'œil interrogatif
et rieur, suivi d'un froncement de sourcil et d'un clignement
d'œil sévère dirigé de mon côté. Et je compris que le premier
regard voulait dire : « Qu'est-ce que ça ? tu l'as volée ?
Toutes mes félicitations. » Et le second : « Ne dis rien à
cause de ce type que nous ne connaissons pas. » Tout à coup
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le patron entra, chargé de plusieurs mètres de grosses
chaînes capables d'attacher plusieurs forçats, suant, et dit : «
J'en ai une charge, si vous tous vous n'étiez pas si fainéants,
je ne devrais pas être obligé d'y aller moi-même. » Je lui dis
que je demandais une chambre. « Pour quelques heures
seulement, je n'ai pas trouvé de voiture et je suis un peu
malade. Mais je voudrais qu'on me monte à boire. – Pierrot,
va à la cave chercher du cassis et dis qu'on mette en état le
numéro 43. Voilà le 7 qui sonne. Ils disent qu'ils sont
malades. Malades, je t'en fiche, c'est des gens à prendre de la
coco, ils ont l'air à moitié piqués, il faut les foutre dehors. At-on mis une paire de draps au 22 ? Bon ! voilà le 7 qui sonne
encore, cours-y voir. Allons, Maurice, qu'est-ce que tu fais là,
tu sais bien qu'on t'attend, monte au 14 bis. Et plus vite que
ça. » Et Maurice sortit rapidement, suivant le patron qui, un
peu ennuyé que j'eusse vu ses chaînes, disparut en les
emportant. « Comment que tu viens si tard ? » demanda le
jeune homme de vingt-deux ans au chauffeur. « Comment, si
tard, je suis d'une heure en avance. Mais il fait trop chaud
marcher. J'ai rendez-vous qu'à minuit. – Pour qui donc est-ce
que tu viens ? – Pour Pamela la charmeuse », dit le chauffeur
oriental dont le rire découvrit les belles dents blanches. « Ah
! » dit le jeune homme de vingt-deux ans. Bientôt on me fit
monter dans la chambre 43, mais l'atmosphère était si
désagréable et ma curiosité si grande que, mon « cassis » bu,
je redescendis l'escalier, puis, pris d'une autre idée, je
remontai et dépassai l'étage de la chambre 43, allai jusqu'en
haut. Tout à coup, d'une chambre qui était isolée au bout
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d'un couloir me semblèrent venir des plaintes étouffées. Je
marchai vivement dans cette direction et appliquai mon
oreille à la porte. « Je vous en supplie, grâce, grâce, pitié,
détachez-moi, ne me frappez pas si fort, disait une voix. Je
vous baise les pieds, je m'humilie, je ne recommencerai pas.
Ayez pitié. – Non, crapule, répondit une autre voix, et
puisque tu gueules et que tu te traînes à genoux, on va
t'attacher sur le lit, pas de pitié », et j'entendis le bruit du
claquement d'un martinet, probablement aiguisé de clous car
il fut suivi de cris de douleur. Alors je m'aperçus qu'il y avait
dans cette chambre un œil-de-bœuf latéral dont on avait
oublié de tirer le rideau ; cheminant à pas de loup dans
l'ombre, je me glissai jusqu'à cet œil-de-bœuf, et là, enchaîné
sur un lit comme Prométhée sur son rocher, recevant les
coups d'un martinet en effet planté de clous que lui infligeait
Maurice, je vis, déjà tout en sang, et couvert d'ecchymoses
qui prouvaient que le supplice n'avait pas lieu pour la
première fois, je vis devant moi M. de Charlus. Tout à coup
la porte s'ouvrit et quelqu'un entra qui heureusement ne me
vit pas, c'était Jupien. Il s'approcha du baron avec un air de
respect et un sourire d'intelligence : « Hé bien, vous n'avez
pas besoin de moi ? » Le baron pria Jupien de faire sortir un
moment Maurice. Jupien le mit dehors avec la plus grande
désinvolture. « On ne peut pas nous entendre ? » dit le baron
à Jupien, qui lui affirma que non. Le baron savait que Jupien,
intelligent comme un homme de lettres, n'avait nullement
l'esprit pratique, parlait toujours, devant les intéressés, avec
des sous-entendus qui ne trompaient personne et des
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surnoms que tout le monde connaissait. « Une seconde »,
interrompit Jupien qui avait entendu une sonnette retentir à
la chambre n° 3. C'était un député de l'Action Libérale qui
sortait. Jupien n'avait pas besoin de voir le tableau car il
connaissait son coup de sonnette, le député venant, en effet,
tous les jours après déjeuner. Il avait été obligé ce jour-là de
changer ses heures, car il avait marié sa fille à midi à SaintPierre de Chaillot. Il était donc venu le soir, mais tenait à
partir de bonne heure à cause de sa femme, vite inquiète
quand il rentrait tard, surtout par ces temps de
bombardement. Jupien tenait à accompagner sa sortie pour
témoigner de la déférence qu'il portait à la qualité
d'honorable, sans aucun intérêt personnel d'ailleurs. Car bien
que ce député, répudiant les exagérations de l'Action
Française (il eût, d'ailleurs, été incapable de comprendre une
ligne de Charles Maurras ou de Léon Daudet), fût bien avec
les ministres, flattés d'être invités à ses chasses, Jupien
n'aurait pas osé lui demander le moindre appui dans ses
démêlés avec la police. Il savait que, s'il s'était risqué à parler
de cela au législateur fortuné et froussard, il n'aurait pas évité
la plus inoffensive des « descentes » mais eût instantanément
perdu le plus généreux de ses clients. Après avoir reconduit
jusqu'à la porte le député, qui avait rabattu son chapeau sur
ses yeux, relevé son col et, glissant rapidement comme il
faisait dans ses programmes électoraux, croyait cacher son
visage, Jupien remonta près de M. de Charlus à qui il dit : «
C'était Monsieur Eugène. » Chez Jupien, comme dans les
maisons de santé, on n'appelait les gens que par leur prénom
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tout en ayant soin d'ajouter à l'oreille, pour satisfaire la
curiosité des habitués ou augmenter le prestige de la maison,
leur nom véritable. Quelquefois cependant Jupien ignorait la
personnalité vraie de ses clients, s'imaginait et disait que
c'était tel boursier, tel noble, tel artiste, erreurs passagères et
charmantes pour ceux qu'on nommait à tort, et finissait par
se résigner à ignorer toujours qui était Monsieur Victor.
Jupien avait aussi l'habitude, pour plaire au baron, de faire
l'inverse de ce qui est de mise dans certaines réunions. « Je
vais vous présenter Monsieur Lebrun » (à l'oreille : « Il se fait
appeler M. Lebrun mais en réalité c'est le grand-duc de
Russie »). Inversement, Jupien sentait que ce n'était pas
encore assez de présenter à M. de Charlus un garçon laitier.
Il lui murmurait en clignant de l'œil : « Il est garçon laitier,
mais, au fond, c'est surtout un des plus dangereux apaches
de Belleville » (il fallait voir le ton grivois dont Jupien disait «
apache »). Et comme si ces références ne suffisaient pas, il
tâchait d'ajouter quelques « citations ». « Il a été condamné
plusieurs fois pour vol et cambriolage de villas, il a été à
Fresnes pour s'être battu (même air grivois) avec des
passants qu'il a à moitié estropiés et il a été au bat' d'Af. Il a
tué son sergent. »
Le baron en voulait même légèrement à Jupien, car il savait
que dans cette maison, qu'il avait chargé son factotum
d'acheter pour lui et de faire gérer par un sous-ordre, tout le
monde, par les maladresses de l'oncle de Mlle d'Oloron, feu
Mme de Cambremer, connaissait plus ou moins sa
personnalité et son nom (beaucoup seulement croyaient que
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c'était un surnom et, le prononçant mal, l'avaient déformé,
de sorte que la sauvegarde du baron avait été leur propre
bêtise et non la discrétion de Jupien). Mais il trouvait plus
simple de se laisser rassurer par ses assurances, et tranquillisé
de savoir qu'on ne pouvait les entendre, le baron lui dit : « Je
ne voulais pas parler devant ce petit, qui est très gentil et fait
de son mieux. Mais je ne le trouve pas assez brutal. Sa figure
me plaît, mais il m'appelle « crapule » comme si c'était une
leçon apprise. – Oh ! non, personne ne lui a rien dit,
répondit Jupien sans s'apercevoir de l'invraisemblance de
cette assertion. Il a, du reste, été compromis dans le meurtre
d'une concierge de la Villette. – Ah ! cela c'est assez
intéressant, dit le baron avec un sourire. – Mais j'ai justement
là le tueur de bœufs, l'homme des abattoirs qui lui ressemble
; il a passé par hasard. Voulez-vous en essayer ? – Ah ! oui,
volontiers. » Je vis entrer l'homme des abattoirs, il
ressemblait, en effet, un peu à « Maurice », mais, chose plus
curieuse, tous deux avaient quelque chose d'un type que
personnellement je n'avais jamais dégagé, mais qu'à ce
moment je me rendis très bien compte exister dans la figure
de Morel, sinon dans la figure de Morel telle que je l'avais
toujours vue, du moins dans un certain visage que des yeux
aimants voyant Morel autrement que moi auraient pu
composer avec ses traits. Dès que je me fus fait
intérieurement, avec des traits empruntés à mes souvenirs de
Morel, cette maquette de ce qu'il pouvait représenter à un
autre, je me rendis compte que ces deux jeunes gens, dont
l'un était un garçon bijoutier et l'autre un employé d'hôtel,
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étaient de vagues succédanés de Morel. Fallait-il en conclure
que M. de Charlus, au moins en une certaine forme de ses
amours, était toujours fidèle à un même type et que le désir
qui lui avait fait choisir l'un après l'autre ces deux jeunes gens
était le même que celui qui lui avait fait arrêter Morel sur le
quai de la gare de Doncières ; que tous trois ressemblaient
un peu à l'éphèbe dont la forme, intaillée dans le saphir
qu'étaient les yeux de M. de Charlus, donnait à son regard ce
quelque chose de si particulier qui m'avait effrayé le premier
jour à Balbec ? Ou que son amour pour Morel ayant modifié
le type qu'il cherchait, pour se consoler de son absence il
cherchait des hommes qui lui ressemblassent ? Une
supposition que je fis aussi fut que peut-être il n'avait jamais
existé entre Morel et lui, malgré les apparences, que des
relations d'amitié, et que M. de Charlus faisait venir chez
Jupien des jeunes gens qui ressemblassent assez à Morel
pour qu'il pût avoir auprès d'eux l'illusion de prendre du
plaisir avec lui. Il est vrai qu'en songeant à tout ce que M. de
Charlus a fait pour Morel, cette supposition eût semblé peu
probable si l'on ne savait que l'amour nous pousse non
seulement aux plus grands sacrifices pour l'être que nous
aimons, mais parfois jusqu'au sacrifice de notre désir luimême qui, d'ailleurs, est d'autant moins facilement exaucé
que l'être que nous aimons sent que nous aimons davantage.
Ce qui enlève aussi à une telle supposition l'invraisemblance
qu'elle semble avoir au premier abord (bien qu'elle ne
corresponde sans doute pas à la réalité) est dans le
tempérament nerveux, dans le caractère profondément
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passionné de M. de Charlus, pareil en cela à celui de SaintLoup, et qui avait pu jouer au début de ses relations avec
Morel le même rôle, et plus décent, et négatif, qu'au début
des relations de son neveu avec Rachel. Les relations avec
une femme qu'on aime (et cela peut s'étendre à l'amour pour
un jeune homme) peuvent rester platoniques pour une autre
raison que la vertu de la femme ou que la nature peu
sensuelle de l'amour qu'elle inspire. Cette raison peut être
que l'amoureux, trop impatient par l'excès même de son
amour, ne sait pas attendre avec une feinte suffisante
d'indifférence le moment où il obtiendra ce qu'il désire. Tout
le temps il revient à la charge, il ne cesse d'écrire à celle qu'il
aime, il cherche tout le temps à la voir, elle le lui refuse, il est
désespéré. Dès lors elle a compris que si elle lui accorde sa
compagnie, son amitié, ces biens paraîtront déjà tellement
considérables à celui qui a cru en être privé qu'elle peut se
dispenser de donner davantage et profiter d'un moment où il
ne peut plus supporter de ne pas la voir, où il veut à tout
prix terminer la guerre, en lui imposant une paix qui aura
pour première condition le platonisme des relations.
D'ailleurs, pendant tout le temps qui a précédé ce traité,
l'amoureux tout le temps anxieux, sans cesse à l'affût d'une
lettre, d'un regard, a cessé de penser à la possession physique
dont le désir l'avait tourmenté d'abord mais qui s'est usé dans
l'attente et a fait place à des besoins d'un autre ordre, plus
douloureux d'ailleurs s'ils ne sont pas satisfaits. Alors le
plaisir qu'on avait le premier jour espéré des caresses, on le
reçoit plus tard tout dénaturé sous la forme de paroles
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amicales, de promesses de présence qui, après les effets de
l'incertitude, quelquefois simplement après un regard
embrumé de tous les brouillards de la froideur et qui recule
si loin la personne qu'on croit qu'on ne la reverra jamais,
amènent de délicieuses détentes. Les femmes devinent tout
cela et savent qu'elles peuvent s'offrir le luxe de ne se donner
jamais à ceux dont elles sentent, s'ils ont été trop nerveux
pour le leur cacher les premiers jours, l'inguérissable désir
qu'ils ont d'elles. La femme est trop heureuse que, sans rien
donner, elle reçoive beaucoup plus qu'elle n'a d'habitude
quand elle se donne. Les grands nerveux croient ainsi à la
vertu de leur idole. Et l'auréole qu'ils mettent autour d'elle
est aussi un produit, mais, comme on voit, fort indirect, de
leur excessif amour. Il existe alors chez la femme ce qui
existe à l'état inconscient chez les médicaments à leur insu
rusés, comme sont les soporifiques, la morphine. Ce n'est
pas à ceux à qui ils donnent le plaisir du sommeil ou un
véritable bien-être qu'ils sont absolument nécessaires. Ce
n'est pas par ceux-là qu'ils seraient achetés à prix d'or,
échangés contre tout ce que le malade possède, c'est par ces
autres malades (d'ailleurs peut-être les mêmes, mais, à
quelques années de distance, devenus autres) que le
médicament ne fait pas dormir, à qui il ne cause aucune
volupté, mais qui, tant qu'ils ne l'ont pas, sont en proie à une
agitation qu'ils veulent faire cesser à tout prix, fût-ce en se
donnant la mort. Pour M. de Charlus, dont le cas, en
somme, avec cette légère différenciation due à la similitude
du sexe, rentre dans les lois générales de l'amour, il avait
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beau appartenir à une famille plus ancienne que les
Capétiens, être riche, être vainement recherché par une
société élégante, et Morel n'être rien, il aurait eu beau dire à
Morel, comme il m'avait dit à moi-même : « Je suis prince, je
veux votre bien », encore était-ce Morel qui avait le dessus
s'il ne voulait pas se rendre. Et pour qu'il ne le voulût pas, il
suffisait peut-être qu'il se sentît aimé. L'horreur que les
grands ont pour les snobs qui veulent à toute force se lier
avec eux, l'homme viril l'a pour l'inverti, la femme pour tout
homme trop amoureux. M. de Charlus non seulement avait
tous les avantages, mais en eût proposé d'immenses à Morel.
Mais il est possible que tout cela se fût brisé contre une
volonté. Il en eût été dans ce cas de M. de Charlus comme
de ces Allemands, auxquels il appartenait, du reste, par ses
origines, et qui, dans la guerre qui se déroulait à ce moment,
étaient bien, comme le baron le répétait un peu trop
volontiers, vainqueurs sur tous les fronts. Mais à quoi leur
servait leur victoire, puisque après chacune ils trouvaient les
Alliés plus résolus à leur refuser la seule chose qu'eux, les
Allemands, eussent souhaité d'obtenir, la paix et la
réconciliation ? Ainsi Napoléon entrait en Russie et
demandait magnanimement aux autorités de venir vers lui.
Mais personne ne se présentait.
Je descendis et rentrai dans la petite antichambre où
Maurice, incertain si on le rappellerait et à qui Jupien avait à
tout hasard dit d'attendre, était en train de faire une partie de
cartes avec un de ses camarades. On était très agité d'une
croix de guerre qui avait été trouvée par terre, et on ne savait
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pas qui l'avait perdue, à qui la renvoyer pour éviter au
titulaire un ennui. Puis on parla de la bonté d'un officier qui
s'était fait tuer pour tâcher de sauver son ordonnance. « Il y a
tout de même du bon monde chez les riches. Moi je me
ferais tuer avec plaisir pour un type comme ça », dit Maurice,
qui, évidemment, n'accomplissait ses terribles fustigations
sur le baron que par une habitude mécanique, les effets d'une
éducation négligée, le besoin d'argent et un certain penchant
à le gagner d'une façon qui était censée donner moins de mal
que le travail et en donnait peut-être davantage. Mais, ainsi
que l'avait craint M. de Charlus, c'était peut-être un très bon
cœur et c'était, paraît-il, un garçon d'une admirable bravoure.
Il avait presque les larmes aux yeux en parlant de la mort de
cet officier et le jeune homme de vingt-deux ans n'était pas
moins ému. « Ah ! oui, ce sont de chic types. Des
malheureux comme nous encore, ça n'a pas grand'chose à
perdre, mais un Monsieur qui a des tas de larbins, qui peut
aller prendre son apéro tous les jours à 6 heures, c'est
vraiment chouette. On peut charrier tant qu'on veut, mais
quand on voit des types comme ça mourir, ça fait vraiment
quelque chose. Le bon Dieu ne devrait pas permettre que
des riches comme ça meurent ; d'abord ils sont trop utiles à
l'ouvrier. Rien qu'à cause d'une mort comme ça faudra tuer
tous les Boches jusqu'au dernier ; et ce qu'ils ont fait à
Louvain, et couper des poignets de petits enfants ; non, je ne
sais pas, moi je ne suis pas meilleur qu'un autre, mais je me
laisserais envoyer des pruneaux dans la gueule plutôt que
d'obéir à des barbares comme ça ; car c'est pas des hommes,
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c'est des vrais barbares, tu ne diras pas le contraire. » Tous
ces garçons étaient, en somme, patriotes. Un seul,
légèrement blessé au bras, ne fut pas à la hauteur des autres
car il dit, comme il devait bientôt repartir : « Dame, ça n'a
pas été la bonne blessure » (celle qui fait réformer), comme
Mme Swann disait jadis : « J'ai trouvé le moyen d'attraper la
fâcheuse influenza. » La porte se rouvrit sur le chauffeur qui
était allé un instant prendre l'air. « Comment, c'est déjà fini ?
ça n'a pas été long », dit-il en apercevant Maurice qu'il croyait
en train de frapper celui qu'on avait surnommé, par allusion
à un journal qui paraissait à cette époque : « l'Homme
enchaîné ». « Ce n'est pas long pour toi qui es allé prendre
l'air, répondit Maurice, froissé qu'on vît qu'il avait déplu làhaut. Mais si tu étais obligé de taper à tour de bras comme
moi, par cette chaleur ! Si c'était pas les cinquante francs qu'il
donne... – Et puis, c'est un homme qui cause bien ; on sent
qu'il a de l'instruction. Dit-il que ce sera bientôt fini ? – Il dit
qu'on ne pourra pas les avoir, que ça finira sans que
personne ait le dessus. – Bon sang de bon sang, mais c'est
donc un Boche... – Je vous ai dit que vous causiez trop haut,
dit le plus vieux aux autres en m'apercevant. Vous avez fini
avec la chambre ? – Ah ! ta gueule, tu n'es pas le maître ici. –
Oui, j'ai fini, et je venais pour payer. – Il vaut mieux que
vous payiez au patron. Maurice, va donc le chercher. – Mais
je ne veux pas vous déranger. – Ça ne me dérange pas. »
Maurice monta et revint en me disant : « Le patron descend.
» Je lui donnai deux francs pour son dérangement. Il rougit
de plaisir. « Ah ! merci bien. Je les enverrai à mon frère qui
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est prisonnier. Non, il n'est pas malheureux, ça dépend
beaucoup des camps. » Pendant ce temps, deux clients très
élégants, en habit et cravate blanche sous leur pardessus –
deux Russes, me sembla-t-il à leur très léger accent – se
tenaient sur le seuil et délibéraient s'ils devaient entrer.
C'était visiblement la première fois qu'ils venaient là, on avait
dû leur indiquer l'endroit et ils semblaient partagés entre le
désir, la tentation et une extrême frousse. L'un des deux – un
beau jeune homme – répétait toutes les deux minutes à
l'autre, avec un sourire mi-interrogateur, mi-destiné à
persuader : « Quoi ! Après tout on s'en fiche. » Mais il avait
beau vouloir dire par là qu'après tout on se fichait des
conséquences, il est probable qu'il ne s'en fichait pas tant que
cela, car cette parole n'était suivie d'aucun mouvement pour
entrer, mais d'un nouveau regard vers l'autre, suivi du même
sourire et du même « après tout, on s'en fiche ». C'était, ce «
après tout on s'en fiche ! », un exemplaire entre mille de ce
magnifique langage, si différent de celui que nous parlons
d'habitude, et où l'émotion fait dévier ce que nous voulions
dire et épanouir à la place une phrase tout autre, émergée
d'un lac inconnu où vivent des expressions sans rapport avec
la pensée, et qui par cela même la révèlent. Je me souviens
qu'une fois Albertine, comme Françoise, que nous n'avions
pas entendue, entrait au moment où mon amie était toute
nue contre moi, dit malgré elle, voulant me prévenir : «
Tiens, voilà la belle Françoise. » Françoise, qui n'y voyait pas
très clair et ne faisait que traverser la pièce assez loin de
nous, ne se fût sans doute aperçue de rien. Mais les mots si
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anormaux de « belle Françoise », qu'Albertine n'avait jamais
prononcés de sa vie, montrèrent d'eux-mêmes leur origine ;
elle les sentit cueillis au hasard par l'émotion, n'eut pas
besoin de regarder rien pour comprendre tout et s'en alla en
murmurant dans son patois le mot de « poutana ». Une autre
fois, bien plus tard, quand Bloch devenu père de famille eut
marié une de ses filles à un catholique, un monsieur mal
élevé dit à celle-ci qu'il croyait avoir entendu dire qu'elle était
fille d'un juif et lui en demanda le nom. La jeune femme, qui
avait été Mlle Bloch depuis sa naissance, répondit en
prononçant Bloch à l'allemande, comme eût fait le duc de
Guermantes, c'est-à-dire en prononçant le ch non pas
comme un c ou un k mais avec le rh germanique.
Le patron, pour en revenir à la scène de l'hôtel (dans lequel
les deux Russes s'étaient décidés à pénétrer : « après tout on
s'en fiche »), n'était pas encore revenu que Jupien entra se
plaindre qu'on parlait trop fort et que les voisins se
plaindraient. Mais il s'arrêta stupéfait en m'apercevant. «
Allez-vous-en tous sur le carré. » Déjà tous se levaient quand
je lui dis : « Il serait plus simple que ces jeunes gens restent là
et que j'aille avec vous un instant dehors. » Il me suivit fort
troublé. Je lui expliquai pourquoi j'étais venu. On entendait
des clients qui demandaient au patron s'il ne pouvait pas leur
faire connaître un valet de pied, un enfant de chœur, un
chauffeur nègre. Toutes les professions intéressaient ces
vieux fous ; dans la troupe, toutes les armes et les alliés de
toutes nations. Quelques-uns réclamaient surtout des
Canadiens, subissant peut-être à leur insu le charme d'un
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accent si léger qu'on ne sait pas si c'est celui de la vieille
France ou de l'Angleterre. À cause de leur jupon et parce que
certains rêves lacustres s'associent souvent à de tels désirs,
les Écossais faisaient prime. Et comme toute folie reçoit des
circonstances des traits particuliers, sinon même une
aggravation, un vieillard dont toutes les curiosités avaient été
assouvies demandait avec insistance si on ne pourrait pas lui
faire faire la connaissance d'un mutilé. On entendait des pas
lents dans l'escalier. Par une indiscrétion qui était dans sa
nature Jupien ne put se retenir de me dire que c'était le baron
qui descendait, qu'il ne fallait à aucun prix qu'il me vît, mais
que, si je voulais entrer dans la petite chambre contiguë au
vestibule où étaient les jeunes gens, il allait ouvrir les vasistas,
truc qu'il avait inventé pour que le baron pût voir et
entendre sans être vu, et qu'il allait, me disait-il, retourner en
ma faveur contre lui. « Seulement, ne bougez pas. » Et après
m'avoir poussé dans le noir, il me quitta. D'ailleurs, il n'avait
pas d'autre chambre à me donner, son hôtel, malgré la
guerre, étant plein. Celle que je venais de quitter avait été
prise par le vicomte de Courvoisier qui, ayant pu quitter la
Croix-Rouge de X... pour deux jours, était venu se délasser
une heure à Paris avant d'aller retrouver au château de
Courvoisier la vicomtesse, à qui il dirait n'avoir pas pu
prendre le bon train. Il ne se doutait guère que M. de
Charlus était à quelques mètres de lui, et celui-ci ne s'en
doutait pas davantage, n'ayant jamais rencontré son cousin
chez Jupien, lequel ignorait la personnalité du vicomte
soigneusement dissimulée. Bientôt, en effet, le baron entra,
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marchant assez difficilement à cause des blessures, dont il
devait sans doute pourtant avoir l'habitude. Bien que son
plaisir fût fini et qu'il n'entrât, d'ailleurs, que pour donner à
Maurice l'argent qu'il lui devait, il dirigeait en cercle sur tous
ces jeunes gens réunis un regard tendre et curieux et
comptait bien avoir avec chacun le plaisir d'un bonjour tout
platonique mais amoureusement prolongé. Je lui retrouvai de
nouveau, dans toute la sémillante frivolité dont il fit preuve
devant ce harem qui semblait presque l'intimider, ces
hochements de taille et de tête, ces affinements du regard qui
m'avaient frappé le soir de sa première entrée à la Raspelière,
grâces héritées de quelque grand'mère que je n'avais pas
connue, et que dissimulaient dans l'ordinaire de la vie sur sa
figure des expressions plus viriles, mais qui y épanouissaient
coquettement, dans certaines circonstances où il tenait à
plaire à un milieu inférieur, le désir de paraître grande dame.
Jupien les avait recommandés à la bienveillance du baron en
lui disant que c'étaient tous des « barbeaux » de Belleville et
qu'ils marcheraient avec leur propre sœur pour un louis. Au
reste, Jupien mentait et disait vrai à la fois. Meilleurs, plus
sensibles qu'il ne disait au baron, ils n'appartenaient pas à
une race sauvage. Mais ceux qui les croyaient tels leur
parlaient néanmoins avec la plus entière bonne foi, comme si
ces terribles eussent dû avoir la même. Un sadique a beau se
croire avec un assassin, son âme pure, à lui sadique, n'est pas
changée pour cela et il reste stupéfait devant le mensonge de
ces gens, pas assassins du tout, mais qui désirent gagner
facilement une « thune » et dont le père, ou la mère, ou la
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sœur ressuscitent et remeurent tour à tour en paroles, parce
qu'ils se coupent dans la conversation qu'ils ont avec le client
à qui ils cherchent à plaire. Le client est stupéfié dans sa
naïveté, car dans son arbitraire conception du gigolo, ravi
des nombreux assassinats dont il le croit coupable, il s'effare
d'une contradiction et d'un mensonge qu'il surprend dans ses
paroles. Tous semblaient le connaître et M. de Charlus
s'arrêtait longuement à chacun, leur parlant ce qu'il croyait
leur langage, à la fois par une affectation prétentieuse de
couleur locale et aussi par un plaisir sadique de se mêler à
une vie crapuleuse. « Toi, c'est dégoûtant, je t'ai aperçu
devant l'Olympia avec deux cartons. C'est pour te faire
donner du pèze. Voilà comme tu me trompes. »
Heureusement pour celui à qui s'adressait cette phrase il
n'eut pas le temps de déclarer qu'il n'eût jamais accepté de «
pèze » d'une femme, ce qui eût diminué l'excitation de M. de
Charlus, et réserva sa protestation pour la fin de la phrase en
disant : « Oh non ! je ne vous trompe pas. » Cette parole
causa à M. de Charlus un vif plaisir et comme, malgré lui, le
genre d'intelligence qui était naturellement le sien ressortait
d'à travers celui qu'il affectait, il se retourna vers Jupien : « Il
est gentil de me dire ça. Et comme il le dit bien. On dirait
que c'est la vérité. Après tout, qu'est-ce que ça fait que ce
soit la vérité ou non puisqu'il arrive à me le faire croire.
Quels jolis petits yeux il a. Tiens, je vais te donner deux gros
baisers pour la peine, mon petit gars. Tu penseras à moi dans
les tranchées. C'est pas trop dur ? – Ah ! dame, il y a des
jours, quand une grenade passe à côté de vous. » Et le jeune
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homme se mit à faire des imitations du bruit de la grenade,
des avions, etc. « Mais il faut bien faire comme les autres, et
vous pouvez être sûr et certain qu'on ira jusqu'au bout. –
Jusqu'au bout ! Si on savait seulement jusqu'à quel bout, dit
mélancoliquement le baron qui était « pessimiste ». – Vous
n'avez pas vu que Sarah Bernhardt l'a dit sur les journaux :
La France, elle ira jusqu'au bout. Les Français, ils se feront
tuer plutôt jusqu'au dernier. – Je ne doute pas un seul instant
que les Français ne se fassent bravement tuer jusqu'au
dernier », dit M. de Charlus comme si c'était la chose la plus
simple du monde et bien qu'il n'eût lui-même l'intention de
faire quoi que ce soit, mais pensant par là corriger
l'impression de pacifisme qu'il donnait quand il s'oubliait. «
Je n'en doute pas, mais je me demande jusqu'à quel point
Madame Sarah Bernhardt est qualifiée pour parler au nom de
la France. Mais, ajouta-t-il, il me semble que je ne connais
pas ce charmant, ce délicieux jeune homme », en avisant un
autre qu'il ne reconnaissait pas ou qu'il n'avait peut-être
jamais vu. Il le salua comme il eût salué un prince à
Versailles, et pour profiter de l'occasion d'avoir en
supplément un plaisir gratis – comme quand j'étais petit et
que ma mère venait de faire une commande chez Boissier ou
chez Gouache, je prenais, sur l'offre d'une des dames du
comptoir, un bonbon extrait d'un des vases de verre entre
lesquels elle trônait – prenant la main du charmant jeune
homme et la lui serrant longuement, à la prussienne, le fixant
des yeux en souriant pendant le temps interminable que
mettaient autrefois à nous faire poser les photographes
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quand la lumière était mauvaise : « Monsieur, je suis charmé,
je suis enchanté de faire votre connaissance. » « Il a de jolis
cheveux », dit-il en se tournant vers Jupien. Il s'approcha
ensuite de Maurice pour lui remettre ses cinquante francs,
mais le prenant d'abord par la taille : « Tu ne m'avais jamais
dit que tu avais suriné une pipelette de Belleville. » Et M. de
Charlus râlait d'extase et approchait sa figure de celle de
Maurice. « Oh ! Monsieur le Baron, dit en protestant le
gigolo, qu'on avait oublié de prévenir, pouvez-vous croire
une chose pareille ? » Soit qu'en effet le fait fût faux, ou que,
vrai, son auteur le trouvât pourtant abominable et de ceux
qu'il convient de nier : « Moi toucher à mon semblable ? à un
Boche, oui, parce que c'est la guerre, mais à une femme, et à
une vieille femme encore ! » Cette déclaration de principes
vertueux fit l'effet d'une douche d'eau froide sur le baron qui
s'éloigna sèchement de Maurice, en lui remettant toutefois
son argent mais de l'air dépité de quelqu'un qu'on a floué,
qui ne veut pas faire d'histoires, qui paye, mais n'est pas
content.
La mauvaise impression du baron fut d'ailleurs accrue par
la façon dont le bénéficiaire le remercia, car il dit : « Je vais
envoyer ça à mes vieux et j'en garderai aussi un peu pour
mon frangin qui est sur le front. » Ces sentiments touchants
désappointèrent presque autant M. de Charlus que l'agaçait
l'expression d'une paysannerie un peu conventionnelle.
Jupien parfois les prévenait qu'« il fallait être plus pervers ».
Alors l'un d'eux, de l'air de confesser quelque chose de
satanique, aventurait : « Dites donc, baron, vous n'allez pas
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me croire, mais quand j'étais gosse, je regardais par le trou de
la serrure mes parents s'embrasser. C'est vicieux, pas ? Vous
avez l'air de croire que c'est un bourrage de crâne, mais non,
je vous jure, tel que je vous le dis. » Et M. de Charlus était à
la fois désespéré et exaspéré par cet effort factice vers la
perversité qui n'aboutissait qu'à révéler tant de sottise et tant
d'innocence. Et même le voleur, l'assassin le plus déterminés
ne l'eussent pas contenté, car ils ne parlent pas de leur crime
; et il y a, d'ailleurs, chez le sadique – si bon qu'il puisse être,
bien plus, d'autant meilleur qu'il est – une soif de mal que les
méchants agissant dans d'autres buts ne peuvent contenter.
Le jeune homme eut beau, comprenant trop tard son
erreur, dire qu'il ne blairait pas les flics et pousser l'audace
jusqu'à dire au baron : « Fous-moi un rancart » (un rendezvous), le charme était dissipé. On sentait le chiqué, comme
dans les livres des auteurs qui s'efforcent pour parler argot.
C'est en vain que le jeune homme détailla toutes les «
saloperies » qu'il faisait avec sa femme. M. de Charlus fut
seulement frappé combien ces saloperies se bornaient à peu
de chose... Au reste, ce n'était pas seulement par insincérité.
Rien n'est plus limité que le plaisir et le vice. On peut
vraiment, dans ce sens-là et en changeant le sens de
l'expression, dire qu'on tourne toujours dans le même cercle
vicieux.
« Comme il est simple ! jamais on ne dirait un prince »,
dirent quelques habitués quand M. de Charlus fut sorti,
reconduit jusqu'en bas par Jupien auquel le baron ne laissa
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pas de se plaindre de la vertu du jeune homme. À l'air
mécontent de Jupien, qui avait dû styler le jeune homme
d'avance, on sentit que le faux assassin recevrait tout à
l'heure un fameux savon. « C'est tout le contraire de ce que
tu m'as dit », ajouta le baron pour que Jupien profitât de la
leçon pour une autre fois. « Il a l'air d'une bonne nature, il
exprime des sentiments de respect pour sa famille. – Il n'est
pourtant pas bien avec son père, objecta Jupien, pris au
dépourvu, ils habitent ensemble, mais ils servent chacun
dans un bar différent. » C'était évidemment faible comme
crime auprès de l'assassinat, mais Jupien se trouvait pris au
dépourvu. Le baron n'ajouta rien car, s'il voulait qu'on
préparât ses plaisirs, il voulait se donner à lui-même l'illusion
que ceux-ci n'étaient pas « préparés ». « C'est un vrai bandit,
il vous a dit cela pour vous tromper, vous êtes trop naïf »,
ajouta Jupien pour se disculper et ne faisant que froisser
l'amour-propre de M. de Charlus.
En même temps qu'on croyait M. de Charlus prince, en
revanche on regrettait beaucoup, dans l'établissement, la
mort de quelqu'un dont les gigolos disaient : « Je ne sais pas
son nom, il paraît que c'est un baron » et qui n'était autre que
le prince de Foix (le père de l'ami de Saint-Loup). Passant,
chez sa femme, pour vivre beaucoup au cercle, en réalité il
passait des heures chez Jupien à bavarder, à raconter des
histoires du monde devant des voyous. C'était un grand bel
homme, comme son fils. Il est extraordinaire que M. de
Charlus, sans doute parce qu'il l'avait toujours connu dans le
monde, ignorât qu'il partageait ses goûts. On allait même
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jusqu'à dire qu'il les avait autrefois portés jusque sur son fils
encore collégien (l'ami de Saint-Loup), ce qui était
probablement faux. Au contraire, très renseigné sur des
mœurs que beaucoup ignorent, il veillait beaucoup aux
fréquentations de son fils. Un jour qu'un homme, d'ailleurs
de basse extraction, avait suivi le jeune prince de Foix jusqu'à
l'hôtel de son père, où il avait jeté un billet par la fenêtre, le
père l'avait ramassé. Mais le suiveur, bien qu'il ne fût pas
aristocratiquement du même monde que M. de Foix le père,
l'était à un autre point de vue. Il n'eut pas de peine à trouver
dans de communs complices un intermédiaire qui fit taire M.
de Foix en lui prouvant que c'était le jeune homme qui avait
provoqué cette audace d'un homme âgé. Et c'était possible.
Car le prince de Foix avait pu réussir à préserver son fils des
mauvaises fréquentations au dehors mais non de l'hérédité.
Au reste, le jeune prince de Foix resta, comme son père,
ignoré à ce point de vue des gens du monde bien qu'il allât
plus loin que personne avec ceux d'un autre.
« Il paraît qu'il a un million à manger par jour », dit le jeune
homme de vingt-deux ans auquel l'assertion qu'il émettait ne
semblait pas invraisemblable. On entendit bientôt le
roulement de la voiture qui était venue chercher M. de
Charlus. À ce moment j'aperçus, avec une démarche lente, à
côté d'un militaire qui évidemment sortait avec elle d'une
chambre voisine, une personne qui me parut une dame assez
âgée, en jupe noire. Je reconnus bientôt mon erreur, c'était
un prêtre. C'était cette chose si rare, et en France absolument
exceptionnelle, qu'est un mauvais prêtre. Évidemment le
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militaire était en train de railler son compagnon au sujet du
peu de conformité que sa conduite offrait avec son habit, car
celui-ci, d'un air grave et levant vers son visage hideux un
doigt de docteur en théologie, dit sentencieusement : « Que
voulez-vous, je ne suis pas (j'attendais « un saint ») un ange. »
D'ailleurs il n'avait plus qu'à s'en aller et prit congé de Jupien
qui, ayant accompagné le baron, venait de remonter, mais
par étourderie le mauvais prêtre oublia de payer sa chambre.
Jupien, que son esprit n'abandonnait jamais, agita le tronc
dans lequel il mettait la contribution de chaque client, et le fit
sonner en disant : « Pour les frais du culte, Monsieur l'Abbé !
» Le vilain personnage s'excusa, donna sa pièce et disparut.
Jupien vint me chercher dans l'antre obscur où je n'osais
faire un mouvement. « Entrez un moment dans le vestibule
où mes jeunes gens font banquette, pendant que je monte
fermer la chambre ; puisque vous êtes locataire, c'est tout
naturel. » Le patron y était, je le payai. À ce moment un
jeune homme en smoking entra et demanda d'un air
d'autorité au patron : « Pourrai-je avoir Léon demain matin à
onze heures moins le quart au lieu de onze heures parce que
je déjeune en ville ? – Cela dépend, répondit le patron, du
temps que le gardera l'abbé. » Cette réponse ne parut pas
satisfaire le jeune homme en smoking qui semblait déjà prêt
à invectiver contre l'abbé, mais sa colère prit un autre cours
quand il m'aperçut ; marchant droit au patron : « Qui est-ce ?
Qu'est-ce que ça signifie ? », murmura-t-il d'une voix basse
mais courroucée. Le patron, très ennuyé, expliqua que ma
présence n'avait aucune importance, que j'étais un locataire.
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Le jeune homme en smoking ne parut nullement apaisé par
cette explication. Il ne cessait de répéter : « C'est
excessivement désagréable, ce sont des choses qui ne
devraient pas arriver, vous savez que je déteste ça et vous
ferez si bien que je ne remettrai plus les pieds ici. »
L'exécution de cette menace ne parut pas cependant
imminente, car il partit furieux mais en recommandant que
Léon tâchât d'être libre à 11 h. moins ¼, 10 h. ½ si possible.
Jupien revint me chercher et descendit avec moi. « Je ne
voudrais pas que vous me jugiez mal, me dit-il, cette maison
ne me rapporte pas autant d'argent que vous croyez, je suis
forcé d'avoir des locataires honnêtes, il est vrai qu'avec eux
seuls on ne ferait que manger de l'argent. Ici c'est le contraire
des Carmels, c'est grâce au vice que vit la vertu. Non, si j'ai
pris cette maison, ou plutôt si je l'ai fait prendre au gérant
que vous avez vu, c'est uniquement pour rendre service au
baron et distraire ses vieux jours. » Jupien ne voulait pas
parler que de scènes de sadisme comme celles auxquelles
j'avais assisté et de l'exercice même du vice du baron. Celuici, même pour la conversation, pour lui tenir compagnie,
pour jouer aux cartes, ne se plaisait plus qu'avec des gens du
peuple qui l'exploitaient. Sans doute le snobisme de la
canaille peut aussi bien se comprendre que l'autre. Ils
avaient, d'ailleurs, été longtemps unis, alternant l'un avec
l'autre, chez M. de Charlus qui ne trouvait personne d'assez
élégant pour ses relations mondaines, ni de frisant assez
l'apache pour les autres. « Je déteste le genre moyen, disait-il,
la comédie bourgeoise est guindée, il me faut ou les
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princesses de la tragédie classique ou la grosse farce. Pas de
milieu, Phèdre ou Les Saltimbanques. » Mais enfin l'équilibre
entre ces deux snobismes avait été rompu. Peut-être fatigue
de vieillard, ou extension de la sensualité aux relations les
plus banales, le baron ne vivait plus qu'avec des « inférieurs
», prenant ainsi sans le savoir la succession de tel de ses
grands ancêtres, le duc de La Rochefoucauld, le prince
d'Harcourt, le duc de Berry, que Saint-Simon nous montre
passant leur vie avec leurs laquais, qui tiraient d'eux des
sommes énormes, partageant leurs jeux, au point qu'on était
gêné pour ces grands seigneurs, quand il fallait les aller voir,
de les trouver installés familièrement à jouer aux cartes ou à
boire avec leur domesticité. « C'est surtout, ajouta Jupien,
pour lui éviter des ennuis, parce que, voyez-vous, le baron,
c'est un grand enfant. Même maintenant qu'il a ici tout ce
qu'il peut désirer il va encore à l'aventure faire le vilain. Et
généreux comme il est, ça pourrait souvent, par le temps qui
court, avoir des conséquences. N'y a-t-il pas l'autre jour un
chasseur d'hôtel qui mourait de peur à cause de tout l'argent
que le baron lui offrait pour venir chez lui. Chez lui, quelle
imprudence ! Ce garçon, qui pourtant aime seulement les
femmes, a été rassuré quand il a compris ce qu'on voulait de
lui. En entendant toutes ces promesses d'argent, il avait pris
le baron pour un espion. Et il s'est senti bien à l'aise quand il
a vu qu'on ne lui demandait pas de livrer sa patrie mais son
corps, ce qui n'est peut-être pas plus moral, mais ce qui est
moins dangereux, et surtout plus facile. » Et en écoutant
Jupien, je me disais : « Quel malheur que M. de Charlus ne
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soit pas romancier ou poète, non pas pour décrire ce qu'il
verrait, mais le point où se trouve un Charlus par rapport au
désir fait naître autour de lui les scandales, le force à prendre
la vie sérieusement, à mettre des émotions dans le plaisir,
l'empêche de s'arrêter, de s'immobiliser dans une vue
ironique et extérieure des choses, rouvre sans cesse en lui un
courant douloureux. Presque chaque fois qu'il adresse une
déclaration il essuie une avanie, s'il ne risque pas même la
prison. » Ce n'est pas que l'éducation des enfants, c'est celle
des poètes qui se fait à coups de gifles. Si M. de Charlus avait
été romancier, la maison que lui avait aménagée Jupien, en
réduisant dans de telles proportions les risques, du moins
(car une descente de police était toujours à craindre) les
risques à l'égard d'un individu des dispositions duquel, dans
la rue, le baron n'eût pas été assuré, eût été pour lui un
malheur. Mais M. de Charlus n'était en art qu'un dilettante,
qui ne songeait pas à écrire et n'était pas doué pour cela. «
D'ailleurs, vous avouerais-je, reprit Jupien, que je n'ai pas un
grand scrupule à avoir ce genre de gains ? La chose ellemême qu'on fait ici, je ne peux plus vous cacher que je
l'aime, qu'elle est le goût de ma vie. Or, est-il défendu de
recevoir un salaire pour des choses qu'on ne juge pas
coupables ? Vous êtes plus instruit que moi et vous me direz
sans doute que Socrate ne croyait pas pouvoir recevoir
d'argent pour ses leçons. Mais de notre temps les professeurs
de philosophie ne pensent pas ainsi, ni les médecins, ni les
peintres, ni les dramaturges, ni les directeurs de théâtre. Ne
croyez pas que ce métier ne fasse fréquenter que des
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canailles. Sans doute le Directeur d'un établissement de ce
genre, comme une grande cocotte, ne reçoit que des
hommes, mais il reçoit des hommes marquants dans tous les
genres et qui sont généralement, à situation égale, parmi les
plus fins, les plus sensibles, les plus aimables de leur
profession. Cette maison se transformerait vite, je vous
l'assure, en un bureau d'esprit et une agence de nouvelles. »
Mais j'étais encore sous l'impression des coups que j'avais vu
recevoir à M. de Charlus. Et à vrai dire, quand on connaissait
bien M. de Charlus, son orgueil, sa satiété des plaisirs
mondains, ses caprices changés facilement en passions pour
des hommes de dernier ordre et de la pire espèce, on peut
très bien comprendre que la même grosse fortune qui, échue
à un parvenu, l'eût charmé en lui permettant de marier sa
fille à un duc et d'inviter des Altesses à ses chasses, M. de
Charlus était content de la posséder parce qu'elle lui
permettait d'avoir ainsi la haute main sur un, peut-être sur
plusieurs établissements où étaient en permanence des
jeunes gens avec lesquels il se plaisait. Peut-être n'y eut-il
même pas besoin de son vice pour cela. Il était l'héritier de
tant de grands seigneurs, princes du sang ou ducs, dont
Saint-Simon nous raconte qu'ils ne fréquentaient personne «
qui se pût nommer ». « En attendant, dis-je à Jupien, cette
maison est tout autre chose, plus qu'une maison de fous,
puisque la folie des aliénés qui y habitent est mise en scène,
reconstituée, visible, c'est un vrai pandémonium. J'avais cru,
comme le calife des Mille et une Nuits, arriver à point au
secours d'un homme qu'on frappait, et c'est un autre conte
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des Mille et une Nuits que j'ai vu réaliser devant moi, celui
où une femme, transformée en chienne, se fait frapper
volontairement pour retrouver sa forme première. » Jupien
paraissait fort troublé par mes paroles, car il comprenait que
j'avais vu frapper le baron. Il resta un moment silencieux,
puis tout d'un coup, avec le joli esprit qui m'avait si souvent
frappé chez cet homme qui s'était fait lui-même, quand il
avait pour m'accueillir, Françoise ou moi, dans la cour de
notre maison, de si gracieuses paroles : « Vous parlez de bien
des contes des Mille et une Nuits, me dit-il. Mais j'en connais
un qui n'est pas sans rapport avec le titre d'un livre que je
crois avoir aperçu chez le baron (il faisait allusion à une
traduction de Sésame et les Lys, de Ruskin, que j'avais
envoyée à M. de Charlus). Si jamais vous étiez curieux, un
soir, de voir, je ne dis pas quarante, mais une dizaine de
voleurs, vous n'avez qu'à venir ici ; pour savoir si je suis là
vous n'avez qu'à regarder là-haut, je laisse ma petite fenêtre
ouverte et éclairée, cela veut dire que je suis venu, qu'on peut
entrer ; c'est mon Sésame à moi. Je dis seulement Sésame.
Car pour les Lys, si c'est eux que vous voulez, je vous
conseille d'aller les chercher ailleurs. » Et me saluant assez
cavalièrement, car une clientèle aristocratique et une clique
de jeunes gens, qu'il menait comme un pirate, lui avaient
donné une certaine familiarité, il prit congé de moi. Il m'avait
à peine quitté que la sirène retentit, immédiatement suivie de
violents tirs de barrage. On sentait que c'était tout auprès,
juste au-dessus de nous, que l'avion allemand se tenait, et
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soudain le bruit d'une forte détonation montra qu'il venait de
lancer une de ses bombes.
Dans une même salle de la maison de Jupien beaucoup
d'hommes, qui n'avaient pas voulu fuir, s'étaient réunis. Ils
ne se connaissaient pas entre eux, mais étaient pourtant à
peu près du même monde, riche et aristocratique. L'aspect
de chacun avait quelque chose de répugnant qui devait être
la non-résistance à des plaisirs dégradants. L'un, énorme,
avait la figure couverte de taches rouges, comme un ivrogne.
J'avais appris qu'au début il ne l'était pas et prenait seulement
son plaisir à faire boire des jeunes gens. Mais, effrayé par
l'idée d'être mobilisé (bien qu'il semblât avoir dépassé la
cinquantaine), comme il était très gros il s'était mis à boire
sans arrêter pour tâcher de dépasser le poids de cent kilos,
au-dessus duquel on était réformé. Et maintenant, ce calcul
s'étant changé en passion, où qu'on le quittât, tant qu'on le
surveillait, on le retrouvait chez un marchand de vin. Mais
dès qu'il parlait on voyait que, médiocre d'ailleurs
d'intelligence, c'était un homme de beaucoup de savoir,
d'éducation et de culture. Un autre homme du grand monde,
celui-là fort jeune et d'une extrême distinction physique, était
entré. Chez lui, à vrai dire, il n'y avait encore aucun stigmate
extérieur d'un vice, mais, ce qui était plus troublant,
d'intérieurs. Très grand, d'un visage charmant, son élocution
décelait une tout autre intelligence que celle de son voisin
l'alcoolique, et, sans exagérer, vraiment remarquable. Mais à
tout ce qu'il disait était ajoutée une expression qui eût
convenu à une phrase différente. Comme si, tout en
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possédant le trésor complet des expressions du visage
humain, il eût vécu dans un autre monde, il mettait à jour ces
expressions dans l'ordre qu'il ne fallait pas, il semblait
effeuiller au hasard des sourires et des regards sans rapport
avec le propos qu'il entendait. J'espère pour lui, si, comme il
est certain, il vit encore, qu'il était non la proie d'une maladie
durable mais d'une intoxication passagère. Il est probable
que si l'on avait demandé leur carte de visite à tous ces
hommes on eût été surpris de voir qu'ils appartenaient à une
haute classe sociale. Mais quelque vice, et le plus grand de
tous, le manque de volonté qui empêche de résister à aucun,
les réunissait là, dans des chambres isolées il est vrai, mais
chaque soir, me dit-on, de sorte que si leur nom était connu
des femmes du monde, celles-ci avaient peu à peu perdu de
vue leur visage et n'avaient plus jamais l'occasion de recevoir
leur visite. Ils recevaient encore des invitations, mais
l'habitude les ramenait au mauvais lieu composite. Ils s'en
cachaient peu, du reste, au contraire des petits chasseurs,
ouvriers, etc. qui servaient à leur plaisir. Et en dehors de
beaucoup de raisons que l'on devine, cela se comprend par
celle-ci. Pour un employé d'industrie, pour un domestique,
aller là c'était, comme pour une femme qu'on croyait
honnête, aller dans une maison de passe. Certains qui
avouaient y être allés se défendaient d'y être plus jamais
retournés, et Jupien lui-même, mentant pour protéger leur
réputation ou éviter des concurrences, affirmait : « Oh ! non,
il ne vient pas chez moi, il ne voudrait pas y venir. » Pour des
hommes du monde, c'est moins grave, d'autant plus que les
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autres gens du monde qui n'y vont pas ne savent pas ce que
c'est et ne s'occupent pas de votre vie.
Dès le début de l'alerte, j'avais quitté la maison de Jupien.
Les rues étaient devenues entièrement noires. Parfois
seulement, un avion ennemi qui volait assez bas éclairait le
point où il voulait jeter une bombe. Je ne retrouvais plus
mon chemin, je pensais à ce jour où, allant à la Raspelière,
j'avais rencontré, comme un Dieu qui avait fait se cabrer
mon cheval, un avion. Je pensais que maintenant la
rencontre serait différente et que le Dieu du mal me tuerait.
Je pressais le pas pour le fuir comme un voyageur poursuivi
par le mascaret, je tournais en cercle autour des places noires
d'où je ne pouvais plus sortir. Enfin les flammes d'un
incendie m'éclairèrent et je pus retrouver mon chemin
cependant que crépitaient sans arrêt les coups de canons.
Mais ma pensée s'était détournée vers un autre objet. Je
pensais à la maison de Jupien, peut-être réduite en cendres
maintenant, car une bombe était tombée tout près de moi
comme je venais seulement d'en sortir, cette maison sur
laquelle M. de Charlus eût pu prophétiquement écrire «
Sodoma » comme avait fait, avec non moins de prescience
ou peut-être au début de l'éruption volcanique et de la
catastrophe déjà commencée, l'habitant inconnu de Pompéi.
Mais qu'importaient sirène et gothas à ceux qui étaient venus
chercher leur plaisir. Le cadre social, le cadre de la nature,
qui entoure nos amours, nous n'y pensons presque pas. La
tempête fait rage sur mer, le bateau tangue de tous côtés, du
ciel se précipitent des avalanches tordues par le vent, et tout
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au plus accordons-nous une seconde d'attention pour parer à
la gêne qu'elle nous cause, à ce décor immense où nous
sommes si peu de chose, et nous et le corps que nous
essayons d'approcher. La sirène annonciatrice des bombes
ne troublait pas plus les habitués de Jupien que n'eût fait un
iceberg. Bien plus, le danger physique menaçant les délivrait
de la crainte dont ils étaient maladivement persécutés depuis
longtemps. Or, il est faux de croire que l'échelle des craintes
correspond à celle des dangers qui les inspirent. On peut
avoir peur de ne pas dormir, et nullement d'un duel sérieux,
d'un rat et pas d'un lion. Pendant quelques heures les agents
de police ne s'occuperaient que de la vie des habitants, chose
si peu importante, et ne risqueraient pas de les déshonorer.
Certains des habitués plus que de retrouver leur liberté
morale furent tentés par l'obscurité qui s'était soudain faite
dans les rues. Quelques-uns de ces pompéiens, sur qui
pleuvait déjà le feu du ciel, descendirent dans les couloirs du
métro, noirs comme des catacombes. Ils savaient, en effet,
n'y être pas seuls. Or l'obscurité qui baigne toute chose
comme un élément nouveau a pour effet, irrésistiblement
tentateur pour certaines personnes, de supprimer le premier
stade du plaisir et de nous faire entrer de plain pied dans un
domaine de caresses où l'on n'accède d'habitude qu'après
quelque temps ! Que l'objet convoité soit, en effet, une
femme ou un homme, même à supposer que l'abord soit
simple, et inutiles les marivaudages qui s'éterniseraient dans
un salon, du moins en plein jour, le soir même, dans une rue,
si faiblement éclairée qu'elle soit, il y a du moins un
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préambule où les yeux seuls mangent le blé en herbe, où la
crainte des passants, de l'être recherché lui-même,
empêchent de faire plus que de regarder, de parler. Dans
l'obscurité tout ce vieux jeu se trouve aboli, les mains, les
lèvres, les corps peuvent entrer en jeu les premiers. Il reste
l'excuse de l'obscurité même et des erreurs qu'elle engendre
si l'on est mal reçu. Si on l'est bien, cette réponse immédiate
du corps qui ne se retire pas, qui se rapproche, nous donne
de celle ou celui à qui nous nous adressons silencieusement
une idée qu'elle est sans préjugés, pleine de vice, idée qui
ajoute un surcroît au bonheur d'avoir pu mordre à même le
fruit sans le convoiter des yeux et sans demander de
permission. Et cependant l'obscurité persiste. Plongés dans
cet élément nouveau, les habitués de Jupien croyaient avoir
voyagé, être venus assister à un phénomène naturel, comme
un mascaret ou comme une éclipse, et goûtant au lieu d'un
plaisir tout préparé et sédentaire celui d'une rencontre
fortuite dans l'inconnu, célébraient, aux grondements
volcaniques des bombes, comme dans un mauvais lieu
pompéien, des rites secrets dans les ténèbres des
catacombes. Les peintures pompéiennes de la maison de
Jupien convenaient d'ailleurs bien, en ce qu'elles rappelaient
la fin de la Révolution française, à l'époque assez semblable
au Directoire qui allait commencer. Déjà, anticipant sur la
paix, se cachant dans l'obscurité pour ne pas enfreindre trop
ouvertement les ordonnances de la police, partout des
danses nouvelles s'organisaient, se déchaînaient dans la nuit.
À côté de cela, certaines opinions artistiques, moins anti237
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germaniques que pendant les premières années de la guerre,
se donnaient cours pour rendre la respiration aux esprits
étouffés, mais il fallait pour qu'on les osât présenter un
brevet de civisme. Un professeur écrivait un livre
remarquable sur Schiller et on en rendait compte dans les
journaux. Mais avant de parler de l'auteur du livre on
inscrivait comme un permis d'imprimer qu'il avait été à la
Marne, à Verdun, qu'il avait eu cinq citations, deux fils tués.
Alors on louait la clarté, la profondeur de son ouvrage sur
Schiller, qu'on pouvait qualifier de grand pourvu qu'on dît,
au lieu de « ce grand Allemand », « ce grand Boche ». C'était
le même mot d'ordre pour l'article, et aussitôt on le laissait
passer.
Tout en me rapprochant de ma demeure, je songeais
combien la conscience cesse vite de collaborer à nos
habitudes, qu'elle laisse à leur développement sans plus
s'occuper d'elles, et combien dès lors nous pouvons être
étonnés si nous constatons simplement du dehors, et en
supposant qu'elles engagent tout l'individu, les actions
d'hommes dont la valeur morale ou intellectuelle peut se
développer indépendamment dans un sens tout différent.
C'était évidemment un vice d'éducation, ou l'absence de
toute éducation, joints à un penchant à gagner de l'argent de
la façon sinon la moins pénible (car beaucoup de travaux
devaient, en fin de compte, être plus doux, mais le malade,
par exemple, ne se tisse-t-il pas, avec des privations et des
remèdes, une existence beaucoup plus pénible que ne la
ferait la maladie souvent légère contre laquelle il croit ainsi
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lutter), du moins la moins laborieuse possible qui avait
amené ces « jeunes gens » à faire, pour ainsi dire en toute
innocence et pour un salaire médiocre, des choses qui ne
leur causaient aucun plaisir et avaient dû leur inspirer au
début une vive répugnance. On aurait pu les croire d'après
cela foncièrement mauvais, mais ce ne furent pas seulement
à la guerre des soldats merveilleux, d'incomparables « braves
», ç'avaient été aussi souvent, dans la vie civile, de bons
cœurs sinon tout à fait de braves gens. Ils ne se rendaient
plus compte depuis longtemps de ce que pouvait avoir de
moral ou d'immoral la vie qu'ils menaient, parce que c'était
celle de leur entourage. Ainsi, quand nous étudions certaines
périodes de l'histoire ancienne, nous sommes étonnés de
voir des êtres individuellement bons participer sans scrupule
à des assassinats en masse, à des sacrifices humains, qui leur
semblaient probablement des choses naturelles. Notre
époque sans doute, pour celui qui en lira l'histoire dans deux
mille ans, ne semblera pas moins laisser baigner certaines
consciences tendres et pures dans un milieu vital qui
apparaîtra alors comme monstrueusement pernicieux et dont
elles s'accommodaient. D'autre part, je ne connaissais pas
d'homme qui, sous le rapport de l'intelligence et de la
sensibilité, fût aussi doué que Jupien ; car cet « acquis »
délicieux qui faisait la trame spirituelle de ses propos ne lui
venait d'aucune de ces instructions de collège, d'aucune de
ces cultures d'université qui auraient pu faire de lui un
homme si remarquable quand tant de jeune gens du monde
ne tirent d'elles aucun profit. C'était son simple sens inné,
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son goût naturel, qui de rares lectures faites au hasard, sans
guide, à des moments perdus, lui avaient fait composer ce
parler si juste où toutes les symétries du langage se laissaient
découvrir et montraient leur beauté. Or, le métier qu'il faisait
pouvait à bon droit passer, certes, pour un des plus lucratifs,
mais pour le dernier de tous. Quant à M. de Charlus, quelque
dédain que son orgueil aristocratique eût pu lui donner pour
le « qu'en dira-t-on », comment un certain sentiment de
dignité personnelle et de respect de soi-même ne l'avait-il pas
forcé à refuser à sa sensualité certaines satisfactions dans
lesquelles il semble qu'on ne pourrait avoir comme excuse
que la démence complète ? Mais, chez lui comme chez
Jupien, l'habitude de séparer la moralité de tout un ordre
d'actions (ce qui, du reste, doit arriver aussi dans beaucoup
de fonctions, quelquefois celle de juge, quelquefois celle
d'homme d'État et bien d'autres encore) devait être prise
depuis si longtemps qu'elle était allée, sans plus jamais
demander son opinion au sentiment moral, en s'aggravant de
jour en jour, jusqu'à celui où ce Prométhée consentant s'était
fait clouer par la Force au Rocher de la pure matière. Sans
doute je sentais bien que c'était là un nouveau stade de la
maladie de M. de Charlus, laquelle depuis que je m'en étais
aperçu, et à en juger par les diverses étapes que j'avais eues
sous les yeux, avait poursuivi son évolution avec une vitesse
croissante. Le pauvre baron ne devait pas être maintenant
fort éloigné du terme, de la mort, si même celle-ci n'était pas
précédée, selon les prédictions et les vœux de Mme
Verdurin, par un empoisonnement qui à son âge ne pourrait
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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d'ailleurs que hâter la mort. Pourtant j'ai peut-être
inexactement dit : Rocher de la pure matière. Dans cette
pure matière il est possible qu'un peu d'esprit surnageât
encore. Ce fou savait bien, malgré tout, qu'il était fou, qu'il
était la proie d'une folie dans ces moments-là, puisqu'il savait
bien que celui qui le battait n'était pas plus méchant que le
petit garçon qui dans les jeux de bataille est désigné au sort
pour faire le « Prussien », et sur lequel tout le monde se rue
dans une ardeur de patriotisme vrai et de haine feinte. La
proie d'une folie où entrait tout de même un peu de la
personnalité de M. de Charlus. Même dans ses aberrations, la
nature humaine (comme elle fait dans nos amours, dans nos
voyages) trahit encore le besoin de croyance par des
exigences de vérité. Françoise, quand je lui parlais d'une
église de Milan – ville où elle n'irait probablement jamais –
ou de la cathédrale de Reims – fût-ce même de celle d'Arras !
– qu'elle ne pourrait voir puisqu'elles étaient plus ou moins
détruites, enviait les riches qui peuvent s'offrir le spectacle de
pareils trésors, et s'écriait avec un regret nostalgique : « Ah !
comme cela devait être beau ! », elle qui, habitant Paris
depuis tant d'années, n'avait jamais eu la curiosité d'aller voir
Notre-Dame. C'est que Notre-Dame faisait précisément
partie de Paris, de la ville où se déroulait la vie quotidienne
de Françoise et où, en conséquence, il était difficile à notre
vieille servante – comme il l'eût été à moi si l'étude de
l'architecture n'avait pas corrigé en moi sur certains points
les instincts de Combray – de situer les objets de ses songes.
Dans les personnes que nous aimons, il y a, immanent à
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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elles, un certain rêve que nous ne savons pas toujours
discerner mais que nous poursuivons. C'était ma croyance en
Bergotte, en Swann qui m'avait fait aimer Gilberte, ma
croyance en Gilbert le Mauvais qui m'avait fait aimer Mme
de Guermantes. Et quelle large étendue de mer avait été
réservée dans mon amour, même le plus douloureux, le plus
jaloux, le plus individuel semblait-il, pour Albertine. Du
reste, à cause justement de cet individuel auquel on
s'acharne, les amours pour les personnes sont déjà un peu
des aberrations. Et les maladies du corps elles-mêmes, du
moins celles qui tiennent d'un peu près au système nerveux,
ne sont-elles pas des espèces de goûts particuliers ou
d'effrois particuliers contractés par nos organes, nos
articulations, qui se trouvent ainsi avoir pris pour certains
climats une horreur aussi inexplicable et aussi têtue que le
penchant que certains hommes trahissent pour les femmes,
par exemple, qui portent un lorgnon, ou pour les écuyères.
Ce désir, que réveille chaque fois la vue d'une écuyère, qui
dira jamais à quel rêve durable et inconscient il est lié,
inconscient et aussi mystérieux que l'est, par exemple, pour
quelqu'un qui avait souffert toute sa vie de crises d'asthme,
l'influence d'une certaine ville, en apparence pareille aux
autres, et où pour la première fois il respire librement.
Or, les aberrations sont comme des amours où la tare
maladive a tout recouvert, tout gagné. Même dans la plus
folle, l'amour se reconnaît encore. L'insistance de M. de
Charlus à demander qu'on lui passât aux pieds et aux mains
des anneaux d'une solidité éprouvée, à réclamer la barre de
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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justice, et, à ce que me dit Jupien, des accessoires féroces
qu'on avait la plus grande peine à se procurer, même en
s'adressant à des matelots – car ils servaient à infliger des
supplices dont l'usage est aboli même là où la discipline est la
plus rigoureuse, à bord des navires – au fond de tout cela il y
avait chez M. de Charlus tout son rêve de virilité, attestée au
besoin par des actes brutaux, et toute l'enluminure intérieure,
invisible pour nous, mais dont il projetait ainsi quelques
reflets, de croix de justice, de tortures féodales, que décorait
son imagination moyenâgeuse. C'est dans le même sentiment
que, chaque fois qu'il arrivait, il disait à Jupien : « Il n'y aura
pas d'alerte ce soir au moins, car je me vois d'ici calciné par
ce feu du ciel comme un habitant de Sodome. » Et il affectait
de redouter les gothas, non qu'il en éprouvât l'ombre de
peur, mais pour avoir le prétexte, dès que les sirènes
retentissaient, de se précipiter dans les abris du métropolitain
où il espérait quelque plaisir des frôlements dans la nuit, avec
de vagues rêves de souterrains moyenâgeux et d'in pace. En
somme, son désir d'être enchaîné, d'être frappé, trahissait
dans sa laideur un rêve aussi poétique que chez d'autres le
désir d'aller à Venise ou d'entretenir des danseuses. Et M. de
Charlus tenait tellement à ce que ce rêve lui donnât l'illusion
de la réalité, que Jupien dut vendre le lit de bois qui était
dans la chambre 43 et le remplacer par un lit de fer qui allait
mieux avec les chaînes.
Enfin la berloque sonna comme j'arrivais à la maison. Le
bruit des pompiers était commenté par un gamin. Je
rencontrai Françoise remontant de la cave avec le maître
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d'hôtel. Elle me croyait mort. Elle me dit que Saint-Loup
était passé en s'excusant pour voir s'il n'avait pas, dans la
visite qu'il m'avait faite le matin, laissé tomber sa croix de
guerre. Car il venait de s'apercevoir qu'il l'avait perdue et,
devant rejoindre son corps le lendemain matin, avait voulu à
tout hasard voir si ce n'était pas chez moi. Il avait cherché
partout avec Françoise et n'avait rien trouvé. Françoise
croyait qu'il avait dû la perdre avant de venir me voir, car,
disait-elle, il lui semblait bien, elle aurait pu jurer qu'il ne
l'avait pas quand elle l'avait vu. En quoi elle se trompait. Et
voilà la valeur des témoignages et des souvenirs. D'ailleurs, je
sentis tout de suite, à la façon peu enthousiaste dont ils
parlèrent de lui, que Saint-Loup avait produit une médiocre
impression sur Françoise et sur le maître d'hôtel. Sans doute
tous les efforts que le fils du maître d'hôtel et le neveu de
Françoise avaient faits pour s'embusquer, Saint-Loup les
avait faits en sens inverse, et avec succès, pour être en plein
danger. Mais cela, jugeant d'après eux-mêmes, Françoise et le
maître d'hôtel ne pouvaient pas le croire. Ils étaient
convaincus que les riches sont toujours mis à l'abri. Du reste,
eussent-ils su la vérité relativement au courage héroïque de
Robert, qu'elle ne les eût pas touchés. Il ne disait pas «
Boches », il leur avait fait l'éloge de la bravoure des
Allemands, il n'attribuait pas à la trahison que nous
n'eussions pas été vainqueurs dès le premier jour. Or, c'est
cela qu'ils eussent voulu entendre, c'est cela qui leur eût
semblé le signe du courage. Aussi, bien qu'ils continuassent à
chercher la croix de guerre, les trouvai-je froids au sujet de
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Robert, moi qui me doutais de l'endroit où cette croix avait
été oubliée. Cependant Saint-Loup, s'il s'était distrait ce soirlà de cette manière, ce n'était qu'en attendant, car, repris du
désir de revoir Morel, il avait usé de toutes ses relations pour
savoir dans quel corps Morel se trouvait, croyant qu'il s'était
engagé, afin de l'aller voir et n'avait reçu jusqu'ici que des
centaines de réponses contradictoires. Je conseillai à
Françoise et au maître d'hôtel d'aller se coucher. Mais celuici n'était jamais pressé de quitter Françoise depuis que, grâce
à la guerre, il avait trouvé un moyen, plus efficace encore que
l'expulsion des sœurs et l'affaire Dreyfus, de la torturer. Ce
soir-là, et chaque fois que j'allais auprès d'eux pendant les
quelques jours que je passai encore à Paris, j'entendis le
maître d'hôtel dire à Françoise épouvantée : « Ils ne se
pressent pas, c'est entendu, ils attendent que la poire soit
mûre, mais ce jour-là ils prendront Paris et ce jour-là pas de
pitié ! – Seigneur, Vierge Marie, s'écriait Françoise, ça ne leur
suffit pas d'avoir conquéri la pauvre Belgique. Elle a assez
souffert celle-là, au moment de son envahition. – La
Belgique, Françoise, mais ce qu'ils ont fait en Belgique ne
sera rien à côté ! » Et même, la guerre ayant jeté sur le
marché de la conversation des gens du peuple une quantité
de termes dont ils n'avaient fait la connaissance que par les
yeux, par la lecture des journaux et dont, en conséquence, ils
ignoraient la prononciation, le maître d'hôtel ajoutait : «
Vous verrez ça, Françoise, ils préparent une nouvelle attaque
d'une plus grande enverjure que toutes les autres. » M'étant
insurgé, sinon au nom de la pitié pour Françoise et du bon
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sens stratégique, au moins de la grammaire, et ayant déclaré
qu'il fallait prononcer « envergure », je n'y gagnai qu'à faire
redire à Françoise la terrible phrase chaque fois que j'entrais
à la cuisine, car le maître d'hôtel presque autant que
d'effrayer sa camarade était heureux de montrer à son maître
que, bien qu'ancien jardinier de Combray et simple maître
d'hôtel, tout de même bon Français selon la règle de SaintAndré-des-Champs, il tenait de la déclaration des droits de
l'homme le droit de prononcer « enverjure » en toute
indépendance, et de ne pas se laisser commander sur un
point qui ne faisait pas partie de son service et où, par
conséquent, depuis la Révolution, personne n'avait rien à lui
dire puisqu'il était mon égal. J'eus donc le chagrin de
l'entendre parler à Françoise d'une opération de grande «
enverjure » avec une insistance qui était destinée à me
prouver que cette prononciation était l'effet non de
l'ignorance, mais d'une volonté mûrement réfléchie. Il
confondait le gouvernement, les journaux, dans un même : «
on » plein de méfiance, disant : « On nous parle des pertes
des Boches, on ne nous parle pas des nôtres, il paraît qu'elles
sont dix fois plus grandes. On nous dit qu'ils sont à bout de
souffle, qu'ils n'ont plus rien à manger, moi je crois qu'ils en
ont cent fois comme nous, à manger. Faut pas tout de même
nous bourrer le crâne. S'ils n'avaient rien à manger ils ne se
battraient pas comme l'autre jour où ils nous ont tué cent
mille jeunes gens de moins de vingt ans. » Il exagérait ainsi à
tout instant les triomphes des Allemands, comme il avait fait
jadis pour ceux des radicaux ; il narrait en même temps leurs
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atrocités afin que ces triomphes fussent plus pénibles encore
à Françoise, laquelle ne cessait plus de dire : « Ah ! Sainte
Mère des Anges ! », « Ah ! Marie Mère de Dieu ! » Et parfois,
pour lui être désagréable d'une autre manière, il disait : « Du
reste, nous ne valons pas plus cher qu'eux, ce que nous
faisons en Grèce n'est pas plus beau que ce qu'ils ont fait en
Belgique. Vous allez voir que nous allons mettre tout le
monde contre nous et que nous serons obligés de nous
battre avec toutes les nations », alors que c'était exactement
le contraire. Les jours où les nouvelles étaient bonnes, il
prenait sa revanche en assurant à Françoise que la guerre
durerait trente-cinq ans, et, en prévision d'une paix possible,
assurait que celle-ci ne durerait pas plus de quelques mois et
serait suivie de batailles auprès desquelles celles-ci ne seraient
qu'un jeu d'enfant, et après lesquelles il ne resterait rien de la
France. La victoire des alliés semblait, sinon rapprochée, du
moins à peu près certaine, et il faut malheureusement avouer
que le maître d'hôtel en était désolé. Car ayant réduit la
guerre « mondiale », comme tout le reste, à celle qu'il menait
sourdement contre Françoise (qu'il aimait, du reste, malgré
cela comme on peut aimer la personne qu'on est content de
faire rager tous les jours en la battant aux dominos), la
Victoire se réalisait à ses yeux sous les espèces de la première
conversation où il aurait la souffrance d'entendre Françoise
lui dire : « Enfin c'est fini et il va falloir qu'ils nous donnent
plus que nous ne leur avons donné en 70. » Il croyait, du
reste, toujours que cette échéance fatale arrivait, car un
patriotisme inconscient lui faisait croire, comme tous les
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Français victimes du même mirage que moi depuis que j'étais
malade, que la victoire – comme ma guérison – était pour le
lendemain. Il prenait les devants en annonçant à Françoise
que cette victoire arriverait peut-être, mais que son cœur en
saignerait, car la Révolution la suivrait aussitôt, puis
l'invasion. « Oh ! cette bon sang de guerre, les Boches seront
les seuls à s'en relever vite, Françoise, ils y ont déjà gagné des
centaines de milliards. Mais qu'ils nous crachent un sou à
nous, quelle farce ! On le mettra peut-être sur les journaux,
ajoutait-il par prudence et pour parer à tout événement, pour
calmer le peuple, comme on dit depuis trois ans que la
guerre sera finie le lendemain. Je ne peux pas comprendre
comment que le monde est assez fou pour le croire. »
Françoise était d'autant plus troublée de ces paroles qu'en
effet, après avoir cru les optimistes plutôt que le maître
d'hôtel, elle voyait que la guerre, qu'elle avait cru devoir finir
en quinze jours malgré « l'envahition de la pauvre Belgique »,
durait toujours, qu'on n'avançait pas, phénomène de fixation
des fronts dont elle comprenait mal le sens, et qu'enfin un
des innombrables « filleuls » à qui elle donnait tout ce qu'elle
gagnait chez nous lui racontait qu'on avait caché telle chose,
telle autre. « Tout cela retombera sur l'ouvrier, concluait le
maître d'hôtel. On vous prendra votre champ, Françoise. –
Ah ! Seigneur Dieu ! » Mais à ces malheurs lointains, il en
préférait de plus proches et dévorait les journaux dans
l'espoir d'annoncer une défaite à Françoise. Il attendait les
mauvaises nouvelles comme des œufs de Pâques, espérant
que cela irait assez mal pour épouvanter Françoise, pas assez
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pour qu'il pût matériellement en souffrir. C'est ainsi qu'un
raid de zeppelins l'eût enchanté pour voir Françoise se
cacher dans les caves, et parce qu'il était persuadé que dans
une ville aussi grande que Paris les bombes ne viendraient
pas juste tomber sur notre maison. Du reste, Françoise
commençait à être reprise par moment de son pacifisme de
Combray. Elle avait presque des doutes sur les « atrocités
allemandes ». « Au commencement de la guerre on nous
disait que ces Allemands c'était des assassins, des brigands,
de vrais bandits, des Bbboches... » (si elle mettait plusieurs b
à Boches, c'est que l'accusation que les Allemands fussent
des assassins lui semblait après tout plausible, mais celle
qu'ils fussent des Boches, presque invraisemblable à cause de
son énormité). Seulement il était assez difficile de
comprendre quel sens mystérieusement effroyable Françoise
donnait au mot de Boche puisqu'il s'agissait du début de la
guerre, et aussi à cause de l'air de doute avec lequel elle
prononçait ce mot. Car le doute que les Allemands fussent
des criminels pouvait être mal fondé en fait, mais ne
renfermait pas en soi, au point de vue logique, de
contradiction. Mais comment douter qu'ils fussent des
Boches, puisque ce mot, dans la langue populaire, veut dire
précisément Allemand. Peut-être ne faisait-elle que répéter
en style indirect les propos violents qu'elle avait entendus
alors et dans lesquels une particulière énergie accentuait le
mot « Boche ». « J'ai cru tout cela, disait-elle, mais je me
demande tout à l'heure si nous ne sommes pas aussi fripons
comme eux. » Cette pensée blasphématoire avait été
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sournoisement préparée chez Françoise par le maître d'hôtel,
lequel, voyant que sa camarade avait un certain penchant
pour le roi Constantin de Grèce, n'avait cessé de le lui
représenter comme privé par nous de nourriture jusqu'au
jour où il céderait. Aussi l'abdication du souverain avait-elle
ému Françoise, qui allait jusqu'à déclarer : « Nous ne valons
pas mieux qu'eux. Si nous étions en Allemagne, nous en
ferions autant. » Je la vis peu, du reste, pendant ces quelques
jours, car elle allait beaucoup chez ces cousins dont maman
m'avait dit un jour : « Mais tu sais qu'ils sont plus riches que
toi. » Or, on avait vu cette chose si belle, qui fut si fréquente
à cette époque-là dans tout le pays et qui témoignerait, s'il y
avait un historien pour en perpétuer le souvenir, de la
grandeur de la France, de sa grandeur d'âme, de sa grandeur
selon Saint-André-des-Champs, et que ne révélèrent pas
moins tant de civils survivant à l'arrière que les soldats
tombés à la Marne. Un neveu de Françoise avait été tué à
Berry-au-Bac qui était aussi le neveu de ces cousins
millionnaires de Françoise, anciens cafetiers retirés depuis
longtemps après fortune faite. Il avait été tué, lui, tout petit
cafetier sans fortune qui, à la mobilisation, âgé de vingt-cinq
ans, avait laissé sa jeune femme seule pour tenir le petit bar
qu'il croyait regagner quelques mois après. Il avait été tué. Et
alors on avait vu ceci. Les cousins millionnaires de
Françoise, et qui n'étaient rien à la jeune femme, veuve de
leur neveu, avaient quitté la campagne où ils étaient retirés
depuis dix ans et s'étaient remis cafetiers, sans vouloir
toucher un sou ; tous les matins à six heures, la femme
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millionnaire, une vraie dame, était habillée ainsi que « sa
demoiselle », prêtes à aider leur nièce et cousine par alliance.
Et depuis plus de trois ans, elles rinçaient ainsi des verres et
servaient des consommations depuis le matin jusqu'à neuf
heures et demie du soir, sans un jour de repos. Dans ce livre,
où il n'y a pas un seul fait qui ne soit fictif, où il n'y a pas un
seul personnage « à clefs », où tout a été inventé par moi
selon les besoins de ma démonstration, je dois dire, à la
louange de mon pays, que seuls les parents millionnaires de
Françoise ayant quitté leur retraite pour aider leur nièce sans
appui, que seuls ceux-là sont des gens réels, qui existent. Et
persuadé que leur modestie ne s'en offensera pas, pour la
raison qu'ils ne liront jamais ce livre, c'est avec un enfantin
plaisir et une profonde émotion que, ne pouvant citer les
noms de tant d'autres qui durent agir de même et par qui la
France a survécu, je transcris ici leur nom véritable : ils
s'appellent, d'un nom si français, d'ailleurs, Larivière. S'il y a
eu quelques vilains embusqués, comme l'impérieux jeune
homme en smoking que j'avais vu chez Jupien et dont la
seule préoccupation était de savoir s'il pourrait avoir Léon à
10 h. ½ « parce qu'il déjeunait en ville », ils sont rachetés par
la foule innombrable de tous les Français de Saint-Andrédes-Champs, par tous les soldats sublimes auxquels j'égale
les Larivière. Le maître d'hôtel, pour attiser les inquiétudes
de Françoise, lui montrait de vieilles « Lectures pour tous »
qu'il avait retrouvées et sur la couverture desquelles (ces
numéros dataient d'avant la guerre) figurait la « famille
impériale d'Allemagne ». « Voilà notre maître de demain »,
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disait le maître d'hôtel à Françoise, en lui montrant «
Guillaume ». Elle écarquillait les yeux, puis passait au
personnage féminin placé à côté de lui et disait : « Voilà la
Guillaumesse ! »
Mon départ de Paris se trouva retardé par une nouvelle
qui, par le chagrin qu'elle me causa, me rendit pour quelque
temps incapable de me mettre en route. J'appris, en effet, la
mort de Robert de Saint-Loup, tué le surlendemain de son
retour au front, en protégeant la retraite de ses hommes.
Jamais homme n'avait eu moins que lui la haine d'un peuple
(et quant à l'empereur, pour des raisons particulières, et peutêtre fausses, il pensait que Guillaume II avait plutôt cherché
à empêcher la guerre qu'à la déchaîner). Pas de haine du
Germanisme non plus ; les derniers mots que j'avais
entendus sortir de sa bouche, il y avait six jours, c'étaient
ceux qui commencent un lied de Schumann et que sur mon
escalier il me fredonnait, en allemand, si bien qu'à cause des
voisins je l'avais fait taire. Habitué par une bonne éducation
suprême à émonder sa conduite de toute apologie, de toute
invective, de toute phrase, il avait évité devant l'ennemi,
comme au moment de la mobilisation, ce qui aurait pu
assurer sa vie, par cet effacement de soi devant les actes que
symbolisaient toutes ses manières, jusqu'à sa manière de
fermer la portière de mon fiacre quand il me reconduisait,
tête nue, chaque fois que je sortais de chez lui. Pendant
plusieurs jours je restai enfermé dans ma chambre, pensant à
lui. Je me rappelais son arrivée, la première fois, à Balbec,
quand en lainages blanchâtres, avec ses yeux verdâtres et
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bougeants comme la mer, il avait traversé le hall attenant à la
grande salle à manger dont les vitrages donnaient sur la mer.
Je me rappelais l'être si spécial qu'il m'avait paru être alors,
l'être dont ç'avait été un si grand souhait de ma part d'être
l'ami. Ce souhait s'était réalisé au delà de ce que j'aurais
jamais pu croire, sans me donner pourtant presque aucun
plaisir alors, et ensuite je m'étais rendu compte de tous les
grands mérites et d'autres choses encore que cachait cette
apparence élégante. Tout cela, le bon comme le mauvais, il
l'avait donné sans compter, tous les jours, et le dernier, en
allant attaquer une tranchée par générosité, par mise au
service des autres de tout ce qu'il possédait, comme il avait
un soir couru sur les canapés du restaurant pour ne pas me
déranger. Et l'avoir vu si peu, en somme, en des sites si
variés, dans des circonstances si diverses et séparées par tant
d'intervalles, dans ce hall de Balbec, au café de Rivebelle, au
quartier de cavalerie et aux dîners militaires de Doncières, au
théâtre où il avait giflé un journaliste, chez la princesse de
Guermantes, ne faisait que me donner de sa vie des tableaux
plus frappants, plus nets, de sa mort un chagrin plus lucide,
que l'on en a souvent pour les personnes aimées davantage,
mais fréquentées si continuellement que l'image que nous
gardons d'elles n'est plus qu'une espèce de vague moyenne
entre une infinité d'images insensiblement différentes, et
aussi que notre affection, rassasiée, n'a pas, comme pour
ceux que nous n'avons vus que pendant des moments
limités, au cours de rencontres inachevées malgré eux et
malgré nous, l'illusion de la possibilité d'une affection plus
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grande dont les circonstances seules nous auraient frustrés.
Peu de jours après celui où je l'avais aperçu, courant après
son monocle, et l'imaginant alors si hautain, dans ce hall de
Balbec, il y avait une autre forme vivante que j'avais vue
pour la première fois sur la plage de Balbec et qui
maintenant n'existait non plus qu'à l'état de souvenir, c'était
Albertine, foulant le sable, ce premier soir, indifférente à
tous, et marine comme une mouette. Elle, je l'avais si vite
aimée que pour pouvoir sortir avec elle tous les jours je
n'étais jamais allé voir Saint-Loup, de Balbec. Et pourtant
l'histoire de mes relations avec lui portait aussi le témoignage
qu'un temps j'avais cessé d'aimer Albertine, puisque, si j'étais
allé m'installer quelque temps auprès de Robert, à Doncières,
c'était dans le chagrin de voir que ne m'était pas rendu le
sentiment que j'avais pour Mme de Guermantes. Sa vie et
celle d'Albertine, si tard connues de moi, toutes deux à
Balbec, et si vite terminées, s'étaient croisées à peine ; c'était
lui, me redisais-je en voyant que les navettes agiles des
années tissent des fils entre ceux de nos souvenirs qui
semblaient d'abord les plus indépendants, c'était lui que
j'avais envoyé chez Mme Bontemps quand Albertine m'avait
quitté. Et puis il se trouvait que leurs deux vies avaient
chacune un secret parallèle et que je n'avais pas soupçonné.
Celui de Saint-Loup me causait peut-être maintenant plus de
tristesse que celui d'Albertine, dont la vie m'était devenue si
étrangère. Mais je ne pouvais me consoler que la sienne
comme celle de Saint-Loup eussent été si courtes. Elle et lui
me disaient souvent, en prenant soin de moi : « Vous qui
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êtes malade ». Et c'était eux qui étaient morts, eux dont je
pouvais, séparées par un intervalle en somme si bref, mettre
en regard l'image ultime, devant la tranchée, après la chute,
de l'image première qui, même pour Albertine, ne valait plus
pour moi que par son association avec celle du soleil
couchant sur la mer. Sa mort fut accueillie par Françoise
avec plus de pitié que celle d'Albertine. Elle prit
immédiatement son rôle de pleureuse et commenta la
mémoire du mort de lamentations, de thrènes désespérés.
Elle exhibait son chagrin et ne prenait un visage sec, en
détournant la tête, que lorsque moi je laissais voir le mien,
qu'elle voulait avoir l'air de ne pas avoir vu. Car comme
beaucoup de personnes nerveuses, la nervosité des autres,
trop semblable sans doute à la sienne, l'horripilait. Elle aimait
maintenant à faire remarquer ses moindres torticolis, un
étourdissement, qu'elle s'était cognée. Mais si je parlais d'un
de mes maux, redevenue stoïque et grave, elle faisait
semblant de ne pas avoir entendu. « Pauvre Marquis », disaitelle, bien qu'elle ne pût s'empêcher de penser qu'il eût fait
l'impossible pour ne pas partir et, une fois mobilisé, pour
fuir devant le danger. « Pauvre dame, disait-elle en pensant à
Mme de Marsantes, qu'est-ce qu'elle a dû pleurer quand elle a
appris la mort de son garçon ! Si encore elle avait pu le
revoir, mais il vaut peut-être mieux qu'elle n'ait pas pu, parce
qu'il avait le nez coupé en deux, il était tout dévisagé. » Et les
yeux de Françoise se remplissaient de larmes mais à travers
lesquelles perçait la curiosité cruelle de la paysanne. Sans
doute Françoise plaignait la douleur de Mme de Marsantes
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de tout son cœur, mais elle regrettait de ne pas connaître la
forme que cette douleur avait prise et de ne pouvoir s'en
donner le spectacle de l'affliction. Et comme elle aurait bien
aimé pleurer et que je la visse pleurer, elle dit pour s'entraîner
: « Ça me fait quelque chose ! » Sur moi aussi elle épiait les
traces du chagrin avec une avidité qui me fit simuler une
certaine sécheresse en parlant de Robert. Et plutôt, sans
doute, par esprit d'imitation et parce qu'elle avait entendu
dire cela, car il y a des clichés dans les offices aussi bien que
dans les cénacles, elle répétait, non sans y mettre pourtant la
satisfaction d'un pauvre : « Toutes ses richesses ne l'ont pas
empêché de mourir comme un autre, et elles ne lui servent
plus à rien. » Le maître d'hôtel profita de l'occasion pour dire
à Françoise que sans doute c'était triste, mais que cela ne
comptait guère auprès des millions d'hommes qui tombaient
tous les jours malgré tous les efforts que faisait le
gouvernement pour le cacher. Mais, cette fois, le maître
d'hôtel ne réussit pas à augmenter la douleur de Françoise
comme il avait cru. Car celle-ci lui répondit : « C'est vrai
qu'ils meurent aussi pour la France, mais c'est des inconnus ;
c'est toujours plus intéressant quand c'est des gens qu'on
connaît. » Et Françoise, qui trouvait du plaisir à pleurer,
ajouta encore : « Il faudra bien prendre garde de m'avertir si
on cause de la mort du Marquis sur le journal. »
Robert m'avait souvent dit avec tristesse, bien avant la
guerre : « Oh ! ma vie, n'en parlons pas, je suis un homme
condamné d'avance. » Faisait-il allusion au vice qu'il avait
réussi jusqu'alors à cacher à tout le monde, mais qu'il
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connaissait et dont il s'exagérait peut-être la gravité, comme
les enfants qui font la première fois l'amour, ou même, avant
cela, cherchent seuls le plaisir, s'imaginent pareils à la plante
qui ne peut disséminer son pollen sans mourir tout de suite
après. Peut-être cette exagération tenait-elle, pour SaintLoup comme pour les enfants, ainsi qu'à l'idée du péché avec
laquelle on ne s'est pas encore familiarisé, à ce qu'une
sensation toute nouvelle a une force presque terrible qui ira
ensuite en s'atténuant. Ou bien avait-il, le justifiant au besoin
par la mort de son père enlevé assez jeune, le pressentiment
de sa fin prématurée. Sans doute un tel pressentiment
semble impossible. Pourtant la mort paraît assujettie à
certaines lois. On dirait souvent, par exemple, que les êtres
nés de parents qui sont morts très vieux ou très jeunes sont
presque forcés de disparaître au même âge, les premiers
traînant jusqu'à la centième année des chagrins et des
maladies incurables, les autres, malgré une existence
heureuse et hygiénique, emportés à la date inévitable et
prématurée par un mal si opportun et si accidentel (quelques
racines profondes qu'il puisse avoir dans le tempérament)
qu'il semble la formalité nécessaire à la réalisation de la mort.
Et ne serait-il pas possible que la mort accidentelle ellemême – comme celle de Saint-Loup, liée d'ailleurs à son
caractère de plus de façons peut-être que je n'ai cru devoir le
dire – fût, elle aussi, inscrite d'avance, connue seulement des
dieux, invisible aux hommes, mais révélée par une tristesse
particulière, à demi inconsciente, à demi consciente (et
même, dans cette dernière mesure, exprimée aux autres avec
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cette sincérité complète qu'on met à annoncer des malheurs
auxquels on croit dans son for intérieur échapper et qui
pourtant arriveront), à celui qui la porte et l'aperçoit sans
cesse en lui-même, comme une devise, une date fatale.
Il avait dû être bien beau en ces dernières heures ; lui qui
toujours dans cette vie avait semblé, même assis, même
marchant dans un salon, contenir l'élan d'une charge, en
dissimulant d'un sourire la volonté indomptable qu'il y avait
dans sa tête triangulaire, enfin il avait chargé. Débarrassée de
ses livres, la tourelle féodale était redevenue militaire. Et ce
Guermantes était mort plus lui-même, ou plutôt plus de sa
race, en laquelle il n'était plus qu'un Guermantes, comme ce
fut symboliquement visible à son enterrement dans l'église
Saint-Hilaire de Combray, toute tendue de tentures noires où
se détachait en rouge, sous la couronne fermée, sans initiales
de prénoms ni titres, le G du Guermantes que par la mort il
était redevenu. Avant d'aller à cet enterrement, qui n'eut pas
lieu tout de suite, j'écrivis à Gilberte. J'aurais peut-être dû
écrire à la duchesse de Guermantes, je me disais qu'elle
accueillerait la mort de Robert avec la même indifférence
que je lui avais vu manifester pour celle de tant d'autres qui
avaient semblé tenir si étroitement à sa vie, et que peut-être
même, avec son tour d'esprit Guermantes, elle chercherait à
montrer qu'elle n'avait pas la superstition des liens du sang.
J'étais trop souffrant pour écrire à tout le monde. J'avais cru
autrefois qu'elle et Robert s'aimaient bien dans le sens où
l'on dit cela dans le monde, c'est-à-dire que l'un auprès de
l'autre ils se disaient des choses tendres qu'ils ressentaient à
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ce moment-là. Mais loin d'elle il n'hésitait pas à la déclarer
idiote, et si elle éprouvait parfois à le voir un plaisir égoïste,
je l'avais vue incapable de se donner la plus petite peine,
d'user si légèrement que ce fût de son crédit pour lui rendre
un service, même pour lui éviter un malheur. La méchanceté
dont elle avait fait preuve à son égard en refusant de le
recommander au général de Saint-Joseph, quand Robert
allait repartir pour le Maroc, prouvait que le dévouement
qu'elle lui avait montré à l'occasion de son mariage n'était
qu'une sorte de compensation qui ne lui coûtait guère. Aussi
fus-je bien étonné d'apprendre, comme elle était souffrante
au moment où Robert fut tué, qu'on s'était cru obligé de lui
cacher pendant plusieurs jours (sous les plus fallacieux
prétextes) les journaux qui lui eussent appris cette mort, afin
de lui éviter le choc qu'elle en ressentirait. Mais ma surprise
augmenta quand j'appris qu'après qu'on eût été obligé enfin
de lui dire la vérité, la duchesse pleura toute une journée,
tomba malade, et mit longtemps – plus d'une semaine, c'était
longtemps pour elle – à se consoler. Quand j'appris ce
chagrin j'en fus touché. Il fait que tout le monde peut dire, et
que je peux assurer qu'il existait entre eux une grande amitié.
Mais en me rappelant combien de petites médisances, de
mauvaise volonté à se rendre service celle-là avait enfermées,
je pense au peu de chose que c'est qu'une grande amitié dans
le monde. D'ailleurs, un peu plus tard, dans une circonstance
plus importante historiquement si elle touchait moins mon
cœur, Mme de Guermantes se montra, à mon avis, sous un
jour encore plus favorable. Elle qui, jeune fille, avait fait
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preuve de tant d'impertinente audace, si l'on s'en souvient, à
l'égard de la famille impériale de Russie et qui, mariée, leur
avait toujours parlé avec une liberté qui la faisait parfois
accuser de manque de tact, fut peut-être seule, après la
Révolution russe, à faire preuve à l'égard des grandesduchesses et des grands-ducs d'un dévouement sans bornes.
Elle avait, l'année même qui avait précédé la guerre,
considérablement agacé la grande-duchesse Wladimir en
appelant toujours la comtesse de Hohenfelsen, femme
morganatique du grand-duc Paul, « la Grande-Duchesse Paul
». Il n'empêche que la Révolution russe n'eut pas plutôt
éclaté que notre ambassadeur à Pétersbourg, M. Paléologue
(« Paléo » pour le monde diplomatique, qui a ses abréviations
prétendues spirituelles comme l'autre), fut harcelé des
dépêches de la duchesse de Guermantes qui voulait avoir des
nouvelles de la grande-duchesse Marie Pavlovna. Et pendant
longtemps les seules marques de sympathie et de respect que
reçut sans cesse cette princesse lui vinrent exclusivement de
Mme de Guermantes.
Saint-Loup causa, sinon par sa mort, du moins par ce qu'il
avait fait dans les semaines qui l'avaient précédée, des
chagrins plus grands que celui de la duchesse. En effet, le
lendemain même du soir où j'avais vu M. de Charlus, le jour
même où le baron avait dit à Morel : « Je me vengerai », les
démarches de Saint-Loup pour retrouver Morel avaient
abouti – c'est-à-dire qu'elles avaient abouti à ce que le
général sous les ordres de qui aurait dû être Morel, s'étant
rendu compte qu'il était déserteur, l'avait fait rechercher et
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arrêter et, pour s'excuser auprès de Saint-Loup du châtiment
qu'allait subir quelqu'un à qui il s'intéressait, avait écrit à
Saint-Loup pour l'en avertir. Morel ne douta pas que son
arrestation n'eût été provoquée par la rancune de M. de
Charlus. Il se rappela les paroles : « Je me vengerai », pensa
que c'était là cette vengeance, et demanda à faire des
révélations. « Sans doute, déclara-t-il, j'ai déserté. Mais si j'ai
été conduit sur le mauvais chemin est-ce tout à fait ma faute
? » Il raconta sur M. de Charlus et sur M. d'Argencourt, avec
lequel il s'était brouillé aussi, des histoires ne le touchant pas
à vrai dire directement, mais que ceux-ci, avec la double
expansion des amants et des invertis, lui avaient racontées,
ce qui fit arrêter à la fois M. de Charlus et M. d'Argencourt.
Cette arrestation causa peut-être moins de douleur à tous
deux que d'apprendre à chacun, qui l'ignorait, que l'autre
était son rival, et l'instruction révéla qu'ils en avaient
énormément d'obscurs, de quotidiens, ramassés dans la rue.
Ils furent bientôt relâchés, d'ailleurs. Morel le fut aussi parce
que la lettre écrite à Saint-Loup par le général lui fut
renvoyée avec cette mention : « Décédé, mort au champ
d'honneur. » Le général voulut faire pour le défunt que
Morel fût simplement envoyé sur le front ; il s'y conduisit
bravement, échappa à tous les dangers et revint, la guerre
finie, avec la croix que M. de Charlus avait jadis vainement
sollicitée pour lui et que lui valut indirectement la mort de
Saint-Loup. J'ai souvent pensé depuis, en me rappelant cette
croix de guerre égarée chez Jupien, que si Saint-Loup avait
survécu il eût pu facilement se faire élire député dans les
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élections qui suivirent la guerre, grâce à l'écume de niaiserie
et au rayonnement de gloire qu'elle laissa après elle, et où, si
un doigt de moins, abolissant des siècles de préjugés,
permettait d'entrer par un brillant mariage dans une famille
aristocratique, la croix de guerre, eût-elle été gagnée dans les
bureaux, tenait lieu de profession de foi pour entrer, dans
une élection triomphale, à la Chambre des Députés, presque
à l'Académie française. L'élection de Saint-Loup, à cause de
sa « sainte » famille, eût fait verser à M. Arthur Meyer des
flots de larmes et d'encre. Mais peut-être aimait-il trop
sincèrement le peuple pour arriver à conquérir les suffrages
du peuple, lequel pourtant lui aurait sans doute, en faveur de
ses quartiers de noblesse, pardonné ses idées démocratiques.
Saint-Loup les eût exposées sans doute avec succès devant
une chambre d'aviateurs. Certes, ces héros l'auraient
compris, ainsi que quelques très rares hauts esprits. Mais,
grâce à l'apaisement du Bloc national, on avait aussi repêché
les vieilles canailles de la politique, qui sont toujours réélues.
Celles qui ne purent entrer dans une chambre d'aviateurs
quémandèrent, au moins pour entrer à l'Académie française,
les suffrages des maréchaux, d'un président de la République,
d'un président de la Chambre, etc. Elles n'eussent pas été
favorables à Saint-Loup, mais l'étaient à un autre habitué de
Jupien, ce député de l'Action Libérale qui fut réélu sans
concurrent. Il ne quittait pas l'uniforme d'officier de
territoriale bien que la guerre fût finie depuis longtemps. Son
élection fut saluée avec joie par tous les journaux qui avaient
fait l'« union » sur son nom, par les dames nobles et riches,
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qui ne portaient plus que des guenilles par un sentiment de
convenances et la peur des impôts, tandis que les hommes
de la Bourse achetaient sans arrêter des diamants, non pour
leurs femmes mais parce que, ayant perdu toute confiance
dans le crédit d'aucun peuple, ils se réfugiaient vers cette
richesse palpable, et faisaient ainsi monter la de Beers de
mille francs. Tant de niaiserie agaçait un peu, mais on en
voulut moins au Bloc national quand on vit tout d'un coup
les victimes du bolchevisme, des grandes-duchesses en
haillons, dont on avait assassiné les maris dans des brouettes,
et les fils en jetant des pierres dessus après les avoir laissés
sans manger, fait travailler au milieu des huées, et enfin jetés
dans des puits où on les lapidait parce qu'on croyait qu'ils
avaient la peste et pouvaient la communiquer. Ceux qui
étaient arrivés à s'enfuir reparurent tout à coup, ajoutant
encore à ce tableau d'horreur de nouveaux détails terrifiants.
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Chapitre III
Matinée chez la princesse de Guermantes
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La nouvelle maison de santé dans laquelle je me retirai
alors ne me guérit pas plus que la première ; et un long
temps s'écoula avant que je la quittasse. Durant le trajet en
chemin de fer que je fis pour rentrer à Paris, la pensée de
mon absence de dons littéraires, que j'avais cru découvrir
jadis du côté de Guermantes, que j'avais reconnue avec plus
de tristesse encore dans mes promenades quotidiennes avec
Gilberte, avant de rentrer dîner, fort avant dans la nuit, à
Tansonville, et qu'à la veille de quitter cette propriété j'avais
à peu près identifiée, en lisant quelques pages du journal des
Goncourt, à la vanité, au mensonge de la littérature, cette
pensée, moins douloureuse peut-être, plus morne encore, si
je lui donnais comme objet non ma propre infirmité à moi
particulière, mais l'inexistence de l'idéal auquel j'avais cru,
cette pensée qui ne m'était pas depuis bien longtemps
revenue à l'esprit me frappa de nouveau et avec une force
plus lamentable que jamais. C'était, je me le rappelle, à un
arrêt du train en pleine campagne. Le soleil éclairait jusqu'à la
moitié de leur tronc une ligne d'arbres qui suivait la voie du
chemin de fer. « Arbres, pensai-je, vous n'avez plus rien à me
dire, mon cœur refroidi ne vous entend plus. Je suis pourtant
ici en pleine nature, eh bien, c'est avec froideur, avec ennui
que mes yeux constatent la ligne qui sépare votre front
lumineux de votre tronc d'ombre. Si jamais j'ai pu me croire
poète, je sais maintenant que je ne le suis pas. Peut-être dans
la nouvelle partie de ma vie desséchée qui s'ouvre, les
hommes pourraient-ils m'inspirer ce que ne me dit plus la
nature. Mais les années où j'aurais peut-être été capable de la
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chanter ne reviendront jamais. » Mais en me donnant cette
consolation d'une observation humaine possible venant
prendre la place d'une inspiration impossible, je savais que je
cherchais seulement à me donner une consolation, et que je
savais moi-même sans valeur. Si j'avais vraiment une âme
d'artiste, quel plaisir n'éprouverais-je pas devant ce rideau
d'arbres éclairé par le soleil couchant, devant ces petites
fleurs du talus qui se haussaient presque jusqu'au marchepied
du wagon, dont je pouvais compter les pétales et dont je me
garderais bien de décrire la couleur comme feraient tant de
bons lettrés, car peut-on espérer transmettre au lecteur un
plaisir qu'on n'a pas ressenti ? Un peu plus tard, j'avais vu
avec la même indifférence les lentilles d'or et d'orange dont
le même soleil couchant criblait les fenêtres d'une maison ; et
enfin, comme l'heure avait avancé, j'avais vu une autre
maison qui semblait construite en une substance d'un rose
assez étrange. Mais j'avais fait ces diverses constatations avec
la même absolue indifférence que si, me promenant dans un
jardin avec une dame, j'avais vu une feuille de verre et un
peu plus loin un objet d'une matière analogue à l'albâtre dont
la couleur inaccoutumée ne m'aurait pas tiré du plus
languissant ennui et que si, par politesse pour la dame, pour
dire quelque chose et pour montrer que j'avais remarqué
cette couleur, j'avais désigné en passant le verre coloré et le
morceau de stuc. De la même manière, par acquit de
conscience, je me signalais à moi-même, comme à quelqu'un
qui m'eût accompagné et qui eût été capable d'en tirer plus
de plaisir que moi, les reflets du feu dans les vitres et la
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transparence rose de la maison. Mais le compagnon à qui
j'avais fait constater ces effets curieux était d'une nature sans
doute moins enthousiaste que beaucoup de gens bien
disposés, qu'une telle vue ravit, car il avait pris connaissance
de ces couleurs sans aucune espèce d'allégresse.
Ma longue absence de Paris n'avait pas empêché d'anciens
amis à continuer, comme mon nom restait sur leurs listes, à
m'envoyer fidèlement des invitations, et quand j'en trouvai,
en rentrant – avec une pour un goûter donné par la Berma
en l'honneur de sa fille et de son gendre – une autre pour
une matinée qui devait avoir lieu le lendemain chez le prince
de Guermantes, les tristes réflexions que j'avais faites dans le
train ne furent pas un des moindres motifs qui me
conseillèrent de m'y rendre. Ce n'était vraiment pas la peine
de me priver de mener la vie de l'homme du monde, m'étaisje dit, puisque le fameux « travail » auquel depuis si
longtemps j'espère chaque jour me mettre le lendemain, je ne
suis pas ou plus fait pour lui, et que peut-être même il ne
correspond à aucune réalité. À vrai dire, cette raison était
toute négative et ôtait simplement leur valeur à celles qui
auraient pu me détourner de ce concert mondain. Mais celle
qui m'y fit aller fut ce nom de Guermantes, depuis assez
longtemps sorti de mon esprit pour que, lu sur la carte
d'invitation, il réveillât un rayon de mon attention, allât
prélever au fond de ma mémoire une coupe de leur passé,
accompagné de toutes les images de forêt domaniale ou de
hautes fleurs qui l'escortaient alors, et pour qu'il reprît pour
moi le charme et la signification que je lui trouvais à
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Combray quand passant, avant de rentrer, dans la rue de
l'Oiseau, je voyais du dehors, comme une laque obscure, le
vitrail de Gilbert le Mauvais, sire de Guermantes. Pour un
moment les Guermantes m'avaient semblé de nouveau
entièrement différents des gens du monde, incomparables
avec eux, avec tout être vivant, fût-il souverain ; ils me
réapparaissaient comme des êtres issus de la fécondation de
cet air aigre et vertueux de cette sombre ville de Combray où
s'était passée mon enfance et du passé qu'on y apercevait
dans la petite rue, à la hauteur du vitrail. J'avais eu envie
d'aller chez les Guermantes comme si cela avait dû me
rapprocher de mon enfance et des profondeurs de ma
mémoire où je l'apercevais. Et j'avais continué à relire
l'invitation jusqu'au moment où, révoltées, les lettres qui
composaient ce nom si familier et si mystérieux, comme
celui même de Combray, eussent repris leur indépendance et
eussent dessiné devant mes yeux fatigués comme un nom
que je ne connaissais pas.
Maman allant justement à un petit thé chez Mme Sazerat,
je n'eus aucun scrupule à me rendre à la matinée de la
princesse de Guermantes. Je pris une voiture pour y aller, car
le prince de Guermantes n'habitait plus son ancien hôtel
mais un magnifique qu'il s'était fait construire avenue du
Bois. C'est un des torts des gens du monde de ne pas
comprendre que s'ils veulent que nous croyions en eux il
faudrait d'abord qu'ils y crussent eux-mêmes, ou au moins
qu'ils respectassent les éléments essentiels de notre croyance.
Au temps où je croyais, même si je savais le contraire, que
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les Guermantes habitaient tel palais en vertu d'un droit
héréditaire, pénétrer dans le palais du sorcier ou de la fée,
faire s'ouvrir devant moi les portes qui ne cèdent pas tant
qu'on n'a pas prononcé la formule magique, me semblait
aussi malaisé que d'obtenir un entretien du sorcier ou de la
fée eux-mêmes. Rien ne m'était plus facile que de me faire
croire à moi-même que le vieux domestique engagé de la
veille ou fourni par Potel et Chabot était fils, petit-fils,
descendant de ceux qui servaient la famille bien avant la
Révolution, et j'avais une bonne volonté infinie à appeler
portrait d'ancêtre le portrait qui avait été acheté le mois
précédent chez Bernheim jeune. Mais un charme ne se
transvase pas, les souvenirs ne peuvent se diviser, et du
prince de Guermantes, maintenant qu'il avait percé lui-même
à jour les illusions de ma croyance en étant allé habiter
avenue du Bois, il ne restait plus grand'chose. Les plafonds
que j'avais craint de voir s'écrouler quand on avait annoncé
mon nom et sous lesquels eût flotté encore pour moi
beaucoup du charme et des craintes de jadis couvraient les
soirées d'une Américaine sans intérêt pour moi.
Naturellement, les choses n'ont pas en elles-mêmes de
pouvoir, et puisque c'est nous qui le leur confions, quelque
jeune collégien bourgeois devait en ce moment avoir devant
l'hôtel de l'avenue du Bois les mêmes sentiments que moi
jadis devant l'ancien hôtel du prince de Guermantes. C'était
qu'il était encore à l'âge des croyances, mais je l'avais dépassé,
et j'avais perdu ce privilège, comme après la première
jeunesse on perd le pouvoir qu'ont les enfants de dissocier
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en fractions digérables le lait qu'ils ingèrent, ce qui force les
adultes à prendre, pour plus de prudence, le lait par petites
quantités, tandis que les enfants peuvent le téter
indéfiniment sans reprendre haleine. Du moins, le
changement de résidence du prince de Guermantes eut cela
de bon pour moi que la voiture qui était venue me chercher
pour me conduire et dans laquelle je faisais ces réflexions dut
traverser les rues qui vont vers les Champs-Élysées. Elles
étaient fort mal pavées à cette époque, mais, dès le moment
où j'y entrai, je n'en fus pas moins détaché de mes pensées
par une sensation d'une extrême douceur ; on eût dit que
tout d'un coup la voiture roulait plus facilement, plus
doucement, sans bruit, comme quand les grilles d'un parc
s'étant ouvertes on glisse sur les allées couvertes d'un sable
fin ou de feuilles mortes ; matériellement il n'en était rien,
mais je sentais tout à coup la suppression des obstacles
extérieurs comme s'il n'y avait plus eu pour moi d'effort
d'adaptation ou d'attention, tels que nous en faisons, même
sans nous en rendre compte, devant les choses nouvelles ;
les rues par lesquelles je passais en ce moment étaient celles,
oubliées depuis si longtemps, que je prenais jadis avec
Françoise pour aller aux Champs-Élysées. Le sol de luimême savait où il devait aller ; sa résistance était vaincue. Et
comme un aviateur qui a jusque-là péniblement roulé à terre,
« décolle » brusquement, je m'élevais lentement vers les
hauteurs silencieuses du souvenir. Dans Paris, ces rues-là se
détacheront toujours pour moi en une autre matière que les
autres. Quand j'arrivai au coin de la rue Royale, où était jadis
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le marchand en plein vent des photographies aimées de
Françoise, il me sembla que la voiture, entraînée par des
centaines de tours anciens, ne pourrait pas faire autrement
que de tourner d'elle-même. Je ne traversais pas les mêmes
rues que les promeneurs qui étaient dehors ce jour-là, mais
un passé glissant, triste et doux. Il était, d'ailleurs, fait de tant
de passés différents qu'il m'était difficile de reconnaître la
cause de ma mélancolie, si elle était due à ces marches audevant de Gilberte et dans la crainte qu'elle ne vînt pas, à la
proximité d'une certaine maison où on m'avait dit
qu'Albertine était allée avec Andrée, à la signification
philosophique que semble prendre un chemin qu'on a suivi
mille fois avec une passion qui ne dure plus et qui n'a pas
porté de fruit, comme celui où, après le déjeuner, je faisais
des courses si hâtives, si fiévreuses, pour regarder, toutes
fraîches encore de colle, l'affiche de Phèdre et celle du
Domino noir. Arrivé aux Champs-Élysées, comme je n'étais
pas très désireux d'entendre tout le concert qui était donné
chez les Guermantes, je fis arrêter la voiture et j'allais
m'apprêter à descendre pour faire quelques pas à pied quand
je fus frappé par le spectacle d'une voiture qui était en train
de s'arrêter aussi. Un homme, les yeux fixes, la taille voûtée,
était plutôt posé qu'assis dans le fond, et faisait pour se tenir
droit les efforts qu'aurait faits un enfant à qui on aurait
recommandé d'être sage. Mais son chapeau de paille laissait
voir une forêt indomptée de cheveux entièrement blancs, et
une barbe blanche, comme celle que la neige fait aux statues
des fleuves dans les jardins publics, coulait de son menton.
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C'était, à côté de Jupien qui se multipliait pour lui, M. de
Charlus convalescent d'une attaque d'apoplexie que j'avais
ignorée (on m'avait seulement dit qu'il avait perdu la vue ; or
il ne s'était agi que de troubles passagers, car il voyait de
nouveau très clair) et qui, à moins que jusque-là il se fût teint
et qu'on lui eût interdit de continuer à en prendre la fatigue,
avait plutôt, comme en une sorte de précipité chimique,
rendu visible et brillant tout le métal dont étaient saturées et
que lançaient comme autant de geysers les mèches
maintenant de pur argent de sa chevelure et de sa barbe,
cependant qu'elle avait imposé au vieux prince déchu la
majesté shakespearienne d'un roi Lear. Les yeux n'étaient pas
restés en dehors de cette convulsion totale, de cette
altération métallurgique de la tête. Mais, par un phénomène
inverse, ils avaient perdu tout leur éclat. Mais le plus
émouvant est qu'on sentait que cet éclat perdu était la fierté
morale, et que par là la vie physique et même intellectuelle de
M. de Charlus survivait à l'orgueil aristocratique, qu'on avait
pu croire un moment faire corps avec elles. Ainsi à ce
moment, se rendant sans doute aussi chez le prince de
Guermantes, passa en Victoria Mme de Sainte-Euverte, que
le baron jadis ne trouvait pas assez chic pour lui. Jupien, qui
prenait soin de lui comme d'un enfant, lui souffla à l'oreille
que c'était une personne de connaissance, Mme de SainteEuverte. Et aussitôt, avec une peine infinie et toute
l'application d'un malade qui veut se montrer capable de tous
les mouvements qui lui sont encore difficiles, M. de Charlus
se découvrit, s'inclina, et salua Mme de Sainte-Euverte avec
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le même respect que si elle avait été la reine de France. Peutêtre y avait-il dans la difficulté même que M. de Charlus avait
à faire un tel salut une raison pour lui de le faire, sachant
qu'il toucherait davantage par un acte qui, douloureux pour
un malade, devenait doublement méritoire de la part de celui
qui le faisait et flatteur pour celle à qui il s'adressait, les
malades exagérant la politesse, comme les rois. Peut-être
aussi y avait-il encore dans les mouvements du baron cette
incoordination consécutive aux troubles de la moelle et du
cerveau, et ses gestes dépassaient-ils l'intention qu'il avait.
Pour moi, j'y vis plutôt une sorte de douceur quasi physique,
de détachement des réalités de la vie, si frappants chez ceux
que la mort a déjà fait entrer dans son ombre. La mise à nu
des gisements argentés de la chevelure décelait un
changement moins profond que cette inconsciente humilité
mondaine qui intervertissait tous les rapports sociaux,
humiliait devant Mme de Sainte-Euverte, eût humilié – en
montrant ce qu'il a de fragile – devant la dernière des
Américaines (qui eût pu enfin s'offrir la politesse jusque-là
inaccessible pour elle du baron) le snobisme qui semblait le
plus fier. Car le baron vivait toujours, pensait toujours ; son
intelligence n'était pas atteinte. Et plus que n'eût fait tel
chœur de Sophocle sur l'orgueil abaissé d'Œdipe, plus que la
mort même, et toute oraison funèbre sur la mort, le salut
empressé et humble du baron à Mme de Sainte-Euverte
proclamait ce qu'a de périssable l'amour des grandeurs de la
terre et tout l'orgueil humain. M. de Charlus, qui jusque-là
n'eût pas consenti à dîner avec Mme de Sainte-Euverte, la
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saluait maintenant jusqu'à terre. Il saluait peut-être par
ignorance du rang de la personne qu'il saluait (les articles du
code social pouvant être emportés par une attaque comme
toute autre partie de la mémoire), peut-être par une
incoordination qui transposait dans le plan de l'humilité
apparente l'incertitude – sans cela hautaine qu'il aurait eue –
de l'identité de la dame qui passait. Il la salua enfin avec cette
politesse des enfants venant timidement dire bonjour aux
grandes personnes, sur l'appel de leur mère. Et un enfant,
c'est, sans la fierté qu'ils ont, ce qu'il était devenu. Recevoir
l'hommage de M. de Charlus, pour Mme de Sainte-Euverte
c'était tout le snobisme, comme ç'avait été tout le snobisme
du baron de le lui refuser. Or cette nature inaccessible et
précieuse qu'il avait réussi à faire croire à Mme de SainteEuverte être essentielle à lui-même, M. de Charlus l'anéantit
d'un seul coup par la timidité appliquée, le zèle peureux avec
lequel il ôta son chapeau, d'où les torrents de sa chevelure
d'argent ruisselèrent tout le temps qu'il laissa sa tête
découverte par déférence, avec l'éloquence d'un Bossuet.
Quand Jupien eut aidé le baron à descendre et que j'eus salué
celui-ci, il me parla très vite, d'une voix si imperceptible que
je ne pus distinguer ce qu'il me disait, ce qui lui arracha,
quand pour la troisième fois je le fis répéter, un geste
d'impatience qui m'étonna par l'impassibilité qu'avait d'abord
montrée le visage et qui était due sans doute à un reste de
paralysie. Mais quand je fus arrivé à comprendre ces paroles
sussurrées, je m'aperçus que le malade gardait absolument
intacte son intelligence. Il y avait, d'ailleurs, deux M. de
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Charlus, sans compter les autres. Des deux, l'intellectuel
passait son temps à se plaindre qu'il allait à l'aphasie, qu'il
prononçait constamment un mot, une lettre pour une autre.
Mais dès qu'en effet il lui arrivait de le faire, l'autre M. de
Charlus, le subconscient, lequel voulait autant faire envie que
l'autre pitié, arrêtait immédiatement, comme un chef
d'orchestre dont les musiciens pataugent, la phrase
commencée, et avec une ingéniosité infinie attachait ce qui
venait ensuite au mot dit en réalité pour un autre, mais qu'il
semblait avoir choisi. Même sa mémoire était intacte ; il
mettait, du reste, une coquetterie, qui n'allait pas sans la
fatigue d'une application des plus ardues, à faire sortir tel
souvenir ancien, peu important, se rapportant à moi et qui
me montrerait qu'il avait gardé ou recouvré toute sa netteté
d'esprit. Sans bouger la tête ni les yeux, ni varier d'une seule
inflexion son débit, il me dit, par exemple : « Voici un poteau
où il y a une affiche pareille à celle devant laquelle j'étais la
première fois que je vous vis à Avranches, non, je me
trompe, à Balbec. » Et c'était, en effet, une réclame pour le
même produit. J'avais à peine, au début, distingué ce qu'il
disait, de même qu'on commence par ne voir goutte dans
une chambre dont tous les rideaux sont clos. Mais, comme
des yeux dans la pénombre, mes oreilles s'habituèrent
bientôt à ce pianissimo. Je crois aussi qu'il s'était
graduellement renforcé pendant que le baron parlait, soit que
la faiblesse de sa voix provînt en partie d'une appréhension
nerveuse qui se dissipait quand, distrait par un tiers, il ne
pensait plus à elle ; soit qu'au contraire cette faiblesse
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correspondît à son état véritable et que la force momentanée
avec laquelle il parlait dans la conversation fût provoquée par
une excitation factice, passagère et plutôt funeste, qui faisait
dire aux étrangers : « Il est déjà mieux, il ne faut pas qu'il
pense à son mal », mais augmentait au contraire celui-ci qui
ne tardait pas à reprendre. Quoi qu'il en soit, le baron à ce
moment (et même en tenant compte de mon adaptation)
jetait ses paroles plus fort, comme la marée, les jours de
mauvais temps, ses petites vagues tordues. Et ce qui lui
restait de sa récente attaque faisait entendre au fond de ses
paroles comme un bruit de cailloux roulés. D'ailleurs,
continuant à me parler du passé, sans doute pour bien me
montrer qu'il n'avait pas perdu la mémoire, il l'évoquait d'une
façon funèbre, mais sans tristesse. Il ne cessait d'énumérer
tous les gens de sa famille ou de son monde qui n'étaient
plus, moins, semblait-il, avec la tristesse qu'ils ne fussent plus
en vie qu'avec la satisfaction de leur survivre. Il semblait en
rappelant leur trépas prendre mieux conscience de son
retour vers la santé. C'est avec une dureté presque
triomphale qu'il répétait sur un ton uniforme, légèrement
bégayant et aux sourdes résonances sépulcrales : « Hannibal
de Bréauté, mort ! Antoine de Mouchy, mort ! Charles
Swann, mort ! Adalbert de Montmorency, mort ! Baron de
Talleyrand, mort ! Sosthène de Doudeauville, mort ! » Et
chaque fois, ce mot « mort » semblait tomber sur ces défunts
comme une pelletée de terre plus lourde, lancée par un
fossoyeur qui tenait à les river plus profondément à la
tombe.
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La duchesse de Létourville, qui n'allait pas à la matinée de
la princesse de Guermantes, parce qu'elle venait d'être
longtemps malade, passa à ce moment à pied à côté de nous,
et apercevant le baron, dont elle ignorait la récente attaque,
s'arrêta pour lui dire bonjour. Mais la maladie qu'elle venait
d'avoir faisait qu'elle ne comprenait pas mieux, mais
supportait plus impatiemment, avec une mauvaise humeur
nerveuse où il y avait peut-être beaucoup de pitié, la maladie
des autres. Entendant le baron prononcer difficilement et à
faux certains mots, lui voyant bouger difficilement le bras,
elle jeta les yeux tour à tour sur Jupien et sur moi comme
pour nous demander l'explication d'un phénomène aussi
choquant. Comme nous ne lui dîmes rien, ce fut à M. de
Charlus lui-même qu'elle adressa un long regard plein de
tristesse mais aussi de reproches. Elle avait l'air de lui faire
grief d'être avec elle, dehors, dans une attitude aussi peu
usuelle que s'il fût sorti sans cravate ou sans souliers. À une
nouvelle faute de prononciation que commit le baron, la
douleur et l'indignation de la duchesse augmentant
ensemble, elle dit au baron : « Palamède ! » sur le ton
interrogatif et exaspéré des gens trop nerveux qui ne peuvent
supporter d'attendre une minute et, si on les fait entrer tout
de suite en s'excusant d'achever sa toilette, vous disent
amèrement, non pour s'excuser mais pour s'accuser : « Mais
alors, je vous dérange ! », comme si c'était un crime de la part
de celui qu'on dérange. Finalement, elle nous quitta d'un air
de plus en plus navré en disant au baron : « Vous feriez
mieux de rentrer. »
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M. de Charlus demanda à s'asseoir sur un fauteuil pour se
reposer pendant que Jupien et moi ferions quelques pas et
tira péniblement de sa poche un livre qui me sembla être un
livre de prières. Je n'étais pas fâché de pouvoir apprendre par
Jupien bien des détails sur l'état de santé du baron. « Je suis
content de causer avec vous, Monsieur, me dit Jupien, mais
nous n'irons pas plus loin que le rond-point. Dieu merci, le
baron va bien maintenant, mais je n'ose pas le laisser
longtemps seul, il est toujours le même, il a trop bon cœur, il
donnerait tout ce qu'il a aux autres, et puis ce n'est pas tout,
il est resté coureur comme un jeune homme et je suis obligé
d'ouvrir les yeux. – D'autant plus qu'il a retrouvé les siens,
répondis-je ; on m'avait beaucoup attristé en me disant qu'il
avait perdu la vue. – Sa paralysie s'était, en effet, portée là, il
ne voyait absolument plus. Pensez que, pendant la cure qui
lui a fait, du reste, tant de bien, il est resté plusieurs mois
sans voir plus qu'un aveugle de naissance. – Cela devait au
moins rendre inutile toute une partie de votre surveillance ?
– Pas le moins du monde, à peine arrivé dans un hôtel, il me
demandait comment était telle personne de service. Je
l'assurais qu'il n'y avait que des horreurs. Mais il sentait bien
que cela ne pouvait pas être universel, que je devais
quelquefois mentir. Voyez-vous, ce petit polisson ! Et puis il
avait une espèce de flair, d'après la voix peut-être, je ne sais
pas. Alors il s'arrangeait pour m'envoyer faire d'urgence des
courses. Un jour – vous m'excuserez de vous dire cela, mais
vous êtes venu une fois par hasard dans le Temple de
l'Impudeur, je n'ai rien à vous cacher (d'ailleurs, il avait
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toujours une satisfaction assez peu sympathique à faire
étalage des secrets qu'il détenait) – je rentrais d'une de ces
courses soi-disant pressées, d'autant plus vite que je me
figurais bien qu'elle avait été arrangée à dessein, quand, au
moment où j'approchais de la chambre du baron, j'entendis
une voix qui disait : « Quoi ? – Comment, répondit le baron,
c'était donc la première fois ? » J'entrai sans frapper, et quelle
ne fut pas ma frayeur. Le baron, trompé par la voix qui était,
en effet, plus forte qu'elle n'est d'habitude à cet âge-là (et à
cette époque-là le baron était complètement aveugle), était,
lui qui aimait plutôt autrefois les personnes mûres, avec un
enfant qui n'avait pas dix ans.
On m'a raconté qu'à cette époque-là il était en proie
presque chaque jour à des crises de dépression mentale,
caractérisée non pas précisément par de la divagation, mais
par la confession à haute voix – devant des tiers dont il
oubliait la présence ou la sévérité – d'opinions qu'il avait
l'habitude de cacher, sa germanophilie par exemple. Ainsi,
longtemps après la fin de la guerre, il gémissait de la défaite
des Allemands, parmi lesquels il se comptait, et disait
orgueilleusement : « Et pourtant il ne se peut pas que nous
ne prenions pas notre revanche, car nous avons prouvé que
c'est nous qui étions capables de la plus grande résistance, et
qui avions la meilleure organisation. » Ou bien ses
confidences prenaient un autre ton, et il s'écriait rageusement
: « Que Lord X ou le prince de X ne viennent pas redire ce
qu'ils disaient hier, car je me suis tenu à quatre pour ne pas
leur répondre : « Vous savez bien que vous en êtes au moins
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autant que moi. » Inutile d'ajouter que, quand M. de Charlus
faisait ainsi, dans les moments où, comme on dit, il n'était
pas très « présent », des aveux germanophiles ou autres, les
personnes de l'entourage qui se trouvaient là, que ce fût
Jupien ou la duchesse de Guermantes, avaient l'habitude
d'interrompre les paroles imprudentes et d'en donner, pour
les tiers moins intimes et plus indiscrets, une interprétation
forcée mais honorable. « Mais mon Dieu ! s'écria Jupien,
j'avais bien raison de vouloir que nous ne nous éloignions
pas, le voilà qui a trouvé déjà le moyen d'entrer en
conversation avec un garçon jardinier. Adieu, Monsieur, il
vaut mieux que je vous quitte et que je ne laisse pas un
instant seul mon malade qui n'est plus qu'un grand enfant. »
***
Je descendis de nouveau de voiture un peu avant d'arriver
chez la princesse de Guermantes et je recommençai à penser
à cette lassitude et à cet ennui avec lesquels j'avais essayé, la
veille, de noter la ligne qui, dans une des campagnes réputées
les plus belles de France, séparait sur les arbres l'ombre de la
lumière. Certes, les conclusions intellectuelles que j'en avais
tirées n'affectaient pas aujourd'hui aussi cruellement ma
sensibilité. Elles restaient les mêmes. Mais comme chaque
fois que je me trouvais arraché à mes habitudes, sorti à une
autre heure, dans un lieu nouveau, j'éprouvais un vif plaisir.
Ce plaisir me semblait aujourd'hui un plaisir purement
frivole, celui d'aller à une matinée chez Mme de Guermantes.
Mais puisque je savais maintenant que je ne pouvais rien
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atteindre de plus que des plaisirs frivoles, à quoi bon me les
refuser ? Je me redisais que je n'avais éprouvé en essayant
cette description rien de cet enthousiasme qui n'est pas le
seul mais qui est un premier critérium du talent. J'essayais
maintenant de tirer de ma mémoire d'autres « instantanés »,
notamment des instantanés qu'elle avait pris à Venise, mais
rien que ce mot me la rendait ennuyeuse comme une
exposition de photographies, et je ne me sentais pas plus de
goût, plus de talent, pour décrire maintenant ce que j'avais
vu autrefois qu'hier ce que j'observais d'un œil minutieux et
morne, au moment même. Dans un instant tant d'amis que
je n'avais pas vus depuis si longtemps allaient sans doute me
demander de ne plus m'isoler ainsi, de leur consacrer mes
journées. Je n'aurais aucune raison de le leur refuser, puisque
j'avais maintenant la preuve que je n'étais plus bon à rien,
que la littérature ne pouvait plus me causer aucune joie, soit
par ma faute, étant trop peu doué, soit par la sienne, si elle
était, en effet, moins chargée de réalité que je n'avais cru.
Quand je pensais à ce que Bergotte m'avait dit : « Vous
êtes malade, mais on ne peut vous plaindre car vous avez les
joies de l'esprit », je voyais combien il s'était trompé sur moi.
Comme il y avait peu de joie dans cette lucidité stérile !
J'ajoute même que si quelquefois j'avais peut-être des plaisirs
– non de l'intelligence – je les dépensais toujours pour une
femme différente ; de sorte que le Destin, m'eût-il accordé
cent ans de vie de plus, et sans infirmités, n'eût fait
qu'ajouter des rallonges successives à une existence toute en
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longueur, dont on ne voyait même pas l'intérêt qu'elle se
prolongeât davantage, à plus forte raison longtemps encore.
Quant aux « joies de l'intelligence », pouvais-je ainsi
appeler ces froides constatations que mon œil clairvoyant ou
mon raisonnement juste relevaient sans aucun plaisir et qui
restaient infécondes. Mais c'est quelquefois au moment où
tout nous semble perdu que l'avertissement arrive qui peut
nous sauver : on a frappé à toutes les portes qui ne donnent
sur rien, et la seule par où on peut entrer et qu'on aurait
cherchée en vain pendant cent ans, on y heurte sans le savoir
et elle s'ouvre.
En roulant les tristes pensées que je disais il y a un instant
j'étais entré dans la cour de l'hôtel de Guermantes, et dans
ma distraction je n'avais pas vu une voiture qui s'avançait ; au
cri du wattman je n'eus que le temps de me ranger vivement
de côté, et je reculai assez pour buter malgré moi contre des
pavés assez mal équarris derrière lesquels était une remise.
Mais au moment où, me remettant d'aplomb, je posai mon
pied sur un pavé qui était un peu moins élevé que le
précédent, tout mon découragement s'évanouit devant la
même félicité qu'à diverses époques de ma vie m'avaient
donnée la vue d'arbres que j'avais cru reconnaître dans une
promenade en voiture autour de Balbec, la vue des clochers
de Martinville, la saveur d'une madeleine trempée dans une
infusion, tant d'autres sensations dont j'ai parlé et que les
dernières œuvres de Vinteuil m'avaient paru synthétiser.
Comme au moment où je goûtais la madeleine, toute
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inquiétude sur l'avenir, tout doute intellectuel étaient
dissipés. Ceux qui m'assaillaient tout à l'heure au sujet de la
réalité de mes dons littéraires, et même de la réalité de la
littérature, se trouvaient levés comme par enchantement.
Cette fois je me promettais bien de ne pas me résigner à
ignorer pourquoi, sans que j'eusse fait aucun raisonnement
nouveau, trouvé aucun argument décisif, les difficultés,
insolubles tout à l'heure, avaient perdu toute importance,
comme je l'avais fait le jour où j'avais goûté d'une madeleine
trempée dans une infusion. La félicité que je venais
d'éprouver était bien, en effet, la même que celle que j'avais
éprouvée en mangeant la madeleine et dont j'avais alors
ajourné de rechercher les causes profondes. La différence,
purement matérielle, était dans les images évoquées. Un azur
profond enivrait mes yeux, des impressions de fraîcheur,
d'éblouissante lumière tournoyaient près de moi et, dans
mon désir de les saisir, sans oser plus bouger que quand je
goûtais la saveur de la madeleine en tâchant de faire parvenir
jusqu'à moi ce qu'elle me rappelait, je restais, quitte à faire
rire la foule innombrable des wattmen, à tituber comme
j'avais fait tout à l'heure, un pied sur le pavé plus élevé,
l'autre pied sur le pavé le plus bas. Chaque fois que je
refaisais, rien que matériellement, ce même pas, il me restait
inutile ; mais si je réussissais, oubliant la matinée
Guermantes, à retrouver ce que j'avais senti en posant ainsi
mes pieds, de nouveau la vision éblouissante et indistincte
me frôlait comme si elle m'avait dit : « Saisis-moi au passage
si tu en as la force et tâche à résoudre l'énigme du bonheur
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que je te propose. » Et presque tout de suite, je le reconnus,
c'était Venise, dont mes efforts pour la décrire et les
prétendus instantanés pris par ma mémoire ne m'avaient
jamais rien dit et que la sensation que j'avais ressentie jadis
sur deux dalles inégales du baptistère de Saint-Marc m'avait
rendue avec toutes les autres sensations jointes ce jour-là à
cette sensation-là, et qui étaient restées dans l'attente, à leur
rang, d'où un brusque hasard les avait impérieusement fait
sortir, dans la série des jours oubliés. De même le goût de la
petite madeleine m'avait rappelé Combray. Mais pourquoi les
images de Combray et de Venise m'avaient-elles, à l'un et à
l'autre moment, donné une joie pareille à une certitude et
suffisante sans autres preuves à me rendre la mort
indifférente ? Tout en me le demandant et en étant résolu
aujourd'hui à trouver la réponse, j'entrai dans l'hôtel de
Guermantes, parce que nous faisons toujours passer avant la
besogne intérieure que nous avons à faire le rôle apparent
que nous jouons et qui, ce jour-là, était celui d'un invité. Mais
arrivé au premier étage, un maître d'hôtel me demanda
d'entrer un instant dans un petit salon-bibliothèque attenant
au buffet, jusqu'à ce que le morceau qu'on jouait fût achevé,
la princesse ayant défendu qu'on ouvrît les portes pendant
son exécution. Or, à ce moment même, un second
avertissement vint renforcer celui que m'avaient donné les
pavés inégaux et m'exhorter à persévérer dans ma tâche. Un
domestique, en effet, venait, dans ses efforts infructueux
pour ne pas faire de bruit, de cogner une cuiller contre une
assiette. Le même genre de félicité que m'avaient donné les
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dalles inégales m'envahit ; les sensations étaient de grande
chaleur encore, mais toutes différentes, mêlées d'une odeur
de fumée apaisée par la fraîche odeur d'un cadre forestier ; et
je reconnus que ce qui me paraissait si agréable était la même
rangée d'arbres que j'avais trouvée ennuyeuse à observer et à
décrire, et devant laquelle, débouchant la canette de bière
que j'avais dans le wagon, je venais de croire un instant, dans
une sorte d'étourdissement, que je me trouvais, tant le bruit
identique de la cuiller contre l'assiette m'avait donné, avant
que j'eusse eu le temps de me ressaisir, l'illusion du bruit du
marteau d'un employé qui avait arrangé quelque chose à une
roue de train pendant que nous étions arrêtés devant ce petit
bois. Alors on eût dit que les signes qui devaient, ce jour-là,
me tirer de mon découragement et me rendre la foi dans les
lettres avaient à cœur de se multiplier, car un maître d'hôtel
depuis longtemps au service du prince de Guermantes
m'ayant reconnu, et m'ayant apporté dans la bibliothèque où
j'étais, pour m'éviter d'aller au buffet, un choix de petits
fours, un verre d'orangeade, je m'essuyai la bouche avec la
serviette qu'il m'avait donnée ; mais aussitôt, comme le
personnage des Mille et une Nuits qui, sans le savoir,
accomplit précisément le rite qui fait apparaître, visible pour
lui seul, un docile génie prêt à le transporter au loin, une
nouvelle vision d'azur passa devant mes yeux ; mais il était
pur et salin, il se gonfla en mamelles bleuâtres ; l'impression
fut si forte que le moment que je vivais me sembla être le
moment actuel, plus hébété que le jour où je me demandais
si j'allais vraiment être accueilli par la princesse de
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Guermantes ou si tout n'allait pas s'effondrer, je croyais que
le domestique venait d'ouvrir la fenêtre sur la plage et que
tout m'invitait à descendre me promener le long de la digue à
marée haute ; la serviette que j'avais prise pour m'essuyer la
bouche avait précisément le genre de raideur et d'empesé de
celle avec laquelle j'avais eu tant de peine à me sécher devant
la fenêtre, le premier jour de mon arrivée à Balbec, et
maintenant, devant cette bibliothèque de l'hôtel de
Guermantes, elle déployait, réparti dans ses plis et dans ses
cassures, le plumage d'un océan vert et bleu comme la queue
d'un paon. Et je ne jouissais pas que de ces couleurs, mais de
tout un instant de ma vie qui les soulevait, qui avait été sans
doute aspiration vers elles, dont quelque sentiment de fatigue
ou de tristesse m'avait peut-être empêché de jouir à Balbec,
et qui maintenant, débarrassé de ce qu'il y a d'imparfait dans
la perception extérieure, pur et désincarné, me gonflait
d'allégresse. Le morceau qu'on jouait pouvait finir d'un
moment à l'autre et je pouvais être obligé d'entrer au salon.
Aussi je m'efforçais de tâcher de voir clair le plus vite
possible dans la nature des plaisirs identiques que je venais,
par trois fois en quelques minutes, de ressentir, et ensuite de
dégager l'enseignement que je devais en tirer. Sur l'extrême
différence qu'il y a entre l'impression vraie que nous avons
eue d'une chose et l'impression factice que nous nous en
donnons quand volontairement nous essayons de nous la
représenter, je ne m'arrêtais pas ; me rappelant trop avec
quelle indifférence relative Swann avait pu parler autrefois
des jours où il était aimé, parce que sous cette phrase il
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voyait autre chose qu'eux, et de la douleur subite que lui
avait causée la petite phrase de Vinteuil en lui rendant ces
jours eux-mêmes tels qu'il les avait jadis sentis, je comprenais
trop que ce que la sensation des dalles inégales, la raideur de
la serviette, le goût de la madeleine avaient réveillé en moi,
n'avait aucun rapport avec ce que je cherchais souvent à me
rappeler de Venise, de Balbec, de Combray, à l'aide d'une
mémoire uniforme ; et je comprenais que la vie pût être
jugée médiocre, bien qu'à certains moments elle parût si
belle, parce que dans le premier cas c'est sur tout autre chose
qu'elle-même, sur des images qui ne gardent rien d'elle qu'on
la juge et qu'on la déprécie. Tout au plus notais-je
accessoirement que la différence qu'il y a entre chacune des
impressions réelles – différences qui expliquent qu'une
peinture uniforme de la vie ne puisse être ressemblante –
tenait probablement à cette cause : que la moindre parole
que nous avons dite à une époque de notre vie, le geste le
plus insignifiant que nous avons fait était entouré, portait sur
lui le reflet des choses qui logiquement ne tenaient pas à lui,
en ont été séparées par l'intelligence, qui n'avait rien à faire
d'elles pour les besoins du raisonnement, mais au milieu
desquelles – ici reflet rose du soir sur le mur fleuri d'un
restaurant champêtre, sensation de faim, désir des femmes,
plaisir du luxe ; là volutes bleues de la mer matinale
enveloppant des phrases musicales qui en émergent
partiellement comme les épaules des ondines – le geste, l'acte
le plus simple reste enfermé comme dans mille vases clos
dont chacun serait rempli de choses d'une couleur, d'une
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odeur, d'une température absolument différentes ; sans
compter que ces vases, disposés sur toute la hauteur de nos
années pendant lesquelles nous n'avons cessé de changer,
fût-ce seulement de rêve et de pensée, sont situés à des
altitudes bien diverses, et nous donnent la sensation
d'atmosphères singulièrement variées. Il est vrai que, ces
changements, nous les avons accomplis insensiblement ;
mais entre le souvenir qui nous revient brusquement et notre
état actuel, de même qu'entre deux souvenirs d'années, de
lieux, d'heures différentes, la distance est telle que cela
suffirait, en dehors même d'une originalité spécifique, à les
rendre incomparables les uns aux autres. Oui, si le souvenir,
grâce à l'oubli, n'a pu contracter aucun lien, jeter aucun
chaînon entre lui et la minute présente, s'il est resté à sa
place, à sa date, s'il a gardé ses distances, son isolement dans
le creux d'une vallée ou à la pointe d'un sommet ; il nous fait
tout à coup respirer un air nouveau, précisément parce que
c'est un air qu'on a respiré autrefois, cet air plus pur que les
poètes ont vainement essayé de faire régner dans le Paradis
et qui ne pourrait donner cette sensation profonde de
renouvellement que s'il avait été respiré déjà, car les vrais
paradis sont les paradis qu'on a perdus. Et, au passage, je
remarquais qu'il y aurait dans l'œuvre d'art que je me sentais
prêt déjà, sans m'y être consciemment résolu, à entreprendre,
de grandes difficultés. Car j'en devrais exécuter les parties
successives dans une matière en quelque sorte différente.
Elle serait bien différente, celle qui conviendrait aux
souvenirs de matins au bord de la mer, de celle d'après-midi
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à Venise, une matière distincte, nouvelle, d'une transparence,
d'une sonorité spéciale, compacte, fraîchissante et rose, et
différente encore si je voulais décrire les soirs de Rivebelle
où, dans la salle à manger ouverte sur le jardin, la chaleur
commençait à se décomposer, à retomber, à se déposer, où
une dernière lueur éclairait encore les roses sur les murs du
restaurant tandis que les dernières aquarelles du jour étaient
encore visibles au ciel. Je glissais rapidement sur tout cela,
plus impérieusement sollicité que j'étais de chercher la cause
de cette félicité, du caractère de certitude avec lequel elle
s'imposait, recherche ajournée autrefois. Or, cette cause, je la
devinais en comparant entre elles ces diverses impressions
bienheureuses et qui avaient entre elles ceci de commun que
je les éprouvais à la fois dans le moment actuel et dans un
moment éloigné où le bruit de la cuiller sur l'assiette,
l'inégalité des dalles, le goût de la madeleine allaient jusqu'à
faire empiéter le passé sur le présent, à me faire hésiter à
savoir dans lequel des deux je me trouvais ; au vrai, l'être qui
alors goûtait en moi cette impression la goûtait en ce qu'elle
avait de commun dans un jour ancien et maintenant, dans ce
qu'elle avait d'extra-temporel, un être qui n'apparaissait que
quand, par une de ces identités entre le présent et le passé, il
pouvait se trouver dans le seul milieu où il pût vivre, jouir de
l'essence des choses, c'est-à-dire en dehors du temps. Cela
expliquait que mes inquiétudes au sujet de ma mort eussent
cessé au moment où j'avais reconnu, inconsciemment, le
goût de la petite madeleine, puisqu'à ce moment-là l'être que
j'avais été était un être extra-temporel, par conséquent
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insoucieux des vicissitudes de l'avenir. Cet être-là n'était
jamais venu à moi, ne s'était jamais manifesté qu'en dehors
de l'action, de la jouissance immédiate, chaque fois que le
miracle d'une analogie m'avait fait échapper au présent. Seul
il avait le pouvoir de me faire retrouver les jours anciens, le
Temps Perdu, devant quoi les efforts de ma mémoire et de
mon intelligence échouaient toujours.
Et peut-être, si tout à l'heure je trouvais que Bergotte avait
jadis dit faux en parlant des joies de la vie spirituelle, c'était
parce que j'appelais vie spirituelle, à ce moment-là, des
raisonnements logiques qui étaient sans rapport avec elle,
avec ce qui existait en moi à ce moment – exactement
comme j'avais pu trouver le monde et la vie ennuyeux parce
que je les jugeais d'après des souvenirs sans vérité, alors que
j'avais un tel appétit de vivre, maintenant que venait de
renaître en moi, à trois reprises, un véritable moment du
passé.
Rien qu'un moment du passé ? Beaucoup plus, peut-être ;
quelque chose qui, commun à la fois au passé et au présent,
est beaucoup plus essentiel qu'eux deux.
Tant de fois, au cours de ma vie, la réalité m'avait déçu
parce que, au moment où je la percevais, mon imagination,
qui était mon seul organe pour jouir de la beauté, ne pouvait
s'appliquer à elle, en vertu de la loi inévitable qui veut qu'on
ne puisse imaginer que ce qui est absent. Et voici que
soudain l'effet de cette dure loi s'était trouvé neutralisé,
suspendu, par un expédient merveilleux de la nature, qui
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avait fait miroiter une sensation – bruit de la fourchette et du
marteau, même inégalité de pavés – à la fois dans le passé, ce
qui permettait à mon imagination de la goûter, et dans le
présent où l'ébranlement effectif de mes sens par le bruit, le
contact avait ajouté aux rêves de l'imagination ce dont ils
sont habituellement dépourvus, l'idée d'existence et, grâce à
ce subterfuge, avait permis à mon être d'obtenir, d'isoler,
d'immobiliser – la durée d'un éclair – ce qu'il n'appréhende
jamais : un peu de temps à l'état pur. L'être qui était rené en
moi quand, avec un tel frémissement de bonheur, j'avais
entendu le bruit commun à la fois à la cuiller qui touche
l'assiette et au marteau qui frappe sur la roue, à l'inégalité
pour les pas des pavés de la cour Guermantes et du
baptistère de Saint-Marc, cet être-là ne se nourrit que de
l'essence des choses, en elles seulement il trouve sa
subsistance, ses délices. Il languit dans l'observation du
présent où les sens ne peuvent la lui apporter, dans la
considération d'un passé que l'intelligence lui dessèche, dans
l'attente d'un avenir que la volonté construit avec des
fragments du présent et du passé auxquels elle retire encore
de leur réalité, ne conservant d'eux que ce qui convient à la
fin utilitaire, étroitement humaine, qu'elle leur assigne. Mais
qu'un bruit déjà entendu, qu'une odeur respirée jadis, le
soient de nouveau, à la fois dans le présent et dans le passé,
réels sans être actuels, idéaux sans être abstraits, aussitôt
l'essence permanente et habituellement cachée des choses se
trouve libérée et notre vrai moi qui, parfois depuis
longtemps, semblait mort, mais ne l'était pas autrement,
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s'éveille, s'anime en recevant la céleste nourriture qui lui est
apportée. Une minute affranchie de l'ordre du temps a recréé
en nous pour la sentir l'homme affranchi de l'ordre du
temps. Et celui-là on comprend qu'il soit confiant dans sa
joie, même si le simple goût d'une madeleine ne semble pas
contenir logiquement les raisons de cette joie, on comprend
que le mot de « mort » n'ait pas de sens pour lui ; situé hors
du temps, que pourrait-il craindre de l'avenir ? Mais ce
trompe-l'œil qui mettait près de moi un moment du passé,
incompatible avec le présent, ce trompe-l'œil ne durait pas.
Certes, on peut prolonger les spectacles de la mémoire
volontaire, qui n'engage pas plus de forces de nous-même
que feuilleter un livre d'images. Ainsi jadis, par exemple, le
jour où je devais aller pour la première fois chez la princesse
de Guermantes, de la cour ensoleillée de notre maison de
Paris j'avais paresseusement regardé, à mon choix, tantôt la
place de l'Église à Combray, ou la plage de Balbec, comme
j'aurais illustré le jour qu'il faisait en feuilletant un cahier
d'aquarelles prises dans les divers lieux où j'avais été et où,
avec un plaisir égoïste de collectionneur, je m'étais dit, en
cataloguant ainsi les illustrations de ma mémoire : « J'ai tout
de même vu de belles choses dans ma vie. » Alors ma
mémoire affirmait sans doute la différence des sensations,
mais elle ne faisait que combiner entre eux des éléments
homogènes. Il n'en avait plus été de même dans les trois
souvenirs que je venais d'avoir et où, au lieu de me faire une
idée plus flatteuse de mon moi, j'avais, au contraire, presque
douté de la réalité actuelle de ce moi. De même que le jour
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où j'avais trempé la madeleine dans l'infusion chaude, au sein
de l'endroit où je me trouvais (que cet endroit fût, comme ce
jour-là, ma chambre de Paris, ou, comme aujourd'hui en ce
moment, la bibliothèque du prince de Guermantes, un peu
avant la cour de son hôtel), il y avait eu en moi, irradiant
d'une petite zone autour de moi, une sensation (goût de la
madeleine trempée, bruit métallique, sensation de pas
inégaux) qui était commune à cet endroit (où je me trouvais)
et aussi à un autre endroit (chambre de ma tante Léonie,
wagon de chemin de fer, baptistère de Saint-Marc). Au
moment où je raisonnais ainsi, le bruit strident d'une
conduite d'eau, tout à fait pareil à ces longs cris que parfois
l'été les navires de plaisance faisaient entendre le soir au large
de Balbec, me fit éprouver (comme me l'avait déjà fait une
fois à Paris, dans un grand restaurant, la vue d'une luxueuse
salle à manger à demi vide, estivale et chaude) bien plus
qu'une sensation simplement analogue à celle que j'avais à la
fin de l'après-midi, à Balbec, quand, toutes les tables étant
déjà couvertes de leur nappe et de leur argenterie, les vastes
baies vitrées restant ouvertes tout en grand sur la digue, sans
un seul intervalle, un seul « plein » de verre ou de pierre,
tandis que le soleil descendait lentement sur la mer où
commençaient à errer les navires, je n'avais, pour rejoindre
Albertine et ses amies qui se promenaient sur la digue, qu'à
enjamber le cadre de bois à peine plus haut que ma cheville,
dans la charnière duquel on avait fait pour l'aération de
l'hôtel glisser toutes ensemble les vitres qui se continuaient.
Ce n'était d'ailleurs pas seulement un écho, un double d'une
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sensation passée que venait de me faire éprouver le bruit de
la conduite d'eau, mais cette sensation elle-même. Dans ce
cas-là comme dans tous les précédents, la sensation
commune avait cherché à recréer autour d'elle le lieu ancien,
cependant que le lieu actuel qui en tenait la place s'opposait
de toute la résistance de sa masse à cette immigration dans
un hôtel de Paris d'une plage normande ou d'un talus d'une
voie de chemin de fer. La salle à manger marine de Balbec,
avec son linge damassé préparé comme des nappes d'autel
pour recevoir le coucher du soleil, avait cherché à ébranler la
solidité de l'hôtel de Guermantes, d'en forcer les portes et
avait fait vaciller un instant les canapés autour de moi,
comme elle avait fait un autre jour pour les tables d'un
restaurant de Paris. Toujours, dans ces résurrections-là, le
lieu lointain engendré autour de la sensation commune s'était
accouplé un instant comme un lutteur au lieu actuel.
Toujours le lieu actuel avait été vainqueur ; toujours c'était le
vaincu qui m'avait paru le plus beau, si bien que j'étais resté
en extase sur le pavé inégal comme devant la tasse de thé,
cherchant à maintenir aux moments où ils apparaissaient, à
faire réapparaître dès qu'ils m'avaient échappé, ce Combray,
cette Venise, ce Balbec envahissants et refoulés qui
s'élevaient pour m'abandonner ensuite au sein de ces lieux
nouveaux, mais perméables pour le passé. Et si le lieu actuel
n'avait pas été aussitôt vainqueur, je crois que j'aurais perdu
connaissance ; car ces résurrections du passé, dans la
seconde qu'elles durent, sont si totales qu'elles n'obligent pas
seulement nos yeux à cesser de voir la chambre qui est près
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d'eux pour regarder la voie bordée d'arbres ou la marée
montante. Elles forcent nos narines à respirer l'air de lieux
pourtant si lointains, notre volonté à choisir entre les divers
projets qu'ils nous proposent, notre personne tout entière à
se croire entourée par eux, ou du moins à trébucher entre
eux et les lieux présents, dans l'étourdissement d'une
incertitude pareille à celle qu'on éprouve parfois devant une
vision ineffable, au moment de s'endormir.
De sorte que ce que l'être par trois et quatre fois ressuscité
en moi venait de goûter, c'était peut-être bien des fragments
d'existence soustraits au temps, mais cette contemplation,
quoique d'éternité, était fugitive. Et pourtant je sentais que le
plaisir qu'elle m'avait donné à de rares intervalles dans ma vie
était le seul qui fût fécond et véritable. Le signe de l'irréalité
des autres ne se montre-t-il pas assez, soit dans leur
impossibilité à nous satisfaire, comme, par exemple, les
plaisirs mondains qui causent tout au plus le malaise
provoqué par l'ingestion d'une nourriture abjecte, ou celui de
l'amitié qui est une simulation puisque, pour quelques
raisons morales qu'il le fasse, l'artiste qui renonce à une
heure de travail pour une heure de causerie avec un ami sait
qu'il sacrifie une réalité pour quelque chose qui n'existe pas
(les amis n'étant des amis que dans cette douce folie que
nous avons au cours de la vie, à laquelle nous nous prêtons,
mais que du fond de notre intelligence nous savons l'erreur
d'un fou qui croirait que les meubles vivent et causerait avec
eux), soit dans la tristesse qui suit leur satisfaction, comme
celle que j'avais eue, le jour où j'avais été présenté à
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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Albertine, de m'être donné un mal pourtant bien petit afin
d'obtenir une chose – connaître cette jeune fille – qui ne me
semblait petite que parce que je l'avais obtenue. Même un
plaisir plus profond, comme celui que j'aurais pu éprouver
quand j'aimais Albertine, n'était en réalité perçu
qu'inversement par l'angoisse que j'avais quand elle n'était
pas là, car quand j'étais sûr qu'elle allait arriver, comme le
jour où elle était revenue du Trocadéro, je n'avais pas cru
éprouver plus qu'un vague ennui, tandis que je m'exaltais de
plus en plus au fur et à mesure que j'approfondissais le bruit
du couteau ou le goût de l'infusion, avec une joie croissante
pour moi qui avais fait entrer dans ma chambre la chambre
de ma tante Léonie et, à sa suite, tout Combray et ses deux
côtés. Aussi, cette contemplation de l'essence des choses,
j'étais maintenant décidé à m'attacher à elle, à la fixer, mais
comment ? par quel moyen ? Sans doute, au moment où la
raideur de la serviette m'avait rendu Balbec et pendant un
instant avait caressé mon imagination, non pas seulement de
la vue de la mer telle qu'elle était ce matin-là, mais de l'odeur
de la chambre, de la vitesse du vent, du désir de déjeuner, de
l'incertitude entre les diverses promenades, tout cela attaché
à la sensation du large, comme les ailes des roues à aubes
dans leur course vertigineuse ; sans doute, au moment où
l'inégalité des deux pavés avait prolongé les images
desséchées et nues que j'avais de Venise et de Saint-Marc
dans tous les sens et toutes les dimensions, de toutes les
sensations que j'y avais éprouvées, raccordant la place à
l'église, l'embarcadère à la place, le canal à l'embarcadère, et à
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tout ce que les yeux voient du monde de désirs qui n'est
réellement vu que de l'esprit, j'avais été tenté, sinon, à cause
de la saison, d'aller me promener sur les eaux pour moi
surtout printanières de Venise, du moins de retourner à
Balbec. Mais je ne m'arrêtai pas un instant à cette pensée ;
non seulement je savais que les pays n'étaient pas tels que
leur nom me les peignait, et qui avait été le leur quand je me
les représentais. Il n'y avait plus guère que dans mes rêves,
en dormant, qu'un lieu s'étendait devant moi, fait de la pure
matière entièrement distincte des choses communes qu'on
voit, qu'on touche. Mais même en ce qui concernait ces
images d'un autre genre encore, celles du souvenir, je savais
que la beauté de Balbec, je ne l'avais pas trouvée quand j'y
étais allé, et celle même qu'il m'avait laissée, celle du
souvenir, ce n'était plus celle que j'avais retrouvée à mon
second séjour. J'avais trop expérimenté l'impossibilité
d'atteindre dans la réalité ce qui était au fond de moi-même.
Ce n'était pas plus sur la place Saint-Marc que ce n'avait été à
mon second voyage à Balbec, ou à mon retour à Tansonville,
pour voir Gilberte, que je retrouverais le Temps Perdu, et le
voyage que ne faisait que me proposer une fois de plus
l'illusion que ces impressions anciennes existaient hors de
moi-même, au coin d'une certaine place, ne pouvait être le
moyen que je cherchais. Je ne voulais pas me laisser leurrer
une fois de plus, car il s'agissait pour moi de savoir enfin s'il
était vraiment possible d'atteindre ce que, toujours déçu
comme je l'avais été en présence des lieux et des êtres, j'avais
(bien qu'une fois la pièce pour concert de Vinteuil eût
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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semblé me dire le contraire) cru irréalisable. Je n'allais donc
pas tenter une expérience de plus dans la voie que je savais
depuis longtemps ne mener à rien. Des impressions telles
que celles que je cherchais à fixer ne pouvaient que
s'évanouir au contact d'une jouissance directe qui a été
impuissante à les faire naître. La seule manière de les goûter
davantage c'était de tâcher de les connaître plus
complètement là où elles se trouvaient, c'est-à-dire en moimême, de les rendre claires jusque dans leurs profondeurs. Je
n'avais pu connaître le plaisir à Balbec, pas plus que celui de
vivre avec Albertine, lequel ne m'avait été perceptible
qu'après coup. Et si je faisais la récapitulation des déceptions
de ma vie, en tant que vécue, qui me faisaient croire que sa
réalité devait résider ailleurs qu'en l'action et ne rapprochait
pas d'une manière purement fortuite, et en suivant les
vicissitudes de mon existence, des désappointements
différents, je sentais bien que la déception du voyage, la
déception de l'amour n'étaient pas des déceptions
différentes, mais l'aspect varié que prend, selon le fait auquel
il s'applique, l'impuissance que nous avons à nous réaliser
dans la jouissance matérielle, dans l'action effective. Et
repensant à cette joie extra-temporelle causée, soit par le
bruit de la cuiller, soit par le goût de la madeleine, je me
disais : « Était-ce cela ce bonheur proposé par la petite
phrase de la sonate à Swann qui s'était trompé en l'assimilant
au plaisir de l'amour et n'avait pas su le trouver dans la
création artistique ; ce bonheur que m'avait fait pressentir
comme plus supra-terrestre encore que n'avait fait la petite
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phrase de la sonate l'appel rouge et mystérieux de ce septuor
que Swann n'avait pu connaître, étant mort, comme tant
d'autres, avant que la vérité faite pour eux eût été révélée.
D'ailleurs, elle n'eût pu lui servir, car cette phrase pouvait
bien symboliser un appel, mais non créer des forces et faire
de Swann l'écrivain qu'il n'était pas. Cependant, je m'avisai au
bout d'un moment et après avoir pensé à ces résurrections
de la mémoire que, d'une autre façon, des impressions
obscures avaient quelquefois, et déjà à Combray, du côté de
Guermantes, sollicité ma pensée, à la façon de ces
réminiscences, mais qui cachaient non une sensation
d'autrefois, mais une vérité nouvelle, une image précieuse
que je cherchais à découvrir par des efforts du même genre
que ceux qu'on fait pour se rappeler quelque chose, comme
si nos plus belles idées étaient comme des airs de musique
qui nous reviendraient sans que nous les eussions jamais
entendus, et que nous nous efforcerions d'écouter, de
transcrire. Je me souvins avec plaisir, parce que cela me
montrait que j'étais déjà le même alors et que cela recouvrait
un trait fondamental de ma nature, avec tristesse aussi en
pensant que depuis lors je n'avais jamais progressé, que déjà
à Combray je fixais avec attention devant mon esprit quelque
image qui m'avait forcé à la regarder, un nuage, un triangle,
un clocher, une fleur, un caillou, en sentant qu'il y avait peutêtre sous ces signes quelque chose de tout autre que je devais
tâcher de découvrir, une pensée qu'ils traduisaient à la façon
de ces caractères hiéroglyphes qu'on croirait représenter
seulement des objets matériels. Sans doute, ce déchiffrage
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était difficile, mais seul il donnait quelque vérité à lire. Car les
vérités que l'intelligence saisit directement à claire-voie dans
le monde de la pleine lumière ont quelque chose de moins
profond, de moins nécessaire que celles que la vie nous a
malgré nous communiquées en une impression, matérielle
parce qu'elle est entrée par nos sens, mais dont nous
pouvons dégager l'esprit. En somme, dans ce cas comme
dans l'autre, qu'il s'agisse d'impressions comme celles que
m'avait données la vue des clochers de Martinville, ou de
réminiscences comme celle de l'inégalité des deux marches
ou le goût de la madeleine, il fallait tâcher d'interpréter les
sensations comme les signes d'autant de lois et d'idées, en
essayant de penser, c'est-à-dire de faire sortir de la pénombre
ce que j'avais senti, de le convertir en un équivalent spirituel.
Or, ce moyen qui me paraissait le seul, qu'était-ce autre
chose que faire une œuvre d'art ? Et déjà les conséquences se
pressaient dans mon esprit ; car qu'il s'agît de réminiscences
dans le genre du bruit de la fourchette ou du goût de la
madeleine, ou de ces vérités écrites à l'aide de figures dont
j'essayais de chercher le sens dans ma tête, où, clochers,
herbes folles, elles composaient un grimoire compliqué et
fleuri, leur premier caractère était que je n'étais pas libre de
les choisir, qu'elles m'étaient données telles quelles. Et je
sentais que ce devait être la griffe de leur authenticité. Je
n'avais pas été chercher les deux pavés de la cour où j'avais
buté. Mais justement la façon fortuite, inévitable, dont la
sensation avait été rencontrée contrôlait la vérité d'un passé
qu'elle ressuscitait, des images qu'elle déclenchait, puisque
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nous sentons son effort pour remonter vers la lumière, que
nous sentons la joie du réel retrouvé. Elle est le contrôle de
la vérité de tout le tableau fait d'impressions
contemporaines, qu'elle ramène à sa suite avec cette
infaillible proportion de lumière et d'ombre, de relief et
d'omission, de souvenir et d'oubli, que la mémoire ou
l'observation conscientes ignoreront toujours.
Le livre intérieur de ces signes inconnus (de signes en
relief, semblait-il, que mon attention explorant mon
inconscient allait chercher, heurtait, contournait, comme un
plongeur qui sonde), pour sa lecture personne ne pouvait
m'aider d'aucune règle, cette lecture consistant en un acte de
création où nul ne peut nous suppléer, ni même collaborer
avec nous. Aussi combien se détournent de l'écrire, que de
tâches n'assume-t-on pas pour éviter celle-là. Chaque
événement, que ce fût l'affaire Dreyfus, que ce fût la guerre,
avait fourni d'autres excuses aux écrivains pour ne pas
déchiffrer ce livre-là ; ils voulaient assurer le triomphe du
droit, refaire l'unité morale de la nation, n'avaient pas le
temps de penser à la littérature. Mais ce n'étaient que des
excuses parce qu'ils n'avaient pas ou plus de génie, c'est-àdire d'instinct. Car l'instinct dicte le devoir et l'intelligence
fournit les prétextes pour l'éluder. Seulement les excuses ne
figurent point dans l'art, les intentions n'y sont pas
comptées, à tout moment l'artiste doit écouter son instinct,
ce qui fait que l'art est ce qu'il y a de plus réel, la plus austère
école de la vie, et le vrai Jugement dernier. Ce livre, le plus
pénible de tous à déchiffrer, est aussi le seul que nous ait
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dicté la réalité, le seul dont « l'impression » ait été faite en
nous par la réalité même. De quelque idée laissée en nous
par la vie qu'il s'agisse, sa figure matérielle, trace de
l'impression qu'elle nous a faite, est encore le gage de sa
vérité nécessaire. Les idées formées par l'intelligence pure
n'ont qu'une vérité logique, une vérité possible, leur élection
est arbitraire. Le livre aux caractères figurés, non tracés par
nous, est notre seul livre. Non que les idées que nous
formons ne puissent être justes logiquement, mais nous ne
savons pas si elles sont vraies. Seule l'impression, si chétive
qu'en semble la matière, si invraisemblable la trace, est un
critérium de vérité et à cause de cela mérite seule d'être
appréhendée par l'esprit, car elle est seule capable, s'il sait en
dégager cette vérité, de l'amener à une plus grande perfection
et de lui donner une pure joie. L'impression est pour
l'écrivain ce qu'est l'expérimentation pour le savant, avec
cette différence que chez le savant le travail de l'intelligence
précède et chez l'écrivain vient après : Ce que nous n'avons
pas eu à déchiffrer, à éclaircir par notre effort personnel, ce
qui était clair avant nous, n'est pas à nous. Ne vient de nousmême que ce que nous tirons de l'obscurité qui est en nous
et que ne connaissent pas les autres. Et comme l'art
recompose exactement la vie, autour de ces vérités qu'on a
atteintes en soi-même flotte une atmosphère de poésie, la
douceur d'un mystère qui n'est que la pénombre que nous
avons traversée. Un rayon oblique du couchant me rappelle
instantanément un temps auquel je n'avais jamais repensé et
où dans ma petite enfance, comme ma tante Léonie avait
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une fièvre que le Dr Percepied avait craint typhoïde, on
m'avait fait habiter une semaine la petite chambre qu'Eulalie
avait sur la place de l'Église, et où il n'y avait qu'une sparterie
par terre et à la fenêtre un rideau de percale, bourdonnant
toujours d'un soleil auquel je n'étais pas habitué. Et en
voyant comme le souvenir de cette petite chambre
d'ancienne domestique ajoutait tout d'un coup à ma vie
passée une longue étendue si différente du reste et si
délicieuse, je pensai par contraste au néant d'impressions
qu'avaient apporté dans ma vie les fêtes les plus somptueuses
dans les hôtels les plus princiers. La seule chose un peu triste
dans cette chambre d'Eulalie était qu'on y entendait le soir, à
cause de la proximité du viaduc, les hululements des trains.
Mais comme je savais que ces beuglements émanaient de
machines réglées, ils ne m'épouvantaient pas comme auraient
pu faire, à une époque de la préhistoire, les cris poussés par
un mammouth voisin dans sa promenade libre et
désordonnée.
Ainsi j'étais déjà arrivé à cette conclusion que nous ne
sommes nullement libres devant l'œuvre d'art, que nous ne la
faisons pas à notre gré, mais que, préexistant à nous, nous
devons, à la fois parce qu'elle est nécessaire et cachée, et
comme nous ferions pour une loi de la nature, la découvrir.
Mais cette découverte que l'art pouvait nous faire faire
n'était-elle pas, au fond, celle de ce qui devrait nous être le
plus précieux, et de ce qui nous reste d'habitude à jamais
inconnu, notre vraie vie, la réalité telle que nous l'avons
sentie et qui diffère tellement de ce que nous croyons, que
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nous sommes emplis d'un tel bonheur quand le hasard nous
en apporte le souvenir véritable. Je m'en assurais par la
fausseté même de l'art prétendu réaliste et qui ne serait pas si
mensonger si nous n'avions pris dans la vie l'habitude de
donner à ce que nous sentons une expression qui en diffère
tellement, et que nous prenons, au bout de peu de temps,
pour la réalité même. Je sentais que je n'aurais pas à
m'embarrasser des diverses théories littéraires qui m'avaient
un moment troublé – notamment celles que la critique avait
développées au moment de l'affaire Dreyfus et avait reprises
pendant la guerre, et qui tendaient à « faire sortir l'artiste de
sa tour d'ivoire », à traiter de sujets non frivoles ni
sentimentaux, à peindre de grands mouvements ouvriers, et
à défaut de foules, à tout le moins non plus d'insignifiants
oisifs – « J'avoue que la peinture de ces inutiles m'indiffère
assez », disait Bloch – mais de nobles intellectuels ou des
héros. D'ailleurs, même avant de discuter leur contenu
logique, ces théories me paraissaient dénoter chez ceux qui
les soutenaient une preuve d'infériorité, comme un enfant
vraiment bien élevé, qui entend des gens chez qui on l'a
envoyé déjeuner dire : « Nous avouons tout, nous sommes
francs », sent que cela dénote une qualité morale inférieure à
la bonne action pure et simple, qui ne dit rien. L'art véritable
n'a que faire de tant de proclamations et s'accomplit dans le
silence. D'ailleurs, ceux qui théorisaient ainsi employaient
des expressions toutes faites qui ressemblaient
singulièrement à celles d'imbéciles qu'ils flétrissaient. Et
peut-être est-ce plutôt à la qualité du langage qu'au genre
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d'esthétique qu'on peut juger du degré auquel a été porté le
travail intellectuel et moral. Mais, inversement, cette qualité
du langage (et même, pour étudier les lois du caractère, on le
peut aussi bien en prenant un sujet sérieux ou frivole,
comme un prosecteur peut aussi bien étudier celles de
l'anatomie sur le corps d'un imbécile que sur celui d'un
homme de talent : les grandes lois morales, aussi bien que
celles de la circulation du sang ou de l'élimination rénale,
diffèrent peu selon la valeur intellectuelle des individus) dont
croient pouvoir se passer les théoriciens, ceux qui admirent
les théoriciens croient facilement qu'elle ne prouve pas une
grande valeur intellectuelle, valeur qu'ils ont besoin, pour la
discerner, de voir exprimer directement et qu'ils n'induisent
pas de la beauté d'une image. D'où la grossière tentation
pour l'écrivain d'écrire des œuvres intellectuelles. Grande
indélicatesse. Une œuvre où il y a des théories est comme un
objet sur lequel on laisse la marque du prix. Encore cette
dernière ne fait-elle qu'exprimer une valeur qu'au contraire
en littérature le raisonnement logique diminue. On raisonne,
c'est-à-dire on vagabonde, chaque fois qu'on n'a pas la force
de s'astreindre à faire passer une impression par tous les états
successifs qui aboutiront à sa fixation, à l'expression de sa
réalité. La réalité à exprimer résidait, je le comprenais
maintenant, non dans l'apparence du sujet, mais dans le
degré de pénétration de cette impression à une profondeur
où cette apparence importait peu, comme le symbolisaient ce
bruit de cuiller sur une assiette, cette raideur empesée de la
serviette, qui m'avaient été plus précieux pour mon
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renouvellement spirituel que tant de conversations
humanitaires, patriotiques, internationalistes. Plus de style,
avais-je entendu dire alors, plus de littérature, de la vie. On
peut penser combien même les simples théories de M. de
Norpois « contre les joueurs de flûtes » avaient refleuri
depuis la guerre. Car tous ceux qui, n'ayant pas le sens
artistique, c'est-à-dire la soumission à la réalité intérieure,
peuvent être pourvus de la faculté de raisonner à perte de
vue sur l'art, pour peu qu'ils soient par surcroît diplomates
ou financiers, mêlés aux « réalités » du temps présent, croient
volontiers que la littérature est un jeu de l'esprit destiné à
être éliminé de plus en plus dans l'avenir. Quelques-uns
voulaient que le roman fût une sorte de défilé
cinématographique des choses. Cette conception était
absurde. Rien ne s'éloigne plus de ce que nous avons perçu
en réalité qu'une telle vue cinématographique. Justement,
comme, en entrant dans cette bibliothèque, je m'étais
souvenu de ce que les Goncourt disent des belles éditions
originales qu'elle contient, je m'étais promis de les regarder
tant que j'étais enfermé ici. Et tout en poursuivant mon
raisonnement, je tirais un à un, sans trop y faire attention du
reste, les précieux volumes, quand, au moment où j'ouvrais
distraitement l'un d'eux : François le Champi de George
Sand, je me sentis désagréablement frappé comme par
quelque impression trop en désaccord avec mes pensées
actuelles, jusqu'au moment où, avec une émotion qui alla
jusqu'à me faire pleurer, je reconnus combien cette
impression était d'accord avec elles. Tel, à l'instant que dans
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la chambre mortuaire les employés des pompes funèbres se
préparent à descendre la bière, le fils d'un homme qui a
rendu des services à la patrie serrant la main aux derniers
amis qui défilent, si tout à coup retentit sous les fenêtres une
fanfare, se révolte, croyant à quelque moquerie dont on
insulte son chagrin, puis lui, qui est resté maître de soi
jusque-là, ne peut plus retenir ses larmes, lorsqu'il vient à
comprendre que ce qu'il entend c'est la musique d'un
régiment qui s'associe à son deuil et rend honneur à la
dépouille de son père. Tel, je venais de reconnaître la
douloureuse impression que j'avais éprouvée, en lisant le titre
d'un livre dans la bibliothèque du prince de Guermantes,
titre qui m'avait donné l'idée que la littérature nous offrait
vraiment ce monde du mystère que je ne trouvais plus en
elle. Et pourtant ce n'était pas un livre bien extraordinaire,
c'était François le Champi, mais ce nom-là, comme le nom
des Guermantes, n'était pas pour moi comme ceux que
j'avais connus depuis. Le souvenir de ce qui m'avait semblé
inexplicable dans le sujet de François le Champi, tandis que
maman me lisait le livre de George Sand, était réveillé par ce
titre, aussi bien que le nom de Guermantes (quand je n'avais
pas vu les Guermantes depuis longtemps) contenait pour
moi tant de féodalité – comme François le Champi l'essence
du roman – et se substituait pour un instant à l'idée fort
commune de ce que sont les romans berrichons de George
Sand. Dans un dîner, quand la pensée reste toujours à la
surface, j'aurais pu sans doute parler de François le Champi
et des Guermantes sans que ni l'un ni l'autre fussent ceux de
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
LR
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Combray. Mais quand j'étais seul, comme en ce moment,
c'est à une profondeur plus grande que j'avais plongé. À ce
moment-là l'idée que telle personne dont j'avais fait la
connaissance dans le monde était la cousine de Mme de
Guermantes, c'est-à-dire d'un personnage de lanterne
magique, me semblait incompréhensible, et tout autant que
les plus beaux livres que j'avais lus fussent – je ne dis pas
même supérieurs, ce qu'ils étaient pourtant – mais égaux à
cet extraordinaire François le Champi. C'était une impression
d'enfance bien ancienne, où mes souvenirs d'enfance et de
famille étaient tendrement mêlés et que je n'avais pas
reconnue tout de suite. Je m'étais au premier instant
demandé avec colère quel était l'étranger qui venait me faire
mal, et l'étranger c'était moi-même, c'était l'enfant que j'étais
alors, que le livre venait de susciter en moi, car de moi ne
connaissant que cet enfant, c'est cet enfant que le livre avait
appelé tout de suite, ne voulant être regardé que par ses
yeux, aimé que par son cœur et ne parler qu'à lui. Aussi ce
livre que ma mère m'avait lu haut à Combray, presque
jusqu'au matin, avait-il gardé pour moi tout le charme de
cette nuit-là. Certes, la « plume » de George Sand, pour
prendre une expression de Brichot qui aimait tant dire qu'un
livre était écrit d'une plume alerte, ne me semblait pas du
tout, comme elle avait paru si longtemps à ma mère avant
qu'elle modelât lentement ses goûts littéraires sur les miens,
une plume magique. Mais c'était une plume que, sans le
vouloir, j'avais électrisée comme s'amusent souvent à faire
les collégiens, et voici que mille riens de Combray, et que je
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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n'apercevais plus depuis longtemps, sautaient légèrement
d'eux-mêmes et venaient à la queue leu leu se suspendre au
bec aimanté, en une chaîne interminable et tremblante de
souvenirs. Certains esprits qui aiment le mystère veulent
croire que les objets conservent quelque chose des yeux qui
les regardèrent, que les monuments et les tableaux ne nous
apparaissent que sous le voile sensible que leur ont tissé
l'amour et la contemplation de tant d'adorateurs pendant des
siècles. Cette chimère deviendrait vraie s'ils la transposaient
dans le domaine de la seule réalité pour chacun, dans le
domaine de sa propre sensibilité.
Oui, en ce sens-là, en ce sens-là seulement ; mais il est bien
plus grand, une chose que nous avons regardée autrefois, si
nous la revoyons, nous rapporte, avec le regard que nous y
avons posé, toutes les images qui le remplissaient alors. C'est
que les choses – un livre sous sa couverture rouge comme
les autres – sitôt qu'elles sont perçues par nous, deviennent
en nous quelque chose d'immatériel, de même nature que
toutes nos préoccupations ou nos sensations de ce temps-là,
et se mêlent indissolublement à elles. Tel nom lu dans un
livre autrefois, contient entre ses syllabes le vent rapide et le
soleil brillant qu'il faisait quand nous le lisions. Dans la
moindre sensation apportée par le plus humble aliment,
l'odeur du café au lait, nous retrouvons cette vague
espérance d'un beau temps qui, si souvent, nous sourit,
quand la journée était encore intacte et pleine, dans
l'incertitude du ciel matinal ; une heure est un vase rempli de
parfum, de sons, de moments, d'humeurs variées, de climats.
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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De sorte que la littérature qui se contente de « décrire les
choses », d'en donner seulement un misérable relevé de
lignes et de surfaces, est celle qui, tout en s'appelant réaliste,
est la plus éloignée de la réalité, celle qui nous appauvrit et
nous attriste le plus, car elle coupe brusquement toute
communication de notre moi présent avec le passé, dont les
choses gardaient l'essence, et l'avenir, où elles nous incitent à
le goûter de nouveau. C'est elle que l'art digne de ce nom
doit exprimer, et, s'il y échoue, on peut encore tirer de son
impuissance un enseignement (tandis qu'on n'en tire aucun
des réussites du réalisme), à savoir que cette essence est en
partie subjective et incommunicable.
Bien plus, une chose que nous vîmes à une certaine
époque, un livre que nous lûmes ne restent pas unis à jamais
seulement à ce qu'il y avait autour de nous ; il le reste aussi
fidèlement à ce que nous étions alors, il ne peut plus être
repassé que par la sensibilité, par la personne que nous
étions alors ; si je reprends, même par la pensée, dans la
bibliothèque, François le Champi, immédiatement en moi un
enfant se lève qui prend ma place, qui seul a le droit de lire
ce titre : François le Champi, et qui le lit comme il le lut
alors, avec la même impression du temps qu'il faisait dans le
jardin, les mêmes rêves qu'il formait alors sur les pays et sur
la vie, la même angoisse du lendemain. Que je revoie une
chose d'un autre temps, c'est un autre jeune homme qui se
lèvera. Et ma personne d'aujourd'hui n'est qu'une carrière
abandonnée, qui croit que tout ce qu'elle contient est pareil
et monotone, mais d'où chaque souvenir, comme un
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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sculpteur de Grèce, tire des statues innombrables. Je dis
chaque chose que nous revoyons, car les livres se
comportant en cela comme ces choses, la manière dont leur
dos s'ouvrait, le grain du papier peut avoir gardé en lui un
souvenir aussi vif de la façon dont j'imaginais alors Venise et
du désir que j'avais d'y aller que les phrases mêmes des livres.
Plus vif même, car celles-ci gênent parfois, comme ces
photographies d'un être devant lesquelles on se le rappelle
moins bien qu'en se contentant de penser à lui. Certes, pour
bien des livres de mon enfance, et, hélas, pour certains livres
de Bergotte lui-même, quand un soir de fatigue il m'arrivait
de les prendre, ce n'était pourtant que comme j'aurais pris un
train dans l'espoir de me reposer par la vision de choses
différentes et en respirant l'atmosphère d'autrefois. Mais il
arrive que cette évocation recherchée se trouve entravée, au
contraire, par la lecture prolongée du livre. Il en est un de
Bergotte (qui dans la bibliothèque du prince portait une
dédicace d'une flagornerie et d'une platitude extrêmes), lu
jadis en entier un jour d'hiver où je ne pouvais voir Gilberte,
et où je ne peux réussir à retrouver les pages que j'aimais
tant. Certains mots me feraient croire que ce sont elles, mais
c'est impossible. Où serait donc la beauté que je leur trouvais
? Mais du volume lui-même la neige qui couvrait les
Champs-Élysées le jour où je le lus n'a pas été enlevée. Je la
vois toujours. Et c'est pour cela que si j'avais été tenté d'être
bibliophile, comme l'était le prince de Guermantes, je ne
l'aurais été que d'une façon, mais de façon particulière,
comme celle qui recherche cette beauté indépendante de la
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valeur propre d'un livre et qui lui vient pour les amateurs de
connaître les bibliothèques par où il a passé, de savoir qu'il
fut donné à l'occasion de tel événement, par tel souverain à
tel homme célèbre, de l'avoir suivi, de vente en vente, à
travers sa vie ; cette beauté, historique en quelque sorte, d'un
livre ne serait pas perdue pour moi. Mais c'est plus volontiers
de l'histoire de ma propre vie, c'est-à-dire non pas en simple
curieux, que je la dégagerais ; et ce serait souvent non pas à
l'exemplaire matériel que je l'attacherais, mais à l'ouvrage,
comme à ce François le Champi contemplé pour la première
fois dans ma petite chambre de Combray, pendant la nuit
peut-être la plus douce et la plus triste de ma vie – où j'avais,
hélas (dans un temps où me paraissaient bien inaccessibles
les mystérieux Guermantes), obtenu de mes parents une
première abdication d'où je pouvais faire dater le déclin de
ma santé et de mon vouloir, mon renoncement chaque jour
aggravé à une tâche difficile – et retrouvé aujourd'hui dans la
bibliothèque des Guermantes, précisément par le jour le plus
beau, et dont s'éclairaient soudain non seulement les
tâtonnements anciens de ma pensée, mais même le but de
ma vie et peut-être de l'art. Pour les exemplaires eux-mêmes
des livres, j'eusse été, d'ailleurs, capable de m'y intéresser,
dans une acception vivante. La première édition d'un
ouvrage m'eût été plus précieuse que les autres, mais j'aurais
entendu par elle l'édition où je le lus pour la première fois. Je
rechercherais les éditions originales, je veux dire celles où
j'eus de ce livre une impression originale. Car les impressions
suivantes ne le sont plus. Je collectionnerais pour les romans
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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les reliures d'autrefois, celles du temps où je lus mes
premiers romans et qui entendaient tant de fois papa me dire
: « Tiens-toi droit. » Comme la robe où nous vîmes pour la
première fois une femme, elles m'aideraient à retrouver
l'amour que j'avais alors, la beauté sur laquelle j'ai superposé
tant d'images, de moins en moins aimées, pour pouvoir
retrouver la première, moi qui ne suis pas le moi qui l'ai vu et
qui dois céder la place au moi que j'étais alors afin qu'il
appelle la chose qu'il connut et que mon moi d'aujourd'hui
ne connaît point. La bibliothèque que je composerais ainsi
serait même d'une valeur plus grande encore, car les livres
que je lus jadis à Combray, à Venise, enrichis maintenant par
ma mémoire de vastes enluminures représentant l'église
Saint-Hilaire, la gondole amarrée au pied de Saint-Georges le
Majeur sur le Grand Canal incrusté de scintillants saphirs,
seraient devenus dignes de ces « livres à images », bibles
historiées, que l'amateur n'ouvre jamais pour lire le texte
mais pour s'enchanter une fois de plus des couleurs qu'y a
ajoutées quelque émule de Fouquet et qui font tout le prix de
l'ouvrage. Et pourtant, même n'ouvrir ces livres lus autrefois
que pour regarder les images qui ne les ornaient pas alors me
semblerait encore si dangereux que, même en ce sens, le seul
que je pusse comprendre, je ne serais pas tenté d'être
bibliophile. Je sais trop combien ces images laissées par
l'esprit sont aisément effacées par l'esprit. Aux anciennes il
en substitue de nouvelles qui n'ont plus le même pouvoir de
résurrection. Et si j'avais encore le François le Champi que
maman sortit un soir du paquet de livres que ma grand'mère
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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devait me donner pour ma fête, je ne le regarderais jamais ;
j'aurais trop peur d'y insérer peu à peu de mes impressions
d'aujourd'hui couvrant complètement celles d'autrefois,
j'aurais trop peur de le voir devenir à ce point une chose du
présent que, quand je lui demanderais de susciter une fois
encore l'enfant qui déchiffra son titre dans la petite chambre
de Combray, l'enfant, ne reconnaissant pas son accent, ne
répondît plus à son appel et restât pour toujours enterré
dans l'oubli.
***
L'idée d'un art populaire comme d'un art patriotique, si
même elle n'avait pas été dangereuse, me semblait ridicule.
S'il s'agissait de le rendre accessible au peuple, on sacrifiait
les raffinements de la forme « bons pour des oisifs » ; or,
j'avais assez fréquenté de gens du monde pour savoir que ce
sont eux les véritables illettrés, et non les ouvriers
électriciens. À cet égard, un art, populaire par la forme, eût
été destiné plutôt aux membres du Jockey qu'à ceux de la
Confédération générale du travail ; quant aux sujets, les
romans populaires enivrent autant les gens du peuple que les
enfants ces livres qui sont écrits pour eux. On cherche à se
dépayser en lisant, et les ouvriers sont aussi curieux des
princes que les princes des ouvriers. Dès le début de la
guerre, M. Barrès avait dit que l'artiste (en l'espèce le Titien)
doit avant tout servir la gloire de sa patrie. Mais il ne peut la
servir qu'en étant artiste, c'est-à-dire qu'à condition, au
moment où il étudie les lois de l'Art, institue ses expériences
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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et fait ses découvertes, aussi délicates que celles de la
Science, de ne pas penser à autre chose – fût-ce à la patrie –
qu'à la vérité qui est devant lui. N'imitons pas les
révolutionnaires qui par « civisme » méprisaient, s'ils ne les
détruisaient pas, les œuvres de Watteau et de La Tour,
peintres qui honoraient davantage la France que tous ceux
de la Révolution. L'anatomie n'est peut-être pas ce que
choisirait un cœur tendre, si l'on avait le choix. Ce n'est pas
la bonté de son cœur vertueux, laquelle était fort grande, qui
a fait écrire à Choderlos de Laclos les Liaisons Dangereuses,
ni son goût pour la bourgeoisie, petite ou grande, qui a fait
choisir à Flaubert comme sujets ceux de Madame Bovary et
de l'Éducation Sentimentale. Certains disaient que l'art d'une
époque de hâte serait bref, comme ceux qui prédisaient
avant la guerre qu'elle serait courte. Le chemin de fer devait
aussi tuer la contemplation, il était vain de regretter le temps
des diligences, mais l'automobile remplit leur fonction et
arrête à nouveau les touristes vers les églises abandonnées.
Une image offerte par la vie nous apporte en réalité, à ce
moment-là, des sensations multiples et différentes. La vue,
par exemple, de la couverture d'un livre déjà lu a tissé dans
les caractères de son titre les rayons de lune d'une lointaine
nuit d'été. Le goût du café au lait matinal nous apporte cette
vague espérance d'un beau temps qui jadis si souvent,
pendant que nous le buvions dans un bol de porcelaine
blanche, crémeuse et plissée, qui semblait du lait durci, se
mit à nous sourire dans la claire incertitude du petit jour.
Une heure n'est pas qu'une heure, c'est un vase rempli de
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parfums, de sons, de projets et de climats. Ce que nous
appelons la réalité est un certain rapport entre ces sensations
et ces souvenirs qui nous entourent simultanément – rapport
que supprime une simple vision cinématographique, laquelle
s'éloigne par là d'autant plus du vrai qu'elle prétend se borner
à lui – rapport unique que l'écrivain doit retrouver pour en
enchaîner à jamais dans sa phrase les deux termes différents.
On peut faire se succéder indéfiniment dans une description
les objets qui figuraient dans le lieu décrit, la vérité ne
commencera qu'au moment où l'écrivain prendra deux
objets différents, posera leur rapport, analogue dans le
monde de l'art à celui qu'est le rapport unique de la loi
causale dans le monde de la science, et les enfermera dans les
anneaux nécessaires d'un beau style, ou même, ainsi que la
vie, quand, en rapprochant une qualité commune à deux
sensations, il dégagera leur essence en les réunissant l'une et
l'autre, pour les soustraire aux contingences du temps, dans
une métaphore, et les enchaînera par le lien indescriptible
d'une alliance de mots. La nature elle-même, à ce point de
vue, ne m'avait-elle pas mis sur la voie de l'art, n'était-elle pas
commencement d'art, elle qui souvent ne m'avait permis de
connaître la beauté d'une chose que longtemps après, dans
une autre, midi à Combray que dans le bruit de ses cloches,
les matinées de Doncières que dans les hoquets de notre
calorifère à eau ? Le rapport peut être peu intéressant, les
objets médiocres, le style mauvais, mais tant qu'il n'y a pas eu
cela il n'y a rien eu. La littérature qui se contente de « décrire
les choses », de donner un misérable relevé de leurs lignes et
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de leur surface, est, malgré sa prétention réaliste, la plus
éloignée de la réalité, celle qui nous appauvrit et nous attriste
le plus, ne parlât-elle que de gloire et de grandeurs, car elle
coupe brusquement toute communication de notre moi
présent avec le passé, dont les choses gardent l'essence, et
l'avenir, où elles nous incitent à le goûter encore. Mais il y
avait plus. Si la réalité était cette espèce de déchet de
l'expérience, à peu près identique pour chacun, parce que,
quand nous disons : un mauvais temps, une guerre, une
station de voitures, un restaurant éclairé, un jardin en fleurs,
tout le monde sait ce que nous voulons dire ; si la réalité était
cela, sans doute une sorte de film cinématographique de ces
choses suffirait et le « style », la « littérature » qui
s'écarteraient de leur simple donnée seraient un hors-d'œuvre
artificiel. Mais était-ce bien cela la réalité ? Si j'essayais de me
rendre compte de ce qui se passe, en effet, en nous au
moment où une chose nous fait une certaine impression, soit
que, comme ce jour où, en passant sur le pont de la
Vivonne, l'ombre d'un nuage sur l'eau m'eût fait crier « zut
alors ! » en sautant de joie ; soit qu'écoutant une phrase de
Bergotte tout ce que j'eusse vu de mon impression c'est ceci
qui ne lui convenait pas spécialement : « C'est admirable » ;
soit qu'irrité d'un mauvais procédé, Bloch prononçât ces
mots qui ne convenaient pas du tout à une aventure si
vulgaire : « Qu'on agisse ainsi, je trouve cela même
fantastique » ; soit quand, flatté d'être bien reçu chez les
Guermantes, et d'ailleurs un peu grisé par leurs vins, je n'aie
pu m'empêcher de dire à mi-voix, seul, en les quittant : « Ce
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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sont tout de même des êtres exquis avec qui il serait doux de
passer la vie », je m'apercevais que, pour exprimer ces
impressions, pour écrire ce livre essentiel, le seul livre vrai,
un grand écrivain n'a pas, dans le sens courant, à l'inventer
puisqu'il existe déjà en chacun de nous, mais à le traduire. Le
devoir et la tâche d'un écrivain sont ceux d'un traducteur.
Or si, quand il s'agit du langage inexact de l'amour-propre
par exemple, le redressement de l'oblique discours intérieur
(qui va s'éloignant de plus en plus de l'impression première
et cérébrale) jusqu'à ce qu'il se confonde avec la droite qui
aurait dû partir de l'impression, si ce redressement est chose
malaisée contre quoi boude notre paresse, il est d'autres cas,
celui où il s'agit de l'amour, par exemple, où ce même
redressement devient douloureux. Toutes nos feintes
indifférences, toute notre indignation contre ses mensonges
si naturels, si semblables à ceux que nous pratiquons nousmêmes, en un mot tout ce que nous n'avons cessé, chaque
fois que nous étions malheureux ou trahis, non seulement de
dire à l'être aimé, mais même, en attendant de le voir, de
nous dire sans fin à nous-mêmes, quelquefois à haute voix,
dans le silence de notre chambre troublé par quelques : «
non, vraiment, de tels procédés sont intolérables » et « j'ai
voulu te recevoir une dernière fois et ne nierai pas que cela
me fasse de la peine », ramener tout cela à la vérité ressentie
dont cela s'était tant écarté, c'est abolir tout ce à quoi nous
tenions le plus, ce qui, seul à seul avec nous-mêmes, dans des
projets fiévreux de lettres et de démarches, fut notre
entretien passionné avec nous-mêmes.
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Même dans les joies artistiques, qu'on recherche pourtant
en vue de l'impression qu'elles donnent, nous nous
arrangeons le plus vite possible à laisser de côté comme
inexprimable ce qui est précisément cette impression même,
et à nous attacher à ce qui nous permet d'en éprouver le
plaisir sans le connaître, jusqu'au fond et de croire le
communiquer à d'autres amateurs avec qui la conversation
sera possible, parce que nous leur parlerons d'une chose qui
est la même pour eux et pour nous, la racine personnelle de
notre propre impression étant supprimée. Dans les moments
mêmes où nous sommes les spectateurs les plus
désintéressés de la nature, de la société, de l'amour, de l'art
lui-même, comme toute impression est double, à demi
engainée dans l'objet, prolongée en nous-mêmes par une
autre moitié que seuls nous pourrions connaître, nous nous
empressons de négliger celle-là, c'est-à-dire la seule à laquelle
nous devrions nous attacher, et nous ne tenons compte que
de l'autre moitié qui, ne pouvant pas être approfondie parce
qu'elle est extérieure, ne sera cause pour nous d'aucune
fatigue : le petit sillon qu'une phrase musicale ou la vue d'une
église a creusé en nous, nous trouvons trop difficile de
tâcher de l'apercevoir. Mais nous rejouons la symphonie,
nous retournons voir l'église jusqu'à ce que – dans cette fuite
loin de notre propre vie que nous n'avons pas le courage de
regarder, et qui s'appelle l'érudition – nous les connaissions
aussi bien, de la même manière, que le plus savant amateur
de musique ou d'archéologie. Aussi combien s'en tiennent là
qui n'extraient rien de leur impression, vieillissent inutiles et
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insatisfaits, comme des célibataires de l'art. Ils ont les
chagrins qu'ont les vierges et les paresseux, et que la
fécondité dans le travail guérirait. Ils sont plus exaltés à
propos des œuvres d'art que les véritables artistes, car leur
exaltation n'étant pas pour eux l'objet d'un dur labeur
d'approfondissement, elle se répand au dehors, échauffe
leurs conversations, empourpre leur visage ; ils croient
accomplir un acte en hurlant à se casser la voix : « Bravo,
bravo » après l'exécution d'une œuvre qu'ils aiment. Mais ces
manifestations ne les forcent pas à éclaircir la nature de leur
amour, ils ne la connaissent pas. Cependant celui-ci, inutilisé,
reflue même sur leurs conversations les plus calmes, leur fait
faire de grands gestes, des grimaces, des hochements de tête
quand ils parlent d'art. « J'ai été à un concert où on jouait une
musique qui, je vous avouerai, ne m'emballait pas. On
commence alors le quatuor. Ah ! mais, nom d'une pipe ! ça
change (la figure de l'amateur à ce moment-là exprime une
inquiétude anxieuse comme s'il pensait : « Mais je vois des
étincelles, ça sent le roussi, il y a le feu »). Tonnerre de Dieu,
ce que j'entends là c'est exaspérant, c'est mal écrit, mais c'est
épastrouillant, ce n'est pas l'œuvre de tout le monde. »
Encore, si risibles que soient ces amateurs, ils ne sont pas
tout à fait à dédaigner. Ils sont les premiers essais de la
nature qui veut créer l'artiste, aussi informes, aussi peu
viables que ces premiers animaux qui précédèrent les espèces
actuelles et qui n'étaient pas constitués pour durer. Ces
amateurs velléitaires et stériles doivent nous toucher comme
ces premiers appareils qui ne purent quitter la terre mais où
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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résidait, non encore le moyen secret et qui restait à
découvrir, mais le désir du vol. « Et, mon vieux, ajoute
l'amateur en vous prenant par le bras, moi c'est la huitième
fois que je l'entends, et je vous jure bien que ce n'est pas la
dernière. » Et, en effet, comme ils n'assimilent pas ce qui
dans l'art est vraiment nourricier, ils ont tout le temps besoin
de joies artistiques, en proie à une boulimie qui ne les
rassasie jamais. Ils vont donc applaudir longtemps de suite la
même œuvre, croyant, de plus, que leur présence réalise un
devoir, un acte, comme d'autres personnes la leur à une
séance d'un Conseil d'administration, à un enterrement. Puis
viennent des œuvres autres, même opposées, que ce soit en
littérature, en peinture ou en musique. Car la faculté de
lancer des idées, des systèmes, et surtout de se les assimiler, a
toujours été beaucoup plus fréquente, même chez ceux qui
produisent, que le véritable goût, mais prend une extension
plus considérable depuis que les revues, les journaux
littéraires se sont multipliés (et avec eux les vocations
factices d'écrivains et d'artistes). Ainsi la meilleure partie de
la jeunesse, la plus intelligente, la plus intéressée, n'aimait-elle
plus que les œuvres ayant une haute portée morale et
sociologique, même religieuse. Elle s'imaginait que c'était là
le critérium de la valeur d'une œuvre, renouvelant ainsi
l'erreur des David, des Chenavard, des Brunetière, etc. On
préférait à Bergotte, dont les plus jolies phrases avaient exigé
en réalité un bien plus profond repli sur soi-même, des
écrivains qui semblaient plus profonds simplement parce
qu'ils écrivaient moins bien. La complication de son écriture
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n'était faite que pour des gens du monde, disaient des
démocrates, qui faisaient ainsi aux gens du monde un
honneur immérité. Mais dès que l'intelligence raisonneuse
veut se mettre à juger des œuvres d'art, il n'y a plus rien de
fixe, de certain : on peut démontrer tout ce qu'on veut. Alors
que la réalité du talent est un bien, une acquisition
universelle, dont on doit avant tout constater la présence
sous les modes apparentes de la pensée et du style, c'est sur
ces dernières que la critique s'arrête pour classer les auteurs.
Elle sacre prophète à cause de son ton péremptoire, de son
mépris affiché pour l'école qui l'a précédé, un écrivain qui
n'apporte nul message nouveau. Cette constante aberration
de la critique est telle qu'un écrivain devrait presque préférer
être jugé par le grand public (si celui-ci n'était incapable de se
rendre compte même de ce qu'un artiste a tenté dans un
ordre de recherches qui lui est inconnu). Car il y a plus
d'analogie entre la vie instinctive du public et le talent d'un
grand écrivain, qui n'est qu'un instinct religieusement écouté
au milieu du silence, imposé à tout le reste, un instinct
perfectionné et compris, qu'avec le verbiage superficiel et les
critères changeants des juges attitrés. Leur logomachie se
renouvelle de dix ans en dix ans (car le kaléidoscope n'est
pas composé seulement par les groupes mondains, mais par
les idées sociales, politiques, religieuses qui prennent une
ampleur momentanée grâce à leur réfraction dans les masses
étendues, mais restent limitées malgré cela à la courte vie des
idées dont la nouveauté n'a pu séduire que des esprits peu
exigeants en fait de preuves). Ainsi s'étaient succédé les
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partis et les écoles, faisant se prendre à eux toujours les
mêmes esprits, hommes d'une intelligence relative, toujours
voués aux engouements dont s'abstiennent des esprits plus
scrupuleux et plus difficiles en fait de preuves.
Malheureusement, justement parce que les autres ne sont
que de demi-esprits, ils ont besoin de se compléter dans
l'action, ils agissent ainsi plus que les esprits supérieurs,
attirent à eux la foule et créent autour d'eux non seulement
les réputations surfaites et les dédains injustifiés mais les
guerres civiles et les guerres extérieures, dont un peu de
critique point royaliste sur soi-même devrait préserver. Et
quant à la jouissance que donne à un esprit parfaitement
juste, à un cœur vraiment vivant, la belle pensée d'un maître,
elle est sans doute entièrement saine, mais, si précieux que
soient les hommes qui la goûtent vraiment (combien y en at-il en vingt ans), elle les réduit tout de même à n'être que la
pleine conscience d'un autre. Qu'un homme ait tout fait pour
être aimé d'une femme qui n'eût pu que le rendre
malheureux, mais n'ait même pas réussi, malgré ses efforts
redoublés pendant des années, à obtenir un rendez-vous de
cette femme, au lieu de chercher à exprimer ses souffrances
et le péril auquel il a échappé, il relit sans cesse, en mettant
sous elle « un million de mots » et les souvenirs les plus
émouvants de sa propre vie, cette pensée de La Bruyère : «
Les hommes souvent veulent aimer et ne sauraient y réussir,
ils cherchent leur défaite sans pouvoir la rencontrer, et, si
j'ose ainsi parler, ils sont contraints de demeurer libres. »
Que ce soit ce sens ou non qu'ait eu cette pensée pour celui
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qui l'écrivit (pour qu'elle l'eût, et ce serait plus beau, il
faudrait « être aimés » au lieu d'« aimer »), il est certain qu'en
lui ce lettré sensible la vivifie, la gonfle de signification
jusqu'à la faire éclater, il ne peut la redire qu'en débordant de
joie tant il la trouve vraie et belle, mais il n'y a malgré tout
rien ajouté, et il reste seulement la pensée de La Bruyère.
Comment la littérature de notations aurait-elle une valeur
quelconque, puisque c'est sous de petites choses comme
celles qu'elle note que la réalité est contenue (la grandeur
dans le bruit lointain d'un aéroplane, dans la ligne du clocher
de Saint-Hilaire, le passé dans la saveur d'une madeleine,
etc.) et qu'elles sont sans signification par elles-mêmes si on
ne l'en dégage pas ?
Peu à peu conservée par la mémoire, c'est la chaîne de
toutes les impressions inexactes, où ne reste rien de ce que
nous avons réellement éprouvé, qui constitue pour nous
notre pensée, notre vie, la réalité, et c'est ce mensonge-là que
ne ferait que reproduire un art soi-disant « vécu », simple
comme la vie, sans beauté, double emploi si ennuyeux et si
vain de ce que nos yeux voient et de ce que notre intelligence
constate, qu'on se demande où celui qui s'y livre trouve
l'étincelle joyeuse et motrice, capable de le mettre en train et
de le faire avancer dans sa besogne. La grandeur de l'art
véritable, au contraire, de celui que M. de Norpois eût appelé
un jeu de dilettante, c'était de retrouver, de ressaisir, de nous
faire connaître cette réalité loin de laquelle nous vivons, de
laquelle nous nous écartons de plus en plus au fur et à
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mesure que prend plus d'épaisseur et d'imperméabilité la
connaissance conventionnelle que nous lui substituons, cette
réalité que nous risquerions fort de mourir sans l'avoir
connue, et qui est tout simplement notre vie, la vraie vie, la
vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie, par conséquent,
réellement vécue, cette vie qui, en un sens, habite à chaque
instant chez tous les hommes aussi bien que chez l'artiste.
Mais ils ne la voient pas, parce qu'ils ne cherchent pas à
l'éclaircir. Et ainsi leur passé est encombré d'innombrables
clichés qui restent inutiles parce que l'intelligence ne les a pas
« développés ». Ressaisir notre vie ; et aussi la vie des autres ;
car le style, pour l'écrivain aussi bien que pour le peintre, est
une question non de technique, mais de vision. Il est la
révélation, qui serait impossible par des moyens directs et
conscients, de la différence qualitative qu'il y a dans la façon
dont nous apparaît le monde, différence qui, s'il n'y avait pas
l'art, resterait le secret éternel de chacun. Par l'art seulement,
nous pouvons sortir de nous, savoir ce que voit un autre de
cet univers qui n'est pas le même que le nôtre et dont les
paysages nous seraient restés aussi inconnus que ceux qu'il
peut y avoir dans la lune. Grâce à l'art, au lieu de voir un seul
monde, le nôtre, nous le voyons se multiplier, et autant qu'il
y a d'artistes originaux, autant nous avons de mondes à notre
disposition, plus différents les uns des autres que ceux qui
roulent dans l'infini, et qui bien des siècles après qu'est éteint
le foyer dont ils émanaient, qu'il s'appelât Rembrandt ou Ver
Meer, nous envoient leur rayon spécial.
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Ce travail de l'artiste, de chercher à apercevoir sous de la
matière, sous de l'expérience, sous des mots quelque chose
de différent, c'est exactement le travail inverse de celui que, à
chaque minute, quand nous vivons détourné de nous-même,
l'amour-propre, la passion, l'intelligence et l'habitude aussi
accomplissent en nous, quand elles amassent au-dessus de
nos impressions vraies, pour nous les cacher maintenant, les
nomenclatures, les buts pratiques que nous appelons
faussement la vie. En somme, cet art si compliqué est
justement le seul art vivant. Seul il exprime pour les autres et
nous fait voir à nous-même notre propre vie, cette vie qui ne
peut pas s'« observer », dont les apparences qu'on observe
ont besoin d'être traduites, et souvent lues à rebours, et
péniblement déchiffrées. Ce travail qu'avaient fait notre
amour-propre, notre passion, notre esprit d'imitation, notre
intelligence abstraite, nos habitudes, c'est ce travail que l'art
défera, c'est la marche en sens contraire, le retour aux
profondeurs, où ce qui a existé réellement gît inconnu de
nous qu'il nous fera suivre. Et sans doute c'était une grande
tentation que de recréer la vraie vie, de rajeunir les
impressions. Mais il y fallait du courage de tout genre et
même sentimental. Car c'était avant tout abroger ses plus
chères illusions, cesser de croire à l'objectivité de ce qu'on a
élaboré soi-même, et au lieu de se bercer une centième fois
de ces mots « elle était bien gentille », lire au travers : « j'avais
du plaisir à l'embrasser ». Certes, ce que j'avais éprouvé dans
ces heures d'amour, tous les hommes l'éprouvent aussi. On
éprouve, mais ce qu'on a éprouvé est pareil à certains clichés
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qui ne montrent que du noir tant qu'on ne les a pas mis près
d'une lampe, et qu'eux aussi il faut regarder à l'envers : on ne
sait pas ce que c'est tant qu'on ne l'a pas approché de
l'intelligence. Alors seulement quand elle l'a éclairé, quand
elle l'a intellectualisé, on distingue, et avec quelle peine, la
figure de ce qu'on a senti. Mais je me rendais compte aussi
que cette souffrance, que j'avais connue d'abord avec
Gilberte, que notre amour n'appartienne pas à l'être qui
l'inspire, est salutaire accessoirement comme moyen. (Car si
peu que notre vie doive durer, ce n'est que pendant que nous
souffrons que nos pensées, en quelque sorte agitées de
mouvements perpétuels et changeants, font monter comme
dans une tempête, à un niveau d'où nous pouvons les voir,
toute cette immensité réglée par des lois, sur laquelle, postés
à une fenêtre mal placée, nous n'avons pas vue, car le calme
du bonheur la laisse unie et à un niveau trop bas ; peut-être
seulement pour quelques grands génies ce mouvement
existe-t-il constamment sans qu'il y ait besoin pour eux des
agitations de la douleur ; encore n'est-il pas certain, quand
nous contemplons l'ample et régulier développement de
leurs œuvres joyeuses, que nous ne soyons trop portés à
supposer d'après la joie de l'œuvre celle de la vie, qui a peutêtre été au contraire constamment douloureuse.) Mais
principalement parce que si notre amour n'est pas seulement
d'une Gilberte, ce qui nous fit tant souffrir ce n'est pas parce
qu'il est aussi l'amour d'une Albertine, mais parce qu'il est
une portion de notre âme plus durable que les moi divers qui
meurent successivement en nous et qui voudraient
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égoïstement le retenir, portion de notre âme qui doit,
quelque mal, d'ailleurs utile, que cela nous fasse, se détacher
des êtres pour que nous en comprenions, et pour en restituer
la généralité et donner cet amour, la compréhension de cet
amour, à tous, à l'esprit universel et non à telle puis à telle,
en lesquelles tel puis tel de ceux que nous avons été
successivement voudraient se fondre.
Il me fallait donc rendre leur sens aux moindres signes qui
m'entouraient (Guermantes, Albertine, Gilberte, Saint-Loup,
Balbec, etc.) et auxquels l'habitude l'avait fait perdre pour
moi. Nous devons savoir que lorsque nous aurons atteint la
réalité, pour l'exprimer, pour la conserver, nous devrons
écarter ce qui est différent d'elle et ce que ne cesse de nous
apporter la vitesse acquise de l'habitude. Plus que tout
j'écarterais donc ces paroles que les lèvres plutôt que l'esprit
choisissent, ces paroles pleines d'humour, comme on dit
dans la conversation, et qu'après une longue conversation
avec les autres on continue à s'adresser facticement et qui
nous remplissent l'esprit de mensonges, ces paroles toutes
physiques qu'accompagne chez l'écrivain qui s'abaisse à les
transcrire le petit sourire, la petite grimace qui altère à tout
moment, par exemple, la phrase parlée d'un Sainte-Beuve,
tandis que les vrais livres doivent être les enfants non du
grand jour et de la causerie mais de l'obscurité et du silence.
Et comme l'art recompose exactement la vie, autour des
vérités qu'on a atteintes en soi-même flottera toujours une
atmosphère de poésie, la douceur d'un mystère qui n'est que
le vestige de la pénombre que nous avons dû traverser,
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l'indication, marquée exactement comme par un altimètre, de
la profondeur d'une œuvre. (Car cette profondeur n'est pas
inhérente à certains sujets, comme le croient des romanciers
matérialistement spiritualistes puisqu'ils ne peuvent pas
descendre au delà du monde des apparences et dont toutes
les nobles intentions, pareilles à ces vertueuses tirades
habituelles chez certaines personnes incapables du plus petit
effort de bonté, ne doivent pas nous empêcher de remarquer
qu'ils n'ont même pas eu la force d'esprit de se débarrasser
de toutes les banalités de forme acquises par l'imitation.)
Quant aux vérités que l'intelligence – même des plus hauts
esprits – cueille à claire-voie, devant elle, en pleine lumière,
leur valeur peut être très grande ; mais elles ont des contours
plus secs et sont planes, n'ont pas de profondeur parce qu'il
n'y a pas eu de profondeurs à franchir pour les atteindre,
parce qu'elles n'ont pas été recréées. Souvent des écrivains au
fond de qui n'apparaissent plus ces vérités mystérieuses
n'écrivent plus, à partir d'un certain âge, qu'avec leur
intelligence qui a pris de plus en plus de force ; les livres de
leur âge mûr ont, à cause de cela, plus de force que ceux de
leur jeunesse, mais ils n'ont plus le même velours.
Je sentais pourtant que ces vérités, que l'intelligence dégage
directement de la réalité ne sont pas à dédaigner entièrement,
car elles pourraient enchâsser d'une manière moins pure,
mais encore pénétrée d'esprit, ces impressions que nous
apporte hors du temps l'essence commune aux sensations du
passé et du présent, mais qui, plus précieuses, sont aussi trop
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rares pour que l'œuvre d'art puisse être composée seulement
avec elles. Capables d'être utilisées pour cela, je sentais se
presser en moi une foule de vérités relatives aux passions,
aux caractères, aux mœurs. Chaque personne qui nous fait
souffrir peut être rattachée par nous à une divinité dont elle
n'est qu'un reflet fragmentaire et le dernier degré, divinité
dont la contemplation en tant qu'idée nous donne aussitôt
de la joie au lieu de la peine que nous avions. Tout l'art de
vivre, c'est de ne nous servir des personnes qui nous font
souffrir que comme d'un degré permettant d'accéder à sa
forme divine et de peupler ainsi journellement notre vie de
divinités. La perception de ces vérités me causait de la joie ;
pourtant il me semblait me rappeler que plus d'une d'entre
elles, je l'avais découverte dans la souffrance, d'autres dans
de bien médiocres plaisirs. Alors, moins éclatante sans doute
que celle qui m'avait fait apercevoir que l'œuvre d'art était le
seul moyen de retrouver le Temps perdu, une nouvelle
lumière se fit en moi. Et je compris que tous ces matériaux
de l'œuvre littéraire, c'était ma vie passée ; je compris qu'ils
étaient venus à moi, dans les plaisirs frivoles, dans la paresse,
dans la tendresse, dans la douleur emmagasinée par moi,
sans que je devinasse plus leur destination, leur survivance
même, que la graine mettant en réserve tous les aliments qui
nourriront la plante. Comme la graine, je pourrais mourir
quand la plante se serait développée, et je me trouvais avoir
vécu pour elle sans le savoir, sans que jamais ma vie me
parût devoir entrer jamais en contact avec ces livres que
j'aurais voulu écrire et pour lesquels, quand je me mettais
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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autrefois à ma table, je ne trouvais pas de sujet. Ainsi toute
ma vie jusqu'à ce jour aurait pu et n'aurait pas pu être
résumée sous ce titre : Une vocation. Elle ne l'aurait pas pu
en ce sens que la littérature n'avait joué aucun rôle dans ma
vie. Elle l'aurait pu en ce que cette vie, les souvenirs de ses
tristesses, de ses joies, formaient une réserve pareille à cet
albumen qui est logé dans l'ovule des plantes et dans lequel
celui-ci puise sa nourriture pour se transformer en graine, en
ce temps où on ignore encore que l'embryon d'une plante se
développe, lequel est pourtant le lieu de phénomènes
chimiques et respiratoires secrets mais très actifs. Ainsi ma
vie était-elle en rapport avec ce qui amènerait sa maturation.
Et ceux qui se nourriraient ensuite d'elle ignoreraient ce qui
aurait été fait pour leur nourriture, comme ignorent ceux qui
mangent les graines alimentaires que les riches substances
qu'elles contiennent ont d'abord nourri la graine et permis sa
maturation. En cette matière, les mêmes comparaisons, qui
sont fausses si on part d'elles, peuvent être vraies si on y
aboutit. Le littérateur envie le peintre, il aimerait prendre des
croquis, des notes, il est perdu s'il le fait. Mais quand il écrit,
il n'est pas un geste de ses personnages, un tic, un accent, qui
n'ait été apporté à son inspiration par sa mémoire ; il n'est
pas un nom de personnage inventé sous lequel il ne puisse
mettre soixante noms de personnages vus, dont l'un a posé
pour la grimace, l'autre pour le monocle, tel pour la colère,
tel pour le mouvement avantageux du bras, etc. Et alors
l'écrivain se rend compte que si son rêve d'être un peintre
n'était pas réalisable d'une manière consciente et volontaire,
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il se trouve pourtant avoir été réalisé et que l'écrivain lui
aussi a fait son carnet de croquis sans le savoir... Car, mû par
l'instinct qui était en lui, l'écrivain, bien avant qu'il crût le
devenir un jour, omettait régulièrement de regarder tant de
choses que les autres remarquent, ce qui le faisait accuser par
les autres de distraction et par lui-même de ne savoir ni
écouter ni voir, mais pendant ce temps-là il dictait à ses yeux
et à ses oreilles de retenir à jamais ce qui semblait aux autres
des riens puérils, l'accent avec lequel avait été dite une
phrase, et l'air de figure et le mouvement d'épaules qu'avait
fait à un certain moment telle personne dont il ne sait peutêtre rien d'autre, il y a de cela bien des années, et cela parce
que, cet accent, il l'avait déjà entendu, ou sentait qu'il
pourrait le réentendre, que c'était quelque chose de
renouvelable, de durable ; c'est le sentiment du général qui,
dans l'écrivain futur, choisit lui-même ce qui est général et
pourra entrer dans l'œuvre d'art. Car il n'a écouté les autres
que quand, si bêtes ou si fous qu'ils fussent, répétant comme
des perroquets ce que disent les gens de caractère semblable,
ils s'étaient faits par là même les oiseaux prophètes, les
porte-paroles d'une loi psychologique. Il ne se souvient que
du général. Par de tels accents, par de tels jeux de
physionomie, par de tels mouvements d'épaules, eussent-ils
été vus dans sa plus lointaine enfance, la vie des autres est
représentée en lui et, quand plus tard il écrira, elle lui servira
à recréer la réalité, soit en composant un mouvement
d'épaules commun à beaucoup, vrai comme s'il était noté sur
le cahier d'un anatomiste, mais gravé ici pour exprimer une
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vérité psychologique, soit en emmanchant sur ce
mouvement d'épaules un mouvement de cou fait par un
autre, chacun ayant donné son instant de pose.
Il n'est pas certain que, pour créer une œuvre littéraire,
l'imagination et la sensibilité ne soient pas des qualités
interchangeables et que la seconde ne puisse sans grand
inconvénient être substituée à la première, comme des gens
dont l'estomac est incapable de digérer chargent de cette
fonction leur intestin. Un homme né sensible et qui n'aurait
pas d'imagination pourrait malgré cela écrire des romans
admirables. La souffrance que les autres lui causeraient, ses
efforts pour la prévenir, les conflits qu'elle et la seconde
personne cruelle créeraient, tout cela, interprété par
l'intelligence, pourrait faire la matière d'un livre non
seulement aussi beau que s'il était imaginé, inventé, mais
encore aussi extérieur à la rêverie de l'auteur s'il avait été livré
à lui-même et heureux, aussi surprenant pour lui-même,
aussi accidentel qu'un caprice fortuit de l'imagination. Les
êtres les plus bêtes par leurs gestes, leurs propos, leurs
sentiments involontairement exprimés, manifestent des lois
qu'ils ne perçoivent pas, mais que l'artiste surprend en eux. À
cause de ce genre d'observations, le vulgaire croit l'écrivain
méchant, et il le croit à tort, car dans un ridicule l'artiste voit
une belle généralité, il ne l'impute pas plus à grief à la
personne observée que le chirurgien ne la mésestimerait
d'être affectée d'un trouble assez fréquent de la circulation ;
aussi se moque-t-il moins que personne des ridicules.
Malheureusement il est plus malheureux qu'il n'est méchant
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quand il s'agit de ses propres passions ; tout en en
connaissant aussi bien la généralité, il s'affranchit moins
aisément des souffrances personnelles qu'elles causent. Sans
doute, quand un insolent nous insulte, nous aurions mieux
aimé qu'il nous louât, et surtout, quand une femme que nous
adorons nous trahit, que ne donnerions-nous pas pour qu'il
en fût autrement. Mais le ressentiment de l'affront, les
douleurs de l'abandon auront alors été les terres que nous
n'aurions jamais connues, et dont la découverte, si pénible
qu'elle soit à l'homme, devient précieuse pour l'artiste. Aussi
les méchants et les ingrats, malgré lui, malgré eux, figurent
dans son œuvre. Le pamphlétaire associe involontairement à
sa gloire la canaille qu'il a flétrie. On peut reconnaître dans
toute œuvre d'art ceux que l'artiste a le plus haïs et, hélas,
même celles qu'il a le plus aimées. Elles-mêmes n'ont fait que
poser pour l'écrivain dans le moment même où, bien contre
son gré, elles le faisaient le plus souffrir. Quand j'aimais
Albertine, je m'étais bien rendu compte qu'elle ne m'aimait
pas et j'avais été obligé de me résigner à ce qu'elle me fît
seulement connaître ce que c'est qu'éprouver de la
souffrance, de l'amour, et même, au commencement, du
bonheur. Et quand nous cherchons à extraire la généralité de
notre chagrin, à en écrire, nous sommes un peu consolés,
peut-être pour une autre raison encore que toutes celles que
je donne ici, et qui est que penser d'une façon générale,
qu'écrire, est pour l'écrivain une fonction saine et nécessaire
dont l'accomplissement rend heureux, comme pour les
hommes physiques l'exercice, la sueur et le bain. À vrai dire,
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contre cela je me révoltais un peu. J'avais beau croire que la
vérité suprême de la vie est dans l'art, j'avais beau, d'autre
part, n'être pas plus capable de l'effort de souvenir qu'il
m'eût fallu pour aimer encore Albertine que pour pleurer
encore ma grand'mère, je me demandais si tout de même
une œuvre d'art dont elles ne seraient pas conscientes serait
pour elles, pour le destin de ces pauvres mortes, un
accomplissement. Ma grand'mère que j'avais, avec tant
d'indifférence, vue agoniser et mourir près de moi ! Ô
puissé-je, en expiation, quand mon œuvre serait terminée,
blessé sans remède, souffrir de longues heures abandonné de
tous, avant de mourir. D'ailleurs, j'avais une pitié infinie
même d'êtres moins chers, même d'indifférents, et de tant de
destinées dont ma pensée en essayant de les comprendre
avait, en somme, utilisé la souffrance, ou même seulement
les ridicules. Tous ces êtres, qui m'avaient révélé des vérités
et qui n'étaient plus, m'apparaissaient comme ayant vécu une
vie qui n'avait profité qu'à moi, et comme s'ils étaient morts
pour moi. Il était triste pour moi de penser que mon amour,
auquel j'avais tant tenu, serait, dans mon livre, si dégagé d'un
être, que des lecteurs divers l'appliqueraient exactement à
celui qu'ils avaient éprouvé pour d'autres femmes. Mais
devais-je me scandaliser de cette infidélité posthume et que
tel ou tel pût donner comme objet à mes sentiments des
femmes inconnues, quand cette infidélité, cette division de
l'amour entre plusieurs êtres, avait commencé de mon vivant
et avant même que j'écrivisse ? J'avais bien souffert
successivement pour Gilberte, pour Mme de Guermantes,
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pour Albertine. Successivement aussi je les avais oubliées, et
seul mon amour, dédié à des êtres différents, avait été
durable. La profanation d'un de mes souvenirs par des
lecteurs inconnus, je l'avais consommée avant eux. Je n'étais
pas loin de me faire horreur comme se le ferait peut-être à
lui-même quelque parti nationaliste au nom duquel des
hostilités se seraient poursuivies, et à qui seul aurait servi une
guerre où tant de nobles victimes auraient souffert et
succombé sans même savoir, ce qui, pour ma grand'mère du
moins, eût été une telle récompense, l'issue de la lutte. Et
une seule consolation qu'elle ne sût pas que je me mettais
enfin à l'œuvre était que tel est le lot des morts, si elle ne
pouvait jouir de mon progrès elle avait cessé depuis
longtemps d'avoir conscience de mon inaction, de ma vie
manquée qui avaient été une telle souffrance pour elle. Et
certes, il n'y aurait pas que ma grand'mère, pas qu'Albertine,
mais bien d'autres encore, dont j'avais pu assimiler une
parole, un regard, mais qu'en tant que créatures individuelles
je ne me rappelais plus ; un livre est un grand cimetière où
sur la plupart des tombes on ne peut plus lire les noms
effacés. Parfois, au contraire, on se souvient très bien du
nom, mais sans savoir si quelque chose de l'être qui le porta
survit dans ces pages. Cette jeune fille aux prunelles
profondément enfoncées, à la voix traînante, est-elle ici ? Et
si elle y repose en effet, dans quelle partie, on ne sait plus, et
comment trouver sous les fleurs ? Mais puisque nous vivons
loin des êtres individuels, puisque nos sentiments les plus
forts, comme avait été mon amour pour ma grand'mère,
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pour Albertine, au bout de quelques années nous ne les
connaissons plus, puisqu'ils ne sont plus pour nous qu'un
mot incompris, puisque nous pouvons parler de ces morts
avec les gens du monde chez qui nous avons encore plaisir à
nous trouver quand tout ce que nous aimions pourtant est
mort, alors s'il est un moyen pour nous d'apprendre à
comprendre ces mots oubliés, ce moyen ne devons-nous pas
l'employer, fallût-il pour cela les transcrire d'abord en un
langage universel mais qui du moins sera permanent, qui
ferait de ceux qui ne sont plus, en leur essence la plus vraie,
une acquisition perpétuelle pour toutes les âmes ? Même
cette loi du changement, qui nous a rendu ces mots
inintelligibles, si nous parvenons à l'expliquer, notre
infériorité ne devient-elle pas une force nouvelle ? D'ailleurs,
l'œuvre à laquelle nos chagrins ont collaboré peut être
interprétée pour notre avenir à la fois comme un signe
néfaste de souffrance et comme un signe heureux de
consolation. En effet, si on dit que les amours, les chagrins
du poète lui ont servi, qu'ils l'ont aidé à construire son
œuvre, que les inconnues qui s'en doutaient le moins, l'une
par une méchanceté, l'autre par une raillerie, ont apporté
chacune leur pierre pour l'édification du monument qu'elles
ne verront pas, on ne songe pas assez que la vie de l'écrivain
n'est pas terminée avec cette œuvre, que la même nature qui
lui a fait avoir telles souffrances, lesquelles sont entrées dans
son œuvre, cette nature continuera de vivre après l'œuvre
terminée, lui fera aimer d'autres femmes dans des conditions
qui seraient pareilles, si ne les faisait légèrement dévier tout
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ce que le temps modifie dans les circonstances, dans le sujet
lui-même, dans son appétit d'amour et dans sa résistance à la
douleur. À ce premier point de vue, l'œuvre doit être
considérée seulement comme un amour malheureux qui en
présage fatalement d'autres et qui fera que la vie ressemblera
à l'œuvre, que le poète n'aura presque plus besoin d'écrire,
tant il pourra trouver dans ce qu'il a écrit la figure anticipée
de ce qui arrivera. Ainsi mon amour pour Albertine, et tel
qu'il en différa, était déjà inscrit dans mon amour pour
Gilberte, au milieu des jours heureux duquel j'avais entendu
pour la première fois prononcer le nom et faire le portrait
d'Albertine par sa tante, sans me douter que ce germe
insignifiant se développerait et s'étendrait un jour sur toute
ma vie. Mais à un autre point de vue, l'œuvre est signe de
bonheur, parce qu'elle nous apprend que dans tout amour le
général gît à côté du particulier, et à passer du second au
premier par une gymnastique qui fortifie contre le chagrin en
faisant négliger sa cause pour approfondir son essence. En
effet, comme je devais l'expérimenter par la suite, même au
moment où l'on aime et où on souffre, si la vocation s'est
enfin réalisée, dans les heures où on travaille on sent si bien
l'être qu'on aime se dissoudre dans une réalité plus vaste
qu'on arrive à l'oublier par instants et qu'on ne souffre plus
de son amour, en travaillant, que comme de quelque mal
purement physique où l'être aimé n'est pour rien, comme
d'une sorte de maladie de cœur. Il est vrai que c'est une
question d'instants, et que l'effet semble être le contraire si le
travail vient plus tard. Car lorsque les êtres qui, par leur
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méchanceté, leur nullité, étaient arrivés malgré nous à
détruire nos illusions, se sont réduits eux-mêmes à rien et
séparés de la chimère amoureuse que nous nous étions
forgée, si nous nous mettons alors à travailler, notre âme les
élève de nouveau, les identifie, pour les besoins de notre
analyse de nous-même, à des êtres qui nous auraient aimé, et
dans ce cas, la littérature, recommençant le travail défait de
l'illusion amoureuse, donne une sorte de survie à des
sentiments qui n'existaient plus. Certes, nous sommes
obligés de revivre notre souffrance particulière avec le
courage du médecin qui recommence sur lui-même la
dangereuse piqûre. Mais en même temps il nous faut la
penser sous une forme générale qui nous fait dans une
certaine mesure échapper à son étreinte, qui fait de tous les
copartageants de notre peine, et qui n'est même pas exempte
d'une certaine joie. Là où la vie emmure, l'intelligence perce
une issue, car, s'il n'est pas de remède à un amour non
partagé, on sort de la constatation d'une souffrance, ne fûtce qu'en en tirant les conséquences qu'elle comporte.
L'intelligence ne connaît pas ces situations fermées de la vie
sans issue. Aussi fallait-il me résigner, puisque rien ne peut
durer qu'en devenant général et si l'esprit ment à soi-même, à
l'idée que même les êtres qui furent le plus chers à l'écrivain
n'ont fait, en fin de compte, que poser pour lui comme chez
les peintres. Parfois, quand un morceau douloureux est resté
à l'état d'ébauche, une nouvelle tendresse, une nouvelle
souffrance nous arrivent qui nous permettent de le finir, de
l'étoffer. Pour ces grands chagrins utiles on ne peut pas
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encore trop se plaindre, car ils ne manquent pas, ils ne se
font pas attendre bien longtemps. Tout de même il faut se
dépêcher de profiter d'eux, car ils ne durent pas très
longtemps ; c'est qu'on se console, ou bien, quand ils sont
trop forts, si le cœur n'est plus très solide, on meurt. En
amour, notre rival heureux, autant dire notre ennemi, est
notre bienfaiteur. À un être qui n'excitait en nous qu'un
insignifiant désir physique il ajoute aussitôt une valeur
immense, étrangère, mais que nous confondons avec lui. Si
nous n'avions pas de rivaux le plaisir ne se transformerait pas
en amour. Si nous n'en avions pas, ou si nous ne croyions
pas en avoir. Car il n'est pas nécessaire qu'ils existent
réellement. Suffisante pour notre bien est cette vie illusoire
que donnent à des rivaux inexistants notre soupçon, notre
jalousie. Le bonheur est salutaire pour le corps, mais c'est le
chagrin qui développe les forces de l'esprit. D'ailleurs, ne
nous découvrît-il pas à chaque fois une loi, qu'il n'en serait
pas moins indispensable pour nous remettre chaque fois
dans la vérité, nous forcer à prendre les choses au sérieux,
arrachant chaque fois les mauvaises herbes de l'habitude, du
scepticisme, de la légèreté, de l'indifférence. Il est vrai que
cette vérité, qui n'est pas compatible avec le bonheur, avec la
santé, ne l'est pas toujours avec la vie. Le chagrin finit par
tuer. À chaque nouvelle peine trop forte, nous sentons une
veine de plus qui saille et développe sa sinuosité mortelle au
long de notre tempe, sous nos yeux. Et c'est ainsi que peu à
peu se font ces terribles figures ravagées, du vieux
Rembrandt, du vieux Beethoven de qui tout le monde se
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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moquait. Et ce ne serait rien que les poches des yeux et les
rides du front s'il n'y avait la souffrance du cœur. Mais
puisque les forces peuvent se changer en d'autres forces,
puisque l'ardeur qui dure devient lumière et que l'électricité
de la foudre peut photographier, puisque notre sourde
douleur au cœur peut élever au-dessus d'elle, comme un
pavillon, la permanence visible d'une image à chaque
nouveau chagrin, acceptons le mal physique qu'il nous donne
pour la connaissance spirituelle qu'il nous apporte ; laissons
se désagréger notre corps, puisque chaque nouvelle parcelle
qui s'en détache vient, cette fois lumineuse et lisible, pour la
compléter au prix de souffrances dont d'autres plus doués
n'ont pas besoin, pour la rendre plus solide au fur et à
mesure que les émotions effritent notre vie, s'ajouter à notre
œuvre. Les idées sont des succédanés des chagrins ; au
moment où ceux-ci se changent en idées, ils perdent une
partie de leur action nocive sur notre cœur, et même, au
premier instant, la transformation elle-même dégage
subitement de la joie. Succédanés dans l'ordre du temps
seulement, d'ailleurs, car il semble que l'élément premier ce
soit l'idée, et le chagrin seulement le mode selon lequel
certaines idées entrent d'abord en nous. Mais il y a plusieurs
familles dans le groupe des idées, certaines sont tout de suite
des joies. Ces réflexions me faisaient trouver un sens plus
fort et plus exact à la vérité que j'avais souvent pressentie,
notamment quand Mme de Cambremer se demandait
comment je pouvais délaisser pour Albertine un homme
remarquable comme Elstir. Même au point de vue
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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intellectuel je sentais qu'elle avait tort, mais je ne savais pas
que ce qu'elle méconnaissait, c'était les leçons avec lesquelles
on fait son apprentissage d'homme de lettres. La valeur
objective des arts est peu de chose en cela ; ce qu'il s'agit de
faire sortir, d'amener à la lumière, ce sont nos sentiments,
nos passions, c'est-à-dire les passions, les sentiments de tous.
Une femme dont nous avons besoin nous fait souffrir, tire
de nous des séries de sentiments autrement profonds,
autrement vitaux qu'un homme supérieur qui nous intéresse.
Il reste à savoir, selon le plan où nous vivons, si nous
trouvons que telle trahison par laquelle nous a fait souffrir
une femme est peu de chose auprès des vérités que cette
trahison nous a découvertes et que la femme, heureuse
d'avoir fait souffrir, n'aurait guère pu comprendre. En tout
cas, ces trahisons ne manquent pas. Un écrivain peut se
mettre sans crainte à un long travail. Que l'intelligence
commence son ouvrage, en cours de route surviendront bien
assez de chagrins qui se chargeront de le finir. Quant au
bonheur, il n'a presque qu'une seule utilité, rendre le malheur
possible. Il faut que dans le bonheur nous formions des liens
bien doux et bien forts de confiance et d'attachement pour
que leur rupture nous cause le déchirement si précieux qui
s'appelle le malheur. Si l'on n'avait été heureux, ne fût-ce que
par l'espérance, les malheurs seraient sans cruauté et par
conséquent sans fruit. Et plus qu'au peintre, à l'écrivain, pour
obtenir du volume, de la consistance, de la généralité, de la
réalité littéraire, comme il lui faut beaucoup d'églises vues
pour en peindre une seule, il lui faut aussi beaucoup d'êtres
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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pour un seul sentiment, car si l'art est long et la vie courte,
on peut dire, en revanche, que si l'inspiration est courte les
sentiments qu'elle doit peindre ne sont pas beaucoup plus
longs. Ce sont nos passions qui esquissent nos livres, le
repos d'intervalle qui les écrit. Quand l'inspiration renaît,
quand nous pouvons reprendre le travail, la femme qui
posait devant nous pour un sentiment ne nous le fait déjà
plus éprouver. Il faut continuer à la peindre d'après une
autre, et si c'est une trahison pour l'autre, littérairement,
grâce à la similitude de nos sentiments qui fait qu'une œuvre
est à la fois le souvenir de nos amours passées et la péripétie
de nos amours nouvelles, il n'y a pas grand inconvénient à
ces substitutions. C'est une des causes de la vanité des études
où on essaye de deviner de qui parle un auteur. Car une
œuvre, même de confession directe, est pour le moins
intercalée entre plusieurs épisodes de la vie de l'auteur, ceux
antérieurs qui l'ont inspirée, ceux postérieurs qui ne lui
ressemblent pas moins, des amours suivantes les
particularités étant calquées sur les précédentes. Car à l'être
que nous avons le plus aimé nous ne sommes pas si fidèles
qu'à nous-même, et nous l'oublions tôt ou tard pour pouvoir
– puisque c'est un des traits de nous-même – recommencer
d'aimer. Tout au plus, à cet amour celle que nous avons tant
aimée a-t-elle ajouté une forme particulière, qui nous fera lui
être fidèle même dans l'infidélité. Nous aurons besoin, avec
la femme suivante, des mêmes promenades du matin ou de
la reconduire de même le soir, ou de lui donner cent fois
trop d'argent. (Une chose curieuse que cette circulation de
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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l'argent que nous donnons à des femmes qui, à cause de cela,
nous rendent malheureux, c'est-à-dire nous permettent
d'écrire des livres – on peut presque dire que les œuvres,
comme dans les puits artésiens, montent d'autant plus haut
que la souffrance a plus profondément creusé le cœur.) Ces
substitutions ajoutent à l'œuvre quelque chose de
désintéressé, de plus général, qui est aussi une leçon austère
que ce n'est pas aux êtres que nous devons nous attacher,
que ce ne sont pas les êtres qui existent réellement et sont,
par conséquent, susceptibles d'expression, mais les idées.
Encore faut-il se hâter et ne pas perdre de temps pendant
qu'on a à sa disposition ces modèles. Car ceux qui posent
pour le bonheur n'ont généralement pas beaucoup de
séances à nous donner. Mais les êtres qui posent pour nous
la douleur nous accordent des séances bien fréquentes, dans
cet atelier où nous n'allons que dans ces périodes-là et qui est
à l'intérieur de nous-même. Ces périodes-là sont comme une
image de notre vie avec ses diverses douleurs. Car elles aussi
en contiennent de différentes, et au moment où on croyait
que c'était calmé, une nouvelle, une nouvelle, dans tous les
sens du mot ; peut-être parce que ces situations imprévues
nous forcent à entrer plus profondément en contact avec
nous-même ; ces dilemmes douloureux que l'amour nous
pose à tout instant nous instruisent, nous découvrent
successivement la matière dont nous sommes faits.
D'ailleurs, même quand elle ne fournit pas, en nous la
découvrant, la matière de notre œuvre, elle nous est utile en
nous y incitant. L'imagination, la pensée, peuvent être des
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machines admirables en soi, mais elles peuvent être inertes.
La souffrance alors les met en marche. Aussi, quand
Françoise, voyant Albertine entrer, par toutes les portes
ouvertes, chez moi comme un chien, mettre partout le
désordre, me ruiner, me causer tant de chagrins, me disait
(car à ce moment-là j'avais déjà fait quelques articles et
quelques traductions) : « Ah ! si Monsieur à la place de cette
fille qui lui fait perdre tout son temps avait pris un petit
secrétaire bien élevé qui aurait classé toutes les paperoles de
Monsieur ! » j'avais peut-être tort de trouver qu'elle parlait
sagement. En me faisant perdre mon temps, en me faisant
du chagrin, Albertine m'avait peut-être été plus utile, même
au point de vue littéraire, qu'un secrétaire qui eût rangé mes
paperoles. Mais tout de même, quand un être est si mal
conformé (et peut-être dans la nature cet être est-il l'homme)
qu'il ne puisse aimer sans souffrir, et qu'il faille souffrir pour
apprendre des vérités, la vie d'un tel être finit par être bien
lassante. Les années heureuses sont les années perdues, on
attend une souffrance pour travailler. L'idée de la souffrance
préalable s'associe à l'idée du travail, on a peur de chaque
nouvelle œuvre en pensant aux douleurs qu'il faudra
supporter d'abord pour l'imaginer. Et comme on comprend
que la souffrance est la meilleure chose que l'on puisse
rencontrer dans la vie, on pense sans effroi, presque comme
à une délivrance, à la mort. Pourtant, si cela me révoltait un
peu, encore fallait-il prendre garde que bien souvent nous
n'avons pas joué avec la vie, profité des êtres pour les livres,
mais tout le contraire. Le cas de Werther, si noble, n'était
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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pas, hélas, le mien. Sans croire un instant à l'amour
d'Albertine j'avais vingt fois voulu me tuer pour elle, je
m'étais ruiné, j'avais détruit ma santé pour elle. Quand il
s'agit d'écrire, on est scrupuleux, on regarde de très près, on
rejette tout ce qui n'est pas vérité. Mais tant qu'il ne s'agit que
de la vie, on se ruine, on se rend malade, on se tue pour des
mensonges. Il est vrai que c'est de la gangue de ces
mensonges-là que (si l'âge est passé d'être poète) on peut
seulement extraire un peu de vérité. Les chagrins sont des
serviteurs obscurs, détestés, contre lesquels on lutte, sous
l'empire de qui on tombe de plus en plus, des serviteurs
atroces, impossibles à remplacer et qui par des voies
souterraines nous mènent à la vérité et à la mort. Heureux
ceux qui ont rencontré la première avant la seconde, et pour
qui, si proches qu'elles doivent être l'une de l'autre, l'heure de
la vérité a sonné avant l'heure de la mort.
De ma vie passée je compris encore que les moindres
épisodes avaient concouru à me donner la leçon d'idéalisme
dont j'allais profiter aujourd'hui. Mes rencontres avec M. de
Charlus, par exemple, ne m'avaient-elles pas permis, même
avant que sa germanophilie me donnât la même leçon, et
mieux encore que mon amour pour Mme de Guermantes,
ou pour Albertine, que l'amour de Saint-Loup pour Rachel,
de me convaincre combien la matière est indifférente et que
tout peut y être mis par la pensée, vérité que le phénomène
si mal compris, si inutilement blâmé, de l'inversion sexuelle
grandit plus encore que celui déjà si instructif de l'amour ;
celui-ci nous montre la beauté fuyant la femme que nous
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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n'aimons plus et venant résider dans le visage que les autres
trouveraient le plus laid, qui à nous-même aurait pu, pourra
un jour nous déplaire ; mais il est encore plus frappant de la
voir, obtenant tous les hommages d'un grand seigneur qui
délaisse aussitôt une belle princesse, émigrer sous la
casquette d'un contrôleur d'omnibus. Mon étonnement, à
chaque fois que j'avais revu aux Champs-Élysées, dans la rue,
sur la plage, le visage de Gilberte, de Mme de Guermantes,
d'Albertine, ne prouvait-il pas combien un souvenir ne se
prolonge que dans une direction divergente de l'impression
avec laquelle il a coïncidé d'abord et de laquelle il s'éloigne de
plus en plus ? L'écrivain ne doit pas s'offenser que l'inverti
donne à ses héroïnes un visage masculin. Cette particularité
un peu aberrante permet seule à l'inverti de donner ensuite à
ce qu'il lit toute sa généralité. Si M. de Charlus n'avait pas
donné à l'« infidèle » sur qui Musset pleure dans la Nuit
d'Octobre ou dans le Souvenir le visage de Morel, il n'aurait
ni pleuré, ni compris, puisque c'était par cette seule voie,
étroite et détournée, qu'il avait accès aux vérités de l'amour.
L'écrivain ne dit que par une habitude prise dans le langage
insincère des préfaces et des dédicaces : « mon lecteur ». En
réalité, chaque lecteur est, quand il lit, le propre lecteur de
soi-même. L'ouvrage de l'écrivain n'est qu'une espèce
d'instrument optique qu'il offre au lecteur afin de lui
permettre de discerner ce que, sans ce livre, il n'eût peut-être
pas vu en soi-même. La reconnaissance en soi-même, par le
lecteur, de ce que dit le livre est la preuve de la vérité de
celui-ci, et vice versa, au moins dans une certaine mesure, la
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différence entre les deux textes pouvant être souvent
imputée non à l'auteur mais au lecteur. De plus, le livre peut
être trop savant, trop obscur pour le lecteur naïf et ne lui
présenter ainsi qu'un verre trouble, avec lequel il ne pourra
pas lire. Mais d'autres particularités (comme l'inversion)
peuvent faire que le lecteur ait besoin de lire d'une certaine
façon pour bien lire ; l'auteur n'a pas à s'en offenser mais, au
contraire, à laisser la plus grande liberté au lecteur en lui
disant : « Regardez vous-même si vous voyez mieux avec ce
verre-ci, avec celui-là, avec cet autre. »
Si je m'étais toujours tant intéressé aux rêves que l'on a
pendant le sommeil, n'est-ce pas parce que, compensant la
durée par la puissance, ils nous aident à mieux comprendre
ce qu'a de subjectif, par exemple, l'amour ? Et cela par le
simple fait que – mais avec une vitesse prodigieuse – ils
réalisent ce qu'on appellerait vulgairement nous mettre une
femme dans la peau, jusqu'à nous faire passionnément aimer
pendant quelques minutes une laide, ce qui dans la vie réelle
eût demandé des années d'habitude, de collage et – comme
si elles étaient inventées par quelque docteur miraculeux –
des piqûres intraveineuses d'amour, aussi bien qu'elles
peuvent l'être aussi de souffrance ; avec la même vitesse la
suggestion amoureuse qu'ils nous ont inculquée se dissipe, et
quelquefois non seulement l'amoureuse nocturne a cessé
d'être pour nous comme telle, étant redevenue la laide bien
connue, mais quelque chose de plus précieux se dissipe aussi,
tout un tableau ravissant de sentiments, de tendresse, de
volupté, de regrets vaguement estompés, tout un
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embarquement pour Cythère de la passion dont nous
voudrions noter, pour l'état de veille, les nuances d'une vérité
délicieuse, mais qui s'efface comme une toile trop pâlie qu'on
ne peut restituer. Eh bien, c'était peut-être aussi par le jeu
formidable qu'ils font avec le Temps que les Rêves m'avaient
fasciné. N'avais-je pas vu souvent en une nuit, en une minute
d'une nuit, des temps bien lointains, relégués à ces distances
énormes où nous ne pouvons presque plus rien distinguer
des sentiments que nous y éprouvions, fondre à toute vitesse
sur nous, nous aveuglant de leur clarté, comme s'ils avaient
été des avions géants au lieu des pâles étoiles que nous
croyions, nous faire ravoir tout ce qu'ils avaient contenu
pour nous, nous donner l'émotion, le choc, la clarté de leur
voisinage immédiat, qui ont repris une fois qu'on est réveillé
la distance qu'ils avaient miraculeusement franchie, jusqu'à
nous faire croire, à tort d'ailleurs, qu'ils étaient un des modes
pour retrouver le Temps perdu ?
Je m'étais rendu compte que seule la perception grossière
et erronée place tout dans l'objet, quand tout est dans l'esprit
; j'avais perdu ma grand'mère en réalité bien des mois après
l'avoir perdue en fait, j'avais vu les personnes varier d'aspect
selon l'idée que moi ou d'autres s'en faisaient, une seule être
plusieurs selon les personnes qui la voyaient (tels les divers
Swann du début de cet ouvrage, suivant ceux qui le
rencontraient ; la princesse de Luxembourg, suivant qu'elle
était vue par le premier président ou par moi), même pour
une seule au cours des années (les variations du nom de
Guermantes, et les divers Swann pour moi). J'avais vu
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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l'amour placer dans une personne ce qui n'est que dans la
personne qui aime. Je m'en étais d'autant mieux rendu
compte que j'avais fait varier et s'étendre à l'extrême la
distance entre la réalité objective et l'amour (Rachel pour
Saint-Loup et pour moi, Albertine pour moi et Saint-Loup,
Morel ou le conducteur d'omnibus pour Charlus ou d'autres
personnes). Enfin, dans une certaine mesure, la
germanophilie de M. de Charlus, comme le regard de SaintLoup sur la photographie d'Albertine, m'avait aidé à me
dégager pour un instant, sinon de ma germanophobie, du
moins de ma croyance en la pure objectivité de celle-ci et à
me faire penser que peut-être en était-il de la haine comme
de l'amour, et que, dans le jugement terrible que porte en ce
moment même la France à l'égard de l'Allemagne, qu'elle
juge hors de l'humanité, y avait-il surtout une objectivité de
sentiments, comme ceux qui faisaient paraître Rachel et
Albertine si précieuses, l'une à Saint-Loup, l'autre à moi. Ce
qui rendait possible, en effet, que cette perversité ne fût pas
entièrement intrinsèque à l'Allemagne est que, de même
qu'individuellement j'avais eu des amours successives, après
la fin desquelles l'objet de cet amour m'apparaissait sans
valeur, j'avais déjà vu dans mon pays des haines successives
qui avaient fait apparaître, par exemple, comme des traîtres –
mille fois pires que les Allemands auxquels ils livraient la
France – des dreyfusards comme Reinach avec lequel
collaboreraient aujourd'hui les patriotes contre un pays dont
chaque membre était forcément un menteur, une bête
féroce, un imbécile, exception faite des Allemands qui
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avaient embrassé la cause française, comme le roi de
Roumanie ou l'impératrice de Russie. Il est vrai que les
antidreyfusards m'eussent répondu : « Ce n'est pas la même
chose. » Mais, en effet, ce n'est jamais la même chose, pas
plus que ce n'est la même personne, sans cela, devant le
même phénomène, celui qui en est la dupe ne pourrait
accuser que son état subjectif et ne pourrait croire que les
qualités ou les défauts sont dans l'objet.
L'intelligence n'a point de peine alors à baser sur cette
différence une théorie (enseignement contre nature des
congréganistes selon les radicaux, impossibilité de la race
juive à se nationaliser, haine perpétuelle de la race allemande
contre la race latine, la race jaune étant momentanément
réhabilitée). Ce côté subjectif se marquait, d'ailleurs, dans les
conversations des neutres, où les germanophiles, par
exemple, avaient la faculté de cesser un instant de
comprendre et même d'écouter quand on leur parlait des
atrocités allemandes en Belgique. (Et pourtant, elles étaient
réelles.) Ce que je remarquais de subjectif dans la haine
comme dans la vue elle-même n'empêchait pas que l'objet
pût posséder des qualités ou des défauts réels et ne faisait
nullement s'évanouir la réalité en un pur « relativisme ». Et si,
après tant d'années écoulées et de temps perdu, je sentais
cette influence capitale du lac interne jusque dans les
relations internationales, tout au commencement de ma vie
ne m'en étais-je pas douté quand je lisais dans le jardin de
Combray un de ces romans de Bergotte que même
aujourd'hui, si j'en ai feuilleté quelques pages oubliées où je
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vois les ruses d'un méchant, je ne repose le livre qu'après
m'être assuré, en passant cent pages, que vers la fin ce même
méchant est dûment humilié et vit assez pour apprendre que
ses ténébreux projets ont échoué. Car je ne me rappelais plus
bien ce qui était arrivé à ces personnages, ce qui ne les
différenciait d'ailleurs pas des personnes qui se trouvaient cet
après-midi chez Mme de Guermantes et dont, pour plusieurs
au moins, la vie passée était aussi vague pour moi que si je
l'eusse lue dans un roman à demi oublié.
Le prince d'Agrigente avait-il fini par épouser Mlle X ? Ou
plutôt n'était-ce pas le frère de Mlle X qui avait dû épouser la
sœur du prince d'Agrigente ? Ou bien faisais-je une
confusion avec une ancienne lecture ou un rêve récent ? Le
rêve était encore un de ces faits de ma vie qui m'avait
toujours le plus frappé, qui avait dû le plus servir à me
convaincre du caractère purement mental de la réalité, et
dont je ne dédaignerais pas l'aide dans la composition de
mon œuvre. Quand je vivais, d'une façon un peu moins
désintéressée, pour un amour, un rêve venait rapprocher
singulièrement de moi, lui faisant parcourir de grandes
distances de temps perdu, ma grand'mère, Albertine que
j'avais recommencé à aimer parce qu'elle m'avait fourni, dans
mon sommeil, une version, d'ailleurs atténuée, de l'histoire
de la blanchisseuse. Je pensai qu'ils viendraient quelquefois
rapprocher ainsi de moi des vérités, des impressions, que
mon effort seul, ou même les rencontres de la nature ne me
présentaient pas ; qu'ils réveilleraient en moi du désir, du
regret de certaines choses inexistantes, ce qui est la condition
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pour travailler, pour s'abstraire de l'habitude, pour se
détacher du concret. Je ne dédaignerais pas cette seconde
muse, cette muse nocturne qui suppléerait parfois à l'autre.
J'avais vu les nobles devenir vulgaires quand leur esprit
(comme celui du duc de Guermantes, par exemple) était
vulgaire : « Vous n'êtes pas gêné », disait-il, comme eût pu
dire Cottard. J'avais vu dans la médecine, dans l'affaire
Dreyfus, pendant la guerre, croire que la vérité c'est un
certain fait, que les ministres, le médecin possèdent, un oui
ou non qui n'a pas besoin d'interprétation, qui font qu'un
cliché radiographique indiquerait sans interprétation ce qu'a
le malade, que les gens au pouvoir savaient si Dreyfus était
coupable, savaient (sans avoir besoin d'envoyer pour cela
Roques enquêter sur place) si Sarrail avait ou non les moyens
de marcher en même temps que les Russes. Il n'est pas une
heure de ma vie qui n'eût ainsi servi à m'apprendre, comme
je l'ai dit, que seule la perception grossière et erronée place
tout dans l'objet quand tout, au contraire, est dans l'esprit.
En somme, si j'y réfléchissais, la matière de mon expérience
me venait de Swann, non pas seulement par tout ce qui le
concernait lui-même et Gilberte. Mais c'était lui qui m'avait,
dès Combray, donné le désir d'aller à Balbec, où, sans cela,
mes parents n'eussent jamais eu l'idée de m'envoyer, et sans
quoi je n'aurais pas connu Albertine. Certes, c'est à son
visage, tel que je l'avais aperçu pour la première fois devant
la mer, que je rattachais certaines choses que j'écrirais sans
doute. En un sens j'avais raison de les lui rattacher, car si je
n'étais pas allé sur la digue ce jour-là, si je ne l'avais pas
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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connue, toutes ces idées ne se seraient pas développées (à
moins qu'elles ne l'eussent été par une autre). J'avais tort
aussi, car ce plaisir générateur que nous aimons à trouver
rétrospectivement dans un beau visage de femme vient de
nos sens : il était bien certain, en effet, que ces pages que
j'écrirais, Albertine, surtout l'Albertine d'alors, ne les eût pas
comprises. Mais c'est justement pour cela (et c'est une
indication à ne pas vivre dans une atmosphère trop
intellectuelle), parce qu'elle était si différente de moi, qu'elle
m'avait fécondé par le chagrin et même d'abord par le simple
effort pour imaginer ce qui diffère de soi. Ces pages, si elle
avait été capable de les comprendre, par cela même elle ne
les eût pas inspirées. Mais sans Swann je n'aurais pas connu
même les Guermantes, puisque ma grand'mère n'eût pas
retrouvé Mme de Villeparisis, moi fait la connaissance de
Saint-Loup et de M. de Charlus, ce qui m'avait fait connaître
la duchesse de Guermantes et par elle sa cousine, de sorte
que ma présence même en ce moment chez le prince de
Guermantes, où venait de me venir brusquement l'idée de
mon œuvre (ce qui faisait que je devrais à Swann non
seulement la matière mais la décision), me venait aussi de
Swann. Pédoncule un peu mince peut-être pour supporter
ainsi l'étendue de toute ma vie. (Ce « côté de Guermantes »
s'était trouvé, en ce sens, ainsi procéder du « côté de chez
Swann ».) Mais bien souvent cet auteur des aspects de notre
vie est quelqu'un de bien inférieur à Swann, est l'être le plus
médiocre. N'eût-il pas suffi qu'un camarade quelconque
m'indiquât quelque agréable fille à y posséder (que
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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probablement je n'y aurais pas rencontrée) pour que je fusse
allé à Balbec ? Souvent ainsi on rencontre plus tard un
camarade déplaisant, on lui serre à peine la main, et pourtant,
si jamais on y réfléchit, c'est d'une parole en l'air qu'il nous a
dite, d'un « vous devriez venir à Balbec », que toute notre vie
et notre œuvre sont sorties. Nous ne lui en avons aucune
reconnaissance, sans que cela soit faire preuve d'ingratitude.
Car en disant ces mots, il n'a nullement pensé aux énormes
conséquences qu'ils auraient pour nous. C'est notre
sensibilité et notre intelligence qui ont exploité les
circonstances, lesquelles, la première impulsion donnée, se
sont engendrées les unes les autres sans qu'il eût pu prévoir
la cohabitation avec Albertine plus que la soirée masquée
chez les Guermantes. Sans doute son impulsion fut
nécessaire, et par là la forme extérieure de notre vie, la
matière même de notre œuvre dépendent de lui. Sans Swann,
mes parents n'eussent jamais eu l'idée de m'envoyer à Balbec.
Il n'était pas, d'ailleurs, responsable des souffrances que luimême avait indirectement causées. Elles tenaient à ma
faiblesse. La sienne l'avait bien fait souffrir lui-même par
Odette. Mais, en déterminant ainsi la vie que nous avons
menée, il a par là même exclu toutes les vies que nous
aurions pu mener à la place de celle-là. Si Swann ne m'avait
pas parlé de Balbec, je n'aurais pas connu Albertine, la salle à
manger de l'hôtel, les Guermantes. Mais je serais allé ailleurs,
j'aurais connu des gens différents, ma mémoire comme mes
livres serait remplie de tableaux tout autres, que je ne peux
même pas imaginer et dont la nouveauté, inconnue de moi,
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me séduit et me fait regretter de n'être pas allé plutôt vers
elle, et qu'Albertine et la plage de Balbec et de Rivebelle et
les Guermantes ne me fussent pas toujours restés inconnus.
La jalousie est un bon recruteur qui, quand il y a un creux
dans notre tableau, va nous chercher dans la rue la belle fille
qu'il fallait. Elle n'était plus belle, elle l'est redevenue, car
nous sommes jaloux d'elle, elle remplira ce vide.
Une fois que nous serons morts, nous n'aurons pas de joie
que ce tableau ait été ainsi complété. Mais cette pensée n'est
nullement décourageante. Car nous sentons que la vie est un
peu plus compliquée qu'on ne dit, et même les circonstances.
Et il y a une nécessité pressante à montrer cette complexité.
La jalousie, si utile, ne naît pas forcément d'un regard, ou
d'un récit, ou d'une rétroflexion. On peut la trouver, prête à
nous piquer, entre les feuillets d'un annuaire – ce qu'on
appelle « Tout-Paris » pour Paris, et pour la campagne «
Annuaire des Châteaux » ; – nous avions distraitement
entendu dire par telle belle fille qui nous était devenue
indifférente qu'il lui faudrait aller voir quelques jours sa sœur
dans le Pas-de-Calais. Nous avions aussi distraitement pensé
autrefois que peut-être bien la belle fille avait été courtisée
par M. E. qu'elle ne voyait plus jamais, car plus jamais elle
n'allait dans ce bar où elle le voyait jadis. Que pouvait être sa
sœur ? femme de chambre peut-être ? Par discrétion nous ne
l'avions pas demandé. Et puis voici qu'en ouvrant au hasard
l'Annuaire des Châteaux, nous trouvons que M. E. a son
château dans le Pas-de-Calais, près de Dunkerque. Plus de
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doute, pour faire plaisir à la belle fille il a pris sa sœur
comme femme de chambre, et si la belle fille ne le voit plus
dans le bar, c'est qu'il la fait venir chez lui, habitant Paris
presque toute l'année, mais ne pouvant se passer d'elle,
même pendant qu'il est dans le Pas-de-Calais. Les pinceaux,
ivres de fureur et d'amour, peignent, peignent. Et pourtant,
si ce n'était pas cela ? Si vraiment M. E. ne voyait plus jamais
la belle fille mais, par serviabilité, avait recommandé la sœur
de celle-ci à un frère qu'il a, habitant, lui, toute l'année le Pasde-Calais ? De sorte qu'elle va même peut-être par hasard
voir sa sœur au moment où M. E. n'est pas là, car ils ne se
soucient plus l'un de l'autre. Et à moins encore que la sœur
ne soit pas femme de chambre dans le château ni ailleurs,
mais ait des parents dans le Pas-de-Calais. Notre douleur du
premier instant cède devant ces dernières suppositions qui
calment toute jalousie. Mais qu'importe ? celle-ci, cachée
dans les feuillets de l'Annuaire des Châteaux, est venue au
bon moment, car maintenant le vide qu'il y avait dans la toile
est comblé. Et tout se compose bien, grâce à la présence
suscitée par la jalousie de la belle fille dont déjà nous ne
sommes plus jaloux et que nous n'aimons plus.
À ce moment le maître d'hôtel vint me dire que, le premier
morceau étant terminé, je pouvais quitter la bibliothèque et
entrer dans les salons. Cela me fit ressouvenir où j'étais. Mais
je ne fus nullement troublé dans le raisonnement que je
venais de commencer par le fait qu'une réunion mondaine, le
retour dans la société, m'eussent fourni ce point de départ
vers une vie nouvelle que je n'avais pas su trouver dans la
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solitude. Ce fait n'avait rien d'extraordinaire, une impression
qui pouvait ressusciter en moi l'homme éternel n'étant pas
liée plus forcément à la solitude qu'à la société (comme
j'avais cru autrefois, comme cela avait peut-être été pour moi
autrefois, comme cela aurait peut-être dû être encore si je
m'étais harmonieusement développé, au lieu de ce long arrêt
qui semblait seulement prendre fin). Car n'éprouvant cette
impression de beauté que quand à une sensation actuelle, si
insignifiante fût-elle, venait se superposer une sensation
semblable qui, renaissant spontanément en moi, venait
étendre la première sur plusieurs époques à la fois, et
remplissait mon âme, où habituellement les sensations
particulières laissaient tant de vide, par une essence générale,
il n'y avait pas de raison pour que je ne reçusse des
sensations de ce genre dans le monde aussi bien que dans la
nature, puisqu'elles sont fournies par le hasard, aidé sans
doute par l'excitation particulière qui fait que, les jours où on
se trouve en dehors du train courant de la vie, les choses
même les plus simples recommencent à nous donner des
sensations dont l'habitude fait faire l'économie à notre
système nerveux. Que ce fût justement et uniquement ce
genre de sensations qui dût conduire à l'œuvre d'art, j'allais
essayer d'en trouver la raison objective, en continuant les
pensées que je n'avais cessé d'enchaîner dans la bibliothèque,
car je sentais que le déchaînement de la vie spirituelle était
assez fort en moi maintenant pour pouvoir continuer aussi
bien dans le salon, au milieu des invités, que seul dans la
bibliothèque ; il me semblait qu'à ce point de vue même, au
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milieu de cette assistance si nombreuse, je saurais réserver
ma solitude. Car pour la même raison que de grands
événements n'influent pas du dehors sur nos puissances
d'esprit, et qu'un écrivain médiocre vivant dans une époque
épique restera un tout aussi médiocre écrivain, ce qui était
dangereux dans le monde c'étaient les dispositions
mondaines qu'on y apporte. Mais par lui-même il n'était pas
plus capable de vous rendre médiocre qu'une guerre
héroïque de rendre sublime un mauvais poète. En tout cas,
qu'il fût théoriquement utile ou non que l'œuvre d'art fût
constituée de cette façon, et en attendant que j'eusse
examiné ce point comme j'allais le faire, je ne pouvais nier
que vraiment, en ce qui me concernait, quand des
impressions vraiment esthétiques m'étaient venues, ç'avait
toujours été à la suite de sensations de ce genre. Il est vrai
qu'elles avaient été assez rares dans ma vie, mais elles la
dominaient, je pouvais retrouver dans le passé quelques-uns
de ces sommets que j'avais eu le tort de perdre de vue (ce
que je comptais ne plus faire désormais). Et déjà je pouvais
dire que si c'était chez moi, par l'importance exclusive qu'il
prenait, un trait qui m'était personnel, cependant j'étais
rassuré en découvrant qu'il s'apparentait à des traits moins
marqués, mais reconnaissables, discernables et, au fond,
assez analogues chez certains écrivains. N'est-ce pas à mes
sensations du genre de celle de la madeleine qu'est
suspendue la plus belle partie des Mémoires d'Outre-Tombe
: « Hier au soir je me promenais seul... je fus tiré de mes
réflexions par le gazouillement d'une grive perchée sur la
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plus haute branche d'un bouleau. À l'instant, ce son magique
fit reparaître à mes yeux le domaine paternel ; j'oubliai les
catastrophes dont je venais d'être le témoin et, transporté
subitement dans le passé, je revis ces campagnes où
j'entendis si souvent siffler la grive. » Et une des deux ou
trois plus belles phrases de ces Mémoires n'est-elle pas celleci : « Une odeur fine et suave d'héliotrope s'exhalait d'un
petit carré de fèves en fleurs ; elle ne nous était point
apportée par une brise de la patrie, mais par un vent sauvage
de Terre-Neuve, sans relation avec la plante exilée, sans
sympathie de réminiscence et de volupté. Dans ce parfum,
non respiré de la beauté, non épuré dans son sein, non
répandu sur ses traces, dans ce parfum chargé d'aurore, de
culture et de monde, il y avait toutes les mélancolies des
regrets, de l'absence et de la jeunesse. » Un des chefsd'œuvre de la littérature française, Sylvie, de Gérard de
Nerval, a, tout comme le livre des Mémoires d'Outre-Tombe
relatif à Combourg, une sensation du même genre que le
goût de la madeleine et « le gazouillement de la grive ». Chez
Baudelaire enfin, ces réminiscences, plus nombreuses
encore, sont évidemment moins fortuites et par conséquent,
à mon avis, décisives. C'est le poète lui-même qui, avec plus
de choix et de paresse, recherche volontairement, dans
l'odeur d'une femme par exemple, de sa chevelure et de son
sein, les analogies inspiratrices qui lui évoqueront « l'azur du
ciel immense et rond » et « un port rempli de voiles et de
mâts ». J'allais chercher à me rappeler les pièces de
Baudelaire à la base desquelles se trouve ainsi une sensation
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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transposée, pour achever de me replacer dans une filiation
aussi noble et me donner par là l'assurance que l'œuvre que
je n'avais plus aucune hésitation à entreprendre méritait
l'effort que j'allais lui consacrer, quand, étant arrivé au bas de
l'escalier qui descendait de la bibliothèque, je me trouvai tout
à coup dans le grand salon et au milieu d'une fête qui allait
me sembler bien différente de celles auxquelles j'avais assisté
autrefois et allait revêtir pour moi un aspect particulier et
prendre un sens nouveau. En effet, dès que j'entrai dans le
grand salon, bien que je tinsse toujours ferme en moi, au
point où j'en étais, le projet que je venais de former, un coup
de théâtre se produisit qui allait élever contre mon entreprise
la plus grave des objections. Une objection que je
surmonterais sans doute, mais qui, tandis que je continuais à
réfléchir en moi-même aux conditions de l'œuvre d'art, allait,
par l'exemple cent fois répété de la considération la plus
propre à me faire hésiter, interrompre à tout instant mon
raisonnement. Au premier moment je ne compris pas
pourquoi j'hésitais à reconnaître le maître de maison, les
invités, pourquoi chacun semblait s'être « fait une tête »,
généralement poudrée et qui les changeait complètement. Le
prince avait encore, en recevant, cet air bonhomme d'un roi
de féerie que je lui avais trouvé la première fois, mais cette
fois, semblant s'être soumis lui-même à l'étiquette qu'il avait
imposée à ses invités, il s'était affublé d'une barbe blanche et
traînait à ses pieds, qu'elles alourdissaient, comme des
semelles de plomb. Il semblait avoir assumé de figurer un
des « âges de la vie ». Ses moustaches étaient blanches aussi,
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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comme s'il restait après elles le gel de la forêt du Petit
Poucet. Elles semblaient incommoder sa bouche raidie et,
l'effet une fois produit, il aurait dû les enlever. À vrai dire, je
ne le reconnus qu'à l'aide d'un raisonnement, et en concluant
de la simple ressemblance de certains traits à une identité de
la personne. Je ne sais ce que ce petit Lezensac avait mis sur
sa figure, mais tandis que d'autres avaient blanchi, qui la
moitié de leur barbe, qui leurs moustaches seulement, lui,
sans s'embarrasser de ces teintures, avait trouvé le moyen de
couvrir sa figure de rides, ses sourcils de poils hérissés ; tout
cela, d'ailleurs, ne lui seyait pas, son visage faisait l'effet d'être
durci, bronzé, solennisé, cela le vieillissait tellement qu'on
n'aurait plus dit du tout un jeune homme. Je fus bien étonné
au même moment en entendant appeler duc de Châtellerault
un petit vieillard aux moustaches argentées d'ambassadeur,
dans lequel seul un petit bout de regard resté le même me
permit de reconnaître le jeune homme que j'avais rencontré
une fois en visite chez Mme de Villeparisis. À la première
personne que je parvins ainsi à identifier, en tâchant de faire
abstraction du travestissement et de compléter les traits
restés naturels, par un effort de mémoire, ma première
pensée eût dû être et fut peut-être, bien moins d'une
seconde, de la féliciter d'être si merveilleusement grimée
qu'on avait d'abord, avant de la reconnaître, cette hésitation
que les grands acteurs paraissant dans un rôle où ils sont
différents d'eux-mêmes donnent, en entrant en scène, au
public qui, même averti par le programme, reste un instant
ébahi avant d'éclater en applaudissements. À ce point de vue,
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le plus extraordinaire de tous était mon ennemi personnel,
M. d'Argencourt, le véritable clou de la matinée. Non
seulement, au lieu de sa barbe à peine poivre et sel, il s'était
affublé d'une extraordinaire barbe d'une invraisemblable
blancheur, mais encore, tant de petits changements matériels
pouvant rapetisser, élargir un personnage et, bien plus,
changer son caractère apparent, sa personnalité, c'était un
vieux mendiant qui n'inspirait plus aucun respect qu'était
devenu cet homme dont la solennité, la raideur empesée était
encore présente à mon souvenir, et il donnait à son
personnage de vieux gâteux une telle vérité, que ses
membres tremblotaient, que les traits détendus de sa figure,
habituellement hautaine, ne cessaient de sourire avec une
niaise béatitude. Poussé à ce degré, l'art du déguisement
devient quelque chose de plus, une transformation. En effet,
quelques riens avaient beau me certifier que c'était bien M.
d'Argencourt qui donnait ce spectacle inénarrable et
pittoresque, combien d'états successifs d'un visage ne me
fallait-il pas traverser si je voulais retrouver celui du
d'Argencourt que j'avais connu, et qui était tellement
différent de lui-même, tout en n'ayant à sa disposition que
son propre corps. C'était évidemment la dernière extrémité
où il avait pu le conduire sans en crever ; le plus fier visage,
le torse le plus cambré n'était plus qu'une loque en bouillie,
agitée de-ci de-là. À peine, en se rappelant certains sourires
de M. d'Argencourt qui jadis tempéraient parfois un instant
sa hauteur, pouvait-on comprendre que la possibilité de ce
sourire de vieux marchand d'habits ramolli existât dans le
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gentleman correct d'autrefois. Mais à supposer que ce fût la
même intention de sourire qu'eût d'Argencourt, à cause de la
prodigieuse transformation du visage, la matière même de
l'œil, par laquelle il l'exprimait, était tellement différente, que
l'expression devenait tout autre et même d'un autre. J'eus un
fou rire devant ce sublime gaga, aussi émollié dans sa
bénévole caricature de lui-même que l'était, dans la manière
tragique, M. de Charlus foudroyé et poli. M. d'Argencourt,
dans son incarnation de moribond-bouffe d'un Regnard
exagéré par Labiche, était d'un accès aussi facile, aussi
affable, que M. de Charlus roi Lear qui se découvrait avec
application devant le plus médiocre salueur. Pourtant je n'eus
pas l'idée de lui dire mon admiration pour la vision
extraordinaire qu'il offrait. Ce ne fut pas mon antipathie
ancienne qui m'en empêcha, car précisément il était arrivé à
être tellement différent de lui-même que j'avais l'illusion
d'être devant une autre personne aussi bienveillante, aussi
désarmée, aussi inoffensive que l'Argencourt habituel était
rogue, hostile et dangereux. Tellement une autre personne,
qu'à voir ce personnage si ineffablement grimaçant, comique
et blanc, ce bonhomme de neige simulant un général
Dourakine en enfance, il me semblait que l'être humain
pouvait subir des métamorphoses aussi complètes que celles
de certains insectes. J'avais l'impression de regarder, derrière
le vitrage instructif d'un muséum d'histoire naturelle, ce que
peut être devenu le plus rapide, le plus sûr en ses traits d'un
insecte, et je ne pouvais pas ressentir les sentiments que
m'avait toujours inspirés M. d'Argencourt devant cette molle
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chrysalide, plutôt vibratile que remuante. Mais je me tus, je
ne félicitai pas M. d'Argencourt d'offrir un spectacle qui
semblait reculer les limites entre lesquelles peuvent se
mouvoir les transformations du corps humain. Certes, dans
les coulisses d'un théâtre, ou pendant un bal costumé, on est
plutôt porté par politesse à exagérer la peine, presque à
affirmer l'impossibilité qu'on a à reconnaître la personne
travestie. Ici, au contraire, un instinct m'avait averti de les
dissimuler le plus possible, qu'elles n'avaient plus rien de
flatteur parce que la transformation n'était pas voulue, et je
m'avisai enfin, ce à quoi je n'avais pas songé en entrant dans
ce salon, que toute fête, si simple soit-elle, quand elle a lieu
longtemps après qu'on a cessé d'aller dans le monde et pour
peu qu'elle réunisse quelques-unes des mêmes personnes
qu'on a connues autrefois, vous fait l'effet d'une fête
travestie, de la plus réussie de toutes, de celle où l'on est le
plus sincèrement « intrigué » par les autres, mais où ces têtes,
qu'ils se sont faites depuis longtemps sans le vouloir, ne se
laissent pas défaire par un débarbouillage, une fois la fête
finie. Intrigué par les autres ? Hélas, aussi les intriguant nousmême. Car la même difficulté que j'éprouvais à mettre le
nom qu'il fallait sur les visages semblait partagée par toutes
les personnes qui apercevaient le mien, n'y prenaient pas plus
garde que si elles ne l'eussent jamais vu, ou tâchaient de
dégager de l'aspect actuel un souvenir différent.
Si M. d'Argencourt venait faire cet extraordinaire « numéro
», qui était certainement la vision la plus saisissante dans son
burlesque que je garderais de lui, c'était comme un acteur qui
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rentre une dernière fois sur la scène avant que le rideau
tombe tout à fait au milieu des éclats de rire. Si je ne lui en
voulais plus, c'est parce qu'en lui, qui avait retrouvé
l'innocence du premier âge, il n'y avait plus aucun souvenir
des notions méprisantes qu'il avait pu avoir de moi, aucun
souvenir d'avoir vu M. de Charlus me lâcher brusquement le
bras, soit qu'il n'y eût plus rien en lui de ces sentiments, soit
qu'ils fussent obligés, pour arriver jusqu'à nous, de passer par
des réfracteurs physiques si déformants qu'ils changeaient en
route absolument de sens et que M. d'Argencourt semblât
bon, faute de moyens physiques d'exprimer encore qu'il était
mauvais et de refouler sa perpétuelle hilarité invitante. C'était
trop de parler d'un acteur, et, débarrassé qu'il était de toute
âme consciente, c'est comme une poupée trépidante, à la
barbe postiche de laine blanche, que je le voyais agité,
promené dans ce salon, comme dans un guignol à la fois
scientifique et philosophique où il servait, comme dans une
oraison funèbre ou un cours en Sorbonne, à la fois de rappel
à la vanité de tout et d'exemple d'histoire naturelle. Un
guignol de poupées que, pour identifier à ceux qu'on avait
connus, il fallait lire sur plusieurs plans à la fois, situés
derrière elles et qui leur donnaient de la profondeur et
forçaient à faire un travail d'esprit quand on avait devant soi
ces vieillards fantoches, car on était obligé de les regarder, en
même temps qu'avec les yeux, avec la mémoire. Un guignol
de poupées baignant dans les couleurs immatérielles des
années, de poupées extériorisant le Temps, le Temps qui
d'habitude n'est pas visible, qui pour le devenir cherche des
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corps et, partout où il les rencontre, s'en empare pour
montrer sur eux sa lanterne magique. Aussi immatériel que
jadis Golo sur le bouton de porte de ma chambre de
Combray, ainsi le nouveau et si méconnaissable
d'Argencourt était là comme la révélation du Temps, qu'il
rendait partiellement visible. Dans les éléments nouveaux qui
composaient la figure de M. d'Argencourt et son personnage,
on lisait un certain chiffre d'années, on reconnaissait la figure
symbolique de la vie, non telle qu'elle nous apparaît, c'est-àdire permanente, mais réelle, atmosphère si changeante que
le fier seigneur s'y peint en caricature, le soir, comme un
marchand d'habits.
En d'autres êtres, d'ailleurs, ces changements, ces
véritables aliénations semblaient sortir du domaine de
l'histoire naturelle et on s'étonnait, en entendant un nom,
qu'un même être pût présenter non, comme M.
d'Argencourt, les caractéristiques d'une nouvelle espèce
différente mais les traits extérieurs d'un autre caractère.
C'étaient bien, comme pour M. d'Argencourt, des
possibilités insoupçonnées que le temps avait tirées de telle
jeune fille, mais ces possibilités, bien qu'étant toutes
physionomiques ou corporelles, semblaient avoir quelque
chose de moral. Les traits du visage, s'ils changent, s'ils
s'assemblent autrement, s'ils se contractent de façon
habituelle d'une manière plus lente, prennent, avec un aspect
autre, une signification différente. De sorte qu'il y avait telle
femme qu'on avait connue bornée et sèche, chez laquelle un
élargissement des joues devenues méconnaissables, un
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busquage imprévisible du nez, causaient la même surprise, la
même bonne surprise souvent, que tel mot sensible et
profond, telle action courageuse et noble qu'on n'aurait
jamais attendus d'elle. Autour de ce nez, nez nouveau, on
voyait s'ouvrir des horizons qu'on n'eût pas osé espérer. La
bonté, la tendresse jadis impossibles devenaient possibles
avec ces joues-là. On pouvait faire entendre devant ce
menton ce qu'on n'aurait jamais eu l'idée de dire devant le
précédent. Tous ces traits nouveaux du visage impliquaient
d'autres traits de caractère ; la sèche et maigre jeune fille était
devenue une vaste et indulgente douairière. Ce n'est plus
dans un sens zoologique, comme M. d'Argencourt, c'est dans
un sens social et moral qu'on pouvait dire que c'était une
autre personne.
Par tous ces côtés, une matinée comme celle où je me
trouvais était quelque chose de beaucoup plus précieux
qu'une image du passé, m'offrant comme toutes les images
successives et que je n'avais jamais vues qui séparaient le
passé du présent, mieux encore, le rapport qu'il y avait entre
le présent et le passé ; elle était comme ce qu'on appelait
autrefois une vue d'optique, mais une vue d'optique des
années, la vue non d'un monument, mais d'une personne
située dans la perspective déformante du Temps.
Quant à la femme dont M. d'Argencourt avait été l'amant,
elle n'avait pas beaucoup changé, si on tenait compte du
temps passé, c'est-à-dire que son visage n'était pas trop
complètement démoli pour celui d'un être qui se déforme
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tout le long de son trajet dans l'abîme où il est lancé, abîme
dont nous ne pouvons exprimer la direction que par des
comparaisons également vaines, puisque nous ne pouvons
les emprunter qu'au monde de l'espace, et qui, que nous les
orientions dans le sens de l'élévation, de la longueur ou de la
profondeur, ont comme seul avantage de nous faire sentir
que cette dimension inconcevable et sensible existe. La
nécessité, pour donner un nom aux figures, de remonter
effectivement le cours des années, me forçait, en réaction, de
rétablir ensuite, en leur donnant leur place réelle, les années
auxquelles je n'avais pensé. À ce point de vue, et pour ne pas
me laisser tromper par l'identité apparente de l'espace,
l'aspect tout nouveau d'un être comme M. d'Argencourt
m'était une révélation frappante de cette réalité du millésime
qui d'habitude nous reste abstraite, comme l'apparition de
certains arbres nains ou des baobabs géants nous avertit du
changement de latitude. Alors la vie nous apparaît comme la
féerie où l'on voit d'acte en acte le bébé devenir adolescent,
homme mûr et se courber vers la tombe. Et comme c'est par
des changements perpétuels qu'on sent que ces êtres
prélevés à des distances assez grandes sont si différents, on
sent qu'on a suivi la même loi que ces créatures qui se sont
tellement transformées qu'elles ne ressemblent plus, sans
avoir cessé d'être – justement parce qu'elles n'ont pas cessé
d'être – à ce que nous avons vu d'elles jadis.
Une jeune femme que j'avais connue autrefois, maintenant
blanche et tassée en petite vieille maléfique, semblait
indiquer qu'il est nécessaire que, dans le divertissement final
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d'une pièce, les êtres fussent travestis à ne pas les
reconnaître. Mais son frère était resté si droit, si pareil à luimême qu'on s'étonnait que sur sa figure jeune il eût fait
passer au blanc sa moustache bien relevée. Les parties d'une
blancheur de neige de barbes jusque-là entièrement noires
rendaient mélancolique le paysage humain de cette matinée,
comme les premières feuilles jaunes des arbres alors qu'on
croyait encore pouvoir compter sur un long été, et qu'avant
d'avoir commencé d'en profiter on voit que c'est déjà
l'automne. Alors moi qui, depuis mon enfance, vivais au jour
le jour, ayant reçu d'ailleurs de moi-même et des autres une
impression définitive, je m'aperçus pour la première fois,
d'après les métamorphoses qui s'étaient produites dans tous
ces gens, du temps qui avait passé pour eux, ce qui me
bouleversa par la révélation qu'il avait passé aussi pour moi.
Et indifférente en elle-même, leur vieillesse me désolait en
m'avertissant des approches de la mienne. Celles-ci me
furent, du reste, proclamées coup sur coup par des paroles
qui, à quelques minutes d'intervalle, vinrent me frapper
comme les trompettes du Jugement. La première fut
prononcée par la duchesse de Guermantes ; je venais de la
voir, passant entre une double haie de curieux qui, sans se
rendre compte des merveilleux artifices de toilette et
d'esthétique qui agissaient sur eux, émus devant cette tête
rousse, ce corps saumoné émergeant à peine de ses ailerons
de dentelle noire, et étranglé de joyaux, le regardaient, dans la
sinuosité héréditaire de ses lignes, comme ils eussent fait de
quelque vieux poisson sacré, chargé de pierreries, en lequel
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s'incarnait le Génie protecteur de la famille Guermantes. «
Ah ! me dit-elle, quelle joie de vous voir, vous mon plus vieil
ami. » Et, dans mon amour-propre de jeune homme de
Combray qui ne m'étais jamais compté à aucun moment
comme pouvant être un de ses amis, participant vraiment à
la vraie vie mystérieuse qu'on menait chez les Guermantes,
un de ses amis au même titre que M. de Bréauté, que M. de
Forestelle, que Swann, que tous ceux qui étaient morts,
j'aurais pu en être flatté, j'en étais surtout malheureux. « Son
plus vieil ami ! me dis-je, elle exagère ; peut-être un des plus
vieux, mais suis-je donc... » À ce moment un neveu du
prince s'approcha de moi : « Vous qui êtes un vieux Parisien
», me dit-il. Un instant après on me remit un mot. J'avais
rencontré, en arrivant, un jeune Létourville, dont je ne savais
plus très bien la parenté avec la duchesse mais qui me
connaissait un peu. Il venait de sortir de Saint-Cyr, et, me
disant que ce serait pour moi un gentil camarade comme
avait été Saint-Loup, qui pourrait m'initier aux choses de
l'armée, avec les changements qu'elle avait subis, je lui avais
dit que je le retrouverais tout à l'heure et que nous
prendrions rendez-vous pour dîner ensemble, ce dont il
m'avait beaucoup remercié. Mais j'étais resté trop longtemps
à rêver dans la bibliothèque et le petit mot qu'il avait laissé
pour moi était pour me dire qu'il n'avait pu m'attendre et me
laisser son adresse. La lettre de ce camarade rêvé finissait
ainsi : « Avec tout le respect de votre petit ami,
LÉTOURVILLE. » « Petit ami ! » C'est ainsi qu'autrefois
j'écrivais aux gens qui avaient trente ans de plus que moi, à
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Legrandin par exemple. Quoi ! ce sous-lieutenant, que je me
figurais mon camarade comme Saint-Loup, se disait mon
petit ami. Mais alors il n'y avait donc pas que les méthodes
militaires qui avaient changé depuis lors, et pour M. de
Létourville j'étais donc, non un camarade, mais un vieux
monsieur, et de M. de Létourville, dans la compagnie duquel
je me figurais, moi, tel que je m'apparaissais à moi-même, un
bon camarade, en étais-je donc séparé par l'écartement d'un
invisible compas auquel je n'avais pas songé et qui me situait
si loin du jeune sous-lieutenant qu'il semblait que pour celui
qui se disait mon « petit ami » j'étais un vieux monsieur !
Presque aussitôt après quelqu'un parla de Bloch, je
demandai si c'était du jeune homme ou du père (dont j'avais
ignoré la mort, pendant la guerre, d'émotion, avait-on dit, de
voir la France envahie). « Je ne savais pas qu'il eût des
enfants, je ne le savais même pas marié, me dit la duchesse.
Mais c'est évidemment du père que nous parlons, car il n'a
rien d'un jeune homme, ajouta-t-elle en riant. Il pourrait
avoir des fils qui seraient eux-mêmes déjà des hommes. » Et
je compris qu'il s'agissait de mon camarade. Il entra,
d'ailleurs, au bout d'un instant. J'eus de la peine à le
reconnaître. D'ailleurs, il avait pris maintenant non
seulement un pseudonyme, mais le nom de Jacques du
Rozier, sous lequel il eût fallu le flair de mon grand'père pour
reconnaître la douce vallée de l'Hébron et les chaînes d'Israël
que mon ami semblait avoir définitivement rompues. Un
chic anglais avait, en effet, complètement transformé sa
figure et passé au rabot tout ce qui se pouvait effacer. Les
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cheveux, jadis bouclés, coiffés à plat avec une raie au milieu,
brillaient de cosmétique. Son nez restait fort et rouge mais
semblait plutôt tuméfié par une sorte de rhume permanent
qui pouvait expliquer l'accent nasal dont il débitait
paresseusement ses phrases, car il avait trouvé, de même
qu'une coiffure appropriée à son teint, une voix à sa
prononciation où le nasonnement d'autrefois prenait un air
de dédain particulier qui allait avec les ailes enflammées de
son nez. Et grâce à la coiffure, à la suppression des
moustaches, à l'élégance du type, à la volonté, ce nez juif
disparaissait comme semble presque droite une bossue bien
arrangée. Mais surtout, dès que Bloch apparaissait, la
signification de sa physionomie était changée par un
redoutable monocle. La part de machinisme que ce monocle
introduisait dans la figure de Bloch la dispensait de tous ces
devoirs difficiles auxquels une figure humaine est soumise,
devoir d'être belle, d'exprimer l'esprit, la bienveillance,
l'effort. La seule présence de ce monocle dans la figure de
Bloch dispensait d'abord de se demander si elle était jolie ou
non, comme devant ces objets anglais dont un garçon dit,
dans un magasin, que c'est le grand chic, après quoi on n'ose
plus se demander si cela vous plaît. D'autre part, il s'installait
derrière la glace de ce monocle dans une position aussi
hautaine, distante et confortable que si ç'avait été la glace
d'un huit ressorts, et, pour assortir la figure aux cheveux
plats et au monocle, ses traits n'exprimaient plus jamais rien.
Sur cette figure de Bloch je vis se superposer cette mine
débile et opinante, ces frêles hochements de tête qui
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trouvent si vite leur cran d'arrêt, et où j'aurais reconnu la
docte fatigue des vieillards aimables, si, d'autre part, je n'avais
enfin reconnu devant moi mon ami et si mes souvenirs ne
l'avaient animé de cet entrain juvénile et ininterrompu dont il
semblait actuellement dépossédé. Pour moi qui l'avais connu
au seuil de la vie, il était mon camarade, un adolescent dont
je mesurais la jeunesse par celle que, n'ayant cru vivre depuis
ce moment-là, je me donnais inconsciemment à moi-même.
J'entendis dire qu'il paraissait bien son âge, je fus étonné de
remarquer sur son visage quelques-uns de ces signes qui sont
plutôt la caractéristique des hommes qui sont vieux. Je
compris que c'est parce qu'il l'était en effet et que c'est avec
des adolescents qui durent un assez grand nombre d'années
que la vie fait ses vieillards.
Comme quelqu'un, entendant dire que j'étais souffrant,
demanda si je ne craignais pas de prendre la grippe qui
régnait à ce moment-là, un autre bienveillant me rassura en
me disant : « Non, cela atteint plutôt les personnes encore
jeunes, les gens de votre âge ne risquent plus grand'chose. »
Et on assura que le personnel m'avait bien reconnu. Ils
avaient chuchoté mon nom, et même « dans leur langage »,
raconta une dame, elle les avait entendus dire : « Voilà le
Père... » (cette expression était suivie de mon nom. Et
comme je n'avais pas d'enfant, elle ne pouvait se rapporter
qu'à l'âge).
En attendant la duchesse de Guermantes dire : «
Comment, si j'ai connu le maréchal ? Mais j'ai connu des
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gens bien plus représentatifs, la duchesse de Galliera, Pauline
de Périgord, Mgr Dupanloup », je regrettais naïvement de ne
pas avoir connu moi-même ceux qu'elle appelait un reste
d'ancien régime. J'aurais dû penser qu'on appelle ancien
régime ce dont on n'a pu connaître que la fin ; c'est ainsi que
ce que nous apercevons à l'horizon prend une grandeur
mystérieuse et nous semble se refermer sur un monde qu'on
ne reverra plus ; cependant nous avançons, et c'est bientôt
nous-même qui sommes à l'horizon pour les générations qui
sont derrière nous ; cependant l'horizon recule, et le monde,
qui semblait fini, recommence. « J'ai même pu voir, quand
j'étais jeune fille, ajouta Mme de Guermantes, la duchesse de
Dino. Dame, vous savez que je n'ai plus vingt-cinq ans. »
Ces derniers mots me fâchèrent. Elle ne devrait pas dire cela,
ce serait bon pour une vieille femme. « Quant à vous, repritelle, vous êtes toujours le même, vous n'avez pour ainsi dire
pas changé », me dit la duchesse, et cela me fit presque plus
de peine que si elle m'avait parlé d'un changement, car cela
prouvait, puisqu'il était extraordinaire qu'il s'en fût si peu
produit, que bien du temps s'était écoulé. « Ami, me dit-elle,
vous êtes étonnant, vous restez toujours jeune », expression
si mélancolique puisqu'elle n'a de sens que si nous sommes,
en fait sinon d'apparence, devenus vieux. Et elle me donna le
dernier coup en ajoutant : « J'ai toujours regretté que vous ne
vous soyez pas marié. Au fond, qui sait, c'est peut-être plus
heureux. Vous auriez été d'âge à avoir des fils à la guerre, et
s'ils avaient été tués, comme l'a été ce pauvre Robert de
Saint-Loup (je pense encore souvent à lui), sensible comme
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vous êtes, vous ne leur auriez pas survécu. » Et je pus me
voir, comme dans la première glace véridique que j'eusse
rencontrée dans les yeux de vieillards restés jeunes, à leur
avis, comme je le croyais moi-même de moi, et qui, quand je
me citais à eux, pour entendre un démenti, comme exemple
de vieux, n'avaient pas dans leurs regards, qui me voyaient tel
qu'ils ne se voyaient pas eux-mêmes et tel que je les voyais,
une seule protestation. Car nous ne voyions pas notre propre
aspect, nos propres âges, mais chacun, comme un miroir
opposé, voyait celui de l'autre. Et sans doute, à découvrir
qu'ils ont vieilli, bien des gens eussent été moins tristes que
moi. Mais d'abord il en est de la vieillesse comme de la mort,
quelques-uns les affrontent avec indifférence, non pas parce
qu'ils ont plus de courage que les autres, mais parce qu'ils
ont moins d'imagination. Puis un homme qui depuis son
enfance vise une même idée, auquel sa paresse même et
jusqu'à son état de santé, en lui faisant remettre sans cesse les
réalisations, annule chaque soir le jour écoulé et perdu, si
bien que la maladie qui hâte le vieillissement de son corps
retarde celui de son esprit, est plus surpris et plus bouleversé
de voir qu'il n'a cessé de vivre dans le Temps, que celui qui
vit peu en soi-même, se règle sur le calendrier, et ne
découvre pas d'un seul coup le total des années dont il a
poursuivi quotidiennement l'addition. Mais une raison plus
grave expliquait mon angoisse ; je découvrais cette action
destructrice du Temps au moment même où je voulais
entreprendre de rendre claires, d'intellectualiser dans une
œuvre d'art, des réalités extra-temporelles.
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Chez certains êtres le remplacement successif, mais
accompli en mon absence, de chaque cellule par d'autres,
avait amené un changement si complet, une si entière
métamorphose que j'aurais pu dîner cent fois en face d'eux
dans un restaurant sans me douter plus que je les avais
connus autrefois que je n'aurais pu deviner la royauté d'un
souverain incognito ou le vice d'un inconnu. La comparaison
devient même insuffisante pour le cas où j'entendais leur
nom, car on peut admettre qu'un inconnu assis en face de
vous soit criminel ou roi, tandis qu'eux, je les avais connus,
ou plutôt j'avais connu des personnes portant le même nom,
mais si différentes que je ne pouvais croire que ce fussent les
mêmes. Pourtant, comme j'aurais fait en partant de l'idée de
souveraineté ou de vice qui ne tarde pas à donner à l'inconnu
(avec qui on aurait fait si aisément, quand on avait encore les
yeux bandés, la gaffe d'être insolent ou aimable), dans les
mêmes traits de qui on discerne maintenant quelque chose
de distingué ou de suspect, je m'appliquais à introduire dans
le visage de l'inconnue, entièrement inconnue, l'idée qu'elle
était Mme Sazerat, et je finissais par rétablir le sens autrefois
connu de ce visage, mais qui serait resté vraiment aliéné pour
moi, entièrement celui d'une autre femme ayant autant perdu
tous les attributs humains que j'avais connus, qu'un homme
devenu singe, si le nom et l'affirmation de l'identité ne
m'avaient mis, malgré ce que le problème avait d'ardu, sur la
voie de la solution. Parfois pourtant, l'ancienne image
renaissait assez précise pour que je puisse essayer une
confrontation ; et comme un témoin mis en présence d'un
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inculpé qu'il a vu, j'étais forcé, tant la différence était grande,
de dire : « Non... je ne le reconnais pas. »
Une jeune femme me dit : « Voulez-vous que nous allions
dîner tous les deux au restaurant ? » Comme je répondais : «
Si vous ne trouvez pas compromettant de venir dîner seule
avec un jeune homme », j'entendis que tout le monde autour
de moi riait, et je m'empressai d'ajouter : « ou plutôt avec un
vieil homme ». Je sentais que la phrase qui avait fait rire était
de celles qu'aurait pu, en parlant de moi, dire ma mère, ma
mère pour qui j'étais toujours un enfant. Or je m'apercevais
que je me plaçais pour me juger au même point de vue
qu'elle. Si j'avais fini par enregistrer comme elle certains
changements qui s'étaient faits depuis ma première enfance,
c'était tout de même des changements maintenant très
anciens. J'en étais resté à celui qui faisait qu'on avait dit un
temps, presque en prenant de l'avance sur le fait : « C'est
maintenant presque un grand jeune homme. » Je le pensais
encore, mais cette fois avec un immense retard. Je ne
m'apercevais pas combien j'avais changé. Mais, au fait, eux,
qui venaient de rire aux éclats, à quoi s'en apercevaient-ils ?
Je n'avais pas un cheveu gris, ma moustache était noire.
J'aurais voulu pouvoir leur demander à quoi se révélait
l'évidence de la terrible chose. Et maintenant je comprenais
ce qu'était la vieillesse – la vieillesse qui, de toutes les réalités,
est peut-être celle dont nous gardons le plus longtemps dans
la vie une notion purement abstraite, regardant les
calendriers, datant nos lettres, voyant se marier nos amis, les
enfants de nos amis, sans comprendre, soit par peur, soit par
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paresse, ce que cela signifie, jusqu'au jour où nous
apercevons une silhouette inconnue, comme celle de M.
d'Argencourt, laquelle nous apprend que nous vivons dans
un nouveau monde ; jusqu'au jour où le petit-fils d'une de
nos amies, jeune homme qu'instinctivement nous traiterions
en camarade, sourit comme si nous nous moquions de lui,
nous qui lui sommes apparu comme un grand-père ; je
comprenais ce que signifiaient la mort, l'amour, les joies de
l'esprit, l'utilité de la douleur, la vocation. Car si les noms
avaient perdu pour moi de leur individualité, les mots me
découvraient tout leur sens. La beauté des images est logée à
l'arrière des choses, celle des idées à l'avant. De sorte que la
première cesse de nous émerveiller quand on les a atteintes,
mais qu'on ne comprend la seconde que quand on les a
dépassées.
Or, à toutes ces idées, la cruelle découverte que je venais
de faire relativement au Temps qui s'était écoulé ne pourrait
que s'ajouter et me servir en ce qui concernait la matière
même de mon livre. Puisque j'avais décidé qu'elle ne pouvait
être uniquement constituée par les impressions
véritablement pleines, celles qui sont en dehors du Temps,
parmi les vérités avec lesquelles je comptais les sertir, celles
qui se rapportent au Temps, au Temps dans lequel baignent
et s'altèrent les hommes, les sociétés, les nations, tiendraient
une place importante. Je n'aurais pas soin seulement de faire
une place à ces altérations que subit l'aspect des êtres et dont
j'avais de nouveaux exemples à chaque minute, car tout en
songeant à mon œuvre, assez définitivement mise en marche
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pour ne pas se laisser arrêter par des distractions passagères,
je continuais à dire bonjour aux gens que je connaissais et à
causer avec eux. Le vieillissement, d'ailleurs, ne se marquait
pas pour tous d'une manière analogue. Je vis quelqu'un qui
demandait mon nom, on me dit que c'était M. de
Cambremer. Et alors, pour me montrer qu'il m'avait reconnu
: « Est-ce que vous avez toujours vos étouffements ? » me
demanda-t-il, et sur ma réponse affirmative : « Vous voyez
que ça n'empêche pas la longévité », me dit-il, comme si
j'étais décidément centenaire. Je lui parlais les yeux attachés
sur deux ou trois traits que je pouvais faire rentrer par la
pensée dans cette synthèse, pour le reste toute différente, de
mes souvenirs, que j'appelais sa personne. Mais un instant il
tourna à demi la tête. Et alors je vis qu'il était rendu
méconnaissable par l'adjonction d'énormes poches rouges
aux joues qui l'empêchaient d'ouvrir complètement la
bouche et les yeux, si bien que je restais hébété, n'osant
regarder cette sorte d'anthrax dont il me semblait plus
convenable qu'il me parlât le premier. Mais comme, en
malade courageux, il n'y faisait pas allusion et riait, j'avais
peur d'avoir l'air de manquer de cœur en ne lui demandant
pas, de tact en lui demandant ce qu'il avait. Mais « ils ne vous
viennent pas plus rarement avec l'âge ? » me demanda-t-il, en
continuant à parler de mes étouffements. Je lui dis que non.
« Ah ! pourtant, ma sœur en a sensiblement moins
qu'autrefois », me dit-il, d'un ton de contradiction comme si
cela ne pouvait pas être autrement pour moi que pour sa
sœur, et comme si l'âge était un de ces remèdes dont il
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n'admettait pas, quand ils avaient fait du bien à Mme de
Gaucourt, qu'ils ne me fussent pas salutaires. Mme de
Cambremer-Legrandin s'étant approchée, j'avais de plus en
plus peur de paraître insensible en ne déplorant pas ce que je
remarquais sur la figure de son mari et je n'osais pas
cependant parler de ça le premier. « Vous êtes content de le
voir ? me dit-elle. – Il va bien ? répliquai-je sur un ton
incertain. – Mais comme vous voyez. » Elle ne s'était pas
aperçue de ce mal qui offusquait ma vue et qui n'était autre
qu'un des masques du Temps que celui-ci avait appliqué à la
figure du marquis, mais peu à peu, et en l'épaississant si
progressivement que la marquise n'en avait rien vu. Quand
M. de Cambremer eut fini ses questions sur mes
étouffements, ce fut mon tour de m'informer tout bas auprès
de quelqu'un si la mère du marquis vivait encore. Elle vivait.
Dans l'appréciation du temps écoulé, il n'y a que le premier
pas qui coûte. On éprouve d'abord beaucoup de peine à se
figurer que tant de temps ait passé et ensuite qu'il n'en ait pas
passé davantage. On n'avait jamais songé que le XIIIe siècle
fût si loin, et après on a peine à croire qu'il puisse subsister
encore des églises du XIIIe siècle, lesquelles pourtant sont
innombrables en France. En quelques instants s'était fait en
moi ce travail plus lent qui se fait chez ceux qui, ayant eu
peine à comprendre qu'une personne qu'ils ont connue jeune
ait soixante ans, en ont plus encore, quinze ans après, à
apprendre qu'elle vit encore et n'a pas plus de soixantequinze ans. Je demandai à M. de Cambremer comment allait
sa mère. « Elle est toujours admirable », me dit-il, usant d'un
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adjectif qui, par opposition aux tribus où on traite sans pitié
les parents âgés, s'applique dans certaines familles aux
vieillards chez qui l'usage des facultés les plus matérielles,
comme d'entendre, d'aller à pied à la messe, et de supporter
avec insensibilité les deuils, s'empreint, aux yeux de leurs
enfants, d'une extraordinaire beauté morale.
Si certaines femmes avouaient leur vieillesse en se fardant,
elle apparaissait, au contraire, par l'absence de fard chez
certains hommes sur le visage desquels je ne l'avais jamais
expressément remarquée, et qui tout de même me
semblaient bien changés depuis que, découragés de chercher
à plaire, ils en avaient cessé l'usage. Parmi eux était
Legrandin. La suppression du rose, que je n'avais jamais
soupçonné artificiel, de ses lèvres et de ses joues donnait à sa
figure l'apparence grisâtre et à ses traits allongés et mornes la
précision sculpturale et lapidaire de ceux d'un dieu égyptien.
Un dieu ! un revenant plutôt. Il avait perdu non seulement le
courage de se peindre, mais de sourire, de faire briller son
regard, de tenir des discours ingénieux. On s'étonnait de le
voir si pâle, abattu, ne prononçant que de rares paroles qui
avaient l'insignifiance de celles que disent les morts qu'on
évoque. On se demandait quelle cause l'empêchait d'être vif,
éloquent, charmant, comme on se le demande devant « le
double » insignifiant d'un homme brillant de son vivant et
auquel un spirite pose pourtant des questions qui prêteraient
aux développements charmeurs. Et on se disait que cette
cause qui avait substitué au Legrandin coloré et rapide un
pâle et triste fantôme de Legrandin, c'était la vieillesse. Chez
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certains même les cheveux n'avaient pas blanchi. Ainsi je
reconnus, quand il vint dire un mot à son maître, le vieux
valet de chambre du prince de Guermantes. Les poils
bourrus qui hérissaient ses joues tout autant que son crâne
étaient restés d'un roux tirant sur le rose et on ne pouvait le
soupçonner de se teindre comme la duchesse de
Guermantes. Mais il n'en paraissait pas moins vieux. On
sentait seulement qu'il existe chez les hommes comme, dans
le règne végétal, les mousses, les lichens et tant d'autres, des
espèces qui ne changent pas à l'approche de l'hiver.
Chez d'autres invités, dont le visage était intact, l'âge se
marquait autrement ; ils semblaient seulement embarrassés
quand ils avaient à marcher ; on croyait d'abord qu'ils avaient
mal aux jambes, et ce n'est qu'ensuite qu'on comprenait que
la vieillesse leur avait attaché ses semelles de plomb. Elle en
embellissait d'autres, comme le prince d'Agrigente. À cet
homme long, mince, au regard terne, aux cheveux qui
semblaient devoir rester éternellement rougeâtres, avait
succédé, par une métamorphose analogue à celle des
insectes, un vieillard chez qui les cheveux rouges, trop
longtemps vus, avaient été, comme un tapis de table qui a
trop servi, remplacé par des cheveux blancs. Sa poitrine avait
pris une corpulence inconnue, robuste, presque guerrière, et
qui avait dû nécessiter un véritable éclatement de la frêle
chrysalide que j'avais connue ; une gravité consciente d'ellemême baignait les yeux, où elle était teintée d'une
bienveillance nouvelle qui s'inclinait vers chacun. Et comme,
malgré tout, une certaine ressemblance subsistait entre le
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puissant prince actuel et le portrait que gardait mon
souvenir, j'admirais la force de renouvellement original du
temps qui, tout en respectant l'unité de l'être et les lois de la
vie, sait changer ainsi le décor et introduire de hardis
contrastes dans deux aspects successifs d'un même
personnage, car, beaucoup de ces gens, on les identifiait
immédiatement, mais comme d'assez mauvais portraits
d'eux-mêmes réunis dans l'exposition où un artiste inexact et
malveillant durcit les traits de l'un, enlève la fraîcheur du
teint ou la légèreté de la taille à celle-ci, assombrit le regard
de tel autre. Comparant ces images avec celles que j'avais
sous les yeux de ma mémoire, j'aimais moins celles qui
m'étaient montrées en dernier lieu. Comme souvent on
trouve moins bonne et on refuse une des photographies
entre lesquelles un ami vous a prié de choisir. À chaque
personne et devant l'image qu'elle me montrait d'elle-même
j'aurais voulu dire : « Non, pas celle-ci, vous êtes moins bien,
ce n'est pas vous. » Je n'aurais pas osé ajouter : « Au lieu de
votre beau nez droit on vous a fait le nez crochu de votre
père que je ne vous ai jamais connu. » En effet, c'était un nez
nouveau et familial. Bref, l'artiste le Temps avait « rendu »
tous ces modèles de telle façon qu'ils étaient reconnaissables,
mais ils n'étaient pas ressemblants, non parce qu'il les avait
flattés, mais parce qu'il les avait vieillis. Cet artiste-là, du
reste, travaille fort lentement. Ainsi cette réplique du visage
d'Odette, dont, le jour où j'avais pour la première fois vu
Bergotte, j'avais aperçu l'esquisse à peine ébauchée dans le
visage de Gilberte, le temps l'avait enfin poussée jusqu'à la
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plus parfaite ressemblance, comme on le verra tout à l'heure,
pareil à ces peintres qui gardent longtemps une œuvre et la
complètent année par année. En plusieurs, je finissais par
reconnaître, non seulement eux-mêmes, mais eux tels qu'ils
étaient autrefois, et Ski, par exemple, pas plus modifié qu'une
fleur ou un fruit qui a séché, type de ces amateurs «
célibataires de l'art » qui vieillissent inutiles et insatisfaits. Ski
était resté ainsi un essai informe, confirmant mes théories
sur l'art. D'autres le suivaient qui n'étaient nullement des
amateurs ; c'étaient des gens du monde qui ne s'intéressaient
à rien, et eux aussi, la vieillesse ne les avait pas mûris et,
même s'il s'entourait d'un premier cercle de rides et d'un arc
de cheveux blancs, leur même visage poupin gardait
l'enjouement de la dix-huitième année. Ils n'étaient pas des
vieillards, mais des jeunes gens de dix-huit ans extrêmement
fanés. Peu de chose eût suffi à effacer ces flétrissures de la
vie, et la mort n'aurait pas plus de peine à rendre au visage sa
jeunesse qu'il n'en faut pour nettoyer un portrait que seul un
peu d'encrassement empêche de briller comme autrefois.
Aussi je pensais à l'illusion dont nous sommes dupes quand,
entendant parler d'un célèbre vieillard, nous nous fions
d'avance à sa bonté, à sa justice, à sa douceur d'âme ; car je
sentais qu'ils avaient été, quarante ans plus tôt, de terribles
jeunes gens dont il n'y avait aucune raison pour supposer
qu'ils n'avaient pas gardé la vanité, la duplicité, la morgue et
les ruses.
Et pourtant, en complet contraste avec ceux-ci, j'eus la
surprise de causer avec des hommes et des femmes, jadis
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insupportables, et qui avaient perdu à peu près tous leurs
défauts, soit que la vie, en décevant ou comblant leurs désirs,
leur eût enlevé de leur présomption ou de leur amertume.
Un riche mariage qui ne nous rend plus nécessaire la lutte ou
l'ostentation, l'influence même de la femme, la connaissance
lentement acquise de valeurs autres que celles auxquelles
croit exclusivement une jeunesse frivole, leur avait permis de
détendre leur caractère et de montrer leurs qualités. Ceux-là
en vieillissant semblaient avoir une personnalité différente,
comme ces arbres dont l'automne, en variant leurs couleurs,
semble changer l'essence. Pour eux celle de la vieillesse se
manifestait vraiment, mais comme une chose morale (qu'ils
ne possédaient pas avant). Chez d'autres elle était plutôt
physique, et si nouvelle que la personne – Mme de Souvré
par exemple – me semblait à la fois inconnue et connue.
Inconnue, car il m'était impossible de soupçonner que ce fût
elle, et malgré moi je ne pus m'empêcher, en répondant à
son salut, de laisser voir le travail d'esprit qui me faisait
hésiter entre trois ou quatre personnes (parmi lesquelles
n'était pas Mme de Souvré) pour savoir à qui je le rendais
avec une chaleur, du reste, qui dut l'étonner, car dans le
doute, ayant peur d'être trop froid si c'était une amie intime,
j'avais compensé l'incertitude du regard par la chaleur de la
poignée de main et du sourire. Mais, d'autre part, son aspect
nouveau ne m'était pas inconnu. C'était celui que j'avais
souvent vu, au cours de ma vie, à des femmes âgées et
fortes, mais sans soupçonner alors qu'elles avaient pu,
beaucoup d'années avant, ressembler à Mme de Souvré. Cet
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aspect était si différent de celui que j'avais connu dans le
passé qu'on eût dit qu'elle était un être condamné, comme
un personnage de féerie, à apparaître d'abord en jeune fille,
puis en épaisse matrone, et qui reviendrait sans doute bientôt
en vieille branlante et courbée. Elle semblait, comme une
lourde nageuse qui ne voit plus le rivage qu'à une grande
distance, repousser avec peine les flots du temps qui la
submergeaient. J'arrivai à force de regarder sa figure
hésitante, incertaine comme une mémoire infidèle qui ne
peut plus retenir les formes d'autrefois, j'arrivai pourtant à en
retrouver quelque chose en me livrant au petit jeu d'éliminer
les carrés et les hexagones que l'âge avait ajoutés à ces joues.
D'ailleurs, ce qu'il mêlait à celles des femmes n'était pas
toujours seulement des figures géométriques. Dans les joues
de la duchesse de Guermantes, restées si semblables
pourtant et pourtant composites maintenant comme un
nougat, je distinguais une trace de vert-de-gris, un petit
morceau rose de coquillage concassé, une grosseur difficile à
définir, plus petite qu'une boule de gui et moins transparente
qu'une perle de verre.
Certains hommes boitaient dont on sentait bien que ce
n'était pas par suite d'un accident de voiture, mais à cause
d'une attaque et parce qu'ils avaient déjà, comme on dit, un
pied dans la tombe. Dans l'entrebâillement de la leur, à demi
paralysées, certaines femmes, comme Mme de Franquetot,
semblaient ne pas pouvoir retirer complètement leur robe
restée accrochée à la pierre du caveau, et elles ne pouvaient
se redresser, infléchies qu'elles étaient, la tête basse, en une
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courbe qui était comme celle qu'elles occupaient
actuellement entre la vie et la mort, avant la chute dernière.
Rien ne pouvait lutter contre le mouvement de cette
parabole qui les emportait et, dès qu'elles voulaient se lever,
elles tremblaient et leurs doigts ne pouvaient rien retenir.
Certaines figures sous la cagoule de leurs cheveux blancs
avaient déjà la rigidité, les paupières scellées de ceux qui vont
mourir, et leurs lèvres, agitées d'un tremblement perpétuel,
semblaient marmonner la prière des agonisants.
À un visage linéairement le même il suffisait, pour qu'il
semblât autre, de cheveux blancs au lieu de cheveux noirs ou
blonds. Les costumiers de théâtre savent qu'il suffit d'une
perruque poudrée pour déguiser très suffisamment
quelqu'un et le rendre méconnaissable. Le jeune marquis de
Beausergent, que j'avais vu dans la loge de Mme de
Cambremer, alors sous-lieutenant, le jour où Mme de
Guermantes était dans la baignoire de sa cousine, avait
toujours ses traits aussi parfaitement réguliers, plus même, la
rigidité physiologique de l'artério-sclérose exagérant encore
la rectitude impassible de la physionomie du dandy et
donnant à ces traits l'intense netteté, presque grimaçante à
force d'immobilité, qu'ils auraient eue dans une étude de
Mantegna ou de Michel-Ange. Son teint jadis d'une rougeur
égrillarde était maintenant d'une solennelle pâleur ; des poils
argentés, un léger embonpoint, une noblesse de doge, une
fatigue qui allait jusqu'à l'envie de dormir, tout concourait
chez lui à donner une impression nouvelle de majesté fatale.
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Au rectangle de sa barbe blonde le rectangle égal de sa barbe
blanche se substituait si parfaitement que, remarquant que ce
sous-lieutenant que j'avais connu avait cinq galons, ma
première pensée fut de le féliciter non d'avoir été promu
colonel, mais d'être si bien en colonel, déguisement pour
lequel il semblait avoir emprunté l'uniforme, l'air grave et
triste de l'officier supérieur qu'avait été son père. Chez un
autre, la barbe blanche avait succédé à la barbe blonde, mais
comme le visage était resté vif, souriant et jeune, elle le faisait
paraître seulement plus rouge et plus militant, augmentant
l'éclat des yeux, et donnant au mondain resté jeune l'air
inspiré d'un prophète. La transformation que les cheveux
blancs et d'autres éléments encore avaient opérée, surtout
chez les femmes, m'eussent retenu avec moins de force s'ils
n'avaient été qu'un changement de couleur, ce qui peut
charmer les yeux, mais parce qu'est troublant pour l'esprit un
changement de personnes. En effet, « reconnaître »
quelqu'un, et plus encore, après n'avoir pas pu le reconnaître,
l'identifier, c'est penser sous une seule dénomination deux
choses contradictoires, c'est admettre que ce qui était ici
l'être qu'on se rappelle n'est plus, et que ce qui y est, c'est un
être qu'on ne connaissait pas, c'est avoir à percer un mystère
presque aussi troublant que celui de la mort dont il est, du
reste, comme la préface et l'annonciateur. Car, ces
changements, je savais ce qu'ils voulaient dire, ce à quoi ils
préludaient. Aussi cette blancheur des cheveux
impressionnait chez les femmes, jointe à tant d'autres
changements. On me disait un nom et je restais stupéfait de
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penser qu'il s'appliquait à la fois à la blonde valseuse que
j'avais connue autrefois et à la lourde dame à cheveux blancs
qui passait pesamment près de moi. Avec une certaine roseur
de teint ce nom était peut-être la seule chose qu'il y avait de
commun entre ces deux femmes, plus différentes – celle de
la mémoire et celle de la matinée Guermantes – qu'une
ingénue et une douairière de pièce de théâtre. Pour que la vie
ait pu arriver à donner à la valseuse ce corps énorme, pour
qu'elle eût pu ralentir, comme au métronome, ses
mouvements embarrassés, pour qu'avec peut-être comme
seule parcelle permanente, les joues – plus larges certes, mais
qui dès la jeunesse étaient déjà couperosées – elle eût pu
substituer à la légère blonde ce vieux maréchal ventripotent,
il lui avait fallu accomplir plus de dévastations et de
reconstitutions que pour mettre un dôme à la place d'une
flèche, et quand on pensait qu'un pareil travail s'était opéré
non sur la matière inerte mais sur une chair qui ne change
qu'insensiblement, le contraste bouleversant entre
l'apparition présente et l'être que je me rappelais reculait
celui-ci dans un passé plus que lointain, presque
invraisemblable. On avait peine à réunir les deux aspects, à
penser les deux personnes sous une même dénomination ;
car de même qu'on a peine à penser qu'un mort fut vivant ou
que celui qui était vivant est mort aujourd'hui, il est presque
aussi difficile, et du même genre de difficulté (car
l'anéantissement de la jeunesse, la destruction d'une
personne pleine de forces et de légèreté est déjà un premier
néant), de concevoir que celle qui fut jeune est vieille, quand
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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l'aspect de cette vieille, juxtaposé à celui de la jeune, semble
tellement l'exclure que tour à tour c'est la vieille, puis la
jeune, puis la vieille encore qui vous paraissent un rêve, et
qu'on ne croirait pas que ceci peut avoir jamais été cela, que
la matière de cela est elle-même, sans se réfugier ailleurs,
grâce aux savantes manipulations du temps, devenue ceci,
que c'est la même matière n'ayant pas quitté le même corps –
si l'on n'avait l'indice du nom pareil et le témoignage
affirmatif des amis auquel donne seule une apparence de
vraisemblance la couperose, jadis étroite entre l'or des épis,
aujourd'hui étalée sous la neige. On était effrayé en pensant
aux périodes qui avaient dû s'écouler avant que s'accomplît
une pareille révolution dans la géologie d'un visage, et de
voir quelles érosions s'étaient faites le long du nez, quelles
énormes alluvions, au bord des joues, entouraient toute la
figure de leurs masses opaques et réfractaires. J'avais bien
considéré toujours notre individu à un moment donné du
temps comme un polypier où l'œil, organisme indépendant
bien qu'associé, si une poussière passe, cligne sans que
l'intelligence le commande ; bien plus, où l'intestin, parasite
enfoui, s'infecte sans que l'intelligence l'apprenne, mais aussi
et pareillement pour l'âme, dans la durée de la vie, comme
une suite de moi juxtaposés mais distincts qui mourraient les
uns après les autres ou même alterneraient entre eux comme
ceux qui, à Combray, prenaient pour moi la place l'un de
l'autre quand venait le soir. Mais aussi j'avais vu que ces
cellules morales qui composent un être sont plus durables
que lui. J'avais vu les vices, le courage des Guermantes
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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revenir en Saint-Loup comme en lui-même ses défauts
étranges et brefs de caractère, comme le sémitisme de
Swann. Je pouvais le voir encore en Bloch. Depuis qu'il avait
perdu son père, l'idée, outre les grands sentiments de famille
qui existent souvent dans les familles juives, que son père
était un homme tellement supérieur à tous, avait donné à son
amour pour lui la forme d'un culte. Il n'avait pu supporter
l'idée de l'avoir perdu et avait dû s'enfermer près d'une année
dans une maison de santé. Il avait répondu à mes
condoléances sur un ton à la fois profondément senti et
presque hautain, tant il me jugeait enviable d'avoir approché
cet homme supérieur dont il eût volontiers donné la voiture
à deux chevaux à quelque musée historique. Et maintenant, à
sa table de famille (car, contrairement à ce que croyait la
duchesse de Guermantes, il était marié), la même colère qui
animait Bloch contre M. Nissim Bernard animait Bloch
contre son beau-père. Il lui faisait les mêmes sorties. De
même qu'en écoutant parler Cottard, Brichot, tant d'autres,
j'avais senti que, par la culture et la mode, une seule
ondulation propage dans toute l'étendue de l'espace les
mêmes manières de dire, de penser, de même dans toute la
durée du temps de grandes lames de fond soulèvent des
profondeurs des âges les mêmes colères, les mêmes
tristesses, les mêmes bravoures, les mêmes manies, à travers
les générations superposées, chaque section, prise à plusieurs
niveaux d'une même série, offrant la répétition, comme des
ombres sur des écrans successifs, d'un tableau aussi
identique, quoique souvent moins insignifiant, que celui qui
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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mettait aux prises de la même façon M. Bloch et son beaupère, M. Bloch père et M. Nissim Bernard et d'autres que je
n'avais pas connus.
Il y avait des hommes que je savais parents d'autres sans
avoir jamais pensé qu'ils eussent un trait commun ; en
admirant le vieil ermite aux cheveux blancs qu'était devenu
Legrandin, tout d'un coup je constatai, je peux dire que je
découvris, avec une satisfaction de zoologiste, dans le méplat
de ses joues la construction de celles de son jeune neveu
Léonor de Cambremer, qui pourtant avait l'air de ne lui
ressembler nullement ; à ce premier trait commun j'en
ajoutai un autre que je n'avais pas jusqu'ici remarqué chez
Léonor de Cambremer, puis d'autres et qui n'étaient aucun
de ceux que m'offrait d'habitude la synthèse de sa jeunesse,
de sorte que j'eus bientôt de lui comme une caricature plus
vraie, plus profonde, que si elle avait été littéralement
ressemblante ; son oncle me semblait maintenant le jeune
Cambremer ayant pris pour s'amuser les apparences du
vieillard qu'en réalité il serait un jour, si bien que ce n'était
plus seulement ce qu'étaient devenus les jeunes d'autrefois,
mais ce que deviendraient ceux d'aujourd'hui qui me donnait
avec tant de force la sensation du Temps.
Les femmes tâchaient à rester en contact avec ce qui avait
été le plus individuel de leur charme, mais souvent la matière
nouvelle de leur visage ne s'y prêtait plus. Les traits où s'était
gravée sinon la jeunesse du moins la beauté ayant disparu
chez la plupart d'entre elles, elles avaient alors cherché si,
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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avec le visage qui leur restait, on ne pouvait s'en faire une
autre. Déplaçant le centre, sinon de gravité du moins de
perspective de leur visage, en composant les traits autour de
lui suivant un autre caractère, elles commençaient à
cinquante ans une nouvelle sorte de beauté, comme on
prend sur le tard un nouveau métier, ou comme à une terre
qui ne vaut plus rien pour la vigne on fait produire des
betteraves. Autour de ces traits nouveaux on faisait fleurir
une nouvelle jeunesse. Seules ne pouvaient s'accommoder de
ces transformations les femmes trop belles ou trop laides.
Les premières, sculptées comme un marbre aux lignes
définitives duquel on ne peut plus rien changer, s'effritaient
comme une statue. Les secondes, qui avaient quelque
difformité de la face, avaient même sur les belles certains
avantages. D'abord c'étaient les seules qu'on reconnaissait
tout de suite. On savait qu'il n'y avait pas à Paris deux
bouches pareilles et la leur me les faisait reconnaître dans
cette matinée où je ne reconnaissais plus personne. Et puis
elles n'avaient même pas l'air d'avoir vieilli. La vieillesse est
quelque chose d'humain. Elles étaient des monstres, et elles
ne semblaient pas avoir plus « changé » que des baleines.
D'autres hommes, d'autres femmes ne semblaient pas non
plus avoir vieilli ; leur tournure était aussi svelte, leur visage
aussi jeune. Mais si pour leur parler on se mettait tout près
de leur figure lisse de peau et fine de contours, alors elle
apparaissait tout autre, comme il arrive pour une surface
végétale, une goutte d'eau, de sang, si on la place sous le
microscope. Alors je distinguais de multiples taches
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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graisseuses sur la peau que j'avais crue lisse, et dont elles me
donnaient le dégoût. Les lignes ne résistaient pas à cet
agrandissement. Celle du nez se brisait de près, s'arrondissait,
envahie par les mêmes cercles huileux que le reste de la
figure ; et de près les yeux rentraient sous des poches qui
détruisaient la ressemblance du visage actuel avec celui du
visage d'autrefois qu'on avait cru retrouver. De sorte que, à
l'égard de ces invités-là, ils étaient jeunes vus de loin, leur âge
augmentait avec le grossissement de leur figure et la
possibilité d'en observer les différents plans. Pour eux, en
somme, la vieillesse restait dépendante du spectateur, qui
avait à se bien placer pour voir ces figures-là rester jeunes et
à n'appliquer sur elles que ces regards lointains qui
diminuent l'objet sans le verre que choisit l'opticien pour un
presbyte ; pour elles la vieillesse, décelable comme la
présence des infusoires dans une goutte d'eau, était amenée
par le progrès moins des années que, dans la vision de
l'observateur, du degré de l'échelle de grossissement.
En général, le degré de blancheur des cheveux semblait
comme un signe de la profondeur du temps vécu, comme
ces sommets montagneux qui, même apparaissant aux yeux
sur la même ligne que d'autres, révèlent pourtant le niveau
de leur altitude par l'éclat de leur neigeuse blancheur. Et ce
n'était pourtant pas toujours exact, surtout pour les femmes.
Ainsi les mèches de la princesse de Guermantes, qui,
lorsqu'elles étaient grises et brillantes comme de la soie,
semblaient d'argent autour de son front bombé, ayant pris à
force de devenir blanches une matité de laine et d'étoupe,
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semblaient au contraire, à cause de cela, être grises comme
une neige salie qui a perdu son éclat. Et souvent de blondes
danseuses ne s'étaient pas seulement annexé avec une
perruque de cheveux blancs l'amitié de duchesses qu'elles ne
connaissaient pas autrefois. Mais n'ayant fait jadis que
danser, l'art les avait touchées comme la grâce. Et comme au
XVIIe siècle d'illustres dames entraient en religion, elles
vivaient dans un appartement rempli de peintures cubistes,
un peintre cubiste ne travaillant que pour elles et elles ne
vivant que pour lui.
Pour les vieillards dont les traits avaient changé, ils
tâchaient pourtant de garder, fixée sur eux à l'état
permanent, une de ces expressions fugitives qu'on prend
pour une seconde de pose et avec lesquelles on essaye, soit
de tirer parti d'un avantage extérieur, soit de pallier un défaut
; ils avaient l'air d'être définitivement devenus d'immutables
instantanés d'eux-mêmes.
Tous ces gens avaient mis tant de temps à revêtir leur
déguisement que celui-ci passait généralement inaperçu de
ceux qui vivaient avec eux. Même un délai leur était souvent
concédé où ils pouvaient continuer assez tard à rester euxmêmes. Mais alors ce déguisement prorogé se faisait plus
rapidement ; de toutes façons il était inévitable. Je n'avais
jamais trouvé aucune ressemblance entre Mme X et sa mère,
que je n'avais connue que vieille, ayant l'air d'un petit Turc
tout tassé. Et, en effet, j'avais toujours connu Mme X
charmante et droite et pendant très longtemps elle l'était
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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restée, pendant trop longtemps, car, comme une personne
qui, avant que la nuit n'arrive, a à ne pas oublier de revêtir
son déguisement de Turque, elle s'était mise en retard, et
aussi était-ce précipitamment, presque tout d'un coup, qu'elle
s'était tassée et avait reproduit avec fidélité l'aspect de vieille
Turque revêtu jadis par sa mère.
Je retrouvai là un de mes anciens camarades que, pendant
dix ans, j'avais vu presque tous les jours. On demanda à nous
représenter. J'allai donc à lui et il me dit d'une voix que je
reconnus très bien : « C'est une bien grande joie pour moi
après tant d'années. » Mais quelle surprise pour moi ! Cette
voix semblait émise par un phonographe perfectionné, car si
c'était celle de mon ami, elle sortait d'un gros bonhomme
grisonnant que je ne connaissais pas, et dès lors il me
semblait que ce ne pût être qu'artificiellement, par un truc de
mécanique, qu'on avait logé la voix de mon camarade sous
ce gros vieillard quelconque. Pourtant je savais que c'était lui,
la personne qui nous avait présentés, après si longtemps, l'un
à l'autre n'avait rien d'un mystificateur. Lui-même me déclara
que je n'avais pas changé, et je compris ainsi qu'il ne se
croyait pas changé. Alors je le regardai mieux. Et, en somme,
sauf qu'il avait tellement grossi, il avait gardé bien des choses
d'autrefois. Pourtant je ne pouvais comprendre que ce fût
lui. Alors j'essayai de me rappeler. Il avait dans sa jeunesse
des yeux bleus, toujours riants, perpétuellement mobiles, en
quête évidemment de quelque chose à quoi je n'avais pensé
et qui devait être fort désintéressé, la vérité sans doute,
poursuivie en perpétuelle incertitude, avec une sorte de
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gaminerie, de respect errant pour tous les amis de sa famille.
Or, devenu homme politique influent, capable, despotique,
ces yeux bleus qui, d'ailleurs, n'avaient pas trouvé ce qu'ils
cherchaient s'étaient immobilisés, ce qui leur donnait un
regard pointu, comme sous un sourcil froncé. Aussi
l'expression de gaîté, d'abandon, d'innocence s'était-elle
changée en une expression de ruse et de dissimulation.
Décidément il me semblait que c'était quelqu'un d'autre,
quand tout d'un coup j'entendis, à une chose que je disais,
son rire, son fou rire d'autrefois, celui qui allait avec la
perpétuelle mobilité gaie du regard. Des mélomanes trouvent
qu'orchestrée par X la musique de Z devient absolument
différente. Ce sont des nuances que le vulgaire ne saisit pas,
mais un fou rire étouffé d'enfant, sous un œil en pointe
comme un crayon bleu bien taillé, quoique un peu de travers,
c'est plus qu'une différence d'orchestration. Le rire cessé,
j'aurais bien voulu reconnaître mon ami, mais comme, dans
l'Odyssée, Ulysse s'élançant sur sa mère morte, comme un
spirite essayant en vain d'obtenir d'une apparition une
réponse qui l'identifie, comme le visiteur d'une exposition
d'électricité qui ne peut croire que la voix que le
phonographe restitue inaltérée ne soit tout de même
spontanément émise par une personne, je cessai de
reconnaître mon ami.
Il faut cependant faire cette réserve que les mesures du
temps lui-même peuvent être pour certaines personnes
accélérées ou ralenties. Par hasard j'avais rencontré dans la
rue, il y avait quatre ou cinq ans, la vicomtesse de Saint398
Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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Fiacre (belle-fille de l'amie des Guermantes). Ses traits
sculpturaux semblaient lui assurer une jeunesse éternelle.
D'ailleurs, elle était encore jeune. Or je ne pus, malgré ses
sourires et ses bonjours, la reconnaître en une dame aux
traits tellement déchiquetés que la ligne du visage n'était pas
restituable. C'est que depuis trois ans elle prenait de la
cocaïne et d'autres drogues. Ses yeux, profondément cernés
de noir, étaient presque hagards. Sa bouche avait un rictus
étrange. Elle s'était levée, me dit-on, pour cette matinée,
restant des mois sans quitter son lit ou sa chaise longue. Le
Temps a ainsi des trains express et spéciaux qui mènent à
une vieillesse prématurée. Mais sur la voie parallèle circulent
des trains de retour, presque aussi rapides. Je pris M. de
Courgivaux pour son fils, car il avait l'air plus jeune (il devait
avoir dépassé la cinquantaine et semblait plus jeune qu'à
trente ans). Il avait trouvé un médecin intelligent, supprimé
l'alcool et le sel ; il était revenu à la trentaine et semblait
même, ce jour-là, ne pas l'avoir atteinte. C'est qu'il s'était, le
matin même, fait couper les cheveux.
Chose curieuse, le phénomène de la vieillesse semblait,
dans ses modalités, tenir compte de quelques habitudes
sociales. Certains grands seigneurs, mais qui avaient toujours
été revêtus du plus simple alpaga, coiffés de vieux chapeaux
de paille que les petits bourgeois n'auraient pas voulu porter,
avaient vieilli de la même façon que les jardiniers, que les
paysans au milieu desquels ils avaient vécu. Des taches
brunes avaient envahi leurs joues, et leur figure avait jauni,
s'était foncée comme un livre.
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Et je pensais aussi à tous ceux qui n'étaient pas là parce
qu'ils ne le pouvaient pas, que leur secrétaire, cherchant à
donner l'illusion de leur survie, avait excusés par une de ces
dépêches qu'on remettait de temps à autre à la princesse, à
ces malades depuis des années mourants, qui ne se lèvent
plus, ne bougent plus, et, même au milieu de l'assiduité
frivole de visiteurs attirés par une curiosité de touristes ou
une confiance de pèlerins, les yeux clos, tenant leur chapelet,
rejetant à demi leur drap déjà mortuaire, sont pareils à des
gisants que le mal a sculptés jusqu'au squelette dans une
chair rigide et blanche comme le marbre, et étendus sur leur
tombeau.
Sans doute certaines femmes étaient encore très
reconnaissables, le visage était resté presque le même, et elles
avaient seulement, comme par une harmonie convenable
avec la saison, revêtu les cheveux gris, qui étaient leur parure
d'automne. Mais pour d'autres, et pour des hommes aussi, la
transformation était si complète, l'identité si impossible à
établir – par exemple entre un noir viveur qu'on se rappelait
et le vieux moine qu'on avait sous les yeux – que plus même
qu'à l'art de l'acteur, c'était à celui de certains prodigieux
mimes, dont Fregoli reste le type, que faisaient penser ces
fabuleuses transformations. La vieille femme avait envie de
pleurer en comprenant que l'indéfinissable et mélancolique
sourire qui avait fait son charme ne pouvait plus arriver à
irradier jusqu'à la surface de ce masque de plâtre que lui avait
appliqué la vieillesse. Puis tout à coup découragée de plaire,
trouvant plus spirituel de se résigner, elle s'en servait comme
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d'un masque de théâtre pour faire rire ! Mais presque toutes
les femmes n'avaient pas de trêve dans leur effort pour lutter
contre l'âge et tendaient vers la beauté qui s'éloignait comme
un soleil couchant et dont elles voulaient passionnément
conserver les derniers rayons, le miroir de leur visage. Pour y
réussir certaines cherchaient à l'aplanir, à élargir la blanche
superficie, renonçant au piquant des fossettes menacées, aux
mutineries d'un sourire condamné et déjà à demi désarmé ;
tandis que d'autres, voyant la beauté définitivement disparue
et obligées de se réfugier dans l'expression, comme on
compense par l'art de la diction la perte de la voix, se
raccrochaient à une moue, à une patte d'oie, à un regard
vague, parfois à un sourire qui, à cause de l'incoordination de
muscles qui n'obéissaient plus, leur donnait l'air de pleurer.
Une grosse dame me dit un bonjour pendant la courte
durée duquel les pensées les plus différentes se pressèrent
dans mon esprit. J'hésitai un instant à lui répondre, craignant
que, ne reconnaissant pas les gens mieux que moi, elle eût
cru que j'étais quelqu'un d'autre, puis son assurance me fit au
contraire, de peur que ce fût quelqu'un avec qui j'avais été lié,
exagérer l'amabilité de mon sourire, pendant que mes regards
continuaient à chercher dans ses traits le nom que je ne
trouvais pas. Tel un candidat au baccalauréat, incertain de ce
qu'il doit répondre, attache ses regards sur la figure de
l'examinateur et espère vainement y trouver la réponse qu'il
ferait mieux de chercher dans sa propre mémoire, tel, tout
en lui souriant, j'attachais mes regards sur les traits de la
grosse dame. Ils me semblèrent être ceux de Mme de
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Forcheville, aussi mon sourire se nuança-t-il de respect,
pendant que mon indécision commençait à cesser. Alors
j'entendis la grosse dame me dire, une seconde plus tard : «
Vous me preniez pour maman, en effet je commence à lui
ressembler beaucoup. » Et je reconnus Gilberte.
D'ailleurs, même chez les hommes qui n'avaient subi qu'un
léger changement, dont seule la moustache était devenue
blanche, on sentait que ce changement n'était pas
positivement matériel. C'était comme si on les avait vus à
travers une vapeur colorante, ou mieux un verre peint qui
changeait l'aspect de leur figure mais surtout par ce qu'il y
ajoutait de trouble, montrait que ce qu'il nous permettait de
voir « grandeur nature » était en réalité très loin de nous,
dans un éloignement différent, il est vrai, de celui de l'espace,
mais du fond duquel, comme d'un autre rivage, nous
sentions qu'ils avaient autant de peine à nous reconnaître que
nous eux. Seule peut-être Mme de Forcheville, que j'aperçus
alors comme injectée d'un liquide, d'une espèce de paraffine
qui gonfle la peau mais l'empêche de se modifier, avait l'air
d'une cocotte d'autrefois à jamais « naturalisée ». « Vous me
prenez pour ma mère », m'avait dit Gilberte. C'était vrai.
C'eût été, d'ailleurs, aimable pour la fille. D'ailleurs, il n'y
avait pas que chez cette dernière qu'avaient apparu des traits
familiaux qui jusque-là étaient restés aussi invisibles dans sa
figure que ces parties d'une graine repliées à l'intérieur et
dont on ne peut deviner la saillie qu'elles feront un jour en
dehors. Ainsi un énorme busquage maternel venait, chez
l'une ou chez l'autre, transformer vers la cinquantaine un nez
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jusque-là droit et pur. Chez une autre fille de banquier, le
teint, d'une fraîcheur de jardinière, se roussissait, se cuivrait,
et prenait comme le reflet de l'or qu'avait tant manié le père.
Certains même avaient fini par ressembler à leur quartier,
portaient sur eux comme le reflet de la rue de l'Arcade, de
l'avenue du Bois, de la rue de l'Élysée. Mais surtout ils
reproduisaient les traits de leurs parents.
On part de l'idée que les gens sont restés les mêmes et on
les trouve vieux. Mais une fois que l'idée dont on part est
qu'ils sont vieux, on les retrouve, on ne les trouve pas si mal.
Pour Odette, ce n'était pas seulement cela ; son aspect, une
fois qu'on savait son âge et qu'on s'attendait à une vieille
femme, semblait un défi plus miraculeux aux lois de la
chronologie que la conservation du radium à celles de la
nature. Elle, si je ne la reconnus pas d'abord, ce fut non
parce qu'elle avait, mais parce qu'elle n'avait pas changé. Me
rendant compte depuis une heure de ce que le temps ajoutait
de nouveau aux êtres et de ce qu'il fallait soustraire pour les
retrouver tels que je les avais connus, je faisais maintenant
rapidement ce calcul et, ajoutant à l'ancienne Odette le
chiffre d'années qui avait passé sur elle, le résultat que je
trouvai fut une personne qui me semblait ne pas pouvoir
être celle que j'avais sous les yeux, précisément parce que
celle-là était pareille à celle d'autrefois.
Quel était le fait du fard, de la teinture ? Elle avait l'air,
sous ses cheveux dorés tout plats – un peu un chignon
ébouriffé de grosse poupée mécanique sur une figure
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étonnée et immuable également de poupée – auxquels se
superposait un chapeau de paille plat aussi, de l'Exposition
de 1878 (dont elle eût certes été alors, et surtout si elle eût eu
alors l'âge d'aujourd'hui, la plus fantastique merveille) venant
débiter son compliment dans une revue de fin d'année, mais
de l'Exposition de 1878 représentée par une femme encore
jeune.
À côté de nous, un ministre d'avant l'époque boulangiste,
et qui l'était de nouveau, passait, lui aussi, en envoyant aux
dames un sourire tremblotant et lointain, mais comme
emprisonné dans les mille liens du passé, comme un petit
fantôme qu'une main invisible promenait, diminué de taille,
changé dans sa substance et ayant l'air d'une réduction en
pierre ponce de soi-même. Cet ancien président du Conseil,
si bien reçu dans le Faubourg Saint-Germain, avait jadis été
l'objet de poursuites criminelles, exécré du monde et du
peuple. Mais grâce au renouvellement des individus qui
composent l'un et l'autre, et, dans les individus subsistant,
des passions et même des souvenirs, personne ne le savait
plus et il était honoré. Aussi n'y a-t-il pas d'humiliation si
grande dont on ne devrait prendre aisément son parti,
sachant qu'au bout de quelques années, nos fautes ensevelies
ne seront plus qu'une invisible poussière sur laquelle sourira
la paix souriante et fleurie de la nature. L'individu
momentanément taré se trouvera, par le jeu d'équilibre du
temps, pris entre deux couches sociales nouvelles qui
n'auront pour lui que déférence et admiration, et au-dessus
desquelles il se prélassera aisément. Seulement c'est au temps
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qu'est confié ce travail ; et, au moment de ses ennuis, rien ne
peut le consoler que la jeune laitière d'en face l'ait entendu
appeler « chéquard » par la foule qui montrait le poing tandis
qu'il entrait dans le « panier à salade », la jeune laitière qui ne
voit pas les choses dans le plan du temps, qui ignore que les
hommes qu'encense le journal du matin furent déconsidérés
jadis, et que l'homme qui frise la prison en ce moment, et
peut-être en pensant à cette jeune laitière, n'aura pas les
paroles humbles qui lui concilieraient la sympathie, sera un
jour célébré par la presse et recherché par les duchesses. Le
temps éloigne pareillement les querelles de famille. Et chez la
princesse de Guermantes on voyait un couple où le mari et
la femme avaient pour oncles, morts aujourd'hui, deux
hommes qui ne s'étaient pas contentés de se souffleter mais
dont l'un pour humilier l'autre lui avait envoyé comme
témoins son concierge et son maître d'hôtel, jugeant que des
gens du monde eussent été trop bien pour lui. Mais ces
histoires dormaient dans les journaux d'il y a trente ans et
personne ne les savait plus. Et ainsi le salon de la princesse
de Guermantes était illuminé, oublieux et fleuri, comme un
paisible cimetière. Le temps n'y avait pas seulement défait
d'anciennes créatures, il y avait rendu possibles, il y avait créé
des associations nouvelles.
Pour en revenir à cet homme politique, malgré son
changement de substance physique, tout aussi profond que
la transformation des idées morales qu'il éveillait maintenant
dans le public, en un mot malgré tant d'années passées
depuis qu'il avait été Président du Conseil, il était redevenu
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ministre. Ce président du Conseil d'il y a quarante ans faisait
partie du nouveau cabinet, dont le chef lui avait donné un
portefeuille un peu comme ces directeurs de théâtre confient
un rôle à une de leurs anciennes camarades, retirée depuis
longtemps, mais qu'ils jugent encore plus capable que les
jeunes de tenir un rôle avec finesse, de laquelle, d'ailleurs, ils
savent la difficile situation financière et qui, à près de quatrevingts ans, montre encore au public l'intégrité de son talent
presque intact avec cette continuation de la vie qu'on
s'étonne ensuite d'avoir pu constater quelques jours avant la
mort.
L'aspect de Mme de Forcheville était si miraculeux, qu'on
ne pouvait même pas dire qu'elle avait rajeuni mais plutôt
qu'avec tous ses carmins, toutes ses rousseurs, elle avait
refleuri. Plus même que l'incarnation de l'Exposition
universelle de 1878, elle eût été, dans une exposition végétale
d'aujourd'hui, la curiosité et le clou. Pour moi, du reste, elle
ne semblait pas dire : « Je suis l'Exposition de 1878 », mais
plutôt : « Je suis l'allée des Acacias de 1892. » Il semblait
qu'elle eût pu y être encore. D'ailleurs, justement parce
qu'elle n'avait pas changé, elle ne semblait guère vivre. Elle
avait l'air d'une rose stérilisée. Je lui dis bonjour, elle chercha
quelque temps, mais en vain, mon nom sur mon visage. Je
me nommai et aussitôt, comme si j'avais perdu, grâce à ce
nom incantateur, l'apparence d'arbousier ou de kangourou
que l'âge m'avait sans doute donnée, elle me reconnut et se
mit à me parler de cette voix si particulière que les gens qui
l'avaient applaudie dans les petits théâtres étaient si
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émerveillés, quand ils étaient invités à déjeuner avec elle, « à
la ville », de retrouver dans chacune de ses paroles, pendant
toute la causerie, tant qu'ils voulaient. Cette voix était restée
la même, inutilement chaude, prenante, avec un rien d'accent
anglais. Et pourtant, de même que ses yeux avaient l'air de
me regarder d'un rivage lointain, sa voix était triste, presque
suppliante, comme celle des morts dans l'Odyssée. Odette
eût pu jouer encore. Je lui fis des compliments sur sa
jeunesse. Elle me dit : « Vous êtes gentil, my dear, merci », et
comme elle donnait difficilement à un sentiment, même le
plus vrai, une expression qui ne fût pas affectée par le souci
de ce qu'elle croyait élégant, elle répéta à plusieurs reprises : «
Merci tant, merci tant ». Mais moi, qui avais jadis fait de si
longs trajets pour l'apercevoir au Bois, qui avais écouté le
son de sa voix tomber de sa bouche, la première fois que
j'avais été chez elle, comme un trésor, les minutes passées
maintenant auprès d'elle me semblaient interminables à
cause de l'impossibilité de savoir que lui dire, et je m'éloignai.
Hélas, elle ne devait pas rester toujours telle. Moins de trois
ans après, non pas en enfance, mais un peu ramollie, je
devais la voir à une soirée donnée par Gilberte, devenue
incapable de cacher sous un masque immobile ce qu'elle
pensait – pensait est beaucoup dire – ce qu'elle éprouvait,
hochant la tête, serrant la bouche, secouant les épaules à
chaque impression qu'elle ressentait, comme ferait un
ivrogne, un enfant, comme font certains poètes qui ne
tiennent pas compte de ce qui les entoure, et, inspirés,
composent dans le monde et tout en allant à table au bras
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d'une dame étonnée, froncent les sourcils, font la moue. Les
impressions de Mme de Forcheville – sauf une, celle qui
l'avait fait précisément assister à la soirée donnée par
Gilberte, la tendresse pour sa fille bien-aimée, l'orgueil
qu'elle donnât une soirée si brillante, orgueil que ne voilait
pas chez la mère la mélancolie de ne plus être rien – ces
impressions n'étaient pas joyeuses et commandaient
seulement une perpétuelle défense contre les avanies qu'on
lui faisait, défense timorée comme celle d'un enfant. On
n'entendait que ces mots : « Je ne sais pas si Mme de
Forcheville me reconnaît, je devrais peut-être me faire
présenter à nouveau. – Ça, par exemple, vous pouvez vous
en dispenser (répondait-on à tue-tête, sans songer que la
mère de Gilberte entendait tout, sans y songer, ou sans s'en
soucier), c'est bien inutile. Pour l'agrément qu'elle vous
apportera ! On la laisse dans son coin. Du reste, elle est un
peu gaga. » Furtivement Mme de Forcheville lançait un
regard de ses yeux restés si beaux sur les interlocuteurs
injurieux, puis vite ramenait ce regard à elle de peur d'avoir
été impolie, et, tout de même agitée par l'offense, taisant sa
débile indignation, on voyait sa tête branler, sa poitrine se
soulever, elle jetait un nouveau regard sur un autre assistant
aussi peu poli, et ne s'étonnait pas outre mesure, car, se
sentant très mal depuis quelques jours, elle avait à mots
couverts suggéré à sa fille de remettre la fête, mais sa fille
avait refusé. Mme de Forcheville ne l'en aimait pas moins ;
toutes les duchesses qui entraient, l'admiration de tout le
monde pour le nouvel hôtel inondait de joie son cœur, et
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quand entra la marquise de Sebran, qui était alors la dame où
menait si difficilement le plus haut échelon social, Mme de
Forcheville sentit qu'elle avait été une bonne et prévoyante
mère et que sa tâche maternelle était achevée. De nouveaux
invités ricaneurs la firent à nouveau regarder et parler toute
seule, si c'est parler que tenir un langage muet qui se traduit
seulement par des gesticulations. Si belle encore, elle était
devenue – ce qu'elle n'avait jamais été – infiniment
sympathique ; car elle qui avait trompé Swann et tout le
monde, c'était l'univers entier qui maintenant la trompait ; et
elle était devenue si faible qu'elle n'osait même plus, les rôles
étant retournés, se défendre contre les hommes. Et bientôt
elle ne se défendrait pas contre la mort. Mais après cette
anticipation, revenons trois ans en arrière, c'est-à-dire à la
matinée où nous sommes chez la princesse de Guermantes.
Bloch m'ayant demandé de le présenter au maître de
maison, je ne fis à cela pas l'ombre des difficultés auxquelles
je m'étais heurté le jour où j'avais été pour la première fois
en soirée chez le prince de Guermantes, qui m'avaient
semblé naturelles, alors que maintenant cela me semblait si
simple de lui présenter un de ses invités, et cela m'eût même
paru simple de me permettre de lui amener et présenter à
l'improviste quelqu'un qu'il n'eût pas invité. Était-ce parce
que, depuis cette époque lointaine, j'étais devenu un «
familier », quoique depuis quelque temps un « oublié », de ce
monde où alors j'étais si nouveau ? était-ce, au contraire,
parce que, n'étant pas un véritable homme du monde, tout
ce qui fait difficulté pour eux n'existait plus pour moi, une
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fois la timidité tombée ? était-ce parce que, les êtres ayant
peu à peu laissé tomber devant moi leur premier, souvent
leur second et leur troisième aspect factice, je sentais derrière
la hauteur dédaigneuse du prince une grande avidité humaine
de connaître des êtres, de faire la connaissance de ceux-là
mêmes qu'ils affectent de dédaigner ? Était-ce parce que
aussi le prince avait changé comme tous ces insolents de la
jeunesse et de l'âge mûr, à qui la vieillesse apporte sa douceur
(d'autant plus que les hommes débutants et les idées
inconnues contre lesquels ils regimbaient, ils les
connaissaient depuis longtemps de vue et les savaient reçus
autour d'eux), surtout si cette vieillesse a pour adjuvant
quelques vertus ou quelques vices qui étendent les relations,
ou la révolution que fait une conversion politique, comme
celle du prince au dreyfusisme ?
Bloch m'interrogeait comme moi je faisais autrefois en
entrant dans le monde, comme il m'arrivait encore de faire
sur les gens que j'y avais connus alors et qui étaient aussi
loin, aussi à part de tout, que ces gens de Combray qu'il
m'était souvent arrivé de vouloir « situer » exactement. Mais
Combray avait pour moi une forme si à part, si impossible à
confondre avec le reste, que c'était un puzzle que je ne
pouvais jamais arriver à faire rentrer dans la carte de France.
« Alors je ne peux avoir aucune idée de ce qu'était jadis le
prince de Guermantes en me représentant Swann, ou M. de
Charlus ? me demandait Bloch à qui j'avais longtemps
emprunté sa manière de parler et qui maintenant imitait
souvent la mienne. – Nullement. – Mais en quoi consiste la
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différence ? – Il aurait fallu les entendre parler entre eux,
pour la saisir, mais c'est maintenant impossible, Swann est
mort et M. de Charlus ne vaut guère mieux. Mais ces
différences étaient énormes. » Et tandis que l'œil de Bloch
brillait en pensant à ce que pouvait être la conversation de
ces personnages merveilleux, je pensais que je lui exagérais le
plaisir que j'avais eu à me trouver avec eux, n'en ayant jamais
ressenti que quand j'étais seul, et l'impression des
différenciations véritables n'ayant lieu que dans notre
imagination. Bloch s'en aperçut-il ? « Tu me peins peut-être
cela trop en beau, me dit-il ; ainsi la maîtresse de maison
d'ici, la princesse de Guermantes, je sais bien qu'elle n'est
plus jeune, mais enfin il n'y a pas tellement longtemps que tu
me parlais de son charme incomparable, de sa merveilleuse
beauté. Certes, je reconnais qu'elle a grand air, et elle a bien
ces yeux extraordinaires dont tu me parlais, mais enfin je ne
la trouve pas tellement inouïe que tu disais. Évidemment elle
est très racée, mais enfin... » Je fus obligé de dire à Bloch
qu'il ne me parlait pas de la même personne. La princesse de
Guermantes, en effet, était morte et c'est l'ex-Madame
Verdurin que le prince, ruiné par la défaite allemande, avait
épousée et que Bloch ne reconnaissait pas. « Tu te trompes,
j'ai cherché dans le Gotha de cette année, me confessa
naïvement Bloch, et j'ai trouvé le prince de Guermantes,
habitant l'hôtel où nous sommes et marié à tout ce qu'il y a
de plus grandiose, attends un peu que je me rappelle, marié à
Sidonie, duchesse de Duras, née des Baux. » En effet, Mme
Verdurin, peu après la mort de son mari, avait épousé le
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vieux duc de Duras, ruiné, qui l'avait faite cousine du prince
de Guermantes, et était mort après deux ans de mariage. Il
avait été pour Mme Verdurin une transition fort utile, et
maintenant celle-ci, par un troisième mariage, était princesse
de Guermantes et avait dans le faubourg Saint-Germain une
grande situation qui eût fort étonné à Combray, où les
dames de la rue de l'Oiseau, la fille de Mme Goupil et la
belle-fille de Mme Sazerat, toutes ces dernières années, avant
que Mme Verdurin ne fût princesse de Guermantes, avaient
dit en ricanant : « la duchesse de Duras », comme si c'eût été
un rôle que Mme Verdurin eût tenu au théâtre. Même, le
principe des castes voulant qu'elle mourût Mme Verdurin, ce
titre, qu'on ne s'imaginait lui conférer aucun pouvoir
mondain nouveau, faisait plutôt mauvais effet. « Faire parler
d'elle », cette expression qui dans tous les mondes est
appliquée à une femme qui a un amant, pouvait l'être dans le
faubourg Saint-Germain à celles qui publient des livres, dans
la bourgeoisie de Combray à celles qui font des mariages
dans un sens ou dans l'autre « disproportionnés ». Quand elle
eut épousé le prince de Guermantes, on dut se dire que
c'était un faux Guermantes, un escroc. Pour moi, à me
figurer cette identité de titre, de nom, qui faisait qu'il y avait
encore une princesse de Guermantes et qu'elle n'avait aucun
rapport avec celle qui m'avait tant charmé et qui n'était plus,
qui était comme une morte sans défense à qui on l'eût volé, il
y avait quelque chose d'aussi douloureux qu'à voir les objets
qu'avait possédés la princesse Hedwige, comme son château,
comme tout ce qui avait été à elle et dont une autre jouissait.
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La succession au nom est triste comme toutes les
successions, comme toutes les usurpations de propriété ; et
toujours sans interruptions viendraient, comme un flot, de
nouvelles princesses de Guermantes, ou plutôt, millénaire,
remplacée d'âge en âge dans son emploi par une femme
différente, vivrait une seule princesse de Guermantes,
ignorante de la mort, indifférente à tout ce qui change et
blesse nos cœurs, et le nom comme la mer refermerait sur
celles qui sombrent de temps à autre sa toujours pareille et
immémoriale placidité.
Mais – contradiction avec cette permanence – les anciens
habitués assuraient que dans le monde tout était changé,
qu'on y recevait des gens que jamais de leur temps on
n'aurait reçus et, comme on dit : « c'était vrai, et ce n'était pas
vrai ». Ce n'était pas vrai parce qu'ils ne se rendaient pas
compte de la courbe du temps qui faisait que ceux
d'aujourd'hui voyaient ces gens nouveaux à leur point
d'arrivée tandis qu'eux se les rappelaient à leur point de
départ. Et quand eux, les anciens, étaient entrés dans le
monde, il y avait là des gens arrivés dont d'autres se
rappelaient le départ. Une génération suffit pour que s'y
ramène ce changement qui en des siècles s'est fait pour le
nom bourgeois d'un Colbert devenu nom noble. Et, d'autre
part, cela pourrait être vrai, car si les personnes changent de
situation, les idées et les coutumes les plus indéracinables (de
même que les fortunes et les alliances de pays et les haines
de pays) changent aussi, parmi lesquelles même celles de ne
recevoir que des gens chic. Non seulement le snobisme
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change de forme, mais il pourrait disparaître, comme la
guerre même, et les radicaux, les juifs être reçus au Jockey.
Certes, même ce changement extérieur dans les figures que
j'avais connues n'était que le symbole d'un changement
intérieur qui s'était effectué jour par jour. Peut-être ces gens
avaient-ils continué à accomplir les mêmes choses, mais, jour
par jour, l'idée qu'ils se faisaient d'elles et des êtres qu'ils
fréquentaient, ayant un peu de vie, au bout de quelques
années, sous les mêmes noms c'était d'autres choses, d'autres
gens qu'ils aimaient, et étant devenus d'autres personnes, il
eût été étonnant qu'ils n'eussent pas eu de nouveaux visages.
Si, dans ces périodes de vingt ans, les conglomérats de
coteries se défaisaient et se reformaient selon l'attraction
d'astres nouveaux destinés, d'ailleurs, eux aussi, à s'éloigner
puis à reparaître, des cristallisations, puis des émiettements
suivis de cristallisations nouvelles avaient lieu dans l'âme des
êtres. Si pour moi la duchesse de Guermantes avait été bien
des personnes, pour la duchesse de Guermantes, pour Mme
Swann, etc., telle personne donnée avait été un favori d'une
époque précédant l'Affaire Dreyfus, puis un fanatique ou un
imbécile à partir de l'affaire Dreyfus, qui avait changé pour
eux la valeur des êtres et reclassé autour les partis, lesquels
s'étaient depuis encore défaits et refaits. Ce qui y sert
puissamment et y ajoute son influence aux pures affinités
intellectuelles, c'est le temps écoulé, qui nous fait oublier nos
antipathies, nos dédains, les raisons mêmes qui expliquaient
nos antipathies et nos dédains. Si on eût jadis analysé
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l'élégance de la jeune Mme Léonor de Cambremer, on y eût
trouvé qu'elle était la nièce du marchand de notre maison,
Jupien, et que ce qui avait pu s'ajouter à cela pour la rendre
brillante, c'était que son oncle procurait des hommes à M. de
Charlus. Mais tout cela combiné avait produit des effets
scintillants, alors que les causes déjà lointaines, non
seulement étaient inconnues de beaucoup de nouveaux, mais
encore que ceux qui les avaient connues les avaient oubliées,
pensant beaucoup plus à l'éclat actuel qu'aux hontes passées,
car on prend toujours un nom dans son acception actuelle.
Et c'était l'intérêt de ces transformations des salons qu'elles
étaient aussi un effet du temps perdu et un phénomène de
mémoire.
Parmi les personnes présentes se trouvait un homme
considérable qui venait, dans un procès fameux, de donner
un témoignage dont la seule valeur résidait dans sa haute
moralité devant laquelle les juges et les avocats s'étaient
unanimement inclinés et qui avait entraîné la condamnation
de deux personnes. Aussi y eut-il un mouvement de curiosité
et de déférence quand il entra. C'était Morel. J'étais peut-être
seul à savoir qu'il avait été entretenu par M. de Charlus, puis
par Saint-Loup et en même temps par un ami de Saint-Loup.
Malgré ces souvenirs, il me dit bonjour avec plaisir quoique
avec réserve. Il se rappelait le temps où nous nous étions vus
à Balbec, et ces souvenirs avaient pour lui la poésie et la
mélancolie de la jeunesse.
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Mais il y avait aussi des personnes que je ne pouvais pas
reconnaître pour la raison que je ne les avais pas connues,
car, aussi bien que sur les êtres eux-mêmes, le temps avait
aussi, dans ce salon, exercé sa chimie sur la société. Ce
milieu, en la nature spécifique duquel, définie par certaines
affinités qui lui attiraient tous les grands noms princiers de
l'Europe et par la répulsion qui éloignait d'elle tout élément
non aristocratique, j'avais trouvé un refuge matériel pour ce
nom de Guermantes auquel il prêtait sa dernière réalité, ce
milieu avait lui-même subi, dans sa constitution intime et que
j'avais crue stable, une altération profonde. La présence de
gens que j'avais vus dans de tout autres sociétés et qui me
semblaient ne devoir jamais pénétrer dans celle-là m'étonna
moins encore que l'intime familiarité avec laquelle ils y
étaient reçus, appelés par leur prénom ; un certain ensemble
de préjugés aristocratiques, de snobisme, qui jadis écartait
automatiquement du nom de Guermantes tout ce qui ne
s'harmonisait pas avec lui, avait cessé de fonctionner.
Certains étrangers qui, quand j'avais débuté dans le monde,
donnaient de grands dîners où ils ne recevaient que la
princesse de Guermantes, la duchesse de Guermantes, la
princesse de Parme et étaient chez ces dames à la place
d'honneur, passaient pour ce qu'il y a de mieux assis dans la
société d'alors et l'étaient peut-être, avaient passé sans laisser
aucune trace. Étaient-ce des étrangers en mission
diplomatique repartis pour leur pays ? Peut-être un scandale,
un suicide, un enlèvement les avait-il empêchés de reparaître
dans le monde, ou bien étaient-ils allemands ? Mais leur nom
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ne devait son lustre qu'à leur situation d'alors et n'était plus
porté par personne : on ne savait même pas qui je voulais
dire ; si je parlais d'eux en essayant d'épeler le nom, on
croyait à des rastaquouères.
Les personnes qui n'auraient pas dû, selon l'ancien code
social, se trouver là avaient, à mon grand étonnement, pour
meilleures amies, des personnes admirablement nées,
lesquelles n'étaient venues s'embêter chez la princesse de
Guermantes qu'à cause de leurs nouvelles amies. Car ce qui
caractérisait le plus cette société, c'était sa prodigieuse
aptitude au déclassement.
Détendus ou brisés, les ressorts de la machine refoulante
ne fonctionnaient plus, mille corps étrangers y pénétraient,
lui ôtaient toute homogénéité, toute tenue, toute couleur. Le
faubourg Saint-Germain, comme une douairière gâteuse, ne
répondait que par des sourires timides à des domestiques
insolents qui envahissaient ses salons, buvaient son
orangeade et lui présentaient leurs maîtresses. Encore la
sensation du temps écoulé et de l'anéantissement d'une
partie de mon passé disparu m'était-elle donnée moins
vivement encore par la destruction de cet ensemble cohérent
(qu'avait été le salon Guermantes) d'éléments dont mille
nuances, mille raisons expliquaient la présence, la fréquence,
la coordination, qu'expliquée par l'anéantissement même de
la connaissance des mille raisons, des mille nuances qui
faisaient que tel qui s'y trouvait encore maintenant y était
tout naturellement indiqué et à sa place, tandis que tel autre
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qui l'y coudoyait y présentait une nouveauté suspecte. Cette
ignorance n'était pas que du monde, mais de la politique, de
tout. Car la mémoire dure moins que la vie chez les
individus, et, d'ailleurs, de très jeunes, qui n'avaient jamais eu
les souvenirs abolis chez les autres, faisant maintenant partie
du monde, et très légitimement, même au sens nobiliaire, les
débuts étant oubliés ou ignorés, on prenait les gens – au
point d'élévation ou de chute – où ils se trouvaient, croyant
qu'il en avait toujours été ainsi, et que la princesse de
Guermantes et Bloch avaient toujours eu la plus grande
situation, que Clemenceau et Viviani avaient toujours été
conservateurs. Et comme certains faits ont plus de durée, le
souvenir exécré de l'Affaire Dreyfus persistant vaguement
chez eux, grâce à ce que leur avaient dit leurs pères, si on
leur disait que Clemenceau avait été dreyfusard, ils disaient :
« Pas possible, vous confondez, il est juste de l'autre côté. »
Des ministres tarés et d'anciennes filles publiques étaient
tenus pour des parangons de vertu. Quelqu'un ayant
demandé à un jeune homme de la plus grande famille s'il n'y
avait pas eu quelque chose à dire sur la mère de Gilberte, le
jeune seigneur répondit qu'en effet, dans la première partie
de son existence, elle avait épousé un aventurier du nom de
Swann, mais qu'ensuite elle avait épousé un des hommes les
plus en vue de la société, le comte de Forcheville. Sans doute
quelques personnes encore dans ce salon, la duchesse de
Guermantes par exemple, eussent souri de cette assertion
(qui, niant l'élégance de Swann, me paraissait monstrueuse,
alors que moi-même jadis, à Combray, j'avais cru avec ma
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grand'tante que Swann ne pouvait connaître des « princesses
») et aussi des femmes qui eussent pu se trouver là mais qui
ne sortaient plus guère, les duchesses de Montmorency, de
Mouchy, de Sagan, qui avaient été les amies intimes de
Swann et n'avaient jamais aperçu ce Forcheville, non reçu
dans le monde au temps où elles y allaient encore. Mais
précisément c'est que la société d'alors, de même que les
visages aujourd'hui modifiés et les cheveux blonds remplacés
par des cheveux blancs, n'existait plus que dans la mémoire
d'êtres dont le nombre diminuait tous les jours. Bloch,
pendant la guerre, avait cessé de « sortir », de fréquenter ses
anciens milieux d'autrefois où il faisait piètre figure. En
revanche, il n'avait cessé de publier de ces ouvrages dont je
m'efforçais aujourd'hui, pour ne pas être entravé par elle, de
détruire l'absurde sophistique, ouvrages sans originalité, mais
qui donnaient aux jeunes gens et à beaucoup de femmes du
monde l'impression d'une hauteur intellectuelle peu
commune, d'une sorte de génie. Ce fut donc après une
scission complète entre son ancienne mondanité et la
nouvelle que, dans une société reconstituée, il avait fait, pour
une phase nouvelle de sa vie, honorée, glorieuse, une
apparition de grand homme. Les jeunes gens ignoraient
naturellement qu'il fît à cet âge-là des débuts dans la société,
d'autant que le peu de noms qu'il avait retenus dans la
fréquentation de Saint-Loup lui permettaient de donner à
son prestige actuel une sorte de recul indéfini. En tout cas il
paraissait un de ces hommes de talent qui à toute époque ont
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fleuri dans le grand monde et on ne pensait pas qu'il eût
jamais vécu ailleurs.
Dès que j'eus fini de parler au prince de Guermantes,
Bloch se saisit de moi et me présenta à une jeune femme qui
avait beaucoup entendu parler de moi par la duchesse de
Guermantes. Si les gens des nouvelles générations tenaient la
duchesse de Guermantes pour peu de chose parce qu'elle
connaissait des actrices, etc., les dames – aujourd'hui vieilles
– de la famille la considéraient toujours comme un
personnage extraordinaire, d'une part parce qu'elles savaient
exactement sa naissance, sa primauté héraldique, ses
intimités avec ce que Mme de Forcheville eût appelé des «
royalties », mais encore parce qu'elle dédaignait de venir dans
la famille, s'y ennuyait et qu'on savait qu'on n'y pouvait
jamais compter sur elle. Ses relations théâtrales et politiques,
d'ailleurs mal sues, ne faisaient qu'augmenter sa rareté, donc
son prestige. De sorte que, tandis que dans le monde
politique et artistique on la tenait pour une créature mal
définie, une sorte de défroquée du faubourg Saint-Germain
qui fréquente les sous-secrétaires d'État et les étoiles, dans ce
même faubourg Saint-Germain, si on donnait une belle
soirée, on disait : « Est-ce même la peine d'inviter Marie
Sosthènes ? elle ne viendra pas. Enfin pour la forme, mais il
ne faut pas se faire d'illusions. » Et si, vers 10 h. ½, dans une
toilette éclatante, paraissant, de ses yeux durs pour elles,
mépriser toutes ses cousines, entrait Marie Sosthènes qui
s'arrêtait sur le seuil avec une sorte de majestueux dédain, et
si elle restait une heure, c'était une plus grande fête pour la
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vieille grande dame qui donnait la soirée qu'autrefois pour un
directeur de théâtre que Sarah Bernhardt, qui avait
vaguement promis un concours sur lequel on ne comptait
pas, fût venue et eût, avec une complaisance et une
simplicité infinies, récité, au lieu du morceau promis, vingt
autres. La présence de Marie Sosthènes, à laquelle les chefs
de cabinet parlaient de haut en bas et qui n'en continuait pas
moins (l'esprit mène ainsi le monde) à chercher à en
connaître de plus en plus, venait de classer la soirée de la
douairière, où il n'y avait pourtant que des femmes
excessivement chic, en dehors et au-dessus de toutes les
autres soirées de douairières de la même « season » (comme
aurait encore dit Mme de Forcheville), mais pour lesquelles
soirées ne s'était pas dérangée Marie Sosthènes qui était une
des femmes les plus élégantes du jour. Le nom de la jeune
femme à laquelle Bloch m'avait présenté m'était entièrement
inconnu, et celui des différents Guermantes ne devait pas lui
être très familier, car elle demanda à une Américaine à quel
titre Mme de Saint-Loup avait l'air si intime avec toute la
plus brillante société qui se trouvait là. Or, cette Américaine
était mariée au comte de Furcy, parent obscur des
Forcheville et pour lequel ils représentaient ce qu'il y a de
plus brillant au monde. Aussi répondit-elle tout
naturellement : « Quand ce ne serait que parce qu'elle est née
Forcheville. C'est ce qu'il y a de plus grand. » Encore Mme
de Furcy, tout en croyant naïvement le nom de Forcheville
supérieur à celui de Saint-Loup, savait-elle du moins ce
qu'était ce dernier. Mais la charmante amie de Bloch et de la
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duchesse de Guermantes l'ignorait absolument et, étant assez
étourdie, répondit de bonne foi à une jeune fille qui lui
demandait comment Mme de Saint-Loup était parente du
maître de la maison, le prince de Guermantes : « Par les
Forcheville », renseignement que la jeune fille communiqua,
comme si elle l'avait possédé de tout temps, à une de ses
amies, laquelle, ayant mauvais caractère et étant nerveuse,
devint rouge comme un coq la première fois qu'un monsieur
lui dit que ce n'était pas par les Forcheville que Gilberte
tenait aux Guermantes, de sorte que le monsieur crut qu'il
s'était trompé, adopta l'erreur et ne tarda pas à la propager.
Les dîners, les fêtes mondaines, étaient pour l'Américaine
une sorte d'École Berlitz. Elle entendait les noms et les
répétait sans avoir connu préalablement leur valeur, leur
portée exacte. On expliqua à quelqu'un qui demandait si
Tansonville venait à Gilberte de son père M. de Forcheville,
que cela ne venait pas du tout par là, que c'était une terre de
la famille de son mari, que Tansonville était voisin de
Guermantes, appartenait à Mme de Marsantes, mais étant
très hypothéqué, avait été racheté, en dot, par Gilberte.
Enfin un vieux de la vieille, ayant évoqué Swann ami des
Sagan et des Mouchy, et l'Américaine amie de Bloch ayant
demandé comment je l'avais connu, déclara que je l'avais
connu chez Mme de Guermantes, ne se doutant pas du
voisin de campagne, jeune ami de mon grand-père, qu'il
représentait pour moi. Des méprises de ce genre ont été
commises par les hommes les plus fameux et passent pour
particulièrement graves dans toute société conservatrice.
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Saint-Simon, voulant montrer que Louis XIV était d'une
ignorance qui « le fit tomber quelquefois, en public, dans les
absurdités les plus grossières », ne donne de cette ignorance
que deux exemples, à savoir que le Roi, ne sachant pas que
Rénel était de la famille de Clermont-Gallerande ni SaintHérem de celle de Montmorin, les traita en hommes de peu.
Du moins, en ce qui concerne Saint-Hérem, avons-nous la
consolation de savoir que le Roi ne mourut pas dans l'erreur,
car il fut détrompé « fort tard » par M. de la Rochefoucauld.
« Encore, ajoute Saint-Simon avec un peu de pitié, lui fallut-il
expliquer quelles étaient ces maisons que leur nom ne lui
apprenait pas. » Cet oubli si vivace qui recouvre si
rapidement le passé le plus récent, cette ignorance si
envahissante, créent par contre-coup une valeur d'érudition à
un petit savoir d'autant plus précieux qu'il est peu répandu,
s'appliquant à la généalogie des gens, à leurs vraies situations,
à la raison d'amour, d'argent ou autre pour quoi ils se sont
alliés à telle famille, ou mésalliés, savoir prisé dans toutes les
sociétés où règne un esprit conservateur, savoir que mon
grand-père possédait au plus haut degré, concernant la
bourgeoisie de Combray et de Paris, savoir que Saint-Simon
prisait tant que, au moment où il célèbre la merveilleuse
intelligence du prince de Conti, avant même de parler des
sciences, ou plutôt comme si c'était la première des sciences,
il le loue d'avoir été « un très bel esprit, lumineux, juste,
exact, étendu, d'une lecture infinie, qui n'oubliait rien, qui
connaissait les généalogies, leurs chimères et leurs réalités,
d'une politesse distinguée selon le rang, le mérite, rendant
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tout ce que les princes du sang doivent et qu'ils ne rendent
plus. Il s'en expliquait même et, sur leurs usurpations,
l'histoire des livres et des conversations lui fournissait de
quoi placer ce qu'il trouvait de plus obligeant sur la
naissance, les emplois, etc. » Moins brillant, pour tout ce qui
avait trait à la bourgeoisie de Combray et de Paris, mon
grand-père ne le savait pas avec moins d'exactitude et ne le
savourait pas avec moins de gourmandise. Ces gourmets-là,
ces amateurs-là étaient déjà devenus peu nombreux qui
savaient que Gilberte n'était pas Forcheville, ni Mme de
Cambremer Méséglise, ni la plus jeune une Valintonais. Peu
nombreux, peut-être même pas recrutés dans la plus haute
aristocratie (ce ne sont pas forcément les dévots, ni même
les catholiques, qui sont le plus savants concernant la
Légende Dorée ou les vitraux du XIIIe siècle), mais souvent
dans une aristocratie secondaire, plus friande de ce qu'elle
n'approche guère et qu'elle a d'autant plus le loisir d'étudier
qu'elle le fréquente moins, se retrouvant avec plaisir, faisant
la connaissance les uns des autres, donnant de succulents
dîners de corps, comme la société des bibliophiles ou des
amis de Reims, dîners où on déguste des généalogies. Les
femmes n'y sont pas admises, mais les maris rentrent en
disant à la leur : « J'ai fait un dîner intéressant. Il y avait un
M. de la Raspelière qui nous a tenus sous le charme en nous
expliquant que cette Mme de Saint-Loup qui a cette jolie fille
n'est pas du tout née Forcheville. C'est tout un roman. »
L'amie de Bloch et de la duchesse de Guermantes n'était
pas seulement élégante et charmante, elle était intelligente
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aussi, et la conversation avec elle était agréable, mais m'était
rendue difficile parce que ce n'était pas seulement le nom de
mon interlocutrice qui était nouveau pour moi, mais celui
d'un grand nombre de personnes dont elle me parla et qui
formaient actuellement le fond de la société. Il est vrai que,
d'autre part, comme elle voulait m'entendre raconter des
histoires, beaucoup de ceux que je lui citai ne lui dirent
absolument rien, ils étaient tous tombés dans l'oubli, du
moins ceux qui n'avaient brillé que de l'éclat individuel d'une
personne et n'étaient pas le nom générique et permanent de
quelque célèbre famille aristocratique (dont la jeune femme
savait rarement le titre exact, supposant des naissances
inexactes sur un nom qu'elle avait entendu de travers la veille
dans un dîner), et elle ne les avait pour la plupart jamais
entendu prononcer, n'ayant commencé à aller dans le monde
(non seulement parce qu'elle était encore jeune, mais parce
qu'elle habitait depuis peu la France et n'avait pas été reçue
tout de suite) que quelques années après que je m'en étais
moi-même retiré. De sorte que, si nous avions en commun
un même vocabulaire de mots, pour les noms, celui de
chacun de nous était différent. Je ne sais comment le nom de
Mme Leroi tomba de mes lèvres et, par hasard, mon
interlocutrice, grâce à quelque vieil ami, galant auprès d'elle,
de Mme de Guermantes, en avait entendu parler. Mais
inexactement comme je le vis au ton dédaigneux dont cette
jeune femme snob me répondit : « Si, je sais qui est Mme
Leroi, une vieille amie de Bergotte » d'un ton qui voulait dire
« une personne que je n'aurais jamais voulu faire venir chez
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moi ». Je compris très bien que le vieil ami de Mme de
Guermantes, en parfait homme du monde imbu de l'esprit
des Guermantes, dont un des traits était de ne pas avoir l'air
d'attacher d'importance aux fréquentations aristocratiques,
avait trouvé trop bête et trop anti-Guermantes de dire : «
Mme Leroi, qui fréquentait toutes les altesses, toutes les
duchesses » et il avait préféré dire : « Elle était assez drôle.
Elle a répondu un jour à Bergotte ceci. » Seulement, pour les
gens qui ne savent pas, ces renseignements par la
conversation équivalent à ceux que donne la Presse aux gens
du peuple et qui croient alternativement, selon leur journal,
que M. Loubet et M. Reinach sont des voleurs ou de grands
citoyens. Pour mon interlocutrice, Mme Leroi avait été une
espèce de Mme Verdurin première manière, avec moins
d'éclat et dont le petit clan eût été limité au seul Bergotte...
Cette jeune femme est, d'ailleurs, une des dernières qui, par
un pur hasard, ait entendu le nom de Mme Leroi.
Aujourd'hui personne ne sait plus qui c'est, ce qui est, du
reste, parfaitement juste. Son nom ne figure même pas dans
l'index des mémoires posthumes de Mme de Villeparisis, de
laquelle Mme Leroi occupa tant l'esprit. La marquise n'a,
d'ailleurs, pas parlé de Mme Leroi, moins parce que celle-ci,
de son vivant, avait été peu aimable pour elle, que parce que
personne ne pouvait s'intéresser à elle après sa mort, et ce
silence est dicté moins par la rancune mondaine de la femme
que par le tact littéraire de l'écrivain. Ma conversation avec
l'élégante amie de Bloch fut charmante, car cette jeune
femme était intelligente, mais cette différence entre nos deux
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vocabulaires la rendait malaisée et en même temps
instructive. Nous avons beau savoir que les années passent,
que la jeunesse fait place à la vieillesse, que les fortunes et les
trônes les plus solides s'écroulent, que la célébrité est
passagère, notre manière de prendre connaissance et, pour
ainsi dire, de prendre le cliché de cet univers mouvant,
entraîné par le Temps, l'immobilise au contraire. De sorte
que nous voyons toujours jeunes les gens que nous avons
connus jeunes, que ceux que nous avons connus vieux nous
les parons rétrospectivement dans le passé des vertus de la
vieillesse, que nous nous fions sans réserve au crédit d'un
milliardaire et à l'appui d'un souverain, sachant par le
raisonnement, mais ne croyant pas effectivement, qu'ils
pourront être demain des fugitifs dénués de pouvoir. Dans
un champ plus restreint et de mondanité pure, comme dans
un problème plus simple qui initie à des difficultés plus
complexes mais de même ordre, l'inintelligibilité qui résultait,
dans notre conversation avec la jeune femme, du fait que
nous avions vécu dans un certain monde à vingt-cinq ans de
distance, me donnait l'impression et aurait pu fortifier chez
moi le sens de l'histoire. Du reste, il faut bien dire que cette
ignorance des situations réelles, qui tous les dix ans fait
surgir les élus dans leur apparence actuelle et comme si le
passé n'existait pas, qui empêche, pour une Américaine
fraîchement débarquée, de voir que M. de Charlus avait eu la
plus grande situation de Paris à une époque où Bloch n'en
avait aucune, et que Swann qui faisait tant de frais pour M.
Bontemps avait été traité avec la plus grande amitié par le
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prince de Galles, cette ignorance n'existe pas seulement chez
les nouveaux venus, mais chez ceux qui ont fréquenté
toujours des sociétés voisines, et cette ignorance, chez ces
derniers comme chez les autres, est aussi un effet (mais cette
fois s'exerçant sur l'individu et non sur la courbe sociale) du
Temps. Sans doute, nous avons beau changer de milieu, de
genre de vie, notre mémoire, en retenant le fil de notre
personnalité identique, attache à elle, aux époques
successives, le souvenir des sociétés où nous avons vécu, fûtce quarante ans plus tôt. Bloch, chez le prince de
Guermantes, savait parfaitement l'humble milieu juif où il
avait vécu à dix-huit ans, et Swann, quand il n'aima plus
Mme Swann mais une femme qui servait le thé chez ce
même Colombin où Mme Swann avait cru quelque temps
qu'il était chic d'aller, comme au thé de la rue Royale, Swann
savait très bien sa valeur mondaine, se rappelant
Twickenham, n'avait aucun doute sur les raisons pour
lesquelles il allait plutôt chez Colombin que chez la duchesse
de Broglie, et savait parfaitement qu'eût-il été lui-même mille
fois moins « chic », cela ne l'eût pas empêché davantage
d'aller chez Colombin ou à l'hôtel Ritz, puisque tout le
monde peut y aller en payant. Sans doute les amis de Bloch
ou de Swann se rappelaient eux aussi la petite société juive
ou les invitations à Twickenham, et ainsi les amis, comme
des « moi » un peu moins distincts de Swann et de Bloch, ne
séparaient pas, dans leur mémoire, du Bloch élégant
d'aujourd'hui le Bloch sordide d'autrefois, du Swann de chez
Colombin des derniers jours le Swann de Buckingham
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Palace. Mais ces amis étaient, en quelque sorte, dans la vie,
les voisins de Swann ; la leur s'était développée sur une ligne
assez voisine pour que leur mémoire pût être assez pleine de
lui ; mais chez d'autres plus éloignés de Swann, à une
distance plus grande de lui, non pas précisément
socialement, mais d'intimité, qui avait fait la connaissance
plus vague et les rencontres très rares, les souvenirs moins
nombreux avaient rendu les notions plus flottantes. Or, chez
des étrangers de ce genre, au bout de trente ans on ne se
rappelle plus rien de précis qui puisse prolonger dans le
passé et changer de valeur l'être qu'on a sous les yeux. J'avais
entendu, dans les dernières années de la vie de Swann, des
gens du monde pourtant, à qui on parlait de lui, dire et
comme si ç'avait été son titre de notoriété : « Vous parlez du
Swann de chez Colombin ? » J'entendais maintenant des
gens qui auraient pourtant dû savoir, dire en parlant de
Bloch : « Le Bloch-Guermantes ? Le familier des
Guermantes ? » Ces erreurs qui scindent une vie et en isolant
le présent font de l'homme dont on parle un autre homme,
un homme différent, une création de la veille, un homme qui
n'est que la condensation de ses habitudes actuelles (alors
que lui porte en lui-même la continuité de sa vie qui le relie
au passé), ces erreurs dépendent bien aussi du Temps, mais
elles sont non un phénomène social, mais un phénomène de
mémoire. J'eus dans l'instant même un exemple, d'une
variété assez différente, il est vrai, mais d'autant plus
frappante, de ces oublis qui modifient pour nous l'aspect des
êtres. Un jeune neveu de Mme de Guermantes, le marquis de
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Villemandois, avait été jadis pour moi d'une insolence
obstinée qui m'avait conduit par représailles à adopter à son
égard une attitude si insultante que nous étions devenus
tacitement comme deux ennemis. Pendant que j'étais en
train de réfléchir sur le temps, à cette matinée chez la
princesse de Guermantes, il se fit présenter à moi en disant
qu'il croyait que j'avais connu de ses parents, qu'il avait lu des
articles de moi et désirait faire ou refaire ma connaissance. Il
est vrai de dire qu'avec l'âge il était devenu, comme
beaucoup, d'impertinent sérieux, qu'il n'avait plus la même
arrogance et que, d'autre part, on parlait de moi, pour de
bien minces articles cependant, dans le milieu qu'il
fréquentait. Mais ces raisons de sa cordialité et de ses
avances ne furent qu'accessoires. La principale, ou du moins
celle qui permit aux autres d'entrer en jeu, c'est que, ou ayant
une plus mauvaise mémoire que moi, ou ayant attaché une
attention moins soutenue à mes ripostes que je n'avais fait
autrefois à ses attaques, parce que j'étais alors pour lui un
bien plus petit personnage qu'il n'était pour moi, il avait
entièrement oublié notre inimitié. Mon nom lui rappelait
tout au plus qu'il avait dû me voir, ou quelqu'un des miens,
chez une de ses tantes... Et ne sachant pas au juste s'il se
faisait présenter ou représenter, il se hâta de me parler de sa
tante, chez qui il ne doutait pas qu'il avait dû me rencontrer,
se rappelant qu'on y parlait souvent de moi, mais non de nos
querelles. Un nom, c'est tout ce qui reste bien souvent pour
nous d'un être, non pas même quand il est mort, mais de son
vivant. Et nos notions actuelles sur lui sont si vagues ou si
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bizarres, et correspondent si peu à celles que nous avons
eues de lui, que nous avons entièrement oublié que nous
avons failli nous battre en duel avec lui, mais que nous nous
rappelons qu'il portait, enfant, d'étranges guêtres jaunes aux
Champs-Élysées, dans lesquels par contre, malgré que nous
le lui assurions, il n'a aucun souvenir d'avoir joué avec nous.
Bloch était entré en sautant comme une hyène. Je pensais : «
Il vient dans des salons où il n'eût pas pénétré il y a vingt
ans. » Mais il avait aussi vingt ans de plus. Il était plus près de
la mort. À quoi cela l'avançait-il ? De près, dans la
translucidité d'un visage où, de plus loin et mal éclairé, je ne
voyais que la jeunesse gaie (soit qu'elle y survécût, soit que je
l'y évoquasse), se tenait le visage presque effrayant, tout
anxieux, d'un vieux Shylock attendant, tout grimé dans la
coulisse, le moment d'entrer en scène, récitant déjà les
premiers vers à mi-voix. Dans dix ans, dans ces salons où
leur veulerie l'aurait imposé, il entrerait en béquillant, devenu
maître, trouvant une corvée d'être obligé d'aller chez les La
Trémoïlle. À quoi cela l'avançait-il ?
Des changements produits dans la société je pouvais
d'autant plus extraire des vérités importantes et dignes de
cimenter une partie de mon œuvre qu'ils n'étaient nullement,
comme j'aurais pu être au premier moment tenté de le croire,
particuliers à notre époque. Au temps où moi-même, à peine
parvenu, j'étais entré, plus nouveau que ne l'était Bloch luimême aujourd'hui, dans le milieu des Guermantes, j'avais dû
y contempler, comme faisant partie intégrante de ce milieu,
des éléments absolument différents, agrégés depuis peu et
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qui paraissaient étrangement nouveaux à de plus anciens
dont je ne les différenciais pas et qui eux-mêmes, crus, par
les ducs d'alors, membres de tout temps du faubourg, y
avaient, eux, ou leurs pères, ou leurs grands-pères, été jadis
des parvenus. Si bien que ce n'était pas la qualité d'hommes
du grand monde qui rendait cette société si brillante, mais le
fait d'avoir été assimilés plus ou moins complètement par
cette société qui faisait, de gens qui cinquante ans plus tard
paraissaient tous pareils, des gens du grand monde. Même
dans le passé où je reculais le nom de Guermantes pour lui
donner toute sa grandeur, et avec raison du reste, car sous
Louis XIV les Guermantes, quasi royaux, faisaient plus
grande figure qu'aujourd'hui, le phénomène que je
remarquais en ce moment se produisait de même. Ne les
avait-on pas vus alors s'allier à la famille Colbert par
exemple, laquelle aujourd'hui, il est vrai, nous paraît très
noble puisque épouser une Colbert semble un grand parti
pour un La Rochefoucauld. Mais ce n'est pas parce que les
Colbert, simples bourgeois alors, étaient nobles, que les
Guermantes s'allièrent avec eux, c'est parce que les
Guermantes s'allièrent avec eux qu'ils devinrent nobles. Si le
nom d'Haussonville s'éteint avec le représentant actuel de
cette maison, il tirera peut-être son illustration de descendre
de Mme de Staël, alors qu'avant la Révolution, M.
d'Haussonville, un des premiers seigneurs du royaume, tirait
vanité auprès de M. de Broglie de ne pas connaître le père de
Mme de Staël et de ne pas pouvoir plus le présenter que M.
de Broglie ne pouvait le présenter lui-même, ne se doutant
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guère que leurs fils épouseraient un jour l'un la fille, l'autre la
petite-fille de l'auteur de Corinne. Je me rendais compte,
d'après ce que me disait la duchesse de Guermantes, que
j'aurais pu faire dans ce monde la figure d'homme élégant
non titré, mais qu'on croit volontiers affilié de tout temps à
l'aristocratie, que Swann y avait faite autrefois, et avant lui M.
Lebrun, M. Ampère, tous ces amis de la duchesse de Broglie,
qui elle-même était au début fort peu du grand monde. Les
premières fois que j'avais dîné chez Mme de Guermantes,
combien n'avais-je pas dû choquer des hommes comme M.
de Beauserfeuil, moins par ma présence que par des
remarques témoignant que j'étais entièrement ignorant des
souvenirs qui constituaient son passé et donnaient sa forme
à l'usage qu'il avait de la société. Bloch un jour, quand,
devenu très vieux, il aurait une mémoire assez ancienne du
salon Guermantes tel qu'il se présentait à ce moment à ses
yeux, éprouverait le même étonnement, la même mauvaise
humeur en présence de certaines intrusions et de certaines
ignorances. Et, d'autre part, il aurait sans doute contracté et
dispenserait autour de lui ces qualités de tact et de discrétion
que j'avais crues le privilège d'hommes comme M. de
Norpois, et qui se reforment et s'incarnent dans ceux qui
nous paraissent entre tous les exclure. D'ailleurs, le cas qui
s'était présenté pour moi d'être admis dans la société des
Guermantes m'avait paru quelque chose d'exceptionnel.
Mais si je sortais de moi et du milieu qui m'entourait
immédiatement, je voyais que ce phénomène social n'était
pas aussi isolé qu'il m'avait paru d'abord et que du bassin de
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Combray où j'étais né, assez nombreux, en somme, étaient
les jets d'eau qui symétriquement à moi s'étaient élevés audessus de la même masse liquide qui les avait alimentés. Sans
doute les circonstances ayant toujours quelque chose de
particulier et les caractères d'individuel, c'était de façons
toutes différentes que Legrandin (par l'étrange mariage de
son neveu) à son tour avait pénétré dans ce milieu, que la
fille d'Odette s'y était apparentée, que Swann lui-même, et
moi enfin y étions venus. Pour moi qui avais passé enfermé
dans ma vie et la voyant du dedans, celle de Legrandin me
semblait n'avoir aucun rapport et avoir suivi un chemin
opposé, de même que celui qui suit le cours d'une rivière
dans sa vallée profonde ne voit pas qu'une rivière divergente,
malgré les écarts de son cours, se jette dans le même fleuve.
Mais à vol d'oiseau, comme fait le statisticien qui néglige la
raison sentimentale, les imprudences évitables qui ont
conduit telle personne à la mort, et compte seulement le
nombre de personnes qui meurent par an, on voyait que
plusieurs personnes, parties d'un même milieu dont la
peinture a occupé le début de ce récit, étaient parvenues
dans un autre tout différent, et il est probable que, comme il
se fait par an à Paris un nombre moyen de mariages, tout
autre milieu bourgeois cultivé et riche eût fourni une
proportion à peu près égale de gens comme Swann, comme
Legrandin, comme moi et comme Bloch, qu'on retrouverait
se jetant dans l'océan du « grand monde ». Et, d'ailleurs, ils
s'y reconnaissaient, car si le jeune comte de Cambremer
émerveillait tout le monde par sa distinction, sa grâce, sa
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sobre élégance, je reconnaissais en elles – en même temps
que dans son beau regard et dans son désir ardent de
parvenir – ce qui caractérisait déjà son oncle Legrandin,
c'est-à-dire un vieil ami fort bourgeois, quoique de tournure
aristocratique, de mes parents.
La bonté, simple maturation qui a fini par sucrer des
natures plus primitivement acides que celle de Bloch, est
aussi répandue que ce sentiment de la justice qui fait que, si
notre cause est bonne, nous ne devons pas plus redouter un
juge prévenu qu'un juge ami. Et les petits-enfants de Bloch
seraient bons et discrets presque de naissance. Bloch n'en
était peut-être pas encore là. Mais je remarquai que lui, qui
jadis feignait de se croire obligé à faire deux heures de
chemin de fer pour aller voir quelqu'un qui ne le lui avait
guère demandé, maintenant qu'il recevait beaucoup
d'invitations, non seulement à déjeuner et à dîner, mais à
venir passer quinze jours ici, quinze jours là, en refusait
beaucoup et sans le dire, sans se vanter de les avoir reçues,
de les avoir refusées. La discrétion, discrétion dans les
actions, dans les paroles, lui était venue avec la situation
sociale et l'âge, avec une sorte d'âge social, si l'on peut dire.
Sans doute Bloch était jadis indiscret autant qu'incapable de
bienveillance et de conseils. Mais certains défauts, certaines
qualités sont moins attachés à tel individu, à tel autre, qu'à tel
ou tel moment de l'existence considéré au point de vue
social. Ils sont presque extérieurs aux individus, lesquels
passent dans leur lumière comme sous des solstices variés,
préexistants, généraux, inévitables. Les médecins qui
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cherchent à se rendre compte si tel médicament diminue ou
augmente l'acidité de l'estomac, active ou ralentit ses
sécrétions, obtiennent des résultats différents, non pas selon
l'estomac sur les sécrétions duquel ils prélèvent un peu de
suc gastrique, mais selon qu'ils le lui empruntent à un
moment plus ou moins avancé de l'ingestion du remède.
***
Ainsi, à chacun des moments de sa durée, le nom de
Guermantes, considéré comme un ensemble de tous les
noms qu'il admettait en lui, autour de lui, subissait des
déperditions, recrutait des éléments nouveaux, comme ces
jardins où à tout moment des fleurs à peine en bouton et se
préparant à remplacer celles qui se flétrissent déjà se
confondent dans une masse qui semble pareille, sauf à ceux
qui n'ont pas toujours vu les nouvelles venues et gardent
dans leur souvenir l'image précise de celles qui ne sont plus.
Plus d'une des personnes que cette matinée réunissait, ou
dont elle m'évoquait le souvenir, me donnait les aspects
qu'elle avait tour à tour présentés pour moi, par les
circonstances différentes, opposées, d'où elle avait, les unes
après les autres, surgi devant moi, faisait ressortir les aspects
variés de ma vie, les différences de perspective, comme un
accident de terrain, de colline ou château, qui, apparaissant
tantôt à droite, tantôt à gauche, semble d'abord dominer une
forêt, ensuite sortir d'une vallée, et révéler ainsi au voyageur
des changements d'orientation et des différences d'altitude
dans la route qu'il suit. En remontant de plus en plus haut, je
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finissais par trouver des images d'une même personne
séparées par un intervalle de temps si long, conservées par
des « moi » si distincts, ayant elles-mêmes des significations
si différentes, que je les omettais d'habitude quand je croyais
embrasser le cours passé de mes relations avec elles, que
j'avais même cessé de penser qu'elles étaient les mêmes que
j'avais connues autrefois et qu'il me fallait le hasard d'un
éclair d'attention pour les rattacher, comme à une
étymologie, à cette signification primitive qu'elles avaient eue
pour moi. Mlle Swann me jetait, de l'autre côté de la haie
d'épines roses, un regard dont j'avais dû, d'ailleurs,
rétrospectivement retoucher la signification, qui était du
désir. L'amant de Mme Swann, selon la chronique de
Combray, me regardait derrière cette même haie d'un air dur
qui n'avait pas non plus le sens que je lui avais donné alors,
et ayant, d'ailleurs, tellement changé depuis, que je ne l'avais
nullement reconnu à Balbec dans le Monsieur qui regardait
une affiche, près du Casino, et dont il m'arrivait une fois tous
les dix ans de me souvenir en me disant : « Mais c'était M. de
Charlus, déjà, comme c'est curieux. » Mme de Guermantes
au mariage du Dr Percepied, Mme Swann en rose chez mon
grand-oncle, Mme de Cambremer, sœur de Legrandin, si
élégante qu'il craignait que nous ne le priions de nous donner
une recommandation pour elle, c'étaient, ainsi que tant
d'autres concernant Swann, Saint-Loup, etc., autant d'images
que je m'amusais parfois, quand je les retrouvais, à placer
comme frontispice au seuil de mes relations avec ces
différentes personnes, mais qui ne me semblaient, en effet,
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qu'une image, et non déposée en moi par l'être lui-même,
auquel rien ne la reliait plus. Non seulement certaines gens
ont de la mémoire et d'autres pas (sans aller jusqu'à l'oubli
constant où vivent les ambassadeurs de Turquie), ce qui leur
permet de trouver toujours – la nouvelle précédente s'étant
évanouie au bout de huit jours, ou la suivante ayant le don
de l'exorciser – de la place pour la nouvelle contraire qu'on
leur dit. Mais même à égalité de mémoire, deux personnes ne
se souviennent pas des mêmes choses. L'une aura prêté peu
d'attention à un fait dont l'autre gardera grand remords, et,
en revanche, aura saisi à la volée comme signe sympathique
et caractéristique une parole que l'autre aura laissé échapper
sans presque y penser. L'intérêt de ne pas s'être trompé
quand on a émis un pronostic faux abrège la durée du
souvenir de ce pronostic et permet d'affirmer très vite qu'on
ne l'a pas émis. Enfin, un intérêt plus profond, plus
désintéressé, diversifie les mémoires, si bien que le poète, qui
a presque tout oublié des faits qu'on lui rappelle, retient une
impression fugitive. De tout cela vient qu'après vingt ans
d'absence on rencontre, au lieu de rancunes présumées, des
pardons involontaires, inconscients, et, en revanche, tant de
haines dont on ne peut s'expliquer (parce qu'on a oublié à
son tour l'impression mauvaise qu'on a faite) la raison.
L'histoire même des gens qu'on a le plus connus, on en a
oublié les dates. Et parce qu'il y avait au moins vingt ans
qu'elle avait vu Bloch pour la première fois, Mme de
Guermantes eût juré qu'il était né dans son monde et avait
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été bercé sur les genoux de la duchesse de Chartres quand il
avait deux ans.
Et combien de fois ces personnes étaient revenues devant
moi, au cours de leur vie dont les diverses circonstances
semblaient présenter les mêmes êtres, mais sous des formes
et pour des fins variées ; et la diversité des points de ma vie
par où avait passé le fil de celle de chacun de ces
personnages avait fini par mêler ceux qui semblaient le plus
éloignés, comme si la vie ne possédait qu'un nombre limité
de fils pour exécuter les dessins les plus différents. Quoi de
plus séparé, par exemple, dans mes passés divers, que mes
visites à mon oncle Adolphe, que le neveu de Mme de
Villeparisis cousine du Maréchal, que Legrandin et sa sœur,
que l'ancien giletier ami de Françoise, dans la cour ! Et
aujourd'hui tous ces fils différents s'étaient réunis pour faire
la trame ici du ménage Saint-Loup, là jadis du jeune ménage
Cambremer, pour ne pas parler de Morel et de tant d'autres
dont la conjonction avait concouru à former une
circonstance, si bien qu'il me semblait que la circonstance
était l'unité complète et le personnage seulement une partie
composante. Et ma vie était déjà assez longue pour qu'à plus
d'un des êtres qu'elle m'offrait je trouvasse dans des régions
opposées de mes souvenirs un autre être pour le compléter.
Aux Elstir que je voyais ici en une place qui était un signe de
la gloire maintenant acquise, je pouvais ajouter les plus
anciens souvenirs des Verdurin, des Cottard, la conversation
dans le restaurant de Rivebelle, la matinée où j'avais connu
Albertine, et tant d'autres. Ainsi un amateur d'art à qui on
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montre le volet d'un retable se rappelle dans quelle église,
dans quel musée, dans quelle collection particulière, les
autres sont dispersés (de même qu'en suivant les catalogues
des ventes ou en fréquentant les antiquaires, il finit par
trouver l'objet jumeau de celui qu'il possède et qui fait avec
lui la paire, il peut reconstituer dans sa tête la prédelle, l'autel
tout entier). Comme un seau, montant le long d'un treuil,
vient toucher la corde à diverses reprises et sur des côtés
opposés, il n'y avait pas de personnage, presque pas même
de choses ayant eu place dans ma vie, qui n'y eût joué tour à
tour des rôles différents. Une simple relation mondaine,
même un objet matériel, si je le retrouvais au bout de
quelques années dans mon souvenir, je voyais que la vie
n'avait pas cessé de tisser autour de lui des fils différents qui
finissaient par le feutrer de ce beau velours pareil à celui qui,
dans les vieux parcs, enveloppe une simple conduite d'eau
d'un fourreau d'émeraude.
Ce n'était pas que l'aspect de ces personnes qui donnait
l'idée de personnes de songe. Pour elles-mêmes la vie, déjà
ensommeillée dans la jeunesse et l'amour, était de plus en
plus devenue un songe. Elles avaient oublié jusqu'à leurs
rancunes, leurs haines, et pour être certaines que c'était à la
personne qui était là qu'elles n'adressaient plus la parole il y a
dix ans, il eût fallu qu'elles se reportassent à un registre, mais
qui était aussi vague qu'un rêve où on a été insulté on ne sait
plus par qui. Tous ces songes formaient les apparences
contrastées de la vie politique où on voyait dans un même
ministère des gens qui s'étaient accusés de meurtre ou de
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trahison. Et ce songe devenait épais comme la mort chez
certains vieillards, dans les jours qui suivaient celui où ils
avaient fait l'amour. Pendant ces jours-là on ne pouvait plus
rien demander au président de la République, il oubliait tout.
Puis si on le laissait se reposer quelques jours, le souvenir des
affaires publiques lui revenait, fortuit comme celui d'un rêve.
Parfois ce n'était pas en une seule image qu'apparaissait cet
être si différent de celui que j'avais connu depuis. C'est
pendant des années que Bergotte m'avait paru un doux
vieillard divin, que je m'étais senti paralysé comme par une
apparition devant le chapeau gris de Swann, le manteau
violet de sa femme, le mystère dont le nom de sa race
entourait la duchesse de Guermantes jusque dans un salon :
origines presque fabuleuses, charmante mythologie de
relations devenues si banales ensuite, mais qu'elles
prolongeaient dans le passé comme en plein ciel, avec un
éclat pareil à celui que projette la queue étincelante d'une
comète. Et même celles qui n'avaient pas commencé dans le
mystère, comme mes relations avec Mme de Souvré, si
sèches et si purement mondaines aujourd'hui, gardaient à
leurs débuts leur premier sourire, plus calme, plus doux, et si
onctueusement tracé dans la plénitude d'une après-midi au
bord de la mer, d'une fin de journée de printemps à Paris,
bruyante d'équipages, de poussière soulevée, et de soleil
remué comme de l'eau. Et peut-être Mme de Souvré n'eût
pas valu grand'chose si on l'eût détachée de ce cadre, comme
ces monuments – la Salute par exemple – qui, sans grande
beauté propre, font admirablement là où ils sont situés, mais
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elle faisait partie d'un lot de souvenirs que j'estimais à un
certain prix, « l'un dans l'autre », sans me demander pour
combien exactement la personne de Mme de Souvré y
figurait.
Une chose me frappa plus encore chez tous ces êtres que
les changements physiques, sociaux, qu'ils avaient subis, ce
fut celui qui tenait à l'idée différente qu'ils avaient les uns des
autres. Legrandin méprisait Bloch autrefois et ne lui adressait
jamais la parole. Il fut très aimable avec lui. Ce n'était pas du
tout à cause de la situation plus grande qu'avait prise Bloch,
ce qui, dans ce cas, ne mériterait pas d'être noté, car les
changements sociaux amènent forcément des changements
respectifs de position entre ceux qui les ont subis. Non ;
c'était que les gens – les gens, c'est-à-dire ce qu'ils sont pour
nous – n'ont plus dans notre mémoire l'uniformité d'un
tableau. Au gré de notre oubli, ils évoluent. Quelquefois
nous allons jusqu'à les confondre avec d'autres : « Bloch,
c'est quelqu'un qui venait à Combray », et en disant Bloch
c'était moi qu'on voulait dire. Inversement, Mme Sazerat
était persuadée que de moi était telle thèse historique sur
Philippe II (laquelle était de Bloch). Sans aller jusqu'à ces
interversions, on oublie les crasses que l'un vous a faites, ses
défauts, la dernière fois où on s'est quitté sans se serrer la
main et, en revanche, on s'en rappelle une plus ancienne, où
on était bien ensemble. Et c'est à cette fois plus ancienne que
les manières de Legrandin répondaient dans son amabilité
avec Bloch, soit qu'il eût perdu la mémoire d'un certain
passé, soit qu'il le jugeât prescrit, mélange de pardon, d'oubli,
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d'indifférence qui est aussi un effet du Temps. D'ailleurs, les
souvenirs que nous avons les uns des autres, même dans
l'amour, ne sont pas les mêmes. J'avais vu Albertine me
rappeler à merveille telle parole que je lui avais dite dans nos
premières rencontres et que j'avais complètement oubliée.
D'un autre fait enfoncé à jamais dans ma tête comme un
caillou elle n'avait aucun souvenir. Nos vies parallèles
ressemblaient aux bords de ces allées où de distance en
distance des vases de fleurs sont placés symétriquement,
mais non en face les uns des autres. À plus forte raison est-il
compréhensible que pour des gens qu'on connaît peu on se
rappelle à peine qui ils sont, ou on s'en rappelle autre chose,
mais de plus ancien, que ce qu'on en pensait autrefois,
quelque chose qui est suggéré par les gens au milieu de qui
on les retrouve, qui ne les connaissent que depuis peu, parés
de qualités et d'une situation qu'ils n'avaient pas autrefois
mais que l'oublieux accepte d'emblée.
Sans doute la vie, en mettant à plusieurs reprises ces
personnes sur mon chemin, me les avait présentées dans des
circonstances particulières qui, en les entourant de toutes
parts, m'avaient rétréci la vue que j'avais eue d'elles, et
m'avait empêché de connaître leur essence. Ces Guermantes
mêmes, qui avaient été pour moi l'objet d'un si grand rêve,
quand je m'étais approché d'abord de l'un d'eux, m'étaient
apparus sous l'aspect, l'une d'une vieille amie de grand'mère,
l'autre d'un monsieur qui m'avait regardé d'un air si
désagréable à midi dans les jardins du casino. (Car il y a entre
nous et les êtres un liséré de contingences, comme j'avais
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compris, dans mes lectures de Combray, qu'il y en a un de
perception et qui empêche la mise en contact absolue de la
réalité et de l'esprit.) De sorte que ce n'était jamais qu'après
coup, en les rapportant à un nom, que leur connaissance
était devenue pour moi la connaissance des Guermantes.
Mais peut-être cela même me rendait-il la vie plus poétique
de penser que la race mystérieuse aux yeux perçants, au bec
d'oiseau, la race rose, dorée, inapprochable, s'était trouvée si
souvent, si naturellement, par l'effet de circonstances
aveugles et différentes, s'offrir à ma contemplation, à mon
commerce, même à mon intimité, au point que, quand j'avais
voulu connaître Mlle de Stermaria ou faire faire des robes à
Albertine, c'était, comme aux plus serviables de mes amis, à
des Guermantes que je m'étais adressé. Certes, cela
m'ennuyait d'aller chez eux autant que chez les autres gens
du monde que j'avais connus ensuite. Même, pour la
duchesse de Guermantes, comme pour certaines pages de
Bergotte, son charme ne m'était visible qu'à distance et
s'évanouissait quand j'étais près d'elle, car il résidait dans ma
mémoire et dans mon imagination. Mais enfin, malgré tout,
les Guermantes, comme Gilberte aussi, différaient des autres
gens du monde en ce qu'ils plongeaient plus avant leurs
racines dans un passé de ma vie où je rêvais davantage et
croyais plus aux individus. Ce que je possédais avec ennui,
en causant en ce moment avec l'une et avec l'autre, c'était du
moins celles des imaginations de mon enfance que j'avais
trouvées le plus belles et crues le plus inaccessibles, et je me
consolais en confondant, comme un marchand qui
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s'embrouille dans ses livres, la valeur de leur possession avec
le prix auquel les avait cotées mon désir.
Mais pour d'autres êtres, le passé de mes relations avec eux
était gonflé de rêves plus ardents, formés sans espoir, où
s'épanouissait si richement ma vie d'alors, dédiée à eux tout
entière, que je pouvais à peine comprendre comment leur
exaucement était ce mince, étroit et terne ruban d'une
intimité indifférente et dédaignée où je ne pouvais plus rien
retrouver de ce qui avait fait leur mystère, leur fièvre et leur
douceur.
***
« Que devient la marquise d'Arpajon ? demanda Mme de
Cambremer. – Mais elle est morte, répondit Bloch. – Vous
confondez avec la comtesse d'Arpajon qui est morte l'année
dernière. » La princesse de Malte se mêla à la discussion ;
jeune veuve d'un vieux mari très riche et porteur d'un grand
nom, elle était beaucoup demandée en mariage et en avait
pris une grande assurance. « La marquise d'Arpajon est
morte aussi il y a à peu près un an. – Ah ! un an, je vous
réponds que non, répondit Mme de Cambremer, j'ai été à
une soirée de musique chez elle il y a moins d'un an. » Bloch,
pas plus que les « gigolos » du monde, ne put prendre part
utilement à la discussion, car toutes ces morts de personnes
âgées étaient à une distance d'eux trop grande, soit par la
différence énorme des années, soit par la récente arrivée (de
Bloch, par exemple) dans une société différente qu'il
abordait de biais, au moment où elle déclinait, dans un
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crépuscule où le souvenir d'un passé qui ne lui était pas
familier ne pouvait l'éclairer. Et pour les gens du même âge
et du même milieu, la mort avait perdu de sa signification
étrange. D'ailleurs, on faisait tous les jours prendre des
nouvelles de tant de gens à l'article de la mort, et dont les
uns s'étaient rétablis tandis que d'autres avaient « succombé
», qu'on ne se souvenait plus au juste si telle personne qu'on
n'avait jamais l'occasion de voir s'était sortie de sa fluxion de
poitrine ou avait trépassé. La mort se multipliait et devenait
plus incertaine dans ces régions âgées. À cette croisée de
deux générations et de deux sociétés qui, en vertu de raisons
différentes, mal placées pour distinguer la mort, la
confondaient presque avec la vie, la première s'était
mondanisée, était devenue un incident qui qualifiait plus ou
moins une personne ; sans que le ton dont on parlait eût l'air
de signifier que cet incident terminait tout pour elle, on disait
: « mais vous oubliez, un tel est mort », comme on eût dit : «
il est décoré » (l'adjectif était autre, quoique pas plus
important), « il est de l'Académie », ou – et cela revenait au
même puisque cela empêchait aussi d'assister aux fêtes – « il
est allé passer l'hiver dans le Midi », « on lui a ordonné les
montagnes ». Encore, pour des hommes connus, ce qu'ils
laissaient en mourant aidait à se rappeler que leur existence
était terminée. Mais pour les simples gens du monde très
âgés, on s'embrouillait sur le fait qu'ils fussent morts ou non,
non seulement parce qu'on connaissait mal ou qu'on avait
oublié leur passé, mais parce qu'ils ne tenaient en quoi que ce
soit à l'avenir. Et la difficulté qu'avait chacun de faire un
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triage entre les maladies, l'absence, la retraite à la campagne,
la mort des vieilles gens du monde, consacrait, tout autant
que l'indifférence des hésitants, l'insignifiance des défunts.
« Mais si elle n'est pas morte, comment se fait-il qu'on ne
la voie plus jamais, ni son mari non plus ? demanda une
vieille fille qui aimait faire de l'esprit. – Mais je te dirai, reprit
la mère, qui, quoique quinquagénaire, ne manquait pas une
fête, que c'est parce qu'ils sont vieux, et qu'à cet âge-là on ne
sort plus. » Il semblait qu'il y eût avant le cimetière toute une
cité close des vieillards, aux lampes toujours allumées dans la
brume. Mme de Sainte-Euverte trancha le débat en disant
que la comtesse d'Arpajon était morte, il y avait un an, d'une
longue maladie, mais que la marquise d'Arpajon était morte
aussi depuis, très vite, « d'une façon tout à fait insignifiante »,
mort qui par là ressemblait à toutes ces vies, et par là aussi
expliquait qu'elle eût passé inaperçue, excusait ceux qui
confondaient. En entendant que Mme d'Arpajon était
vraiment morte, la vieille fille jeta sur sa mère un regard
alarmé, car elle craignait que d'apprendre la mort d'une de
ses « contemporaines » ne la « frappât » ; elle croyait
entendre d'avance parler de la mort de sa propre mère avec
cette explication : « Elle avait été « très frappée » par la mort
de Madame d'Arpajon. » Mais la mère, au contraire, se faisait
à elle-même l'effet de l'avoir emporté dans un concours sur
des concurrents de marque, chaque fois qu'une personne de
son âge « disparaissait ». Leur mort était la seule manière
dont elle prît encore agréablement conscience de sa propre
vie. La vieille fille s'aperçut que sa mère, qui n'avait pas
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semblé fâchée de dire que Mme d'Arpajon était recluse dans
les demeures d'où ne sortent plus guère les vieillards fatigués,
l'avait été moins encore d'apprendre que la marquise était
entrée dans la Cité d'après, celle d'où on ne sort plus. Cette
constatation de l'indifférence de sa mère amusa l'esprit
caustique de la vieille fille. Et pour faire rire ses amies, plus
tard, elle fit un récit désopilant de la manière allègre,
prétendait-elle, dont sa mère avait dit en se frottant les mains
: « Mon Dieu, il est bien vrai que cette pauvre Madame
d'Arpajon est morte. » Même pour ceux qui n'avaient pas
besoin de cette mort pour se réjouir d'être vivants, elle les
rendit heureux. Car toute mort est pour les autres une
simplification d'existence, ôte le scrupule de se montrer
reconnaissant, l'obligation de faire des visites. Toutefois,
comme je l'ai dit, ce n'est pas ainsi que la mort de M.
Verdurin avait été accueillie par Elstir.
***
Une dame sortit, car elle avait d'autres matinées et devait
aller goûter avec deux reines. C'était cette grande cocotte du
monde que j'avais connue autrefois, la princesse de Nassau.
Mis à part le fait que sa taille avait diminué – ce qui lui
donnait l'air, par sa tête située à une bien moindre hauteur
qu'elle n'était autrefois, d'avoir ce qu'on appelle « un pied
dans la tombe » – on aurait à peine pu dire qu'elle avait
vieilli. Elle restait une Marie-Antoinette au nez autrichien, au
regard délicieux, conservée, embaumée grâce à mille fards
adorablement unis qui lui faisaient une figure lilas. Il flottait
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sur elle cette expression confuse et tendre d'être obligée de
partir, de promettre tendrement de revenir, de s'esquiver
discrètement, qui tenait à la foule des réunions d'élite où on
l'attendait. Née presque sur les marches d'un trône, mariée
trois fois, entretenue longtemps et richement par de grands
banquiers, sans compter les mille fantaisies qu'elle s'était
offertes, elle portait légèrement, comme ses yeux admirables
et ronds, comme sa figure fardée et comme sa robe mauve,
les souvenirs un peu embrouillés de ce passé innombrable.
Comme elle passait devant moi en se sauvant « à l'anglaise »,
je la saluai. Elle me reconnut, elle me serra la main et fixa sur
moi ses rondes prunelles mauves de l'air qui voulait dire : «
Comme il y a longtemps que nous nous sommes vus, nous
parlerons de cela une autre fois. » Elle me serrait la main
avec force, ne se rappelant pas au juste si en voiture, un soir
qu'elle me ramenait de chez la duchesse de Guermantes, il y
avait eu ou non une passade entre nous. À tout hasard, elle
sembla faire allusion à ce qui n'avait pas été, chose qui ne lui
était pas difficile puisqu'elle prenait un air de tendresse pour
une tarte aux fraises et revêtait, si elle était obligée de partir
avant la fin de la musique, l'attitude désespérée d'un abandon
qui toutefois ne serait pas définitif. Incertaine, d'ailleurs, sur
la passade avec moi, son serrement furtif ne s'attarda pas et
elle ne me dit pas un mot. Elle me regarda seulement comme
j'ai dit, d'une façon qui signifiait « qu'il y a longtemps ! » et
où repassaient ses maris, les hommes qui l'avaient
entretenue, deux guerres, et ses yeux stellaires, semblables à
une horloge astronomique taillée dans une opale, marquèrent
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successivement toutes ces heures solennelles d'un passé si
lointain, qu'elle retrouvait à tout moment quand elle voulait
vous dire un bonjour qui était toujours une excuse. Puis
m'ayant quitté, elle se mit à trotter vers la porte pour qu'on
ne se dérangeât pas pour elle, pour me montrer que, si elle
n'avait pas causé avec moi, c'est qu'elle était pressée, pour
rattraper la minute perdue à me serrer la main afin d'être
exacte chez la reine d'Espagne qui devait goûter seule avec
elle. Même, près de la porte, je crus qu'elle allait prendre le
pas de course. Elle courait, en effet, à son tombeau.
Pendant ce temps on entendait la princesse de
Guermantes répéter d'un air exalté et d'une voix de ferraille
que lui faisait son râtelier : « Oui, c'est cela, nous ferons clan
! nous ferons clan ! J'aime cette jeunesse si intelligente, si
participante, ah ! quelle mugichienne vous êtes ! » Elle
parlait, son gros monocle dans son œil rond, mi-amusé, mis'excusant de ne pouvoir soutenir la gaîté longtemps, mais
jusqu'au bout elle était décidée à « participer », à « faire clan
».
***
Je m'étais assis à côté de Gilberte de Saint-Loup. Nous
parlâmes beaucoup de Robert, Gilberte en parlait sur un ton
déférent, comme si c'eût été un être supérieur qu'elle tenait à
me montrer qu'elle avait admiré et compris. Nous nous
rappelâmes l'un à l'autre combien les idées qu'il exposait jadis
sur l'art de la guerre (car il lui avait souvent redit à
Tansonville les mêmes thèses que je lui avais entendu
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exposer à Doncières et plus tard) s'étaient souvent et, en
somme, sur un grand nombre de points trouvées vérifiées
par la dernière guerre. « Je ne puis vous dire à quel point la
moindre des choses qu'il me disait à Doncières et aussi
pendant la guerre me frappe maintenant. Les dernières
paroles que j'ai entendues de lui, quand nous nous sommes
quittés pour ne plus nous revoir, étaient qu'il attendait
Hindenburg, général napoléonien, à un des types de la
bataille napoléonienne, celle qui a pour but de séparer deux
adversaires, peut-être, avait-il ajouté, les Anglais et nous. Or,
à peine un an après la mort de Robert, un critique pour
lequel il avait une profonde admiration et qui exerçait
visiblement une grande influence sur ses idées militaires, M.
Henry Bidou, disait que l'offensive d'Hindenburg en mars
1918, c'était « la bataille de séparation d'un adversaire massé
contre deux adversaires en ligne, manœuvre que l'Empereur
a réussie en 1796 sur l'Apennin et qu'il a manquée en 1815
en Belgique ». Quelques instants auparavant, Robert
comparait devant moi les batailles à des pièces où il n'est pas
toujours facile de savoir ce qu'a voulu l'auteur, où lui-même
a changé son plan en cours de route. Or, pour cette
offensive allemande de 1918, sans doute, en l'interprétant de
cette façon Robert ne serait pas d'accord avec M. Bidou.
Mais d'autres critiques pensent que c'est le succès
d'Hindenburg dans la direction d'Amiens, puis son arrêt
forcé, son succès dans les Flandres, puis l'arrêt encore qui
ont fait, accidentellement en somme, d'Amiens, puis de
Boulogne, des buts qu'il ne s'était pas préalablement
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assignés. Et, chacun pouvant refaire une pièce à sa manière,
il y en a qui voient dans cette offensive l'annonce d'une
marche foudroyante sur Paris, d'autres des coups de boutoir
désordonnés pour détruire l'armée anglaise. Et même si les
ordres donnés par le chef s'opposent à telles ou telles
conceptions, il restera toujours aux critiques le moyen de
dire, comme Mounet-Sully à Coquelin qui l'assurait que le
Misanthrope n'était pas la pièce triste, dramatique qu'il
voulait jouer (car Molière, au témoignage des contemporains,
en donnait une interprétation comique et y faisait rire) : « Hé
bien, c'est que Molière se trompait. »
« Et sur les avions, répondit Gilberte, vous rappelez-vous
quand il disait – il avait de si jolies phrases – : « il faut que
chaque armée soit un Argus aux cent yeux ». Hélas ! il n'a pu
voir la vérification de ses dires. – Mais si, répondis-je, à la
bataille de la Somme, il a bien su qu'on a commencé par
aveugler l'ennemi en lui crevant les yeux, en détruisant ses
avions et ses ballons captifs. – Ah ! oui, c'est vrai » Et
comme depuis qu'elle ne vivait plus que pour l'intelligence,
elle était devenue un peu pédante : « Et lui qui prétendait
aussi qu'on reviendrait aux anciens moyens. Savez-vous que
les expéditions de Mésopotamie dans cette guerre (elle avait
dû lire cela à l'époque, dans les articles de Brichot) évoquent
à tout moment, inchangée, la retraite de Xénophon ? Et
pour aller du Tigre à l'Euphrate, le commandement anglais
s'est servi de bellones, bateaux longs et étroits, gondoles de
ce pays, et dont se servaient déjà les plus antiques Chaldéens.
» Ces paroles me donnaient bien le sentiment de cette
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stagnation du passé qui dans certains lieux, par une sorte de
pesanteur spécifique, s'immobilise indéfiniment, si bien
qu'on peut le retrouver tel quel. Et j'avoue que, pensant aux
lectures que j'avais faites à Balbec, non loin de Robert, j'étais
très impressionné – comme dans la campagne de France de
retrouver la tranchée de Mme de Sévigné – en Orient, à
propos du siège de Kout-el-Amara (Kout-l'émir, comme
nous disons Vaux-le-Vicomte et Boilleau-l'Évêque, aurait dit
le curé de Combray, s'il avait étendu sa soif d'étymologie aux
langues orientales), de voir revenir auprès de Bagdad ce nom
de Bassorah dont il est tant question dans les Mille et une
Nuits et que gagne chaque fois, après avoir quitté Bagdad ou
avant d'y rentrer, pour s'embarquer ou débarquer, bien avant
le général Townsend, aux temps des Khalifes, Simbad le
Marin.
« Il y a un côté de la guerre qu'il commençait à apercevoir,
dis-je, c'est qu'elle est humaine, se vit comme un amour ou
comme une haine, pourrait être racontée comme un roman,
et que par conséquent, si tel ou tel va répétant que la
stratégie est une science, cela ne l'aide en rien à comprendre
la guerre, parce que la guerre n'est pas stratégique. L'ennemi
ne connaît pas plus nos plans que nous ne savons le but
poursuivi par la femme que nous aimons, et ces plans peutêtre ne les savons-nous pas nous-mêmes. Les Allemands,
dans l'offensive de mars 1918, avaient-ils pour but de
prendre Amiens ? Nous n'en savons rien. Peut-être ne le
savaient-ils pas eux-mêmes, et est-ce l'événement de leur
progression à l'ouest, vers Amiens, qui détermina leur projet.
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À supposer que la guerre soit scientifique, encore faudrait-il
la peindre comme Elstir peignait la mer, par l'autre sens, et
partir des illusions, des croyances qu'on rectifie peu à peu,
comme Dostoïevski raconterait une vie. D'ailleurs, il est trop
certain que la guerre n'est point stratégique, mais plutôt
médicale, comportant des accidents imprévus que le clinicien
pouvait espérer éviter, comme la Révolution russe. »
Dans toute cette conversation, Gilberte m'avait parlé de
Robert avec une déférence qui semblait plus s'adresser à
mon ancien ami qu'à son époux défunt. Elle avait l'air de me
dire : « Je sais combien vous l'admiriez. Croyez bien que j'ai
su comprendre l'être supérieur qu'il était. » Et pourtant,
l'amour que certainement elle n'avait plus pour son souvenir
était peut-être encore la cause lointaine de particularités de sa
vie actuelle. Ainsi Gilberte avait maintenant pour amie
inséparable Andrée. Quoique celle-ci commençât, surtout à
la faveur du talent de son mari et de sa propre intelligence, à
pénétrer non pas, certes, dans le milieu des Guermantes,
mais dans un monde infiniment plus élégant que celui qu'elle
fréquentait jadis, on fut étonné que la marquise de SaintLoup condescendît à devenir sa meilleure amie. Le fait
sembla être un signe, chez Gilberte, de son penchant pour ce
qu'elle croyait une existence artistique, et pour une véritable
déchéance sociale. Cette explication peut être la vraie. Une
autre pourtant vint à mon esprit, toujours fort pénétré de ce
fait que les images que nous voyons assemblées quelque part
sont généralement le reflet, ou d'une façon quelconque
l'effet, d'un premier groupement, assez différent quoique
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symétrique, d'autres images extrêmement éloignées du
second. Je pensais que si on voyait tous les soirs ensemble
Andrée, son mari et Gilberte, c'était peut-être parce que, tant
d'années auparavant, on avait pu voir le futur mari d'Andrée
vivant avec Rachel, puis la quittant pour Andrée. Il est
probable que Gilberte alors, dans le monde trop distant, trop
élevé, où elle vivait, n'en avait rien su. Mais elle avait dû
l'apprendre plus tard, quand Andrée avait monté et qu'ellemême avait descendu assez pour qu'elles pussent
s'apercevoir. Alors avait dû exercer sur elle un grand prestige
de la femme pour laquelle Rachel avait été quittée par
l'homme, pourtant séduisant sans doute, qu'elle avait préféré
à Robert.
Ainsi peut-être la vue d'Andrée rappelait à Gilberte le
roman de jeunesse qu'avait été son amour pour Robert, et lui
inspirait aussi un grand respect pour Andrée, de laquelle était
toujours amoureux un homme tant aimé par cette Rachel
que Gilberte sentait avoir été plus aimée de Saint-Loup
qu'elle ne l'avait été elle-même. Peut-être, au contraire, ces
souvenirs ne jouaient-ils aucun rôle dans la prédilection de
Gilberte pour ce ménage artiste et fallait-il y voir simplement
– comme chez beaucoup – l'épanouissement des goûts,
habituellement inséparables chez les femmes du monde, de
s'instruire et de s'encanailler. Peut-être Gilberte avait-elle
oublié Robert autant que moi Albertine, et si même elle
savait que c'était Rachel que l'artiste avait quittée pour
Andrée, ne pensait-elle jamais, quand elle les voyait, à ce fait
qui n'avait jamais joué aucun rôle dans son goût pour eux.
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On n'aurait pu décider si mon explication première n'était
pas seulement possible, mais était vraie, que grâce au
témoignage des intéressés, seul recours qui reste en pareil
cas, s'ils pouvaient apporter dans leurs confidences de la
clairvoyance et de la sincérité. Or la première s'y rencontre
rarement et la seconde jamais.
« Mais comment venez-vous dans des matinées si
nombreuses ? me demanda Gilberte. Vous retrouver dans
une grande tuerie comme cela, ce n'est pas ainsi que je vous
schématisais. Certes, je m'attendais à vous voir partout
ailleurs qu'à un des grands tralalas de ma tante, puisque tante
il y a », ajouta-t-elle d'un air fin, car étant Mme de SaintLoup depuis un peu plus longtemps que Mme Verdurin
n'était entrée dans la famille, elle se considérait comme une
Guermantes de tout temps et atteinte par la mésalliance que
son oncle avait faite en épousant Mme Verdurin, qu'il est
vrai elle avait entendu railler mille fois devant elle, dans la
famille, tandis que, naturellement, ce n'était que hors de sa
présence qu'on avait parlé de la mésalliance qu'avait faite
Saint-Loup en l'épousant. Elle affectait, d'ailleurs, d'autant
plus de dédain pour cette tante mauvais teint que la
princesse de Guermantes, par l'espèce de perversion qui
pousse les gens intelligents à s'évader du chic habituel, par le
besoin aussi de souvenirs qu'ont les gens âgés, pour tâcher
de donner un passé à son élégance nouvelle aimait à dire, en
parlant de Gilberte : « Je vous dirai que ce n'est pas pour moi
une relation nouvelle, j'ai énormément connu la mère de
cette petite ; tenez, c'était une grande amie à ma cousine
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Marsantes. C'est chez moi qu'elle a connu le père de
Gilberte. Quant au pauvre Saint-Loup, je connaissais
d'avance toute sa famille, son propre oncle était mon intime
autrefois à la Raspelière. » « Vous voyez que les Verdurin
n'étaient pas du tout des bohèmes, me disaient les gens qui
entendaient parler ainsi la princesse de Guermantes, c'étaient
des amis de tout temps de la famille de Mme de Saint-Loup.
» J'étais peut-être seul à savoir par mon grand-père qu'en
effet les Verdurin n'étaient pas des bohèmes. Mais ce n'était
pas précisément parce qu'ils avaient connu Odette. Mais on
arrange aisément les récits du passé que personne ne connaît
plus, comme ceux des voyages dans les pays où personne
n'est jamais allé. « Enfin, conclut Gilberte, puisque vous
sortez quelquefois de votre Tour d'Ivoire, des petites
réunions intimes chez moi, où j'inviterais des esprits
sympathiques, ne vous conviendraient-elles pas mieux ? Ces
grandes machines comme ici sont bien peu faites pour vous.
Je vous voyais causer avec ma tante Oriane, qui a toutes les
qualités qu'on voudra, mais à qui nous ne ferons pas tort,
n'est-ce pas, en déclarant qu'elle n'appartient pas à l'élite
pensante. » Je ne pouvais mettre Gilberte au courant des
pensées que j'avais depuis une heure, mais je crus que, sur un
point de pure distraction, elle pourrait servir mes plaisirs,
lesquels, en effet, ne me semblaient pas devoir être de parler
littérature avec la duchesse de Guermantes plus qu'avec
Mme de Saint-Loup. Certes, j'avais l'intention de
recommencer dès demain, bien qu'avec un but cette fois, à
vivre dans la solitude. Même chez moi je ne laisserais pas les
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gens venir me voir dans mes instants de travail, car le devoir
de faire mon œuvre primait celui d'être poli, ou même bon.
Ils insisteraient sans doute. Ceux qui ne m'avaient pas vu
depuis si longtemps, venaient de me retrouver et me
jugeaient guéri. Ils insisteraient, venant quand le labeur de
leur journée, de leur vie, serait fini ou interrompu, et ayant
alors le même besoin de moi que j'avais eu autrefois de
Saint-Loup, et cela parce que, comme je m'en étais aperçu à
Combray quand mes parents me faisaient des reproches au
moment où je venais de prendre à leur insu les plus louables
résolutions, les cadrans intérieurs qui sont départis aux
hommes ne sont pas tous réglés à la même heure, l'un sonne
celle du repos en même temps que l'autre celle du travail,
l'un celle du châtiment par le juge quand chez le coupable
celle du repentir et du perfectionnement intérieur est sonnée
depuis longtemps. Mais j'aurais le courage de répondre à
ceux qui viendraient me voir ou me feraient chercher que
j'avais, pour des choses essentielles au courant desquelles il
fallait que je fusse mis sans retard, un rendez-vous urgent,
capital, avec moi-même. Et pourtant, bien qu'il y ait peu de
rapport entre notre moi véritable et l'autre, à cause de
l'homonymat et du corps commun aux deux, l'abnégation
qui vous fait faire le sacrifice des devoirs plus faciles, même
des plaisirs, paraît aux autres de l'égoïsme. Et d'ailleurs,
n'était-ce pas pour m'occuper d'eux que je vivrais loin de
ceux qui se plaindraient de ne pas me voir, pour m'occuper
d'eux plus à fond que je n'aurais pu le faire avec eux, pour
chercher à les révéler à eux-mêmes, à les réaliser ? À quoi eût
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servi que, pendant des années encore, j'eusse perdu des
soirées à faire glisser sur l'écho à peine expiré de leurs
paroles le son tout aussi vain des miennes, pour le stérile
plaisir d'un contact mondain qui exclut toute pénétration ?
Ne valait-il pas mieux que ces gestes qu'ils faisaient, ces
paroles qu'ils disaient, leur vie, leur nature, j'essayasse d'en
décrire la courbe et d'en dégager la loi ? Malheureusement,
j'aurais à lutter contre cette habitude de se mettre à la place
des autres qui, si elle favorise la conception d'une œuvre, en
retarde l'exécution. Car, par une politesse supérieure, elle
pousse à sacrifier aux autres non seulement son plaisir, mais
son devoir, quand, se mettant à la place des autres, le devoir
quel qu'il soit, fût-ce, pour quelqu'un qui ne peut rendre
aucun service au front, de rester à l'arrière s'il est utile,
paraîtra comme, ce qu'il n'est pas en réalité, notre plaisir. Et
bien loin de me croire malheureux de cette vie sans amis,
sans causerie, comme il est arrivé aux plus grands de le
croire, je me rendais compte que les forces d'exaltation qui
se dépensent dans l'amitié sont une sorte de porte-à-faux
visant une amitié particulière qui ne mène à rien et se
détournent d'une vérité vers laquelle elles étaient capables de
nous conduire. Mais enfin, quand des intervalles de repos et
de société me seraient nécessaires, je sentais que, plutôt que
les conversations intellectuelles que les gens du monde
croient utiles aux écrivains, de légères amours avec des
jeunes filles en fleurs seraient un aliment choisi que je
pourrais à la rigueur permettre à mon imagination semblable
au cheval fameux qu'on ne nourrissait que de roses ! Ce que
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tout d'un coup je souhaitais de nouveau, c'est ce dont j'avais
rêvé à Balbec, quand, sans les connaître encore, j'avais vu
passer devant la mer Albertine, Andrée et leurs amies. Mais
hélas ! je ne pouvais plus chercher à retrouver celles que
justement en ce moment je désirais si fort. L'action des
années qui avait transformé tous les êtres que j'avais vus
aujourd'hui, et Gilberte elle-même, avait certainement fait de
toutes celles qui survivaient, comme elle eût fait d'Albertine
si elle n'avait pas péri, des femmes trop différentes de ce que
je me rappelais. Je souffrais d'être obligé de moi-même à
atteindre celles-là, car le temps qui change les êtres ne
modifie pas l'image que nous avons gardée d'eux. Rien n'est
plus douloureux que cette opposition entre l'altération des
êtres et la fixité du souvenir, quand nous comprenons que ce
qui a gardé tant de fraîcheur dans notre mémoire n'en peut
plus avoir dans la vie, que nous ne pouvons, au dehors, nous
rapprocher de ce qui nous paraît si beau au-dedans de nous,
de ce qui excite en nous un désir, pourtant si individuel, de le
revoir. Ce violent désir que la mémoire excitait en moi pour
ces jeunes filles vues jadis, je sentais que je ne pourrais
espérer l'assouvir qu'à condition de le chercher dans un être
du même âge, c'est-à-dire dans un autre être. J'avais pu
souvent soupçonner que ce qui semble unique dans une
personne qu'on désire ne lui appartient pas. Mais le temps
écoulé m'en donnait une preuve plus complète, puisque,
après vingt ans, spontanément, je voulais chercher, au lieu
des filles que j'avais connues, celles possédant maintenant la
jeunesse que les autres avaient alors. D'ailleurs, ce n'est pas
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seulement le réveil de nos désirs charnels qui ne correspond
à aucune réalité parce qu'il ne tient pas compte du temps
perdu. Il m'arrivait parfois de souhaiter que par un miracle
vinssent auprès de moi, restées vivantes contrairement à ce
que j'avais cru, ma grand'mère, Albertine. Je croyais les voir,
mon cœur s'élançait vers elles. J'oubliais seulement une
chose, c'est que, si elles vivaient en effet, Albertine aurait à
peu près maintenant l'aspect que m'avait présenté à Balbec
Mme Cottard, et que ma grand'mère, ayant plus de quatrevingt-quinze ans, ne me montrerait rien du beau visage
calme et souriant avec lequel je l'imaginais encore
maintenant, aussi arbitrairement qu'on donne une barbe à
Dieu le Père, ou qu'on représentait, au XVIIe siècle, les
héros d'Homère avec un accoutrement de gentilshommes et
sans tenir compte de leur antiquité. Je regardai Gilberte et je
ne pensai pas : « Je voudrais la revoir », mais je lui dis qu'elle
me ferait toujours plaisir en m'invitant avec des jeunes filles,
sans que j'eusse, d'ailleurs, à leur rien demander que de faire
renaître en moi les rêveries, les tristesses d'autrefois, peutêtre, un jour improbable, un chaste baiser. Comme Elstir
aimait à voir incarnée devant lui, dans sa femme, la beauté
vénitienne, qu'il avait si souvent peinte dans ses œuvres, je
me donnais l'excuse d'être attiré, par un certain égoïsme
esthétique, vers les belles femmes qui pouvaient me causer
de la souffrance, et j'avais un certain sentiment d'idolâtrie
pour les futures Gilberte, les futures duchesses de
Guermantes, les futures Albertine que je pourrais rencontrer,
et qui, me semblait-il, pourraient m'inspirer, comme un
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sculpteur qui se promène au milieu de beaux marbres
antiques. J'aurais dû pourtant penser qu'antérieur à chacune
était mon sentiment du mystère où elles baignaient et
qu'ainsi, plutôt que de demander à Gilberte de me faire
connaître des jeunes filles, j'aurais mieux fait d'aller dans ces
lieux où rien ne nous rattache à elles, où entre elles et soi on
sent quelque chose d'infranchissable, où, à deux pas, sur la
plage, allant au bain, on se sent séparé d'elles par
l'impossible. C'est ainsi que mon sentiment du mystère avait
pu s'appliquer successivement à Gilberte, à la duchesse de
Guermantes, à Albertine, à tant d'autres. Sans doute
l'inconnu et presque l'inconnaissable était devenu le
commun, le familier, indifférent ou douloureux, mais
retenant de ce qu'il avait été un certain charme. Et, à vrai
dire, comme dans ces calendriers que le facteur nous apporte
pour avoir ses étrennes, il n'était pas une de mes années qui
n'ait eu à son frontispice, ou intercalée dans ses jours, l'image
d'une femme que j'y avais désirée ; image souvent d'autant
plus arbitraire que parfois je n'avais pas vu cette femme,
quand c'était, par exemple, la femme de chambre de Mme
Putbus, Mlle d'Orgeville, ou telle jeune fille dont j'avais vu le
nom dans le compte rendu mondain d'un journal, parmi
l'essaim des charmantes valseuses. Je la devinais belle,
m'éprenais d'elle, et lui composais un corps idéal dominant
de toute sa hauteur un paysage de la province où j'avais lu,
dans l'Annuaire des Châteaux, que se trouvaient les
propriétés de sa famille. Pour les femmes que j'avais
connues, ce paysage était au moins double. Chacune
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s'élevait, à un point différent de ma vie, dressée comme une
divinité protectrice et locale, d'abord au milieu d'un de ces
paysages rêvés dont la juxtaposition quadrillait ma vie et où
je m'étais attaché à l'imaginer ; ensuite, vue du côté du
souvenir entourée des sites où je l'avais connue et qu'elle me
rappelait, y restant attachée, car si notre vie est vagabonde
notre mémoire est sédentaire, et nous avons beau nous
élancer sans trêve, nos souvenirs, eux, rivés aux lieux dont
nous nous détachons, continuent à y continuer leur vie
casanière, comme ces amis momentanés que le voyageur
s'était faits dans une ville et qu'il est obligé d'abandonner
quand il la quitte, parce que c'est là qu'eux, qui ne partent
pas, finiront leur journée et leur vie comme s'il était là
encore, au pied de l'église, devant la porte et sous les arbres
du cours. Si bien que l'ombre de Gilberte s'allongeait, non
seulement devant une église de l'Île-de-France où je l'avais
imaginée, mais aussi sur l'allée d'un parc, du côté de
Méséglise, celle de Mme de Guermantes dans un chemin
humide où montaient en quenouilles des grappes violettes et
rougeâtres, ou sur l'or matinal d'un trottoir parisien. Et cette
seconde personne, celle née non du désir, mais du souvenir,
n'était, pour chacune de ces femmes, unique. Car, chacune,
je l'avais connue à diverses reprises, en des temps différents
où elle était une autre pour moi, où moi-même j'étais autre,
baignant dans des rêves d'une autre couleur. Or la loi qui
avait gouverné les rêves de chaque année maintenant
assemblés autour d'eux les souvenirs d'une femme que j'y
avais connue, tout ce qui se rapportait, par exemple, à la
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duchesse de Guermantes au temps de mon enfance, était
concentré, par une force attractive, autour de Combray, et
tout ce qui avait trait à la duchesse de Guermantes qui allait
tout à l'heure m'inviter à déjeuner, autour d'un sensitif tout
différent ; il y avait plusieurs duchesses de Guermantes,
comme il y avait eu, depuis la dame en rose, plusieurs Mmes
Swann, séparées par l'éther incolore des années, et de l'une à
l'autre desquelles je ne pouvais pas plus sauter que si j'avais
eu à quitter une planète pour aller dans une autre planète que
l'éther en sépare. Non seulement séparée, mais différente,
parée des rêves que j'avais eus dans des temps si différents,
comme d'une flore particulière, qu'on ne retrouvera pas dans
une autre planète ; au point qu'après avoir pensé que je
n'irais déjeuner ni chez Mme de Forcheville, ni chez Mme de
Guermantes, je ne pouvais me dire, tant cela m'eût
transporté dans un monde autre, que l'une n'était pas une
personne différente de la duchesse de Guermantes qui
descendait de Geneviève de Brabant, et l'autre de la Dame
en rose, que parce qu'en moi un homme instruit me
l'affirmait avec la même autorité qu'un savant qui m'eût
affirmé qu'une voie lactée de nébuleuses était due à la
segmentation d'une seule et même étoile. Telle Gilberte, à
qui je demandais pourtant, sans m'en rendre compte, de me
permettre d'avoir des amies comme elle avait été autrefois,
n'était plus pour moi que Mme de Saint-Loup. Je ne songeais
plus en la voyant au rôle qu'avait eu jadis dans mon amour,
oublié lui aussi par elle, mon admiration pour Bergotte, pour
Bergotte redevenu pour moi simplement l'auteur de ses
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livres, sans que je me rappelasse (que dans des souvenirs
rares et entièrement séparés) l'émoi d'avoir été présenté à
l'homme, la déception, l'étonnement de sa conversation,
dans le salon aux fourrures blanches, plein de violettes, où
on apportait si tôt, sur tant de consoles différentes, tant de
lampes. Tous les souvenirs qui composaient la première
mademoiselle Swann étaient, en effet, retranchés de la
Gilberte actuelle, retenus bien loin par les forces d'attraction
d'un autre univers, autour d'une phrase de Bergotte avec
laquelle ils faisaient corps et baignés d'un parfum d'aubépine.
La fragmentaire Gilberte d'aujourd'hui écouta ma requête en
souriant. Puis, en se mettant à y réfléchir, elle prit un air
sérieux en ayant l'air de chercher dans sa tête. Et j'en fus
heureux car cela l'empêcha de faire attention à un groupe qui
se trouvait non loin de nous et dont la vue n'eût pu certes lui
être agréable. On y remarquait la duchesse de Guermantes
en grande conversation avec une affreuse vieille femme que
je regardais sans pouvoir du tout deviner qui elle était : je
n'en savais absolument rien. « Comme c'est drôle de voir ici
Rachel », me dit à l'oreille Bloch qui passait à ce moment. Ce
nom magique rompit aussitôt l'enchantement qui avait
donné à la maîtresse de Saint-Loup la forme inconnue de
cette immonde vieille, et je la reconnus alors parfaitement.
De même, j'ai dit ailleurs que dès qu'on me nommait les
hommes dont je ne pouvais reconnaître les visages
l'enchantement cessait, et que je les reconnaissais. Pourtant il
y en eut un que, même nommé, je ne pus reconnaître, et je
crus à un homonyme, car il n'avait aucune espèce de rapport
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avec celui que non seulement j'avais connu autrefois mais
que j'avais retrouvé il y a quelques années. C'était pourtant
lui, blanchi seulement et engraissé, mais il avait rasé ses
moustaches et cela avait suffi pour lui faire perdre sa
personnalité. Pour en revenir à Rachel, c'était bien avec elle,
devenue une actrice célèbre et qui allait, au cours de cette
matinée, réciter des vers de Musset et de La Fontaine, que la
tante de Gilberte, la duchesse de Guermantes, causait en ce
moment. Or la vue de Rachel ne pouvait en tout cas être
bien agréable à Gilberte, et je fus d'autant plus ennuyé
d'apprendre qu'elle allait réciter des vers et de constater son
intimité avec la duchesse. Celle-ci, consciente depuis trop
longtemps d'occuper la première situation de Paris (ne se
rendant pas compte qu'une telle situation n'existe que dans
les esprits qui y croient et que beaucoup de nouvelles
personnes, si elles ne la voyaient nulle part, si elles ne lisaient
son nom dans le compte rendu d'aucune fête élégante,
croiraient, en effet, qu'elle n'occupait aucune situation), ne
voyait plus, qu'en visites aussi rares et aussi espacées qu'elle
pouvait, le faubourg Saint-Germain qui, disait-elle, «
l'ennuyait à mourir », et, en revanche, se passait la fantaisie
de déjeuner avec telle ou telle actrice qu'elle trouvait
délicieuse.
La duchesse hésitait encore, par peur d'une scène de M. de
Guermantes, devant Balthy et Mistinguett, qu'elle trouvait
adorables, mais avait décidément Rachel pour amie. Les
nouvelles générations en concluaient que la duchesse de
Guermantes, malgré son nom, devait être quelque demi466
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castor qui n'avait jamais été tout à fait du gratin. Il est vrai
que, pour quelques souverains dont l'intimité lui était
disputée par deux autres grandes dames, Mme de
Guermantes se donnait encore la peine de les avoir à
déjeuner. Mais, d'une part, ils viennent rarement, connaissent
des gens de peu, et la duchesse, par la superstition des
Guermantes à l'égard du vieux protocole (car à la fois les
gens bien élevés l'assommaient et elle tenait à la bonne
éducation), faisait mettre : « Sa Majesté a ordonné à la
duchesse de Guermantes », « a daigné », etc. Et les nouvelles
couches, ignorantes de ces formules, en concluaient que la
position de la duchesse était d'autant plus basse. Au point de
vue de Mme de Guermantes, cette intimité avec Rachel
pouvait signifier que nous nous étions trompés quand nous
croyions Mme de Guermantes hypocrite et menteuse dans
ses condamnations de l'élégance, quand nous croyions qu'au
moment où elle refusait d'aller chez Mme de Sainte-Euverte,
ce n'était pas au nom de l'intelligence mais du snobisme
qu'elle agissait ainsi, ne la trouvant bête que parce que la
marquise laissait voir qu'elle était snob, n'ayant pas encore
atteint son but. Mais cette intimité avec Rachel pouvait
signifier aussi que l'intelligence était, en réalité, chez la
duchesse, médiocre, insatisfaite et désireuse sur le tard,
quand elle était fatiguée du monde, de réalisations, par
ignorance totale des véritables réalités intellectuelles et une
pointe de cet esprit de fantaisie qui fait à des dames très
bien, qui se disent : « comme ce sera amusant », finir leur
soirée d'une façon à vrai dire assommante, en puisant la
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force d'aller réveiller quelqu'un, à qui finalement on ne sait
que dire, près du lit de qui on reste un moment dans son
manteau de soirée, après quoi, ayant constaté qu'il est fort
tard, on finit par aller se coucher.
Il faut ajouter qu'une vive antipathie qu'avait depuis peu
pour Gilberte la versatile duchesse pouvait lui faire prendre
un certain plaisir à recevoir Rachel, ce qui lui permettait, en
plus, de proclamer une des maximes des Guermantes, à
savoir qu'ils étaient trop nombreux pour épouser les
querelles (presque pour prendre le deuil) les uns des autres,
indépendance de « je n'ai pas à » qu'avait renforcée la
politique qu'on avait dû adopter à l'égard de M. de Charlus,
lequel, si on l'avait suivi, vous eût brouillé avec tout le
monde. Quant à Rachel, si elle s'était, en réalité, donné une
grande peine pour se lier avec la duchesse de Guermantes
(peine que la duchesse n'avait pas su démêler sous des
dédains affectés, des impolitesses voulues, qui l'avaient
piquée au jeu et lui avaient donné grande idée d'une actrice si
peu snob), sans doute cela tenait, d'une façon générale, à la
fascination que les gens du monde exercent à partir d'un
certain moment sur les bohèmes les plus endurcis, parallèle à
celle que ces bohèmes exercent eux-mêmes sur les gens du
monde, double reflux qui correspond à ce qu'est, dans
l'ordre politique, la curiosité réciproque et le désir de faire
alliance entre peuples qui se sont combattus. Mais le désir de
Rachel pouvait avoir une raison plus particulière. C'est chez
Mme de Guermantes, c'est de Mme de Guermantes, qu'elle
avait reçu jadis sa plus terrible avanie. Rachel l'avait peu à
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peu non pas oubliée mais pardonnée, mais le prestige
singulier qu'en avait reçu à ses yeux la duchesse ne devait
s'effacer jamais. L'entretien, de l'attention duquel je désirais
détourner Gilberte, fut, du reste, interrompu, car la maîtresse
de maison vint chercher Rachel dont c'était le moment de
réciter et qui bientôt, ayant quitté la duchesse, parut sur
l'estrade.
Or, pendant ce temps, avait lieu à l'autre bout de Paris un
spectacle bien différent. La Berma avait convié quelques
personnes à venir prendre le thé pour fêter son fils et sa
belle-fille. Mais les invités ne se pressaient pas d'arriver.
Ayant appris que Rachel récitait des vers chez la princesse de
Guermantes (ce qui scandalisait fort la Berma, grande artiste
pour laquelle Rachel était restée une grue qu'on laissait
figurer dans les pièces où elle-même, la Berma, jouait le
premier rôle – parce que Saint-Loup lui payait ses toilettes
pour la scène – scandale d'autant plus grand que la nouvelle
avait couru dans Paris que les invitations étaient au nom de
la princesse de Guermantes, mais que c'était Rachel qui, en
réalité, recevait chez la princesse), la Berma avait récrit avec
insistance à quelques fidèles pour qu'ils ne manquassent pas
à son goûter, car elle les savait aussi amis de la princesse de
Guermantes qu'ils avaient connue Verdurin. Or, les heures
passaient et personne n'arrivait chez la Berma. Bloch, à qui
on avait demandé s'il voulait y venir, avait répondu
naïvement : « Non, j'aime mieux aller chez la princesse de
Guermantes. » Hélas ! c'est ce qu'au fond de soi chacun avait
décidé. La Berma, atteinte d'une maladie mortelle qui la
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forçait à fréquenter peu le monde, avait vu son état
s'aggraver quand, pour subvenir aux besoins de luxe de sa
fille, besoins que son gendre, souffrant et paresseux, ne
pouvait satisfaire, elle s'était remise à jouer. Elle savait qu'elle
abrégeait ses jours, mais voulait faire plaisir à sa fille à qui
elle rapportait de gros cachets, à son gendre qu'elle détestait
mais flattait, car, le sachant adoré par sa fille, elle craignait, si
elle le mécontentait, qu'il la privât, par méchanceté, de voir
celle-ci. La fille de la Berma, qui n'était cependant pas
positivement cruelle et était aimée en secret par le médecin
qui soignait sa mère, s'était laissé persuader que ces
représentations de Phèdre n'étaient pas bien dangereuses
pour la malade. Elle avait en quelque sorte forcé le médecin
à le lui dire, n'ayant retenu que cela de ce qu'il lui avait
répondu, et parmi des objections dont elle ne tenait pas
compte ; en effet, le médecin avait dit ne pas voir grand
inconvénient aux représentations de la Berma ; il l'avait dit
parce qu'il sentait qu'il ferait ainsi plaisir à la jeune femme
qu'il aimait, peut-être aussi par ignorance, parce qu'aussi il
savait de toutes façons la maladie inguérissable, et qu'on se
résigne volontiers à abréger le martyre des malades quand ce
qui est destiné à l'abréger nous profite à nous-même, peutêtre aussi par la bête conception que cela faisait plaisir à la
Berma et devait donc lui faire du bien, bête conception qui
lui parut justifiée quand, ayant reçu une loge des enfants de
la Berma et ayant pour cela lâché tous ses malades, il l'avait
trouvée aussi extraordinaire de vie sur la scène qu'elle
semblait moribonde à la ville. Et, en effet, nos habitudes
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nous permettent dans une large mesure, permettent même à
nos organismes, de s'accommoder d'une existence qui
semblerait au premier abord ne pas être possible. Qui n'a vu
un vieux maître de manège cardiaque faire toutes les
acrobaties auxquelles on n'aurait pu croire que son cœur
résisterait une minute ? La Berma n'était pas une moins
vieille habituée de la scène, aux exigences de laquelle ses
organes étaient si parfaitement adaptés qu'elle pouvait
donner, en se dépensant avec une prudence indiscernable
pour le public, l'illusion d'une bonne santé troublée
seulement par un mal purement nerveux et imaginaire. Après
la scène de la déclaration à Hippolyte, la Berma avait beau
sentir l'épouvantable nuit qu'elle allait passer, ses admirateurs
l'applaudissaient à toute force, la déclarant plus belle que
jamais. Elle rentrait dans d'horribles souffrances mais
heureuse d'apporter à sa fille les billets bleus, que, par une
gaminerie de vieille enfant de la balle, elle avait l'habitude de
serrer dans ses bas, d'où elle les sortait avec fierté, espérant
un sourire, un baiser. Malheureusement, ces billets ne
faisaient que permettre au gendre et à la fille de nouveaux
embellissements de leur hôtel, contigu à celui de leur mère,
d'où d'incessants coups de marteau qui interrompaient le
sommeil dont la grande tragédienne aurait eu tant besoin.
Selon les variations de la mode, et pour se conformer au
goût de M. de X. ou de Y., qu'ils espéraient recevoir, ils
modifiaient chaque pièce. Et la Berma, sentant que le
sommeil, qui seul aurait calmé sa souffrance, s'était enfui, se
résignait à ne pas se rendormir, non sans un secret mépris
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pour ces élégances qui avançaient sa mort, rendaient atroces
ses derniers jours. C'est sans doute un peu à cause de cela
qu'elle les méprisait, vengeance naturelle contre ce qui nous
fait mal et que nous sommes impuissants à empêcher. Mais
c'est aussi parce qu'ayant conscience du génie qui était en
elle, ayant appris dès son plus jeune âge l'insignifiance de
tous ces décrets de la mode, elle était quant à elle restée
fidèle à la tradition qu'elle avait toujours respectée, dont elle
était l'incarnation, qui lui faisait juger les choses et les gens
comme trente ans auparavant, et, par exemple, juger Rachel
non comme l'actrice à la mode qu'elle était devenue, mais
comme la petite grue qu'elle avait connue. La Berma n'était
pas, du reste, meilleure que sa fille, c'est en elle que sa fille
avait puisé, par l'hérédité et par la contagion de l'exemple,
qu'une admiration trop naturelle rendait plus efficace, son
égoïsme, son impitoyable raillerie, son inconsciente cruauté.
Seulement, tout cela la Berma l'avait immolé à sa fille et s'en
était ainsi délivrée. D'ailleurs, la fille de la Berma n'eût-elle
pas eu sans cesse des ouvriers chez elle, qu'elle eût fatigué sa
mère, comme les forces attractives féroces et légères de la
jeunesse fatiguent la vieillesse, la maladie, qui se surmènent à
vouloir les suivre. Tous les jours c'était un déjeuner nouveau,
et on eût trouvé la Berma égoïste d'en priver sa fille, même
de ne pas assister au déjeuner où on comptait, pour attirer
bien difficilement quelques relations récentes et qui se
faisaient tirer l'oreille, sur la présence prestigieuse de la mère
illustre. On la « promettait » à ces mêmes relations pour une
fête au dehors, afin de leur faire « une politesse ». Et la
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pauvre mère, gravement occupée dans son tête-à-tête avec la
mort installée en elle, était obligée de se lever de bonne
heure, de sortir. Bien plus, comme, à la même époque,
Réjane, dans tout l'éblouissement de son talent, donna à
l'étranger des représentations qui eurent un succès énorme,
le gendre trouva que la Berma ne devait pas se laisser
éclipser, voulut que la famille ramassât la même profusion de
gloire, et força la Berma à des tournées où on était obligé de
la piquer à la morphine, ce qui pouvait la faire mourir à cause
de l'état de ses reins. Ce même attrait de l'élégance, du
prestige social, de la vie, avait, le jour de la fête chez la
princesse de Guermantes, fait pompe aspirante et avait
amené là-bas, avec la force d'une machine pneumatique,
même les plus fidèles habitués de la Berma, où, par contre et
en conséquence, il y avait vide absolu et mort. Un seul jeune
homme, qui n'était pas certain que la fête chez la Berma ne
fût, elle aussi, brillante, était venu. Quand la Berma vit
l'heure passer et comprit que tout le monde la lâchait, elle fit
servir le goûter et on s'assit autour de la table, mais comme
pour un repas funéraire. Rien dans la figure de la Berma ne
rappelait plus celle dont la photographie m'avait, un soir de
mi-carême, tant troublé. La Berma avait, comme dit le
peuple, la mort sur le visage. Cette fois c'était bien d'un
marbre de l'Erechtéion qu'elle avait l'air. Ses artères durcies
étant déjà à demi pétrifiées, on voyait de longs rubans
sculpturaux parcourir les joues, avec une rigidité minérale.
Les yeux mourants vivaient relativement, par contraste avec
ce terrible masque ossifié, et brillaient faiblement comme un
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serpent endormi au milieu des pierres. Cependant le jeune
homme, qui s'était mis à la table par politesse, regardait sans
cesse l'heure, attiré qu'il était par la brillante fête chez les
Guermantes. La Berma n'avait pas un mot de reproche à
l'adresse des amis qui l'avaient lâchée et qui espéraient
naïvement qu'elle ignorerait qu'ils étaient allés chez les
Guermantes. Elle murmura seulement : « Une Rachel
donnant une fête chez la princesse de Guermantes, il faut
venir à Paris pour voir de ces choses-là. » Et elle mangeait
silencieusement, et avec une lenteur solennelle, des gâteaux
défendus, ayant l'air d'obéir à des rites funèbres. Le « goûter
» était d'autant plus triste que le gendre était furieux que
Rachel, que lui et sa femme connaissaient très bien, ne les
eût pas invités. Son crève-cœur fut d'autant plus grand que le
jeune homme invité lui avait dit connaître assez bien Rachel
pour que, s'il partait tout de suite chez les Guermantes, il pût
lui demander d'inviter ainsi, à la dernière heure, le couple
frivole. Mais la fille de la Berma savait trop à quel niveau
infime sa mère situait Rachel, et qu'elle l'eût tuée de
désespoir en sollicitant de l'ancienne grue une invitation.
Aussi avait-elle dit au jeune homme et à son mari que c'était
chose impossible. Mais elle se vengeait en prenant pendant
ce goûter des petites mines exprimant le désir des plaisirs,
l'ennui d'être privée d'eux par cette gêneuse qu'était sa mère.
Celle-ci faisait semblant de ne pas voir les moues de sa fille
et adressait de temps en temps, d'une voix mourante, une
parole aimable au jeune homme, le seul invité qui fût venu.
Mais bientôt la chasse d'air qui emportait tout vers les
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Guermantes, et qui m'y avait entraîné moi-même, fut la plus
forte, il se leva et partit, laissant Phèdre ou la mort, on ne
savait trop laquelle des deux c'était, achever de manger, avec
sa fille et son gendre, les gâteaux funéraires.
***
La conversation que nous tenions, Gilberte et moi, fut
interrompue par la voix de Rachel qui venait de s'élever. Le
jeu de celle-ci était intelligent, car il présupposait la poésie
que l'actrice était en train de dire comme un tout existant
avant cette récitation et dont nous n'entendions qu'un
fragment, comme si l'artiste, passant sur un chemin, s'était
trouvée pendant quelques instants à portée de notre oreille.
Néanmoins, les auditeurs avaient été stupéfaits en voyant
cette femme, avant d'avoir émis un seul son, plier les genoux,
tendre les bras, en berçant quelque être invisible, devenir
cagneuse, et tout d'un coup, pour dire des vers fort connus,
prendre un ton suppliant.
L'annonce d'une poésie que presque tout le monde
connaissait avait fait plaisir. Mais quand on avait vu Rachel,
avant de commencer, chercher partout des yeux d'un air
égaré, lever les mains d'un air suppliant et pousser comme
un gémissement à chaque mot, chacun se sentit gêné,
presque choqué de cette exhibition de sentiments. Personne
ne s'était dit que réciter des vers pouvait être quelque chose
comme cela. Peu à peu on s'habitue, c'est-à-dire qu'on oublie
la première sensation de malaise, on dégage ce qui est bien,
on compare dans son esprit diverses manières de réciter,
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pour se dire : ceci c'est mieux, ceci moins bien. La première
fois de même, dans une cause simple, lorsqu'on voit un
avocat s'avancer, lever en l'air un bras d'où retombe la toge,
commencer d'un ton menaçant, on n'ose pas regarder les
voisins. Car on se figure que c'est grotesque, mais, après
tout, c'est peut-être magnifique et on attend d'être fixé. Tout
le monde se regardait, ne sachant trop quelle tête faire ;
quelques jeunesses mal élevées étouffèrent un fou rire ;
chacun jetait à la dérobée sur son voisin le regard furtif que
dans les repas élégants, quand on a auprès de soi un
instrument nouveau, fourchette à homard, râpe à sucre, etc.,
dont on ne connaît pas le but et le maniement, on attache
sur un convive plus autorisé qui, espère-t-on, s'en servira
avant vous et vous donnera ainsi la possibilité de l'imiter.
Ainsi fait-on encore quand quelqu'un cite un vers qu'on
ignore mais qu'on veut avoir l'air de connaître et à qui,
comme en cédant le pas devant une porte, on laisse à un plus
instruit, comme une faveur, le plaisir de dire de qui il est. Tel,
en entendant l'actrice, chacun attendait, la tête baissée et l'œil
investigateur, que d'autres prissent l'initiative de rire ou de
critiquer, ou de pleurer ou d'applaudir. Mme de Forcheville,
revenue exprès de Guermantes, d'où la duchesse, comme
nous le verrons, était à peu près expulsée, avait pris une mine
attentive, tendue, presque carrément désagréable, soit pour
montrer qu'elle était connaisseuse et ne venait pas en
mondaine, soit par hostilité pour les gens moins versés dans
la littérature qui eussent pu lui parler d'autre chose, soit par
contention de toute sa personne afin de savoir si elle « aimait
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» ou si elle n'aimait pas, ou peut-être parce que, tout en
trouvant cela « intéressant », elle n'« aimait » pas, du moins, la
manière de dire certains vers. Cette attitude eût dû être
plutôt adoptée, semble-t-il, par la princesse de Guermantes.
Mais comme c'était chez elle, et que, devenue aussi avare que
riche, elle était décidée à ne donner que cinq roses à Rachel,
elle faisait la claque. Elle provoquait l'enthousiasme et faisait
la presse en poussant à tous moments des exclamations
ravies. Là seulement elle se retrouvait Verdurin, car elle avait
l'air d'écouter les vers pour son propre plaisir, d'avoir eu
l'envie qu'on vînt les lui dire, à elle toute seule, et qu'il y eût
par hasard là cinq cents personnes, à qui elle avait permis de
venir comme en cachette assister à son propre plaisir.
Cependant, je remarquai sans aucune satisfaction d'amourpropre, car elle était devenue vieille et laide, que Rachel me
faisait de l'œil, avec une certaine réserve d'ailleurs. Pendant
toute la récitation, elle laissa palpiter dans ses yeux un sourire
réprimé et pénétrant qui semblait l'amorce d'un
acquiescement qu'elle eût souhaité venir de moi. Cependant,
quelques vieilles dames, peu habituées aux récitations
poétiques, disaient à un voisin : « Vous avez vu ? », faisant
allusion à la mimique solennelle, tragique, de l'actrice, et
qu'elles ne savaient comment qualifier. La duchesse de
Guermantes sentit le léger flottement et décida de la victoire
en s'écriant : « C'est admirable ! » au beau milieu du poème,
qu'elle crut peut-être terminé. Plus d'un invité tint alors à
souligner cette exclamation d'un regard approbateur et d'une
inclinaison de tête, pour montrer moins peut-être leur
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compréhension de la récitante que leurs relations avec la
duchesse. Quand le poème fut fini, comme nous étions à
côté de Rachel, j'entendis celle-ci remercier Mme de
Guermantes et en même temps, profitant de ce que j'étais à
côté de la duchesse, elle se tourna vers moi et m'adressa un
gracieux bonjour. Je compris alors qu'au contraire des
regards passionnés du fils de M. de Vaugoubert, que j'avais
pris pour le bonjour de quelqu'un qui se trompait, ce que
j'avais pris chez Rachel pour un regard de désir n'était qu'une
provocation contenue à se faire reconnaître et saluer par
moi. Je répondis par un salut souriant au sien. « Je suis sûre
qu'il ne me reconnaît pas, dit en minaudant la récitante à la
duchesse. – Mais si, dis-je avec assurance, je vous ai
reconnue tout de suite. »
Si, pendant les plus beaux vers de La Fontaine, cette
femme, qui les récitait avec tant d'assurance, n'avait pensé,
soit par bonté, ou bêtise, ou gêne, qu'à la difficulté de me
dire bonjour, pendant les mêmes beaux vers Bloch n'avait
songé qu'à faire ses préparatifs pour pouvoir, dès la fin de la
poésie, bondir comme un assiégé qui tente une sortie, et
passant, sinon sur le corps, du moins sur les pieds de ses
voisins, venir féliciter la récitante, soit par une conception
erronée du devoir, soit par désir d'ostentation.
« C'était bien beau », dit-il à Rachel, et ayant dit ces simples
mots, son désir étant satisfait, il repartit et fit tant de bruit
pour regagner sa place que Rachel dut attendre plus de cinq
minutes avant de réciter la seconde poésie. Quand elle eut
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fini celle-ci, les Deux Pigeons, Mme de Monrienval
s'approcha de Mme de Saint-Loup, qu'elle savait fort lettrée
sans se rappeler assez qu'elle avait l'esprit subtil et
sarcastique de son père, et lui demanda : « C'est bien la fable
de La Fontaine, n'est-ce pas ? » croyant bien l'avoir reconnue
mais n'étant pas absolument certaine, car elle connaissait fort
mal les fables de La Fontaine et, de plus, croyait que c'était
des choses d'enfants qu'on ne récitait pas dans le monde.
Pour avoir un tel succès l'artiste avait sans doute pastiché des
fables de La Fontaine, pensait la bonne dame. Or, Gilberte,
jusque-là impassible, l'enfonça sans le vouloir dans cette
idée, car n'aimant pas Rachel et voulant dire qu'il ne restait
rien des fables avec une diction pareille, elle le dit de cette
nuance trop subtile qui était celle de son père et qui laissait
les personnes naïves dans le doute sur ce qu'il voulait dire.
Généralement plus moderne, quoique fille de Swann –
comme un canard couvé par une poule – elle était assez
lakiste et se contentait de dire : « Je trouve d'un touchant,
c'est d'une sensibilité charmante. » Mais à Mme de Morienval
Gilberte répondit sous cette forme fantaisiste de Swann à
laquelle se trompaient les gens qui prennent tout au pied de
la lettre : « Un quart est de l'invention de l'interprète, un
quart de la folie, un quart n'a aucun sens, le reste est de La
Fontaine », ce qui permit à Mme de Morienval de soutenir
que ce qu'on venait d'entendre n'était pas les Deux Pigeons
de La Fontaine mais un arrangement où tout au plus un
quart était de La Fontaine, ce qui n'étonna personne, vu
l'extraordinaire ignorance de ce public.
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Mais un des amis de Bloch étant arrivé en retard, celui-ci
eut la joie de lui demander s'il n'avait jamais entendu Rachel,
de lui faire une peinture extraordinaire de sa diction, en
exagérant et en trouvant tout d'un coup à raconter, à révéler
à autrui cette diction moderniste, un plaisir étrange, qu'il
n'avait nullement éprouvé à l'entendre. Puis Bloch, avec une
émotion exagérée, félicita de nouveau Rachel sur un ton de
fausset et de proclamer son génie, présenta son ami qui
déclara n'admirer personne autant qu'elle, et Rachel, qui
connaissait maintenant des dames de la haute société et, sans
s'en rendre compte, les copiait, répondit : « Oh ! je suis très
flattée, très honorée par votre appréciation. » L'ami de Bloch
lui demanda ce qu'elle pensait de la Berma. « Pauvre femme,
il paraît qu'elle est dans la dernière misère. Elle n'a pas été, je
ne dirai pas sans talent, car ce n'était pas au fond du vrai
talent, elle n'aimait que des horreurs, mais enfin elle a été
utile, certainement ; elle jouait d'une façon assez vivante, et
puis c'était une brave personne, généreuse, qui s'est ruinée
pour les autres. Voilà bien longtemps qu'elle ne fait plus un
sou, parce que le public n'aime pas du tout ce qu'elle fait. Du
reste, ajouta-t-elle en riant, je vous dirai que mon âge ne m'a
permis de l'entendre, naturellement, que tout à fait dans les
derniers temps et quand j'étais moi-même trop jeune pour
me rendre compte. – Elle ne disait pas très bien les vers ?
hasarda l'ami de Bloch pour flatter Rachel, qui répondit : –
Oh ! ça, elle n'a jamais su en dire un ; c'était de la prose, du
chinois, du volapük, tout, excepté un vers. D'ailleurs, je vous
dirai que, bien entendu, je ne l'ai entendue que très peu, sur
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sa fin, ajouta-t-elle pour se rajeunir, mais on m'a dit
qu'autrefois ce n'était pas mieux, au contraire. »
Je me rendais compte que le temps qui passe n'amène pas
forcément le progrès dans les arts. Et de même que tel
auteur du XVIIe siècle, qui n'a connu ni la Révolution
française, ni les découvertes scientifiques, ni la guerre, peut
être supérieur à tel écrivain d'aujourd'hui, et que peut-être
même Fagon était un aussi grand médecin que du Boulbon
(la supériorité du génie compensant ici l'infériorité du
savoir), de même la Berma était, comme on dit, à cent pics
au-dessus de Rachel, et le temps, en la mettant en vedette en
même temps qu'Elstir, avait consacré son génie.
Il ne faut pas s'étonner que l'ancienne maîtresse de SaintLoup débinât la Berma. Elle l'eût fait quand elle était jeune.
Ne l'eût-elle pas fait alors, qu'elle l'eût fait maintenant.
Qu'une femme du monde de la plus haute intelligence, de la
plus grande bonté se fasse actrice, déploie dans ce métier
nouveau pour elle de grands talents, n'y rencontre que des
succès, on s'étonnera, si on se trouve auprès d'elle après
longtemps, d'entendre non son langage à elle, mais celui des
comédiennes, leur rosserie spéciale envers les camarades,
tout ce qu'ajoutent à l'être humain, quand ils ont passé sur
lui, « trente ans de théâtre ». Rachel se comportait de même
tout en ne sortant pas du monde.
Mme de Guermantes, au déclin de sa vie, avait senti
s'éveiller en soi des curiosités nouvelles. Le monde n'avait
plus rien à lui apprendre. L'idée qu'elle y avait la première
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place était, nous l'avons vu, aussi évidente pour elle que la
hauteur du ciel bleu par-dessus la terre. Elle ne croyait pas
avoir à affermir une position qu'elle jugeait inébranlable. En
revanche, lisant, allant au théâtre, elle eût souhaité avoir un
prolongement de ces lectures, de ces spectacles ; comme
jadis dans l'étroit petit jardin où on prenait de l'orangeade,
tout ce qu'il y avait de plus exquis dans le grand monde
venait familièrement, parmi les brises parfumées du soir et
les nuages de pollen, entretenir en elle le goût du grand
monde, de même maintenant un autre appétit lui faisait
souhaiter savoir les raisons de telle polémique littéraire,
connaître des auteurs, voir des actrices. Son esprit fatigué
réclamait une nouvelle alimentation. Elle se rapprocha, pour
connaître les uns et les autres, de femmes avec qui jadis elle
n'eût pas voulu échanger de cartes et qui faisaient valoir leur
intimité avec le directeur de telle revue dans l'espoir d'avoir
la duchesse. La première actrice invitée crut être la seule
dans un milieu extraordinaire, lequel parut plus médiocre à la
seconde quand elle vit celle qui l'y avait précédée. La
duchesse, parce qu'à certains soirs elle recevait des
souverains, croyait que rien n'était changé à sa situation. En
réalité, elle, la seule d'un sang vraiment sans alliage, elle qui,
étant née Guermantes, pouvait signer : Guermantes –
Guermantes quand elle ne signait pas : la duchesse de
Guermantes – elle qui à ses belles-sœurs mêmes semblait
quelque chose de plus précieux que tout, comme un Moïse
sauvé des eaux, un Christ échappé en Égypte, un Louis XVII
enfui du Temple, le pur du pur, maintenant sacrifiant sans
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doute à ce besoin héréditaire de nourriture spirituelle qui
avait fait la décadence sociale de Mme de Villeparisis, elle
était devenue elle-même une Mme de Villeparisis, chez qui
les femmes snobs redoutaient de rencontrer telle ou tel, et de
laquelle les jeunes gens, constatant le fait accompli sans
savoir ce qui l'a précédé, croyaient que c'était une
Guermantes d'une moins bonne cuvée, d'une moins bonne
année, une Guermantes déclassée. Dans les milieux
nouveaux qu'elle fréquentait, restée bien plus la même qu'elle
ne croyait, elle continuait à croire que s'ennuyer facilement
était une supériorité intellectuelle, mais elle l'exprimait avec
une sorte de violence qui donnait à sa voix quelque chose de
rauque. Comme je lui parlais de Brichot : « Il m'a assez
embêtée pendant vingt ans », et comme Mme de Cambremer
disait : « Relisez ce que Schopenhauer dit de la musique »,
elle nous fit remarquer cette phrase en disant avec violence :
« Relisez est un chef-d'œuvre ! Ah ! non, ça, par exemple, il
ne faut pas nous la faire. » Alors le vieux d'Albon sourit en
reconnaissant une des formes de l'esprit Guermantes.
« On peut dire ce qu'on veut, c'est admirable, cela a de la
ligne, du caractère, c'est intelligent, personne n'a jamais dit
les vers comme ça », dit la duchesse en parlant de Rachel,
craignant que Gilberte ne la débinât. Celle-ci s'éloigna vers
un autre groupe pour éviter un conflit avec sa tante, laquelle,
d'ailleurs, ne dit sur Rachel que des choses fort ordinaires.
Mais puisque les meilleurs écrivains cessent souvent aux
approches de la vieillesse, ou après un excès de production,
d'avoir du talent, on peut bien excuser les femmes du monde
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de cesser, à partir d'un certain moment, d'avoir de l'esprit.
Swann ne retrouvait plus dans l'esprit dur de la duchesse de
Guermantes le « fondu » de la jeune princesse des Laumes.
Sur le tard, fatiguée au moindre effort, Mme de Guermantes
disait énormément de bêtises. Certes, à tout moment et bien
des fois au cours même de cette matinée, elle redevenait la
femme que j'avais connue et parlait des choses mondaines
avec esprit. Mais à côté de cela, bien souvent il arrivait que
cette parole pétillante sous un beau regard, et qui pendant
tant d'années avait tenu sous son sceptre spirituel les
hommes les plus éminents de Paris, scintillât encore mais,
pour ainsi dire, à vide. Quand le moment de placer un mot
venait, elle s'interrompait pendant le même nombre de
secondes qu'autrefois, elle avait l'air d'hésiter, de produire,
mais le mot qu'elle lançait alors ne valait rien. Combien peu
de personnes, d'ailleurs, s'en apercevaient, la continuité du
procédé leur faisant croire à la survivance de l'esprit, comme
il arrive à ces gens qui, superstitieusement attachés à une
marque de pâtisserie, continuent à faire venir leurs petits
fours d'une même maison sans s'apercevoir qu'ils sont
devenus détestables. Déjà, pendant la guerre, la duchesse
avait donné des marques de cet affaiblissement. Si quelqu'un
disait le mot culture, elle l'arrêtait, souriait, allumait son beau
regard, et lançait : « la KKKKultur », ce qui faisait rire les
amis, qui croyaient retrouver là l'esprit des Guermantes. Et
certes, c'était le même moule, la même intonation, le même
sourire qui avaient jadis ravi Bergotte, lequel, du reste, s'il
avait vécu, eût aussi gardé ses coupes de phrase, ses
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interjections, ses points suspensifs, ses épithètes, mais pour
ne rien dire. Mais les nouveaux venus s'étonnaient et parfois
disaient, s'ils n'étaient pas tombés un jour où elle était drôle
et en pleine possession de ses moyens : « Comme elle est
bête ! » La duchesse, d'ailleurs, s'arrangeait pour canaliser son
encanaillement et ne pas le laisser s'étendre à celles des
personnes de sa famille desquelles elle tirait une gloire
aristocratique. Si au théâtre elle avait, pour remplir son rôle
de protectrice des arts, invité un ministre ou un peintre et
que celui-ci ou celui-là lui demandât naïvement si sa bellesœur ou son mari n'étaient pas dans la salle, la duchesse,
timorée, avec les apparences superbes de l'audace, répondait
insolemment : « Je n'en sais rien. Dès que je sors de chez
moi, je ne sais plus ce que fait ma famille. Pour tous les
hommes politiques, pour tous les artistes, je suis veuve. »
Ainsi s'évitait-elle que le parvenu trop empressé s'attirât des
rebuffades – et lui attirât à elle-même des réprimandes – de
M. de Marsantes et de Basin.
Je dis à Mme de Guermantes que j'avais rencontré M. de
Charlus. Elle le trouvait encore plus « baissé » qu'il n'était, les
gens du monde faisant des différences, en ce qui concerne
l'intelligence, non seulement entre divers gens du monde
chez lesquels elle est à peu près semblable, mais même chez
une même personne à différents moments de sa vie. Puis elle
ajouta : « Il a toujours été le portrait de ma belle-mère ; c'est
encore plus frappant maintenant. » Cette ressemblance
n'avait rien d'extraordinaire. On sait, en effet, que certaines
femmes se projettent en quelque sorte elles-mêmes en un
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autre être avec la plus grande exactitude, la seule erreur est
dans le sexe. Erreur dont on ne peut pas dire : felix culpa,
car le sexe réagit sur la personnalité, et chez un homme le
féminisme devient afféterie, la réserve susceptibilité, etc.
N'importe, dans la figure, fût-elle barbue, dans les joues,
même congestionnées sous les favoris, il y a certaines lignes
superposables à quelque portrait maternel. Il n'est guère de
vieux Charlus qui ne soit une ruine où l'on ne reconnaisse
avec étonnement sous tous les empâtements de la graisse et
de la poudre de riz quelques fragments d'une belle femme en
sa jeunesse éternelle.
« Je ne peux pas vous dire comme ça me fait plaisir de
vous voir, reprit la duchesse. Mon Dieu, quand est-ce que je
vous avais vu la dernière fois... – En visite chez Mme
d'Agrigente où je vous trouvais souvent. – Naturellement, j'y
allais souvent, mon pauvre petit, comme Basin l'aimait à ce
moment-là. C'est toujours chez sa bonne amie du moment
qu'on me rencontrait le plus parce qu'il me disait : « Ne
manquez pas d'aller lui faire une visite. » Au fond, cela me
paraissait un peu inconvenant cette espèce de « visite de
digestion » qu'il m'envoyait faire une fois qu'il avait
consommé. J'avais fini assez vite par m'y habituer, mais ce
qu'il y avait de plus ennuyeux c'est que j'étais obligée de
garder des relations après qu'il avait rompu les siennes. Ça
me faisait toujours penser au vers de Victor Hugo : «
Emporte le bonheur et laisse-moi l'ennui. » Comme dans la
poésie j'entrais tout de même avec un sourire, mais vraiment
ce n'était pas juste, il aurait dû me laisser, à l'égard de ses
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maîtresses, le droit d'être volage, car, en accumulant tous ses
laissés pour compte, j'avais fini par ne plus avoir une aprèsmidi à moi. D'ailleurs, ce temps me semble doux
relativement au présent. Mon Dieu, qu'il se soit remis à me
tromper, ça ne pourrait que me flatter parce que ça me
rajeunit. Mais je préférais son ancienne manière. Dame, il y
avait trop longtemps qu'il ne m'avait trompée, il ne se
rappelait plus la manière de s'y prendre ! Ah ! mais nous ne
sommes pas mal ensemble tout de même, nous nous
parlons, nous nous aimons même assez », me dit la duchesse,
craignant que je n'eusse compris qu'ils étaient tout à fait
séparés, et comme on dit de quelqu'un qui est très malade : «
Mais il parle encore très bien, je lui ai fait la lecture ce matin
pendant une heure », elle ajouta : « Je vais lui dire que vous
êtes là, il voudra vous voir. » Et elle alla près du duc qui,
assis sur un canapé auprès d'une dame, causait avec elle.
Mais en voyant sa femme venir lui parler, il prit un air si
furieux qu'elle ne put que se retirer. « Il est occupé, je ne sais
pas ce qu'il fait, nous verrons tout à l'heure », me dit Mme de
Guermantes préférant me laisser me débrouiller. Bloch
s'étant approché de nous et ayant demandé, de la part de son
Américaine, qui était une jeune duchesse qui était là, je
répondis que c'était la nièce de M. de Bréauté, nom sur
lequel Bloch, à qui il ne disait rien, demanda des explications.
« Ah ! Bréauté, s'écria Mme de Guermantes, en s'adressant à
moi, vous vous rappelez ? Mon Dieu, que tout cela est loin !
» Puis, se tournant vers Bloch : « Hé bien, c'était un snob.
C'étaient des gens qui habitaient près de chez ma belle-mère.
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Cela ne vous intéresserait pas, c'est amusant pour ce petit,
ajouta-t-elle en me désignant, qui a connu tout ça autrefois
en même temps que moi », ajouta Mme de Guermantes me
montrant par ces paroles, de bien des manières, le long
temps qui s'était écoulé. Les amitiés, les opinions de Mme de
Guermantes s'étaient tant renouvelées depuis ce moment-là
qu'elle considérait son charmant Babal comme un snob.
D'autre part, il ne se trouvait pas seulement reculé dans le
temps, mais, chose dont je ne m'étais pas rendu compte
quand, à mes débuts dans le monde, je l'avais cru une des
notabilités essentielles de Paris, qui resterait toujours associé
à son histoire mondaine comme celui de Colbert à celle du
règne de Louis XIV, il avait lui aussi sa marque provinciale, il
était un voisin de campagne de la vieille duchesse, avec
lequel la princesse des Laumes s'était liée comme tel.
Pourtant ce Bréauté, dépouillé de son esprit, relégué dans ses
années si lointaines qu'il datait, ce qui prouvait qu'il avait été
entièrement oublié depuis par la duchesse, et dans les
environs de Guermantes, était entre la duchesse et moi, ce
que je n'eusse jamais cru le premier soir à l'Opéra-Comique
quand il m'avait paru un Dieu nautique habitant son antre
marin, un lien, parce qu'elle se rappelait que je l'avais connu,
donc que j'étais son ami à elle, sinon sorti du même monde
qu'elle, du moins vivant dans le même monde qu'elle depuis
bien plus longtemps que bien des personnes présentes,
qu'elle se le rappelait, et assez imparfaitement cependant
pour avoir oublié certains détails qui m'avaient à moi semblé
alors essentiels, que je n'allais pas à Guermantes et n'étais
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qu'un petit bourgeois de Combray, au temps où elle venait à
la messe de mariage de Mlle Percepied, qu'elle ne m'invitait
pas, malgré toutes les prières de Saint-Loup, dans l'année qui
suivit son apparition à l'Opéra-Comique. À moi cela me
semblait capital, car c'est justement à ce moment-là que la
vie de la duchesse de Guermantes m'apparaissait comme un
Paradis où je n'entrerais pas, mais, pour elle, elle lui
apparaissait comme sa même vie médiocre de toujours, et
puisque j'avais, à partir d'un certain moment, dîné souvent
chez elle, que j'avais d'ailleurs été, avant cela même, un ami
de sa tante et de son neveu, elle ne savait plus exactement à
quelle époque notre intimité avait commencé et ne se rendait
pas compte du formidable anachronisme qu'elle faisait en
faisant commencer cette amitié quelques années trop tôt. Car
cela faisait que j'eusse connu la Mme de Guermantes du
nom de Guermantes impossible à connaître, que j'eusse été
reçu dans le nom aux syllabes dorées, dans le faubourg SaintGermain, alors que tout simplement j'étais allé dîner chez
une dame qui n'était déjà plus pour moi qu'une dame comme
une autre, et qui m'avait fait quelquefois inviter, non à
descendre dans le royaume sous-marin des néréides mais à
passer la soirée dans la baignoire de sa cousine. « Si vous
voulez des détails sur Bréauté, qui n'en valait guère la peine,
ajouta-t-elle en s'adressant à Bloch, demandez-en à ce petit
qui le vaut cent fois : il a dîné cinquante fois avec lui chez
moi. N'est-ce pas que c'est chez moi que vous l'avez connu ?
En tout cas, c'est chez moi que vous avez connu Swann. » Et
j'étais aussi surpris qu'elle pût croire que j'avais peut-être
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connu M. de Bréauté ailleurs que chez elle, donc que j'allasse
dans ce monde-là avant de la connaître, que de voir qu'elle
croyait que c'était chez elle que j'avais connu Swann. Moins
mensongèrement que Gilberte quand elle disait de Bréauté :
« C'est un vieux voisin de campagne, j'ai plaisir à parler avec
lui de Tansonville », alors qu'autrefois, à Tansonville, il ne les
fréquentait pas, j'aurais pu dire : « C'est un voisin de
campagne qui venait souvent nous voir le soir », de Swann
qui, en effet, me rappelait tout autre chose que les
Guermantes. « Je ne saurais pas vous dire ! reprit-elle. C'était
un homme qui avait tout dit quand il parlait d'Altesses. Il
avait un lot d'histoires assez drôles sur des gens de
Guermantes, sur ma belle-mère, sur Mme de Varambon
avant qu'elle fût auprès de la princesse de Parme. Mais qui
sait aujourd'hui qui était Mme de Varambon ? Ce petit-là,
oui, il a connu tout ça, mais tout ça c'est fini, ce sont des
gens dont le nom même n'existe plus et qui, d'ailleurs, ne
mériteraient pas de survivre. » Et je me rendais compte,
malgré cette chose une que semble le monde, et où, en effet,
les rapports sociaux arrivent à leur maximum de
concentration et où tout communique, comme il y reste des
provinces, ou du moins comme le Temps en fait qui
changent de nom, qui ne sont plus compréhensibles pour
ceux qui y arrivent seulement quand la configuration a
changé. « C'était une bonne dame qui disait des choses d'une
bêtise inouïe », reprit en parlant de Mme de Varambon la
duchesse qui, insensible à cette poésie de l'incompréhensible,
qui est un effet du temps, dégageait en toute chose l'élément
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drôle, assimilable à la littérature genre Meilhac, à l'esprit des
Guermantes. « À un moment, elle avait la manie d'avaler tout
le temps des pastilles qu'on donnait dans ce temps-là contre
la toux et qui s'appelaient – ajouta-t-elle en riant elle-même
d'un nom si spécial, si connu autrefois, si inconnu
aujourd'hui des gens à qui elle parlait – des pastilles
Géraudel. « Madame de Varambon, lui disait ma belle-mère,
en avalant tout le temps comme cela des pastilles Géraudel,
vous vous ferez mal à l'estomac. » « Mais Madame la
Duchesse, répondait Mme de Varambon, comment voulezvous que cela fasse mal à l'estomac puisque cela va dans les
bronches ? » Et puis c'est elle qui disait : « La duchesse a une
vache si belle qu'on la prend toujours pour étalon. » Et Mme
de Guermantes eût volontiers continué à raconter des
histoires de Mme de Varambon, dont nous connaissions des
centaines, mais nous sentions bien que ce nom n'éveillait
dans la mémoire ignorante de Bloch aucune des images qui
se levaient pour nous aussitôt qu'il était question de Mme de
Varambon, de M. de Bréauté, du prince d'Agrigente et, à
cause de cela même, excitait peut-être chez lui un prestige
que je savais exagéré mais que je trouvais compréhensible,
non pas parce que je l'avais moi-même subi, nos propres
erreurs et nos propres ridicules ayant rarement pour effet de
nous rendre, même quand nous les avons percés à jour, plus
indulgents à ceux des autres.
Le passé s'était tellement transformé dans l'esprit de la
duchesse, ou bien les démarcations qui existaient dans le
mien avaient été toujours si absentes du sien, que ce qui avait
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été événement pour moi avait passé inaperçu d'elle, qu'elle
pouvait supposer non seulement que j'avais connu Swann
chez elle et M. de Bréauté ailleurs, me faisant ainsi un passé
d'homme du monde qu'elle reculait même trop loin. Car
cette notion du temps écoulé, que je venais d'acquérir, la
duchesse l'avait aussi, et même, avec une illusion inverse de
celle qui avait été la mienne de le croire plus court qu'il
n'était, elle, au contraire, exagérait, elle le faisait remonter
trop haut notamment, sans tenir compte de cette infinie
ligne de démarcation entre le moment où elle était pour moi
un nom – puis l'objet de mon amour – et le moment où elle
n'avait été pour moi qu'une femme du monde quelconque.
Or, je n'étais allé chez elle que dans cette seconde période où
elle était pour moi une autre personne. Mais à ses propres
yeux ces différences échappaient, et elle n'eût pas trouvé plus
singulier que j'eusse été chez elle deux ans plus tôt, ne
sachant pas qu'elle était alors pour moi une autre personne,
sa personne n'offrant pas pour elle-même, comme pour moi,
de discontinuité.
Je dis à la duchesse de Guermantes, en lui racontant que
Bloch avait cru que c'était l'ancienne princesse de
Guermantes qui recevait : « Cela me rappelle la première
soirée où je suis allé chez la princesse de Guermantes, où je
croyais ne pas être invité et qu'on allait me mettre à la porte,
et où vous aviez une robe toute rouge et des souliers rouges.
– Mon Dieu, que c'est vieux, tout cela », me répondit la
duchesse, accentuant pour moi l'impression du temps
écoulé. Elle regardait dans le lointain avec mélancolie et
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pourtant insista particulièrement sur la robe rouge. Je lui
demandai de me la décrire, ce qu'elle fit complaisamment. «
Maintenant cela ne se porterait plus du tout. C'étaient des
robes qui se portaient dans ce temps-là. – Mais est-ce que ce
n'était pas joli ? » lui dis-je. Elle avait toujours peur de
donner un avantage contre elle par ses paroles, de dire
quelque chose qui la diminuât. « Mais si, moi je trouvais cela
très joli. On n'en porte pas parce que cela ne se fait plus en
ce moment. Mais cela se reportera, toutes les modes
reviennent, en robes, en musique, en peinture », ajouta-t-elle
avec force, car elle croyait une certaine originalité à cette
philosophie. Cependant la tristesse de vieillir lui rendit sa
lassitude qu'un sourire lui disputa : « Vous êtes sûr que
c'étaient des souliers rouges ? Je croyais que c'étaient des
souliers d'or. » J'assurai que cela m'était infiniment présent à
l'esprit, sans dire la circonstance qui me permettait de
l'affirmer. « Vous êtes gentil de vous rappeler cela », me ditelle d'un air tendre, car les femmes appellent gentillesse se
souvenir de leur beauté comme les artistes admirer leurs
œuvres. D'ailleurs, si lointain que soit le passé, quand on est
une femme de tête comme la duchesse, il peut ne pas être
oublié. « Vous rappelez-vous, me dit-elle en remerciement de
mon souvenir pour sa robe et ses souliers, que nous vous
avons ramené, Basin et moi ? Vous aviez une jeune fille qui
devait venir vous voir après minuit. Basin riait de tout son
cœur en pensant qu'on vous faisait des visites à cette heurelà. » Je me rappelais, en effet, que ce soir-là Albertine était
venue me voir après la soirée de la princesse de Guermantes,
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je me le rappelais aussi bien que la duchesse, moi à qui
Albertine était maintenant aussi indifférente qu'elle l'eût été à
Mme de Guermantes, si Mme de Guermantes eût su que la
jeune fille à cause de qui je n'avais pas pu entrer chez eux
était Albertine. C'est que longtemps après que les pauvres
morts sont sortis de nos cœurs, leur poussière indifférente
continue à être mêlée, à servir d'alliage, aux circonstances du
passé. Et, sans plus les aimer, il arrive qu'en évoquant une
chambre, une allée, un chemin, où ils furent à une certaine
heure, nous sommes obligés, pour que la place qu'ils
occupaient soit remplie, de faire allusion à eux, même sans
les regretter, même sans les nommer, même sans permettre
qu'on les identifie. (Mme de Guermantes n'identifiait guère
la jeune fille qui devait venir ce soir-là, n'avait jamais su son
nom et n'en parlait qu'à cause de la bizarrerie de l'heure et de
la circonstance.) Telles sont les formes dernières et peu
enviables de la survivance.
Si les jugements que la duchesse porta ensuite sur Rachel
furent en eux-mêmes médiocres, ils m'intéressèrent en ce
que, eux aussi, marquaient une heure nouvelle sur le cadran.
Car la duchesse n'avait pas plus complètement que Rachel
perdu le souvenir de la soirée que celle-ci avait passée chez
elle, mais ce souvenir n'y avait pas subi une moindre
transformation. « Je vous dirai, me dit-elle, que cela
m'intéresse d'autant plus de l'entendre, et de l'entendre
acclamer, que je l'ai dénichée, appréciée, prônée, imposée à
une époque où personne ne la connaissait et où tout le
monde se moquait d'elle. Oui, mon petit, cela va vous
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étonner, mais la première maison où elle s'est fait entendre
en public, c'est chez moi ! Oui, pendant que tous les gens
prétendus d'avant-garde, comme ma nouvelle cousine, ditelle en montrant ironiquement la princesse de Guermantes
qui, pour Oriane, restait Mme Verdurin, l'auraient laissée
crever de faim sans daigner l'entendre, je l'avais trouvée
intéressante et je lui avais fait offrir un cachet pour venir
jouer chez moi devant tout ce que nous faisions de mieux
comme gratin. Je peux dire, d'un mot un peu bête et
prétentieux, car, au fond, le talent n'a besoin de personne,
que je l'ai lancée. Bien entendu, elle n'avait pas besoin de
moi. » J'esquissai un geste de protestation et je vis que Mme
de Guermantes était toute prête à accueillir la thèse opposée
: « Si ? Vous croyez que le talent a besoin d'un appui ? Au
fond, vous avez peut-être raison. C'est curieux, vous dites
justement ce que Dumas me disait autrefois. Dans ce cas je
suis extrêmement flattée si je suis pour quelque chose, pour
si peu que ce soit, non pas évidemment dans le talent, mais
dans la renommée d'une telle artiste. » Mme de Guermantes
préférait abandonner son idée que le talent perce tout seul
comme un abcès, parce que c'était plus flatteur pour elle,
mais aussi parce que depuis quelque temps, recevant des
nouveaux venus, et étant du reste fatiguée, elle s'était faite
assez humble, interrogeant les autres, leur demandant leur
opinion pour s'en former une. « Je n'ai pas besoin de vous
dire, reprit-elle, que cet intelligent public, qui s'appelle le
monde, ne comprenait absolument rien à cela. On protestait,
on riait. J'avais beau leur dire : « C'est curieux, c'est
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intéressant, c'est quelque chose qui n'a encore jamais été fait
», on ne me croyait pas, comme on ne m'a jamais crue pour
rien. C'est comme la chose qu'elle jouait, c'était une chose de
Maeterlinck, maintenant c'est très connu, mais à ce momentlà tout le monde s'en moquait, eh bien, moi je trouvais ça
admirable. Ça m'étonne même, quand j'y pense, qu'une
paysanne comme moi, qui n'ai que l'éducation des filles de
province, ait aimé du premier coup ces choses-là.
Naturellement, je n'aurais pas pu dire pourquoi, mais ça me
plaisait, ça me remuait ; tenez, Basin qui n'a rien d'un
sensible avait été frappé de l'effet que ça me produisait. Il
m'avait dit : « Je ne veux plus que vous entendiez ces
absurdités, ça vous rend malade. » Et c'était vrai parce qu'on
me prend pour une femme sèche et que je suis, au fond, un
paquet de nerfs. »
***
À ce moment se produisit un incident inattendu. Un valet
de pied vint dire à Rachel que la fille de la Berma et son
gendre demandaient à lui parler. On a vu que la fille de la
Berma avait résisté au désir qu'avait son mari de faire
demander une invitation à Rachel. Mais après le départ du
jeune homme invité, l'ennui du jeune couple auprès de leur
mère s'était accru, la pensée que d'autres s'amusaient les
tourmentait, bref, profitant d'un moment où la Berma s'était
retirée dans sa chambre, crachant un peu de sang, ils avaient
quatre à quatre revêtu des vêtements plus élégants, fait
appeler une voiture et étaient venus chez la princesse de
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Guermantes sans être invités. Rachel, se doutant de la chose
et secrètement flattée, prit un ton arrogant et dit au valet de
pied qu'elle ne pouvait pas se déranger, qu'ils écrivissent un
mot pour dire l'objet de leur démarche insolite. Le valet de
pied revint portant une carte où la fille de la Berma avait
griffonné qu'elle et son mari n'avaient pu résister au désir
d'entendre Rachel et lui demandaient de les laisser entrer.
Rachel sourit de la niaiserie de leur prétexte et de son propre
triomphe. Elle fit répondre qu'elle était désolée, mais qu'elle
avait terminé ses récitations. Déjà, dans l'antichambre, où
l'attente du couple s'était prolongée, les valets de pied
commençaient à se gausser des deux solliciteurs éconduits.
La honte d'une avanie, le souvenir du rien qu'était Rachel
auprès de sa mère, poussèrent la fille de la Berma à
poursuivre à fond une démarche que lui avait fait risquer
d'abord le simple besoin du plaisir. Elle fit demander comme
un service à Rachel, dût-elle ne pas avoir à l'entendre, la
permission de lui serrer la main. Rachel était en train de
causer avec un prince italien qu'on disait séduit par l'attrait
de sa grande fortune, dont quelques relations mondaines
dissimulaient un peu l'origine ; elle mesura le renversement
des situations qui mettait maintenant les enfants de l'illustre
Berma à ses pieds. Après avoir narré à tout le monde, d'une
façon plaisante, cet incident, elle fit dire au jeune couple
d'entrer, ce qu'il fit sans se faire prier, ruinant d'un seul coup
la situation sociale de la Berma comme il avait détruit sa
santé. Rachel l'avait compris, et que son amabilité
condescendante donnerait la réputation, à elle de plus de
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bonté, au jeune couple de plus de bassesse que n'eût fait son
refus. Aussi les reçut-elle à bras ouverts, avec affectation,
disant d'un air de protectrice en vue et qui sait oublier sa
grandeur : « Mais je crois bien ! c'est une joie. La princesse
sera ravie. » Ne sachant pas qu'on croyait, au Théâtre, que
c'était elle qui invitait, peut-être avait-elle craint qu'en
refusant l'entrée aux enfants de la Berma ceux-ci doutassent,
au lieu de sa bonne volonté, ce qui lui eût été bien égal, de
son influence. La duchesse de Guermantes s'éloigna
instinctivement, car au fur et à mesure que quelqu'un avait
l'air de rechercher le monde, il baissait dans l'estime de la
duchesse. Elle n'en avait plus en ce moment que pour la
bonté de Rachel et eût tourné le dos aux enfants de la Berma
si on les lui avait présentés. Rachel, cependant, composait
déjà dans sa tête la phrase gracieuse dont elle accablerait le
lendemain la Berma dans les coulisses : « J'ai été navrée,
désolée, que votre fille fasse antichambre. Si j'avais compris !
Elle m'envoyait bien cartes sur cartes. » Elle était ravie de
porter ce coup à la Berma. Peut-être eût-elle reculé si elle eût
su que ce serait un coup mortel. On aime à faire des
victimes, mais sans se mettre précisément dans son tort, et
en les laissant vivre. D'ailleurs, où était son tort ? Elle devait
dire en riant, quelques jours plus tard : « C'est un peu fort,
j'ai voulu être plus aimable pour ses enfants qu'elle n'a jamais
été pour moi, et pour un peu on m'accuserait de l'avoir
assassinée. Je prends la duchesse à témoin. » Il semble pour
les grands artistes que tous les mauvais sentiments et tout le
factice de la vie de théâtre passent en leurs enfants sans que
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chez eux le travail obstiné soit un dérivatif comme chez la
mère ; les grandes tragédiennes meurent souvent victimes de
complots domestiques noués autour d'elles, comme il leur
arrivait tant de fois à la fin des pièces qu'elles jouaient.
***
Gilberte, nous l'avons vu, avait voulu éviter un conflit avec
sa tante au sujet de Rachel. Elle avait bien fait : il n'était déjà
pas facile de prendre devant Mme de Guermantes la défense
de la fille d'Odette, tant son animosité était grande, et cela
parce que la manière nouvelle dont la duchesse m'avait dit
être trompée était la manière dont le duc la trompait, si
extraordinaire que cela pût paraître à qui savait l'âge
d'Odette, avec Mme de Forcheville.
Quand on pensait à l'âge que devait avoir maintenant Mme
de Forcheville, cela semblait, en effet, extraordinaire. Mais
peut-être Odette avait-elle commencé la vie de femme
galante très jeune. Et puis il y a des femmes qu'à chaque
décade on retrouve en une nouvelle incarnation, ayant de
nouvelles amours, parfois alors qu'on les croyait mortes,
faisant le désespoir d'une jeune femme que pour elles
abandonne son mari.
La vie de la duchesse ne laissait pas, d'ailleurs, d'être très
malheureuse et pour une raison qui, par ailleurs, avait pour
effet de déclasser parallèlement la société que fréquentait M.
de Guermantes. Celui-ci qui, depuis longtemps calmé par
son âge avancé, et quoiqu'il fût encore robuste, avait cessé de
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tromper Mme de Guermantes, s'était épris de Mme de
Forcheville sans qu'on sût bien les débuts de cette liaison.
Mais celle-ci avait pris des proportions telles que le
vieillard, imitant, dans ce dernier amour, la manière de celles
qu'il avait eues autrefois, séquestrait sa maîtresse au point
que, si mon amour pour Albertine avait répété, avec de
grandes variations, l'amour de Swann pour Odette, l'amour
de M. de Guermantes rappelait celui que j'avais eu pour
Albertine. Il fallait qu'elle déjeunât, qu'elle dînât avec lui, il
était toujours chez elle ; elle s'en parait auprès d'amis qui
sans elle n'eussent jamais été en relation avec le duc de
Guermantes et qui venaient là pour le connaître, un peu
comme on va chez une cocotte pour connaître un souverain
son amant. Certes, Mme de Forcheville était depuis
longtemps devenue une femme du monde. Mais
recommençant à être entretenue sur le tard, et par un si
orgueilleux vieillard qui était tout de même chez elle le
personnage important, elle se diminuait à chercher
seulement à avoir les peignoirs qui lui plussent, la cuisine
qu'il aimait, à flatter ses amis en leur disant qu'elle lui avait
parlé d'eux, comme elle disait à mon grand-oncle qu'elle
avait parlé de lui au Grand-Duc qui lui envoyait des
cigarettes, en un mot elle tendait, malgré tout l'acquis de sa
situation mondaine, et par la force de circonstances
nouvelles, à redevenir, telle qu'elle était apparue à mon
enfance, la dame en rose. Certes, il y avait bien des années
que mon oncle Adolphe était mort. Mais la substitution
autour de nous d'autres personnes aux anciennes nous
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empêche-t-elle de recommencer la même vie ? Ces
circonstances nouvelles, elle s'y était prêtée sans doute par
cupidité, mais aussi parce que, assez recherchée dans le
monde quand elle avait une fille à marier, laissée de côté dès
que Gilberte eut épousé Saint-Loup, elle sentit que le duc de
Guermantes, qui eût tout fait pour elle, lui amènerait nombre
de duchesses peut-être enchantées de jouer un tour à leur
amie Oriane, et peut-être enfin piquée au jeu par le
mécontentement de la duchesse sur laquelle un sentiment
féminin de rivalité la rendait heureuse de prévaloir. Des
neveux fort difficiles du duc de Guermantes, les Courvoisier,
Mme de Marsantes, la princesse de Trania, allaient chez
Mme de Forcheville dans un espoir d'héritage, sans
s'occuper de la peine que cela pouvait faire à Mme de
Guermantes, dont Odette, piquée par ses dédains, disait tout
le mal possible. Cette liaison avec Mme de Forcheville,
liaison qui n'était qu'une imitation de ses liaisons plus
anciennes, venait de faire perdre au duc de Guermantes,
pour la deuxième fois, la possibilité de la présidence du
Jockey et un siège de membre libre à l'Académie des BeauxArts, comme la vie de M. de Charlus, publiquement associée
à celle de Jupien, lui avait fait manquer la présidence de
l'Union et celle aussi de la Société des amis du Vieux Paris.
Ainsi les deux frères, si différents dans leurs goûts, étaient
arrivés à la déconsidération à cause d'une même paresse,
d'un même manque de volonté, lequel était sensible, mais
agréablement, chez le duc de Guermantes leur grand-père,
membre de l'Académie française, mais qui, chez les deux
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petits-fils, avait permis à un goût naturel et à un autre qui
passe pour ne l'être pas, de les désocialiser.
Le vieux duc ne sortait plus, car il passait ses journées et
ses soirées chez Odette. Mais aujourd'hui, comme elle-même
s'était rendue à la matinée de la princesse de Guermantes, il
était venu un instant pour la voir, malgré l'ennui de
rencontrer sa femme. Je ne l'eusse sans doute pas reconnu, si
la duchesse, quelques instants plus tôt, ne me l'eût clairement
désigné en allant jusqu'à lui. Il n'était plus qu'une ruine, mais
superbe, et plus encore qu'une ruine, cette belle chose
romantique que peut être un rocher dans la tempête.
Fouettée de toutes parts par les vagues de souffrance, de
colère de souffrir, d'avancée montante de la mer qui la
circonvenaient, sa figure, effritée comme un bloc, gardait le
style, la cambrure que j'avais toujours admirés ; elle était
rongée comme une de ces belles têtes antiques trop abîmées
mais dont nous sommes trop heureux d'orner un cabinet de
travail. Elle paraissait seulement appartenir à une époque
plus ancienne qu'autrefois, non seulement à cause de ce
qu'elle avait pris de rude et de rompu dans sa matière jadis
plus brillante, mais parce que à l'expression de finesse et
d'enjouement avait succédé une involontaire, une
inconsciente expression, bâtie par la maladie, de lutte contre
la mort, de résistance, de difficulté à vivre. Les artères ayant
perdu toute souplesse avaient donné au visage jadis épanoui
une dureté sculpturale. Et sans que le duc s'en doutât, il
découvrait des aspects de nuque, de joue, de front, où l'être,
comme obligé de se raccrocher avec acharnement à chaque
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minute, semblait bousculé dans une tragique rafale, pendant
que les mèches blanches de sa chevelure moins épaisse
venaient souffleter de leur écume le promontoire envahi du
visage. Et comme ces reflets étranges, uniques, que seule
l'approche de la tempête où tout va sombrer donne aux
roches qui avaient été jusque-là d'une autre couleur, je
compris que le gris plombé des joues raides et usées, le gris
presque blanc et moutonnant des mèches soulevées, la faible
lumière encore départie aux yeux qui voyaient à peine,
étaient des teintes non pas irréelles, trop réelles au contraire,
mais fantastiques et empruntées à la palette de l'éclairage,
inimitable dans ses noirceurs effrayantes et prophétiques, de
la vieillesse, de la proximité de la mort. Le duc ne resta que
quelques instants, assez pour que je comprisse qu'Odette,
toute à des soupirants plus jeunes, se moquait de lui. Mais,
chose curieuse, lui qui jadis était presque ridicule quand il
prenait l'allure d'un roi de théâtre avait pris un aspect
véritablement grand, un peu comme son frère, à qui la
vieillesse, en le désencombrant de tout l'accessoire, le faisait
ressembler. Et comme son frère, lui, jadis orgueilleux, bien
que d'une autre manière, semblait presque respectueux,
quoique aussi d'une autre façon. Car il n'avait pas subi la
déchéance de M. de Charlus, réduit à saluer avec une
politesse de malade oublieux ceux qu'il eût jadis dédaignés,
mais il était très vieux, et quand il voulut passer la porte et
descendre l'escalier pour sortir, la vieillesse, qui est tout de
même l'état le plus misérable pour les hommes et qui les
précipite de leur faîte le plus semblablement aux rois des
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tragédies grecques, la vieillesse, en le forçant à s'arrêter dans
le chemin de croix que devient la vie des impotents menacés,
à essuyer son front ruisselant, à tâtonner, en cherchant des
yeux une marche qui se dérobait, parce qu'il aurait eu besoin
pour ses pas mal assurés, pour ses yeux ennuagés, d'un
appui, lui donnait à son insu l'air de l'implorer doucement et
timidement des autres, la vieillesse l'avait fait encore plus
qu'auguste, suppliant.
Ainsi, dans le faubourg Saint-Germain, ces positions en
apparence imprenables du duc et de la duchesse de
Guermantes, du baron de Charlus avaient perdu leur
inviolabilité, comme toutes choses changent en ce monde,
par l'action d'un principe intérieur auquel on n'avait pas
pensé : chez M. de Charlus l'amour de Charlie qui l'avait
rendu esclave des Verdurin, puis le ramollissement ; chez
Mme de Guermantes, un goût de nouveauté et d'art ; chez
M. de Guermantes, un amour exclusif, comme il en avait
déjà eu de pareils dans sa vie, que la faiblesse de l'âge rendait
plus tyrannique et aux faiblesses duquel la sévérité du salon
de la duchesse, où le duc ne paraissait plus et qui, d'ailleurs,
ne fonctionnait plus guère, n'opposait plus son démenti, son
rachat mondain. Ainsi change la figure des choses de ce
monde, ainsi le centre des empires et le cadastre des
fortunes, et la charte des situations, tout ce qui semblait
définitif est-il perpétuellement remanié et les yeux d'un
homme qui a vécu peuvent-ils contempler le changement le
plus complet là où justement il lui paraissait le plus
impossible.
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Ne pouvant se passer d'Odette, toujours installé chez elle
dans le même fauteuil d'où la vieillesse et la goutte le
faisaient difficilement lever, M. de Guermantes la laissait
recevoir des amis qui étaient trop contents d'être présentés
au duc, de lui laisser la parole, de l'entendre parler de la
vieille société, de la marquise de Villeparisis, du duc de
Chartres.
Par moments, sous le regard des tableaux anciens réunis
par Swann dans un arrangement de « collectionneur » qui
achevait le caractère démodé de cette scène, avec ce duc si «
Restauration » et cette cocotte tellement « Second Empire »,
dans un des peignoirs qu'il aimait, la dame en rose
l'interrompait d'une jacasserie : il s'arrêtait net, plantait sur
elle un regard féroce. Peut-être s'était-il aperçu qu'elle aussi,
comme la duchesse, disait quelquefois des bêtises ; peut-être,
dans une hallucination de vieillard, croyait-il que c'était un
trait d'esprit intempestif de Mme de Guermantes qui lui
coupait la parole, et se croyait-il à l'hôtel de Guermantes,
comme ces fauves enchaînés qui se figurent un instant être
encore libres dans les déserts de l'Afrique. Levant
brusquement la tête, de ses petits yeux jaunes qui avaient
l'éclat d'yeux de fauves il fixait sur elle un de ces regards qui
quelquefois chez Mme de Guermantes, quand celle-ci parlait
trop, m'avaient fait trembler. Ainsi le duc regardait-il un
instant l'audacieuse dame en rose. Mais celle-ci lui tenait tête,
ne le quittait pas des yeux, et au bout de quelques instants
qui semblaient longs aux spectateurs, le vieux fauve dompté,
se rappelant qu'il était, non pas libre chez la duchesse, dans
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Marcel Proust – Le Temps retrouvé
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ce Sahara dont le paillasson du palier marquait l'entrée, mais
chez Mme de Forcheville, dans la cage du Jardin des Plantes,
rentrait dans ses épaules sa tête d'où pendait encore une
épaisse crinière dont on n'aurait pu dire si elle était blonde
ou blanche, et reprenait son récit. Il semblait n'avoir pas
compris ce que Mme de Forcheville avait voulu dire et qui,
d'ailleurs, généralement n'avait pas grand sens. Il lui
permettait d'avoir des amis à dîner avec lui. Par une manie
empruntée à ses anciennes amours, qui n'était pas pour
étonner Odette, habituée à avoir eu la même de Swann, et
qui me touchait moi, en me rappelant ma vie avec Albertine,
il exigeait que ces personnes se retirassent de bonne heure
afin qu'il pût dire bonsoir à Odette le dernier. Inutile de dire
qu'à peine était-il parti, elle allait en rejoindre d'autres. Mais
le duc ne s'en doutait pas ou préférait ne pas avoir l'air de
s'en douter ; la vue des vieillards baisse, comme leur oreille
devient plus dure, leur clairvoyance s'obscurcit, la fatigue
même fait faire relâche à leur vigilance. Et à un certain âge
c'est en un personnage de Molière – non pas même en
l'olympien amant d'Alcmène mais en un risible Géronte –
que se change inévitablement Jupiter. D'ailleurs, Odette
trompait M. de Guermantes, et aussi le soignait, sans
charme, sans grandeur. Elle était médiocre dans ce rôle
comme dans tous les autres. Non pas que la vie ne lui en eût
souvent donné de beaux, mais elle ne savait pas les jouer. En
attendant, elle jouait celui de recluse. De fait, chaque fois que
je voulus la voir dans la suite je n'y pus réussir, car M. de
Guermantes, voulant à la fois concilier les exigences de son
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hygiène et de sa jalousie, ne lui permettait que les fêtes de
jour, à condition encore que ce ne fussent pas des bals. Cette
réclusion où elle était tenue, elle me l'avoua avec franchise,
pour diverses raisons. La principale est qu'elle s'imaginait,
bien que je n'eusse écrit que des articles ou publié que des
études, que j'étais un auteur connu, ce qui lui faisait même
naïvement dire, se rappelant le temps où j'allais avenue des
Acacias pour la voir passer, et plus tard chez elle : « Ah ! si
j'avais pu deviner que ce petit serait un jour un grand
écrivain ! » Or, ayant entendu dire que les écrivains se
plaisent auprès des femmes pour se documenter, se faire
raconter des histoires d'amour, elle redevenait maintenant
avec moi simple cocotte pour m'intéresser : « Tenez, une fois
il y avait un homme qui s'était toqué de moi et que j'aimais
éperdument aussi. Nous vivions d'une vie divine. Il avait un
voyage à faire en Amérique, je devais y aller avec lui. La
veille du départ, je trouvai que c'était plus beau de ne pas
laisser diminuer un amour qui ne pourrait pas toujours rester
à ce point. Nous eûmes une dernière soirée où il était
persuadé que je partais, ce fut une nuit folle, j'avais près de
lui des joies infinies et le désespoir de sentir que je ne le
reverrais pas. Le matin j'étais allée donner mon billet à un
voyageur que je ne connaissais pas. Il voulait au moins
l'acheter. Je lui répondis : « Non, vous me rendez un tel
service en me le prenant, je ne veux pas d'argent. » Puis
c'était une autre histoire : « Un jour j'étais dans les ChampsÉlysées, M. de Bréauté, que je n'avais vu qu'une fois, se mit à
me regarder avec une telle insistance que je m'arrêtai et lui
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demandai pourquoi il se permettait de me regarder comme
ça. Il me répondit : « Je vous regarde parce que vous avez un
chapeau ridicule. » C'était vrai. C'était un petit chapeau avec
des pensées, les modes de ce temps-là étaient affreuses. Mais
j'étais en fureur, je lui dis : « Je ne vous permets pas de me
parler ainsi. » Il se mit à pleuvoir. Je lui dis : « Je ne vous
pardonnerais que si vous aviez une voiture. – Hé bien,
justement j'en ai une et je vais vous accompagner. – Non, je
veux bien de votre voiture, mais pas de vous. » Je montai
dans la voiture, il partit sous la pluie. Mais le soir il arriva
chez moi. Nous eûmes deux années d'un amour fou. » Elle
reprit : « Venez prendre une fois le thé avec moi, je vous
raconterai comment j'ai fait la connaissance de M. de
Forcheville. Au fond, dit-elle d'un air mélancolique, j'ai passé
ma vie cloîtrée parce que je n'ai eu de grands amours que
pour des hommes qui étaient terriblement jaloux de moi. Je
ne parle pas de M. de Forcheville, car, au fond, c'était un
médiocre et je n'ai jamais pu aimer véritablement que des
gens intelligents. Mais, voyez-vous, M. Swann était aussi
jaloux que l'est ce pauvre duc ; pour celui-ci je me prive de
tout parce que je sais qu'il n'est pas heureux chez lui. Pour
M. Swann, c'était parce que je l'aimais follement, et je trouve
qu'on peut bien sacrifier la danse, et le monde, et tout le
reste à ce qui peut faire plaisir ou seulement éviter des soucis
à un homme qu'on aime. Pauvre Charles, il était si intelligent,
si séduisant, exactement le genre d'hommes que j'aimais. » Et
c'était peut-être vrai. Il y avait eu un temps où Swann lui
avait plu, justement celui où elle n'était pas « son genre ». À
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vrai dire, « son genre », même plus tard, elle ne l'avait jamais
été. Il l'avait pourtant alors tant et si douloureusement aimée.
Il était surpris plus tard de cette contradiction. Elle ne doit
pas en être une si nous songeons combien est forte dans la
vie des hommes la proportion des souffrances pour des
femmes « qui n'étaient pas leur genre ». Peut-être cela tient-il
à bien des causes ; d'abord, parce qu'elles ne sont pas votre
genre on se laisse d'abord aimer sans aimer, par là on laisse
prendre sur sa vie une habitude qui n'aurait pas eu lieu avec
une femme qui eût été votre genre et qui, se sentant désirée,
se fût disputée, ne nous aurait accordé que de rares rendezvous, n'eût pas pris dans notre vie cette installation dans
toutes nos heures qui plus tard, si l'amour vient et qu'elle
vienne à nous manquer, pour une brouille, pour un voyage
où on nous laisse sans nouvelles, ne nous arrache pas un seul
lien mais mille. Ensuite, cette habitude est sentimentale parce
qu'il n'y a pas grand désir physique à la base, et si l'amour
naît, le cerveau travaille bien davantage : il y a un roman au
lieu d'un besoin. Nous ne nous méfions pas des femmes qui
ne sont pas notre genre, nous les laissons nous aimer, et si
nous les aimons ensuite, nous les aimons cent fois plus que
les autres, sans avoir même près d'elles la satisfaction du
désir assouvi. Pour ces raisons et bien d'autres, le fait que
nous ayons nos plus gros chagrins avec les femmes qui ne
sont pas notre genre ne tient pas seulement à cette dérision
du destin qui ne réalise notre bonheur que sous la forme qui
nous plaît le moins. Une femme qui est notre genre est
rarement dangereuse, car ou elle ne veut pas de nous, ou
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nous contente et nous quitte vite, ne s'installe pas dans notre
vie, et ce qui est dangereux et procréateur de souffrances
dans l'amour, ce n'est pas la femme elle-même, c'est sa
présence de tous les jours, la curiosité de ce qu'elle fait à tous
moments ; ce n'est pas la femme, c'est l'habitude. J'eus la
lâcheté d'ajouter que ce qu'elle disait de Swann était gentil et
noble de sa part, mais je savais combien c'était faux et que sa
franchise se mêlait de mensonges. Je pensais avec effroi, au
fur et à mesure qu'elle me racontait ses aventures, à tout ce
que Swann avait ignoré, dont il aurait tant souffert parce qu'il
avait fixé sa sensibilité sur cet être-là, et qu'il devinait à en
être sûr, rien qu'à ses regards quand elle voyait un homme ou
une femme inconnus et qui lui plaisaient. Au fond, elle le
faisait seulement pour me donner ce qu'elle croyait des sujets
de nouvelles ! Elle se trompait, non qu'elle n'eût de tout
temps abondamment fourni les réserves de mon
imagination, mais d'une façon bien plus involontaire et par
un acte émané de moi-même, qui dégageait d'elle à son insu
les lois de sa vie.
M. de Guermantes ne gardait ses foudres que pour la
duchesse ; sur les libres fréquentations de laquelle Mme de
Forcheville ne manquait pas d'attirer l'attention irritée du
duc. Aussi la duchesse était-elle fort malheureuse. Il est vrai
que M. de Charlus, à qui j'en avais parlé une fois, prétendait
que les premiers torts n'avaient pas été du côté de son frère,
que la légende de pureté de la duchesse était faite, en réalité,
d'un nombre incalculable d'aventures habilement
dissimulées. Je n'avais jamais entendu parler de cela. Pour
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presque tout le monde Mme de Guermantes était une
femme toute différente. L'idée qu'elle avait été toujours
irréprochable gouvernait les esprits. Entre ces deux idées je
ne pouvais décider laquelle était conforme à la vérité, cette
vérité que presque toujours les trois quarts des gens
ignorent. Je me rappelais bien certains regards bleus et
vagabonds de la duchesse de Guermantes dans la nef de
Combray, mais, vraiment, aucune des deux idées n'était
réfutée par eux, et l'une et l'autre pouvaient leur donner un
sens différent et aussi acceptable. Dans ma folie, enfant, je
les avais pris un instant pour des regards d'amour adressés à
moi. Depuis j'avais compris qu'ils n'étaient que des regards
bienveillants d'une suzeraine, pareille à celle des vitraux de
l'église, pour ses vassaux. Fallait-il maintenant croire que
c'était ma première idée qui avait été la vraie, et que si, plus
tard, jamais la duchesse ne m'avait parlé d'amour, c'est parce
qu'elle avait craint de se compromettre avec un ami de sa
tante et de son neveu plus qu'avec un enfant inconnu
rencontré par hasard à Saint-Hilaire de Combray ?
***
La duchesse avait pu un instant être heureuse de sentir son
passé plus consistant parce qu'il était partagé par moi, mais à
quelques questions que je lui posai à nouveau sur le
provincialisme de M. de Bréauté, que j'avais à l'époque peu
distingué de M. de Sagan, ou de M. de Guermantes, elle
reprit son point de vue de femme du monde, c'est-à-dire de
contemptrice de la mondanité. Tout en me parlant, la
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duchesse me faisait visiter l'Hôtel. Dans des salons plus
petits on trouvait des intimes qui, pour écouter la musique,
avaient préféré s'isoler. Dans un petit salon Empire, où
quelques rares habits noirs écoutaient assis sur un canapé, on
voyait, à côté d'une Psyché supportée par une Minerve, une
chaise longue, placée de façon rectiligne, mais à l'intérieur
incurvée comme un berceau, et où une jeune femme était
étendue. La mollesse de sa pose, que l'entrée de la duchesse
ne lui fit même pas déranger, contrastait avec l'éclat
merveilleux de sa robe Empire en une soierie nacarat devant
laquelle les plus rouges fuchsias eussent pâli et sur le tissu
nacré de laquelle des insignes et des fleurs semblaient avoir
été enfoncés longtemps, car leur trace y restait en creux.
Pour saluer la duchesse elle inclina légèrement sa belle tête
brune. Bien qu'il fît grand jour, comme elle avait demandé
qu'on fermât les grands rideaux, en vue de plus de
recueillement pour la musique, on avait, pour ne pas se
tordre les pieds, allumé sur un trépied une urne où s'irisait
une faible lueur. En réponse à ma demande, la duchesse de
Guermantes me dit que c'était Mme de Sainte-Euverte. Alors
je voulus savoir ce qu'elle était à la madame de SainteEuverte que j'avais connue. Mme de Guermantes me dit que
c'était la femme d'un de ses petits-neveux, parut supporter
l'idée qu'elle était née La Rochefoucauld, mais nia avoir ellemême connu des Sainte-Euverte. Je lui rappelai la soirée, que
je n'avais sue, il est vrai, que par ouï-dire, où princesse des
Laumes, elle avait retrouvé Swann. Mme de Guermantes
m'affirma n'avoir jamais été à cette soirée. La duchesse avait
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toujours été un peu menteuse et l'était devenue davantage.
Mme de Sainte-Euverte était pour elle un salon – d'ailleurs
assez tombé avec le temps – qu'elle aimait à renier. Je
n'insistai pas. « Non, qui vous avez pu entrevoir chez moi,
parce qu'il avait de l'esprit, c'est le mari de celle dont vous
parlez et avec qui je n'étais pas en relations. – Mais elle
n'avait pas de mari. – Vous vous l'êtes figuré parce qu'ils
étaient séparés, mais il était bien plus agréable qu'elle. » Je
finis par comprendre qu'un homme énorme, extrêmement
grand, extrêmement fort, avec des cheveux tout blancs, que
je rencontrais un peu partout et dont je n'avais jamais su le
nom était le mari de Mme de Sainte-Euverte. Il était mort
l'an passé. Quant à la nièce, j'ignore si c'est à cause d'une
maladie d'estomac, de nerfs, d'une phlébite, d'un
accouchement prochain, récent ou manqué, qu'elle écoutait
la musique étendue sans se bouger pour personne. Le plus
probable est que, fière de ses belles soies rouges, elle pensait
faire sur sa chaise longue un effet genre Récamier. Elle ne se
rendait pas compte qu'elle donnait pour moi la naissance à
un nouvel épanouissement de ce nom Sainte-Euverte, qui à
tant d'intervalle marquait la distance et la continuité du
Temps. C'est le Temps qu'elle berçait dans cette nacelle où
fleurissaient le nom de Sainte-Euverte et le style Empire en
soie de fuchsias rouges. Ce style Empire, Mme de
Guermantes déclarait l'avoir toujours détesté ; cela voulait
dire qu'elle le détestait maintenant, ce qui était vrai, car elle
suivait la mode, bien qu'avec quelque retard. Sans
compliquer en parlant de David qu'elle connaissait peu, toute
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jeune fille elle avait cru M. Ingres le plus ennuyeux des
poncifs, puis, brusquement, le plus savoureux des maîtres de
l'Art nouveau, jusqu'à détester Delacroix. Par quels degrés
elle était revenue de ce culte à la réprobation importe peu,
puisque ce sont là des nuances des goûts que le critique d'art
reflète dix ans avant la conversation des femmes supérieures.
Après avoir critiqué le style Empire, elle s'excusa de m'avoir
parlé de gens aussi insignifiants que les Sainte-Euverte et de
niaiseries comme le côté provincial de Bréauté, car elle était
aussi loin de penser pourquoi cela m'intéressait que Mme de
Sainte-Euverte de La Rochefoucauld, cherchant le bien de
son estomac ou un effet ingresque, était loin de soupçonner
que son nom m'avait ravi, celui de son mari, non celui plus
glorieux de ses parents, et que je lui voyais comme une
fonction dans cette pièce pleine d'attributs de bercer le
temps. « Mais comment puis-je vous parler de ces sottises,
comment cela peut-il vous intéresser ? » s'écria la duchesse.
Elle avait dit cette phrase à mi-voix et personne n'avait pu
entendre ce qu'elle disait. Mais un jeune homme (qui devait
m'intéresser dans la suite par un nom bien plus familier de
moi autrefois que celui de Sainte-Euverte) se leva d'un air
exaspéré et alla plus loin pour écouter avec plus de
recueillement. Car c'était la sonate à Kreutzer qu'on jouait,
mais, s'étant trompé sur le programme, il croyait que c'était
un morceau de Ravel qu'on lui avait déclaré être beau
comme du Palestrina, mais difficile à comprendre. Dans sa
violence à changer de place, il heurta, à cause de la demiobscurité, un bonheur du jour, ce qui n'alla pas sans faire
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tourner la tête à beaucoup de personnes pour qui cet
exercice si simple de regarder derrière soi interrompait un
peu le supplice d'écouter « religieusement » la sonate à
Kreutzer. Et Mme de Guermantes et moi, causes de ce petit
scandale, nous nous hâtâmes de changer de pièce. « Oui,
comment ces riens-là peuvent-ils intéresser un homme de
votre mérite ? C'est comme tout à l'heure, quand je vous
voyais causer avec Gilberte de Saint-Loup. Ce n'est pas digne
de vous. Pour moi c'est exactement rien, cette femme-là, ce
n'est même pas une femme, c'est ce que je connais de plus
factice et de plus bourgeois au monde (car, même à sa
défense de l'actualité, la duchesse mêlait ses préjugés
d'aristocrate). D'ailleurs devriez-vous venir dans des maisons
comme ici ? Aujourd'hui, encore, je comprends parce qu'il y
avait cette récitation de Rachel, ça peut vous intéresser. Mais
si belle qu'elle ait été, elle ne donne pas devant ce public-là.
Je vous ferai déjeuner seule avec elle. Alors vous verrez l'être
que c'est. Mais elle est cent fois supérieure à tout ce qui est
ici. Et après déjeuner elle vous dira du Verlaine. Vous m'en
direz des nouvelles. » Elle me vanta surtout ses aprèsdéjeuners, où il y avait tous les jours X et Y. Car elle en était
arrivée à cette conception des femmes à « salons » qu'elle
méprisait autrefois (bien qu'elle le niât aujourd'hui) et dont la
grande supériorité, le signe d'élection selon elle, étaient
d'avoir chez elle « tous les hommes ». Si je lui disais que telle
grande dame à « salons » ne disait pas du bien, quand elle
vivait, de Mme Howland, la duchesse éclatait de rire devant
ma naïveté : « Naturellement, l'autre avait chez elle tous les
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hommes et celle-ci cherchait à les attirer. » Elle reprit : « Mais
dans de grandes machines comme ici, non, ça me passe que
vous veniez. À moins que ce ne soit pour faire des études...
», ajouta-t-elle d'un air de doute, de méfiance, et sans trop
s'aventurer, car elle ne savait pas très exactement en quoi
consistait le genre d'opérations improbables auquel elle
faisait allusion.
« Est-ce que vous ne croyez pas, dis-je à la duchesse, que
ce soit pénible à Mme de Saint-Loup d'entendre ainsi,
comme elle vient de le faire, l'ancienne maîtresse de son mari
? » Je vis se former dans le visage de Mme de Guermantes
cette barre oblique qui relie par des raisonnements ce qu'on
vient d'entendre à des pensées peu agréables. Raisonnements
inexprimés, il est vrai, mais toutes les choses graves que nous
disons ne reçoivent jamais de réponse ni verbale, ni écrite.
Les sots seuls sollicitent en vain deux fois de suite une
réponse à une lettre qu'ils ont eu le tort d'écrire et qui était
une gaffe ; car à ces lettres-là il n'est jamais répondu que par
des actes, et la correspondante qu'on croit inexacte vous dit
Monsieur quand elle vous rencontre, au lieu de vous appeler
par votre prénom. Mon allusion à la liaison de Saint-Loup
avec Rachel n'avait rien de si grave et ne put mécontenter
qu'une seconde Mme de Guermantes en lui rappelant que
j'avais été l'ami de Robert, et peut-être son confident au sujet
des déboires qu'avait procurés à Rachel sa soirée chez la
duchesse. Mais celle-ci ne persista pas dans ses pensées, la
barre orageuse se dissipa, et Mme de Guermantes me
répondit à ma question relative à Mme de Saint-Loup : « Je
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vous dirai que je crois que ça lui est d'autant plus égal que
Gilberte n'a jamais aimé son mari. C'est une petite horreur.
Elle a aimé la situation, le nom, être ma nièce, sortir de sa
fange, après quoi elle n'a pas eu d'autre idée que d'y rentrer.
Je vous dirai que ça me faisait beaucoup de peine à cause du
pauvre Robert, parce qu'il avait beau ne pas être un aigle, il
s'en apercevait très bien, et d'un tas de choses. Il ne faut pas
le dire parce qu'elle est malgré tout ma nièce, je n'ai pas la
preuve positive qu'elle le trompait, mais il y a eu un tas
d'histoires. Mais si, je vous dis que je le sais, avec un officier
de Méséglise, Robert a voulu se battre. C'est pour tout ça
que Robert s'est engagé. La guerre lui est apparue comme
une délivrance de ses chagrins de famille ; si vous voulez ma
pensée, il n'a pas été tué, il s'est fait tuer. Elle n'a eu aucune
espèce de chagrin, elle m'a même étonnée par un rare
cynisme dans l'affectation de son indifférence, ce qui m'a fait
beaucoup de chagrin parce que j'aimais bien le pauvre
Robert. Ça vous étonnera peut-être parce qu'on me connaît
mal, mais il m'arrive encore de penser à lui. Je n'oublie
personne. Il ne m'a jamais rien dit, mais il avait bien compris
que je devinais tout. Mais, voyons, si elle avait aimé tant soit
peu son mari, pourrait-elle supporter avec ce flegme de se
trouver dans le même salon que la femme dont il a été
l'amant éperdu pendant tant d'années, on peut dire toujours,
car j'ai la certitude que ça n'a jamais cessé, même pendant la
guerre. Mais elle lui sauterait à la gorge », s'écria la duchesse,
oubliant qu'elle-même, en faisant inviter Rachel et en
rendant possible la scène qu'elle jugeait inévitable si Gilberte
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eût aimé Robert, agissait cruellement. « Non, voyez-vous,
conclut-elle, c'est une cochonne. » Une telle expression était
rendue possible à Mme de Guermantes par la pente agréable
qu'elle descendait, du milieu des Guermantes à la société des
comédiennes, et aussi parce qu'elle greffait cela sur un genre
XVIIIe siècle qu'elle jugeait plein de verdeur, enfin parce
qu'elle se croyait tout permis. Mais cette expression lui était
aussi dictée par la haine qu'elle éprouvait pour Gilberte, par
un besoin de la frapper, à défaut de matériellement, en
effigie. Et en même temps la duchesse pensait justifier par là
toute la conduite qu'elle tenait à l'égard de Gilberte, ou
plutôt contre elle, dans le monde, dans la famille, au point de
vue même des intérêts et de la succession de Robert. Mais
parfois les jugements qu'on porte reçoivent des faits qu'on
ignore et qu'on n'eût pu supposer une justification
apparente. Gilberte, qui tenait sans doute un peu de
l'ascendance de sa mère (et c'est bien cette facilité que j'avais,
sans m'en rendre compte, escomptée, en lui demandant de
me faire connaître de très jeunes filles), tira, après réflexion,
de la demande que j'avais faite, et sans doute pour que le
profit ne sortît pas de la famille, une conclusion plus hardie
que toutes celles que j'avais pu supposer et, revenant vers
moi, me dit : « Si vous le permettez, je vais aller chercher ma
fille pour vous la présenter. Elle est là-bas qui cause avec le
petit Mortemart et d'autres bambins sans intérêt. Je suis sûre
qu'elle sera une gentille amie pour vous. » Je lui demandai si
Robert avait été content d'avoir une fille : « Oh ! il était tout
fier d'elle. Mais, naturellement, je crois tout de même
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qu'étant donné ses goûts, dit naïvement Gilberte, il aurait
préféré un garçon. » Cette fille, dont le nom et la fortune
pouvaient faire espérer à sa mère qu'elle épouserait un prince
royal et couronnerait toute l'œuvre ascendante de Swann et
de sa femme, choisit plus tard comme mari un homme de
lettres obscur, car elle n'avait aucun snobisme, et fit
redescendre cette famille plus bas que le niveau d'où elle était
partie. Il fut alors extrêmement difficile de faire croire aux
générations nouvelles que les parents de cet obscur ménage
avaient eu une grande situation.
L'étonnement que me causèrent les paroles de Gilberte et
le plaisir qu'elles me firent furent bien vite remplacés, tandis
que Mme de Saint-Loup s'éloignait vers un autre salon, par
cette idée du Temps passé, qu'elle aussi, à sa manière, me
rendait, et sans même que je l'eusse vue, Mlle de Saint-Loup.
Comme la plupart des êtres, d'ailleurs, n'était-elle pas comme
sont dans les forêts les « étoiles » des carrefours où viennent
converger des routes venues, pour notre vie aussi, des points
les plus différents. Elles étaient nombreuses pour moi, celles
qui aboutissaient à Mlle de Saint-Loup et qui rayonnaient
autour d'elle. Et avant tout venaient aboutir à elle les deux
grands « côtés » où j'avais fait tant de promenades et de rêves
– par son père Robert de Saint-Loup le côté de Guermantes,
par Gilberte sa mère le côté de Méséglise qui était le côté de
chez Swann. L'un, par la mère de la jeune fille et les ChampsÉlysées, me menait jusqu'à Swann, à mes soirs de Combray,
au côté de Méséglise ; l'autre, par son père, à mes après-midi
de Balbec où je le revoyais près de la mer ensoleillée. Déjà
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entre ces deux routes des transversales s'établissaient. Car ce
Balbec réel où j'avais connu Saint-Loup, c'était en grande
partie à cause de ce que Swann m'avait dit sur les églises, sur
l'église persane surtout, que j'avais tant voulu y aller et,
d'autre part, par Robert de Saint-Loup, neveu de la duchesse
de Guermantes, je rejoignais, à Combray encore, le côté de
Guermantes. Mais à bien d'autres points de ma vie encore
conduisait Mlle de Saint-Loup, à la Dame en rose, qui était
sa grand'mère et que j'avais vue chez mon grand-oncle.
Nouvelle transversale ici, car le valet de chambre de ce
grand-oncle et qui m'avait introduit ce jour-là et qui plus tard
m'avait, par le don d'une photographie, permis d'identifier la
Dame en rose, était l'oncle du jeune homme que, non
seulement M. de Charlus, mais le père même de Mlle de
Saint-Loup avait aimé, pour qui il avait rendu sa mère
malheureuse. Et n'était-ce pas le grand-père de Mlle de SaintLoup, Swann, qui m'avait le premier parlé de la musique de
Vinteuil, de même que Gilberte m'avait la première parlé
d'Albertine ? Or, c'est en parlant de la musique de Vinteuil à
Albertine que j'avais découvert qui était sa grande amie et
commencé avec elle cette vie qui l'avait conduite à la mort et
m'avait causé tant de chagrins. C'était, du reste, aussi le père
de Mlle de Saint-Loup qui était parti tâcher de faire revenir
Albertine. Et même je revoyais toute ma vie mondaine, soit à
Paris dans le salon des Swann ou des Guermantes, soit tout à
l'opposé, à Balbec chez les Verdurin, faisant ainsi s'aligner, à
côté des deux côtés de Combray, les Champs-Élysées et la
belle terrasse de la Raspelière. D'ailleurs, quels êtres avons520
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nous connus qui, pour raconter notre amitié avec eux, ne
nous obligent à les placer nécessairement dans tous les sites
les plus différents de notre vie ? Une vie de Saint-Loup
peinte par moi se déroulerait dans tous les décors et
intéresserait toute ma vie, même les parties de cette vie où il
fut étranger, comme ma grand'mère ou comme Albertine.
D'ailleurs, si à l'opposé qu'ils fussent, les Verdurin tenaient à
Odette par le passé de celle-ci, à Robert de Saint-Loup par
Charlie, et chez eux quel rôle n'avait pas joué la musique de
Vinteuil. Enfin Swann avait aimé la sœur de Legrandin,
lequel avait connu M. de Charlus, dont le jeune Cambremer
avait épousé la pupille. Certes, s'il s'agit uniquement de nos
cœurs, le poète a eu raison de parler des fils mystérieux que
la vie brise. Mais il est encore plus vrai qu'elle en tisse sans
cesse entre les êtres, entre les événements, qu'elle entrecroise ces fils, qu'elle les redouble pour épaissir la trame, si
bien qu'entre le moindre point de notre passé et tous les
autres, un riche réseau de souvenirs ne laisse que le choix des
communications. On peut dire qu'il n'y avait pas, si je
cherchais à ne pas en user inconsciemment mais à me
rappeler ce qu'elle avait été, une seule des choses qui nous
servaient en ce moment qui n'avait été une chose vivante, et
vivant d'une vie personnelle pour nous, transformée ensuite
à notre usage en simple matière industrielle. Et ma
présentation à Mlle de Saint-Loup allait avoir lieu chez Mme
Verdurin devenue princesse de Guermantes ! Avec quel
charme je repensais à tous nos voyages avec Albertine –
dont j'allais demander à Mlle de Saint-Loup d'être un
521
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succédané – dans le petit tram, vers Doville, pour aller chez
Mme Verdurin, cette même Mme Verdurin qui avait noué et
rompu, avant mon amour pour Albertine, celui du grandpère et de la grand'mère de Mlle de Saint-Loup. Tout autour
de nous étaient des tableaux de cet Elstir qui m'avait
présenté à Albertine. Et pour mieux fondre tous mes passés,
Mme Verdurin, tout comme Gilberte, avait épousé un
Guermantes.
Nous ne pourrions pas raconter nos rapports avec un être,
que nous avons même peu connu, sans faire se succéder les
sites les plus différents de notre vie. Ainsi chaque individu –
et j'étais moi-même un de ces individus – mesurait pour moi
la durée par la révolution qu'il avait accomplie non
seulement autour de soi-même, mais autour des autres, et
notamment par les positions qu'il avait occupées
successivement par rapport à moi.
Et sans doute tous ces plans différents, suivant lesquels le
Temps, depuis que je venais de le ressaisir, dans cette fête,
disposait ma vie, en me faisant songer que, dans un livre qui
voudrait en raconter une, il faudrait user, par opposition à la
psychologie plane dont on use d'ordinaire, d'une sorte de
psychologie dans l'espace, ajoutaient une beauté nouvelle à
ces résurrections que ma mémoire opérait tant que je
songeais seul dans la bibliothèque, puisque la mémoire, en
introduisant le passé dans le présent sans le modifier, tel qu'il
était au moment où il était le présent, supprime précisément
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cette grande dimension du Temps suivant laquelle la vie se
réalise.
Je vis Gilberte s'avancer. Moi, pour qui le mariage de
Saint-Loup – les pensées qui m'occupaient alors et qui
étaient les mêmes ce matin – était d'hier, je fus étonné de
voir à côté d'elle une jeune fille d'environ seize ans, dont la
taille élevée mesurait cette distance que je n'avais pas voulu
voir.
Le temps incolore et insaisissable s'était, afin que, pour
ainsi dire, je puisse le voir et le toucher, matérialisé en elle et
l'avait pétrie comme un chef-d'œuvre, tandis que
parallèlement sur moi, hélas ! il n'avait fait que son œuvre.
Cependant Mlle de Saint-Loup était devant moi. Elle avait
les yeux profonds, nets, forés et perçants. Je fus frappé que
son nez, fait comme sur le patron de celui de sa mère et de
sa grand'mère, s'arrêtât juste par cette ligne tout à fait
horizontale sous le nez, sublime quoique pas assez courte.
Un trait aussi particulier eût fait reconnaître une statue entre
des milliers, n'eût-on vu que ce trait-là, et j'admirais que la
nature fût revenue à point nommé pour la petite fille,
comme pour la mère, comme pour la grand'mère, donner, en
grand et original sculpteur, ce puissant et décisif coup de
ciseau. Ce nez charmant, légèrement avancé en forme de
bec, avait la courbe, non point de celui de Swann mais de
celui de Saint-Loup. L'âme de ce Guermantes s'était
évanouie ; mais la charmante tête aux yeux perçants de
l'oiseau envolé était venue se poser sur les épaules de Mlle de
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Saint-Loup, ce qui faisait longuement rêver ceux qui avaient
connu son père. Je la trouvais bien belle, pleine encore
d'espérances. Riante, formée des années mêmes que j'avais
perdues, elle ressemblait à ma jeunesse.
Enfin cette idée de temps avait un dernier prix pour moi,
elle était un aiguillon, elle me disait qu'il était temps de
commencer si je voulais atteindre ce que j'avais quelquefois
senti au cours de ma vie, dans de brefs éclairs, du côté de
Guermantes, dans mes promenades en voiture avec Mme de
Villeparisis et qui m'avait fait considérer la vie comme digne
d'être vécue. Combien me le semblait-elle davantage,
maintenant qu'elle me semblait pouvoir être éclaircie, elle
qu'on vit dans les ténèbres ; ramenée au vrai de ce qu'elle
était, elle qu'on fausse sans cesse, en somme réalisée dans un
livre. Que celui qui pourrait écrire un tel livre serait heureux,
pensais-je ; quel labeur devant lui ! Pour en donner une idée,
c'est aux arts les plus élevés et les plus différents qu'il
faudrait emprunter des comparaisons ; car cet écrivain, qui,
d'ailleurs, pour chaque caractère, aurait à en faire apparaître
les faces les plus opposées, pour faire sentir son volume
comme celui d'un solide devrait préparer son livre
minutieusement, avec de perpétuels regroupements de
forces, comme pour une offensive, le supporter comme une
fatigue, l'accepter comme une règle, le construire comme
une église, le suivre comme un régime, le vaincre comme un
obstacle, le conquérir comme une amitié, le suralimenter
comme un enfant, le créer comme un monde, sans laisser de
côté ces mystères qui n'ont probablement leur explication
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que dans d'autres mondes et dont le pressentiment est ce qui
nous émeut le plus dans la vie et dans l'art. Et dans ces
grands livres-là, il y a des parties qui n'ont eu le temps que
d'être esquissées, et qui ne seront sans doute jamais finies, à
cause de l'ampleur même du plan de l'architecte. Combien de
grandes cathédrales restent inachevées. Longtemps, un tel
livre, on le nourrit, on fortifie ses parties faibles, on le
préserve, mais ensuite c'est lui qui grandit, qui désigne notre
tombe, la protège contre les rumeurs et quelque peu contre
l'oubli. Mais, pour en revenir à moi-même, je pensais plus
modestement à mon livre, et ce serait même inexact que de
dire en pensant à ceux qui le liraient, à mes lecteurs. Car ils
ne seraient pas, comme je l'ai déjà montré, mes lecteurs, mais
les propres lecteurs d'eux-mêmes, mon livre n'étant qu'une
sorte de ces verres grossissants comme ceux que tendait à un
acheteur l'opticien de Combray, mon livre, grâce auquel je
leur fournirais le moyen de lire en eux-mêmes. De sorte que
je ne leur demanderais pas de me louer ou de me dénigrer,
mais seulement de me dire si c'est bien cela, si les mots qu'ils
lisent en eux-mêmes sont bien ceux que j'ai écrits (les
divergences possibles à cet égard ne devant pas, du reste,
provenir toujours de ce que je me serais trompé, mais
quelquefois de ce que les yeux du lecteur ne seraient pas de
ceux à qui mon livre conviendrait pour bien lire en soimême). Et changeant à chaque instant de comparaison, selon
que je me représentais mieux, et plus matériellement, la
besogne à laquelle je me livrerais, je pensais que sur ma
grande table de bois blanc je travaillerais à mon œuvre,
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regardé par Françoise. Comme tous les êtres sans prétention
qui vivent à côté de nous ont une certaine intuition de nos
tâches et comme j'avais assez oublié Albertine pour avoir
pardonné à Françoise ce qu'elle avait pu faire contre elle, je
travaillerais auprès d'elle, et presque comme elle (du moins
comme elle faisait autrefois : si vieille maintenant, elle n'y
voyait plus goutte), car, épinglant de-ci de-là un feuillet
supplémentaire, je bâtirais mon livre, je n'ose pas dire
ambitieusement comme une cathédrale, mais tout
simplement comme une robe. Quand je n'aurais pas auprès
de moi tous mes papiers, toutes mes paperoles, comme disait
Françoise, et que me manquerait juste celui dont j'aurais eu
besoin, Françoise comprendrait bien mon énervement, elle
qui disait toujours qu'elle ne pouvait pas coudre si elle n'avait
pas le numéro du fil et les boutons qu'il fallait, et puis, parce
que, à force de vivre ma vie, elle s'était fait du travail littéraire
une sorte de compréhension instinctive, plus juste que celle
de bien des gens intelligents, à plus forte raison que celle des
gens bêtes. Ainsi quand j'avais autrefois fait mon article pour
le Figaro, pendant que le vieux maître d'hôtel, avec une
figure de commisération qui exagère toujours un peu ce qu'a
de pénible un labeur qu'on ne pratique pas, qu'on ne conçoit
même pas, et même une habitude qu'on n'a pas, comme les
gens qui vous disent : « Comme ça doit vous fatiguer
d'éternuer comme ça », plaignait sincèrement les écrivains en
disant : « Quel casse-tête ça doit être », Françoise, au
contraire, devinait mon bonheur et respectait mon travail.
Elle se fâchait seulement que je contasse d'avance mes
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articles à Bloch, craignant qu'il me devançât, et disant : «
Tous ces gens-là, vous n'avez pas assez de méfiance, c'est
des copiateurs. » Et Bloch se donnait, en effet, un alibi
rétrospectif en me disant, chaque fois que je lui avais
esquissé quelque chose qu'il trouvait bien : « Tiens, c'est
curieux, j'ai fait quelque chose de presque pareil, il faudra
que je te lise cela. » (Il n'aurait pas pu me le lire encore, mais
allait l'écrire le soir même.)
À force de coller les uns aux autres ces papiers, que
Françoise appelait mes paperoles, ils se déchiraient çà et là.
Au besoin Françoise pourrait m'aider à les consolider, de la
même façon qu'elle mettait des pièces aux parties usées de
ses robes ou qu'à la fenêtre de la cuisine, en attendant le
vitrier comme moi l'imprimeur, elle collait un morceau de
journal à la place d'un carreau cassé.
Elle me disait, en me montrant mes cahiers rongés comme
le bois où l'insecte s'est mis : « C'est tout mité, regardez, c'est
malheureux, voilà un bout de page qui n'est plus qu'une
dentelle, et – l'examinant comme un tailleur – je ne crois pas
que je pourrai la refaire, c'est perdu. C'est dommage, c'est
peut-être vos plus belles idées. Comme on dit à Combray, il
n'y a pas de fourreurs qui s'y connaissent aussi bien comme
les mites. Elles se mettent toujours dans les meilleures
étoffes. »
D'ailleurs, comme les individualités (humaines ou non)
seraient dans ce livre faites d'impressions nombreuses, qui,
prises de bien des jeunes filles, de bien des églises, de bien
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des sonates, serviraient à faire une seule sonate, une seule
église, une seule jeune fille, ne ferais-je pas mon livre de la
façon que Françoise faisait ce bœuf mode, apprécié par M.
de Norpois, et dont tant de morceaux de viande ajoutés et
choisis enrichissaient la gelée. Et je réaliserais ce que j'avais
tant désiré dans mes promenades du côté de Guermantes et
cru impossible, comme j'avais cru impossible, en rentrant, de
m'habituer jamais à me coucher sans embrasser ma mère ou,
plus tard, à l'idée qu'Albertine aimât les femmes, idée avec
laquelle j'avais fini par vivre sans même m'apercevoir de sa
présence, car nos plus grandes craintes, comme nos plus
grandes espérances, ne sont pas au-dessus de nos forces, et
nous pouvons finir par dominer les unes et réaliser les
autres. – Oui, à cette œuvre, cette idée du temps, que je
venais de former, disait qu'il était temps de me mettre. Il
était grand temps, cela justifiait l'anxiété qui s'était emparée
de moi dès mon entrée dans le salon, quand les visages
grimés m'avaient donné la notion du temps perdu ; mais
était-il temps encore ? L'esprit a ses paysages dont la
contemplation ne lui est laissée qu'un temps. J'avais vécu
comme un peintre montant un chemin qui surplombe un lac
dont un rideau de rochers et d'arbres lui cache la vue. Par
une brèche il l'aperçoit, il l'a tout entier devant lui, il prend
ses pinceaux. Mais déjà vient la nuit, où l'on ne peut plus
peindre, et sur laquelle le jour ne se relèvera plus !
Une condition de mon œuvre telle que je l'avais conçue
tout à l'heure dans la bibliothèque était l'approfondissement
d'impressions qu'il fallait d'abord recréer par la mémoire. Or
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celle-ci était usée. Puis, du moment que rien n'était
commencé, je pouvais être inquiet, même si je croyais avoir
encore devant moi, à cause de mon âge, quelques années, car
mon heure pouvait sonner dans quelques minutes. Il fallait
partir, en effet, de ceci que j'avais un corps, c'est-à-dire que
j'étais perpétuellement menacé d'un double danger, extérieur,
intérieur. Encore ne parlé-je ainsi que pour la commodité du
langage. Car le danger intérieur, comme celui d'une
hémorragie cérébrale, est extérieur aussi, étant du corps. Et
avoir un corps c'est la grande menace pour l'esprit. La vie
humaine et pensante (dont il faut sans doute moins dire
qu'elle est un miraculeux perfectionnement de la vie animale
et physique, mais plutôt qu'elle est une imperfection encore
aussi rudimentaire qu'est l'existence commune des
protozoaires en polypiers, que le corps de la baleine, etc.),
dans l'organisation de la vie spirituelle, est telle que le corps
enferme l'esprit dans une forteresse ; bientôt la forteresse est
assiégée de toutes parts et il faut à la fin que l'esprit se rende.
Mais pour me contenter de distinguer les deux sortes de
dangers menaçant l'esprit, et pour commencer par l'extérieur,
je me rappelais que souvent déjà, dans ma vie, il m'était
arrivé, dans les moments d'excitation intellectuelle où
quelque circonstance avait suspendu chez moi toute activité
physique, par exemple quand je quittais en voiture, à demi
gris, le restaurant de Rivebelle pour aller à quelque casino
voisin, de sentir très nettement en moi l'objet présent de ma
pensée, et de comprendre qu'il dépendait d'un hasard, non
seulement que cet objet n'y fût pas encore entré, mais qu'il
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fût avec mon corps même anéanti. Je m'en souciais peu
alors. Mon allégresse n'était pas prudente, pas inquiète. Que
cette joie fuît dans une seconde et entrât dans le néant, peu
m'importait. Il n'en était plus de même maintenant ; c'est que
le bonheur que j'éprouvais ne tenait pas d'une tension
purement subjective des nerfs qui nous isole du passé, mais,
au contraire, d'un élargissement de mon esprit en qui se
reformait, s'actualisait le passé, et me donnait, mais hélas !
momentanément, une valeur d'éternité. J'aurais voulu léguer
celle-ci à ceux que j'aurais pu enrichir de mon trésor. Certes,
ce que j'avais éprouvé dans la bibliothèque et que je
cherchais à protéger, c'était plaisir encore, mais non plus
égoïste, ou du moins d'un égoïsme (car tous les altruismes
féconds de la nature se développent selon un mode égoïste,
l'altruisme humain qui n'est pas égoïste est stérile, c'est celui
de l'écrivain qui s'interrompt de travailler pour recevoir un
ami malheureux, pour accepter une fonction publique, pour
écrire des articles de propagande) utilisable pour autrui.
Je n'avais plus mon indifférence des retours de Rivebelle,
je me sentais accru de cette œuvre que je portais en moi
(comme de quelque chose de précieux et de fragile qui m'eût
été confié et que j'aurais voulu remettre intact aux mains
auxquelles il était destiné et qui n'étaient pas les miennes). Et
dire que tout à l'heure, quand je rentrerais chez moi, il
suffirait d'un choc accidentel pour que mon corps fût
détruit, et que mon esprit, d'où la vie se retirerait, fût obligé
de lâcher à jamais les idées qu'en ce moment il enserrait,
protégeait anxieusement de sa pulpe frémissante et qu'il
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n'avait pas eu le temps de mettre en sûreté dans un livre.
Maintenant, me sentir porteur d'une œuvre rendait pour moi
un accident où j'aurais trouvé la mort plus redoutable, même
(dans la mesure où cette œuvre me semblait nécessaire et
durable) absurde, en contradiction avec mon désir, avec
l'élan de ma pensée, mais pas moins possible pour cela
puisque les accidents, étant produits par des causes
matérielles, peuvent parfaitement avoir lieu au moment où
des volontés fort différentes, qu'ils détruisent sans les
connaître, les rendent détestables, comme il arrive chaque
jour dans les incidents les plus simples de la vie où, pendant
qu'on désire de tout son cœur ne pas faire de bruit à un ami
qui dort, une carafe placée trop au bord de la table tombe et
le réveille.
Je savais très bien que mon cerveau était un riche bassin
minier, où il y avait une étendue immense et fort diverse de
gisements précieux. Mais aurais-je le temps de les exploiter ?
J'étais la seule personne capable de le faire. Pour deux
raisons : avec ma mort eût disparu non seulement le seul
ouvrier mineur capable d'extraire les minerais, mais encore le
gisement lui-même ; or, tout à l'heure, quand je rentrerais
chez moi, il suffirait de la rencontre de l'auto que je
prendrais avec une autre pour que mon corps fût détruit et
que mon esprit fût forcé d'abandonner à tout jamais mes
idées nouvelles. Or, par une bizarre coïncidence, cette
crainte raisonnée du danger naissait en moi à un moment où,
depuis peu, l'idée de la mort m'était devenue indifférente. La
crainte de n'être plus moi m'avait fait jadis horreur et à
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chaque nouvel amour que j'éprouvais – pour Gilberte, pour
Albertine – parce que je ne pouvais supporter l'idée qu'un
jour l'être qui les aimait n'existerait plus, ce qui serait comme
une espèce de mort. Mais à force de se renouveler cette
crainte s'était naturellement changée en un calme confiant.
Si l'idée de la mort, dans ce temps-là, m'avait ainsi
assombri l'amour, depuis longtemps déjà le souvenir de
l'amour m'aidait à ne pas craindre la mort. Car je comprenais
que mourir n'était pas quelque chose de nouveau, mais qu'au
contraire depuis mon enfance j'étais déjà mort bien des fois.
Pour prendre la période la moins ancienne, n'avais-je pas
tenu à Albertine plus qu'à ma vie ? Pouvais-je alors
concevoir ma personne sans qu'y continuât mon amour pour
elle ? Or je ne l'aimais plus, j'étais, non plus l'être qui l'aimait,
mais un être différent qui ne l'aimait pas, j'avais cessé de
l'aimer quand j'étais devenu un autre. Or je ne souffrais pas
d'être devenu cet autre, de ne plus aimer Albertine ; et certes,
ne plus avoir un jour mon corps ne pouvait me paraître, en
aucune façon, quelque chose d'aussi triste que m'avait paru
jadis de ne plus aimer un jour Albertine. Et pourtant,
combien cela m'était égal maintenant de ne plus l'aimer ! Ces
morts successives, si redoutées du moi qu'elles devaient
anéantir, si indifférentes, si douces une fois accomplies, et
quand celui qui les craignait n'était plus là pour les sentir,
m'avaient fait, depuis quelque temps, comprendre combien il
serait peu sage de m'effrayer de la mort. Or c'était
maintenant qu'elle m'était devenue depuis peu indifférente
que je recommençais de nouveau à la craindre, sous une
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autre forme il est vrai, non pas pour moi, mais pour mon
livre, à l'éclosion duquel était, au moins pendant quelque
temps, indispensable cette vie que tant de dangers
menaçaient. Victor Hugo dit : « Il faut que l'herbe pousse et
que les enfants meurent. » Moi je dis que la loi cruelle de l'art
est que les êtres meurent et que nous-mêmes mourions en
épuisant toutes les souffrances pour que pousse l'herbe non
de l'oubli mais de la vie éternelle, l'herbe drue des œuvres
fécondes, sur laquelle les générations viendront faire
gaiement, sans souci de ceux qui dorment en dessous, leur «
déjeuner sur l'herbe ». J'ai dit des dangers extérieurs ; des
dangers intérieurs aussi. Si j'étais préservé d'un accident venu
du dehors, qui sait si je ne serais pas empêché de profiter de
cette grâce par un accident survenu au-dedans de moi, par
quelque catastrophe interne, quelque accident cérébral, avant
que fussent écoulés les mois nécessaires pour écrire ce livre.
L'accident cérébral n'était même pas nécessaire. Des
symptômes, sensibles pour moi par un certain vide dans la
tête, et par un oubli de toutes choses que je ne retrouvais
plus que par hasard, comme quand, en rangeant des affaires,
on en trouve une qu'on avait oubliée, qu'on n'avait même
pas pensé à chercher, faisaient de moi un thésauriseur dont
le coffre-fort crevé eût laissé fuir au fur et à mesure ses
richesses.
Quand, tout à l'heure, je reviendrais chez moi par les
Champs-Élysées, qui me disait que je ne serais pas frappé par
le même mal que ma grand'mère, un après-midi où elle était
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venue y faire avec moi une promenade qui devait être pour
elle la dernière, sans qu'elle s'en doutât, dans cette ignorance,
qui est la nôtre, que l'aiguille est arrivée sur le point précis où
le ressort déclenché de l'horlogerie va sonner l'heure. Peutêtre la crainte d'avoir déjà parcouru presque tout entière la
minute qui précède le premier coup de l'heure, quand déjà
celui-ci se prépare, peut-être cette crainte du coup qui serait
en train de s'ébranler dans mon cerveau était-elle comme une
obscure connaissance de ce qui allait être, comme un reflet
dans la conscience de l'état précaire du cerveau dont les
artères vont céder, ce qui n'est pas plus impossible que cette
soudaine acceptation de la mort qu'ont des blessés, qui,
quoiqu'ils aient gardé leur lucidité, que le médecin et le désir
de vivre cherchent à les tromper, disent, voyant ce qui va
être : « Je vais mourir, je suis prêt » et écrivent leurs adieux à
leur femme.
Cette obscure connaissance de ce qui devait être me fut
donnée par la chose singulière qui arriva avant que j'eusse
commencé mon livre, et qui m'arriva sous une forme dont je
ne me serais jamais douté. On me trouva, un soir où je
sortis, meilleure mine qu'autrefois, on s'étonna que j'eusse
gardé tous mes cheveux noirs. Mais je manquai trois fois de
tomber en descendant l'escalier. Ce n'avait été qu'une sortie
de deux heures, mais quand je fus rentré je sentis que je
n'avais plus ni mémoire, ni pensée, ni force, ni aucune
existence. On serait venu pour me voir, pour me nommer
roi, pour me saisir, pour m'arrêter, que je me serais laissé
faire sans dire un mot, sans rouvrir les yeux, comme ces gens
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atteints au plus haut degré du mal de mer et qui, traversant
sur un bateau la mer Caspienne, n'esquissent pas même une
résistance si on leur dit qu'on va les jeter à la mer. Je n'avais,
à proprement parler, aucune maladie, mais je sentais que je
n'étais plus capable de rien, comme il arrive à des vieillards
alertes la veille et qui, s'étant fracturé la cuisse, ou ayant eu
une indigestion, peuvent mener encore quelque temps, dans
leur lit, une existence qui n'est plus qu'une préparation plus
ou moins longue à une mort désormais inéluctable. Un des
moi, celui qui jadis allait dans un de ces festins de barbares
qu'on appelle dîners en ville et où, pour les hommes en
blanc, pour les femmes à demi nues et emplumées, les
valeurs sont si renversées que quelqu'un qui ne vient pas
dîner après avoir accepté, ou seulement n'arrive qu'au rôti,
commet un acte plus coupable que les actions immorales
dont on parle légèrement pendant ce dîner ainsi que des
morts récentes, et où la mort ou une grave maladie sont les
seules excuses à ne pas venir, à condition qu'on ait fait
prévenir à temps, pour l'invitation du quatorzième, qu'on
était mourant, ce moi-là en moi avait gardé ses scrupules et
perdu sa mémoire. L'autre moi, celui qui avait conçu son
œuvre, en revanche se souvenait. J'avais reçu une invitation
de Mme Molé et appris que le fils de Mme Sazerat était
mort. J'étais résolu à employer une de ces heures après
lesquelles je ne pourrais plus prononcer un mot, la langue
liée comme ma grand'mère pendant son agonie, ou avaler du
lait, à adresser mes excuses à Mme Molé et mes
condoléances à Mme Sazerat. Mais, au bout de quelques
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instants, j'avais oublié que j'avais à le faire. Heureux oubli,
car la mémoire de mon œuvre veillait et allait employer à
poser mes premières fondations l'heure de survivance qui
m'était dévolue. Malheureusement, en prenant un cahier
pour écrire, la carte d'invitation de Mme Molé glissait près de
moi. Aussitôt le moi oublieux, mais qui avait la prééminence
sur l'autre, comme il arrive chez tous les barbares scrupuleux
qui ont dîné en ville, repoussait le cahier, écrivait à Mme
Molé (laquelle d'ailleurs m'eût sans doute fort estimé, si elle
l'eût appris, d'avoir fait passer ma réponse à son invitation
avant mes travaux d'architecte). Brusquement, un mot de ma
réponse me rappelait que Mme Sazerat avait perdu son fils,
je lui écrivais aussi, puis ayant ainsi sacrifié un devoir réel à
l'obligation factice de me montrer poli et sensible, je tombais
sans forces, je fermais les yeux, ne devant plus que végéter
pour huit jours. Pourtant, si tous mes devoirs inutiles,
auxquels j'étais prêt à sacrifier le vrai, sortaient au bout de
quelques minutes de ma tête, l'idée de ma construction ne
me quittait pas un instant. Je ne savais pas si ce serait une
église où des fidèles sauraient peu à peu apprendre des
vérités et découvrir des harmonies, le grand plan d'ensemble,
ou si cela resterait comme un monument druidique au
sommet d'une île, quelque chose d'infréquenté à jamais. Mais
j'étais décidé à y consacrer mes forces qui s'en allaient
comme à regret, et comme pour pouvoir me laisser le temps
d'avoir, tout le pourtour terminé, fermé « la porte funéraire ».
Bientôt je pus montrer quelques esquissés. Personne n'y
comprit rien. Même ceux qui furent favorables à ma
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perception des vérités que je voulais ensuite graver dans le
temple me félicitèrent de les avoir découvertes au «
microscope » quand je m'étais, au contraire, servi d'un
télescope pour apercevoir des choses, très petites, en effet,
mais parce qu'elles étaient situées à une grande distance, et
qui étaient chacune un monde. Là où je cherchais les grandes
lois, on m'appelait fouilleur de détails. D'ailleurs, à quoi bon
faisais-je cela ? j'avais eu de la facilité, jeune, et Bergotte avait
trouvé mes pages de collégien « parfaites », mais au lieu de
travailler, j'avais vécu dans la paresse, dans la dissipation des
plaisirs, dans la maladie, les soins, les manies, et
j'entreprenais mon ouvrage à la veille de mourir, sans rien
savoir de mon métier. Je ne me sentais plus la force de faire
face à mes obligations avec les êtres, ni à mes devoirs envers
ma pensée et mon œuvre, encore moins envers tous les
deux. Pour les premiers, l'oubli des lettres à écrire simplifiait
un peu ma tâche. La perte de la mémoire m'aidait un peu en
faisant des coupes dans mes obligations, mon œuvre les
remplaçait. Mais tout d'un coup, au bout d'un mois,
l'association des idées ramenait, avec mes remords, le
souvenir et j'étais accablé du sentiment de mon impuissance.
Je fus étonné d'être indifférent aux critiques qui m'étaient
faites, mais c'est que, depuis le jour où mes jambes avaient
tellement tremblé en descendant l'escalier, j'étais devenu
indifférent à tout, je n'aspirais plus qu'au repos, en attendant
le grand repos qui finirait par venir. Ce n'était pas parce que
je reportais après ma mort l'admiration qu'on devait, me
semblait-il, avoir pour mon œuvre que j'étais indifférent aux
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suffrages de l'élite actuelle. Celle d'après ma mort pourrait
penser ce qu'elle voudrait. Cela ne me souciait pas davantage.
En réalité, si je pensais à mon œuvre et point aux lettres
auxquelles je devais répondre, ce n'était plus que je misse
entre les deux choses, comme au temps de ma paresse, et
ensuite au temps de mon travail, jusqu'au jour où j'avais dû
me retenir à la rampe de l'escalier, une grande différence
d'importance. L'organisation de ma mémoire, de mes
préoccupations, était liée à mon œuvre, peut-être parce que,
tandis que les lettres reçues étaient oubliées l'instant d'après,
l'idée de mon œuvre était dans ma tête, toujours la même, en
perpétuel devenir. Mais elle aussi m'était devenue importune.
Elle était pour moi comme un fils dont la mère mourante
doit encore s'imposer la fatigue de s'occuper sans cesse,
entre les piqûres et les ventouses. Elle l'aime peut-être
encore, mais ne le sait plus que par le devoir excédant qu'elle
a de s'occuper de lui. Chez moi les forces de l'écrivain
n'étaient plus à la hauteur des exigences égoïstes de l'œuvre.
Depuis le jour de l'escalier, rien du monde, aucun bonheur,
qu'il vînt de l'amitié des gens, des progrès de mon œuvre, de
l'espérance de la gloire, ne parvenait plus à moi que comme
un si pâle soleil qu'il n'avait plus la vertu de me réchauffer,
de me faire vivre, de me donner un désir quelconque, et
encore était-il trop brillant, si blême qu'il fût, pour mes yeux
qui préféraient se fermer, et je me retournais du côté du mur.
Il me semble, pour autant que je sentais le mouvement de
mes lèvres, que je devais avoir un petit sourire infime d'un
coin de la bouche quand une dame m'écrivait : « J'ai été
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surprise de ne pas avoir de réponse à ma lettre. »
Néanmoins, cela me rappelait la lettre, et je lui répondais. Je
voulais tâcher, pour qu'on ne pût me croire ingrat, de mettre
ma gentillesse actuelle au niveau de la gentillesse que les gens
avaient pu avoir pour moi. Et j'étais écrasé d'imposer à mon
existence agonisante les fatigues surhumaines de la vie.
Cette idée de la mort s'installa définitivement en moi
comme fait un amour. Non que j'aimasse la mort, je la
détestais. Mais, après y avoir songé sans doute de temps en
temps, comme à une femme qu'on n'aime pas encore,
maintenant sa pensée adhérait à la plus profonde couche de
mon cerveau si complètement que je ne pouvais m'occuper
d'une chose, sans que cette chose traversât d'abord l'idée de
la mort et même, si je ne m'occupais de rien et restais dans
un repos complet, l'idée de la mort me tenait compagnie
aussi incessante que l'idée du moi. Je ne pense pas que, le
jour où j'étais devenu un demi-mort, c'étaient les accidents
qui avaient caractérisé cela, l'impossibilité de descendre un
escalier, de me rappeler un nom, de me lever, qui avaient
causé, par un raisonnement même inconscient, l'idée de la
mort, que j'étais déjà à peu près mort, mais plutôt que c'était
venu ensemble, qu'inévitablement ce grand miroir de l'esprit
reflétait une réalité nouvelle. Pourtant je ne voyais pas
comment des maux que j'avais on pouvait passer sans être
averti à la mort complète. Mais alors je pensais aux autres, à
tous ceux qui chaque jour meurent sans que l'hiatus entre
leur maladie et leur mort nous semble extraordinaire. Je
pensais même que c'était seulement parce que je les voyais
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de l'intérieur (plus encore que par les tromperies de
l'espérance) que certains malaises ne me semblaient pas
mortels, pris un à un, bien que je crusse à ma mort, de même
que ceux qui sont le plus persuadés que leur terme est venu
sont néanmoins persuadés aisément que, s'ils ne peuvent pas
prononcer certains mots, cela n'a rien à voir avec une
attaque, une crise d'aphasie, mais vient d'une fatigue de la
langue, d'un état nerveux analogue au bégaiement, de
l'épuisement qui a suivi une indigestion.
Moi, c'était autre chose que les adieux d'un mourant à sa
femme que j'avais à écrire, de plus long et à plus d'une
personne. Long à écrire. Le jour, tout au plus pourrais-je
essayer de dormir. Si je travaillais, ce ne serait que la nuit.
Mais il me faudrait beaucoup de nuits, peut-être cent, peutêtre mille. Et je vivrais dans l'anxiété de ne pas savoir si le
Maître de ma destinée, moins indulgent que le sultan Sheriar,
le matin, quand j'interromprais mon récit, voudrait bien
surseoir à mon arrêt de mort et me permettrait de reprendre
la suite le prochain soir. Non pas que je prétendisse refaire,
en quoi que ce fût, les Mille et une Nuits, pas plus que les
Mémoires de Saint-Simon, écrits eux aussi la nuit, pas plus
qu'aucun des livres que j'avais tant aimés et desquels, dans
ma naïveté d'enfant, superstitieusement attaché à eux comme
à mes amours, je ne pouvais sans horreur imaginer une
œuvre qui serait différente. Mais, comme Elstir, comme
Chardin, on ne peut refaire ce qu'on aime qu'en le
renonçant. Sans doute mes livres, eux aussi, comme mon
être de chair, finiraient un jour par mourir. Mais il faut se
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résigner à mourir. On accepte la pensée que dans dix ans soimême, dans cent ans ses livres, ne seront plus. La durée
éternelle n'est pas plus promise aux œuvres qu'aux hommes.
Ce serait un livre aussi long que les Mille et une Nuits peutêtre, mais tout autre. Sans doute, quand on est amoureux
d'une œuvre, on voudrait faire quelque chose de tout pareil,
mais il faut sacrifier son amour du moment et ne pas penser
à son goût, mais à une vérité qui ne nous demande pas nos
préférences et nous défend d'y songer. Et c'est seulement si
on la suit qu'on se trouve parfois rencontrer ce qu'on a
abandonné, et avoir écrit, en les oubliant, les Contes arabes
ou les Mémoires de Saint-Simon d'une autre époque. Mais
était-il encore temps pour moi ? n'était-il pas trop tard ?
En tout cas, si j'avais encore la force d'accomplir mon
œuvre, je sentais que la nature des circonstances qui
m'avaient, aujourd'hui même, au cours de cette matinée chez
la princesse de Guermantes, donné à la fois l'idée de mon
œuvre et la crainte de ne pouvoir la réaliser, marquerait
certainement avant tout, dans celle-ci, la forme que j'avais
pressentie autrefois dans l'église de Combray, au cours de
certains jours qui avaient tant influé sur moi – et qui nous
reste habituellement invisible – la forme du Temps. Cette
dimension du Temps, que j'avais jadis pressentie dans l'église
de Combray, je tâcherais de la rendre continuellement
sensible dans une transcription du monde qui serait
forcément bien différente de celle que nous donnent nos
sens si mensongers. Certes, il est bien d'autres erreurs de nos
sens – on a vu que divers épisodes de ce récit me l'avaient
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prouvé – qui faussent pour nous l'aspect réel de ce monde.
Mais enfin, je pourrais, à la rigueur, dans la transcription plus
exacte que je m'efforcerais de donner, ne pas changer la
place des sons, m'abstenir de les détacher de leur cause, à
côté de laquelle l'intelligence les situe après coup, bien que
faire chanter la pluie au milieu de la chambre et tomber en
déluge dans la cour l'ébullition de notre tisane ne doit pas
être, en somme, plus déconcertant que ce qu'ont fait si
souvent les peintres quand ils peignent, très près ou très loin
de nous, selon que les lois de la perspective, l'intensité des
couleurs et la première illusion du regard nous les font
apparaître, une voile ou un pic que le raisonnement
déplacera ensuite de distances quelquefois énormes.
Je pourrais, bien que l'erreur soit plus grave, continuer,
comme on fait, à mettre des traits dans le visage d'une
passante, alors qu'à la place du nez, des joues et du menton,
il ne devrait y avoir qu'un espace vide sur lequel jouerait tout
au plus le reflet de nos désirs. Et même, si je n'avais pas le
loisir de préparer, chose déjà bien plus importante, les cent
masques qu'il convient d'attacher à un même visage, ne fûtce que selon les yeux qui le voient et le sens où ils en lisent
les traits et, pour les mêmes yeux, selon l'espérance ou la
crainte, ou au contraire l'amour et l'habitude qui cachent
pendant tant d'années les changements de l'âge, même enfin
si je n'entreprenais pas, ce dont ma liaison avec Albertine
suffisait pourtant à me montrer que sans cela tout est factice
et mensonger, de représenter certaines personnes non pas au
dehors, mais en dedans de nous où leurs moindres actes
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peuvent amener des troubles mortels, et de faire varier aussi
la lumière du ciel moral selon les différences de pression de
notre sensibilité ou selon la sérénité de notre certitude, sous
laquelle un objet est si petit alors qu'un simple nuage de
risque en multiplie en un moment la grandeur, si je ne
pouvais apporter ces changements et bien d'autres (dont la
nécessité, si on veut peindre le réel, a pu apparaître au cours
de ce récit) dans la transcription d'un univers qui était à
redessiner tout entier, du moins ne manquerais-je pas avant
toute chose d'y décrire l'homme comme ayant la longueur
non de son corps mais de ses années, comme devant, tâche
de plus en plus énorme et qui finit par le vaincre, les traîner
avec lui quand il se déplace. D'ailleurs, que nous occupions
une place sans cesse accrue dans le Temps, tout le monde le
sent, et cette universalité ne pouvait que me réjouir puisque
c'est la vérité, la vérité soupçonnée par chacun, que je devais
chercher à élucider. Non seulement tout le monde sent que
nous occupons une place dans le Temps, mais, cette place, le
plus simple la mesure approximativement comme il
mesurerait celle que nous occupons dans l'espace. Sans
doute, on se trompe souvent dans cette évaluation, mais
qu'on ait cru pouvoir la faire signifie qu'on concevait l'âge
comme quelque chose de mesurable.
Je me disais aussi : « Non seulement est-il encore temps,
mais suis-je en état d'accomplir mon œuvre ? » La maladie
qui, en me faisant, comme un rude directeur de conscience,
mourir au monde, m'avait rendu service (car si le grain de
froment ne meurt après qu'on l'a semé, il restera seul, mais
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s'il meurt, il portera beaucoup de fruits), la maladie qui, après
que la paresse m'avait protégé contre la facilité, allait peutêtre me garder contre la paresse, la maladie avait usé mes
forces et, comme je l'avais remarqué depuis longtemps, au
moment où j'avais cessé d'aimer Albertine, les forces de ma
mémoire. Or la recréation par la mémoire d'impressions qu'il
fallait ensuite approfondir, éclairer, transformer en
équivalents d'intelligence, n'était-elle pas une des conditions,
presque l'essence même de l'œuvre d'art telle que je l'avais
conçue tout à l'heure dans la bibliothèque ? Ah ! si j'avais
encore eu les forces qui étaient intactes dans la soirée que
j'avais alors évoquée en apercevant François le Champi ?
C'était de cette soirée, où ma mère avait abdiqué, que datait,
avec la mort lente de ma grand'mère, le déclin de ma
volonté, de ma santé. Tout s'était décidé au moment où, ne
pouvant plus supporter d'attendre au lendemain pour poser
mes lèvres sur le visage de ma mère, j'avais pris ma
résolution, j'avais sauté du lit et étais allé, en chemise de nuit,
m'installer à la fenêtre par où entrait le clair de lune jusqu'à
ce que j'eusse entendu partir M. Swann. Mes parents l'avaient
accompagné, j'avais entendu la porte s'ouvrir, sonner, se
refermer. À ce moment même, dans l'hôtel du prince de
Guermantes, ce bruit de pas de mes parents reconduisant M.
Swann, ce tintement rebondissant, ferrugineux, interminable,
criard et frais de la petite sonnette, qui m'annonçait qu'enfin
M. Swann était parti et que maman allait monter, je les
entendais encore, je les entendais eux-mêmes, eux situés
pourtant si loin dans le passé. Alors, en pensant à tous les
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événements qui se plaçaient forcément entre l'instant où je
les avais entendus et la matinée Guermantes, je fus effrayé
de penser que c'était bien cette sonnette qui tintait encore en
moi, sans que je pusse rien changer aux criaillements de son
grelot, puisque, ne me rappelant plus bien comment ils
s'éteignaient, pour le réapprendre, pour bien l'écouter, je dus
m'efforcer de ne plus entendre le son des conversations que
les masques tenaient autour de moi. Pour tâcher de
l'entendre de plus près, c'est en moi-même que j'étais obligé
de redescendre. C'est donc que ce tintement y était toujours,
et aussi, entre lui et l'instant présent, tout ce passé
indéfiniment déroulé que je ne savais pas que je portais.
Quand il avait tinté j'existais déjà et, depuis, pour que
j'entendisse encore ce tintement, il fallait qu'il n'y eût pas eu
discontinuité, que je n'eusse pas un instant pris de repos,
cessé d'exister, de penser, d'avoir conscience de moi, puisque
cet instant ancien tenait encore à moi, que je pouvais encore
le retrouver, retourner jusqu'à lui, rien qu'en descendant plus
profondément en moi. C'était cette notion du temps
incorporé, des années passées non séparées de nous, que
j'avais maintenant l'intention de mettre si fort en relief dans
mon œuvre. Et c'est parce qu'ils contiennent ainsi les heures
du passé que les corps humains peuvent faire tant de mal à
ceux qui les aiment, parce qu'ils contiennent tant de
souvenirs, de joies et de désirs déjà effacés pour eux, mais si
cruels pour celui qui contemple et prolonge dans l'ordre du
temps le corps chéri dont il est jaloux, jaloux jusqu'à en
souhaiter la destruction. Car après la mort le Temps se retire
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du corps et les souvenirs – si indifférents, si pâlis – sont
effacés de celle qui n'est plus et le seront bientôt de celui
qu'ils torturent encore, eux qui finiront par périr quand le
désir d'un corps vivant ne les entretiendra plus.
J'éprouvais un sentiment de fatigue profonde à sentir que
tout ce temps si long non seulement avait sans une
interruption été vécu, pensé, sécrété par moi, qu'il était ma
vie, qu'il était moi-même, mais encore que j'avais à toute
minute à le maintenir attaché à moi, qu'il me supportait, que
j'étais juché à son sommet vertigineux, que je ne pouvais me
mouvoir sans le déplacer avec moi.
La date à laquelle j'entendais le bruit de la sonnette du
jardin de Combray, si distant et pourtant intérieur, était un
point de repère dans cette dimension énorme que je ne
savais pas avoir. J'avais le vertige de voir au-dessous de moi
et en moi pourtant, comme si j'avais des lieues de hauteur,
tant d'années.
Je venais de comprendre pourquoi le duc de Guermantes,
dont j'avais admiré, en le regardant assis sur une chaise,
combien il avait peu vieilli bien qu'il eût tellement plus
d'années que moi au-dessous de lui, dès qu'il s'était levé et
avait voulu se tenir debout, avait vacillé sur des jambes
flageolantes comme celles de ces vieux archevêques sur
lesquels il n'y a de solide que leur croix métallique et vers
lesquels s'empressent les jeunes séminaristes, et ne s'était
avancé qu'en tremblant comme une feuille sur le sommet
peu praticable de quatre-vingt-trois années, comme si les
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hommes étaient juchés sur de vivantes échasses grandissant
sans cesse, parfois plus hautes que des clochers, finissant par
leur rendre la marche difficile et périlleuse, et d'où tout d'un
coup ils tombent. Je m'effrayais que les miennes fussent déjà
si hautes sous mes pas, il ne me semblait pas que j'aurais
encore la force de maintenir longtemps attaché à moi ce
passé qui descendait déjà si loin, et que je portais si
douloureusement en moi ! Si du moins il m'était laissé assez
de temps pour accomplir mon œuvre, je ne manquerais pas
de la marquer au sceau de ce Temps dont l'idée s'imposait à
moi avec tant de force aujourd'hui, et j'y décrirais les
hommes, cela dût-il les faire ressembler à des êtres
monstrueux, comme occupant dans le Temps une place
autrement considérable que celle si restreinte qui leur est
réservée dans l'espace, une place, au contraire, prolongée
sans mesure, puisqu'ils touchent simultanément, comme des
géants, plongés dans les années, à des époques vécues par
eux, si distantes – entre lesquelles tant de jours sont venus se
placer – dans le Temps.
FIN
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L’AUTORE
http://it.wikipedia.org/wiki/Marcel_Proust
Marcel Proust in un ritratto di Jacques-Émile Blanche
conservato al Muséè d’Orsay di Parigi.
Fotografia di Roberto Maggiani
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COLLANA LIBRI LIBERI [ eBook ]
www.ebook-larecherche.it
(…)
139 Salon Proust, Aa. Vv. [Salon di arti varie]
140 Nell’imminenza del giorno, Tomaso Pieragnolo
[Poesia/Traduzioni]
141 Apparizioni pittoriche nella Recherche, Gennaro Oliviero
[Saggio]
142 Saggi sparsi su Proust, Valentina Corbani [Saggi]
143 Lev Semenovič Rubinštejn, Sara Zaghini [Saggio]
144 Du côté de chez Swann, Marcel Proust [Romanzo]
145 Dalla Normandia alla Bretagna, Franca Alaimo [Epistolario]
146 À l’ombre des jeunes filles en fleurs, Marcel Proust
[Romanzo]
147 Dalla parte di Swann, a cura di G. Brenna e R. Maggiani
[Calendario 2014]
148 ANUDA, Davide Cortese [Poesia]
149 Le Côté de Guermantes, Marcel Proust [Romanzo]
150 Entropie, Rosemily Paticchio [Poesia]
151 Sodome et Gomorrhe, Marcel Proust [Romanzo]
152 L’invasione degli storni, Roberto Mosi [Poesia e immagini]
153 Le Passioni, Anna de Noailles [Poesia, traduzione di
Giuliano Brenna]
154 La Prisonnière, Marcel Proust [Romanzo]
155 Intrecci d’acqua, terra e cielo, F. Porta A. Piasecka [Poesia e
fotografia]
156 Curve di livello, Annamaria Ferramosca [Poesia]
156 Albertine disparue, Marcel Proust [Romanzo]
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