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leggi - Associazione Culturale Il Castello
identità culturale, la loro appartenza a quel mondo reale che, sopravvissuto fino a qualche decennio fa, si basava su un reticolo di rapporti di scambio e di solidarietà, nonché sul riconoscimento e sul rispetto di valori etici condivisi. La spinta a collaborare alla realizzazione di questo libro rievocativo delle tradizioni e della vita quotidiana degli anni Cinquanta e Sessanta trae origine, sopra ogni altra cosa, dalla necessità di salvaguardare il dialetto, un patrimonio inestimabile, nonché dalla volontà di far rivivere il mondo contadino e l’epopea dell’emigrazione, di cercare le basi dell’appartenenza del popolo poggiano al territorio che abita da circa tremila anni. Il libro che ne è risultato contiene molteplici sfaccettature, tutte ricche di tematiche legate anche al modo di essere dei Poggiani, sia di quelli che continuano a vivere al paese, sia di quelli che la ricerca di condizioni di vita più soddisfacenti ha costretto all’emigrazione in Italia e nel mondo intero. Al raggiungimento di questo traguardo hanno partecipato: Antonio GALEOTA, nato l’11 febbraio 1942. Ha ideato il progetto e curato il libro. Ha promosso la costituzione ed è Presidente dell’Associazione culturale “Il Castello”, che ha prodotto il libro. Laureato in Giurisprudenza, è funzionario della Regione Abruzzo. E’ stato Sindaco di Poggio Picenze dal 1970 al 1980. Gian Battista TADDEI, nato il 15 settembre 1941. Ha conseguito l’Abilitazione industriale. Dal 1965 si è trasferito a Torino, dove ha lavorato come “quadro” nell’industria metalmeccanica. Nel 1991 ha pubblicato il libro di poesie “Una vita qualunque”. Attualmente risiede a Collegno (TO). Marco MANILLA, nato il 15 novembre 1959. Laureato in Scienze politiche, è funzionario della Confederazione Italiana Agricoltori. Messalino TADDEI, nato il 7 dicembre 1940. Ha conseguito l’Avviamento industriale ed ha lavorato come “caposala” nell’industria elettronica aquilana. Gianfilippo GALEOTA, nato il 15 ottobre 1944. Laureato in Giurisprudenza, è funzionario della ASL n. 1 di Roma, città dove risiede. Terenzio VENTURA, nato il 28 gennaio 1938. Laureato in Medicina e Chirurgia e già Primario ospedaliero al S. Salvatore di L’Aquila, città dove risiede. 7 PRESENTAZIONE di Francesco Avolio 9 Come un grande esponente di una delle maggiori scuole della storiografia contemporanea, Georges Duby, non mancava di ripetere e sottolineare, “scrivere la storia” di una comunità - grande o piccola - è sempre impresa difficile, da ogni punto di vista (metodologico, stilistico ecc.). Quando poi a scriverla è un gruppo di persone non specializzate in questo genere di studi, e per giunta legate a quella stessa comunità da sentimenti di affetto, appartenenza o identificazione, l’impresa sembrerebbe ancora più ardua, per non dire quasi disperata. Eppure, se quanto si è appena detto è vero in un gran numero di casi, non lo è - possiamo dirlo senza tema di essere smentiti - in riferimento a questi due bei volumi dedicati a Poggio Picenze, alle sue vicende vicine e non, alle sue tradizioni linguistiche e culturali; e una ragione, a ben guardare, c’è: la scelta di punti di vista precisi, la chiara individuazione di itinerari narrativi e di presentazione dei fatti, all’interno dei quali le particolari competenze di ciascun autore - a cominciare dal più importante e coinvolto, Antonio Galeota, che ha coordinato l’intero gruppo in circa tre anni di appassionato lavoro - riescono ad emergere nel modo più netto ed evidente, e a dare il meglio di sé. Per dirla in altri termini, nei volumi in questione non c’è nulla che intenda “gareggiare” con pubblicazioni di carattere più strettamente scientifico, o nate in ambiti accademici prestigiosi; c’è invece molto che a quelle pubblicazioni e a quegli ambiti può essere di giovamento e di stimolo, preziose e chiare indicazioni che, come in ogni serio lavoro di ricerca, rispondendo a delle domande ne pongono immediatamente delle altre, aprendo nuove e stimolanti prospettive. Il progetto da cui è scaturito il risultato che oggi presentiamo è nato dal proposito di Antonio Galeota di realizzare con altri un libro in cui fossero presenti le tematiche che sono state poi portate avanti assieme agli amici chiamati a collaborare e si è sviluppato per gradi, precisandosi strada facendo, man mano che le intenzioni e le possibilità di ciascun autore prendevano forma. E - se si consente all’estensore di queste righe un minimo di compiacimento - il taglio particolare che esso ha assunto nel corso del tempo si deve, forse, soprattutto all’aver privilegiato una chiave di lettura non esclusiva, ma piuttosto rara a riconoscersi anche nei lavori storiografici di maggior fondamento scientifico, vale a dire la lingua, intesa come specchio nel quale riflettersi e riconoscersi, e dal quale attingere ciò che ci è più caro a livello di memoria, individuale e 10 collettiva, e dunque di vicende umane, di storia. La lingua - e non, si badi, un codice astrattamente inteso, ma quella dell’uso quotidiano delle classi popolari, delle “culture subalterne”, per dirla con Alberto Mario Cirese, cioè il nostro tanto vituperato, o malamente esaltato, dialetto, codificato nel Dizionario poggiano, di cui mi occupo nella Prefazione - diventa insomma fonte per la storia, chiave interpretativa e pietra di paragone per ricostruire il vissuto di coloro che solo di rado hanno potuto lasciare traccia di sé in testi o documenti d’archivio: non è poco, se si pensa che ancora negli anni Settanta del secolo scorso tutto ciò rappresentava una prospettiva di lavoro inedita, o quasi. Del resto, anche oggi, quando si parla, spesso senza troppo fondamento, di concetti a dir poco impegnativi come identità e civiltà, e di scontri più o meno improbabili, ci si dimentica, significativamente, di riempire questa sorta di contenitori rivolgendosi alle “unità minime” che sono portatrici dei necessari contenuti, e che vengono come al solito ignorate: parlo degli ottomila e passa comuni italiani. Ognuno di questi centri abitati, spesso antichi, “sedimentati” nel territorio, rappresenta l’insostituibile tassello di uno straordinario mosaico, il Paese europeo più ricco e differenziato dal punto di vista linguistico e antropologico, che dunque, al riconosciuto primato storico-artistico, archeologico e naturalistico ne affianca perfino un altro, ugualmente “forte” e fondante, ma, purtroppo, assai meno considerato, del quale, perciò, non c’è, neanche oggi, quasi nessuna coscienza (ed è per questo che in molti, politici, amministratori e cittadini, continuano ad avere nei suoi confronti atteggiamenti contraddittori). L’invito di Galeota e degli altri autori è invece quello di ritornare, con una rinnovata consapevolezza, alle “piccole patrie”, alla loro storia, alla loro lingua, non per rinchiuderci scontrosamente in esse, ma perché sono ancora loro a dare un senso alla nostra esistenza e al nostro stesso sentirci parte di una nazione. Essere poggiani significa anche essere abruzzesi, e meridionali, e italiani, e viceversa; la base di tutto sta, ancora oggi, tra le mura di quello che, per parecchi di noi, è il “natio borgo selvaggio”, non più scenario esclusivo della propria vita (come purtroppo non lo è stato già per generazioni di emigranti, tra i protagonisti di alcune delle pagine più belle del libro, con testimonianze raccolte dalla loro viva voce), ma nemmeno da rinchiudere in soffitta o nello scantinato, magari per preferire l’anonimo grigiore di un condominio, di una villetta o di una banlieu. I discorsi sull’”identità italiana”, onde evitare che si riducano alla riesumazione di un patriottismo un po’ stantio (che nel corso della sua storia ha avuto inoltre tanti nemici, in primis una certa retorica a buon mercato), come sta in parte avvenendo in questi ultimi tempi, dovrebbero e potrebbero ripartire proprio da qui, da questa “spina dorsale” di piccoli centri ancora oggi misconosciuta (malgrado gli sforzi di enti e sodalizi benemeriti quali, ad esempio, il Touring Club Italiano), e che, a dispetto di ogni avversità e difficoltà economica, sociale, di costume, non solo sopravvive, ma prosegue il suo cammino, affrontando e risolvendo, quasi sempre senza alcun aiuto concreto, problemi vecchi e nuovi: dall’emigrazione, presente e passata (e che ha ripreso recentemente vigore in tutto il Mezzogiorno, Abruzzo compreso) alla rarefazione di servizi essenziali (quante scuole hanno chiuso di recente nei piccoli comuni?), da collegamenti pubblici indegni di un paese civile (pochi sanno, ad esempio, che, nel XXI secolo, un comune come Gagliano Aterno non è raggiunto da alcuna autocorriera, né diretta, né con cambio intermedio, da 11 del libro, che ha una sua unicità dall’essere stato curato da una sola persona e che vede l’accordo tra livelli espressivi e perfino linguistici anche molto diversi tra loro: dall’italiano più colto al dialetto più stretto, proprio come accade nella vita reale, alla gran parte di noi e dei nostri compaesani. A un certo punto della lettura, si è affacciata nella mia mente una considerazione che mi pare opportuno riportare qui: nel suo complesso, questa bella pubblicazione offre, per la conoscenza di Poggio Picenze, assai più di quanto non sia dato di trovare in volumi simili aventi ad oggetto altri paesi. Non solo, ma è altrettanto raro scoprire, in opere dello stesso genere, affermazioni come quelle che chiudono il paragrafo La famiglia, la società, la fede di Terenzio Ventura (nel capitolo Vita quotidiana), le quali solo con una certa superficialità possono essere tacciate di retorica, e che invece sintetizzano, secondo me, buona parte dello spirito del libro: “Chi scrive queste poche note è fiero di essere vissuto in una società contadina povera come la nostra e nella quale molte persone, talora ignoranti ed analfabete, gli hanno insegnato molto più di quanto abbia fatto qualche professore del liceo e dell’Università” (con buona pace del titolo che possiede il sottoscritto!). L’augurio è ovviamente che tutti i poggiani, del paese e di ogni déste, possano leggere e apprezzare queste pagine, facendole proprie, e magari arricchendole con ulteriori spunti, aneddoti, racconti, dibattiti. Del resto, a meno che non accadano impreviste tragedie (ma a volte anche oltre queste), la vita di un comune - come quella del libro che intende raccontarla - non finisce mai… 14 CENNI STORICI di Antonio Galeota 15 Per il periodo antecedente alla conquista romana, le fonti storiche e l’archeologia moderna hanno da tempo comprovato l’appartenenza del nostro territorio ai Vestini Cismontani1, uno dei tanti gruppi di genti italiche insediati a ridosso della catena appenninica e lungo il litorale adriatico che si erano venuti etnicamente formando nella prima età del ferro e che troviamo ben connotati già nel V secolo a. C.2. I Vestini godettero di una loro autonomia •no al tempo della conquista romana, così come le tribù coeve dei Marsi, Peligni, Marrucini, Frentani e dei Sanniti, vivendo sparsi sul territorio in piccoli nuclei che i Romani chiamavano vici, consociati in entità amministrative più ampie dette pagi. Ogni pagus poteva essere formato da uno o più vici. I piccoli abitati di epoca preromana, per essere dislocati in pianura o comunque in siti facilmente accessibili, erano esposti a pericoli di ogni tipo. Per superare questi inconvenienti furono scelti rilievi collinari o speroni rocciosi che potevano essere facilmente raggiunti in caso di necessità per trovarvi rifugio e protezione3. Questi siti d’altura vennero protetti da palizzate e da muraglie poste tutt’intorno alla sommità, così da farne dei fortilizi, che funzionavano anche come punti di avvistamento per tenere sotto controllo l’intero territorio, mentre i più grandi venivano attrezzati anche per mettere a riparo tutta la popolazione del vicus o di più vici con i loro armenti e le loro masserizie. Tracce evidenti di questi avamposti difensivi che, a seconda della loro dimensione e importanza, i Romani chiamarono oppida o castella e oggi generalmente denominati centri forti•cati, sono stati individuati sopra Monte Cerro, Monte Picenze, Monte Ocre e in molti altri siti dell’area vestina cismontana, mentre risultano assai meno frequenti o addirittura assenti al di là della catena montuosa del Gran Sasso, che separava i Cismontani dai Transmontani della zona di Penne e dintorni (3). I vici erano scarsamente popolati: è stata calcolata4 una popolazione di circa 100 unità per ciascun vicus ed una popolazione vestina complessiva di circa 40.000 abitanti, di cui più della metà, i Vestini Trasmontani, nella zona di Penne e gli altri, i Cismontani, nel territorio di Aveia, Peltuinum e Au•num. Questo tipo di organizzazione si mantenne pressoché inalterato •no alla conquista romana e in pratica anche successivamente, poiché i Romani, almeno in un primo momento, si limitarono a smantellare le forti•cazioni, senza ingerirsi negli usi e costumi, nella lingua e nella religione delle popolazioni assoggettate (3). 1 Il modo inusuale di evidenziare in grassetto gli argomenti trattati è dovuto sia al fatto che il presente lavoro è diretto a un vasto pubblico sia alla estrema sinteticità del testo. Gli argomenti esposti sono integrativi rispetto a quelle trattati nelle precedenti pubblicazioni su Poggio Picenze, realizzate da Mario Morelli e da Raffaele Colapietra, salvo i riferimenti in nota. 2 Cfr. La Regina, 1968. 3 Cfr.. Mattiocco, 1986 e 1990. 4 Cfr. Giustizia, 1985. 17 Archeologico Nazionale di Chieti e in parte a New York 11, ritrovamento avvenuto ad opera di Emidio Mimitte Biordi nel 1953 in località La Petrara, depone a favore di una presenza romana nel nostro territorio, dacché con motivazioni attendibili è stato ipotizzato dagli studiosi che sia stato un mercenario dell’esercito di Silla, residente presumibilmente in queste contrade, a nascondere quel tesoro che poi non è più riuscito a recuperare. I riferiti ritrovamenti danno indicazioni suf•cienti per confermare l’esistenza sul nostro territorio di piccoli centri abitati •n dall’epoca vestina e del Pagus Frentanus, ma solo un’attività sistematica di scavi archeologici nelle località citate porterebbe a scoperte signi•cative ed interessanti sotto l’aspetto storico, sicuramente utili anche per indirizzare a Poggio Picenze quel turismo culturale che si va sempre più diffondendo. Nello studio della storia romana le fonti originali sono numerose ed attendibili, tanto da averci permesso di conoscere ogni fase di quella gloriosa epopea, sia attraverso la descrizione dell’assetto istituzionale e delle conquiste di territori anche lontanissimi dall’Italia, sia costruendo la mappatura di ogni città e borgo, delle regioni abitate dai popoli italici, delle strade e dei tratturi, mappatura da cui sostanzialmente emerge l’attuale assetto urbanistico ed infrastrutturale dell’Italia. A distanza di tanto tempo ci sono tuttavia poche ma non trascurabili eccezioni, proprio nel senso che non si è ancora certi circa la localizzazione di piccoli insediamenti di origine romana. Tra questi Prifernum, sicuramente ricadente nel territorio della Bassa Valle aquilana o ai suoi margini nord orientali e comunque compreso nell’Abruzzo interno denominato dai Romani Regio IV d’Italia, ma di incerta collocazione secondo Adriano La Regina (2), che •niva per ipotizzarlo immediatamente ad est di L’Aquila senza però localizzarlo a Bazzano, dove pure rileva tracce di abitato di origine romana. Altri lo collocano ad Assergi 12, ipotesi esclusa dal La Regina, o nell’attuale Poggio Picenze 13. A favore dell’ultima ipotesi è signi•cativa l’assonanza tra Priferno e il Princenno riportato nella prima citazione bibliogra•ca di Poggio Picenze in età moderna, Podium de Princenno, assonanza che permette un accostamento forse non casuale, ma signi•cativo e tutt’altro che bizzarro. C’è un’ulteriore argomentazione che potrebbe far propendere per una localizzazione di un abitato nella parte mediana del nostro territorio: la presenza del Tratturo Magno, poi Regio Tratturo, a sud e a circa un chilometro dall’attuale abitato, depone a favore di un presidio militare che i Romani erano soliti dislocare a difesa delle “strade d’erba” della transumanza, magari scegliendo allo scopo proprio la collina poggiana, l’ultimo punto di osservazione, a est, sulla intera bassa valle aquilana. In realtà, Priferno è toponimo citato solo sulla Tabula Peutingeriana (Tav. 2), l’unica fonte documentale antica che descrive, seppure parzialmente e con qualche imprecisione, il percorso della Via Claudia Nova, rimanendo perciò un sito di dif•cile identi•cazione (6) e, comunque, un sito non importante, magari un borgo di passaggio della strada, facente parte del richiamato Pagus Frentanus. 11 Cfr. Campanelli, 1886 e 1991 e Vol. I. 12 Cfr. Camilli, 1790. 13 Cfr. sito informatico Lycus, 2004, di cui ho solo potuto constatare l’enunciazione della tesi riferita, non essendo riuscito ad “entrare”. 24 9. Fontana del Fossato composizione media di una famiglia dell’epoca intorno a sei persone, nel numero suf•ciente cioè a mantenere due soldati a cavallo. La propensione a rifugiarsi di nuovo su una qualche altura più o meno forti•cata, per potersi meglio difendere dalle incursioni barbariche e poi saracene, conseguenti alla caduta dell’Impero Romano avvenuta nel 476, era cominciata molto prima del 1173, come asserisce Mario Morelli, il quale fa derivare da Forcona, distrutta dai Longobardi nel VII secolo, molte famiglie insediatesi stabilmente a Poggio Picenze, tra le quali quella in seguito illustre dei Franchi. Ma non si può escludere un qualche apporto aggiuntivo dato dagli abitanti in fuga da Aveia, città romana distrutta anch’essa nel VII secolo dai Longobardi o, più probabilmente, da un’alluvione, i quali aveiani furono costretti a costruire un nuovo nucleo abitato nell’attuale Fossa: la maggior parte dell’antica città si estendeva a sud ovest di Monte Cerro, come testimoniano le uniche tracce rimaste visibili, ma Aveia risaliva anche verso nord e perciò non lontana dal soleggiato sito poggiano. Il moderno Poggio Picenze si forma e cresce intorno al Podium, al castello forti•cato sede del signore del feudo e risalente al XII-XIII secolo per tipologia costruttiva così come pervenuta •no ai nostri giorni, attingendo le indispensabili risorse idriche alla vicina fontana del Fossato (Foto 9). Il castello si presentava con cinta muraria che occupava la parte nord e il centro dell’ovale delimitato da Via Roma, Via Castello e Piazza Castello e con due porte di accesso, la principale posta a nord e a ridosso di Piazza Castello, e l’altra a sud, in cima alla rampa che costeggia le mura del lato sud, che da Via Roma salgono verso est •no alla sommità del castello. Il nostro castello è ricordato dal Mariani, che forse poté vederlo (9), come “antichissimo grande castello” che conserva ancora le porte antiche e le sei torri, 34 scomunica. Il ritrovamento in località S. Pietro, agli inizi degli anni cinquanta e ad opera di Taddei Basilio i Sarache, di una grande stele mortuaria di epoca medioevale già segnalata dal Massonio per essere collocata a ridosso di una colonna della chiesa di S. Pietro, stele con scritta epigra•ca fotografata e pubblicata dal Morelli (9) prima che la stessa fosse sottratta nottetempo nei pressi dell’abitazione del Taddei, ed altri ritrovamenti susseguitisi negli anni seguenti, di cui si è trattato in precedenza, danno conferma dell’esistenza di una serie di servizi per la collettività, lì localizzati almeno a partire dal XIII secolo. Oltre alla chiese di S. Salvatore e di S. Pietro d’Aspreno, c’è un’altra chiesa poggiana non pervenuta •no a noi: quella dedicata a S. Rocco. La chiesetta di S. Rocco era posta a nord dell’attuale edi•cio scolastico, proprio di fronte all’omonima fontana, aveva dimensioni modeste, essendo alta al piano gronda circa sei metri e lunga dieci ( v. Tav. 4). Presentava una facciata di forma rettangolare, con base di otto metri, rivolta ad ovest, il tetto di legno a due falde, interrotto nella parte alta della facciata da una piccola torre campanaria con un’unica campana (Foto 21 e 21 bis), una piccola •nestra nella parete laterale sud e un’altra, bassa e lunga, posta sopra la porta di ingresso. Costruita forse nel XVIII secolo con belle pietre lavorate e a faccia vista, aveva un solo altare posto sulla parete di fondo, del tipo esistente a S. Giuliano, presso la cui sagrestia è tuttora in deposito, scomposto. A seguito del terremoto del 1915, resa inagibile, la chiesa rimase chiusa al culto •no alla demolizione avvenuta nel 1938, allorché si iniziò l’edi•cazione dell’edi•cio scolastico. Le pietre recuperate sono state utilizzate, in parte, nella costruzione dell’alto muro che regge il sagrato della chiesa di S. Felice. Sorta probabilmente intorno alla metà del XV secolo, la prima notizia della chiesa originale di S. Felice risale al 1493 (9), allorché viene censita dalla Diocesi aquilana, che non aveva potuto annoverarla nei suoi elenchi del 1317. Ha dimensioni ridotte rispetto all’attuale ed è già dotata del campanile, che sarà restaurato in diverse epoche e per ultimo nel 1748, così da dominare già allora per la posizione che occupa, su una piccola altura e decentrata forse per essere al servizio del culto dei morti, anche se i moderni cimiteri vengono istituiti da Napoleone all’inizio dell’Ottocento e a Poggio Picenze viene ultimato nel 1840. Si è già rilevato che al 1614 è ormai la chiesa del nuovo protettore S. Felice martire e la comunità poggiana si appresta ad apportare decisive modi•cazioni, prima ristrutturandola e poi ampliandola verso sud e in profondità per adeguarla alle esigenze dell’accresciuta popolazione. Le stesse operazioni non era stato possibile effettuarle, nei secoli precedenti, nella vecchia chiesa del S. Salvatore, poiché sita nel terreno privato ed angusto del castello, ciò che ha determinato per Poggio un’anomalia rispetto a tutti gli altri centri antichi, piccoli e grandi che siano: non avere la chiesa parrocchiale all’interno del vecchio centro storico. I lavori di ampliamento della chiesa di S Felice iniziarono nel 1755, interrompendosi nel 1762 a causa del rovinoso terremoto e riprendendo de•nitivamente nel 1767. I lavori di rifacimento si intensi•carono dal 1818 al 1870 (9), interessando in sequenza la cupola, l’altare maggiore, l’abside, la sacrestia e l’oratorio, la crunèlle. L’ambizioso progetto di dotare la comunità di una chiesa bella e molto ampia, 44 romani, una rete delle vie d’erba larghe 111 metri che si estendeva dall’Abruzzo interno alla Capitanata foggiana, alla campagna romana ed alla Terra del Lavoro casertana, per complessivi 3.000 chilometri, favorendo la costruzione di castelli e borghi lungo tutto il percorso, di nuovo difeso militarmente. All’inizio del XIII secolo il Meridione tutto passa alla dinastia svevo-normanna, cui appartenne Federico II, re di Sicilia e imperatore di Germania e dei Romani •no al 1250, anno della sua morte, un re celebrato come un grande della storia per essere stato notevole umanista e costruttore di castelli, molti prestigiosi come quello di Casteldelmonte in Puglia, disseminati in tutto il Meridione. A questo sovrano prestigioso la tradizione fa risalire la decisione di far costruire la città di L’Aquila, la città delle acque, uno degli avvenimenti più importanti anche per Poggio Picenze avendo la sua Universitas partecipato a quella edi•cazione e successiva inurbazione. L’attribuzione si basa però su un documento ritenuto apocrifo, un editto di Federico II del 1248 che avrebbe decretato la nascita di quella nuova città, facendone ricadere l’onere sui castelli vicini, 99 secondo la tradizione. Dalla realtà storica e documentata emerge un diploma del 1254 del successore di Federico, Corrado IV, da cui risulta che, in pieno accordo con l’autorità religiosa locale, il sovrano prende atto della conurbazione in corso della nascente città e detta le norme urbanistiche cui attenersi, •ssando a poco più di dieci metri l’altezza massima delle case (20). Al sovrano serviva un centro urbano grande che fosse in grado di controllare militarmente il vasto territorio di riferimento, garantisse un naturale collegamento con Napoli e con la Toscana e fosse capace di accentrare su di sé la raccolta e la commercializzazione dei prodotti pregiati di cui era ricca la zona, innanzitutto la lana e lo zafferano, e l’ottenne con una procedura molto singolare ed interessante. La comunità dei Poggiani dentro le mura aquilane si stabilì nel locale assegnatole nell’ambito del quartiere di S. Maria Paganica, uno dei quattro in cui era suddivisa la città, in una sorta di pentagono irregolare sito ad est del Corso Vittorio Emanuele II e compreso tra Via Cavalieri di Malta e Via S. Bernardino •no alla chiesa omonima, avendo al centro le vie Poggio Picenze e Verdi che si intersecano (Tav. 5). Essa partecipò attivamente alla costruzione della città, le cui mura furono edi•cate dal 1272 al 1312, per contenere una popolazione rimasta molto al di sotto delle sue potenzialità di sviluppo almeno •no al Novecento. La nostra comunità, che nel secolo XV annoverava 75 fuochi, edi•cò il proprio locale completandolo nel 1376 (9), diede il proprio contributo all’amministrazione della città e si distinse nella gestione di un opi•cio per il lavaggio della lana e per la produzione del sapone. Naturalmente costruì subito una chiesa, che risulta censita nell’Inventario di Filippo del 1327, dedicandola al culto del protettore S. Salvatore e frequentandola •no al suo crollo, avvenuto nel 1592. Nei pressi del nostro locale e della chiesa di S. Salvatore, nel 1447 la città cominciò a costruire un grande ospedale, prima civile, con l’Ottocento militare (Foto 25) e attualmente scuola “Edmondo De Amicis”, che chiamò dapprima Ospedale Maggiore, per poi cambiare il nome in S. Salvatore che ha conservato per secoli e conserva tuttora, avendolo derivato dalla chiesa poggiana. I rapporti tra le due componenti di origine poggiana, dimoranti dentro e fuori 49 quella riforma tendeva a sminuire a vantaggio del restaurato sistema feudale. L’infeudazione di Poggio Picenze avvenne nel 1533, allorché Antonio Villela de Aldana acquistò il nostro territorio, il fortilizio o castello o podium, e il diritto di tassare dal viceré del Regno di Napoli Pedro de Toledo, per 200 scudi, e tenne il feudo con il titolo di barone gravandolo di imposte annuali pari a 55 ducati (9). L’Aldana forse morì senza eredi, dal momento che chi gli subentrò, Giovan Giacomo Leognani nel 1564, acquistò il feudo non da quella famiglia ma dalla Regia Corte, alla quale era tornato, per 5.500 ducati. Successivamente il Leognani acquistò altri feudi, Assergi, Monticchio, Bazzano e, ancora, Bominaco, nel 1566 per 1.541ducati (9): la marcata differenza nella stima del valore tra questo e il nostro feudo, apparentemente equivalente all’altro, sarà foriera di una fortissima tassazione che continuerà ad assillare i poggiani •no all’abolizione del feudalesimo e che sarà causa dell’uccisione a Poggio Picenze, nel 1656 e ad opera dei poggiani, del feudatario dell’epoca Filippo Al•eri. Ma non la sola causa: dopo la morte di Gian Giacomo ha inizio la decadenza del casato, costretto a disfarsi dei feudi acquisiti, e, in parallelo, dell’Universitas di Poggio Picenze, risalendo al 159021 l’ottenimento dagli Al•eri di L’Aquila di un prestito di tremila ducati al 10%, con ipoteca su forno, macina e montagna. Inizia così l’egemonia su Poggio Picenze degli Al•eri, che durerà per oltre un secolo, nonché lo stato di indebitamento cui dovrà sottostare Poggio Picenze per tutto il periodo feudale, indebitamento cronico e pesante se già nel 1610 ammonta a 9.700 ducati (20). Prima di passare alla pura elencazione dei feudatari, che naturalmente tennero il nostro feudo a soli •ni lucrativi, va segnalato il ruolo particolare svolto da una di queste famiglie: quella dei Leognani. Proveniente da Civitaquana da un casato prestigioso, dei Leognani Castriota imparentato con l’altro dei Leognani Ferramosca cui era appartenuto Ettore Fieramosca, il vincitore della Dis•da di Barletta, Giovan Giacomo Leognani si stabilì nella domus inserita all’interno del castello, contribuendo ad ampliarla e ad abbellirla con il •glio e il nipote nei complessivi 65 anni che la abitarono, gli ultimi però non con continuità, tanto che lo storico Crispomonti poté scrivere che nei primi anni del Seicento i baroni vi vivevano “con decoro e splendore” (20). L’attaccamento dei Leognani alla nostra terra è testimoniato anche dalla scelta da loro operata di essere sepolti nella chiesa di S. Giuliano. Questi i feudatari del Poggio dal 1533 (9): capitano Antonio Villela de Aldana dal 1533 al 1564; barone Giovan Giacomo Leognani dal 1564 al 1585; Ferdinando Leognani dal 1585 al 1618; Giangiacomo Leognani dal 1618 al 1629; duca Clemente Sannesio dal 1629 al 1651; barone Filippo Al•eri dal 1651 al 1656; marchese Flaminio Al•eri dal 1656 al 1679 (19); Massimo Al•eri dal 1679 al 1716; Margherita Al•eri in Sterlich dal 1716; barone Romualdo Sterlich, almeno •no al 1753 (20); Rinaldo Sterlick •no al 1806, anno dell’abolizione del feudalesimo da parte di Napoleone Bonaparte, conquistatore anche del Meridione d’Italia. I baroni Sterlick erano ancora proprietari del fortilizio, del castello e della 21 54 Cfr. Colapietra, 2002. 27. Una pagina del rapporto di Paolo Rustici 58 28. Una pagina della Corogra•a Antenori 60 privato della sua iniziativa, legata allo Stato e dipendente dalle sue commesse. Tutto questo servì a giusti•care la scelta di indirizzare le risorse del Paese nella realizzazione delle infrastrutture e nell’incrementare la industrializzazione del Nord Italia, mentre il Sud subiva un forte aumento della tassazione e un’attribuzione di risorse pari al 24% delle disponibilità dello Stato. A titolo esempli•cativo: tra il 1862 e il 1897, per la boni•ca delle aree agrarie si spesero 267 milioni al Nord, 188 nelle regioni centrali e solo 3 al Sud. Le politiche •nanziarie scelte a livello nazionale determinarono, a partire dal 1880, gli espatri di massa nelle lontane terre di Oltreoceano delle genti delle regioni meridionali, del Friuli e del Veneto, costrette peraltro a farlo in clandestinità: solo nel 1888 una legge sull’emigrazione riconobbe il diritto di emigrare, cancellando •nalmente lo status di soggetto pericoloso •no ad allora riservato all’emigrante. Il maggior !usso migratorio era diretto verso gli Stati Uniti d’America, dove gli emigranti arrivavano per nave al porto di New York e fatti sbarcare, dal 1892, nella vicina isola di Ellis Island, “l’isola delle lacrime”, (Foto 30 e 31) per essere sottoposti alle visite mediche e psicologiche e alle indagini conoscitive. Venivano poi registrati e fatti scendere per essere avviati al posto di lavoro. Allora l’emigrante rimaneva abbandonato a se stesso, costretto a contare sulle sue capacità di reinventarsi un lavoro e un avvenire, al •ne di affrancarsi da una situazione di precarietà economica permanente, e sul coraggio che possedeva di osare e di s•dare le nuove, avverse condizioni. Gli emigranti della prima ondata erano quasi tutti nati nell’Italia unita, eppure hanno dovuto presentarsi alle frontiere essendo analfabeti al 70%, almeno quelli sbarcati ad Ellis Island, la media più alta rilevata anche a confronto con chi proveniva dall’est Europa. Eppure se la sono cavata e hanno prodotto redditi forse oltre le aspettative, hanno creato ingenti risorse •nanziarie in favore dell’Italia, attraverso le rimesse che andarono a •nanziare le regioni industrializzate del Nord, che così ricevettero un ulteriore potente impulso alla loro modernizzazione: è così possibile assistere a un paradosso tipicamente italiano, per cui le regioni più ricche vengono sostenute dalle risorse •nanziarie prodotte dalle regioni più povere! Vengono allora poste le basi per una de•nitiva divaricazione tra Nord e Sud Italia per quanto attiene alla ricchezza prodotta, con il Nord dotato di industrie, di un’agricoltura ricca e di infrastrutture moderne e continuamente aggiornate, realizzate dallo Stato, mentre il Sud sconta tuttora l’arretratezza delle reti stradali e ferroviarie e del sistema produttivo. Sconta anche, però, la presenza di una criminalità organizzata che •nisce per condizionare in modo pesante le iniziative imprenditoriali e per occupare il territorio quasi sostituendosi allo Stato. Si è parlato per decenni della questione meridionale e se ne continua a parlare. L’intervento straordinario per il Mezzogiorno è stato additato come il sistema degli sprechi, e sarà pure vero se, in concreto, si fanno reti idriche in periferia e non si realizzano quelle adduttrici, o viceversa, ma non si mette abbastanza in rilievo che il complesso delle risorse indirizzate al Nord, in tempi di vigenza della Cassa per il Mezzogiorno, è stato costantemente superiore in valori assoluti ed anche in rapporto al numero degli abitanti. In presenza di province del Meridione, oggi della Calabria e della Sicilia e •no a qualche decennio fa dell’Abruzzo e della Basilicata, che hanno redditi pro-capite che sono della metà o pari a un terzo del reddito per abitante delle più ricche 63 Gra•co 1 capitalistico attivata dal crollo della Borsa di New York del 1929 e da due sanguinosissime Guerre mondiali, la prima delle quali aveva comportato per Poggio Picenze la perdita di 20 giovani vite, mentre la seconda e le campagne di conquista dell’Africa avevano richiesto il sacri•cio di 25 Poggiani. Nel Secondo dopoguerra almeno un quarto della popolazione poggiana aveva seri problemi di sopravvivenza, pur potendo contare sulla solidarietà degli altri e sull’ingegnosa ricerca di una qualche attività occasionale che permettesse di sbarcare il lunario. Per•no le tradizionali famiglie benestanti dei Miccheline e dei Basilóne, produttori di zafferano, vino, noci e mandorle per il mercato, non attraversavano un periodo !orido a causa della scarsa richiesta di quei prodotti e del conseguente calo dei prezzi, portando all’emigrazione molti dei loro componenti più giovani. Si riusciva con qualche dif•coltà per•no a far fronte all’autoconsumo, sicché arrivò come una manna dal cielo l’apertura dei cantieri di rimboschimento, in attuazione del “Piano Fanfani”, che permise •nalmente di avere la disponibilità di qualche soldo. Tuttavia la svolta vera doveva avvenire con l’apertura delle frontiere e con i corsi per muratori, organizzati dallo Stato per fornire manodopera quali•cata alla ricostruzione europea post bellica, corsi che videro anche a Poggio Picenze un numero elevatissimo di aspiranti all’emigrazione Avvenne così che nel giro di pochi anni e partecipando ad uno dei tanti corsi che si sono succeduti senza soluzione di continuità •no ai primi anni Sessanta (foto 32), un popolo di contadini si trasformò in un popolo di muratori, che appena conseguita l’abilitazione fu pronto ad invadere ogni parte del mondo dove si intravedeva una possibilità di lavoro adeguatamente compensato. Partirono anche una cinquantina di artigiani, tra scalpellini, cavatori di pietra, sarti, calzolai e fabbri ferrai, e tutti gli altri giovani e meno giovani che muratori non erano, ma lo divennero all’estero: partirono i più validi, lasciando a Poggio Picenze gli studenti, gli invalidi e i pochi occupati nella pubblica amministrazione 68 Oggi si ritiene che la realizzazione dell’Unione Europea sia dovuta tanto alla preveggenza dei Padri fondatori, i De Gasperi, Schuman, Adenauer e Spinelli, che “dall’alto” ne elaborano strutture e regole, quanto ai milioni di emigrati nei Paesi europei ricchi delle materie prime che ne hanno anticipato l’industrializzazione, emigrati che hanno saputo costruire un forte legame con le popolazioni locali, cementando l’Unione “dal basso”. 34. Emigrati italiani in baracca, Francia, 1958 Tra distacchi laceranti e propositi illusori di prossimi ritorni, l’emigrazione segna in modo de•nitivo il sostrato sociale poggiano, pur accettata come necessità ineluttabile, come un destino inesorabile di cui anche chi rimane è cosciente ed avvertito: si parte per non ritornare, almeno i tanti oltre oceano. Gli altri partiti per i paesi europei non mandano i loro risparmi, con l’eccezione dei più giovani legati alla famiglia di appartenenza lasciata in Italia, avvertendo che i soldi guadagnati andranno investiti nel nuovo paese di appartenenza per creare e mantenere lì la nuova famiglia o per trasferirvi la rimanente parte rimasta momentaneamente nella casa d’origine C’è consapevolezza e solidarietà verso gli emigranti tra i poggiani rimasti, tanto che il commento popolare per i pochi che tornano anzitempo, poiché non hanno potuto o saputo ambientarsi in un contesto spesso ostile e comunque dif•cile, è che “nen gne cj’à fatte l’arie”, nessuno pensando l’altrimenti inevitabile “chi je l’à fatte fà !” o “ma cu ccj’à jite a ffà !”. È una perdita di energie giovani e di capacità professionali preziose, che vanno ad arricchire i paesi di approdo ed impoveriscono quello di origine, ed è una vera diaspora, una situazione terribile che evoca il formarsi e il dispiegarsi di una valanga. Ma non è un fenomeno circoscritto al solo Poggio Picenze, se è vero che gli altri Comuni della Comunità Montana “Campo Imperatore- Piana di Navelli” registrano un espatrio superiore (26). Qui si passa da una popolazione residente di 29.454 abitanti del 1861 ai 35.904 del 1921 e ai 13.041 del 1971, cifra scesa ulteriormente a 11.487 nel 1981 e a 9.923 nel 2001, a testimonianza del persistere di situazioni dif•cili che non si riesce per il momento a superare, anche in presenza dell’istituito Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga. In particolare, la popolazione residente si riduce, nel periodo 1921-71, a meno di un terzo nei Comuni di Carapelle Calvisio, San Benedetto in Perillis e Santo Stefano di Sessanio passati, rispettivamente, da 577, 778 e 791 a 144, 238 e 199 abitanti e, continuando a scendere, a 98, 156 e 123 al 31 dicembre 2003. Dai dati dei vari censimenti (26) si evince che la popolazione dell’Abruzzo è passata da 1.277.207 abitanti del 1951 a 1.166.964 del 1971, con una perdita percentuale pari al 9%, quella della Provincia di L’Aquila da 365.077 a 293.066, con una perdita del 20%, quella di Poggio Picenze da 1368 a 817, con una perdita del 40 % (Gra•co 2), avvertendo di nuovo che i dati del censimento sono relativi ai residenti e non ai presenti, che risultano di numero inferiore per un 10%. Intanto l’emigrazione verso Roma si è interrotta con l’apertura, nel 1972, 71 Gra!co 3 L’invecchiamento della popolazione emigrata e la propensione allo spostamento rendono i dati riportati soggetti a ineliminabili cambiamenti. Dopo la ricordata, massiccia cancellazione dall’anagrafe del Comune di Poggio Picenze del 1963, ne sono seguite altre due analoghe nel 1968 e nel 1969 e l’ultima nel 1986, per un totale di 558 abitanti cancellati, appartenenti a 206 famiglie. La media di 2,7 componenti per famiglia sta ad indicare sia la giovane età dei nostri emigranti, partiti prima di sposarsi, sia la presenza di famiglie in formazione, pur se non sono rare le partenze di famiglie con sette otto componenti. Circa un centinaio dei cancellati sono poi rientrati o si sono iscritti di nuovo nell’Anagrafe dei cittadini residenti all’estero. La Francia è in assoluto il Paese estero con il maggior numero di residenti di origine poggiana ed ha anche il primato di ospitarli nel numero maggiore di comuni, 61, la maggior parte dei quali dislocata nel nord est, mentre Toronto e il suo circondario, dacché oggi c’è una diversa e più articolata organizzazione amministrativa di quella splendida ed estesissima metropoli prima intesa come Comune unico, ha la più alta presenza di emigranti nati a Poggio Picenze (104 !), Campana, Cinco Saltos, Cordoba, Correro, Florencio Varela, Josè Marmol, Lomas de Zamora, Mar del Plata, Merlo, Palomar, R. de Escalada, San Martin de las Andes, Santa Fé, Temperlay. AUSTRALIA: Agnes Water, Brisbane, Melbourne, Templestowe, Thornbury. BELGIO: Athus, Autange,Charleroi, Courcelles, Messancy, Rodange, Saint Nicolas, Sterpenich Arlon,, Tuller, Woluwe S. Lambert. BRASILE: Brasilia, Montes Claros, Osasco, Paracatu, Patos de Minas, President, Ribeirao Pires, San Paolo, Villa Martelli. CANADA: Belleville, Black Creek, Bolton, Burlington, Burnaby B.C., Campbell River, Coquitlam, Etobicoke, Malton, Maple, Markam, Mississauga, Montreal, Newmark, Newmarket, Nord York, Ontario, Qualicom Beach, Rexdale, Richmond B.C., S. Leonard, Scarbouro, Stirling, Thornhill, Toronto, Vancouver, Victoria, Woodbrange, Woodbridge. FRANCIA: Audun le Roman, Audun le Tiche, Aumetz, Bart Reg. Doubs, Bonneuil sur Marne, Bourg le Valence, Bure Tressange, Caumont sur Durance, Clouvange, Cluses, Cosnes et Romain, Creteil, Creutzwald, Delstain, Echirolles, Fontaine Isere, Fontenay sous Bois, Fontoy, Forbach, Glaignes, Herserange, Hussigny Godbrange, Joeuf, Kedange sur Kanner, La Roche de Glun, Lemainville, Lexy M. et M., L’Hopital, Longeville les Metz, Lyon, Marseille, Mesnil S. Nicaire, Metz, Metzerwise, Mexy, Montigny les Metz, Mont S. Martin, Mornas reg. Vaucluse, Paris, Richemont, Rodemack, Roquemaure, Roubaix, Sanem, Saulnes, Seremange Erzange, S. Moutier, Stains, Terrasses d’Auguillon, Thiez, Tiercelet, Toussieu, Tremblay en France, Valence, Valleroy, Vieux Thann, Villerupt. GERMANIA: Grimma. GRAN BRETANNIA: Liggenferd, Swansea, Weston Supermare. LUSSEMBURGO: Aubange, Athus, Bascharage, Differdange, Esch sur Alzette, Luxbourg, Petange, Sanem, Schif•ange, Soleuvre. PERU’: Barranco de Lima, Santiago de Surco. SPAGNA: Madrid. SVIZZERA: Crissier-Vaud, Morges, Zurigo. URUGUAY: Costa Azul, Las Picaras. U.S.A.: Brooklin, Buffalo, Detroit, East Amherst, Fenix, Huntington, Jou Kers, Long Isle City, New York, New Mexico, Niagara Falls, Orlando, Sacramento, San Francisco, Toramanda, Valley Stream, Williamsville. VENEZUELA: Caracas, Quinta Maria. 73 Dai primi anni Settanta cominciano a cambiare le condizioni economiche dell’Aquilano, che registra una forte ripresa dell’occupazione sia nella nascente industria elettronica che nel pubblico impiego, mentre il settore edilizio continua ad occupare in misura rilevante, sicché si vanno delineando le condizioni per un nuovo equilibrio tra territorio e pressione demogra•ca. Nel 1970, a Poggio Picenze c’è stato l’avvento di un’Amministrazione comunale composta da giovani, che ha dovuto fronteggiare l’assenza di servizi pur indispensabili, come la raccolta dei ri•uti solidi urbani, la pulizia delle strade, una palestra funzionale, una ef•ciente rete di strade di campagna, la farmacia, una sede comunale consona, il completamento della rete idrica e fognante, la biblioteca, ecc. Ancora negli anni Cinquanta, l’abitato si presentava deteriorato, con le strade ricoperte da breccia o da terra battuta e con mucchi di detriti e sassi ai lati. Solo in alcuni tratti c’è una pavimentazione in pietra sconnessa, con una massicciata che talora af•ora discontinua. Una cunetta in selci di pietra bianca •ancheggiava la sola Via Roma, per la raccolta delle acque di scolo della fontana di S. Rocco. Le stradine con una certa pendenza presentavano gradonate realizzate con muretti costruiti con pietra di scarto e, comunque, non lavorata (Foto 35-41 risalenti a metà degli anni ‘50). Oltre alle aie, solo Via Umberto I° aveva un fondo stradale costituito da selci bianchi ben ordinati, realizzato nel 1954 dopo la costruzione di una fognatura per la raccolta delle acque piovane (Foto 42). 37. Via degli Orti, 1954 38. Via Castellani, 1954 39. Via Piedi la Terra, 1954 75 56. Via Fonte Fossato, 1971 non da clandestini e facilitando il riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Un obiettivo da raggiungere anche e nonostante le diverse religioni professate: la religiosità nasce nelle coscienze e si radica in esse o si trasforma, secondo processi legati alla libertà di pensiero e agli stimoli indotti dall’insegnamento, dalla tradizione e dall’ambiente sociale in cui si vive, e come tale va rispettata. Le tradizioni religiose non vanno messe in discussione né si può pretendere di cambiarle in mancanza di una volontà manifesta e spontanea degli interessati di rinuncia a continuarle. La presenza di tanti bambini extracomunitari, 18 di cui 16 macedoni su un totale di 41 nel 2004, ha evitato la formazione delle pluriclassi nella scuola elementare. Nonostante l’apporto esterno, il numero degli scolari continua però a scendere a causa della scarsa natalità, tanto che il totale delle cinque classi è, oggi, più o meno pari a quello di una sola classe negli anni 1919 e 1950 (Foto 60, 61 e 62). Le classi scolastiche multietniche rappresentano un arricchimento culturale per chi le frequenta e, nel contempo, costituiscono il tramite più ef•cace per realizzare l’integrazione e per creare le condizioni di una paci•ca convivenza. Nelle nostre scuole, l’Istituto Comprensivo di Navelli ha avviato un Progetto Interculturale 2002-2005 di educazione alla differenza, le cui •nalità dichiarate34 sono dirette ad educare il bambino ad accettare l’altro, in modo che venga rafforzata l’identità di ognuno accettando e valorizzando le diversità. Pe r affrontare nel migliore dei modi il problema dell’integrazione, basterà in•ne considerare che si va verso la costruzione di un’Europa Unita e ricordare che i circa 18 milioni di italiani partiti e non tornati, oggi stimati in 60 milioni con i loro discendenti, e i tanti, troppi nostri concittadini all’estero hanno ormai 34 Recina, Del Rossi, Riocci, 2004. 83 SINDACI DEL COMUNE DI POGGIO PICENZE Nominativo Decorrenza Notaio Giuseppe GALEOTA 1813 Angelantonio FERRARI 1817 Emidio URBANI 1820 Camillo URBANI 1820 (luglio) Angelantonio FERRARI 1822 Stefano PADOVANI 1825 Gregorio MICONI 1828 Angelantonio FERRARI 1829 Pietro BIORDI 1830 Crescenzo FERRARI 1831 Emidio URBANI 1834 Pietro Damiani 1837 Gregorio MICONI 1838 Pietro DAMIANI 1840 Domenico GRIMALDI 1843 Simone DAMIANI 1846 Domenico RAINALDI 1849 Domenico VITANO 1851 Emidio URBANI 1852 Notaio Vincenzo GALEOTA 1855 Dott. Vincenzo MASCI 1861 Appartenenza politica1 1. Per i primi anni della Repubblica l’appartenenza partitica è stata ricostruita sulla base di testimonianze, che potrebbero anche risultare involontariamente imprecise 91 OPERE PUBBLICHE – STRUMENTI URBANISTICI – SERVIZI Opera/Strumento urbanistico/Servizio Deliberazione Consiglio Comunale N. e data Oggetto Anno di realizzazione Note Opere Pubbliche Fontana del Fossato (in Viale Matteotti) ristrutturazione 1894 coeva a Poggio Picenze Fontana di Forme (in Via Umberto I°) ristrutturazioni 1894 e 1910 coeva a Poggio Picenze Fontana del Pagliaio (in Via S. Demetrio) ristrutturazioni 1894 e 1990 Fontana di San Rocco (in Viale della Repubblica) costruzione 1850/56 abbeveratoio e lavatoio; 1895 nuova facciata 1896 Fontanella (in Piazzetta Galeota) costruzione 1895 rimossa nel 1961 poiché non più alimentata Fontana della Pischera o di Pittore (S.S. 17) costruzione; 1910 rimossa nel 1968 e trasferita a Via Piedi le Vigne ristrutturazione 1992 Il lavatoio è stato rimosso nel 1962, dopo il crollo del tetto 95 Fontana Sant’Anna (in Via Codacchio) costruzione 1961 Fontana T. Ranieri (in Via Europa) costruzione 1987 Cimitero costruzione; 1828-40 ampliamento, pavimentazione vialetti con selci bianchi, costruzione cappella e 1° lotto loculi; 1968 costruzione loculi, rete idrica e alberatura; 1971-74 pavimentazione vialetti con por•do 1988 Edi•cio scolastico e Palestra 5 del 20.01.73 96 lavori in economia c/o sagrestia parrocchiale; •no al 1860 c/o casa notaio Galeota; •no al 1915 c/o baracche di legno nell’area attuale; •no al 1938 c/o casa notaio Galeota; •no al 1946 costruzione sede attuale e muro a faccia vista in Via Roma; 1937-46 costruzione salone refezione e ristrutturazione tetto aule; 1965 sistemazione edi•cio scuola elementare; 1973-75 aperta dal 1947 ampliamento e sopraelevazione palestra, ristr. tetto corridoio e salone ristrutturazione spogliatoi palestra e rifacimento impianti 1994-98 accorpamento scuole materna ed elementare illuminazione Strada Provinciale (Via Umberto I°); 1847 con due lampade a combustione illuminazione strade principali e secondarie; primi decenni del ‘900 con circa 80 punti luce e cabina di alimentazione a Pareti 10 del 1967 ammodernamento e sistemaz. impianto pubbl. illuminazione (I° lotto); 1968-70 8 del 14.02.69 idem (2° lotto); 1970-71 17 del 14.07.77 idem (3° e 4° lotto) di completamento; 1977-79 12 e 13 del 5.02.79 potenziamento e ristrutturazione impianto 1981-84 con luci gialle nel vecchio centro Monumento ai caduti costruzione 1959-60 realizzato da maestranze poggiane Scuola materna Costruzione; 1959-65 ristrutturazione tetto salone; 1983 sistemazione ambulatorio; 1994 29 del 5.03.94 Impianto di pubblica illuminazione Campo sportivo Aia della Chiesa 11 del 14.02.69 impegno spesa acquisto reti di recinzione e sementi; 1969 con illuminazione facciata della chiesa l’ampliamento, lo spianamento, lo spietramento, la semina dell’erba e la sistemazione del campo di calcio realizzati, gratis, da ditta Giacinti e dai giovani poggiani coadiuvati da qualche adulto. 97 22 del 12.07.73 Rete idrica e fognante ampliamento e sistemazione 1973 fognatura Via Umberto 1° per acque piovane e pavimentazione con selci bianchi; cunetta con selci bianchi in Via Roma; 1954 1967-69 nelle vie Umberto 1°, Roma e Codacchio. Lavori appaltati da Cons. La Ferriera. idem (2° lotto); 1970-71 in Via Piedi la Terra !no a Madonnella, Via Ferrari, Via Palombaia. Idem idem (3° lotto); 1972-73 costruzione depuratore in Via Piedi le Vigne. Idem idem (4° lotto); 1972-73 in Via Pareti, Via Castello, Via la Cona, parte terminale Via Codacchio !no a depuratore. Idem reti idrica e fognante; 1973-74 Circonvallazione da con"uenza Via S. Demetrio reti idrica e fognante; 1973-74 in Via S. Demetrio reti idrica e fognante (1° lotto) e pavimentazione con selci neri; 98 abbassamento di oltre 1 m., !no al livello del piazzale della chiesa. 10 del 21.12.81 e 103 del 21.06.82 (Giunta Com.) rete fognante, ampliamento e pavimentazione in asfalto; 1982-83 nelle vie Cunicelle e Caione per Fossa, Piedi le Vigne !no al depuratore 47 del 21.06.90 risanamento rete idrica 1990-92 sostituzione condutture Sede municipale: a) in Via Castello, 29° 1827 •no al 1915, poi abbandonata poiché resa pericolante dal terremoto realizzazione baracca in legno; 1915-16 il Municipio è trasferito in una delle cinque baracche costruite per ospitare anche la scuola elementare ampliamento con aggiunta ala nord; 1957-58 costruito da allievi dei corsi per muratore sistemazione vecchi e nuovi locali; 1961-63 ristrutturazione Cancelleria comunale; b) in Piazzale Salvatore Massonio 37 del 27.12.69 c) presso Edi•cio scolastico d) sede attuale Variante S.S. 17 l’ingresso era previsto all’Aia della Chiesa, nell’appena realizzato campo sportivo approvazione progetto ristrutturazione sede municipale; 1969-85 utilizzo delle tre aule del secondo piano realizzazione scheletro edi•cio e occupazione piazza 36 del 29.09.70 scelta nuova area e variazione progetto esecutivo; 15 del 3.03.71 approvazione progetto costruzione sede municipale e relativa piazza; 1971-73 69 approvazione progetto 2° lotto; 1982- 70 approvazione progetto 3° lotto; -1983 trasferimento uf•ci nuova sede nel 1985 76 bis del 24.10.84 approvazione progetto esecutivo sistemazione piazza 1985-87 sistemazione piazza e costruzione muri di cinta costruzione tratta Rosalìecabina elettrica Pareti-Pistacchje; 1936 lavori realizzati da ANAS 99 Strada Valle Campanaro Laghetto Valle Campanaro Viale Matteotti (ex Fossato Campanaro) 100 212 del 3.06.69 bitumazione; 1946 idem costruzione terrapieno a nord abitato (la “diga sécche”) 1968-69 idem realizzazione I° tratto, dall’alto •no a con•uenza con strada Picenze-Barisciano; 1950 con cantiere di rimboschimento (piano Fanfani) realizzazione 2° tratto, •no a con•uenza con S.S. 17; 1960 lavori progettati e realizzati da Genio Civile lavori ampliamento e imbrecciatura; 1973 lavori progettati e realizzati da Genio Civile lavori imbrecciatura e sistemazione cunette 1983 realizzazione invaso 1983 lavori realizzati da Comunità Montana “B” approvazione progetto costruzione canale in cemento (I° lotto); progetto non approvato dal Provveditorato alle OO.PP., che ha imposto la soluzione tecnica poi realizzata 32 del 12.06.71 approvazione progetto uni•cato I° e 2° lotto; 55 del 24.08.72 (Giunta Com.) approvazione progetto modi•cato; 1973-75 nulla osta alla realizzazione da Provv. alle OO.PP. il 30.11.72 10 del 22.05.76 approvazione progetto 2° lotto; 1980 bitumazione 125 del 21.09.81 copertura canale ad est della strada; 1982-83 copertura del canale tra Via Umberto I° e Via Fossato 46 del 14.10.88 (Giunta Com.) Circonvallazione Sistemazione strade interne minori Impianti sportivi località Piovaro approvazione progetto copertura canale di scolo e sistemazione marciapiedi (3° lotto) 1990-94 copertura fosso residuo a est della strada costruzione terrapieno (con fornitura materiale sassoso di macerie, quale quota 20% a carico del Comune) 27 del 3.08.70 approvazione progetto esecutivo (1° lotto)- 1972- 47 del 28.12.71 approvazione progetto (2° lotto); -1974 bitumazione (3° lotto); 1975 solo binder 84 del 13.11.84 bitumazione (4° lotto) 1985 tappetino di usura 16 del 6.04.73 approvazione progetto sistemazione strade con Cantiere di Lavoro 1973 strade minori e sistemazione aie. Muri a faccia vista. 25 del 18.07.74 (rat.) idem 1974 idem 30 del 5.10.74 approvazione progetto di massima impianti sportivi in località Dietro la Chiesa; 15 del 25.09.78 occupazione giovanile nella realizzazione di interventi per lo sport in località Aia della Chiesa e Piovaro; 61 del 5.07.79 approvazione progetto 1° lotto costruzione complesso polisportivo (n. 2 campi da tennis e campo pluriuso); 1979-80 realizzati con giovani di cui alla L. 285/77: spianamento, rete idrica e muri di contenimento campi da tennis 86 bis del 22.04.80 approvazione progetto completamento impianti sportivi (campo di calcio e campo pluriuso); 101 123 del 23.07.82 approvazione progetto 2° lotto campi da tennis (bitumazione); 1982-83 75 del 25.10.84 approvazione (nuovo) progetto esecutivo campo di calcio; 1985-89 40 del 16.12.87 approvazione progetto 2° lotto 1990-91 ampliamento, rifacimento e imbrecciatura; costruzione tratto Madonnella-Rosalia; 1935 Strada interpoderale Piedi le Vigne-Varranone 20 del 12.03.73 approvazione progetto e assunzione impegno presa in consegna e manutenzione strada da ampliare ed asfaltare; appaltata da ERSA di Avezzano. Gara di appalto andata deserta 101 del 21.04.80 approvazione del (nuovo) progetto con prezzi aggiornati e del piano particellare di esproprio 1982 appaltata e realizzata da ERSA, dopo integrazione di fondi da Regione Abruzzo ampliamento, rifacimento e imbracciatura; 1953 idem. Fino al con!ne con Comune di S. Demetrio Strada interpoderale Villa Grande di San Demetrio nei V.-Mariale 20 del 12.07.73 Strade interpoderali minori 102 con giornate obbligatorie, a paga ridotta di molto idem Piedi le Vigne; idem Piedi le Vigne 102 del 21.04.80 idem Piedi le Vigne 1983 appaltata e realizzata da ERSA !no all’abitato di S. Demetrio, essendo in conto di questo Comune delibere varie di Giunta Comunale ampliamento e sistemazione; 1964 strade Caione per Fossa e del Cerreto 1972-77 tutte le altre strade interpoderali, ad eccezione della strada Caione che si innesta su Piedi le Vigne, realizzata nel 1982 preparazione terreno e messa a dimora piante 1971-72 lavori in economia. L’alberatura di Viale Matteotti è stata realizzata negli anni novanta Piazzale della Chiesa realizzazione 3° e 4° gradino, dopo riduzione livello piazzale 1971 lavori in economia Castello approvazione progetto esecutivo 1° lotto; 1973-74 lavori di sistemazione e consolidamento 34 del 26.04.79 approvazione progetto utilizzo fondi residui 1° lotto; 1979 completamento fognatura 44 del 28.08.03 approvazione progetto esecutivo intervento di riquali!cazione urbana 2003-05 consolidamento mura, sistemazione locali sotterranei e super!cie castello 85 bis del 22.04.80 approvazione progetto sistemazione aree a verde pubblico attrezzato 1980 appaltato e realizzato da Comunità Montana “Campo ImperatorePiana di Navelli”-Zona “B” 16 approvazione progetto esecutivo sistemazione “piazza rosa” e ristrutturazione vecchio Municipio; 1991-92 pavimentazione ed arredo piazza, realizzazione Sala Polifunzionale 23 del 22.05.98 approvazione progetto di completamento 1999-2002 parco giochi e alberatura, nella parte sud 41 del 6.03.92 approvazione progetto esecutivo 1992-in corso al 31.12.05 Alberatura stradale nei viali, nelle aie e al Cimitero Verde pubblico attrezzato nelle ex aie (salvo Aia della Chiesa) Parco attrezzato nell’ex campo sportivo Aia della Chiesa Ristrutturazione case Via del Forno idem idem varie deliberazioni di Giunta Comunale 103 Ristrutturazione casa Medioevale Via Umberto 1° 18.07.94 (Giunta Com.) approvazione progetto esecutivo 1995-in corso al 31.12.05 Bocciodromo 153 del 7.11.95 approvazione progetto esecutivo; 1996-97 326 del 13.12.97 (Giunta Com.) approvazione progetto di completamento 1998-99 Arredo urbano ex lavatoio 278 del 5.12.96 (Giunta Com.) approvazione progetto esecutivo 1997-2000 Rete metanifera 46 del 18.09.97 approvazione progetto preliminare; 49 approvazione progetto esecutivo 1998-2000 Sistemazione Bivio Picenze 177 del 21.09.98 (giunta Com.) approvazione progetto costruzione sottopasso su S.S. 17 1999 Discarica consortile 114 del 2.12.01 (Giunta Com.) approvazione progetto esecutivo discarica comunale; 2002-03 50 del 26.09.03 (Giunta Com.) Costituzione Consorzio per gestione discariche 28 del 5.04.02 e 47 del 12.07.02 (Giunta Com.) approvazione progetto esecutivo Campo pluriuso località Piovaro 104 da Via Umberto I° a Via per Picenze, ad opera dell’ANAS al 31.12.05 la discarica consortile non è stata aperta 2002-in corso al 31.12.05 Arredo urbano Via Miconi 19 del 5.04.02 (Giunta Com.) STRUMENTI URBANISTICI approvazione progetto esecutivo 2002-04 Strumenti urbanistici 14 del 29.04.69 approvazione Perimetrazione centro abitato; 50 del 28.12.71 approvazione variante Perimetrazione centro abitato 51 del 28.12.71 approvazione Programma di Fabbricazione e Regolamento edilizio; il P.d.F. è stato più volte variato ed è ancora vigente al 31.12.05. 42 del 6.12.74 variazione di destinazione d’uso case artigiani e coltivatori diretti il P.d.F. ha individuato anche le Zone PEEP, Sportiva, Artigianale, Industriale e Municipale. Piano di Commercio 6 del 16.02.74 approvazione Piano di Commercio P.d.F.: Zona Industriale 39 del 13.11.75 istituzione Zona industriale; P.d.F. 14 del 22.05.76 approvazione P.d.F. e Regolamento edilizio restituiti da Regione Abruzzo con modi!che; P.d.F.: Piano PEEP 59 del 5.07.79 esame ed approvazione Piano di Zona per Edilizia economica e popolare Perimetrazione Programma di Fabbricazione (P.d.F.) Piano Regolatore Generale (P.R.G.) af!damento incarico redazione Piano Regolatore Generale 1985-in corso al 31.12.05 non ancora approvato al 31.12.2005, salvo il Piano di Recupero (2004) 105 32 del 15.09.91 approvazione Piano Interventi Produttivi (P.I.P.); 11 del 29.02.92 e 20 del 27.05.93 approvazione progetto esecutivo P.I.P. e 1° lotto; 1992 -95 formazione lotti e realizzazione strade 13 del 25.06.96 approvazione progetto 2° lotto opere urbanizzazione primaria 1996-97 fognature, depuratore e serbatoio idrico P.R.G. 28 del 30.09.04 appropriazione Piano di Recupero centro storico realizzato nell’ambito del P.R.G. P.d.F.: P.I.P. 24 del 29.06.05 approvazione variante P.I.P. in corso di realizzazione nuovo stabilimento Gruppo EDIMO SpA P.d.F: Piano Interventi Produttivi SERVIZI Raccolta e trasporto ri!uti solidi urbani 34 del 29.09. 70 e 4 del 2.02.71 Pulizia strade interne 106 Servizi Pubblici istituzione e disciplina nuovo servizio 1971 assunzione stradino 1971 servizio effettuato con sacchetti Assistenza alunni scuola dell’obbligo 6 del 2.02.71 impegno spesa per acquisto libri alunni scuole elementare e media attuata per due anni Settimana dell’Emigrante 44 del 20.07.71 (G. C.), rati!cata il 21.09.71, n. 32 organizzazione festeggiamenti e nomina commissione preposta organizzata dal Comune !no al 1981 Biblioteca comunale 45 del 7.12.71 impegno spesa acquisto libri con dotazione iniziale di circa 3000 volumi 6 del 24.04.75 impegno messa a disposizione locali, attrezzature e servizi istituenda Scuola materna statale, ai sensi L. 18.03.68, n. 444; nel 1975 c’è la scuola materna comunale, gestita da un Istituto religioso. Dopo un anno e a seguito della richiesta di statizzazione, la Suora che dirige la materna comunica al Comune che l’Istituto aveva deciso di trasformarla in scuola materna privata, con sede nello stesso stabile comunale pur senza un contratto di af!tto 7 del 7.02.76, 5 del 22.02.77 e 16 del 25.09.78 richieste istituzione n. 2 sezioni Scuola materna statale istituita da Provvidetorato allo Studio a partire dall’anno scolastico 1978-79, con due sezioni Farmacia 59 del 16.02.79 (G. C.), rati!cata 27.02.80, n. 33 accoglimento richiesta ditta privata e apertura Dispensario farmaceutico Doposcuola 212 del 31.12.79 (G. C.), rati!cata 21.04.80, n. 100 istituzione sezione Doposcuola e nomina Insegnanti Scuola materna statale Raccolta differenziata RSU Miniclub costruzione aree di conferimento e dotazione cassonetti di raccolta 1998 con fondi Comunità Montana “B” istituzione, con sede presso la sala polifunzionale 2000 con fondi Comunità Montana “B” 107 TERREMOTI CHE HANNO INTERESSATO IL TERRITORIO di POGGIO PICENZE Dati dell’Osservatorio Geo•sico di Macerata1 Anno Mese Giorno Epicentro Intensità Intensità Virtuale a Poggio (Scala Mercalli) 1423 Novembre 10 Poggio Picenze / S.Demetrio nei Vestini 6.0 6.0 1461 Novembre 16 Lucoli 5.0 4.0 1461 Novembre 27 L’Aquila 10.0 9.0 1461 Novembre 27 Lucoli 8.0 7.0 1461 Dicembre 4 Lucoli 7.0 6.0 1461 Dicembre 17 Lucoli 6.0 5.0 1462 Gennaio 3 Lucoli 6.0 5.0 1462 Gennaio 4 Lucoli 6.0 5.0 1498 Aprile 11 Campo Imperat. 7.0 6.0 1498 Aprile 12 Campo Imperat. 7.0 6.0 1599 Novembre 5 Cascia 8.0 5.0 1627 Luglio 16 Accumoli 8.0 5.0 1639 Ottobre 8 Amatrice 10.0 8.0 1639 Ottobre 14 Amatrice 8.0 6.0 1639 Ottobre 17 Amatrice 8.0 6.0 1646 Aprile 28 Campo Imperat. 7.0 7.0 1672 Giugno 8 Montereale 7.0 6.0 1703 Gennaio 14 Norcia 10.0 7.0 1703 Gennaio 16 Pizzoli 8.0 6.0 1703 Febbraio 2 L’Aquila 9.0 8.0 1. Dati forniti da Antonio Panella e da ing. Claudio Panone 109 ANALISI CATASTO ONCIARIO di Marco Manilla 113 Il Catasto Onciario è un documento importante per comprendere e studiare la storia economica e sociale di una comunità, di un territorio. Si tratta di una sorta di censimento attuato a cavallo tra la prima e la seconda metà del Settecento nel Regno di Napoli. Nel Catasto è fotografata la situazione demogra•ca dei singoli Comuni con una analisi approfondita sulle composizioni familiari, sulle attività produttive, sui possedimenti di beni mobili ed immobili: vengono citati i terreni e come venivano coltivati, le località d’interesse agrario, la composizione dei nuclei familiari, l’età dei componenti, il numero di animali posseduti da ciascuna famiglia. Grazie a tanta solerzia, oggi abbiamo a disposizione un documento storico di enorme importanza per comprendere appieno la composizione socioeconomica delle comunità contadine dell’epoca. Non a caso, lo studio dei Catasti Onciari si è sviluppato dopo l’affermarsi della nuova visione storica introdotta da F. Braudel, il famoso storico francese che per primo si occupò della cosiddetta storia della “cultura materiale” e cioè della storia del quotidiano delle popolazioni del passato: non più i grandi avvenimenti ma i non eventi della civiltà contadina. Questo nuovo modo di fare storia ricava le sue fonti da una serie di documenti “innovativi”, come lo studio e l’analisi degli archivi parrocchiali, dei contratti notarili e, appunto, dei catasti. Alla base di questi studi, le analisi di demogra•a storica sulle composizioni familiari e sulle implicazioni relative alle necessità di forza lavoro, con una attenzione posta all’insieme delle risposte adattive che ogni comunità aveva elaborato in relazione alle risorse territoriali. Il Catasto Onciario, in questo quadro così complesso, diventa uno degli strumenti di cui si servono i “nuovi” storici per scrivere la storia quotidiana delle comunità contadine dell’Europra preindustriale. Uno degli strumenti, dicevamo, ma assai importante; anche se il limite del Catasto è di offrire una fotogra•a statica della composizione sociale dell’epoca, senza una continuità di analisi. E tuttavia, il Catasto ci può suggerire numerose e preziose informazioni: ora proveremo ad elaborarne alcune che si riferiscono al castello di “Poggio de Picentia”. 115 alcuna importanza, così come accadeva in tutti i centri di fondovalle o siti negli altipiani minori. La riprova è presto dimostrata dal catasto. A Poggio si contano soltanto 470 pecore: nulla dinanzi alle ventimila pecore di Calascio o Castel del Monte. In ogni caso, quasi tutte le famiglie possedevano dalle cinque alle otto pecore, che venivano utilizzate per una modesta produzione di latte, formaggio e lana. Venivano gestite in comunità secondo criteri di reciproca convenienza e solidarietà. Si costituivano infatti una o due grosse morre o greggi, che a turno venivano pascolate dalle diverse famiglie. Tale compito veniva af•dato ai pastorelli o pastorelle, ragazzi o ragazze molto giovani. Il relativo benessere del nerbo centrale delle famiglie poggiane nella seconda metà del Settecento, si può spiegare quindi in un altro modo: abbiamo detto degli scalpellini e dell’arte della pietra e questa attività non va sottovalutata nelle sue ricadute positive nell’economia del paese e anche nella creazione di una mentalità più aperta. Ma la vera spiegazione, come abbiamo accennato, la possiamo trovare nella fortuna di poter contare su attività diversi•cate. Nel paese, come risulta dal Catasto, la maggior parte dei terreni venivano coltivati a seminativi, e da qui l’importanza dei bovi e degli asini per arare il terreno. Nei terreni a seminativi si coltivavano soprattutto cereali, legumi e patate: i tre alimenti che garantivano il sostentamento alimentare della popolazione. Ma dal Catasto risulta che le colture suscettibili di interesse economico erano altre: la coltivazione dello zafferano in primo luogo, ma anche quella dei vigneti. Poggio, il paese delle vigne Dal Catasto Onciario risulta che quasi il 90% delle famiglie poggiane coltiva dei vigneti, e questo è veramente un dato interessante. Vigneti che producevano vini si presuppone rosati, a sentire le testimonianze degli attuali ottantenni che ricordano le coltivazioni ed i racconti orali dei propri padri e nonni e così si arriva facilmente ai primi dell’Ottocento e quindi, grossomodo, al periodo che stiamo considerando. Insomma, il vino per Poggio ha rappresentato una economia non dissimile per importanza a quello della pietra bianca. Dall’analisi del Catasto si nota che le 43 famiglie che hanno uno o due bovi, tutte coltivano diversi vigneti, anche in misura consistente. Bisogna compiere uno sforzo di immaginazione e vedere un territorio pieno di vigneti allevati ad alberello e consociati con centinaia di piante di melo, pero, sorbo, mandorlo e melocotogno. Insomma, per Poggio la produzione del vino costituiva una attività determinate e consistente; e così, secondo il catasto, le vigne si estendevano nei terreni di “Mariale”, del “Caione”, dei “Colli” ed anche a “Collegrasso”, “Piedi le Vigne”, “Piedi la Costa”, alle “Pedagne”. Località ben note anche oggi, ma anche in luoghi come “Miavècchje” e “dell’Olmo”. Dall’analisi del Catasto risulta che nel paese si coltivavano ben 920 terreni vignati, di cui 720 coltivati da Poggiani e 200 da proprietari forestieri di paesi vicini, come Picenze e Fossa. Si tratta di un dato straordinario e come si può facilmente desumere, siamo dinanzi ad una vera attività economica di una grande 123 e ragazzi dell’epoca erano preziosi per raccogliere i •ori viola di questo bello e prezioso bulbo, ma i bambini venivano coinvolti anche per le lavorazioni meno dure alle cave di pietra bianca. Poggio, il paese degli scalpellini. Le cave della pietra gentile del Poggio sono state famose per secoli. Basti pensare che il più grande scultore aquilano del Quattrocento e cioè Silvestro Aquilano, utilizzò la pietra “gentile” per opere di grande pregio artistico, come il monumento Pereira alla basilica di San Bernardino da Siena o il monumento al cardinale Agni•li, presso il Duomo. Ma anche il monumento a Papa Pietro Celestino V, 5. Cavatore al lavoro. presso la basilica di Santa Maria di Collemaggio, opera di Girolamo da Vicenza, è in pietra “bianca gentile”. Detta pietra venne anche utilizzata per numerose altre opere sia artistiche che artigianali e di sovente, con il diretto coinvolgimento dei mastri scalpellini del Poggio. Il Catasto Onciario ci informa che nel paese alla metà del Settecento, v’erano circa una trentina di scalpellini, di cui diciotto capofamiglia. Ma a questo numero di scalpellini riconosciuti come tali, va sicuramente aggiunto un numero doppio di cavatori e aiuti scalpellini. Spesso erano i •gli, i nipoti, le donne, a svolgere questi lavori. Dunque, a dire poco, erano direttamente interessati al lavoro nelle cave di pietra bianca, un numero di persone calcolato tra le 60 e le 80. Ma quali lavori eseguivano i nostri scalpellini a quell’epoca? A tale riguardo ci aiutano i contratti notarili che sono stati messi a disposizione dal prof. Colapietra: vediamone qualcuno. Il 26 agosto del 1776, gli scalpellini Poggiani Simone Damiani, Pietro Paolo Rainaldi e Gian Caterino Ianni, vengono incaricati dalla Confraternita del Suffragio di L’Aquila, di effettuare la facciata nella chiesa in pietra bianca del Poggio. Il 16 giugno del 1755 mastro Bernardino Grimaldi riceve l’incarico di “nobilitare la chiesa” di Santa Maria del Suffragio; nel 1757, gli scalpellini Ferdinando, Pietro Paolo e Innocenzo Rainaldi e Bonifacio Damiani, tutti mastri scalpellini del Poggio, ricevono l’incarico di costruire la fontana della piazza di Paganica; nel 1767 mastro Beranardino Grimaldi e Lorenzo Pacetta, ricevono l’incarico di costruire il nuovo altare in pietra lavorata della chiesa di Sant’Eusanio Forconese; nel 1725, il cavaliere Antonio Quinzi, incarica i mastri Tommaso Biordi e Nicola Damiani di Poggio Picenze, di fare il portone principale, le •nestre e balconi nuovi nel suo palazzo; Giacomo Biordi viene incaricato nel 1756, di costruire 36 scalini in pietra del Poggio per il monastero di San Basilio. Abbiamo citato alcuni dei contratti notarili che riguardano l’epoca di cui ci stiamo occupando, ma ancora più numerosi sono i contratti che riguardano il Seicento ed i secoli successivi sino ai nostri giorni. Dunque un’attività importante per l’economia del paese. Tutti gli scalpellini citati nei contratti li ritroviamo nel 126 questa accade nel mese di Aprile, va col favore della crescente calda stagione prosperamente nel suo termine. Piccola ma buona è la sua qualità, che vendesi nelle provincie italiane non solo ma anche all’estero”. Le famiglie poggiane In quanto alle famiglie, i cognomi più comuni citati nel Catasto e che si ritrovano ancora oggi, sono i Galeota, i Taddeo oggi trasformati in Taddei; i Miconi, e poi Ianni, Urbano, oggi Urbani; i Funari, Massaro e Masci, Biordi e Grimaldi. E poi ci sono anche i Rainaldi, i Damiani. Altri cognomi sembrano essere oggi scomparsi o in forte diminuzione, come i Cioci, Sperduto, Vitano, Scioco, Manetti, Rocca, Filauro, Cherubino, Fratacchione, Di Pietro, Tartaglia, De Vecchis, Zaccagnini, Falcone, Di Iorio, Giampietro, Ciminetti e Cherubino. Già a quel tempo, comunque, i cognomi oggi scomparsi rappresentavano una netta minoranza, mentre la maggior parte delle famiglie aveva cognomi oggi ancora molto noti, come Galeota, Taddei, Ferrari, Masci, Urbani. Le famiglie Biordi, Grimaldi e Rainaldi o Ranieri, erano dedite per lo più all’attività di scalpellino. Così pure i Damiani, cognome oggi quasi scomparso, come i Grimaldi, un cognome importante per l’identità del paese ed invece oggi quasi assente. Il bilancio della Università del Poggio nel Catasto Dall’analisi •nale del Catasto Onciario si può notare come la ricchezza del paese fosse comunque distribuita in modo abnorme nelle mani di pochi soggetti. Dalla “Collettiva “ •nale dei cittadini, e cioè dalla contabilità •nale del Catasto, appare come tutte le cento famiglie del paese siano tassate per un patrimonio di 4.600 once, i forestieri non abitanti nel paese per 1.600 once, i forestieri chierici per 314 once e le chiese e confraternite per 336 once, per un totale complessivo di 6.928 once. Ciò signi•ca che tra chierici, baroni, forestieri, famiglie ricche, quasi la metà delle 6.900 once costituivano i possedimenti dei vari notabili. Alla popolazione del Poggio rimaneva la quota residua di ricchezza e così circa 80 famiglie dovevano dividersi i possedimenti valutati per le restanti 3.550 once. Interessante anche il bilancio comunale, se così si può de•nire. La Regia Corte ottiene un tributo pari a 468 once e due non precisati duchi ne ottengono altrettanti (probabilmente quelli di San Demetrio e di Paganica, con•nanti con Poggio Picenze, entrambi napoletani, rispettivamente delle famiglie Arcamone e Costanzo). 129 DELL’EMIGRARE di Gianfilippo Galeota, Antonio Galeota, Marco Manilla, Gian Battista Taddei 133 Déste di Gian•lippo Galeota Déste richiama alla mente luoghi lontani, “vénne d’ ammónda déste “, “éve d’ abballa déste “. Il senso probabile è “ d’ extra”, da un originario “extra moenia” a indicare chi vive all’ esterno della cinta muraria e non è parte della comunità Pujare; termine elevato, in quanto a contesto, a parola simbolo per signi•care ciò che è distante, “ altro “, dai con•nanti ai venditori ambulanti, •no ad evocare la lontananza senza ritorno delle contrade d’ oltremare. Il déste più prossimo sono i con•ni geogra•ci. Relativa è la distanza, a rendere vicini o lontani i con•nanti sono le relazioni più o meno intense e i legami che ne scaturiscono, gli interessi, spesso la mentalità. Picènze é quasce ru Póje e il nome stesso, accomunandoci, lo evidenzia. Varesciane si sottrae alla nostra vista per essere posto oltre il dosso di Culle•óre. Paese di pastori su pe lle Lòcce, la sua gente è solida e rocciosa; vi si parla un dialetto vilipeso e irripetibile per noi e del tutto diverso da quello del circondario, un’ isola linguistica, quasi certamente trapiantata qui da altri lidi, probabile la Puglia. Con Varesciane e Picènze i rapporti di vicinato sono rinsanguati dalle frequenti combinazioni matrimoniali. Picenzare e Varesciane sono da noi molte madri di famiglia da lunga consuetudine; per Varesciàne la non grati•cante tradizione di riserva di mogli di secondo letto, difatti ce vanne a repijjà la mòjje i vedovi. Picènze è il vicino per eccellenza e come tale il naturale oggetto di prese in giro e di battute, spesso di vilipendio. La rivalità sfocia sovente nell’ aggressione. Con i Picenzare se fà alla razze e ce s’ appellicce pressoché quotidianamente, campo di battaglia le terre di con•ne. Sui Picenzare s’ ànne recacciate le storielle più amene. Ne ho sentito di assai divertenti come quella della jénghe che issata •n sul campanile, in modo che potesse leggere l’ ora dal nuovo orologio, ne rimase inevitabilmente strozzata, o quella di quando, in un azione di combattimento méssene ri turzitte n gure ajj’ àsene per bombardare le nostre trincee, loro che godevano di una posizione naturale più favorevole per essere posti più in alto. Provate a immaginare l’ 135 ignominiosa ritirata dei nostri sotto la pioggia di quegli insoliti proiettili. Si appioppavano ai •eri rivali le cose più incredibili: se c’ era un fatto abnorme si poteva esser certi ch’ évene state ri Picenzare, erano stati loro a calare l’ asino nel pozzo per acchiappare la luna,… e sono ancora loro a mustrà le reliquje i ri Sande alle Palummèlle. La nostra ironia comunque era altrettanto sonoramente contraccambiata. Fòsse sta all’ òpeche, per essere addossato ai piedi della montagna. Il sole vi cala, specie d’ inverno, quando da noi, messi nell’ opposta esposizione, c’ è ancora un bel pezzo di giornata da trascorrere. Ad un tiro di schioppo, è selvatico e inospitale per noi e alle tèrre i le piane i rapporti fanno scintille rasentando spesso la rissa. Con gli altri vicini le relazioni, in capo quelle matrimoniali, sono più rade. Le aristocratiche Sandemetrane ad esempio, che godono dell’ invidiabile privilegio de ne jjì n gambagne, disdegnano la vita che si fa ajju Póje. A mia memoria, e parlo ovviamente di ieri, donne di Sandimétre maritate da noi non ne risultano. Si può invece far menzione de na Fusselane (Fòsse non è certo appetita dalle nostre donne in quanto vi si fatica troppo), na Pajanechése, na Pischiolane, ddu Pratelése, na Sandemartine i na Sandesane, e il nome del luogo di origine di queste mogli, proprio per la loro sparuta presenza è assurto a patronimico di famiglia. L’altro déste sono i venditori ambulanti. Fin sui primi anni ’50 la macchina è pressoché sconosciuta nelle nostre contrade. Si va a piedi, tutt’ al più a groppa d’ asino o in carretto, immersi in una condizione ancora squisitamente contadina, il rapporto interpersonale è pane del vivere quotidiano, spesso si va in compagnia e specie sotto le feste della buona stagione il venerdì del mercato di Sandimétre la via di Mariale, in terra battuta come tutte le altre, quelle del 1. Cungiatóre al lavoro borgo comprese, è cicaleccio di voci 136 più profonda del cuore degli emigrati negli angoli più disparati del pianeta; ai sogni, che scavalcando in escursioni notturne le barriere del tempo e dello spazio si inoltrano a riportare chi se tróve lundane sotto il nostro cielo, nelle nostre campagne; se penso a colui che ancora dopo anni, e tanti, che se n’à jite, su dieci volte che sogna, nòve vóte se ne revé ajju Póje – non frammenti dunque, ma quell’ identità di fondo, celata o sommersa nella frenesia del vivere quotidiano, è quel “ji só de ru Póje“ uguale a se stesso e irriducibile, tanto più per coloro che non ebbero, per essere partiti già ómmene fatte, la possibilità concreta di rifondarsene una nuova. Ci vorrebbe giusto un immenso album di fotogra!e per parlare meglio di addii e separazioni o poter osservare lo svolgersi della scèrpe pujare là dove si è trapiantata. 141 Clandestini di Antonio Galeota Quando viene diffusa la notizia che c’è stato uno sbarco di clandestini, non sono in pochi ad inveire contro l’invasione indebita e dannosa di cittadini extracomunitari, secondo una interpretazione del fenomeno ascrivibile a chi ha già dimenticato che un movimento di intensità addirittura superiore ha riguardato, nemmeno moltissimi anni fa, proprio gli Italiani, approdati spesso clandestinamente, con ogni mezzo e a milioni in tutti i Paesi occidentali, a formare quella che Gian Antonio Stella ha chiamato l’Orda 1. In questa de!nizione è racchiusa l’ostilità addirittura razzistica riservata al nostro popolo emigrato alla !ne dell’Ottocento soprattutto dall’opinione pubblica dei Paesi di lingua inglese, che rispecchia in modo speculare i giudizi e i comportamenti di chi è oggi contrario per principio all’immigrazione. Senza capire che semmai il problema della società e del Governo italiano è quello di facilitare l’integrazione e di regolamentare la posizione giuridica di chi è venuto fra noi per lavorare, per crearsi un avvenire meno avverso, contribuendo a dare comunque un impulso positivo ed indispensabile alla nostra economia, accettando di dedicarsi ai lavori che gli Italiani non vogliono più fare. La loro esperienza è la stessa fatta dai nostri emigranti, dai quali non si distinguono per attitudine al lavoro duro e per i sacri!ci che sono disposti ad affrontare per crearsi una migliore posizione economica e sociale. Il terrorismo di matrice islamica sta tragicamente segnando i Paesi occidentali e costringe questi a maggiori controlli !nalizzati a ridurre la clandestinità degli extracomunitari presenti sui loro territori, ma non può portare all’ equiparazione tra terrorista e appartenente a un’etnia professante la fede musulmana: sarebbe ingiusto tanto quanto lo è stata l’estensione della quali!ca di ma!oso, propria di una esigua minoranza, a tutti gli emigrati di origine Italiana, negli USA di qualche decennio fa. Peraltro, i dati uf!ciali sulla criminalità in Italia evidenziano un bassissimo tasso di delinquenza proprio tra gli immigrati regolarizzati. Senza nasconderci che ad orientare l’eventuale opinione malevola nei confronti degli immigrati concorrono sia i pregiudizi razziali sia l’occultamento, o almeno 1 142 Cfr. Stella 2002. la sottovalutazione, della nostra emigrazione ad opera della storiogra•a uf•ciale, dove gli emigranti Italiani così •gurano: “erano partiti, •ne. Erano la testimonianza di una storica scon•tta, •ne. Erano una piaga da nascondere, •ne”1. La realtà evidenzia invece l’imponenza del fenomeno migratorio italiano, che le nude cifre mettono in risalto più di qualsiasi considerazione: 29 milioni di cittadini partiti dall’Italia in cento anni, dal 1876 al 1976, di cui poco più di un terzo sono poi rientrati in Italia! Conseguentemente, è stato calcolato che oggi nel mondo ci sono circa 60 milioni di cittadini di origine italiana. L’Abruzzo ha dato un numero consistente di emigranti, soprattutto la Provincia aquilana, al•ne ridotta ad un osso spolpato. Tra di loro, la rappresentanza poggiana è ovviamente minima, ma signi•cativa per la distribuzione che abbraccia quattro continenti e più di un centinaio di Comuni esteri e perciò una campionatura signi•cativa e importante, dato che riguarda una popolazione superiore a quella degli attuali residenti Poggiani. Sui concittadini all’estero si sarebbe forse potuto scrivere un libro per riportarvi una ricca collana di racconti di vita, di episodi più o meno divertenti e di esperienze vissute e segnalate direttamente dagli interessati, ma non c’è stata la risposta che ci si attendeva dopo che, nel 2003, sono state inviate centinaia di note agli indirizzi conosciuti. Forse uno scotto da pagare, dopo anni di non comunicazione a livello uf•ciale, e per ciò un’iniziativa da ripetere ancora anche per riuscire a costruire l’Anagrafe degli Emigranti Poggiani. Le poche storie di vita da emigrante che seguono, sono state selezionate tenuto conto del diverso contesto geogra•co, lavorativo e sociale in cui sono di fatto inserite. Esse derivano da interviste fatte alle persone che vi •gurano o dalla conoscenza fortuita degli episodi riportati, con l’eccezione di una testimonianza diretta di vita vissuta da emigrante. Domenico Boccabella, o più giustamente Mimine o Nóvande per la mole e la forza, a diciassette anni si era stancato di jì a jurnate, senza che gli riuscisse di metter da parte molti soldi, ed era partito per la Francia assieme ad altri sette di Picenze di Barisciano, il paese del padre, nessuno essendo fornito di contratto di lavoro. Era il 1947 e la Francia, come il Belgio e il Lussemburgo, cercava mano d’opera per la ricostruzione post-bellica e per le miniere di carbone e di ferro, reclutando muratori e minatori all’estero e in qualsiasi modo. Nóvande e i suoi compagni, nel frattempo cresciuti di numero •no a una ventina, si avvicinarono alla frontiera da clandestini, accompagnati •n nei pressi da una guida del posto, il quale aveva preteso un compenso pari a tre mensilità dell’epoca per ognuno degli espatriandi. Era la •ne di ottobre e il punto scelto dall’esperto per valicare il con•ne era il Piccolo San Bernardo, già ricoperto di neve alta alle ginocchia e traf•cato da altri 143 I soccorsi (v. foto 9) scattarono immediatamente, ma l’espansione rapida degli incendi non permise un’azione ef•cace, tanto che alla •ne furono solo dodici i minatori scampati. Dalle indagini condotte dal governo belga, risultò che la ditta che gestiva la miniera aveva colpevolmente 8. Miniera Bois de Crazier in •amme. trascurato ogni misura di sicurezza e, ciò nonostante, dopo Marcinelle, 8 Agosto 1956 qualche anno i tribunali belgi assolsero i responsabili! Gli Italiani scomparsi in quella immane tragedia furono 136 e, tra questi, 60 abruzzesi di cui ben 22 provenivano dal piccolo comune di Manoppello. Il Presidente Carlo Azeglio Ciampi conferirà alla memoria di ognuno dei 136 caduti sul lavoro una medaglia d’oro al merito civile il 2 giugno 2005. Con la seguente motivazione: “Lavoratore emigrato in Belgio, in seguito alla tragica esplosione di gas veri•catasi nella miniera di carbone di Marcinelle, rimaneva bloccato insieme ad altri 135 connazionali, in un pozzo a più di mille metri 9. Primi soccorsi alla miniera Bois de Crazier. Marcinelle, Agosto 1956 di profondità, sacri•cando la vita ai più nobili ideali di riscatto sociale. Luminosa testimonianza del lavoro e del sacri•cio degli Italiani all’estero, meritevole del ricordo e dell’unanime riconoscenza della Nazione tutta”. Scamparono a una tragica •ne tre nostri minatori che lì lavoravano, due da qualche anno già cittadini poggiani, Antonio Di Carlo e Gino Pierluigi; il terzo, Paolo De Martino, lo sarebbe diventato l’anno successivo sposando anche lui una Poggiana. Per loro e nostra fortuna i due erano appena tornati per le vacanze a Poggio Picenze e l’altro alla regione di origine, la Sicilia. Tornati in Belgio, non scesero più nei pozzi delle miniere, cambiarono lavoro e dopo qualche tempo tornarono in Italia con le loro famiglie. Dispiace sottolineare che nel periodo di vigenza del citato accordo, dal 1946 al 1963, furono più di mille gli Italiani morti nelle miniere belghe: stavolta il contributo solito offerto all’economia Italiana dagli emigranti meridionali e friulani non era stato solo in termini di rimesse di carbone (e di petrolio, per analogo accordo stipulato con il Venezuela, tenuto a dare all’Italia un barile di greggio per ogni Italiano lì emigrato), ma vi si aggiungeva un contributo pesante di giovani vite umane. Fino a metà degli anni Sessanta, l’industria estrattiva ha continuato ad essere •orente, poi è entrata in una crisi irreversibile a causa del favore sempre crescente incontrato dal petrolio sia nella produzione di energia elettrica che nel riscaldamento delle case e dalla plastica, che ha ridotto di molto l’utilizzo 151 A New York di Antonio Galeota L’Amèreche te fa cambà, ma nen ge se sta bbóne. Mó só penziunate i pijje na bbèlla penzióne ippure nen va bbóne. Ji i Marìe passéme le jurnate quasce sèmbre ècche déndre. Così zì Manfrède Iovenitti, che era in compagnia della moglie, zà Marìe i Ruscechéjje, aveva incominciato ad intrattenere me e mia moglie nella bella casa al quartiere Astoria di New York, subito a nord di Brooklin, dove nel giugno 2001 eravamo •nalmente andati a trovarli. Ajju piane de sòtte cj’àbbete Róssane, fìjjeme, che lla famijja sé. Ru !jje maschje, Altèrio, nen sta lundane i cce vé a truvà spésse u ce vé a pijjà pe stasse assiéme. Inzómme stéme che jji !jji nóstre: éve quéle che vulavamme, che nen gj’à fatte revenì in Italie. Ru penziére mé pèrò sta sèmbre ajju Póje: ècche pecché nen stènghe bbóne all’Amèreche! Vite nepó, ji i Marìe séme partite c’avamme ggià perzóne fatte. Tenavamme r’amici nóstre, che ppó nen te ri refà, i stavamme sèmbre m mèzz’alla ggènde. Ji !céve ru ferrare i nen stéve maje sóle alla bbuttéghe, c’alle prime la tenéve a Piazza Castéjje i ppó cchjù vecine a ccase, a Viaranne. Só lavurate fórte !n’a qquande ce só state le bbéstje da ferrà u r’attrézze da lavóre da fà u d’aggiustà. Ma nen de crède: se discutéve pure de pólìteche, che mm’à sèmbre piaciute ru partite de ri lavóratóre; se parléve pure de ri fatte de la ggènde, che se sapéve sèmbre tutte pecché ce stéve chi venév’a repurtà.. Se putéve pure liticà, ma passéve sùbbete. Piuttóste se scherzéve i lla sére évene risate, a sta assiéme afóre, l’istate, a raccundà ri fatte che succedévene, quiri che cce !cévene rite ló stésse pure se jji cunusciavamme, u a ggiucà a ccarte alle candine. Quande succedéve na disgrazie u ce stéve da dà na mane ajji lavóre rósse cume le mète u a vennignà, se !ciavamme in quattre pure se sapavamme ca nisciune ce paghéve. Ma putéve succède a ttì i éve la stéssa cóse! Fin’a qquande s’à putute tirà nnanze, séme state bbóne: ji guadagnéve cchjù de chi jéve a jurnate, ma me tucchéva suvà pure all’immérne. Dóppe só venute ri trattóre i jji tratturéjje c’ànne fatte scumbarì sie le bbéstje che 163 A Santa Fè di Marco Manilla Al ritorno annuale da Santa Fè, Ezio Urbani parla volentieri degli anni vissuti in gioventù a Poggio Picenze e, quindi, in Argentina dopo essersi imbarcato, come tantissimi altri Italiani (v. foto 17) nel porto di Napoli: “oh, certo che mi piace parlare di Poggio, mó tutti lo possono vedere, io sto in Argentina a 13.000 chilometri e ritorno tutti gli anni. Qui ci stanno i bei ricordi della gioventù e di tanta gente simpatica. Si stava proprio bene e in casa mia, per fortuna, non c’è stata mai la fame nera. Poi arrivò la guerra e cambiò tutto, non c’era lavoro, non c’era un soldo e si soffriva e allora scrissi ad uno zio, Giuseppe Galeota, che era emigrato in Argentina per andare un po’ di anni a lavorare per guadagnare un po’ di fortuna e poi tornare. Il mio desiderio era di restare a Poggio, con la mia compagnia ci divertivamo tanto, sempre allegria, sempre baldoria; si ballava, avevo una bella !danzata: era proprio bello in quei tempi della gioventù a Poggio. Io quando ero ragazzo lavoravo in campagna, c’era una agricoltura primitiva ma i prodotti 17. Emigranti in partenza dal porto di Napoli. 169 A Torino di Gian Battista Taddei L’emigrazione: un fenomeno necessario che ha avuto inizio alla •ne dell’Ottocento con l’espatrio verso l’America e che nel Secondo dopoguerra ha avuto un •usso molto intenso ed esteso, diretto prevalentemente nei vari Paesi europei, richiedenti manodopera per la ricostruzione dopo la guerra. Anche mio padre Felice Quirino è stato in Francia dal 1952 al 1967 e quindi io, •glio d’emigrante, emigrante io stesso, non all’estero ma in Piemonte. Praticamente ho fatto la staffetta con mio padre. Ho vissuto e vivo ancora questo fenomeno e mi sento di rappresentare idealmente tutti gli emigranti, partiti da Poggio Picenze, anche quelli stabilitisi nelle varie città italiane. Essere andati per lavoro a Roma, Torino, Milano, oppure in continenti lontani, vuol dire essere comunque lontani dal nostro Poggio Picenze. Certamente, il senso di distacco è direttamente proporzionale alla distanza e, quanto questa è notevole e più dif•cile da superare per tornare seppure occasionalmente, tanto più la nostalgia è forte, ma questo è il solo elemento di differenza fra tutti noi. Trasferendoci, indelebili ci sono rimaste quelle istantanee del paese, cariche di ricordi al momento della partenza, sempre sperata provvisoria, ma poi rivelatasi di lunga durata e spesso de•nitiva. Quante sensazioni consumate, quanti momenti •ssi al ricordo! La poesia che segue è scaturita da questo sentire e riguarda e rappresenta tutti noi che abbiamo lasciato il paese: POGGIO PICENZE Per questa mia lontananza, altre coordinate. E come un orologio che da un fuso all’altro non muta l’ora, questo cuore ha mantenuto quelle coordinate sue d’origine, perché sempre è in esse, quella fantastica città 171 che, piccolo, sentivo in te. E quando ritorno, per questo forse, mi sei, o ti sono, un po’ straniero perché vedi solo la mia faccia nascosta di luna: dettaglio, diaframma trasparente, con un solo gesto superabile. …So dalle radici la tua storia e so delle tue glorie non risapute: quell’arte tua della lana nel Rinascimento, vanto tuo a L’Aquila e fama in Europa di questa; ma soprattutto quella “gentile” tua pietra bianca, sintesi di arcaici e nuovi signi!cati, e umile ma dignitosa sorella del marmo di Carrara, fatta palazzi e monumenti a Roma e Terni, a L’Aquila e Milano, altrove. Intense, quelle mie soste nei laboratori e nelle strade dei tuoi artisti della pietra, e mi piaceva indovinare le !nali forme di quelle sculture. Un piccolo Michelangelo mi sentivo, insieme con altri a scalpellare quelle tue tenere pietre in cose di gioco inventate, personalizzate e levigate in concorrenza per solari giochi, inventati anch’essi e creativi. Ora le secolari cave di pietra, abbandonate, ti sono come ferite rimarginate: riaperte, saranno altri miracoli di bellezza. E inoltre hai in serbo nelle tue distese un tubero odoroso per la gioia dei palati, quel tartufo sì prezioso, che prima nemmeno raccoglievi!: è di beni generoso il tuo sottosuolo, come la tua gente, sempre… Quelle “P” iniziali del tuo duplice nome, dentro ho sempre scolpite a caratteri di indicibile affetto e, !nirà un giorno, questa non forzata e non spontanea lontananza ché non ci sarà ancora alternanza di clessidra a misurare i ritorni e le partenze, come ora, ma un tempo solo, quello per ritrovare la fantastica città. Questo è il nostro paese che da piccoli abbiamo visto fantasticamente 172 VITA QUOTIDIANA di Terenzio Ventura, Marco Manilla, Gian Battista Taddei, Gian•lippo Galeota, Antonio Galeota 177 Tempi di guerra di Terenzio Ventura Il ricordo del periodo della Seconda guerra mondiale per chi all’epoca è un bambino risulta in parte nebuloso ed in parte senza un riferimento cronologico preciso. I giovinetti ed anche i bambini respirano l’aria del regime e di conseguenza sentono più volte “Giovinezza” ed altri inni del fascismo, li memorizzano e li cantano. Le città ed i paesi si svuotano degli uomini che vanno in guerra. Restano a casa anziani, donne e bambini. Ricordo un personaggio garbato come tutti i contadini e simpaticissimo, Ru pennese, il padre di Bettina, la mamma di Ernesto Taddei, che frequenta casa nostra, cioè la casa di mia nonna Angelina Cipolletta. Puntualmente ascolta con estrema attenzione ogni sera il comunicato radio con un orecchio vicino all’altoparlante della radio. Quando entrano i tedeschi a Poggio, i pochi apparecchi radio del paese vengono requisiti. A casa mia riusciamo a ricomprare un vecchio apparecchio radio a valvole, più di dieci anni dopo. L’oro per la patria è stato già donato da parte di tutte le famiglie. Berardino il postino che quotidianamente distribuisce la posta a Poggio, Picenze, Villa e Petogna, partecipa indirettamente alla gioia dei familiari ogni volta che, sorridente, consegna le lettere dei combattenti. Ascolto la lettura delle lettere di mio padre che all’epoca lavora in Cirenaica come contabile della Ditta Sicelp che costruisce strade e successivamente in Iugoslavia a Scutari. Qui fa visita al fratello Nicola, sottuf•ciale della •nanza che è stato ferito e sta in Ospedale. Rosmundo, il fratello minore di mio padre, si è arruolato in Aeronautica come marconista di bordo e si salva per il rotto della cuf•a a seguito di un ammaraggio di fortuna nel mar Tirreno. Il fratello maggiore di mia madre, Vincenzo, è a Roma arruolato nella Polizia di Stato. Il fratello minore di mia madre, Nazareno, Nèno, è caporal maggiore degli alpini della Divisione Iulia e partecipa alla campagna di Russia insieme con Erminio De Bernardinis suo cugino e con Paci•co Gine Speranza. Questi ultimi, dopo peripezie indescrivibili, riabbracciano i loro cari. Ricordo l’angoscia di mia nonna Angelina, che trascorre per anni notti insonni ad aspettare invano il ritorno del •glio disperso, Nèno, di cui non si avrà più alcuna notizia. Una analoga situazione è vissuta da molte famiglie, che hanno i propri giovani sparsi tra i vari fronti della guerra (v. foto 1): venticinque poggiani perdono la vita a causa della guerra. 179 La famiglia, la società, la fede di Terenzio Ventura . Negli anni Quaranta e Cinquanta la famiglia tiene uniti i propri componenti con l’autorità dei genitori che non è oppressiva. In questa realtà l’obbedienza, termine che oggi non si usa quasi più, è praticata a tappeto, non solo nei confronti dei genitori, ma anche nei confronti delle persone adulte e principalmente delle persone anziane. Lo stato di indigenza di molte famiglie rappresenta la norma nei nostri paesi con un’economia agricola povera. Il danaro che serve per acquistare beni di prima necessità viene ricavato dalla vendita delle mandorle, delle noci, del grano, dello zafferano. Nelle case dove vi sono più •gli maschi adolescenti o giovani, può succedere che chi prime se rizze se vèste a testimoniare la non abbondanza di indumenti. Va ricordato che in quegli anni i sarti rigirano le giacche e i cappotti per poter utilizzare anche la parte di tessuto che è a contatto con la fodera, che ovviamente è nuova e non scolorita o consumata . Nella prima metà degli anni Quaranta molte donne sono i veri capi famiglia poiché i mariti sono in guerra. I •gli aiutano la famiglia come possono. Le porte delle case hanno tutte la chiave nella toppa della serratura. I vicini ed i parenti chiamano ed entrano in casa senza dif•coltà. I bambini ed i ragazzi trascorrono buona parte della giornata nella strada in cui i pericoli sono rappresentati esclusivamente dal passaggio di qualche carretto. Sono diversi i bambini che nel periodo bellico frequentano l’asilo infantile delle Suore della Dottrina Cristiana che ha sede al Codacchio, nella casa del notaio Galeota. Suor Pierina e Suor Rina si dedicano con tanto amore ai bambini. La mortalità infantile negli anni Quaranta è molto alta e il suono della campanella che accompagna i funerali con piccole bare bianche si fa sentire molto spesso. Le donne partoriscono in casa e, solo verso la •ne degli anni Cinquanta qualche donna va a partorire in Ospedale. La Cassa Mutua negli anni Cinquanta, previa certi•cazione medica, permette la consegna da parte delle Farmacie del “pacco ostetrico” che contiene tutto quanto necessario perché la Levatrice possa assistere la partoriente. L’allattamento materno è praticato da tutte le donne, salvo che non abbiano latte suf•ciente alle esigenze del bambino; talora l’allattamento, specie nelle famiglie povere, si protrae anche oltre i due anni di vita del bambino. Non si trovano in farmacia latti particolari e il succedaneo dell’allattamento naturale è rappresentato dal latte di mucca diluito opportunamente nelle prime settimane e nei primi mesi di vita. Per quei bambini che hanno intolleranza per il latte bovino, si ricorre al latte d’asina che non è assolutamente facile da reperire. L’obesità 184 parte sollecito alla volta della sua abitazione per chiedere notizie ed eventualmente dargli l’assistenza spirituale. Se ha appreso che qualche parrocchiano che non frequenta la chiesa è ammalato, con molta discrezione, preferibilmente nelle ore serali, si reca nella sua abitazione e con qualche pretesto riesce a parlare con il malato e, solo eccezionalmente questi ri•uta l’assistenza religiosa. La novena di Natale richiama molte persone in chiesa come pure la celebrazione della messa di mezzanotte. Le donne anziane sono sempre armate dell’inseparabile scaldino con cenere e brace. Dopo il Natale i contadini hanno il loro da fare con la macellazione dei maiali. Il maiale fornisce il condimento quotidiano con il lardo, lo strutto ed i guanciali. Le salsicce vengono consumate con la parsimonia dovuta. I prosciutti spesso e volentieri vengono venduti per ricavarne denaro da spendere per la famiglia. Con il piano Fanfani (v. foto 10), negli anni Cinquanta viene fatto il rimboschimento di Colle Cenerale. Gli operai partono al mattino e, nella stagione invernale rientrano alla sera. Sono in molti a pregare perché all’indomani faccia bel tempo. In caso di pioggia o di neve non si lavora e non si prende il salario. Questi anni sono caratterizzati da una solidarietà che oggi non esiste. Se due donne vicine di casa oggi questionano anche ad alta voce, l’indomani è tutto •nito e ci si rispetta più di prima. Per ben due volte il pagliaio di Gianni, Romaldo e Quintino Galeota di Miccheline situato in via del Fossato che parte alla casa di Sciacquitte e arriva alla Fonte del Fossato, è stato teatro di un incendio sicuramente doloso. La campana suona a martello e tutti i paesani si precipitano per aiutare fattivamente a spegnere l’incendio. Le donne portano conche d’acqua sulla testa, gli uomini portano secchi d’acqua e, senza creare intralcio per ore lavorano alacremente sino a quando l’incendio è spento. Quando arrivano i vigili del fuoco il problema è quasi risolto. Si soffre per le disgrazie altrui. La gente è rassegnata e quasi sempre riesce ad apprezzare le poche cose che ha anche se molti sogni rimangono nel cassetto. I contadini si rattristano per le avversità climatiche e manifestano le loro ansie quando il raccolto si prevede scarso. L’unica fonte di sopravvivenza viene dal lavoro e in particolare dalla terra. Chi scrive queste poche note è •ero di essere vissuto in una società contadina povera come la nostra e nella quale molte persone, talora ignoranti ed analfabete, gli hanno insegnato molto più 10. Al cantiere di rimboschimento “Fanfani” di quanto abbia fatto qualche professore del liceo e dell’Università. 196 Testimonianze dirette di Marco Manilla Ri raccónde de Demo Urbani, Dème i Baf•tte Prime, prime… ma mó prime éve n’atra cóse. La ggènde candéve, éve tutte nu cande. Ma cu te stà a mbazzì, prime ji me recorde ca javamme tutti quande n gambagne. Eve n’atre mònne che nen ce stà cchjù: addù revénghene quéle bbèlle jurnate! Ajju paése ce remanéve sóle ru préte, ri vécchie i jji citele. La matine préste cumenzévene a candà r’àsene. Mó tu fatte caminà la fandasie: ji tenéve r’àsene attaccate a na piande vecine alla vigne mé, i n’atre ru tenéve allóche vecine, i cuscì tutti quande. I allóre tutte r’àsene candévene ca éve na maravijje. Dópe attacchévene a candà le perzóne: r’ómmene, le fémmene, ri quatralitte, le quatralétte. Zappe i cande. Alla !ne de la jurnate se revenéve all’appéje. Eve tutte nu lavóre fórte, ma quande la sere se rejéve alle case, te sendive bbóne. Se magnéve tutti quande nziéme i éve na fèste ógni sére. Nóne, i zitte, mó é cagnate tutte, ma cu te stà a mbazzì? Vuléme parlà de le pane, le pane de na vóte? Quande le fémmene facévene le pane, se sendéve nu profume che te facéve n’ammurà. Le pane de prime tenéve nu sapóre bbóne i éve sustanzióse. Mó te danne l’arie, ma prime le pane éve n’atra cóse. Prime… pe ffà le pane ce se mettéve na fréche i témpe. Ce vuléve ru témpe. Le ràne éve mèjje, pecché se piandévene cèrte specie andìche ca mó nen ce stànne cchjù. Se producéve de méne, ma la farine tenéve n’atra sustanze. Pó, la farine se macinéve ajju muline a préte i remanéve bbella ténere, nóne cùma quéla de mó che sèmbre rù ciménde bianghe. Le pàne se !céve che jjù lévete naturale; s’ammasséve tré vóte, se facéve recrésce, se purtéve ajjiu fórne a légne. Le pane de nà vóte éve n’àtra cóse, éve cchjù bbóne, éve cùma na medecine che te déve sùstanze. Pó le pàne se mettéve avvutate che lle pèzze de jjine déndre à la màsse i duréve nà fréche de jórne, éve sèmbre frésche i profumate. Prime,… tutte éve cchjù bbóne. Ce stéve na sustanze divèrse, la ggènde ce mettéve témbe pe ffà le cóse i tutte rescéve bbóne. Nen ge stéve la prešcje, nóne, ma de cu stéme a parlà, ècche ce sta sóle da fasse na risate. La ggènde stéve che na faccja bèlle 197 Ri raccónde de Peppino Ianni, Ngrillitte A quiri témbe ce stéve tanda misèrie ma ce stéve ru rispétte. Se šcéve la matìne che jjù piùvènde i se jéve a zappà. Se šcéve che jj’àsene. N gambagne candévene tutti quande, spècie quande se metéve. Sembréve na fèste, n gambagne candévene pure r’àsene. Quand’éve quatralótte, se stéve pef•ne a ffà na bbande musicale ajju Póje (v. foto 12). Quande se metéve se facéve na •le d’àsene che repurtévene le ràne all’àre de rù paése. L’àre évene tutte gialle, éve pròprie bbéjje i la sére te sendìve sòddisfatte i cundènde, te magnive quéla póche grazie i Ddije: le patane, ri gnócche, la menèstre che jji fascióre, te bevive ddu picchiére de vine i stive bbóne. Tutti quande durmévene che la pòrte apèrte u che la chiave alla serrature, tutti se •dévene i nen ce stévene ri malevérze, le perzóne stévene tranquille, nisciune chiuvéve a chiave la pòrte. Tutte ru paése semendéve l’ órze, le ràne, le marròcchje, ri jérve, la lendicchje, ri cice, ri fascióre, le patane. I ppó ce stévene tandi méle, le mmalle, le cerasce i tutti quande tenévene nu póche de zuffrane. La rròbbe nen ze ruvinéve, la rròbbe tenéve nu sapóre bbóne i lle pàne éve cchjù bbóne de quéle de mó. Spécialménde le ceràsce nen se ruvinévene, nóne, mica ce facévene ri vèrme cumé mó. Le ceràsce évene bbèlle ca te magnive pure le fòjje! Ri méle nen se ruvinévene, évene bbéjje i sapurite. La matine quande te rizzive, sendive l’aria fréšche profumàte de l’èrbe i dde ri •óre; l’arie éve prófumate i ffòrte, éve n’aria fòrte. Ce stévene tandi cellitte de cchjù. Ri cellite évene pròprie tande i •cévene nu còngèrte! Se vedévene certi cellitte che certi cólóre bbéjje. I ppó se magnéve cchjù salutare, se magnéve sèmbre ammassate. La paste se 12. Banda musicale di Poggio Picenze, anni ‘30 203 Le stagioni di Gian Battista Taddei E’ bello ripensare agli anni Cinquanta, in cui il tempo era scandito da stagioni sempre regolari e gli orologi della sveglia erano i puntuali galli delle vicine stalle; (...ma i galli di oggi sembrano però avere perso quel senso del tempo mattutino, perché... cantano adesso in ogni ora del giorno!). Stare in paese ci faceva sentire partecipi e protetti dalla moltitudine stessa, in quanto in ogni luogo c’era gente, per cui non ci sentivamo mai soli perché ognuno di noi non poteva essere un’isola: era come se tutti i cuori si toccassero, e tutto era un grande cuore collettivo. E’ quel fenomeno che possiamo chiamare “poggianità” e che il tempo non può più aggredire o diminuire, e ciò vale per le persone che l’hanno vissuta direttamente, allora. Oggi prevale una certa autosuf•cienza o isolamento dagli altri, per un diffuso consumismo e per un certo orgoglio tra le persone. Non ci sentiamo di condividere questa situazione ma dobbiamo purtroppo subirla! Che dire di quegli inverni lunghi, freddi e nevosi dai primi del mese di dicembre sino a febbraio inoltrato? Ricordiamo le grosse nevicate quando la mattina, dovevamo fà la vije pe nen remané isulate e, spalando la neve, facevamo dei camminamenti alti anche oltre un metro d’altezza. Incredibili i giochi invernali: pallate di neve fra ragazzi e di questi alle ragazze e alle donne giovani, sfortunate a passare con la conca dell’acqua in testa, le quali ritornavano dalla fontana alla casa; pupazzi di neve d’ogni genere, a gara per farli più belli degli altri o degli altri quartieri; fabbricazione di sci e slitte, previo utilizzo pezzi di cerchi di botte a fungere da punta ricurva, inchiodata ad assi più o meno lunghe, in qualche modo rimediate e ogni terreno in pendenza era il nostro campo di sci. Natale: la più bella festa dell’anno, in cui tutta la famiglia si riuniva, dopo il ritorno tanto atteso dei tanti papà dalla Francia e dagli altri paesi europei. Indimenticabili le scene dei bambini, dei ragazzi e dei giovanotti, cui il padre aveva riportato cioccolate varie e i famosi giacchettóne i pure ri giubbótte che ognuno poi sfoggiava, soprattutto a Natale. E per i grandi le famose sigarette “Gauloises”, dal pacchetto perennemente azzurro. Ascoltavamo volentieri gli emigranti che, solo dopo qualche mese, avevano assunto, senza volerlo e senza così tradire le pujare, una nuova cadenza, infarcita di quando in quando, di qualche parola francese, specialmente da parte di chi 205 mucche (e c’erano i primi strilli), al segno preciso del macellaio, altre persone già pronte, lo afferravano e subito esso si ritrovava disteso su un •anco, sopra la scala con le zampe incrociate, tenute con forza da tante mani e naturalmente strillava a più non posso. A questo punto ru macellare si esibiva nel suo colpo magistrale col suo penzute i lónghe curtéjje, ru scannatóre, strettamente personale, sino al cuore del maiale che cambiava registro di strillo, a carattere molto drammatico e al massimo del crescendo, sino poi a uno sperato rapido calando ma che spesse volte, tardava a venire, con vistosa agitazione del macellaio e meraviglia gustata degli astanti. Intanto la cóttóre s’era riempita del caldo sangue della vittima, non senza avere imbrattato per i forzati strattoni, chi teneva il recipiente e non senza che questi mandasse bonariamente gli ultimi accidenti al maiale che, poverino, era veramente vittima anche di queste ultime minacce. Agivano poi le scurtèlle nelle mani di due, tre persone che pelavano e scorticavano il maiale dopo averlo irrorato con acqua bollente, tenuta sempre a temperatura giusta de bóllóre (v. foto 14). 14. ... i stévene a scurtecà 210 Dopo la pulitura totale del maiale le zampe venivano riscaldate con l’acque bullènde de la bròcchele per estrarre le unghie che jj’angine. Il maiale, così ripulito, veniva issato che jju scussatóre nel luogo dove era predisposta la caténe, era lavato con cura e poi sapiententemente “aperto” dal macellaio. La prima cosa che si andava a guardare, era lo spessore del lardo, da misurare con le dita per farsi vanto con i vicini. L’orgoglio massimo era impiegare nella misura quasi tutte le dita delle mani, pollici esclusi. Seguiva la canonica sequenza di tagli, di risciacqui e di messe a punto dei vari organi interni del maiale, per potere dopo qualche giorno fà le saveciccje i jji salame. Le donne, malgrado il loro intenso daffare a risciacquare e ad asciugare pentole e arnesi vari, erano già in attesa della carne da cuocere e reclamavano subito, con bonaria le pigiatrici, ma ru tórce é remaste sèmbre quiru che la stanghétte pe pressà le menacce, i che gnì ttande se tenéva fà repusà. Per aiutare nell’intensità il colore del nostro vino usava molto fà la svacate e cioè mettere nella botte del mosto una certa quantità di uva che era stata fatta bollire e cuocere. Anche oggi per apprezzare il nostro vino (vitigno autoctono Montepulciano d’Abruzzo, gradazione di circa 11 gradi): non berne per lungo tempo (bere altri vini nel frattempo) e poi gustarlo di nuovo: solo avvicinando il bicchiere verso la bocca e prima che questo la tocchi, sentiamo un profumo d’uva che gli altri vini non hanno e il suo sapore poi ha un gusto rotondo che dà sul dolce e che ricorda il profumo dianzi detto. Queste sensazioni sono state effettivamente provate, da chi per lontananza da Poggio, si era da anni distaccato da questo nostro prodotto. Nei campi era arrivata la stagione della semina del grano che il contadino compiva con passi misurati e cadenzati e con ampi gesti delle braccia, ma le seminatrici meccaniche, hanno poi fatto cessare, quel bel rito così sacrale. L’attesa per il vino nuovo andava oltre le feste di S.Salvatore e della Madonna dell’Addolorata, che cadono il 9 e il 10 novembre, ma essa era ampiamente ricompensata dalla bontà del vino stesso. Anche in queste feste c’erano le bancarelle, come quella estiva di San Felice, ma non c’erano i gelati per gli ovvi motivi stagionali, però era caratterizzata dalla grande •era di bestiame, molto rinomata nella Vallata e che si teneva nello spazio dell’attuale Villa Comunale, l’ex aia e l’ex Campo di Calcio, a •anco della Chiesa Parrocchiale. Mancavano i fuochi d’arti•cio per non spaventare gli animali nel giorno della •era, per essere poi effettuati il giorno di festa della Madonna. L’aria ormai diveniva decisamente fresca e faceva virare tutte le sensazioni di bel tempo verso un’atmosfera fredda. Guardavamo per questo verso le cime dei monti, quelli di fronte al paese e sopra Fossa, ma anche verso la nostra “montagna”, quella di Cenerale: per vedere apparire la prima neve, che puntualmente arrivava, e ciò signi•cava che Natale era già vicino. Per incominciare un altro anno. Abbiamo rievocato con piacere quegli anni in tante azioni di vita: i faticosi eppure non pesanti lavori di campagna, la comunanza sfociante in allegria sociale, i modi dire e di fare. Tante di queste cose come la mietitura che lla sarrécchje, la trebbiatura, le ccìe ru pórche, la frequentazione delle stalle, la tessitura casalinga, non sono più praticate, altre sono trasformate oppure sono desuete, ma rimangono come vividi affreschi, nelle pareti della nostra esistenza, perché la vita non ha il potere di cancellare il passato, che il cuore non dimentica mai. E chi non ha vissuto quel periodo deve accontentarsi dei ri!essi di questi affreschi e, mai riuscirà però a credere, che abbiamo anche bevuto l’acqua del •ume Aterno, nei nostri frequenti bagni, perché “il naturale” era ancora imperante. 221 L’ immérne di Gian•lippo Galeota All’ immérne se repusavamme. Ma n de le crède, ca ógni témbe vóle la fatija sé. Cért’ é ca •céve le frédde. A témb’ i néve •ucchéve pure ddù tre jórne all’ af•le. Caschévene cèrte sparre , i cum’ allignévene! N’ gèrt’ anne de néve ne •céve tande ca raccappéve le pòrte. I quand’ éve cuscì la matin’ apprésse ógnune se •céve la vije nnanz’ alla case pe jjì alla stalle u alla candine. R’ ómmene sajjévene sòpr’ ajji tétte pe levajje quéla sòrt’ i pése, ca sinnó se putévene sfunnà. Quande tirévene le schiaravènde m butive šcì ca tte se ngulléve ru vénde. I tande le vóte feréve na strine ca tte tajjéve la facce, i lla nòtte pe jji vìquele quéla beferine •schiéve ca tte se mettéve alle récchje. I allóre, dajje’a mmétte fóche che jji ciócchi cchjù rrósse! Ma le pégge éve quande la nòtte jéve n zeréne. Se jiu jórne éve fatte ru sóle, che quéle póche cajje jéve a mmóllóre , ma la nòtte •céve cuscì lle frédde ca caschévene ri cellitte. La matin’ apprésse, da ri pinge stévene rappennicóne tutti péšce lónghe pure mèzze vracce. Però nu c’ avamme bardasce, addù cj’ arrivvavamme ri rumbavamme i sse ri sucavamme. N dèrre ativa stà atténde a nne sciufelà, ca tte putive ròmbe le còsse. Ma alla néve i ajju jéle nù ce faciavamme fèste. Stavamme sémbre a ffà a ttuppate, u a fasse ru retratte, i quande n’ atre te déve na vusse, tu alla néve te ce ne caschive cundènde. I sse jj’ ómmeni rósse i lle fémmene atévena stà atténde addù métte ru péje , nù ce javamme alle mèjje nòzze, i cchjù la vije s’ éve redutte ch’ éve na schiazz’ i jéle, cchjù je davamme a sciufelà. A Sande Ròcche, vecin’ alla fermat’ i la còrière pe jjì alla scóle all’ Aquele, la séra prime ce jettavamme quattr’ u cingue mmarmitte d’ acque, i lla matin’ apprésse la vije éve tutta jelate •n’ a Pistacchje. I sse ppó la nòtte nenguiccéve i lla raccappéve, le fémmene, u quiri che ne lle sapévene, facévene certi scambavusse, i ddajje lóche a rite tutti quande . Ma se cce capitéve une rósse, allóre ce s’af•cchév’ apprésse, ca se sapéve sèmbre chi éve state, i nnù se ne scappavamme déndr’ajju lavatóre.Quande •ciavamme a sciufelarèlle avamme cumé jji tréne, i tenavamme le vracce allargate i sse ngandavamme i faciavamme zzzzzzzzz cumé jji’azzóne. Ma ru punde addù javamme le cchjù év’ a Cacciadènde, i cce venévene pure quiss’ i Péje la Tèrre, ma gne diciavamme nénde. Pure lóche ce sbalanzavamme l’ acque la séra prime pe falla venì cchjù tòste la sciufelarèlle. Quande n ze facéve la scóle ce se stavamme tutte la jurnate. Ficiavamme a sciufelarèlle, ma 222 alla parnanze. Cèrte tenévene ddù tré vunnèlle lònghe •n’ appéje ri peje. Ce ne stéve une che n ze vergugnéve pe nnénde, se mettéve a nu pendóne i ppiscéve ritte cumé n’ ómmene. Cèrt’ atre fémmene, ritte sòpr’ alla magnadóre, stévene a f•là i jju vertécchje •céve nn’ammónde i nn’abballe cumé lla vularèlle. A nu cèrte punde chiamévene nu bbardascitte pe fasse règge ru fuse, i abbutévene la jammòtte.Vèrze vindunóre alla stalle ce stavamme quasce tutti quande. Appéne se cumenzév’ a ffà le scure s’ appiccéve ru lume che stèv’ appiccat’ arréte la pòrte. Che lle quatrale ce •ciavamme a Pitepitugne i ajju Checuzzare, ma maje a ccummare u a cacc’ atra cóse che •cévene sóle le fémmene. I quést’ éve le pazzià. Tande pe ddì, quand’ avamme pìcchele nu, n ze capév’ a ddì ri “giócattele”, pecché n gi stévene. Nu se •ciavamme sóle tutte ri zurlitte i cce pazziavamme. Le fémmene se facévene la pucche che jji ravanz’ i le vunnèlle i de le càveze vècchje, a mméno ché nn’ évene bbóne a dall’ ajju cingiàre. Nu tenavamme la rùzzeche, che ce la •cévene ri rósse quande sechévene le léne. Dóppe šcé ru cérchje, quande s’ évene cumenzat’ a vvedé le bicillétte.Tutte r’atri pazziaréjje se ri •ciavamme che lle scàttele i la cunzèrve, che jji pézze ravanzate i le tàvele, i cche jji chióve che se retruvavamme quande facéve la piéve, u che jji férr’ i le bball’ i la pajje. Tonìn’ i Néstine, quand’ avamme pìcchele n ze chiamév’ angóre Papà, ma sapév’ attaccà ru férre alla corrènde i, cumé s’ éve na truccele, •céve speselà ri càreche da la vije •n’ ajju ballarine. Che na ngacchiatur’ i vernéjje i cche na làstech’ i cameradarie ce se •ciavamme la frézze, i cce pijjavamme la mire, ma ce javamme pur’ a cacciannive. Tenavamme pure la zìppele, i quande ce •ciavamme, diciavamme: “Ghiste!”, i jje davamme na bbòtte che lla mazze pe ffalla sgrillà da la scalétte. Quiri che lla tenévena rebbatte respunnévene: “Mòine passe nnande!”, ma s’ atévena stà fèrm’ addù stévene. Pèrò n z’ à maje capite bbóne cù vulavamme dì. Ma alla stalle la cóse c’a mmì me piacéve le cchjù éve quande le vècchje se mettéven’ a raccundà, i qquande sendavamm’ i fà:” Ce stéve na vóte…” se stavamme zitte tutti quande i sse mettavamm’a ttecchjà che lle récchje ritte, pecché ce credavamme addavére a Caruséjje, a Cacamarénghe i ajj’ urze. Ma tande le vóte ce fìcévene venì pure la cicc’ i cajjine, nne spècje quande •cévene: “ I ècchete che jju Picchepicche cale abballa ru camine “, u quande raccundéven’ i tutte quéle vóte c’ a une u a n’ atre j’ éve rescite cacche spirde. Ma la péggia paure éve la stréje, ca nu mó dicéme la stréghe. N’ anne la cavall’ i Zumbitte, ch’ éve ròsce, se scungéve sèmbre, i ddicévene ca la matine je truvévene le trécce alla cóve i ajju cójje. Cérte, de sicure éve state la stréje! Allóre Zumbitte mésse na sarrécchje alla jattaról’ i la stalle, ma la matin’ 228 pecché quande te chiappéve éve cumé se tte stiv’ a sturzà. Allóre n’ atre te déve tutti cazzuttéjj’ arréte la schine i na nzégne se ferméve. Pèrò s’ éve tróppa fòrte , mammete nen de •céve šcì afóre, i qquande te pijjéve la sendiv’ i fà: “Sande Bbiasce!” . Allóre la tòšcje te se passéve, i macare nen de s•ative cchjù, ma pure pecché, quand’ éve passate le brutte, le sapive ca mammete te strilléve, i llóche a recumenzà: “ Abbuscelató, cj’ abbiste penzà, ca jì te l’ éve ditte !”. I ppure la tòšce se recujjéve. Cèrte vóte pijjéve la fèbbre. A mmì mamme n ge credéve maje ca lla tenéve, pecché a zièlle je dicéve sèmbre ca ji éve cacamiràquele. Ma pó me mettéve ru térmómetre alla ngunajje, i sse lla tenéve me •céve métte ajju létte. A mmì me piacéve i tenélla, pecché éve cumé se rredevendéve pìicchele n’ atra vóte, mamme me chiaméve ógni ttande da la cucine i lla matine me •céve la zuppe che lle latte. Pó scalléve nu matóne bbóne bbóne, r’ abbutéve a nu cupertór’ i mme ru mettév’ ajji peje. Inzómme, stéve male, pèrò me ne frechéve. Ma all’ immérne ativa stà atténde a n de fà le frite. Pe lle frédde la frite t’ accujjéve, i ss’ abbuttéve cumé jji céquere, i cumé jji céquere te facéve ngènne. I ppur’ a st’ uccasióne t’ atenìva sta déndre. Màmmete ce •céve le pèzze bbullite i dóp’ un pò spuréve i sse reguaréve. Che lle stà accucchiate, cèrte vóte tenavamme ri pedócchje. I allóre mamme i zièlle ce s’assettévene n zéne i cce ri capévene. Ri chiappévene un’ a une i jji squajjévene che ll’ ògne, i jji pedócchje facévene :“ Cclì”. All’ ùldeme, pe ccije quiri che se l’ évene frangate i jji rénnele, ce mettévene ru •itte. Ma pó arrivéve Natale i cumenzévene le nuvéne. Vól dire che ppe nòve jórne, dóppe vindunóre sunéve la cchiése i lla ggènde cumenzév’ a jì ammónde. Ri bbanghe évene sèmbre piéne, i all’ èpeche évene padrunale, quasce ógni famijje tenéve ru sé. Fatte le nuvéne, arrivéve la veggilje, ch’ éve Natale addavére, pecché se magnéve mèjj’ i r’ atri jórne, i a mmèzzanòtte, mindre la misse, nascéve ru Bbambinéjje. Ma prim’ i šcì da la case, se recapéve ru ciócche cchjù rrósse che ss’ éve repuste pròpje pe Nnatale, i sse mettév’ ajju fóche pe ddevezione. Alla cchiése n ge se capéve. Chi n ge jéve alla miss’ i mèzzanòtte u éve tróppe pìcchele u éve tróppe vécchje, u sinnó stéve pròpje male. Vèrze l’ ùldeme ru préte jév’ a pijjà ru Bbambinéjje addù r’ éve repuste r’ ann’ apprìme i jju mettéve sòpr’ ajj’ aldare. Allóre cumenzavamm’ a candà “Ninna Nanne”. Pròpj’all’ ùldeme ru préte pijjéve ru Bbambinéglje, i ttutti quande , mindre candavamme “Tu šcéndi dalle stelle”, ru javamm’ a bbascià une la vóte. La miss’ i mèzzanòtte nenn’ éve cumé ll’ atre misse, pecché tutti quande évene sèrje, i sse jji guardive nfacce, ce ne stévene tande che je venéve de piagne pe mmut’ éve bbéjje. Ru Bbambinéjje stéve sèmbre allóche •n’ alla Bbéfane. A sta fèste la cchiése se rembiéve piéna piéne n’ atra vóte , se recandéve “Tu scèndi dalle stelle” , se rebbascéve ru Bbambinéjje i ppó ru préte ru repunnéve pe jj’ ann’ apprésse. A Nnatale se facévene ri frittéjje . Mamme prime ammasséve, ri •céve, i ppó pijjéve la patèlla ròsse piéne d’ ójje, ri •céve còce i jji mettéve a 232 La fatije di Gian•lippo Galeota La prima fatije é lle rane. Da ch’é mmónn’ é mmónne la prima cóse pe cambà à state sèmbre le pane. Le rane cuménze che lla seménde. Na vóte, che n’ aratucce i cche jj’àsene se •cévene ri sòleche (v. foto 22) i arréte ce se jettéve la seménde. Le semendà se •céve a nóvémbre, dópe ch’ive repulite le rane (v. foto 23), póche prime de cumenzà a piòve. I da ch’ éve scite •n’ abbrile nen ge s’ atéva fa nénde, ma prim’ i spicà se munnéve, nne spècje pe lla vécce i jji papambre. I a mmagge nenn’éve cumé mmó che ssó cchjù scarlòtte i spiche, c’allóre nisciune tenéve paure i la zappe. Dóppe San Flice le rane se cumenzév’ a seccà, ma quasce addunungue év’avete scì i nnó ddu furche, nne spècie ammonda Cenerale, alle Cretare, ajju 22. Fà ri sòleche Vallóne i le ròtte i a tutte quéle cése addù ci stévene cchiù zasse che ttèrre. Ste rane s’ atéva rungà, atténde a scrullà la tèrre pe nna fà remané appiccicate alle ràjeche. Nen ge stéve na lescucce che se lasséve sóve , addunungue, pecché le mèjje tèrre l’ ànne sèmbre tenute quiss’ i ru Nótare i quir’ i Ferrare. Tutti quande r’ atre tenavamme cacche còppe cchjù mmèjje cumè ajju Fónn’ i Mariale, ajju Camb’ i sòtte , ajju Cajóne u alle Tumé, i cci stéve pure chi la tenéve alle piane. A ste tèrre, quande nen ge se mettévene le marròcchje u le patane, le rane venéve cchjù rrósse i sse metéve che lla sarrécchje. Pe lle rane che se runghéve, se facévene tutti mucchjitte i ppo se mettévene ajj pannaréjje. Pe repurtajji se •céve che jj’ àsene. R’ àsene tenévene ru mmaste, 234 j’ atìv’ allattà, te r’ atìva purtà apprésse, ru •cive bbéve quande ce vuléve i jj’ ativa pure renfašcià. Le criature se mettévene a ddurmì déndr’ a nu canéstre all’ òmbre, ma s’ atéva stà sèmbre a récchje ritte, pecché la sèrpe sènde r’ addol’ i le latte, i Ddì ne libbere, je putéve jì alla vòcche. Alla meteture ru Cambisòtte éve piéne i ggènde, i nne mindre se metéve candévene tutti quande, nne spècie le fémmene. I qquande stavamme p’ arrivà a ccape, se facéve a cchi arrivéve prime. I ddajje lóche a ajnasse che lle sarrécchje! Al dungue s’ atévena fà ri manóppje, i quistu éve nu ngòmbere c’ attucchéve a nu bbardasce. Quistu allóre jéve addù la macchj’ i le rane éve cchjù àvete, ne cavéve nu truppe i cce •céve le case. Dapó le stennéve , ce mettéve ri mucchjitte i le rane metute, i qquand’ éve fatte ru manóppje pijjéve ru pezzùchere i j’ attacchéve. Mman’ a mmane, se facév’ a ttémbe, u sinnó all’ uldeme, raccapezzéve ri manóppje spèrze mmèzz’ alla tèrre i •céve ri crapine. Ogni crapine (v. foto 26) évene trédece manóppje, ma cacchevvóte pure dicissètte. Dóppe na djècem’ i jórne se cumenzév’ a radunà, da ru Cambisòtte, Mariale , ru Cajóne, le Tumé i ll’ atre vije, i a mman’ a mmane le repurtéven’ all’ are. Ma le carià nen ze •céve cchjù sóle che jj’ àsene. Dàtese che tutte la rròbbe venéve cchjù rròsse, tutti quande s’ évene fatte ru mul’ i jju carrétte. Ma r’ ativa sapé métte ri manóppje pe ffà na tòmba cuma se déve. Quande nenn’éve fatte bbóne, cacche manóppje se ne cumenzéve a šcì, i all’ ùldeme ru càreche te se spalléve, i che lle bbiastéme r’ ativa refà. Se ppó la tòmb’ éve stòrte, pe ffòrze pennéve, i se pènnéve tróppe se putéve tumbulà. Na vóte, nen zó cchì, revenévene d’ ammonda le Cése, évene fatte la tòmba stòrte, la rót’ i ru carrétte j’ abba pijjà na pretecèlle pròpje alla tèrr’ i Miccheline alla Fònd’ i ru Pajjare, addù la vije pènne, i ce se capeturzénne déndre. Pe ffurtune nen ze fécce nénde nisciune, manghe la mule. Però la paure nen ze la franghénne. All’ are indande tutti quande stévene a ffà l’óppje, i éve cumé quande se facéve la case. Alle prime se mettévene ri manóppje ndórne. Ajji pizze s’ atévena métte n gurtéjje, i s’ atéven’ accavallà che lla pajje déndr’ alle case, i ppó se cumenzévene a ffà le fìle. All’ ùldeme ce se facéve ru tétte che lla part’ i le spiche alla spiòvènde, ca putéve fà sèmbre nu scrullóne. Le rane nen z’ atéva nfònne, sinnó ru vache s’ ammucheréve i mmanghe se putéve trescà bbóne. Però che 26. La mietitura: formazione di l’ùmmede i che lle tróppe cajje le rane putéve manóppje e di crapine cungallà, i allóre l’ óppje pijjéve fóche. L’óppje i ru Notare nnà bbattéve nisciune. Ma n’anne je s’abbruscé. La ggènde curré da tutte ru Póje, datese che lla fuminére éve ròsse, i sse vedéve pure da Picènz’i da Fòsse. Tutte le fémmene cumenzénne a carià l’acque che lle cònghe da ru 237 de le crède, ca r’ ómmene che nn’ évene fatiatóre n ze ri pijjéve nisciune, pòzz’ èssene pure bbéjje cumé nu sóle. Cómungue, ri cic’ ì lle ndicchje se semendévene a mmarze, je davamme na mèzz’ avuccate, i qquand’ évene sécche ri rungavamme i jji vattavamme. Se putéven’ adduprà che lla menèstre, i lla nzapurévene, ma tenévene pure la sóstanza sé, pe ddatte la fòrze. Cumé jji fascióre, ch’ ècche però apprime n ge •cévene. Nù la cicce la vedavamme póch’ i nnénde, a mméno ché nn’ éve na fèsta ròsse, i quande une je chjappéve na malatia cattive, i lla cajjine se cciéve quande na fémmene se •jjéve pe ffajje ru bbróde. Le patan’ i lle marròcchje se mettévene alle tèrre cchjù bbóne u a quéle cchjù frésche. Tande vóte na tèrr’ i na còppe se semendéve mèzz’ a patane i mèzz’ a mmarròcchje. La patane se semendéve a marze. Se •véve ru sòleche bbéjje deritte, ca la ggènde te se putéve refrecà, i n’ atre apprésse ce jettéve déndre le patane ch’ évene sèmbre le cchjù pìcchele, i ss’ évene um bò rròsse se spacchévene. Ma se semendévene pure che lla zappe. R’ ómmene •céve na cuzza fennute pe quéle che servéve i lla fémmene u nu bbardasce ce jettéve la patane i lla raccappéve. Dóppe ch’ évene šcite s’ atévena avuccà i ppó s’ arrabbucchévene, accuscì, se •céve n acque, remanév’ ajji sòleche. Quande ri stajóne s’ évene seccate se recaccévene. Ri stajóne nn’ évene bbóne pe ‘lle bbéstje i mmanghe pe lle stabbje, i se jji mettiv’ ajju fóche te mbuzzunévene la case. Allóre se jettévene ajji jjimmete. Nen zèrv’ a ddì ca la patane é bbóne. Però ri patanijje se cucéven’ ajju pórche. Za Ndunine ri mettév’ a refreddà nnand’ alla pòrt’ i ru sturcitt’ addù se mettév’ a ffa ri servizje, ma ri bbardascitte je se ri jéven’ a frecà. Allóre, quande ri vedéve che lla cóv’ i r’ ócchje, abbastéve che jje strilléve: “Ve pijje na vòcce !” , i jji •jjaréjje se ne scappévene. La marròcchje éve cchjù fatijate, dàtese ca de cchjù ci’ jativa tajjà le cime, che s’ arruvévene n gà pparte, i lla frunne, ch’ éve bbóne pe lle bbéstje. Quand’ évene sécche se cavévene i sse facévene ri mucchje. Na vóte stuzzate, se mettévene alle sacchétte i sse repurtévene . Ri tórz’ imméce se lassévene angór’ a seccà, i ppó s’ attacchévene. Évene bbóne pe jju fórne. Comungue n ze jettéve nénde i nisciuna cóse. Le prime pe ttì, pó pe lle bbéstje, i all’ ùldeme pe jju fóche. Le marròcchje, na vóte repurtate, s’ atévena scartuccià. I sse facéve une la vóte. I allóre la case te se rembiéve i tutte quir’ i ru vecinate , a mménó ché n ge stive liticate, gnune se purtéve na sacchétte i lla rembiéve che lla spulle pe fàccese ru saccóne gnóve. I ppure mó se candéve. Luiggin’ i zi’ Assunde tenéve la vócja bbèlle i candéve le canzóne vècchje i ppure quéle che se mbaravamme tutte ri anne , ma quand’ attacchéve “Alle porte di Genova”, ch’ éve la canzón’ i quéla che nn’ éve vulute magnà cchjù, i cce s’ éve pure mòrte, pecché pe ll’ amór’ i ru patre, quiru che vuléve jésse s’ éve pijjate n’ atre, te venéve la péne. Na vóte scartucciate, le marròcchje sane se mettévene ajju terrazze, chi ru tenéve, u sinnò all’ are, ma ècche l’ ativa guardà, ma nn’ é pecché cachedune te se l’ 241 é ssèmbre bbèlle, almine pe jju padrone. I ppó ri cciappel’ i l’uve só bbéjje pe cónde sé. Pe ttutte vedive mòrr’ i ggènde a struccà l’ uve (v. foto 30), ca na vóte se •céve che lle mane, abbastéve stuzzà ru raspe ajj’ annuve sòpre, u alla mèjje che nu curtejjucce. Fatte ri cestóne, se jévene a sbujetà alle pijònge. L’ uve apprime se repurtéve che jj’ asene. Ce vulévene sèmbre ddù ómmene pe speselà le pijònge p’ attaccalle alle cuèlle che jji jàcquere. Arrivat’ alla candine l’ uve se jettéve alla vasche da na fenestrèlle, dàtese cà la candine atéa stà sòtte la case , pecché le vine nn’ à tà sendì le cajje i mmanghe le frédde, sinnò se quaste. Gnune facéve nu bbéjje mucchje, c’ a ttutti quande je piacév’ i fàsseru ru picchierucce. Pèrò quand’ éve alla fémmene che ce patév’ alle bbéve, éve pròpje brutte, i sse une éve mbriacòzze le sapévene tutti quande. La sére se magnéve tutti nziéme alla case ch’ éve vennignate . Ma nen tutte l’ uve éve fatte. L’ uv’i ri nepóte scéve quande l’ atre uve éve ggià rròsse i évene ri cciarcellitte che quande se vennignéve évene angóre cèrve. Ógni ttande ri fìjje ce se jéven’a affaccià, i se n ze l’ évene jit’ a còjje, se ne facévene na magnate. Che ll’ uve che facéve cchjù ddóppe, ma cèrte vóte pure che cèrti bbéjji cciappel’ i malvascie, ce facévene ru marche šcjàbbele. Ma gn’ atéva vedé nisciune, ca sinnó se ru jévene a recaccià. Ficévene na cuzzetèlle a nu punde cchjù reparate, ce mettévene sòtte i tónne tónne le pàmbene , ru rembiévene che ll’uve, cacc’ atra pambene sòpre, i lla raccappévene che lla tèrre. Pe putélla rechenusce mettévene nu mérche n dèrre, ca manghe ce fùsse servute, ca la vigne gnì padróne la chenusce cumé la saccòcce, pure s’ évene bardasce. Ma n gèrt’ anne la néve caschéve pure alla fèst’ i ri mórte, i allóre ru mérche r’ ajutév’ a retruvalla. Quél’ uve éve remaste frésche cumé quande l’ évene cóte, i éve n’ atra cóse appar’ a quéla che le mamme évene appiccate alla candine pe repùnnela, pecché l’ uv’ i ru marchešcjàbbele n z’ ammusciuléve. Cómungue ru Nótare sèmbre, i Bbaf•tte i Bbasile cchjù ddóppe, de vine ne •cévene cchjussà. Alle prime l’ uve se pistéve che jji péji scàveze, ma dóppe šcé la piggiatrice (v. foto 31), i ècche ce vuléve sèmbre nu ggivinótte pe ffà ggirà la róte i macinà l’ uve, che n’atre je la jettéve déndre che lla pale. Éve bbéjje a sendì i culà le mmóste déndr’ ajju pilóne. Quande s’ éve fenit’ i squajjià, l’ uve se mettéve ajju tórce. Alle fatijà r’ ómmene facévene a cchi tenéve cchjù ffòrze u a cchi se stracchéve all’ ùldeme, i alla candine se une éve puzut’ addavére, se vedéve ajju tórce. Na vóte Tòrèlle i Albèrt’ i ri Paréte che lle fà a cchì vusséve mèjje la stanghétte , jetténne ru tórce n dèrre. I dàtese che stéven’ a Bbasìle, ch’ éve cummannande, se la pijjénne na bbèlla cazziate. Sèmbre alle pistà, sta candine stéve piéne d’ ómmene che pistévene i nu via vaje i fémmene che cariévene le mmóste alle cònghe pe purtall’ a quiri che ttenévene la candine ma la vigne nna tenévene, p’ ipòtese Pianine, Mariannine i Finucce che jj’ éve pure parènde, i cacchedune pure i L’ Àquele. A stu punde le vine se putéve métte alla vòtte, 250 Vita da artigiano di Antonio Galeota Naturalmente, non ci sono solo le fatije de ri condadine. Anche gli artigiani faticano dalla mattina alla sera, nelle cave assolate o chiusi curvi sul tavolo di lavoro, nelle buttegucce, spesso circondati da amici appena affrancati da altri cicli lavorativi. I sarti, gli scalpellini, i calzolai e i fabbri ferrai sono quelli che lavorano a tempo pieno, avendo da soddisfare continue e pressanti richieste di lavoro. L’acquisita capacità di modellare la materia prima li rendeva preziosi punti di riferimento per una attività che, normalmente, li accompagnava per tutta la vita lavorativa, al•ne consegnandoli alla memoria collettiva come mastre. Tra i tanti Adornino Masci, sarto af•nato alla scuola di Dazzena, nu sandemetrane grande sartóre i ppure musiciste, Dórnine, sempre disposto alle battute e al racconto, anche quando si tratti della storia della sua vita lavorativa. Dórnine parte in presa diretta, appena gli chiedo quanto tempo ha lavorato da sarto e a cominciare da quando: Ji só lavorate pe na vite indère, da quatralitte a gunfjà le pelliccj’i r’aggnéjje. Ève tande pìcchele che nen ge la facéve, i cèrte vóte ru fiate me revenéve arréte i mme gunfiéve ji ! Dóppe me só mésse a ffà ru sartóre, a quattórdecj’anne, prime a mbaramme i ppó a lavurà. Tu nen me credarriste ca ji me só fatte 15.000 chilòmetre in séj’anne a L’Aquele, pe jì a lavurà, rejì a magnà a zìeme a Vija Strinèlle i ppó a lavurà n’atra vóte i rejì a durmì, alla case i zìeme. Lavuréve ajji Quattre Candóne, nél 1934 a 14 anne, prime cume apprendiste sartóre, gràtese, séje jórne la settimane pe ddù anne, i ppó cume sartóre a 27 lire la settimane, nu sacch’i sólde allóre: n’ópéraje guadagnéve 2-3 lire ru jórne, ru cìneme custéve na lire. Pe guadagnà de cchjù, lavuréve "n’a tarde, pure "n’a mézzanótte i ppure la dóméneche! Da mmèzz’a Vija Strinèlle, addù abbitéve, ajj Quattre Candóne só ddù chilòmetre, passsènne pe Pòrta Castéjje. Allóre, cundéme: 8 (chilòmetre ru jórne) pe 6 (jórne la settimane) pe 52 (settimane) pe 2 (anne) fanne 4.992, pó 8 pe 7 pe 52 pe 4 i fanne 11.648...in tutte 16.640 chilòmetre pe jì i revenì da lavurà, atre che ccazze ! Ri cólléghe nen ge credévene, pure pecché purtéve le stambèlle, ma a mmì m’éve ópérate na vindine i vóte ru prófessóre Putti, che scjà bbennétte dunungue se tróve, de r’Istitute Rizzòle de Bbólógne, da quand’éve quatralitte, nen me recòrde se a ddù u a ttré anne, i "n’a diécj’anne. 252 Il Ripostiglio di Poggio Picenze di Antonio Galeota Al Museo Nazionale Archeologico di Chieti fa bella mostra di sé il “ Ripostiglio di Poggio Picenze”. Di che si tratta ? Ha veramente a che fare con la nostra storia ? Vediamo. Dobbiamo tornare indietro nel tempo, agli anni seguenti alla Seconda guerra mondiale quando il lavoro di cavatore di pietre e di scalpellino occupava ancora molti poggiani nelle cave, ma si avvertivano ormai pesantemente gli effetti della lunga crisi economica tanto che molti di questi lavoratori avevano già scelto la via dell’emigrazione. Tra questi Emidio Mimitte Biordi, raf•nato scalpellino scomparso di recente, emigrato in Francia dove rimaneva per molti mesi dell’anno, salvo tornare durante l’inverno per attendere alla lavorazione e alla fornitura di manufatti in pietra che nel frattempo gli erano stati commissionati. Anche nell’inverno di quell’anno 1953 Mimitte era impegnato alla Petrara, nella cava di famiglia posta nella parte bassa e a meno di duecento metri dalla strada di Piedi le Vigne, a ripulire della terra lo strato sovrastante il masso di pietra che si apprestava a far staccare per poi poterlo lavorare. Aveva appena cominciato a rimuovere il terriccio misto a sassi, quando si accorse della presenza 33. Verbale di consegna delle monete di una quantità impressionante di luccicanti monete d’argento fuoriuscite da na pignata mèzza ròtte, nascoste appena sotto la superficie e in parte ricoperte di terriccio infiltrato dalle piogge. 255 Tra ragazze di Antonio Galeota Da tanto che stava aspettando la chiamata delle amiche per andare a giocare, Mine de Marianucce si era spazientita e aveva cominciato a fare il cruciverba, quando sentì Luiggine de Lórénze chiedere a Marìe de Cróce, pure loro ragazze della Piazzetta Galeota, “ma tu nen ge vé?”. “Innó: tènga jì a ffà le strame, te puzze cecà!”. L’imprecazione di Maria non era diretta all’amica né ad altri, solo traduceva il malumore del momento per dover fare una cosa non proprio gradita, lei che tutta la mattina era stata impegnata in altre faccende al servizio della famiglia e non aveva avuto il tempo di andare a preparà le magnà alle bbéstje. Mina si affrettò ad uscire trovando la sola Luigina, che le diede le ultime notizie “stéve pe venitte a cchiamà,… mó jéme alla case i Rénzine a ffà le pucche, i ppó massére jéme ajju cìrquele, a Piazza Castéjje”. Da qualche giorno qui sostavano Fiacche e la sua troupe: una ragazza assistente, un asinello tuttofare, esperto anche nell’indovinare la ragazza che aveva dimenticato di mettere le mutande prima di uscire, e una scimmietta che sceglieva la pianéte de la furtune, accompagnando lo spettacolo con continui e frizzanti squittii. Quanto a Fiacche, il mago, si esibiva nel mangiare il fuoco e nel sottoporsi al forzuto Poggiano di turno, incaricato di spaccare una grossa pietra poggiata sul petto nudo del mago, percuotendola con una grande mazza ferrata. Quel pomeriggio le amiche, cui si era •nalmente aggiunta Marìe, fecero una pucche, una bambola di pezza, aiutate da Line i Ngiline che cuciva i pezzi di stoffa di scarto dei vestiti e disegnava con •li di lana colorata i lineamenti del viso. Alla •ne si attaccavano i capelli, realizzati con la lana riccioluta delle zampe delle pecore. Ogni pucche costruita veniva poi af•data a na mamme i a nu patre, che la portavano alla Madunnèlle pe battizzalla. Quella bambola fu assegnata a Rénzine de Nannine, che preparò i dolci per i festeggiamenti del dopo battesimo, e quindi si provvide ad avvisare i maschi, di solito i loro •danzati, perché serviva ru préte oltre al padre della bambina appena nata i almine nu cómbare. Quando si giocava tra donne, era frequente l’intervento delle ragazze del vicinato più piccole, le quali si divertivano a guardare per imparare e ripagavano l’ospitalità fungendo da staffette: Linétte de Bittine, Pine i Silvie de Basile, Ide i Macciane e Giulie i Bòrtòlle furono inviate ad avvisare ri spóse, che ormai avevano terminato la jurnate, e dopo un pó si presentarono Gèlsène i la Patanèlle, Félice i Grimalde, Sandine i Barbólétte e Niculine i Baf!tte, incaricato di fare il prete, e il piccolo corteo partì per la Madonnella. 258 mbucchéve, n’atri ddù alla came i alla pajje pe tiralle arréte i pp’ajutà a punne ri pannaréjje n dèste alle giòvene. Quéste partévene cume mótórétte pure n zalite, ritènne che le cumbagne u se mettévene a candà: cchjù che nu lavóre sembrévene ca stévene a ffà na cóse pe divértimende! I jji quatrale? Baste che putévene còrre ajji pajjare a stènne la came u la pajje, a resujjàccese sòpre i sòtte mèzzi nuve, a fasse ri šchérze, ma quéle che tenévena fà le •cévene. La trebbiatura durava almeno un quindicina di giorni, durante i quali il paese sembrava svuotarsi. Nel paese silenzioso, le strade di tanto in tanto risuonavano del cigolìo delle ruote dei carri e del rumore degli zoccoli delle bbéstje, che agili salivano con sulla šchine ri sacchi lónghe da na sóme, bianchi con una striscia di colore celeste tessuti ajju telare, o legate ajju traine, lucide di sudore. Quando passavano sopra i selci e i lastroni di pietra levigata dal passaggio continuo, gli zoccoli scivolavano formando scintille, non di rado facendo perdere l’equilibrio all’animale e facendolo cadere: interveniva allora il carrettiere a incitarlo con urla, imprecazioni e bestemmie e ricorrendo anche ajju staf•le, richiamando dietro le •nestre le donne anziane e le altre rimaste dentro per cucinare, pronte a farsi il segno della croce per contrastare il diavolaccio che sacramentava. Alzavano anche le braccia al cielo ad invocare l’intervento di S. Antonio in aiuto della povera bestia. Le rane nen venéve maje repuste sùbbete ajju ranate, perché putéve cuncallà, ma véneve ammucchiate alla stanza cchjiù gròsse per fajje pijjà l’arie. Pe lla cundendézze de ri quatralitte, che non sorvegliati correvano sul grande mucchio caldo inventando scalate, discese, nuotate per poi scappare via di corsa se scoperti, lasciandosi dietro una striscia di grano. Déndre le case se lavuréve cum’all’are: solo alle grandi feste i pasti erano così ricchi come alla trescature. Le donne cominciavano prestissimo a preparare i vari pasti, che potevano riguardare anche una trentina di persone. Si iniziava con la colazione, che serviva pe sdijunà con salsicce sott’olio, casce appresuttate fritte, la fellate de la spallétte, le pane, le vine i cèrte vóte la frutte de ru tucchelane. A pranzo ogni padrona di casa dava il meglio di sé, preparando ri gnócche u sinnó ri cannaruzzóne che jju sughe de carne, pó r’agnéjje u ru pólle che lla nzalate de pependóne i pummadóre, fórmagge pécórine i capelómme e poi portando tutto all’aia che jju canéštre, un cesto di vimini largo e basso: ajju céndre se mettéve la špase che la paste i ndórne ri piatte fennute mésse tutti ritte. Questo era il canestro più pesante e veniva portato da na signórina fatte o da una donna matura e robusta, che se ru punnéve sòpr’alla sparre, n dèste, portandolo senza nemmeno reggerlo •no all’aia. Le altre donne se punnévene r’atri canéštre che le cumbanà i lle bbéve. Alle ragazze più giovani era af•dato il compito di portare la céste, un contenitore anche esso di vimini ma più stretto del canestro, 261 se litichéve tra démócristiane de ru scude cróciate i sócialiste i cómuniste de le liste che Giuseppe Garibaldi. Nel 1946 e nel 1948 ajju Póje vengénne le sinistre i ppure nel 1951, ma fu l’ùldema vóte pe vind’anne. N guir’anne se presendénne ddù liste de dódece perzóne, une che capeliste ru nótare Carlo Galeota, dón Mimme, i vice Cerasóle, l’atre de sócialiste i cómuniste, che Leonardo Masci e Cioni Camillo. Resuldénne quiste che nóve cunzijjére, ma une se ne jé che dón Mimme i remanénne in òtte. Quande cumenzénne a vutà pe ffà ru sìndeche, šcévene sèmbre sètte šchède che ce stéve šcritte ru nóme i Leonarde i sètte pe jju nótare. Próve che tte repróve, éve sèmbre paréggie i jju sìndeche nen šcéve: nu cunzijjére che stéve che Leonarde nen sapéve šcrive i pèrciò nen putéve segnà ru nóme cuma vuléve, ma nisciune je le vuléve renfaccjà. Allóre Edoardo Taddei, Baffóne, penzé de dumannajje: zizì, ma tu chi ce vó cumé sìndeche, Leonarde u dón Mimme? “Leonarde”, respunné quire. Allóre s’aggiusté na šchède i sse fécce ru sìndeche! Nel 1956 vengé dón Mimme i !cé ru sìndeche !ne al 1960. Ormai signórinèlle, le ragazze andavano a ballare frequentemente alla case de Lóréte i Macciane u de Vraddinucce Grimalde, che disponevano di una grande cucina e di vari ballerini. Tra questi, Félice i Grimalde che nei velocissimi giri di valzer che gli piaceva fare, talora usciva rovinosamente per la tangente, travolgendo le coppie che incontrava! Andavano a passeggiare nei giorni di festa •no alla curve i la Cantónière, sulla S.S.17 allora non molto traf•cata, mai di notte salvo alle Fèste i san Flice. Della durata di due giorni, le feste patronali arrivavano dopo una lunga attesa, confrontabile solo con Natale e Pasqua. Fin dalla mattina presto per le ragazze cominciavano i preparativi per andare alla Messa Grande ripulite alla tinòzze, agghindate e che jju vestite nóve o con quello della festa che si aveva, riadattato all’ultima moda dalla sarta o in famiglia e magari ritinteggiato. Erano già pronte al passaggio della banda per le vie del paese, guidata dai procuratori a riempire le case di suoni festosi e a ricevere inviti a consumare dolci e bevande. Alle fèste, ce tenavamme a revestisse cume le signòre, sénza zinale petterine i vunnèlle da cóndadine (v. foto 40). Pure le mamme nòstre se revestévene pe jjì alla Miss’i la Cašcje i dóppe se cagnévene pe preparà ru pranze. Lungo la strada della chiesa si incontravano i mendicanti, ri póveracce venuti da fuori, ai quali bisognava dare qualche soldo, passando, per non dover sopportare un senso di vergogna: ippure, ri sólde nen ge stévene manghe pe nnù, che pèrò tenavamme le magnà. La Messa, of•ciata da tre preti vestiti a festa, tra i quali don Vittorio, era lunga 267 Cèrte vóte juchévene a pallóne i a ffà la sciufelarèlle che jji mašchje, rischiando qualcosa data l’animosità che ci mettevano. A carnavale c’era naturalmente uno scambio di ruoli, con i maschi che sfoggiavano le gonne lunghe delle nonne, le cùtele, e le ragazze che riesumavano le càveze vècchje di padri e fratelli, mettendo nu turzitte u ru pistéjje i ru mertale al posto giusto, per simulare meglio. Poi, tutti dietro a zì Vraddinéjje, che sunéve r’órganétte e cantava stornelli con una vivacità e una partecipazione emotiva che •niva per coinvolgere ed entusiasmare anche gli astanti fermi lungo le strade. N’anne vénne Enzo Tortora, me sà nel 1954, a fare a Poggio Picenze una puntata di Campanile Sera, una trasmissione radiofonica molto seguita. Vecine alla fònde i Sande Ròcche ce stève tutte ru Póje, tutte ri quatrale mašchje i fémmene i cchi sapéve candà mèjje, cume zà Barbine Rainaldi che alle pricissióne se sendéve pure da Picènze. Zà Barbine naturalmente svettava con la sua bella voce su tutte le altre, durante le prove, ma fu scartata poiché teneva una tonalità insostenibile per gli altri del coro, che al•ne cantarono in diretta “Vóla ru cardille”. Tortora faceva anche le domande, ma in Italia forse non si capiva niente dalle risposte date tutte in pujare salvo, forse, quelle date da Dónatine de Lórénze, da Else de Ivucce e qualche altro, che per l’occasione si erano espressi in grammàteche. Non c’erano né la televisione né le automobili e il tempo libero si impiegava a stare assieme per fare scherzi e battute, per ridere ai racconti dei tanti fatti spassosi che continuamente accadevano, pe giucà a nzòpre, zassitte, carte, našcunnéjje, cambane, pitepitugne, castéjje, girótónde e a móscacéche, a ffà ri bréve pe jji spóse, i quadratini o i cuoricini di stoffa con dentro ru sandine e la cera della Cannelóre, i giochi più ricorrenti pe lle fémmene. Ma il gioco che apprezzavano maggiormente éve a ffà ajji !danzate i ajji spóse: partecipavano tutte ai preparativi, sforzandosi di trovare le soluzioni migliori per meglio adattare alla sposa ri vestite i lle scarpe de la mamme. Le spóse tenévene purtà pure ru véle, che sse facéve che jji favezelóne angóre piéne de frunne, i lla córóne d’èrbe n dèste. Dóppe ru spósalizje ce stéve ru rinfrésche alla case i Trusiane, ch’éve cundènde pecché je purtévene ri cumbliménde, sinnó alla candine de zì Marianucce u a nu pajjare. Naturalmente, con lo sposalizio venivano i •gli e si tornava a costruire le pucche, dando di nuovo inizio al ciclo dei giochi. 269 La nevicata del 1956 di Antonio Galeota Per tre giorni di seguito, nel febbraio 1956, fécce tanda néve: circa un metro, quanta non se ne era vista mai a ricordo dei più anziani. Per potersi spostare, già dopo il primo giorno di nevicata i poggiani tolsero i primi quaranta centimetri di neve, realizzando una stretta stradina per il passaggio pedonale, l’unico indispensabile dal momento che le bbéstje erano chiuse nelle stalle per il riposo invernale. Durante la notte successiva cadde altra neve, sì da ostruire di nuovo la stradina realizzata e la mattina si ricominciò a spalare. Così anche il terzo giorno. La neve ammucchiata ai lati si alzava quasi a coprire le •nestre del piano terra, almeno nelle strade più strette, risultando alta anche nei cortili interni delle case (v. foto 42). Dopo tre giorni di turmènde, il cielo tornò al sereno, ma la temperatura stentava a risalire sopra lo zero, né il sole riusciva a scal•re la super•cie della neve indurita dal gelo notturno, quando la temperatura arrivava anche al di sotto dei venticinque gradi, rovinando i vigneti e molte delle piante da frutto. La neve indurita si tagliava con dif•coltà, ma bisognava comunque toglierla dalle strade e dai tetti, che erano ormai a rischio di crollo, considerato il peso da sopportare. Vennero organizzate squadre di spalatori in ogni quartiere e si costruirono slitte rudimentali su cui caricare la neve per portarla al di fuori del paese, negli orti e nelle aie, da dove scomparì del tutto dopo circa due mesi. 42. Cortile casa Ferrari, 1956 L’abitudine alla fatica e la natura aperta e gioviale dei giovani che vi attendevano, avevano creato la solita atmosfera di af•atamento e di solidarietà, che allora si raggiungeva ogni qualvolta occorreva mettere assieme forza lavoro ed impegno disinteressato. Davano una mano tutti, anche i ragazzi, ancora numerosissimi nelle varie famiglie e costretti a vivere in spazi sovraffollati. Si instaurò una vera gara a chi lavorava di più e, nel giro di pochi giorni, si raggiunse lo scopo di liberare dalla neve sia i tetti che le strade interne. 273 La Mille Miglia di Antonio Galeota Il passaggio della Mille Miglia a Poggio Picenze cadeva sempre di domenica. Dalla mattina presto e almeno •no a mezzogiorno si susseguivano sulla S.S. 17 provenienti da Barisciano, a intervalli di qualche minuto, sfreccianti auto da corsa, variamente colorate e contraddistinte da grossi numeri sulle •ancate laterali e sul cofano del motore. Non c’era ragazzo capace di resistere al fascino della corsa mancando all’appuntamento con essa, che risultava essere l’unica occasione dell’anno in cui tutti i ragazzi uscivano dal letto nelle prime ore del mattino, spesso quand’era ancora notte fonda, senza che dovessero essere svegliati! Con!uivano in tanti alla curva a ferro di cavallo de ru Casine, dove si potevano vedere le macchine arrivare velocissime in discesa, frenare bruscamente e immediatamente prima della curva e poi ripartire con un’accelerazione rumorosa e bruciante, continuando a tuffarsi decise lungo la discesa, verso l’abitato di Poggio. Tanta altra gente sostava in prossimità della curva della Cantoniera, che aveva una pendenza traditrice che spesso portava le auto ad uscire fuori strada sul lato sud, andando a solcare i terreni coltivati dopo qualche giravolta sull’asfalto. Altri gruppi di persone, composti per lo più da anziani, si fermavano a Sande Ròcche e alla Variande. L’esperienza maturata da più generazioni, essendo in essere la Mille Miglia •n dal 1927 e riferendosi la presente rievocazione all’ultimo anno di effettuazione, il 1957, faceva scegliere agli spettatori di seguire la corsa dalla parte opposta a quella dell’uscita possibile delle macchine. Ma stare nei paraggi della corsa era comunque avvertito come un pericolo dalle mamme, che provavano, inutilmente, anche a serrare ri scure delle •nestre delle camere, per evitare che i •gli si accorgessero che era giorno e per ottenere almeno di ritardarne la partenza verso la S.S.17, dal momento che quella mattina avveniva il miracolo del risveglio spontaneo, che tutti i genitori si auguravano avvenisse negli altri giorni lavorativi. Transitavano dapprima le macchine più piccole, le Diane, le 500 e 600 adattate alla corsa, cioè truccate e anche esse veloci. Man mano che ci si avvicinava alla tarda mattinata, cresceva l’interesse con l’aumentare della cilindrata e cominciavano a vedersi le sagome piatte delle vere 278 Anni Sessanta di Antonio Galeota Per non incorrere di nuovo in continui riferimenti autobiogra•ci, avrei voluto non parlare degli anni Sessanta così come vissuti a Poggio Picenze, commettendo però un doppio errore che ho voluto evitare: trascurare un’epoca, peraltro ricompresa negli ambiti temporali del libro, che è risultata decisiva per il cambiamento di costumi ed abitudini di vita oltre che per i mutamenti intervenuti in modo speci•co nei rapporti tra le classi di età e, inoltre, dover perdere la descrizione dei numerosi e, qualche volta, interessanti avvenimenti accaduti nel decennio considerato. Con la diffusione della televisione, negli anni Sessanta è nato il “villaggio globale”, si era nella possibilità cioè di essere messi a conoscenza degli avvenimenti più signi•cativi riguardanti soprattutto il mondo occidentale, venendone in!uenzati e coinvolti. La guerra del Vietnam aveva creato, dapprima negli USA e poi anche da noi, un movimento paci•sta non occasionale e capace di elaborare le teorie che hanno fatto sentire la guerra come uno strumento mai necessario, né tanto meno indispensabile per superare i contrasti di interessi tra i popoli, mentre il movimento antirazzista guidato negli USA da Martin Luther King ci aveva fatto sentire le violenze e i soprusi perpetrati a danno degli appartenenti alla razza nera come una inaccettabile ingiustizia commessa contro il genero umano. C’era anche una •duciosa attesa su ciò che il progresso tecnologico prometteva di creare in continuazione, dopo il volo intorno alla Terra dell’astronauta russo Gagarin, e c’era un’aspettativa di un mondo migliore grazie alla promessa delle “nuove frontiere” per l’umanità, enunciata dal Presidente americano John F. Kennedy, e alla predicazione ispirata a un sentito ecumenismo del “papa buono”, ed intelligente, Giovanni XXIII. Il mondo giovanile non solo recepiva ed interpretava quanto accadeva nel mondo, ma cominciava ad essere protagonista diretto, volendo guidare esso stesso il cambiamento: nei primi anni Sessanta, nelle università americane si cominciò dapprima a contestare la guerra del Vietnam per poi passare a un movimento paci•sta organizzato, che teorizzava l’abolizione di ogni guerra. L’Europa naturalmente non stava a guardare, interpretando la protesta contro il potere costituito in termini innovativi, pre-rivoluzionari addirittura nella primavera francese del ‘68, dapprima rivendicando una piena libertà personale e quindi sfociando nell’aperta ribellione al sistema capitalistico, di cui si contestava sia l’indirizzo consumistico e le disuguaglianze, sia la rigidità istituzionale, af•data al potere degli ultrasessantenni anche in nome della salvaguardia delle 281 POETANDO IN RIMA di Messalino Taddei 307 Me recòrde Caminènne pe’ la vije spécialménde se ssó ssóle me vé la nóstalgìe de scrive ddù paróle. Só recòrde che spésse te pàssene pe lla ménde vissute da mi stésse ma pure dall’atra ggènde recòrde de gjuvendù ch’óramaje se né jjite nen pó revenì cchiù cume na ròse s’é appassite. Me recòrde ri témbi béjje quande se candéve vóla vóle chi juchéve a nascunnéjje i cchì a salde la mule. Avamme cum’é jji dive a pallóne jucavamme fóre mó ce sta ru cambe spórtive i nen ge stanne ri jucatóre. La sére che la chitarre se sdraiavamme all’ariapèrte pure se tenavamme ru ciamurre candavamme a vòcc’apèrte nénde ce facéve óstàchele avamme córaggióse pure se che jjù binòchele ce facévene vedé la spóse. Quande purtavamme la serenate une s’aspettéve, se capissce, nu •óre, na ròse, na guardate… Nnò nu rinale piéne i pissce. Ippure faciavamme tutte bbóne tutti zitte, sénza schiamazze, pecché sta benedizzióne nen le putéve jettà alla tazze? Me tòcca cagnà la frase, la tazze éve nu sógne, nen ge stéve ru bagne in case i manghévene le fógne. L’acque, le fémmene, la cujjévene a na fònde prélibbate i llóche se facévene na bèlla chiacchiarate pecché pe falla brève, teniv’aspettà la péte: éve prime chi ggià ce stéve sinnó évene cungate. Repurtévene l’acque da la fònde i la mettévene ajju cungare i dóppe tutti quande bevévene che jjù manére. Javamme mmèzz’alla cambagne a fregacce le cerasce ma nenn’éve na cuccagne, nen ge stéve tanda rasce. Pe passà quiru fassce i spine che stéve alla ngacchiature éve tutte nu casine te spinive pure ru cure. La fame nenn’éve ròse te pijjéve sénza piétà t’attacchive a tutte le cóse pe putélla accundendà. Quande truvavamme na piande guardavamme se ce stéve cachedune tenavamme pregà ri Sande sinnó faciavamme ru dijune 309 L’émigrazióne Tenéma fà na prómésse pure se séme sfurtunate, de rengrazià ló stésse quiru che cj’à criate, pecché sicuraménde é vére, dicémele chiar’i ttónne, pure se rrèste nu mistère cachedune à criate quistu mónne é cume la stòrie de ru melóne che se dice a dèstre i a manghe ce sta chi é scite bbóne, ce sta chi é scite bianghe, nen ge vóle cèrte nu dótte, basta guardàcce ndórne quande a na parte se fà nòtte all’atra parte se fà jórne nen ze cagne de reggistre i nen ge vóle na maéstre a l’inghiltèrre se va a sinistre, i ajj’atri state se va a dèstre, Lavatoio e fontana di San Rocco, anni Venti pe ffà nu paragóne, nen ze tanna cunzuldà le stèlle, chi se métte ru pandalóne i ch’imméce la vunnèlle, succède tutte ri dì da quande ru state s’ammendé se chi cummanne dice “si ” l’óppósizióne respònne “sé ”. Che quistu state de ténzióne de chi sta bbóne i cchi sta male se só mmendate l’émigrazióne, in cambe naziónale. Évene témbe dure i triste ce stéve r’uf•ce de cóllócaménde ma putiv’émigrà turiste cume facéve tanda ggènde, se tendéve la furtune, se cerchéve de stà mèjje, che le patàne i le rane fune nen cambéve la famijje. Allóre me vénne la décisióne, forze nu póch’affrettate, de tendà l’émigrazióne vèrze n’atre state, 319 La créazióne de ru Póje Nen vòjje passà alla stòrie nen ge tènghe pròprie pennénde me bbaste raccundà la glòrie de ru Póje i de la ggènde pe nen fà parlà n’amiche i pe nn’avé la sòleta criticate la scrive in Pujare antiche ma nu póche rimódérnate ji spère che ve piace nen me sérvene ri cumbliménde s’a tené paciénze séte capace a tutti buóne divértiménde. Ddje, che jjù sòlete sórrise, nen me recòrde, ma tand’anne arréte, lassé pe n’àtteme ru Paradise pe métte, de ru Póje, la prima préte. Penzé de fà na cosa sèrie de nen fà na cóse raccapezzate pe putécce passà le fèrie cacche jórne n pién’istate éve na jurnata bbrutte stéve a ffà nu fórte témbórale penzé : mó ru facce all’assutte ajji péje de Cenerale, lundane da ru •ume i da ru mare, quésta é na justa pósizióne, mó ce métte ri Pujare •n’a cché se pòrtene bbóne p’alleviamme la fatiche che tènghe pe séje jórne mó stésse ri bbenediche levènnemeri da tórne. Éve prime de ri Romane i sse stéve tutti sparpajjate sòpre sòtte i fóre mane dellà i decquà de ru fessate. 326 Ma ècchete ri bàrbere allupate ri Pujare mbaurite se ne scappénne alla mundagne i alle ròtte annascunnate che ll’acque chéte se ravvicinénne nu •nimónne, óggnune retruvé, nen ge stéve cchjù nisciune, da le case de préte nisciune respunné se dénne da fà pure stènne a ddijune. Se métténne a lavurà schiupènnese alle mane cuma tenéssena fà tutti quande ri cristiane •cénnne sùbbete ru castéjje pe fasse na difése cuscì cóndróllévene mèjje tutte quande ru paése év’imbórtande, le sapévene , succedéve ajj’atri paése, cuscì se defennévene da n’attacche all’assacrése. Je vénne subbete ajjù cervéjje de fà la case barónale le case sé, le stalle i jji mandréjje la cchiése i S. Salvatóre, la parrocchiale. Pó se só accórte, a scóppie retardate, che p’èsse angóre cchjù ffórte manghévene ri vicinate. Che la calme i sénza stizze che la carte i jji piumine cumenzénne a fà ru schizze lavurènne sére i matine. Disegnénne ru quartiére de Castéjje ru Cuedacchje •ne a Péllicane che tand’arche i vìquele bbéjje sénza cómpasse, tutt’a mmane recagnénne ru piumine pecché la punde éve cunzumate i ddópe cacche matine disegnénne l’atra parte i ru fessate Cumenzénne sùbbete le fóndaménde raschiévene pure che le mane alla •ne tutti cundènde jje méssene nóme San Giuliane. quande pó évene prónde i jjù studie éve alla •ne arrivénne alla case i Pórcómónde i traccénne ri con•ne Mó che séme fatte stu prógrèsse, teném’aprì la strade a st’atra vije i cumenzénne a ffa r’ingrèsse a partì da la case i Rósalie. pe recòrde de quir’ artiste i pe puté fajje ónóre nditólénne in prima liste na vje ajji pittóre. Ècche nen tenéma fà nu viaréjje ce putém’allargà cuma ce pare de ri quartiére dévèsse ru cchjù bbéjje anghe óldre la case de Ferrare. Fà largheViaranne nen servéve ru matiriale ggià r’évene purtate bbaste che ce passéve ru carrétte che jj’appjedate Ma cum’ajjù Póje succède spésse pure mó, nenn’é cagnate nénde, ce stanne ri furbe, ce stanne ri fésse ma chi décide é la sòleta ggènde. ce stévene tutti mucchje de tèrre éve sparse a tutte ri late nen ze passéve, sembréve la guèrre, i jji lavuratóre sembrévene sóldate …Stét’atténde che ve ròmbe l’òsse, guaje a cchi se permétte a cu ssèrve ssà strada ròsse facétela cchjù strétte! se lavuréve alla ranine sénze che nisciune cummannéve chi zappéve che la cravine i cchi la tèrre la spianéve: Éve une de rispétte de na famijje ricche de pótènze tenùzzena fà la strada strétte •ne ajj’arche de Via Picènze, che stu mòde se jéve nnanze sénza métte une che cummanne nen ge stévene le lagnanze i sse fenéve pe capedanne! pó je regalénne n’abbacchje i puténne allargà la vije •n’ajju pònde de Pistacchje passènne nn’anze la farmacie. Évene tipe nu póch’invidióse già tenévene mménde ru prógétte : pe ffà ru quartiére cchjù glórióse éve da custruì sùbbete na chiésétte! Le famijje cumenzénne a crésce cumenzénne a fà le spartezióne in quisti case maje se rrèsce accundendà tutte le perzóne, Nen le facévene pecché évene crédènde pe jésse l’invidie éve nórmale nen vulévene che tutte la ggènde jésse a pregà alla parrócchiale. pijjènne spunde da quéla tèrre che jéve remaste tutt’ammucchiate •cénne nasce Péje la Tèrre ch’éve n’atre vicinate. Passénne abballa Dórnine, che ppicch’i ppale i tande suvóre, traccénne ri cun•ne de quéle che mó é Larghe de ri •óre 327 Pe mmétte la pace fra ri vicinate Antònie a fatte bbóne a recavezà tutte ru fessate pe ffà la vije a bballe Pinzóne. fanne •nde de litigà pe cónvinge mèzze mónne i ajju mómende de magnà magnene assiéme cumé jji sfónne nen ge stéve angóre soddisfazióne ru Póje éve angóre separate féce allóre la circónvallazióne pe riunì tutte ri vicinate s’a cachedune nen jjanne vutate appóste de fà “avande in dré” penzènne alla ggènde che nen jjà cruciate che se dumannésse ru pecché ce manghéve pe fasse ónóre, cuscì ru Póje venéve ajjustate, ru piane de fabbricazióne pe jji solete raccummannate. Chi à perdute tenèvèsse cundènde nen sfrutte ru cervéjje pe penzà nen ze pijje le bbiastéme da la ggènde i ppó.. È mmèjje a cundestà, Cachedune nen vuléve pèrde ru tróne nen z’éve angóre stufate mó ànne refatte le vótazióne i le liste ànne presendate pe quiri ch’ànne vinde nenn’é ló stésse ténghene atre a ccu penzà: se nen respèttene le prómésse sicure ri mannene a cacà. ànne recóte tré spiche alla restóppje só arrivate próprje alla ruvine se ce n’ajjògnene n’atra cóppje nen ge magnene manghe ddù cajjine i quir’atre che la fònde i Sande Ròcche pure jésse ànne fatte na stécche nen ge cóle nénde a quéle vòcche mèjje che la chamévene fóndesécche ndraminde le vótazióne tutte m’ànne salutate mó se ngòndre la stéssa perzóne, pènze: m’à vutate u nen m’à vutate ? te fa nu sguarde che m’addólóre é tutte nu mòde de penzà pe mmì n’amiche é nu tesóre che jjù vóte nen bó cagnà. La póliteche é nu mistère maledétte chi l’à mmendate fa litigà le famijje indère i jji prótagóniste remanene af•atate 333 JÉME DICÈNNE di Antonio Galeota, Gian•lippo Galeota, Marco Manilla, Gian Battista Taddei, Terenzio Ventura 335 Aneddoti1 di Antonio Galeota La vicenda del campo di calcio realizzato all’Aia della Chiesa, conclusasi nel 1969, aveva rappresentato il culmine di un lungo processo di crescita della gioventù poggiana, ma prima ancora erano successi altri fatti, pure essi di un qualche interesse. Negli anni Sessanta, d’estate si cenava appena cominciava ad imbrunire. Subito dopo i giovani e le persone adulte, anche quelli che avevano già in casa il televisore, uscivano tutti da casa, dopo una faticosa giornata di lavoro, per convenire nei soliti punti di ritrovo, le piazzette del vicinato, Piazza Castello o in uno dei due bar, dove si giocava a carte, si raccontava o si organizzavano i giochi e i passatempi. Ci si poteva anche fermare davanti allo spaccio di Méline a sentir raccontare Franco Guido ed altri delle ancora fresche avventure di guerra, della vita da emigrante nelle mine o nelle lusine, delle imprese dei ciclisti più famosi oppure intrattenersi appena fuori la trattoria Urbani o al bar di Adornino o altrove, ad ascoltare i gustosi aneddoti continuamente riproposti da Demuccio Urbani, Adornino Masci, Antonio Innocenzi sr e da altri occasionali narratori. Se poi non ti andava di fare né l’una né l’altra cosa perché ripetitive, allora dovevi inventarti qualcosa, dovevi animare la serata da te e in sintonia con i numerosi compagni. In questi frangenti, dal gruppo di amici compatto e numeroso ma talora frazionato per una sera, usciva fuori la creatività più bizzarra, qualche volta geniale e comunque imprevedibile. Nasceva un progetto che poi si dispiegava man mano che lo si attuava, arricchendolo di trovate all’inizio non previste, altre volte si metteva in opera un proposito maturato durante il giorno. Era tanta la voglia di divertirsi che se ne inventavano in continuazione e sempre nuove. Azione militare con copertura aerea Grande fumatore di sigari, Antònie Ianni detto Scjandanne riceveva il necessario per vivere anche dalle numerose piante di •chi che gelosamente custodiva, a maturazione dei frutti, in quel della Castejjucce. Le piante erano poste sul crinale e il nostro compaesano sfruttava abilmente quella posizione non facendo avvicinare nessuno, salvo concedere qualche sporadico •co agli avventurosi che potevano prenderlo a volo, per poi fuggire a gambe levate inseguiti dai sassi lanciati dal padrone. Allora, agli inizi degli anni Trenta, era del tutto naturale rimanere a guardia tutta la notte per fronteggiare un danno che sarebbe risultato fatale per l’economia 1 Episodi narrati da chi vi ha preso parte o scritti sulla base di racconti fatti da altri, elencati in Appendice al presente volume come Collaboratori orali. 337 Aneddoti di Gian•lippo Galeota La Fiera del Fiore Tempo fa, alcuni giovani del nostro paese ebbero la brillante idea di organizzare in Piazza Castello la “Fiera del Fiore”, sicuri di fare una sorpresa ai loro concittadini. Ma pur concedendo all’iniziativa meriti e simpatia, non possiamo essere d’accordo con questi baldi giovani di Poggio Picenze per quanto riguarda l’originalità della loro idea. Tempo addietro (è questione di secoli), la Fiera del Fiore era una singolare caratteristica del nostro paese. Dunque, cari Lettori? Scommetto che vi chiederete come mai tanta tradizione sia stata in disuso presso di noi per tanto tempo. Ebbene vogliamo darvi una mano: ricorrendo alle pagine della “Cronaca Poggiana” scritta dallo storico Orazio Galbo, abbiamo trovato ciò che ci interessava e che siamo lieti ora di riportare nel nostro giornale. Le pagine, in cui traspare assai viva la realtà di quel tempo lontano, suonano così: “Eravi nella Piazza de lo Castello una quantità incommensurabile di ogni sorta di •ori, ivi raunata siccome ogni anno, da nerboruti et baldi giovani per rendere omaggio alla dea Flora. Era suddetta piazza assortita di colori vari e di profumi ubriacanti. Trovavansi in essa piante !orifere di qualsiasi dimensione nonché natura e tutto il popolo reunito mirava la straordinaria maraviglia. D’un tratto, dalla turba staccossi una madonna del rione Piedi la Terra, scarmigliata e nera. Avvicinossi costei al suo geranio, inginocchiossi a terra e cominciovvi a far uscire dalla bocca trista i vapori de la sua anima indiavolata. Da siffatte fauci vennero fuori •amme e fuoco che strazio fecero de la splendida maraviglia. Atterrissi la folla. Fuggissi. Malamente compissi lo gesto infame et malvagio et sacrilego! L’avvento sì tanto s’impresse ne le menti de li Poggiani che parve loro ammonimento a la lussuria loro. Da quel dì non fecesi più Fiera del Fiore et a testimonianza de lo fatto sussopra narrato resta la traccia di fuoco lasciata per lo tempo eterno da quella creatura di Farfariello sulla soglia bruciata di messer Pianino.” Non a caso abbiamo riportato in queste pagine il pensiero di uno storico tanto illustre e conosciuto soprattutto tra di noi. Vorremmo infatti che la gioventù del nostro paese si scuotesse, onde continuare in modo degno le gloriose gesta dei nostri avi. 374 Aneddoti di Marco Manilla Ru spóse frangése Mó na vóte, ji, Dème i Baf!tte, i tutte la cumbagnìe javamme a Mariannine i Patanijje, ca tenéve na candine addù abbitéve Séppìne Masci. Prime ajju Póie ce stévene tande candine addù r’ ómmene jévene la sére a ffasse na partite a ccarte i a bbéve le vine. Se !cévene le passatèlle i sse stéve nziéme. Se sunéve. Mó tandi gióvene sapévene sunà la !sarmòneche, ru manduline, la chitarre, ru viuline. Ce stévene le candine de Finucce i de Flicitte a Viaranne, de Mataléne a Sante Ròcche, de Pianine a Piazza Castéjje. La cumbagnìe nòstre nù javamme sèmbre a Mariannine i Patanijje. La sére !ciavamme baldòrie i cce piacéve fà ri šchérze. I allóre, na bbèlla vóte, Fidie Iovenitti i Marie i Ladine stévene a lavurà alla Frange, i allóre nne sà, ri ggivinótte pàrlene de le fémmene. Mó quisti, parlévene sèmbre de le quatrale de ru Póie, ca cce stévene tande fémmene bbèlle. Mó, che jésse, ce stéve pure n’ ómmene d’Avelline, i quistu sènde i ssènde de tutte ste quatrale bbèlle de rù Póje ca je vénne la vòjje de !danzasse. Allóre, Fidie ce scrivé de stu fàtte, i allóre nu, la cumbagnìe nòstre, ce vénne m ménde de fajje nù šchérze: je mannamme na léttere de !danzaménde. La spóse la séme truvate sùbbete: éve ji, ma me chiaméve Dèma Urbani… Mó stù cristiàne nen se le fécce repète ddu vóte i mme respunné ca sse vuléve !danzà. Dópe me šcrivè n’atra léttere addù me dicéve ca ss’éve nnammurate, inzómme, me šcrivéve na vóte la settimane. Mó !nalménde me decidé i me !danzé che stu cristiane, i accuscì cumenzamme a ffà l’amóre. Stu póverette se credéve ca ss’éve !danzate che na bbèlla quatrale i ce cašchè cume nu pólle, i accuscì cumenzé ru šchérze. Ie allóre,… mó ri !danzate, nne sà,… fanne all’amóre,… i nu pure se mettamme a ffà all’amóre, !ciavamme all’amóre pe léttere!! Se scrivavamme tutti ri mése i ógni léttere ca quistu mannéve nu la leggiavamme a Mariannine, la sére, i dajje a rite! Nu respunnavamme alle léttere, i allóre mó na vóte je mannè a dice ca vuléve nù regale i !danzaménde, i quistu me remanné le cavezétte da fémmene. Mó quande arrivénne ste cavezétte, cù tte vó sta pe lle rite. La sére se sendamme male pe le tróppe rite, ie allóre, mó nne sa, se devertavamme i allóre ru šcherze jéve nnanze. N’atra vóte me remannè ru reggipétte, éve nére i bbejje ma me jéve tróppe rósse… N’atra vóte me remanné ri sólde. A nu cèrte punde ru !danzate mé, me disse ca mme vuléve chenušce; ca vuléve venì ajju Póje. Óddìmà, i cuma se fa? Allóre, je respunnè ca mamme nen vuléve: tenéve aspettà. Ma stu póvere cristiane, ru !danzate mé, s’éve pròprie nnammurate i me šcrivé 376 Aneddoti di Gian Battista Taddei Il burlone e il Notaio Il Notaio del paese don Vincenzo Galeota, di siloniana memoria, una mattina s’era svegliato con una gran voglia di ridere. Fu anche fortunato quella mattina presto, perché in città incontrò un suo paesano, l’emerito burlone, all’occorrenza, Manfredo Del Ferro, che egli conosceva bene. Già averlo incontrato, prometteva bene e il Notaio gli espresse quel suo desiderio da soddisfare. Questo signore aveva sempre la battuta pronta e subito rincuorò il Notaio dicendogli: Aspètte nu póche, ca mó te facce crepà da le risate! Lo portò nel bel mezzo del mercato, presso un rivenditore di prodotti alimentari, di quelli che, per lo più, erano provenienti dai paesi vicini. Manfrède disse al Notaio di prepararsi a ridere e nel frattempo ordinò delle uova fresche, che subito cominciò a prendere in mano e ad af•darle al rivenditore. Due, tre, quattro, cinque, sei e ancora altre uova, e il povero uomo non riusciva a contenerle sulle braccia aderenti al corpo e riunite con le dita all’altezza dello stomaco. Il prelievo delle uova continuava e il disagio del venditore si faceva evidente, come le risate del Notaio, dapprima !ebili, ma poi sempre più scomposte, ma fatte con gusto. La presa delle uova continuava e le •le delle stesse sulle braccia arrivavano ormai •no al mento del rivenditore. Il Notaio aveva iniziato la sua risata sempre più irrefrenabile, mentre doveva riordinarsi la pancia abbondante, che nei sussulti subiti, usciva fuori dei suoi pantaloni. Non era tutto perché il burlone, quando aveva raggiunto tutta la capienza... dell’improvvisato contenitore, cominciò a slegare la cintura dei pantaloni del rivenditore, il quale era obbligato a non muoversi, per evitare la sicura caduta delle uova. Il Notaio si sganasciava dalle risa sino a giacere a terra, vedendo immobile il rivenditore con i pantaloni calati e, quasi a mostrare, anche le... sue due uova personali! Stette lì a terra un bel po’ a sbellicarsi dalle risa, e dopo essersi con fatica, rialzato, e avere ricomposto dentro la cintura dei pantaloni quella pancia esagerata, il Notaio ringraziò Dél Fèrre dicendogli che mai aveva riso così di gusto. Intanto i due si allontanavano da quel luogo e si voltavano ogni tanto a guardare quella statua, che non poteva ancora muoversi. Il Notaio rinnovava le sue risate e Del Ferro era contento della sua felice trovata e, con passo baldanzoso, n’andava •ero, pensando già alla prossima burla. 379 Aneddoti di Terenzio Ventura Adornino della Petogna Adornino della Petogna di Barisciano veniva a lavorare a giornata a Sabatino Urbani de Baf!tte. Partiva ovviamente a piedi dalla Petogna e per arrivare al Codacchio percorreva sempre lo stesso tragitto passando per Via Piedi le Vigne •no alla Madunnèlle, per risalire poi alla casa di Sabatino oppure per proseguire sino alla terra dove si era diretti a lavorare. Una sera prese l’ardua decisione di non percorrere la strada che faceva sempre ma di risalire dal Codacchio passando per il centro abitato. Risalì tranquillamente per via Codacchio e, giunto all’altezza della casa della Pajanechése e di Tobia, scelse la strada che va a destra : Via Castello verso le case di Basilóne, Ru móre, Raffaele i Cutechine, Giovanni i Corangéleche, Marinelli, Turóne, la Petugnése, Ngrillitte, la Lòtene, Giggine i Panare, Giovanni i Stèfane, Guerrino e giunse a Piazza Castello percorrendola tutta. Da qui, invece di girare a destra per procedere verso San Rocco, girò a sinistra scendendo per via Roma e riprese a scendere sino a giungere alla fontanella, proseguì verso la casa di Tobia, girò a sinistra e si ritrovò a percorrere la strada che lo portò di nuovo a Piazza Castello. Per tre volte compì lo stesso giro. Alla •ne incontrò un giovanotto e gli disse: “pe lla Madònne, lu Póje è culussale”. Si fece accompagnare al Codacchio e di lì proseguì •nalmente per la Petogna. Mastro Berardino e Donna Fiorita Mastre Berardine, cioè Berardino Valle, era un ometto simpaticissimo, asciutto, sempre attivo che era nato a L’Aquila e si era stabilito a Poggio Picenze dove aveva sposato Peppina de Bòrtòlle da cui aveva avuto cinque •gli: Attilio, Alfredo, Adelina, Vittorio e Vincenzo Pillitte. Negli anni Quaranta e successivamente è stato il banditore uf•ciale del paese, attività poi ereditata dal •glio Alfredo. Originariamente faceva il sarto e la moglie, per indicare il marito diceva “ru sartóre”. Negli anni Trenta, insieme con altri Poggiani andava a lavorare a giornata in casa del Notaio. Donna Fiorita era la moglie del Notaio Galeota. A quell’epoca don Mimmo, il •glio minore era un ragazzino e don Peppe un ragazzotto. Donna Fiorita era una donna molto accorta ed aveva contribuito ef•cacemente a mantenere la proprietà della famiglia. 383 Il bersagliere, con fare da esperto detective, disse in perfetta lingua italiana: “non ho bisogno di spiegazioni” ed aggiunse: “vajjò, la prossima vóte che vvé a bbussà alla porte de case, te pijje pe lla teste e te ce faccie nduccà cuma se déve” Massitte accusò il colpo. Il bersagliere se ne stava tornando verso la propria casa ed era giunto all’altezza del cortile di Eliseo i Fraddiàvere quando Massitte disse ad alta voce: “Cómbà Ndunì, bissciallé!”. Quest’ultima parola per Massitte signi•cava “bersagliere”. Da parte sua il bersagliere dovette interpretarla come “piscialletto” perché la risposta immediata con voce sonora fu: “cacarelló, te pòzza pjjià nu cólbe”. Massitte esterrefatto disse ai presenti: “ma pecché m’à dì cachélló”. Le frisèlle Ultimo giorno dell’anno. A Piazza Castello alle ore 23,58 ru Bersagliére imbraccia la doppietta e spara due colpi in aria. Si rivolge quindi a Massitte che gli sta vicino e gli dice: “quéste sci ca só friselle!”. Massitte gli risponde: “ tu nn’é bbó a ffà le pisè; iu combà (cioè Terenzio) é bbó a ffà le pisè”. Allo scoccare della mezzanotte, Terenzio che stava a poca distanza dai due, fece esplodere un petardo che fece tremare i vetri delle case. Massitte disse al bersagliere: “cómbà Ndunì, péla llà é na pisè”. Sentito questo il bersagliere bofonchiò alcune parole incomprensibili e se ne rientrò a casa. La fontanella fuori programma La mattina al risveglio Massitte si avvicinava al davanzale della •nestra della camera dove dormiva, saliva con i piedi su uno sgabello e faceva pipì oltre la •nestra senza sporgersi. Era il mese di luglio e Riccardo Ru ngignére, padre di Méline e di Amedeo Rainaldi tornava dalla via di San Demetrio con il carretto pieno di covoni di grano trainato dal mulo. Giunto all’altezza della casa di Massitte dove la strada è in lieve salita, si accorse che dalla •nestra scendeva una strana pioggia. A quel punto lasciò le redini, incoraggiò il mulo a proseguire e attese che la pioggia cessasse dopo di che disse: “ si fenite?” Una voce chiara e decisa rispose “sci!”. 390