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leggi - Associazione Culturale Il Castello
identità culturale, la loro appartenza a quel mondo reale che, sopravvissuto fino a
qualche decennio fa, si basava su un reticolo di rapporti di scambio e di solidarietà,
nonché sul riconoscimento e sul rispetto di valori etici condivisi.
La spinta a collaborare alla realizzazione di questo libro rievocativo delle
tradizioni e della vita quotidiana degli anni Cinquanta e Sessanta trae origine,
sopra ogni altra cosa, dalla necessità di salvaguardare il dialetto, un patrimonio
inestimabile, nonché dalla volontà di far rivivere il mondo contadino e l’epopea
dell’emigrazione, di cercare le basi dell’appartenenza del popolo poggiano al
territorio che abita da circa tremila anni.
Il libro che ne è risultato contiene molteplici sfaccettature, tutte ricche di
tematiche legate anche al modo di essere dei Poggiani, sia di quelli che continuano
a vivere al paese, sia di quelli che la ricerca di condizioni di vita più soddisfacenti
ha costretto all’emigrazione in Italia e nel mondo intero.
Al raggiungimento di questo traguardo hanno partecipato:
Antonio GALEOTA, nato l’11 febbraio 1942.
Ha ideato il progetto e curato il libro.
Ha promosso la costituzione ed è Presidente dell’Associazione culturale “Il
Castello”, che ha prodotto il libro.
Laureato in Giurisprudenza, è funzionario della Regione Abruzzo.
E’ stato Sindaco di Poggio Picenze dal 1970 al 1980.
Gian Battista TADDEI, nato il 15 settembre 1941.
Ha conseguito l’Abilitazione industriale.
Dal 1965 si è trasferito a Torino, dove ha lavorato come “quadro” nell’industria
metalmeccanica.
Nel 1991 ha pubblicato il libro di poesie “Una vita qualunque”.
Attualmente risiede a Collegno (TO).
Marco MANILLA, nato il 15 novembre 1959.
Laureato in Scienze politiche, è funzionario della Confederazione Italiana
Agricoltori.
Messalino TADDEI, nato il 7 dicembre 1940.
Ha conseguito l’Avviamento industriale ed ha lavorato come “caposala”
nell’industria elettronica aquilana.
Gianfilippo GALEOTA, nato il 15 ottobre 1944.
Laureato in Giurisprudenza, è funzionario della ASL n. 1 di Roma, città dove
risiede.
Terenzio VENTURA, nato il 28 gennaio 1938.
Laureato in Medicina e Chirurgia e già Primario ospedaliero al S. Salvatore di
L’Aquila, città dove risiede.
7
PRESENTAZIONE
di Francesco Avolio
9
Come un grande esponente di una delle maggiori scuole della storiografia
contemporanea, Georges Duby, non mancava di ripetere e sottolineare, “scrivere
la storia” di una comunità - grande o piccola - è sempre impresa difficile, da ogni
punto di vista (metodologico, stilistico ecc.). Quando poi a scriverla è un gruppo
di persone non specializzate in questo genere di studi, e per giunta legate a quella
stessa comunità da sentimenti di affetto, appartenenza o identificazione, l’impresa
sembrerebbe ancora più ardua, per non dire quasi disperata. Eppure, se quanto si
è appena detto è vero in un gran numero di casi, non lo è - possiamo dirlo senza
tema di essere smentiti - in riferimento a questi due bei volumi dedicati a Poggio
Picenze, alle sue vicende vicine e non, alle sue tradizioni linguistiche e culturali;
e una ragione, a ben guardare, c’è: la scelta di punti di vista precisi, la chiara
individuazione di itinerari narrativi e di presentazione dei fatti, all’interno dei
quali le particolari competenze di ciascun autore - a cominciare dal più importante
e coinvolto, Antonio Galeota, che ha coordinato l’intero gruppo in circa tre anni
di appassionato lavoro - riescono ad emergere nel modo più netto ed evidente, e
a dare il meglio di sé.
Per dirla in altri termini, nei volumi in questione non c’è nulla che intenda
“gareggiare” con pubblicazioni di carattere più strettamente scientifico, o nate
in ambiti accademici prestigiosi; c’è invece molto che a quelle pubblicazioni e a
quegli ambiti può essere di giovamento e di stimolo, preziose e chiare indicazioni
che, come in ogni serio lavoro di ricerca, rispondendo a delle domande ne pongono
immediatamente delle altre, aprendo nuove e stimolanti prospettive.
Il progetto da cui è scaturito il risultato che oggi presentiamo è nato dal
proposito di Antonio Galeota di realizzare con altri un libro in cui fossero presenti
le tematiche che sono state poi portate avanti assieme agli amici chiamati a
collaborare e si è sviluppato per gradi, precisandosi strada facendo, man mano
che le intenzioni e le possibilità di ciascun autore prendevano forma. E - se si
consente all’estensore di queste righe un minimo di compiacimento - il taglio
particolare che esso ha assunto nel corso del tempo si deve, forse, soprattutto
all’aver privilegiato una chiave di lettura non esclusiva, ma piuttosto rara a
riconoscersi anche nei lavori storiografici di maggior fondamento scientifico,
vale a dire la lingua, intesa come specchio nel quale riflettersi e riconoscersi,
e dal quale attingere ciò che ci è più caro a livello di memoria, individuale e
10
collettiva, e dunque di vicende umane, di storia. La lingua - e non, si badi, un
codice astrattamente inteso, ma quella dell’uso quotidiano delle classi popolari,
delle “culture subalterne”, per dirla con Alberto Mario Cirese, cioè il nostro tanto
vituperato, o malamente esaltato, dialetto, codificato nel Dizionario poggiano,
di cui mi occupo nella Prefazione - diventa insomma fonte per la storia, chiave
interpretativa e pietra di paragone per ricostruire il vissuto di coloro che solo
di rado hanno potuto lasciare traccia di sé in testi o documenti d’archivio: non
è poco, se si pensa che ancora negli anni Settanta del secolo scorso tutto ciò
rappresentava una prospettiva di lavoro inedita, o quasi.
Del resto, anche oggi, quando si parla, spesso senza troppo fondamento, di
concetti a dir poco impegnativi come identità e civiltà, e di scontri più o meno
improbabili, ci si dimentica, significativamente, di riempire questa sorta di
contenitori rivolgendosi alle “unità minime” che sono portatrici dei necessari
contenuti, e che vengono come al solito ignorate: parlo degli ottomila e passa
comuni italiani. Ognuno di questi centri abitati, spesso antichi, “sedimentati”
nel territorio, rappresenta l’insostituibile tassello di uno straordinario mosaico,
il Paese europeo più ricco e differenziato dal punto di vista linguistico e
antropologico, che dunque, al riconosciuto primato storico-artistico, archeologico
e naturalistico ne affianca perfino un altro, ugualmente “forte” e fondante, ma,
purtroppo, assai meno considerato, del quale, perciò, non c’è, neanche oggi,
quasi nessuna coscienza (ed è per questo che in molti, politici, amministratori
e cittadini, continuano ad avere nei suoi confronti atteggiamenti contraddittori).
L’invito di Galeota e degli altri autori è invece quello di ritornare, con una
rinnovata consapevolezza, alle “piccole patrie”, alla loro storia, alla loro lingua,
non per rinchiuderci scontrosamente in esse, ma perché sono ancora loro a dare
un senso alla nostra esistenza e al nostro stesso sentirci parte di una nazione.
Essere poggiani significa anche essere abruzzesi, e meridionali, e italiani, e
viceversa; la base di tutto sta, ancora oggi, tra le mura di quello che, per parecchi
di noi, è il “natio borgo selvaggio”, non più scenario esclusivo della propria vita
(come purtroppo non lo è stato già per generazioni di emigranti, tra i protagonisti
di alcune delle pagine più belle del libro, con testimonianze raccolte dalla loro
viva voce), ma nemmeno da rinchiudere in soffitta o nello scantinato, magari per
preferire l’anonimo grigiore di un condominio, di una villetta o di una banlieu.
I discorsi sull’”identità italiana”, onde evitare che si riducano alla riesumazione
di un patriottismo un po’ stantio (che nel corso della sua storia ha avuto inoltre tanti
nemici, in primis una certa retorica a buon mercato), come sta in parte avvenendo
in questi ultimi tempi, dovrebbero e potrebbero ripartire proprio da qui, da questa
“spina dorsale” di piccoli centri ancora oggi misconosciuta (malgrado gli sforzi
di enti e sodalizi benemeriti quali, ad esempio, il Touring Club Italiano), e che,
a dispetto di ogni avversità e difficoltà economica, sociale, di costume, non solo
sopravvive, ma prosegue il suo cammino, affrontando e risolvendo, quasi sempre
senza alcun aiuto concreto, problemi vecchi e nuovi: dall’emigrazione, presente
e passata (e che ha ripreso recentemente vigore in tutto il Mezzogiorno, Abruzzo
compreso) alla rarefazione di servizi essenziali (quante scuole hanno chiuso di
recente nei piccoli comuni?), da collegamenti pubblici indegni di un paese civile
(pochi sanno, ad esempio, che, nel XXI secolo, un comune come Gagliano Aterno
non è raggiunto da alcuna autocorriera, né diretta, né con cambio intermedio, da
11
del libro, che ha una sua unicità dall’essere stato curato da una sola persona e che
vede l’accordo tra livelli espressivi e perfino linguistici anche molto diversi tra
loro: dall’italiano più colto al dialetto più stretto, proprio come accade nella vita
reale, alla gran parte di noi e dei nostri compaesani.
A un certo punto della lettura, si è affacciata nella mia mente una
considerazione che mi pare opportuno riportare qui: nel suo complesso, questa
bella pubblicazione offre, per la conoscenza di Poggio Picenze, assai più di
quanto non sia dato di trovare in volumi simili aventi ad oggetto altri paesi. Non
solo, ma è altrettanto raro scoprire, in opere dello stesso genere, affermazioni
come quelle che chiudono il paragrafo La famiglia, la società, la fede di Terenzio
Ventura (nel capitolo Vita quotidiana), le quali solo con una certa superficialità
possono essere tacciate di retorica, e che invece sintetizzano, secondo me, buona
parte dello spirito del libro: “Chi scrive queste poche note è fiero di essere vissuto
in una società contadina povera come la nostra e nella quale molte persone, talora
ignoranti ed analfabete, gli hanno insegnato molto più di quanto abbia fatto
qualche professore del liceo e dell’Università” (con buona pace del titolo che
possiede il sottoscritto!).
L’augurio è ovviamente che tutti i poggiani, del paese e di ogni déste, possano
leggere e apprezzare queste pagine, facendole proprie, e magari arricchendole con
ulteriori spunti, aneddoti, racconti, dibattiti. Del resto, a meno che non accadano
impreviste tragedie (ma a volte anche oltre queste), la vita di un comune - come
quella del libro che intende raccontarla - non finisce mai…
14
CENNI STORICI
di Antonio Galeota
15
Per il periodo antecedente alla conquista romana, le fonti storiche e
l’archeologia moderna hanno da tempo comprovato l’appartenenza del nostro
territorio ai Vestini Cismontani1, uno dei tanti gruppi di genti italiche insediati
a ridosso della catena appenninica e lungo il litorale adriatico che si erano venuti
etnicamente formando nella prima età del ferro e che troviamo ben connotati già
nel V secolo a. C.2.
I Vestini godettero di una loro autonomia •no al tempo della conquista romana,
così come le tribù coeve dei Marsi, Peligni, Marrucini, Frentani e dei Sanniti,
vivendo sparsi sul territorio in piccoli nuclei che i Romani chiamavano vici,
consociati in entità amministrative più ampie dette pagi. Ogni pagus poteva
essere formato da uno o più vici.
I piccoli abitati di epoca preromana, per essere dislocati in pianura o comunque in
siti facilmente accessibili, erano esposti a pericoli di ogni tipo. Per superare questi
inconvenienti furono scelti rilievi collinari o speroni rocciosi che potevano essere
facilmente raggiunti in caso di necessità per trovarvi rifugio e protezione3.
Questi siti d’altura vennero protetti da palizzate e da muraglie poste tutt’intorno
alla sommità, così da farne dei fortilizi, che funzionavano anche come punti di
avvistamento per tenere sotto controllo l’intero territorio, mentre i più grandi
venivano attrezzati anche per mettere a riparo tutta la popolazione del vicus o di
più vici con i loro armenti e le loro masserizie.
Tracce evidenti di questi avamposti difensivi che, a seconda della loro dimensione
e importanza, i Romani chiamarono oppida o castella e oggi generalmente
denominati centri forti•cati, sono stati individuati sopra Monte Cerro, Monte
Picenze, Monte Ocre e in molti altri siti dell’area vestina cismontana, mentre
risultano assai meno frequenti o addirittura assenti al di là della catena montuosa
del Gran Sasso, che separava i Cismontani dai Transmontani della zona di Penne
e dintorni (3).
I vici erano scarsamente popolati: è stata calcolata4 una popolazione di circa 100
unità per ciascun vicus ed una popolazione vestina complessiva di circa 40.000
abitanti, di cui più della metà, i Vestini Trasmontani, nella zona di Penne e gli
altri, i Cismontani, nel territorio di Aveia, Peltuinum e Au•num.
Questo tipo di organizzazione si mantenne pressoché inalterato •no alla conquista
romana e in pratica anche successivamente, poiché i Romani, almeno in un primo
momento, si limitarono a smantellare le forti•cazioni, senza ingerirsi negli usi e
costumi, nella lingua e nella religione delle popolazioni assoggettate (3).
1
Il modo inusuale di evidenziare in grassetto gli argomenti trattati è dovuto sia al fatto che il
presente lavoro è diretto a un vasto pubblico sia alla estrema sinteticità del testo. Gli argomenti esposti sono
integrativi rispetto a quelle trattati nelle precedenti pubblicazioni su Poggio Picenze, realizzate da Mario
Morelli e da Raffaele Colapietra, salvo i riferimenti in nota.
2
Cfr. La Regina, 1968.
3
Cfr.. Mattiocco, 1986 e 1990.
4
Cfr. Giustizia, 1985.
17
Archeologico Nazionale di Chieti e in parte a New York 11, ritrovamento avvenuto
ad opera di Emidio Mimitte Biordi nel 1953 in località La Petrara, depone a favore
di una presenza romana nel nostro territorio, dacché con motivazioni attendibili
è stato ipotizzato dagli studiosi che sia stato un mercenario dell’esercito di Silla,
residente presumibilmente in queste contrade, a nascondere quel tesoro che poi
non è più riuscito a recuperare.
I riferiti ritrovamenti danno indicazioni suf•cienti per confermare l’esistenza
sul nostro territorio di piccoli centri abitati •n dall’epoca vestina e del Pagus
Frentanus, ma solo un’attività sistematica di scavi archeologici nelle località
citate porterebbe a scoperte signi•cative ed interessanti sotto l’aspetto storico,
sicuramente utili anche per indirizzare a Poggio Picenze quel turismo culturale
che si va sempre più diffondendo.
Nello studio della storia romana le fonti originali sono numerose ed
attendibili, tanto da averci permesso di conoscere ogni fase di quella gloriosa
epopea, sia attraverso la descrizione dell’assetto istituzionale e delle conquiste di
territori anche lontanissimi dall’Italia, sia costruendo la mappatura di ogni città e
borgo, delle regioni abitate dai popoli italici, delle strade e dei tratturi, mappatura
da cui sostanzialmente emerge l’attuale assetto urbanistico ed infrastrutturale
dell’Italia.
A distanza di tanto tempo ci sono tuttavia poche ma non trascurabili eccezioni,
proprio nel senso che non si è ancora certi circa la localizzazione di piccoli
insediamenti di origine romana.
Tra questi Prifernum, sicuramente ricadente nel territorio della Bassa Valle
aquilana o ai suoi margini nord orientali e comunque compreso nell’Abruzzo
interno denominato dai Romani Regio IV d’Italia, ma di incerta collocazione
secondo Adriano La Regina (2), che •niva per ipotizzarlo immediatamente ad est
di L’Aquila senza però localizzarlo a Bazzano, dove pure rileva tracce di abitato
di origine romana. Altri lo collocano ad Assergi 12, ipotesi esclusa dal La Regina,
o nell’attuale Poggio Picenze 13.
A favore dell’ultima ipotesi è signi•cativa l’assonanza tra Priferno e il Princenno
riportato nella prima citazione bibliogra•ca di Poggio Picenze in età moderna,
Podium de Princenno, assonanza che permette un accostamento forse non casuale,
ma signi•cativo e tutt’altro che bizzarro.
C’è un’ulteriore argomentazione che potrebbe far propendere per una
localizzazione di un abitato nella parte mediana del nostro territorio: la presenza
del Tratturo Magno, poi Regio Tratturo, a sud e a circa un chilometro dall’attuale
abitato, depone a favore di un presidio militare che i Romani erano soliti dislocare
a difesa delle “strade d’erba” della transumanza, magari scegliendo allo scopo
proprio la collina poggiana, l’ultimo punto di osservazione, a est, sulla intera
bassa valle aquilana.
In realtà, Priferno è toponimo citato solo sulla Tabula Peutingeriana (Tav.
2), l’unica fonte documentale antica che descrive, seppure parzialmente e con
qualche imprecisione, il percorso della Via Claudia Nova, rimanendo perciò un
sito di dif•cile identi•cazione (6) e, comunque, un sito non importante, magari un
borgo di passaggio della strada, facente parte del richiamato Pagus Frentanus.
11
Cfr. Campanelli, 1886 e 1991 e Vol. I.
12
Cfr. Camilli, 1790.
13
Cfr. sito informatico Lycus, 2004, di cui ho solo potuto constatare l’enunciazione della tesi riferita, non essendo riuscito ad “entrare”.
24
9. Fontana del Fossato
composizione media di una famiglia dell’epoca intorno a sei persone, nel numero
suf•ciente cioè a mantenere due soldati a cavallo.
La propensione a rifugiarsi di nuovo su una qualche altura più o meno forti•cata,
per potersi meglio difendere dalle incursioni barbariche e poi saracene, conseguenti
alla caduta dell’Impero Romano avvenuta nel 476, era cominciata molto prima
del 1173, come asserisce Mario Morelli, il quale fa derivare da Forcona, distrutta
dai Longobardi nel VII secolo, molte famiglie insediatesi stabilmente a Poggio
Picenze, tra le quali quella in seguito illustre dei Franchi.
Ma non si può escludere un qualche apporto aggiuntivo dato dagli abitanti in
fuga da Aveia, città romana distrutta anch’essa nel VII secolo dai Longobardi
o, più probabilmente, da un’alluvione, i quali aveiani furono costretti a costruire
un nuovo nucleo abitato nell’attuale Fossa: la maggior parte dell’antica città si
estendeva a sud ovest di Monte Cerro, come testimoniano le uniche tracce rimaste
visibili, ma Aveia risaliva anche verso nord e perciò non lontana dal soleggiato
sito poggiano.
Il moderno Poggio Picenze si forma e cresce intorno al Podium, al castello
forti•cato sede del signore del feudo e risalente al XII-XIII secolo per tipologia
costruttiva così come pervenuta •no ai nostri giorni, attingendo le indispensabili
risorse idriche alla vicina fontana del Fossato (Foto 9).
Il castello si presentava con cinta muraria che occupava la parte nord e il centro
dell’ovale delimitato da Via Roma, Via Castello e Piazza Castello e con due porte
di accesso, la principale posta a nord e a ridosso di Piazza Castello, e l’altra a sud,
in cima alla rampa che costeggia le mura del lato sud, che da Via Roma salgono
verso est •no alla sommità del castello.
Il nostro castello è ricordato dal Mariani, che forse poté vederlo (9), come
“antichissimo grande castello” che conserva ancora le porte antiche e le sei torri,
34
scomunica.
Il ritrovamento in località S. Pietro, agli inizi degli anni cinquanta e ad opera
di Taddei Basilio i Sarache, di una grande stele mortuaria di epoca medioevale
già segnalata dal Massonio per essere collocata a ridosso di una colonna della
chiesa di S. Pietro, stele con scritta epigra•ca fotografata e pubblicata dal Morelli
(9) prima che la stessa fosse sottratta nottetempo nei pressi dell’abitazione del
Taddei, ed altri ritrovamenti susseguitisi negli anni seguenti, di cui si è trattato in
precedenza, danno conferma dell’esistenza di una serie di servizi per la collettività,
lì localizzati almeno a partire dal XIII secolo.
Oltre alla chiese di S. Salvatore e di S. Pietro d’Aspreno, c’è un’altra chiesa
poggiana non pervenuta •no a noi: quella dedicata a S. Rocco.
La chiesetta di S. Rocco era posta a nord dell’attuale edi•cio scolastico, proprio
di fronte all’omonima fontana, aveva dimensioni modeste, essendo alta al piano
gronda circa sei metri e lunga dieci ( v. Tav. 4). Presentava una facciata di forma
rettangolare, con base di otto metri, rivolta ad ovest, il tetto di legno a due falde,
interrotto nella parte alta della facciata da una piccola torre campanaria con
un’unica campana (Foto 21 e 21 bis), una piccola •nestra nella parete laterale
sud e un’altra, bassa e lunga, posta sopra la porta di ingresso. Costruita forse nel
XVIII secolo con belle pietre lavorate e a faccia vista, aveva un solo altare posto
sulla parete di fondo, del tipo esistente a S. Giuliano, presso la cui sagrestia è
tuttora in deposito, scomposto. A seguito del terremoto del 1915, resa inagibile,
la chiesa rimase chiusa al culto •no alla demolizione avvenuta nel 1938, allorché
si iniziò l’edi•cazione dell’edi•cio scolastico. Le pietre recuperate sono state
utilizzate, in parte, nella costruzione dell’alto muro che regge il sagrato della
chiesa di S. Felice.
Sorta probabilmente intorno alla metà del XV secolo, la prima notizia della chiesa
originale di S. Felice risale al 1493 (9), allorché viene censita dalla Diocesi
aquilana, che non aveva potuto annoverarla nei suoi elenchi del 1317.
Ha dimensioni ridotte rispetto all’attuale ed è già dotata del campanile, che sarà
restaurato in diverse epoche e per ultimo nel 1748, così da dominare già allora
per la posizione che occupa, su una piccola altura e decentrata forse per essere
al servizio del culto dei morti, anche se i moderni cimiteri vengono istituiti da
Napoleone all’inizio dell’Ottocento e a Poggio Picenze viene ultimato nel 1840.
Si è già rilevato che al 1614 è ormai la chiesa del nuovo protettore S. Felice
martire e la comunità poggiana si appresta ad apportare decisive modi•cazioni,
prima ristrutturandola e poi ampliandola verso sud e in profondità per adeguarla
alle esigenze dell’accresciuta popolazione.
Le stesse operazioni non era stato possibile effettuarle, nei secoli precedenti,
nella vecchia chiesa del S. Salvatore, poiché sita nel terreno privato ed angusto
del castello, ciò che ha determinato per Poggio un’anomalia rispetto a tutti gli
altri centri antichi, piccoli e grandi che siano: non avere la chiesa parrocchiale
all’interno del vecchio centro storico.
I lavori di ampliamento della chiesa di S Felice iniziarono nel 1755, interrompendosi
nel 1762 a causa del rovinoso terremoto e riprendendo de•nitivamente nel 1767.
I lavori di rifacimento si intensi•carono dal 1818 al 1870 (9), interessando in
sequenza la cupola, l’altare maggiore, l’abside, la sacrestia e l’oratorio, la
crunèlle.
L’ambizioso progetto di dotare la comunità di una chiesa bella e molto ampia,
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romani, una rete delle vie d’erba larghe 111 metri che si estendeva dall’Abruzzo
interno alla Capitanata foggiana, alla campagna romana ed alla Terra del Lavoro
casertana, per complessivi 3.000 chilometri, favorendo la costruzione di castelli
e borghi lungo tutto il percorso, di nuovo difeso militarmente.
All’inizio del XIII secolo il Meridione tutto passa alla dinastia svevo-normanna,
cui appartenne Federico II, re di Sicilia e imperatore di Germania e dei Romani
•no al 1250, anno della sua morte, un re celebrato come un grande della storia
per essere stato notevole umanista e costruttore di castelli, molti prestigiosi come
quello di Casteldelmonte in Puglia, disseminati in tutto il Meridione.
A questo sovrano prestigioso la tradizione fa risalire la decisione di far costruire la
città di L’Aquila, la città delle acque, uno degli avvenimenti più importanti anche
per Poggio Picenze avendo la sua Universitas partecipato a quella edi•cazione
e successiva inurbazione. L’attribuzione si basa però su un documento ritenuto
apocrifo, un editto di Federico II del 1248 che avrebbe decretato la nascita di
quella nuova città, facendone ricadere l’onere sui castelli vicini, 99 secondo la
tradizione.
Dalla realtà storica e documentata emerge un diploma del 1254 del successore di
Federico, Corrado IV, da cui risulta che, in pieno accordo con l’autorità religiosa
locale, il sovrano prende atto della conurbazione in corso della nascente città
e detta le norme urbanistiche cui attenersi, •ssando a poco più di dieci metri
l’altezza massima delle case (20).
Al sovrano serviva un centro urbano grande che fosse in grado di controllare
militarmente il vasto territorio di riferimento, garantisse un naturale collegamento
con Napoli e con la Toscana e fosse capace di accentrare su di sé la raccolta e la
commercializzazione dei prodotti pregiati di cui era ricca la zona, innanzitutto
la lana e lo zafferano, e l’ottenne con una procedura molto singolare ed
interessante.
La comunità dei Poggiani dentro le mura aquilane si stabilì nel locale
assegnatole nell’ambito del quartiere di S. Maria Paganica, uno dei quattro in cui
era suddivisa la città, in una sorta di pentagono irregolare sito ad est del Corso
Vittorio Emanuele II e compreso tra Via Cavalieri di Malta e Via S. Bernardino
•no alla chiesa omonima, avendo al centro le vie Poggio Picenze e Verdi che si
intersecano (Tav. 5). Essa partecipò attivamente alla costruzione della città, le cui
mura furono edi•cate dal 1272 al 1312, per contenere una popolazione rimasta
molto al di sotto delle sue potenzialità di sviluppo almeno •no al Novecento.
La nostra comunità, che nel secolo XV annoverava 75 fuochi, edi•cò il proprio
locale completandolo nel 1376 (9), diede il proprio contributo all’amministrazione
della città e si distinse nella gestione di un opi•cio per il lavaggio della lana e per
la produzione del sapone.
Naturalmente costruì subito una chiesa, che risulta censita nell’Inventario di
Filippo del 1327, dedicandola al culto del protettore S. Salvatore e frequentandola
•no al suo crollo, avvenuto nel 1592.
Nei pressi del nostro locale e della chiesa di S. Salvatore, nel 1447 la città
cominciò a costruire un grande ospedale, prima civile, con l’Ottocento militare
(Foto 25) e attualmente scuola “Edmondo De Amicis”, che chiamò dapprima
Ospedale Maggiore, per poi cambiare il nome in S. Salvatore che ha conservato
per secoli e conserva tuttora, avendolo derivato dalla chiesa poggiana.
I rapporti tra le due componenti di origine poggiana, dimoranti dentro e fuori
49
quella riforma tendeva a sminuire a vantaggio del restaurato sistema feudale.
L’infeudazione di Poggio Picenze avvenne nel 1533, allorché Antonio Villela de
Aldana acquistò il nostro territorio, il fortilizio o castello o podium, e il diritto di
tassare dal viceré del Regno di Napoli Pedro de Toledo, per 200 scudi, e tenne il
feudo con il titolo di barone gravandolo di imposte annuali pari a 55 ducati (9).
L’Aldana forse morì senza eredi, dal momento che chi gli subentrò, Giovan
Giacomo Leognani nel 1564, acquistò il feudo non da quella famiglia ma dalla
Regia Corte, alla quale era tornato, per 5.500 ducati.
Successivamente il Leognani acquistò altri feudi, Assergi, Monticchio, Bazzano
e, ancora, Bominaco, nel 1566 per 1.541ducati (9): la marcata differenza nella
stima del valore tra questo e il nostro feudo, apparentemente equivalente all’altro,
sarà foriera di una fortissima tassazione che continuerà ad assillare i poggiani •no
all’abolizione del feudalesimo e che sarà causa dell’uccisione a Poggio Picenze,
nel 1656 e ad opera dei poggiani, del feudatario dell’epoca Filippo Al•eri. Ma
non la sola causa: dopo la morte di Gian Giacomo ha inizio la decadenza del
casato, costretto a disfarsi dei feudi acquisiti, e, in parallelo, dell’Universitas di
Poggio Picenze, risalendo al 159021 l’ottenimento dagli Al•eri di L’Aquila di un
prestito di tremila ducati al 10%, con ipoteca su forno, macina e montagna. Inizia
così l’egemonia su Poggio Picenze degli Al•eri, che durerà per oltre un secolo,
nonché lo stato di indebitamento cui dovrà sottostare Poggio Picenze per tutto
il periodo feudale, indebitamento cronico e pesante se già nel 1610 ammonta a
9.700 ducati (20).
Prima di passare alla pura elencazione dei feudatari, che naturalmente tennero il
nostro feudo a soli •ni lucrativi, va segnalato il ruolo particolare svolto da una di
queste famiglie: quella dei Leognani.
Proveniente da Civitaquana da un casato prestigioso, dei Leognani Castriota
imparentato con l’altro dei Leognani Ferramosca cui era appartenuto Ettore
Fieramosca, il vincitore della Dis•da di Barletta, Giovan Giacomo Leognani si
stabilì nella domus inserita all’interno del castello, contribuendo ad ampliarla e
ad abbellirla con il •glio e il nipote nei complessivi 65 anni che la abitarono, gli
ultimi però non con continuità, tanto che lo storico Crispomonti poté scrivere che
nei primi anni del Seicento i baroni vi vivevano “con decoro e splendore” (20).
L’attaccamento dei Leognani alla nostra terra è testimoniato anche dalla scelta da
loro operata di essere sepolti nella chiesa di S. Giuliano.
Questi i feudatari del Poggio dal 1533 (9):
capitano Antonio Villela de Aldana dal 1533 al 1564;
barone Giovan Giacomo Leognani dal 1564 al 1585;
Ferdinando Leognani dal 1585 al 1618;
Giangiacomo Leognani dal 1618 al 1629;
duca Clemente Sannesio dal 1629 al 1651;
barone Filippo Al•eri dal 1651 al 1656;
marchese Flaminio Al•eri dal 1656 al 1679 (19);
Massimo Al•eri dal 1679 al 1716;
Margherita Al•eri in Sterlich dal 1716;
barone Romualdo Sterlich, almeno •no al 1753 (20);
Rinaldo Sterlick •no al 1806, anno dell’abolizione del feudalesimo da
parte di Napoleone Bonaparte, conquistatore anche del Meridione d’Italia.
I baroni Sterlick erano ancora proprietari del fortilizio, del castello e della
21
54
Cfr. Colapietra, 2002.
27. Una pagina del rapporto di Paolo Rustici
58
28. Una pagina della Corogra•a Antenori
60
privato della sua iniziativa, legata allo Stato e dipendente dalle sue commesse.
Tutto questo servì a giusti•care la scelta di indirizzare le risorse del Paese nella
realizzazione delle infrastrutture e nell’incrementare la industrializzazione del
Nord Italia, mentre il Sud subiva un forte aumento della tassazione e un’attribuzione
di risorse pari al 24% delle disponibilità dello Stato.
A titolo esempli•cativo: tra il 1862 e il 1897, per la boni•ca delle aree agrarie si
spesero 267 milioni al Nord, 188 nelle regioni centrali e solo 3 al Sud.
Le politiche •nanziarie scelte a livello nazionale determinarono, a partire dal 1880,
gli espatri di massa nelle lontane terre di Oltreoceano delle genti delle regioni
meridionali, del Friuli e del Veneto, costrette peraltro a farlo in clandestinità: solo
nel 1888 una legge sull’emigrazione riconobbe il diritto di emigrare, cancellando
•nalmente lo status di soggetto pericoloso •no ad allora riservato all’emigrante.
Il maggior !usso migratorio era diretto verso gli Stati Uniti d’America, dove gli
emigranti arrivavano per nave al porto di New York e fatti sbarcare, dal 1892,
nella vicina isola di Ellis Island, “l’isola delle lacrime”, (Foto 30 e 31) per essere
sottoposti alle visite mediche e psicologiche e alle indagini conoscitive. Venivano
poi registrati e fatti scendere per essere avviati al posto di lavoro.
Allora l’emigrante rimaneva abbandonato a se stesso, costretto a contare sulle
sue capacità di reinventarsi un lavoro e un avvenire, al •ne di affrancarsi da una
situazione di precarietà economica permanente, e sul coraggio che possedeva di
osare e di s•dare le nuove, avverse condizioni.
Gli emigranti della prima ondata erano quasi tutti nati nell’Italia unita, eppure
hanno dovuto presentarsi alle frontiere essendo analfabeti al 70%, almeno quelli
sbarcati ad Ellis Island, la media più alta rilevata anche a confronto con chi
proveniva dall’est Europa.
Eppure se la sono cavata e hanno prodotto redditi forse oltre le aspettative, hanno
creato ingenti risorse •nanziarie in favore dell’Italia, attraverso le rimesse che
andarono a •nanziare le regioni industrializzate del Nord, che così ricevettero un
ulteriore potente impulso alla loro modernizzazione: è così possibile assistere a
un paradosso tipicamente italiano, per cui le regioni più ricche vengono sostenute
dalle risorse •nanziarie prodotte dalle regioni più povere!
Vengono allora poste le basi per una de•nitiva divaricazione tra Nord e Sud
Italia per quanto attiene alla ricchezza prodotta, con il Nord dotato di industrie,
di un’agricoltura ricca e di infrastrutture moderne e continuamente aggiornate,
realizzate dallo Stato, mentre il Sud sconta tuttora l’arretratezza delle reti stradali
e ferroviarie e del sistema produttivo.
Sconta anche, però, la presenza di una criminalità organizzata che •nisce per
condizionare in modo pesante le iniziative imprenditoriali e per occupare il
territorio quasi sostituendosi allo Stato.
Si è parlato per decenni della questione meridionale e se ne continua a parlare.
L’intervento straordinario per il Mezzogiorno è stato additato come il sistema
degli sprechi, e sarà pure vero se, in concreto, si fanno reti idriche in periferia
e non si realizzano quelle adduttrici, o viceversa, ma non si mette abbastanza in
rilievo che il complesso delle risorse indirizzate al Nord, in tempi di vigenza della
Cassa per il Mezzogiorno, è stato costantemente superiore in valori assoluti ed
anche in rapporto al numero degli abitanti.
In presenza di province del Meridione, oggi della Calabria e della Sicilia e •no a
qualche decennio fa dell’Abruzzo e della Basilicata, che hanno redditi pro-capite
che sono della metà o pari a un terzo del reddito per abitante delle più ricche
63
Gra•co 1
capitalistico attivata dal crollo della Borsa di New York del 1929 e da due
sanguinosissime Guerre mondiali, la prima delle quali aveva comportato per
Poggio Picenze la perdita di 20 giovani vite, mentre la seconda e le campagne di
conquista dell’Africa avevano richiesto il sacri•cio di 25 Poggiani.
Nel Secondo dopoguerra almeno un quarto della popolazione poggiana
aveva seri problemi di sopravvivenza, pur potendo contare sulla solidarietà degli
altri e sull’ingegnosa ricerca di una qualche attività occasionale che permettesse
di sbarcare il lunario.
Per•no le tradizionali famiglie benestanti dei Miccheline e dei Basilóne, produttori
di zafferano, vino, noci e mandorle per il mercato, non attraversavano un periodo
!orido a causa della scarsa richiesta di quei prodotti e del conseguente calo dei
prezzi, portando all’emigrazione molti dei loro componenti più giovani.
Si riusciva con qualche dif•coltà per•no a far fronte all’autoconsumo, sicché
arrivò come una manna dal cielo l’apertura dei cantieri di rimboschimento, in
attuazione del “Piano Fanfani”, che permise •nalmente di avere la disponibilità
di qualche soldo.
Tuttavia la svolta vera doveva avvenire con l’apertura delle frontiere e con i
corsi per muratori, organizzati dallo Stato per fornire manodopera quali•cata alla
ricostruzione europea post bellica, corsi che videro anche a Poggio Picenze un
numero elevatissimo di aspiranti all’emigrazione
Avvenne così che nel giro di pochi anni e partecipando ad uno dei tanti corsi che
si sono succeduti senza soluzione di continuità •no ai primi anni Sessanta (foto
32), un popolo di contadini si trasformò in un popolo di muratori, che appena
conseguita l’abilitazione fu pronto ad invadere ogni parte del mondo dove si
intravedeva una possibilità di lavoro adeguatamente compensato.
Partirono anche una cinquantina di artigiani, tra scalpellini, cavatori di pietra,
sarti, calzolai e fabbri ferrai, e tutti gli altri giovani e meno giovani che muratori
non erano, ma lo divennero all’estero: partirono i più validi, lasciando a Poggio
Picenze gli studenti, gli invalidi e i pochi occupati nella pubblica amministrazione
68
Oggi si ritiene che la realizzazione dell’Unione
Europea sia dovuta tanto alla preveggenza
dei Padri fondatori, i De Gasperi, Schuman,
Adenauer e Spinelli, che “dall’alto” ne elaborano
strutture e regole, quanto ai milioni di emigrati
nei Paesi europei ricchi delle materie prime
che ne hanno anticipato l’industrializzazione,
emigrati che hanno saputo costruire un forte
legame con le popolazioni locali, cementando
l’Unione “dal basso”.
34. Emigrati italiani in baracca, Francia, 1958
Tra distacchi laceranti e propositi illusori di prossimi ritorni, l’emigrazione
segna in modo de•nitivo il sostrato sociale poggiano, pur accettata come necessità
ineluttabile, come un destino inesorabile di cui anche chi rimane è cosciente ed
avvertito: si parte per non ritornare, almeno i tanti oltre oceano. Gli altri partiti per
i paesi europei non mandano i loro risparmi, con l’eccezione dei più giovani legati
alla famiglia di appartenenza lasciata in Italia, avvertendo che i soldi guadagnati
andranno investiti nel nuovo paese di appartenenza per creare e mantenere lì la
nuova famiglia o per trasferirvi la rimanente parte rimasta momentaneamente
nella casa d’origine
C’è consapevolezza e solidarietà verso gli emigranti tra i poggiani rimasti, tanto
che il commento popolare per i pochi che tornano anzitempo, poiché non hanno
potuto o saputo ambientarsi in un contesto spesso ostile e comunque dif•cile, è
che “nen gne cj’à fatte l’arie”, nessuno pensando l’altrimenti inevitabile “chi je
l’à fatte fà !” o “ma cu ccj’à jite a ffà !”.
È una perdita di energie giovani e di capacità professionali preziose, che vanno
ad arricchire i paesi di approdo ed impoveriscono quello di origine, ed è una vera
diaspora, una situazione terribile che evoca il formarsi e il dispiegarsi di una
valanga.
Ma non è un fenomeno circoscritto al solo Poggio Picenze, se è vero
che gli altri Comuni della Comunità Montana “Campo Imperatore- Piana di
Navelli” registrano un espatrio superiore (26). Qui si passa da una popolazione
residente di 29.454 abitanti del 1861 ai 35.904 del 1921 e ai 13.041 del 1971, cifra
scesa ulteriormente a 11.487 nel 1981 e a 9.923 nel 2001, a testimonianza del
persistere di situazioni dif•cili che non si riesce per il momento a superare, anche
in presenza dell’istituito Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga. In
particolare, la popolazione residente si riduce, nel periodo 1921-71, a meno di un
terzo nei Comuni di Carapelle Calvisio, San Benedetto in Perillis e Santo Stefano
di Sessanio passati, rispettivamente, da 577, 778 e 791 a 144, 238 e 199 abitanti
e, continuando a scendere, a 98, 156 e 123 al 31 dicembre 2003.
Dai dati dei vari censimenti (26) si evince che la popolazione dell’Abruzzo è
passata da 1.277.207 abitanti del 1951 a 1.166.964 del 1971, con una perdita
percentuale pari al 9%, quella della Provincia di L’Aquila da 365.077 a 293.066,
con una perdita del 20%, quella di Poggio Picenze da 1368 a 817, con una perdita
del 40 % (Gra•co 2), avvertendo di nuovo che i dati del censimento sono relativi
ai residenti e non ai presenti, che risultano di numero inferiore per un 10%.
Intanto l’emigrazione verso Roma si è interrotta con l’apertura, nel 1972,
71
Gra!co 3
L’invecchiamento della popolazione emigrata e la propensione allo spostamento
rendono i dati riportati soggetti a ineliminabili cambiamenti.
Dopo la ricordata, massiccia cancellazione dall’anagrafe del Comune di Poggio
Picenze del 1963, ne sono seguite altre due analoghe nel 1968 e nel 1969 e l’ultima
nel 1986, per un totale di 558 abitanti cancellati, appartenenti a 206 famiglie. La
media di 2,7 componenti per famiglia sta ad indicare sia la giovane età dei nostri
emigranti, partiti prima di sposarsi, sia la presenza di famiglie in formazione,
pur se non sono rare le partenze di famiglie con sette otto componenti. Circa un
centinaio dei cancellati sono poi rientrati o si sono iscritti di nuovo nell’Anagrafe
dei cittadini residenti all’estero.
La Francia è in assoluto il Paese estero con il maggior numero di residenti di
origine poggiana ed ha anche il primato di ospitarli nel numero maggiore di
comuni, 61, la maggior parte dei quali dislocata nel nord est, mentre Toronto e
il suo circondario, dacché oggi c’è una diversa e più articolata organizzazione
amministrativa di quella splendida ed estesissima metropoli prima intesa come
Comune unico, ha la più alta presenza di emigranti nati a Poggio Picenze (104 !),
Campana, Cinco Saltos, Cordoba, Correro, Florencio Varela, Josè Marmol, Lomas de Zamora, Mar del Plata,
Merlo, Palomar, R. de Escalada, San Martin de las Andes, Santa Fé, Temperlay. AUSTRALIA: Agnes Water,
Brisbane, Melbourne, Templestowe, Thornbury. BELGIO: Athus, Autange,Charleroi, Courcelles, Messancy,
Rodange, Saint Nicolas, Sterpenich Arlon,, Tuller, Woluwe S. Lambert. BRASILE: Brasilia, Montes Claros,
Osasco, Paracatu, Patos de Minas, President, Ribeirao Pires, San Paolo, Villa Martelli. CANADA: Belleville,
Black Creek, Bolton, Burlington, Burnaby B.C., Campbell River, Coquitlam, Etobicoke, Malton, Maple,
Markam, Mississauga, Montreal, Newmark, Newmarket, Nord York, Ontario, Qualicom Beach, Rexdale,
Richmond B.C., S. Leonard, Scarbouro, Stirling, Thornhill, Toronto, Vancouver, Victoria, Woodbrange,
Woodbridge. FRANCIA: Audun le Roman, Audun le Tiche, Aumetz, Bart Reg. Doubs, Bonneuil sur Marne,
Bourg le Valence, Bure Tressange, Caumont sur Durance, Clouvange, Cluses, Cosnes et Romain, Creteil,
Creutzwald, Delstain, Echirolles, Fontaine Isere, Fontenay sous Bois, Fontoy, Forbach, Glaignes, Herserange, Hussigny Godbrange, Joeuf, Kedange sur Kanner, La Roche de Glun, Lemainville, Lexy M. et M.,
L’Hopital, Longeville les Metz, Lyon, Marseille, Mesnil S. Nicaire, Metz, Metzerwise, Mexy, Montigny les
Metz, Mont S. Martin, Mornas reg. Vaucluse, Paris, Richemont, Rodemack, Roquemaure, Roubaix, Sanem,
Saulnes, Seremange Erzange, S. Moutier, Stains, Terrasses d’Auguillon, Thiez, Tiercelet, Toussieu, Tremblay
en France, Valence, Valleroy, Vieux Thann, Villerupt. GERMANIA: Grimma. GRAN BRETANNIA: Liggenferd, Swansea, Weston Supermare. LUSSEMBURGO: Aubange, Athus, Bascharage, Differdange, Esch
sur Alzette, Luxbourg, Petange, Sanem, Schif•ange, Soleuvre. PERU’: Barranco de Lima, Santiago de Surco.
SPAGNA: Madrid. SVIZZERA: Crissier-Vaud, Morges, Zurigo. URUGUAY: Costa Azul, Las Picaras.
U.S.A.: Brooklin, Buffalo, Detroit, East Amherst, Fenix, Huntington, Jou Kers, Long Isle City, New York,
New Mexico, Niagara Falls, Orlando, Sacramento, San Francisco, Toramanda, Valley Stream, Williamsville.
VENEZUELA: Caracas, Quinta Maria.
73
Dai primi anni Settanta
cominciano a cambiare le
condizioni
economiche
dell’Aquilano, che registra una
forte ripresa dell’occupazione sia
nella nascente industria elettronica
che nel pubblico impiego, mentre
il settore edilizio continua ad
occupare in misura rilevante, sicché
si vanno delineando le condizioni
per un nuovo equilibrio tra
territorio e pressione demogra•ca.
Nel 1970, a Poggio Picenze c’è stato
l’avvento di un’Amministrazione
comunale composta da giovani, che
ha dovuto fronteggiare l’assenza
di servizi pur indispensabili, come
la raccolta dei ri•uti solidi urbani,
la pulizia delle strade, una palestra
funzionale, una ef•ciente rete di
strade di campagna, la farmacia,
una sede comunale consona, il
completamento della rete idrica e
fognante, la biblioteca, ecc.
Ancora negli anni Cinquanta,
l’abitato si presentava deteriorato,
con le strade ricoperte da breccia
o da terra battuta e con mucchi di
detriti e sassi ai lati. Solo in alcuni
tratti c’è una pavimentazione
in pietra sconnessa, con una
massicciata che talora af•ora
discontinua. Una cunetta in selci di
pietra bianca •ancheggiava la sola
Via Roma, per la raccolta delle
acque di scolo della fontana di S.
Rocco. Le stradine con una certa
pendenza presentavano gradonate
realizzate con muretti costruiti
con pietra di scarto e, comunque,
non lavorata (Foto 35-41 risalenti
a metà degli anni ‘50). Oltre alle
aie, solo Via Umberto I° aveva un
fondo stradale costituito da selci
bianchi ben ordinati, realizzato
nel 1954 dopo la costruzione di
una fognatura per la raccolta delle
acque piovane (Foto 42).
37. Via degli Orti, 1954
38. Via Castellani, 1954
39. Via Piedi la Terra, 1954
75
56. Via Fonte Fossato, 1971
non da clandestini e facilitando il riconoscimento dei diritti di cittadinanza.
Un obiettivo da raggiungere anche e nonostante le diverse religioni professate:
la religiosità nasce nelle coscienze e si radica in esse o si trasforma, secondo
processi legati alla libertà di pensiero e agli stimoli indotti dall’insegnamento,
dalla tradizione e dall’ambiente sociale in cui si vive, e come tale va rispettata.
Le tradizioni religiose non vanno messe in discussione né si può pretendere di
cambiarle in mancanza di una volontà manifesta e spontanea degli interessati di
rinuncia a continuarle.
La presenza di tanti bambini extracomunitari, 18 di cui 16 macedoni su un totale di
41 nel 2004, ha evitato la formazione delle pluriclassi nella scuola elementare.
Nonostante l’apporto esterno, il numero degli scolari continua però a scendere
a causa della scarsa natalità, tanto che il totale delle cinque classi è, oggi, più o
meno pari a quello di una sola classe negli anni 1919 e 1950 (Foto 60, 61 e 62).
Le classi scolastiche multietniche rappresentano un arricchimento culturale per
chi le frequenta e, nel contempo, costituiscono il tramite più ef•cace per realizzare
l’integrazione e per creare le condizioni di una paci•ca convivenza.
Nelle nostre scuole, l’Istituto Comprensivo di Navelli ha avviato un Progetto
Interculturale 2002-2005 di educazione alla differenza, le cui •nalità dichiarate34
sono dirette ad educare il bambino ad accettare l’altro, in modo che venga
rafforzata l’identità di ognuno accettando e valorizzando le diversità.
Pe r affrontare nel migliore dei modi il problema dell’integrazione, basterà
in•ne considerare che si va verso la costruzione di un’Europa Unita e ricordare
che i circa 18 milioni di italiani partiti e non tornati, oggi stimati in 60 milioni
con i loro discendenti, e i tanti, troppi nostri concittadini all’estero hanno ormai
34
Recina, Del Rossi, Riocci, 2004.
83
SINDACI DEL COMUNE DI POGGIO PICENZE
Nominativo
Decorrenza
Notaio Giuseppe GALEOTA
1813
Angelantonio FERRARI
1817
Emidio URBANI
1820
Camillo URBANI
1820 (luglio)
Angelantonio FERRARI
1822
Stefano PADOVANI
1825
Gregorio MICONI
1828
Angelantonio FERRARI
1829
Pietro BIORDI
1830
Crescenzo FERRARI
1831
Emidio URBANI
1834
Pietro Damiani
1837
Gregorio MICONI
1838
Pietro DAMIANI
1840
Domenico GRIMALDI
1843
Simone DAMIANI
1846
Domenico RAINALDI
1849
Domenico VITANO
1851
Emidio URBANI
1852
Notaio Vincenzo GALEOTA
1855
Dott. Vincenzo MASCI
1861
Appartenenza
politica1
1. Per i primi anni della Repubblica l’appartenenza partitica è stata ricostruita sulla base di testimonianze, che potrebbero anche risultare involontariamente imprecise
91
OPERE PUBBLICHE – STRUMENTI URBANISTICI – SERVIZI
Opera/Strumento
urbanistico/Servizio
Deliberazione
Consiglio
Comunale
N. e data
Oggetto
Anno di
realizzazione
Note
Opere Pubbliche
Fontana del Fossato
(in Viale Matteotti)
ristrutturazione
1894
coeva a Poggio Picenze
Fontana di Forme
(in Via Umberto I°)
ristrutturazioni
1894 e
1910
coeva a Poggio Picenze
Fontana del Pagliaio
(in Via S. Demetrio)
ristrutturazioni
1894 e
1990
Fontana di San Rocco
(in Viale della Repubblica)
costruzione
1850/56
abbeveratoio e lavatoio;
1895
nuova facciata
1896
Fontanella (in Piazzetta
Galeota)
costruzione
1895
rimossa nel 1961 poiché
non più alimentata
Fontana della Pischera
o di Pittore (S.S. 17)
costruzione;
1910
rimossa nel 1968 e
trasferita a Via Piedi le
Vigne
ristrutturazione
1992
Il lavatoio è stato
rimosso nel 1962, dopo
il crollo del tetto
95
Fontana Sant’Anna (in
Via Codacchio)
costruzione
1961
Fontana T. Ranieri (in
Via Europa)
costruzione
1987
Cimitero
costruzione;
1828-40
ampliamento, pavimentazione vialetti con selci bianchi, costruzione cappella e
1° lotto loculi;
1968
costruzione loculi, rete
idrica e alberatura;
1971-74
pavimentazione vialetti con
por•do
1988
Edi•cio
scolastico e Palestra
5 del
20.01.73
96
lavori in economia
c/o sagrestia parrocchiale;
•no al 1860
c/o casa notaio Galeota;
•no al 1915
c/o baracche di legno
nell’area attuale;
•no al 1938
c/o casa notaio Galeota;
•no al 1946
costruzione sede attuale e
muro a faccia vista in Via
Roma;
1937-46
costruzione salone refezione e ristrutturazione tetto
aule;
1965
sistemazione edi•cio
scuola elementare;
1973-75
aperta dal 1947
ampliamento e sopraelevazione palestra, ristr.
tetto corridoio e salone
ristrutturazione spogliatoi palestra e rifacimento
impianti
1994-98
accorpamento scuole
materna ed elementare
illuminazione Strada Provinciale (Via Umberto I°);
1847
con due lampade a
combustione
illuminazione strade principali e secondarie;
primi
decenni del
‘900
con circa 80 punti luce e
cabina di alimentazione
a Pareti
10 del
1967
ammodernamento e
sistemaz. impianto pubbl.
illuminazione (I° lotto);
1968-70
8 del
14.02.69
idem (2° lotto);
1970-71
17 del
14.07.77
idem (3° e 4° lotto) di
completamento;
1977-79
12 e
13 del
5.02.79
potenziamento e ristrutturazione impianto
1981-84
con luci gialle nel vecchio centro
Monumento ai caduti
costruzione
1959-60
realizzato da maestranze
poggiane
Scuola materna
Costruzione;
1959-65
ristrutturazione tetto
salone;
1983
sistemazione ambulatorio;
1994
29 del
5.03.94
Impianto di
pubblica
illuminazione
Campo sportivo Aia
della Chiesa
11 del
14.02.69
impegno spesa acquisto reti
di recinzione e sementi;
1969
con illuminazione facciata della chiesa
l’ampliamento, lo
spianamento, lo spietramento, la semina
dell’erba e la sistemazione del campo di calcio
realizzati, gratis, da ditta
Giacinti e dai giovani
poggiani coadiuvati da
qualche adulto.
97
22 del
12.07.73
Rete idrica e fognante
ampliamento e sistemazione
1973
fognatura Via Umberto
1° per acque piovane e
pavimentazione con selci
bianchi; cunetta con selci
bianchi in Via Roma;
1954
1967-69
nelle vie Umberto 1°,
Roma e Codacchio.
Lavori appaltati da
Cons. La Ferriera.
idem (2° lotto);
1970-71
in Via Piedi la Terra
!no a Madonnella, Via
Ferrari, Via Palombaia.
Idem
idem (3° lotto);
1972-73
costruzione depuratore
in Via Piedi le Vigne.
Idem
idem (4° lotto);
1972-73
in Via Pareti, Via Castello, Via la Cona, parte
terminale Via Codacchio !no a depuratore.
Idem
reti idrica e fognante;
1973-74
Circonvallazione da
con"uenza Via S.
Demetrio
reti idrica e fognante;
1973-74
in Via S. Demetrio
reti idrica e fognante (1°
lotto) e pavimentazione con
selci neri;
98
abbassamento di oltre
1 m., !no al livello del
piazzale della chiesa.
10 del
21.12.81
e 103 del
21.06.82
(Giunta
Com.)
rete fognante, ampliamento e pavimentazione in
asfalto;
1982-83
nelle vie Cunicelle
e Caione per Fossa,
Piedi le Vigne !no al
depuratore
47 del
21.06.90
risanamento rete idrica
1990-92
sostituzione condutture
Sede municipale:
a) in Via Castello, 29°
1827
•no al 1915, poi abbandonata poiché resa pericolante dal terremoto
realizzazione baracca in
legno;
1915-16
il Municipio è trasferito
in una delle cinque
baracche costruite per
ospitare anche la scuola
elementare
ampliamento con aggiunta
ala nord;
1957-58
costruito da allievi dei
corsi per muratore
sistemazione vecchi e
nuovi locali;
1961-63
ristrutturazione Cancelleria
comunale;
b) in Piazzale Salvatore
Massonio
37 del
27.12.69
c) presso Edi•cio
scolastico
d) sede attuale
Variante S.S. 17
l’ingresso era previsto
all’Aia della Chiesa,
nell’appena realizzato
campo sportivo
approvazione progetto
ristrutturazione sede municipale;
1969-85
utilizzo delle tre aule del
secondo piano
realizzazione scheletro
edi•cio e occupazione
piazza
36 del
29.09.70
scelta nuova area e variazione progetto esecutivo;
15 del
3.03.71
approvazione progetto
costruzione sede municipale e relativa piazza;
1971-73
69
approvazione progetto 2°
lotto;
1982-
70
approvazione progetto 3°
lotto;
-1983
trasferimento uf•ci
nuova sede nel 1985
76 bis del
24.10.84
approvazione progetto
esecutivo sistemazione
piazza
1985-87
sistemazione piazza
e costruzione muri di
cinta
costruzione tratta Rosalìecabina elettrica Pareti-Pistacchje;
1936
lavori realizzati da
ANAS
99
Strada Valle Campanaro
Laghetto Valle Campanaro
Viale Matteotti (ex Fossato Campanaro)
100
212 del
3.06.69
bitumazione;
1946
idem
costruzione terrapieno
a nord abitato (la “diga
sécche”)
1968-69
idem
realizzazione I° tratto,
dall’alto •no a con•uenza
con strada Picenze-Barisciano;
1950
con cantiere di rimboschimento (piano
Fanfani)
realizzazione 2° tratto, •no
a con•uenza con S.S. 17;
1960
lavori progettati e realizzati da Genio Civile
lavori ampliamento e imbrecciatura;
1973
lavori progettati e realizzati da Genio Civile
lavori imbrecciatura e sistemazione cunette
1983
realizzazione invaso
1983
lavori realizzati da Comunità Montana “B”
approvazione progetto
costruzione canale in
cemento (I° lotto);
progetto non approvato
dal Provveditorato alle
OO.PP., che ha imposto
la soluzione tecnica poi
realizzata
32 del
12.06.71
approvazione progetto
uni•cato I° e 2° lotto;
55 del
24.08.72
(Giunta
Com.)
approvazione progetto
modi•cato;
1973-75
nulla osta alla realizzazione da Provv. alle
OO.PP. il 30.11.72
10 del
22.05.76
approvazione progetto 2°
lotto;
1980
bitumazione
125 del
21.09.81
copertura canale ad est
della strada;
1982-83
copertura del canale tra
Via Umberto I° e Via
Fossato
46 del
14.10.88
(Giunta
Com.)
Circonvallazione
Sistemazione strade
interne minori
Impianti sportivi località Piovaro
approvazione progetto
copertura canale di scolo e
sistemazione marciapiedi
(3° lotto)
1990-94
copertura fosso residuo
a est della strada
costruzione terrapieno
(con fornitura materiale sassoso di macerie,
quale quota 20% a
carico del Comune)
27 del
3.08.70
approvazione progetto
esecutivo (1° lotto)-
1972-
47 del
28.12.71
approvazione progetto (2°
lotto);
-1974
bitumazione (3° lotto);
1975
solo binder
84 del
13.11.84
bitumazione (4° lotto)
1985
tappetino di usura
16 del
6.04.73
approvazione progetto
sistemazione strade con
Cantiere di Lavoro
1973
strade minori e sistemazione aie. Muri a
faccia vista.
25 del
18.07.74
(rat.)
idem
1974
idem
30 del
5.10.74
approvazione progetto di
massima impianti sportivi
in località Dietro la Chiesa;
15 del
25.09.78
occupazione giovanile nella
realizzazione di interventi
per lo sport in località Aia
della Chiesa e Piovaro;
61 del
5.07.79
approvazione progetto 1°
lotto costruzione complesso
polisportivo (n. 2 campi da
tennis e campo pluriuso);
1979-80
realizzati con giovani
di cui alla L. 285/77:
spianamento, rete idrica
e muri di contenimento
campi da tennis
86 bis del
22.04.80
approvazione progetto
completamento impianti
sportivi (campo di calcio e
campo pluriuso);
101
123 del
23.07.82
approvazione progetto
2° lotto campi da tennis
(bitumazione);
1982-83
75 del
25.10.84
approvazione (nuovo)
progetto esecutivo campo
di calcio;
1985-89
40 del
16.12.87
approvazione progetto 2°
lotto
1990-91
ampliamento, rifacimento e
imbrecciatura; costruzione
tratto Madonnella-Rosalia;
1935
Strada interpoderale
Piedi le Vigne-Varranone
20 del
12.03.73
approvazione progetto e
assunzione impegno presa
in consegna e manutenzione strada da ampliare ed
asfaltare;
appaltata da ERSA di
Avezzano. Gara di appalto andata deserta
101 del
21.04.80
approvazione del (nuovo)
progetto con prezzi aggiornati e del piano particellare
di esproprio
1982
appaltata e realizzata da ERSA, dopo
integrazione di fondi da
Regione Abruzzo
ampliamento, rifacimento e
imbracciatura;
1953
idem. Fino al con!ne
con Comune di S.
Demetrio
Strada interpoderale
Villa Grande di San
Demetrio nei V.-Mariale
20 del
12.07.73
Strade interpoderali
minori
102
con giornate obbligatorie, a paga ridotta di
molto
idem Piedi le Vigne;
idem Piedi le Vigne
102 del
21.04.80
idem Piedi le Vigne
1983
appaltata e realizzata da
ERSA !no all’abitato di
S. Demetrio, essendo in
conto di questo Comune
delibere
varie di
Giunta
Comunale
ampliamento e sistemazione;
1964
strade Caione per Fossa
e del Cerreto
1972-77
tutte le altre strade interpoderali, ad eccezione
della strada Caione che
si innesta su Piedi le
Vigne, realizzata nel
1982
preparazione terreno e
messa a dimora piante
1971-72
lavori in economia.
L’alberatura di Viale
Matteotti è stata realizzata negli anni novanta
Piazzale della Chiesa
realizzazione 3° e 4° gradino, dopo riduzione livello
piazzale
1971
lavori in economia
Castello
approvazione progetto
esecutivo 1° lotto;
1973-74
lavori di sistemazione e
consolidamento
34 del
26.04.79
approvazione progetto utilizzo fondi residui 1° lotto;
1979
completamento fognatura
44 del
28.08.03
approvazione progetto
esecutivo intervento di
riquali!cazione urbana
2003-05
consolidamento mura,
sistemazione locali
sotterranei e super!cie
castello
85 bis del
22.04.80
approvazione progetto
sistemazione aree a verde
pubblico attrezzato
1980
appaltato e realizzato
da Comunità Montana
“Campo ImperatorePiana di Navelli”-Zona
“B”
16
approvazione progetto
esecutivo sistemazione
“piazza rosa” e ristrutturazione vecchio Municipio;
1991-92
pavimentazione ed arredo piazza, realizzazione Sala Polifunzionale
23 del
22.05.98
approvazione progetto di
completamento
1999-2002
parco giochi e alberatura, nella parte sud
41 del
6.03.92
approvazione progetto
esecutivo
1992-in
corso al
31.12.05
Alberatura stradale
nei viali, nelle aie e al
Cimitero
Verde pubblico attrezzato nelle ex aie (salvo
Aia della Chiesa)
Parco attrezzato nell’ex
campo sportivo Aia
della Chiesa
Ristrutturazione case
Via del Forno
idem
idem
varie
deliberazioni di
Giunta
Comunale
103
Ristrutturazione casa
Medioevale Via Umberto 1°
18.07.94
(Giunta
Com.)
approvazione progetto
esecutivo
1995-in
corso al
31.12.05
Bocciodromo
153 del
7.11.95
approvazione progetto
esecutivo;
1996-97
326 del
13.12.97
(Giunta
Com.)
approvazione progetto di
completamento
1998-99
Arredo urbano ex
lavatoio
278 del
5.12.96
(Giunta
Com.)
approvazione progetto
esecutivo
1997-2000
Rete metanifera
46 del
18.09.97
approvazione progetto
preliminare;
49
approvazione progetto
esecutivo
1998-2000
Sistemazione Bivio
Picenze
177 del
21.09.98
(giunta
Com.)
approvazione progetto
costruzione sottopasso su
S.S. 17
1999
Discarica consortile
114 del
2.12.01
(Giunta
Com.)
approvazione progetto
esecutivo discarica comunale;
2002-03
50 del
26.09.03
(Giunta
Com.)
Costituzione Consorzio per
gestione discariche
28 del
5.04.02
e 47 del
12.07.02
(Giunta
Com.)
approvazione progetto
esecutivo
Campo pluriuso località Piovaro
104
da Via Umberto I° a Via
per Picenze, ad opera
dell’ANAS
al 31.12.05 la discarica
consortile non è stata
aperta
2002-in
corso al
31.12.05
Arredo urbano Via
Miconi
19 del
5.04.02
(Giunta
Com.)
STRUMENTI
URBANISTICI
approvazione progetto
esecutivo
2002-04
Strumenti urbanistici
14 del
29.04.69
approvazione Perimetrazione centro abitato;
50 del
28.12.71
approvazione variante
Perimetrazione centro
abitato
51 del
28.12.71
approvazione Programma
di Fabbricazione e Regolamento edilizio;
il P.d.F. è stato più volte
variato ed è ancora
vigente al 31.12.05.
42 del
6.12.74
variazione di destinazione
d’uso case artigiani e coltivatori diretti
il P.d.F. ha individuato
anche le Zone PEEP,
Sportiva, Artigianale,
Industriale e Municipale.
Piano di Commercio
6 del
16.02.74
approvazione Piano di
Commercio
P.d.F.: Zona Industriale
39 del
13.11.75
istituzione Zona industriale;
P.d.F.
14 del
22.05.76
approvazione P.d.F. e
Regolamento edilizio restituiti da Regione Abruzzo
con modi!che;
P.d.F.: Piano PEEP
59 del
5.07.79
esame ed approvazione
Piano di Zona per Edilizia
economica e popolare
Perimetrazione
Programma di Fabbricazione (P.d.F.)
Piano Regolatore
Generale (P.R.G.)
af!damento incarico
redazione Piano Regolatore
Generale
1985-in
corso al
31.12.05
non ancora approvato
al 31.12.2005, salvo
il Piano di Recupero
(2004)
105
32 del
15.09.91
approvazione Piano Interventi Produttivi (P.I.P.);
11 del
29.02.92
e 20 del
27.05.93
approvazione progetto
esecutivo P.I.P. e 1° lotto;
1992 -95
formazione lotti e realizzazione strade
13 del
25.06.96
approvazione progetto 2°
lotto opere urbanizzazione
primaria
1996-97
fognature, depuratore e
serbatoio idrico
P.R.G.
28 del
30.09.04
appropriazione Piano di
Recupero centro storico
realizzato nell’ambito
del P.R.G.
P.d.F.: P.I.P.
24 del
29.06.05
approvazione variante
P.I.P.
in corso di realizzazione nuovo stabilimento
Gruppo EDIMO SpA
P.d.F: Piano Interventi
Produttivi
SERVIZI
Raccolta e trasporto
ri!uti solidi urbani
34 del
29.09. 70
e 4 del
2.02.71
Pulizia strade interne
106
Servizi Pubblici
istituzione e disciplina
nuovo servizio
1971
assunzione stradino
1971
servizio effettuato con
sacchetti
Assistenza alunni
scuola dell’obbligo
6 del
2.02.71
impegno spesa per acquisto
libri alunni scuole elementare e media
attuata per due anni
Settimana
dell’Emigrante
44 del
20.07.71
(G. C.),
rati!cata il
21.09.71,
n. 32
organizzazione festeggiamenti e nomina commissione preposta
organizzata dal Comune
!no al 1981
Biblioteca comunale
45 del
7.12.71
impegno spesa acquisto
libri
con dotazione iniziale di
circa 3000 volumi
6 del
24.04.75
impegno messa a disposizione locali, attrezzature
e servizi istituenda Scuola
materna statale, ai sensi L.
18.03.68, n. 444;
nel 1975 c’è la scuola
materna comunale,
gestita da un Istituto
religioso. Dopo un anno
e a seguito della richiesta di statizzazione,
la Suora che dirige la
materna comunica al
Comune che l’Istituto
aveva deciso di trasformarla in scuola materna
privata, con sede nello
stesso stabile comunale
pur senza un contratto
di af!tto
7 del
7.02.76,
5 del
22.02.77
e 16 del
25.09.78
richieste istituzione n. 2
sezioni Scuola materna
statale
istituita da Provvidetorato allo Studio
a partire dall’anno
scolastico 1978-79, con
due sezioni
Farmacia
59 del
16.02.79
(G. C.),
rati!cata
27.02.80,
n. 33
accoglimento richiesta ditta
privata e apertura Dispensario farmaceutico
Doposcuola
212 del
31.12.79
(G. C.),
rati!cata
21.04.80,
n. 100
istituzione sezione Doposcuola e nomina Insegnanti
Scuola materna statale
Raccolta differenziata
RSU
Miniclub
costruzione aree di
conferimento e dotazione
cassonetti di raccolta
1998
con fondi Comunità
Montana “B”
istituzione, con sede presso
la sala polifunzionale
2000
con fondi Comunità
Montana “B”
107
TERREMOTI CHE HANNO INTERESSATO
IL TERRITORIO di POGGIO PICENZE
Dati dell’Osservatorio Geo•sico di Macerata1
Anno
Mese
Giorno
Epicentro
Intensità
Intensità
Virtuale
a Poggio
(Scala
Mercalli)
1423
Novembre
10
Poggio Picenze / S.Demetrio nei Vestini
6.0
6.0
1461
Novembre
16
Lucoli
5.0
4.0
1461
Novembre
27
L’Aquila
10.0
9.0
1461
Novembre
27
Lucoli
8.0
7.0
1461
Dicembre
4
Lucoli
7.0
6.0
1461
Dicembre
17
Lucoli
6.0
5.0
1462
Gennaio
3
Lucoli
6.0
5.0
1462
Gennaio
4
Lucoli
6.0
5.0
1498
Aprile
11
Campo Imperat.
7.0
6.0
1498
Aprile
12
Campo Imperat.
7.0
6.0
1599
Novembre
5
Cascia
8.0
5.0
1627
Luglio
16
Accumoli
8.0
5.0
1639
Ottobre
8
Amatrice
10.0
8.0
1639
Ottobre
14
Amatrice
8.0
6.0
1639
Ottobre
17
Amatrice
8.0
6.0
1646
Aprile
28
Campo Imperat.
7.0
7.0
1672
Giugno
8
Montereale
7.0
6.0
1703
Gennaio
14
Norcia
10.0
7.0
1703
Gennaio
16
Pizzoli
8.0
6.0
1703
Febbraio
2
L’Aquila
9.0
8.0
1. Dati forniti da Antonio Panella e da ing. Claudio Panone
109
ANALISI CATASTO ONCIARIO
di Marco Manilla
113
Il Catasto Onciario è un documento importante per comprendere e
studiare la storia economica e sociale di una comunità, di un territorio. Si tratta
di una sorta di censimento attuato a cavallo tra la prima e la seconda metà del
Settecento nel Regno di Napoli.
Nel Catasto è fotografata la situazione demogra•ca dei singoli Comuni con una
analisi approfondita sulle composizioni familiari, sulle attività produttive, sui
possedimenti di beni mobili ed immobili: vengono citati i terreni e come venivano
coltivati, le località d’interesse agrario, la composizione dei nuclei familiari, l’età
dei componenti, il numero di animali posseduti da ciascuna famiglia. Grazie
a tanta solerzia, oggi abbiamo a disposizione un documento storico di enorme
importanza per comprendere appieno la composizione socioeconomica delle
comunità contadine dell’epoca.
Non a caso, lo studio dei Catasti Onciari si è sviluppato dopo l’affermarsi della
nuova visione storica introdotta da F. Braudel, il famoso storico francese che per
primo si occupò della cosiddetta storia della “cultura materiale” e cioè della storia
del quotidiano delle popolazioni del passato: non più i grandi avvenimenti ma i
non eventi della civiltà contadina. Questo nuovo modo di fare storia ricava le
sue fonti da una serie di documenti “innovativi”, come lo studio e l’analisi degli
archivi parrocchiali, dei contratti notarili e, appunto, dei catasti.
Alla base di questi studi, le analisi di demogra•a storica sulle composizioni
familiari e sulle implicazioni relative alle necessità di forza lavoro, con una
attenzione posta all’insieme delle risposte adattive che ogni comunità aveva
elaborato in relazione alle risorse territoriali.
Il Catasto Onciario, in questo quadro così complesso, diventa uno degli strumenti
di cui si servono i “nuovi” storici per scrivere la storia quotidiana delle comunità
contadine dell’Europra preindustriale. Uno degli strumenti, dicevamo, ma assai
importante; anche se il limite del Catasto è di offrire una fotogra•a statica della
composizione sociale dell’epoca, senza una continuità di analisi. E tuttavia, il
Catasto ci può suggerire numerose e preziose informazioni: ora proveremo ad
elaborarne alcune che si riferiscono al castello di “Poggio de Picentia”.
115
alcuna importanza, così come accadeva in tutti i centri di fondovalle o siti negli
altipiani minori. La riprova è presto dimostrata dal catasto. A Poggio si contano
soltanto 470 pecore: nulla dinanzi alle ventimila pecore di Calascio o Castel del
Monte. In ogni caso, quasi tutte le famiglie possedevano dalle cinque alle otto
pecore, che venivano utilizzate per una modesta produzione di latte, formaggio
e lana. Venivano gestite in comunità secondo criteri di reciproca convenienza
e solidarietà. Si costituivano infatti una o due grosse morre o greggi, che a
turno venivano pascolate dalle diverse famiglie. Tale compito veniva af•dato ai
pastorelli o pastorelle, ragazzi o ragazze molto giovani.
Il relativo benessere del nerbo centrale delle famiglie poggiane nella seconda
metà del Settecento, si può spiegare quindi in un altro modo: abbiamo detto degli
scalpellini e dell’arte della pietra e questa attività non va sottovalutata nelle sue
ricadute positive nell’economia del paese e anche nella creazione di una mentalità
più aperta. Ma la vera spiegazione, come abbiamo accennato, la possiamo trovare
nella fortuna di poter contare su attività diversi•cate. Nel paese, come risulta
dal Catasto, la maggior parte dei terreni venivano coltivati a seminativi, e da qui
l’importanza dei bovi e degli asini per arare il terreno. Nei terreni a seminativi si
coltivavano soprattutto cereali, legumi e patate: i tre alimenti che garantivano il
sostentamento alimentare della popolazione. Ma dal Catasto risulta che le colture
suscettibili di interesse economico erano altre: la coltivazione dello zafferano in
primo luogo, ma anche quella dei vigneti.
Poggio, il paese delle vigne
Dal Catasto Onciario risulta che quasi il 90% delle famiglie poggiane
coltiva dei vigneti, e questo è veramente un dato interessante. Vigneti che
producevano vini si presuppone rosati, a sentire le testimonianze degli attuali
ottantenni che ricordano le coltivazioni ed i racconti orali dei propri padri e
nonni e così si arriva facilmente ai primi dell’Ottocento e quindi, grossomodo, al
periodo che stiamo considerando. Insomma, il vino per Poggio ha rappresentato
una economia non dissimile per importanza a quello della pietra bianca.
Dall’analisi del Catasto si nota che le 43 famiglie che hanno uno o due bovi,
tutte coltivano diversi vigneti, anche in misura consistente. Bisogna compiere
uno sforzo di immaginazione e vedere un territorio pieno di vigneti allevati ad
alberello e consociati con centinaia di piante di melo, pero, sorbo, mandorlo e
melocotogno.
Insomma, per Poggio la produzione del vino costituiva una attività determinate
e consistente; e così, secondo il catasto, le vigne si estendevano nei terreni di
“Mariale”, del “Caione”, dei “Colli” ed anche a “Collegrasso”, “Piedi le Vigne”,
“Piedi la Costa”, alle “Pedagne”. Località ben note anche oggi, ma anche in luoghi
come “Miavècchje” e “dell’Olmo”.
Dall’analisi del Catasto risulta che nel paese si coltivavano ben 920 terreni
vignati, di cui 720 coltivati da Poggiani e 200 da proprietari forestieri di paesi
vicini, come Picenze e Fossa. Si tratta di un dato straordinario e come si può
facilmente desumere, siamo dinanzi ad una vera attività economica di una grande
123
e ragazzi dell’epoca erano preziosi per raccogliere i •ori
viola di questo bello e prezioso bulbo, ma i bambini
venivano coinvolti anche per le lavorazioni meno dure
alle cave di pietra bianca.
Poggio, il paese degli scalpellini.
Le cave della pietra gentile del Poggio sono
state famose per secoli. Basti pensare che il più
grande scultore aquilano del Quattrocento e cioè
Silvestro Aquilano, utilizzò la pietra “gentile” per
opere di grande pregio artistico, come il monumento
Pereira alla basilica di San Bernardino da Siena o il
monumento al cardinale Agni•li, presso il Duomo.
Ma anche il monumento a Papa Pietro Celestino V,
5. Cavatore al lavoro.
presso la basilica di Santa Maria di Collemaggio,
opera di Girolamo da Vicenza, è in pietra “bianca gentile”. Detta pietra venne
anche utilizzata per numerose altre opere sia artistiche che artigianali e di sovente,
con il diretto coinvolgimento dei mastri scalpellini del Poggio.
Il Catasto Onciario ci informa che nel paese alla metà del Settecento, v’erano circa
una trentina di scalpellini, di cui diciotto capofamiglia. Ma a questo numero di
scalpellini riconosciuti come tali, va sicuramente aggiunto un numero doppio di
cavatori e aiuti scalpellini. Spesso erano i •gli, i nipoti, le donne, a svolgere questi
lavori. Dunque, a dire poco, erano direttamente interessati al lavoro nelle cave di
pietra bianca, un numero di persone calcolato tra le 60 e le 80. Ma quali lavori
eseguivano i nostri scalpellini a quell’epoca?
A tale riguardo ci aiutano i contratti notarili che sono stati messi a disposizione
dal prof. Colapietra: vediamone qualcuno. Il 26 agosto del 1776, gli scalpellini
Poggiani Simone Damiani, Pietro Paolo Rainaldi e Gian Caterino Ianni, vengono
incaricati dalla Confraternita del Suffragio di L’Aquila, di effettuare la facciata
nella chiesa in pietra bianca del Poggio. Il 16 giugno del 1755 mastro Bernardino
Grimaldi riceve l’incarico di “nobilitare la chiesa” di Santa Maria del Suffragio;
nel 1757, gli scalpellini Ferdinando, Pietro Paolo e Innocenzo Rainaldi e Bonifacio
Damiani, tutti mastri scalpellini del Poggio, ricevono l’incarico di costruire la
fontana della piazza di Paganica; nel 1767 mastro Beranardino Grimaldi e Lorenzo
Pacetta, ricevono l’incarico di costruire il nuovo altare in pietra lavorata della
chiesa di Sant’Eusanio Forconese; nel 1725, il cavaliere Antonio Quinzi, incarica
i mastri Tommaso Biordi e Nicola Damiani di Poggio Picenze, di fare il portone
principale, le •nestre e balconi nuovi nel suo palazzo; Giacomo Biordi viene
incaricato nel 1756, di costruire 36 scalini in pietra del Poggio per il monastero di
San Basilio. Abbiamo citato alcuni dei contratti notarili che riguardano l’epoca di
cui ci stiamo occupando, ma ancora più numerosi sono i contratti che riguardano il
Seicento ed i secoli successivi sino ai nostri giorni. Dunque un’attività importante
per l’economia del paese. Tutti gli scalpellini citati nei contratti li ritroviamo nel
126
questa accade nel mese di Aprile, va col favore della crescente calda stagione
prosperamente nel suo termine. Piccola ma buona è la sua qualità, che vendesi
nelle provincie italiane non solo ma anche all’estero”.
Le famiglie poggiane
In quanto alle famiglie, i cognomi più comuni citati nel Catasto e che
si ritrovano ancora oggi, sono i Galeota, i Taddeo oggi trasformati in Taddei; i
Miconi, e poi Ianni, Urbano, oggi Urbani; i Funari, Massaro e Masci, Biordi e
Grimaldi. E poi ci sono anche i Rainaldi, i Damiani. Altri cognomi sembrano
essere oggi scomparsi o in forte diminuzione, come i Cioci, Sperduto, Vitano,
Scioco, Manetti, Rocca, Filauro, Cherubino, Fratacchione, Di Pietro, Tartaglia,
De Vecchis, Zaccagnini, Falcone, Di Iorio, Giampietro, Ciminetti e Cherubino.
Già a quel tempo, comunque, i cognomi oggi scomparsi rappresentavano una netta
minoranza, mentre la maggior parte delle famiglie aveva cognomi oggi ancora
molto noti, come Galeota, Taddei, Ferrari, Masci, Urbani. Le famiglie Biordi,
Grimaldi e Rainaldi o Ranieri, erano dedite per lo più all’attività di scalpellino.
Così pure i Damiani, cognome oggi quasi scomparso, come i Grimaldi, un
cognome importante per l’identità del paese ed invece oggi quasi assente.
Il bilancio della Università del Poggio nel Catasto
Dall’analisi •nale del Catasto Onciario si può notare come la ricchezza del
paese fosse comunque distribuita in modo abnorme nelle mani di pochi soggetti.
Dalla “Collettiva “ •nale dei cittadini, e cioè dalla contabilità •nale del Catasto,
appare come tutte le cento famiglie del paese siano tassate per un patrimonio di
4.600 once, i forestieri non abitanti nel paese per 1.600 once, i forestieri chierici
per 314 once e le chiese e confraternite per 336 once, per un totale complessivo
di 6.928 once.
Ciò signi•ca che tra chierici, baroni, forestieri, famiglie ricche, quasi la metà delle
6.900 once costituivano i possedimenti dei vari notabili. Alla popolazione del
Poggio rimaneva la quota residua di ricchezza e così circa 80 famiglie dovevano
dividersi i possedimenti valutati per le restanti 3.550 once.
Interessante anche il bilancio comunale, se così si può de•nire.
La Regia Corte ottiene un tributo pari a 468 once e due non precisati duchi
ne ottengono altrettanti (probabilmente quelli di San Demetrio e di Paganica,
con•nanti con Poggio Picenze, entrambi napoletani, rispettivamente delle
famiglie Arcamone e Costanzo).
129
DELL’EMIGRARE
di Gianfilippo Galeota,
Antonio Galeota, Marco Manilla,
Gian Battista Taddei
133
Déste
di Gian•lippo Galeota
Déste richiama alla mente luoghi lontani, “vénne d’ ammónda déste “, “éve
d’ abballa déste “.
Il senso probabile è “ d’ extra”, da un originario “extra moenia” a indicare chi vive
all’ esterno della cinta muraria e non è parte della comunità Pujare; termine elevato,
in quanto a contesto, a parola simbolo per signi•care ciò che è distante, “ altro “, dai
con•nanti ai venditori ambulanti, •no ad evocare la lontananza senza ritorno delle
contrade d’ oltremare.
Il déste più prossimo sono i con•ni geogra•ci.
Relativa è la distanza, a rendere vicini o lontani i con•nanti sono le relazioni più
o meno intense e i legami che ne scaturiscono, gli interessi, spesso la mentalità.
Picènze é quasce ru Póje e il nome stesso, accomunandoci, lo evidenzia.
Varesciane si sottrae alla nostra vista per essere posto oltre il dosso di Culle•óre.
Paese di pastori su pe lle Lòcce, la sua gente è solida e rocciosa; vi si parla un
dialetto vilipeso e irripetibile per noi e del tutto diverso da quello del circondario,
un’ isola linguistica, quasi certamente trapiantata qui da altri lidi, probabile la
Puglia.
Con Varesciane e Picènze i rapporti di vicinato sono rinsanguati dalle frequenti
combinazioni matrimoniali. Picenzare e Varesciane sono da noi molte madri di
famiglia da lunga consuetudine; per Varesciàne la non grati•cante tradizione di
riserva di mogli di secondo letto, difatti ce vanne a repijjà la mòjje i vedovi.
Picènze è il vicino per eccellenza e come tale il naturale oggetto di prese in giro e
di battute, spesso di vilipendio. La rivalità sfocia sovente nell’ aggressione. Con
i Picenzare se fà alla razze e ce s’ appellicce pressoché quotidianamente, campo
di battaglia le terre di con•ne.
Sui Picenzare s’ ànne recacciate le storielle più amene. Ne ho sentito di assai
divertenti come quella della jénghe che issata •n sul campanile, in modo che
potesse leggere l’ ora dal nuovo orologio, ne rimase inevitabilmente strozzata,
o quella di quando, in un azione di combattimento méssene ri turzitte n gure
ajj’ àsene per bombardare le nostre trincee, loro che godevano di una posizione
naturale più favorevole per essere posti più in alto. Provate a immaginare l’
135
ignominiosa ritirata dei nostri sotto la pioggia di quegli insoliti proiettili.
Si appioppavano ai •eri rivali le cose più incredibili: se c’ era un fatto abnorme
si poteva esser certi ch’ évene state ri Picenzare, erano stati loro a calare l’ asino
nel pozzo per acchiappare la luna,… e sono ancora loro a mustrà le reliquje i ri
Sande alle Palummèlle.
La nostra ironia comunque era altrettanto sonoramente contraccambiata.
Fòsse sta all’ òpeche, per essere addossato ai piedi della montagna. Il sole vi
cala, specie d’ inverno, quando da noi, messi nell’ opposta esposizione, c’ è
ancora un bel pezzo di giornata da trascorrere. Ad un tiro di schioppo, è selvatico
e inospitale per noi e alle tèrre i le piane i rapporti fanno scintille rasentando
spesso la rissa.
Con gli altri vicini le relazioni, in capo quelle matrimoniali, sono più rade. Le
aristocratiche Sandemetrane ad esempio, che godono dell’ invidiabile privilegio
de ne jjì n gambagne, disdegnano la vita che si fa ajju Póje. A mia memoria,
e parlo ovviamente di ieri, donne di
Sandimétre maritate da noi non ne
risultano.
Si può invece far menzione de
na Fusselane (Fòsse non è certo
appetita dalle nostre donne in quanto
vi si fatica troppo), na Pajanechése,
na Pischiolane, ddu Pratelése, na
Sandemartine i na Sandesane, e il
nome del luogo di origine di queste
mogli, proprio per la loro sparuta
presenza è assurto a patronimico di
famiglia.
L’altro déste sono i venditori
ambulanti.
Fin sui primi anni ’50 la macchina
è pressoché sconosciuta nelle nostre
contrade. Si va a piedi, tutt’ al più
a groppa d’ asino o in carretto,
immersi in una condizione ancora
squisitamente contadina, il rapporto
interpersonale è pane del vivere
quotidiano, spesso si va in compagnia
e specie sotto le feste della buona
stagione il venerdì del mercato di
Sandimétre la via di Mariale, in terra
battuta come tutte le altre, quelle del
1. Cungiatóre al lavoro
borgo comprese, è cicaleccio di voci
136
più profonda del cuore degli emigrati negli angoli più disparati del pianeta; ai
sogni, che scavalcando in escursioni notturne le barriere del tempo e dello spazio
si inoltrano a riportare chi se tróve lundane sotto il nostro cielo, nelle nostre
campagne; se penso a colui che ancora dopo anni, e tanti, che se n’à jite, su dieci
volte che sogna, nòve vóte se ne revé ajju Póje – non frammenti dunque, ma
quell’ identità di fondo, celata o sommersa nella frenesia del vivere quotidiano,
è quel “ji só de ru Póje“ uguale a se stesso e irriducibile, tanto più per coloro
che non ebbero, per essere partiti già ómmene fatte, la possibilità concreta di
rifondarsene una nuova.
Ci vorrebbe giusto un immenso album di fotogra!e per parlare meglio di addii
e separazioni o poter osservare lo svolgersi della scèrpe pujare là dove si è
trapiantata.
141
Clandestini
di Antonio Galeota
Quando viene diffusa la notizia che c’è stato uno sbarco di
clandestini, non sono in pochi ad inveire contro l’invasione indebita e dannosa di
cittadini extracomunitari, secondo una interpretazione del fenomeno ascrivibile
a chi ha già dimenticato che un movimento di intensità addirittura superiore ha
riguardato, nemmeno moltissimi anni fa, proprio gli Italiani, approdati spesso
clandestinamente, con ogni mezzo e a milioni in tutti i Paesi occidentali, a formare
quella che Gian Antonio Stella ha chiamato l’Orda 1.
In questa de!nizione è racchiusa l’ostilità addirittura razzistica riservata al nostro
popolo emigrato alla !ne dell’Ottocento soprattutto dall’opinione pubblica dei
Paesi di lingua inglese, che rispecchia in modo speculare i giudizi e i comportamenti
di chi è oggi contrario per principio all’immigrazione.
Senza capire che semmai il problema della società e del Governo italiano è quello
di facilitare l’integrazione e di regolamentare la posizione giuridica di chi è venuto
fra noi per lavorare, per crearsi un avvenire meno avverso, contribuendo a dare
comunque un impulso positivo ed indispensabile alla nostra economia, accettando
di dedicarsi ai lavori che gli Italiani non vogliono più fare. La loro esperienza è
la stessa fatta dai nostri emigranti, dai quali non si distinguono per attitudine al
lavoro duro e per i sacri!ci che sono disposti ad affrontare per crearsi una migliore
posizione economica e sociale.
Il terrorismo di matrice islamica sta tragicamente segnando i Paesi occidentali
e costringe questi a maggiori controlli !nalizzati a ridurre la clandestinità degli
extracomunitari presenti sui loro territori, ma non può portare all’ equiparazione
tra terrorista e appartenente a un’etnia professante la fede musulmana: sarebbe
ingiusto tanto quanto lo è stata l’estensione della quali!ca di ma!oso, propria
di una esigua minoranza, a tutti gli emigrati di origine Italiana, negli USA di
qualche decennio fa. Peraltro, i dati uf!ciali sulla criminalità in Italia evidenziano
un bassissimo tasso di delinquenza proprio tra gli immigrati regolarizzati.
Senza nasconderci che ad orientare l’eventuale opinione malevola nei confronti
degli immigrati concorrono sia i pregiudizi razziali sia l’occultamento, o almeno
1
142
Cfr. Stella 2002.
la sottovalutazione, della nostra emigrazione ad opera della storiogra•a uf•ciale,
dove gli emigranti Italiani così •gurano: “erano partiti, •ne. Erano la testimonianza
di una storica scon•tta, •ne. Erano una piaga da nascondere, •ne”1.
La realtà evidenzia invece l’imponenza del fenomeno migratorio italiano, che
le nude cifre mettono in risalto più di qualsiasi considerazione: 29 milioni di
cittadini partiti dall’Italia in cento anni, dal 1876 al 1976, di cui poco più di un
terzo sono poi rientrati in Italia!
Conseguentemente, è stato calcolato che oggi nel mondo ci sono circa 60 milioni
di cittadini di origine italiana.
L’Abruzzo ha dato un numero consistente di emigranti, soprattutto la Provincia
aquilana, al•ne ridotta ad un osso spolpato.
Tra di loro, la rappresentanza poggiana è ovviamente minima, ma signi•cativa per
la distribuzione che abbraccia quattro continenti e più di un centinaio di Comuni
esteri e perciò una campionatura signi•cativa e importante, dato che riguarda una
popolazione superiore a quella degli attuali residenti Poggiani.
Sui concittadini all’estero si sarebbe forse potuto scrivere un libro per riportarvi
una ricca collana di racconti di vita, di episodi più o meno divertenti e di
esperienze vissute e segnalate direttamente dagli interessati, ma non c’è stata
la risposta che ci si attendeva dopo che, nel 2003, sono state inviate centinaia
di note agli indirizzi conosciuti. Forse uno scotto da pagare, dopo anni di non
comunicazione a livello uf•ciale, e per ciò un’iniziativa da ripetere ancora anche
per riuscire a costruire l’Anagrafe degli Emigranti Poggiani. Le poche storie di
vita da emigrante che seguono, sono state selezionate tenuto conto del diverso
contesto geogra•co, lavorativo e sociale in cui sono di fatto inserite.
Esse derivano da interviste fatte alle persone che vi •gurano o dalla conoscenza
fortuita degli episodi riportati, con l’eccezione di una testimonianza diretta di vita
vissuta da emigrante.
Domenico Boccabella, o più giustamente Mimine o Nóvande per la mole
e la forza, a diciassette anni si era stancato di jì a jurnate, senza che gli riuscisse
di metter da parte molti soldi, ed era partito per la Francia assieme ad altri sette di
Picenze di Barisciano, il paese del padre, nessuno essendo fornito di contratto di
lavoro.
Era il 1947 e la Francia, come il Belgio e il Lussemburgo, cercava mano d’opera
per la ricostruzione post-bellica e per le miniere di carbone e di ferro, reclutando
muratori e minatori all’estero e in qualsiasi modo.
Nóvande e i suoi compagni, nel frattempo cresciuti di numero •no a una ventina, si
avvicinarono alla frontiera da clandestini, accompagnati •n nei pressi da una guida
del posto, il quale aveva preteso un compenso pari a tre mensilità dell’epoca per
ognuno degli espatriandi.
Era la •ne di ottobre e il punto scelto dall’esperto per valicare il con•ne era il
Piccolo San Bernardo, già ricoperto di neve alta alle ginocchia e traf•cato da altri
143
I soccorsi (v. foto 9) scattarono immediatamente, ma
l’espansione rapida degli incendi non permise un’azione
ef•cace, tanto che alla •ne furono solo dodici i minatori
scampati.
Dalle indagini condotte dal governo belga, risultò che
la ditta che gestiva la miniera aveva colpevolmente 8. Miniera Bois de Crazier in •amme.
trascurato ogni misura di sicurezza e, ciò nonostante, dopo Marcinelle, 8 Agosto 1956
qualche anno i tribunali belgi assolsero i responsabili!
Gli Italiani scomparsi in quella immane tragedia furono
136 e, tra questi, 60 abruzzesi di cui ben 22 provenivano
dal piccolo comune di Manoppello.
Il Presidente Carlo Azeglio Ciampi conferirà alla memoria
di ognuno dei 136 caduti sul lavoro una medaglia d’oro
al merito civile il 2 giugno 2005. Con la seguente
motivazione: “Lavoratore emigrato in Belgio, in seguito
alla tragica esplosione di gas veri•catasi nella miniera
di carbone di Marcinelle, rimaneva bloccato insieme ad
altri 135 connazionali, in un pozzo a più di mille metri 9. Primi soccorsi alla miniera Bois de Crazier.
Marcinelle, Agosto 1956
di profondità, sacri•cando la vita ai più nobili ideali di
riscatto sociale. Luminosa testimonianza del lavoro e del sacri•cio degli Italiani
all’estero, meritevole del ricordo e dell’unanime riconoscenza della Nazione
tutta”.
Scamparono a una tragica •ne tre nostri minatori che lì lavoravano,
due da qualche anno già cittadini poggiani, Antonio Di Carlo e Gino Pierluigi;
il terzo, Paolo De Martino, lo sarebbe diventato l’anno successivo sposando
anche lui una Poggiana.
Per loro e nostra fortuna i due erano appena tornati per le vacanze a Poggio
Picenze e l’altro alla regione di origine, la Sicilia.
Tornati in Belgio, non scesero più nei pozzi delle miniere, cambiarono lavoro e
dopo qualche tempo tornarono in Italia con le loro famiglie.
Dispiace sottolineare che nel periodo di vigenza del citato accordo, dal 1946
al 1963, furono più di mille gli Italiani morti nelle miniere belghe: stavolta il
contributo solito offerto all’economia Italiana dagli emigranti meridionali e
friulani non era stato solo in termini di rimesse di carbone (e di petrolio, per
analogo accordo stipulato con il Venezuela, tenuto a dare all’Italia un barile di
greggio per ogni Italiano lì emigrato), ma vi si aggiungeva un contributo pesante
di giovani vite umane.
Fino a metà degli anni Sessanta, l’industria estrattiva ha continuato ad essere
•orente, poi è entrata in una crisi irreversibile a causa del favore sempre
crescente incontrato dal petrolio sia nella produzione di energia elettrica che
nel riscaldamento delle case e dalla plastica, che ha ridotto di molto l’utilizzo
151
A New York
di Antonio Galeota
L’Amèreche te fa cambà, ma nen ge se sta bbóne. Mó só penziunate
i pijje na bbèlla penzióne ippure nen va bbóne. Ji i Marìe passéme le jurnate
quasce sèmbre ècche déndre.
Così zì Manfrède Iovenitti, che era in compagnia della moglie, zà Marìe i
Ruscechéjje, aveva incominciato ad intrattenere me e mia moglie nella bella casa
al quartiere Astoria di New York, subito a nord di Brooklin, dove nel giugno
2001 eravamo •nalmente andati a trovarli.
Ajju piane de sòtte cj’àbbete Róssane, fìjjeme, che lla famijja sé. Ru !jje maschje,
Altèrio, nen sta lundane i cce vé a truvà spésse u ce vé a pijjà pe stasse assiéme.
Inzómme stéme che jji !jji nóstre: éve quéle che vulavamme, che nen gj’à fatte
revenì in Italie. Ru penziére mé pèrò sta sèmbre ajju Póje: ècche pecché nen
stènghe bbóne all’Amèreche! Vite nepó, ji i Marìe séme partite c’avamme ggià
perzóne fatte. Tenavamme r’amici nóstre, che ppó nen te ri refà, i stavamme
sèmbre m mèzz’alla ggènde.
Ji !céve ru ferrare i nen stéve maje sóle alla bbuttéghe, c’alle prime la tenéve a
Piazza Castéjje i ppó cchjù vecine a ccase, a Viaranne.
Só lavurate fórte !n’a qquande ce só state le bbéstje da ferrà u r’attrézze da
lavóre da fà u d’aggiustà. Ma nen de crède: se discutéve pure de pólìteche, che
mm’à sèmbre piaciute ru partite de ri lavóratóre; se parléve pure de ri fatte de la
ggènde, che se sapéve sèmbre tutte pecché ce stéve chi venév’a repurtà..
Se putéve pure liticà, ma passéve sùbbete. Piuttóste se scherzéve i lla sére évene
risate, a sta assiéme afóre, l’istate, a raccundà ri fatte che succedévene, quiri
che cce !cévene rite ló stésse pure se jji cunusciavamme, u a ggiucà a ccarte alle
candine.
Quande succedéve na disgrazie u ce stéve da dà na mane ajji lavóre rósse cume
le mète u a vennignà, se !ciavamme in quattre pure se sapavamme ca nisciune ce
paghéve. Ma putéve succède a ttì i éve la stéssa cóse!
Fin’a qquande s’à putute tirà nnanze, séme state bbóne: ji guadagnéve cchjù de
chi jéve a jurnate, ma me tucchéva suvà pure all’immérne.
Dóppe só venute ri trattóre i jji tratturéjje c’ànne fatte scumbarì sie le bbéstje che
163
A Santa Fè
di Marco Manilla
Al ritorno annuale da Santa Fè, Ezio Urbani parla volentieri degli anni
vissuti in gioventù a Poggio Picenze e, quindi, in Argentina dopo essersi imbarcato,
come tantissimi altri Italiani (v. foto 17) nel porto di Napoli:
“oh, certo che mi piace parlare di Poggio, mó tutti lo possono vedere, io sto
in Argentina a 13.000 chilometri e ritorno tutti gli anni. Qui ci stanno i bei
ricordi della gioventù e di tanta gente simpatica. Si stava proprio bene e in
casa mia, per fortuna, non c’è stata mai la fame nera.
Poi arrivò la guerra e cambiò tutto, non c’era lavoro, non c’era un soldo e si
soffriva e allora scrissi ad uno zio, Giuseppe Galeota, che era emigrato in
Argentina per andare un po’ di anni a lavorare per guadagnare un po’ di fortuna
e poi tornare. Il mio desiderio era di restare a Poggio, con la mia compagnia ci
divertivamo tanto, sempre allegria, sempre baldoria; si ballava, avevo una bella
!danzata: era proprio bello in quei tempi della gioventù a Poggio. Io quando
ero ragazzo lavoravo in campagna, c’era una agricoltura primitiva ma i prodotti
17. Emigranti in partenza dal porto di Napoli.
169
A Torino
di Gian Battista Taddei
L’emigrazione: un fenomeno necessario che ha avuto inizio alla •ne
dell’Ottocento con l’espatrio verso l’America e che nel Secondo dopoguerra ha
avuto un •usso molto intenso ed esteso, diretto prevalentemente nei vari Paesi
europei, richiedenti manodopera per la ricostruzione dopo la guerra. Anche
mio padre Felice Quirino è stato in Francia dal 1952 al 1967 e quindi io, •glio
d’emigrante, emigrante io stesso, non all’estero ma in Piemonte. Praticamente ho
fatto la staffetta con mio padre.
Ho vissuto e vivo ancora questo fenomeno e mi sento di rappresentare idealmente
tutti gli emigranti, partiti da Poggio Picenze, anche quelli stabilitisi nelle varie
città italiane.
Essere andati per lavoro a Roma, Torino, Milano, oppure in continenti lontani,
vuol dire essere comunque lontani dal nostro Poggio Picenze.
Certamente, il senso di distacco è direttamente proporzionale alla distanza e, quanto
questa è notevole e più dif•cile da superare per tornare seppure occasionalmente,
tanto più la nostalgia è forte, ma questo è il solo elemento di differenza fra tutti
noi.
Trasferendoci, indelebili ci sono rimaste quelle istantanee del paese, cariche di
ricordi al momento della partenza, sempre sperata provvisoria, ma poi rivelatasi
di lunga durata e spesso de•nitiva.
Quante sensazioni consumate, quanti momenti •ssi al ricordo!
La poesia che segue è scaturita da questo sentire e riguarda e rappresenta tutti noi
che abbiamo lasciato il paese:
POGGIO PICENZE
Per questa mia lontananza,
altre coordinate.
E come un orologio
che da un fuso all’altro
non muta l’ora, questo cuore
ha mantenuto
quelle coordinate sue d’origine,
perché sempre è in esse,
quella fantastica città
171
che, piccolo, sentivo in te.
E quando ritorno, per questo forse,
mi sei, o ti sono, un po’ straniero
perché vedi solo
la mia faccia nascosta di luna:
dettaglio, diaframma trasparente,
con un solo gesto superabile.
…So dalle radici la tua storia e so delle tue glorie non risapute: quell’arte tua
della lana nel Rinascimento, vanto tuo a L’Aquila e fama in Europa di questa; ma
soprattutto quella “gentile” tua pietra bianca, sintesi di arcaici e nuovi signi!cati,
e umile ma dignitosa sorella del marmo di Carrara, fatta palazzi e monumenti
a Roma e Terni, a L’Aquila e Milano, altrove. Intense, quelle mie soste nei
laboratori e nelle strade dei tuoi artisti della pietra, e mi piaceva indovinare le
!nali forme di quelle sculture.
Un piccolo Michelangelo mi sentivo, insieme con altri a scalpellare quelle tue
tenere pietre in cose di gioco inventate, personalizzate e levigate in concorrenza
per solari giochi, inventati anch’essi e creativi.
Ora le secolari cave di pietra, abbandonate, ti sono come ferite rimarginate:
riaperte, saranno altri miracoli di bellezza. E inoltre hai in serbo nelle tue distese
un tubero odoroso per la gioia dei palati, quel tartufo sì prezioso, che prima
nemmeno raccoglievi!: è di beni generoso il tuo sottosuolo, come la tua gente,
sempre…
Quelle “P” iniziali
del tuo duplice nome, dentro
ho sempre scolpite
a caratteri di indicibile affetto
e,
!nirà un giorno,
questa non forzata e non spontanea lontananza
ché non ci sarà ancora alternanza di clessidra
a misurare i ritorni e le partenze,
come ora,
ma un tempo solo,
quello per ritrovare la fantastica città.
Questo è il nostro paese che da piccoli abbiamo visto fantasticamente
172
VITA QUOTIDIANA
di Terenzio Ventura, Marco Manilla, Gian Battista
Taddei, Gian•lippo Galeota, Antonio Galeota
177
Tempi di guerra
di Terenzio Ventura
Il ricordo del periodo della Seconda guerra mondiale per chi all’epoca è
un bambino risulta in parte nebuloso ed in parte senza un riferimento cronologico
preciso. I giovinetti ed anche i bambini respirano l’aria del regime e di conseguenza
sentono più volte “Giovinezza” ed altri inni del fascismo, li memorizzano e li
cantano. Le città ed i paesi si svuotano degli uomini che vanno in guerra. Restano
a casa anziani, donne e bambini.
Ricordo un personaggio garbato come tutti i contadini e simpaticissimo, Ru
pennese, il padre di Bettina, la mamma di Ernesto Taddei, che frequenta casa
nostra, cioè la casa di mia nonna Angelina Cipolletta. Puntualmente ascolta
con estrema attenzione ogni sera il comunicato radio con un orecchio vicino
all’altoparlante della radio.
Quando entrano i tedeschi a Poggio, i pochi apparecchi radio del paese
vengono requisiti. A casa mia riusciamo a ricomprare un vecchio apparecchio
radio a valvole, più di dieci anni dopo.
L’oro per la patria è stato già donato da parte di tutte le famiglie.
Berardino il postino che quotidianamente distribuisce la posta a Poggio, Picenze,
Villa e Petogna, partecipa indirettamente alla gioia dei familiari ogni volta che,
sorridente, consegna le lettere dei combattenti.
Ascolto la lettura delle lettere di mio padre che all’epoca lavora in Cirenaica
come contabile della Ditta Sicelp che costruisce strade e successivamente in
Iugoslavia a Scutari. Qui fa visita al fratello Nicola, sottuf•ciale della •nanza
che è stato ferito e sta in Ospedale. Rosmundo, il fratello minore di mio padre, si
è arruolato in Aeronautica come marconista di bordo e si salva per il rotto della
cuf•a a seguito di un ammaraggio di fortuna nel mar Tirreno. Il fratello maggiore
di mia madre, Vincenzo, è a Roma arruolato nella Polizia di Stato.
Il fratello minore di mia madre, Nazareno, Nèno, è caporal maggiore degli alpini
della Divisione Iulia e partecipa alla campagna di Russia insieme con Erminio
De Bernardinis suo cugino e con Paci•co Gine Speranza. Questi ultimi, dopo
peripezie indescrivibili, riabbracciano i loro cari.
Ricordo l’angoscia di mia nonna Angelina, che trascorre per anni notti insonni ad
aspettare invano il ritorno del •glio disperso, Nèno, di cui non si avrà più alcuna
notizia.
Una analoga situazione è vissuta da molte famiglie, che hanno i propri giovani sparsi
tra i vari fronti della guerra (v. foto 1): venticinque poggiani perdono la vita a causa
della guerra.
179
La famiglia, la società, la fede
di Terenzio Ventura
.
Negli anni Quaranta e Cinquanta la famiglia tiene uniti i propri componenti
con l’autorità dei genitori che non è oppressiva. In questa realtà l’obbedienza,
termine che oggi non si usa quasi più, è praticata a tappeto, non solo nei confronti
dei genitori, ma anche nei confronti delle persone adulte e principalmente delle
persone anziane.
Lo stato di indigenza di molte famiglie rappresenta la norma nei nostri paesi con
un’economia agricola povera. Il danaro che serve per acquistare beni di prima
necessità viene ricavato dalla vendita delle mandorle, delle noci, del grano, dello
zafferano.
Nelle case dove vi sono più •gli maschi adolescenti o giovani, può succedere che
chi prime se rizze se vèste a testimoniare la non abbondanza di indumenti. Va
ricordato che in quegli anni i sarti rigirano le giacche e i cappotti per poter utilizzare
anche la parte di tessuto che è a contatto con la fodera, che ovviamente è nuova e
non scolorita o consumata .
Nella prima metà degli anni Quaranta molte donne sono i veri capi famiglia
poiché i mariti sono in guerra. I •gli aiutano la famiglia come possono.
Le porte delle case hanno tutte la chiave nella toppa della serratura. I
vicini ed i parenti chiamano ed entrano in casa senza dif•coltà.
I bambini ed i ragazzi trascorrono buona parte della giornata nella strada in cui i
pericoli sono rappresentati esclusivamente dal passaggio di qualche carretto.
Sono diversi i bambini che nel periodo bellico frequentano l’asilo infantile delle
Suore della Dottrina Cristiana che ha sede al Codacchio, nella casa del notaio
Galeota. Suor Pierina e Suor Rina si dedicano con tanto amore ai bambini.
La mortalità infantile negli anni Quaranta è molto alta e il suono della campanella
che accompagna i funerali con piccole bare bianche si fa sentire molto spesso.
Le donne partoriscono in casa e, solo verso la •ne degli anni Cinquanta qualche
donna va a partorire in Ospedale. La Cassa Mutua negli anni Cinquanta, previa
certi•cazione medica, permette la consegna da parte delle Farmacie del “pacco
ostetrico” che contiene tutto quanto necessario perché la Levatrice possa assistere
la partoriente. L’allattamento materno è praticato da tutte le donne, salvo che non
abbiano latte suf•ciente alle esigenze del bambino; talora l’allattamento, specie
nelle famiglie povere, si protrae anche oltre i due anni di vita del bambino. Non
si trovano in farmacia latti particolari e il succedaneo dell’allattamento naturale è
rappresentato dal latte di mucca diluito opportunamente nelle prime settimane e
nei primi mesi di vita. Per quei bambini che hanno intolleranza per il latte bovino,
si ricorre al latte d’asina che non è assolutamente facile da reperire. L’obesità
184
parte sollecito alla volta della sua abitazione per chiedere notizie ed eventualmente
dargli l’assistenza spirituale. Se ha appreso che qualche parrocchiano che non
frequenta la chiesa è ammalato, con molta discrezione, preferibilmente nelle ore
serali, si reca nella sua abitazione e con qualche pretesto riesce a parlare con il
malato e, solo eccezionalmente questi ri•uta l’assistenza religiosa.
La novena di Natale richiama molte persone in chiesa come pure la celebrazione
della messa di mezzanotte. Le donne anziane sono sempre armate dell’inseparabile
scaldino con cenere e brace.
Dopo il Natale i contadini hanno il loro da fare con la macellazione
dei maiali. Il maiale fornisce il condimento quotidiano con il lardo, lo strutto ed
i guanciali. Le salsicce vengono consumate con la parsimonia dovuta. I prosciutti
spesso e volentieri vengono venduti per ricavarne denaro da spendere per la
famiglia.
Con il piano Fanfani (v. foto 10), negli anni Cinquanta viene fatto il rimboschimento
di Colle Cenerale. Gli operai partono al mattino e, nella stagione invernale
rientrano alla sera. Sono in molti a pregare perché all’indomani faccia bel tempo.
In caso di pioggia o di neve non si lavora e non si prende il salario.
Questi anni sono caratterizzati da una solidarietà che oggi non esiste. Se due
donne vicine di casa oggi questionano anche ad alta voce, l’indomani è tutto
•nito e ci si rispetta più di prima.
Per ben due volte il pagliaio di Gianni, Romaldo e Quintino Galeota di Miccheline
situato in via del Fossato che parte alla casa di Sciacquitte e arriva alla Fonte
del Fossato, è stato teatro di un incendio sicuramente
doloso.
La campana suona a martello e tutti i paesani si precipitano
per aiutare fattivamente a spegnere l’incendio. Le donne
portano conche d’acqua sulla testa, gli uomini portano
secchi d’acqua e, senza creare intralcio per ore lavorano
alacremente sino a quando l’incendio è spento. Quando
arrivano i vigili del fuoco il problema è quasi risolto.
Si soffre per le disgrazie altrui. La gente è rassegnata e
quasi sempre riesce ad apprezzare le poche cose che ha
anche se molti sogni rimangono nel cassetto. I contadini
si rattristano per le avversità climatiche e manifestano le
loro ansie quando il raccolto si prevede scarso.
L’unica fonte di sopravvivenza viene dal lavoro e in
particolare dalla terra. Chi scrive queste poche note è
•ero di essere vissuto in una società contadina povera
come la nostra e nella quale molte persone, talora
ignoranti ed analfabete, gli hanno insegnato molto più
10. Al cantiere di rimboschimento “Fanfani”
di quanto abbia fatto qualche professore del liceo e
dell’Università.
196
Testimonianze dirette
di Marco Manilla
Ri raccónde de Demo Urbani, Dème i Baf•tte
Prime, prime… ma mó prime éve n’atra cóse. La ggènde candéve, éve tutte
nu cande. Ma cu te stà a mbazzì, prime ji me recorde ca javamme tutti quande n
gambagne. Eve n’atre mònne che nen ce stà cchjù: addù revénghene quéle bbèlle
jurnate!
Ajju paése ce remanéve sóle ru préte, ri vécchie i jji citele.
La matine préste cumenzévene a candà r’àsene. Mó tu fatte caminà la fandasie:
ji tenéve r’àsene attaccate a na piande vecine alla vigne mé, i n’atre ru tenéve
allóche vecine, i cuscì tutti quande. I allóre tutte r’àsene candévene ca éve na
maravijje.
Dópe attacchévene a candà le perzóne: r’ómmene, le fémmene, ri quatralitte, le
quatralétte. Zappe i cande.
Alla !ne de la jurnate se revenéve all’appéje. Eve tutte nu lavóre fórte, ma quande
la sere se rejéve alle case, te sendive bbóne. Se magnéve tutti quande nziéme i éve
na fèste ógni sére. Nóne, i zitte, mó é cagnate tutte, ma cu te stà a mbazzì?
Vuléme parlà de le pane, le pane de na vóte? Quande le fémmene facévene
le pane, se sendéve nu profume che te facéve n’ammurà. Le pane de prime tenéve
nu sapóre bbóne i éve sustanzióse. Mó te danne l’arie, ma prime le pane éve n’atra
cóse.
Prime… pe ffà le pane ce se mettéve na fréche i témpe. Ce vuléve ru témpe. Le
ràne éve mèjje, pecché se piandévene cèrte specie andìche ca mó nen ce stànne
cchjù. Se producéve de méne, ma la farine tenéve n’atra sustanze. Pó, la farine
se macinéve ajju muline a préte i remanéve bbella ténere, nóne cùma quéla de
mó che sèmbre rù ciménde bianghe. Le pàne se !céve che jjù lévete naturale;
s’ammasséve tré vóte, se facéve recrésce, se purtéve ajjiu fórne a légne. Le pane
de nà vóte éve n’àtra cóse, éve cchjù bbóne, éve cùma na medecine che te déve
sùstanze. Pó le pàne se mettéve avvutate che lle pèzze de jjine déndre à la màsse
i duréve nà fréche de jórne, éve sèmbre frésche i profumate.
Prime,… tutte éve cchjù bbóne. Ce stéve na sustanze divèrse, la ggènde ce mettéve
témbe pe ffà le cóse i tutte rescéve bbóne. Nen ge stéve la prešcje, nóne, ma de cu
stéme a parlà, ècche ce sta sóle da fasse na risate. La ggènde stéve che na faccja bèlle
197
Ri raccónde de Peppino Ianni, Ngrillitte
A quiri témbe ce stéve tanda misèrie ma ce stéve ru rispétte. Se šcéve la matìne
che jjù piùvènde i se jéve a zappà. Se šcéve che jj’àsene. N gambagne candévene
tutti quande, spècie quande se metéve. Sembréve na fèste, n gambagne candévene
pure r’àsene. Quand’éve quatralótte, se stéve pef•ne a ffà na bbande musicale
ajju Póje (v. foto 12). Quande se metéve se facéve na •le d’àsene che repurtévene
le ràne all’àre de rù paése. L’àre évene tutte gialle, éve pròprie bbéjje i la sére te
sendìve sòddisfatte i cundènde, te magnive quéla póche grazie i Ddije: le patane,
ri gnócche, la menèstre che jji fascióre, te bevive ddu picchiére de vine i stive
bbóne. Tutti quande durmévene che la pòrte apèrte u che la chiave alla serrature,
tutti se •dévene i nen ce stévene ri malevérze, le perzóne stévene tranquille,
nisciune chiuvéve a chiave la pòrte. Tutte ru paése semendéve l’ órze, le ràne, le
marròcchje, ri jérve, la lendicchje, ri cice, ri fascióre, le patane. I ppó ce stévene
tandi méle, le mmalle, le cerasce i tutti quande tenévene nu póche de zuffrane.
La rròbbe nen ze ruvinéve, la rròbbe tenéve nu sapóre bbóne i lle pàne éve cchjù
bbóne de quéle de mó. Spécialménde le ceràsce nen se ruvinévene, nóne, mica ce
facévene ri vèrme cumé mó. Le ceràsce évene bbèlle ca te magnive pure le fòjje!
Ri méle nen se ruvinévene, évene bbéjje i sapurite.
La matine quande te rizzive, sendive l’aria fréšche profumàte de l’èrbe i dde ri
•óre; l’arie éve prófumate i ffòrte, éve n’aria fòrte. Ce stévene tandi cellitte de
cchjù. Ri cellite évene pròprie tande i •cévene nu còngèrte! Se vedévene certi
cellitte che certi cólóre bbéjje.
I ppó se magnéve cchjù salutare, se magnéve sèmbre ammassate. La paste se
12. Banda musicale di Poggio Picenze, anni ‘30
203
Le stagioni
di Gian Battista Taddei
E’ bello ripensare agli anni Cinquanta, in cui il tempo era scandito da
stagioni sempre regolari e gli orologi della sveglia erano i puntuali galli delle
vicine stalle; (...ma i galli di oggi sembrano però avere perso quel senso del tempo
mattutino, perché... cantano adesso in ogni ora del giorno!).
Stare in paese ci faceva sentire partecipi e protetti dalla moltitudine stessa, in quanto
in ogni luogo c’era gente, per cui non ci sentivamo mai soli perché ognuno di noi
non poteva essere un’isola: era come se tutti i cuori si toccassero, e tutto era un
grande cuore collettivo.
E’ quel fenomeno che possiamo chiamare “poggianità” e che il tempo non può più
aggredire o diminuire, e ciò vale per le persone che l’hanno vissuta direttamente,
allora.
Oggi prevale una certa autosuf•cienza o isolamento dagli altri, per un diffuso
consumismo e per un certo orgoglio tra le persone. Non ci sentiamo di condividere
questa situazione ma dobbiamo purtroppo subirla!
Che dire di quegli inverni lunghi, freddi e nevosi dai primi del mese di dicembre
sino a febbraio inoltrato?
Ricordiamo le grosse nevicate quando la mattina, dovevamo fà la vije pe nen
remané isulate e, spalando la neve, facevamo dei camminamenti alti anche oltre
un metro d’altezza.
Incredibili i giochi invernali: pallate di neve fra ragazzi e di questi alle ragazze e
alle donne giovani, sfortunate a passare con la conca dell’acqua in testa, le quali
ritornavano dalla fontana alla casa; pupazzi di neve d’ogni genere, a gara per
farli più belli degli altri o degli altri quartieri; fabbricazione di sci e slitte, previo
utilizzo pezzi di cerchi di botte a fungere da punta ricurva, inchiodata ad assi
più o meno lunghe, in qualche modo rimediate e ogni terreno in pendenza era il
nostro campo di sci.
Natale: la più bella festa dell’anno, in cui tutta la famiglia si riuniva, dopo il
ritorno tanto atteso dei tanti papà dalla Francia e dagli altri paesi europei.
Indimenticabili le scene dei bambini, dei ragazzi e dei giovanotti, cui il padre
aveva riportato cioccolate varie e i famosi giacchettóne i pure ri giubbótte che
ognuno poi sfoggiava, soprattutto a Natale.
E per i grandi le famose sigarette “Gauloises”, dal pacchetto perennemente
azzurro.
Ascoltavamo volentieri gli emigranti che, solo dopo qualche mese, avevano
assunto, senza volerlo e senza così tradire le pujare, una nuova cadenza, infarcita
di quando in quando, di qualche parola francese, specialmente da parte di chi
205
mucche (e c’erano i primi strilli), al segno preciso del macellaio, altre persone già
pronte, lo afferravano e subito esso si ritrovava disteso su un •anco, sopra la scala
con le zampe incrociate, tenute con forza da tante mani e naturalmente strillava
a più non posso.
A questo punto ru macellare si esibiva nel suo colpo magistrale col suo penzute
i lónghe curtéjje, ru scannatóre, strettamente personale, sino al cuore del maiale
che cambiava registro di strillo, a carattere molto drammatico e al massimo del
crescendo, sino poi a uno sperato rapido calando ma che spesse volte, tardava a
venire, con vistosa agitazione del macellaio e meraviglia gustata degli astanti.
Intanto la cóttóre s’era riempita del caldo sangue della vittima, non senza avere
imbrattato per i forzati strattoni, chi teneva il recipiente e non senza che questi mandasse
bonariamente gli ultimi accidenti al maiale che, poverino, era veramente vittima anche
di queste ultime minacce.
Agivano poi le scurtèlle nelle mani di due, tre persone che pelavano e scorticavano
il maiale dopo averlo irrorato con acqua bollente, tenuta sempre a temperatura
giusta de bóllóre (v. foto 14).
14. ... i stévene a scurtecà
210
Dopo la pulitura totale del
maiale le zampe venivano riscaldate
con l’acque bullènde de la bròcchele
per estrarre le unghie che jj’angine.
Il maiale, così ripulito, veniva issato
che jju scussatóre nel luogo dove
era predisposta la caténe, era lavato
con cura e poi sapiententemente
“aperto” dal macellaio. La prima
cosa che si andava a guardare, era lo
spessore del lardo, da misurare con
le dita per farsi vanto con i vicini.
L’orgoglio massimo era impiegare
nella misura quasi tutte le dita delle
mani, pollici esclusi.
Seguiva la canonica sequenza di tagli,
di risciacqui e di messe a punto dei vari
organi interni del maiale, per potere
dopo qualche giorno fà le saveciccje
i jji salame.
Le donne, malgrado il loro intenso
daffare a risciacquare e ad asciugare
pentole e arnesi vari, erano già
in attesa della carne da cuocere
e reclamavano subito, con bonaria
le pigiatrici, ma ru tórce é remaste sèmbre quiru che la stanghétte pe pressà le
menacce, i che gnì ttande se tenéva fà repusà.
Per aiutare nell’intensità il colore del nostro vino usava molto fà la svacate e cioè
mettere nella botte del mosto una certa quantità di uva che era stata fatta bollire
e cuocere.
Anche oggi per apprezzare il nostro vino (vitigno autoctono Montepulciano
d’Abruzzo, gradazione di circa 11 gradi): non berne per lungo tempo (bere altri
vini nel frattempo) e poi gustarlo di nuovo: solo avvicinando il bicchiere verso la
bocca e prima che questo la tocchi, sentiamo un profumo d’uva che gli altri vini
non hanno e il suo sapore poi ha un gusto rotondo che dà sul dolce e che ricorda
il profumo dianzi detto.
Queste sensazioni sono state effettivamente provate, da chi per lontananza da
Poggio, si era da anni distaccato da questo nostro prodotto.
Nei campi era arrivata la stagione della semina del grano che il contadino compiva
con passi misurati e cadenzati e con ampi gesti delle braccia, ma le seminatrici
meccaniche, hanno poi fatto cessare, quel bel rito così sacrale.
L’attesa per il vino nuovo andava oltre le feste di S.Salvatore e della Madonna
dell’Addolorata, che cadono il 9 e il 10 novembre, ma essa era ampiamente
ricompensata dalla bontà del vino stesso.
Anche in queste feste c’erano le bancarelle, come quella estiva di San Felice, ma
non c’erano i gelati per gli ovvi motivi stagionali, però era caratterizzata dalla
grande •era di bestiame, molto rinomata nella Vallata e che si teneva nello spazio
dell’attuale Villa Comunale, l’ex aia e l’ex Campo di Calcio, a •anco della Chiesa
Parrocchiale. Mancavano i fuochi d’arti•cio per non spaventare gli animali nel
giorno della •era, per essere poi effettuati il giorno di festa della Madonna.
L’aria ormai diveniva decisamente fresca e faceva virare tutte le sensazioni di bel
tempo verso un’atmosfera fredda.
Guardavamo per questo verso le cime dei monti, quelli di fronte al paese e sopra
Fossa, ma anche verso la nostra “montagna”, quella di Cenerale: per vedere apparire la
prima neve, che puntualmente arrivava, e ciò signi•cava che Natale era già vicino.
Per incominciare un altro anno.
Abbiamo rievocato con piacere quegli anni in tante azioni di vita: i faticosi eppure
non pesanti lavori di campagna, la comunanza sfociante in allegria sociale, i modi
dire e di fare.
Tante di queste cose come la mietitura che lla sarrécchje, la trebbiatura, le ccìe
ru pórche, la frequentazione delle stalle, la tessitura casalinga, non sono più
praticate, altre sono trasformate oppure sono desuete, ma rimangono come vividi
affreschi, nelle pareti della nostra esistenza, perché la vita non ha il potere di
cancellare il passato, che il cuore non dimentica mai.
E chi non ha vissuto quel periodo deve accontentarsi dei ri!essi di questi affreschi
e, mai riuscirà però a credere, che abbiamo anche bevuto l’acqua del •ume Aterno,
nei nostri frequenti bagni, perché “il naturale” era ancora imperante.
221
L’ immérne
di Gian•lippo Galeota
All’ immérne se repusavamme. Ma n de le crède, ca ógni témbe vóle
la fatija sé. Cért’ é ca •céve le frédde. A témb’ i néve •ucchéve pure ddù tre
jórne all’ af•le. Caschévene cèrte sparre , i cum’ allignévene! N’ gèrt’ anne
de néve ne •céve tande ca raccappéve le pòrte. I quand’ éve cuscì la matin’
apprésse ógnune se •céve la vije nnanz’ alla case pe jjì alla stalle u alla candine.
R’ ómmene sajjévene sòpr’ ajji tétte pe levajje quéla sòrt’ i pése, ca sinnó se
putévene sfunnà.
Quande tirévene le schiaravènde m butive šcì ca tte se ngulléve ru vénde. I tande
le vóte feréve na strine ca tte tajjéve la facce, i lla nòtte pe jji vìquele quéla
beferine •schiéve ca tte se mettéve alle récchje. I allóre, dajje’a mmétte fóche
che jji ciócchi cchjù rrósse! Ma le pégge éve quande la nòtte jéve n zeréne. Se
jiu jórne éve fatte ru sóle, che quéle póche cajje jéve a mmóllóre , ma la nòtte
•céve cuscì lle frédde ca caschévene ri cellitte. La matin’ apprésse, da ri pinge
stévene rappennicóne tutti péšce lónghe pure mèzze vracce. Però nu c’ avamme
bardasce, addù cj’ arrivvavamme ri rumbavamme i sse ri sucavamme. N dèrre
ativa stà atténde a nne sciufelà, ca tte putive ròmbe le còsse. Ma alla néve i
ajju jéle nù ce faciavamme fèste. Stavamme sémbre a ffà a ttuppate, u a fasse
ru retratte, i quande n’ atre te déve na vusse, tu alla néve te ce ne caschive
cundènde. I sse jj’ ómmeni rósse i lle fémmene atévena stà atténde addù métte
ru péje , nù ce javamme alle mèjje nòzze, i cchjù la vije s’ éve redutte ch’ éve
na schiazz’ i jéle, cchjù je davamme a sciufelà.
A Sande Ròcche, vecin’ alla fermat’ i la còrière pe jjì alla scóle all’
Aquele, la séra prime ce jettavamme quattr’ u cingue mmarmitte d’ acque, i
lla matin’ apprésse la vije éve tutta jelate •n’ a Pistacchje. I sse ppó la nòtte
nenguiccéve i lla raccappéve, le fémmene, u quiri che ne lle sapévene, facévene
certi scambavusse, i ddajje lóche a rite tutti quande . Ma se cce capitéve une
rósse, allóre ce s’af•cchév’ apprésse, ca se sapéve sèmbre chi éve state, i nnù se
ne scappavamme déndr’ajju lavatóre.Quande •ciavamme a sciufelarèlle avamme
cumé jji tréne, i tenavamme le vracce allargate i sse ngandavamme i faciavamme
zzzzzzzzz cumé jji’azzóne.
Ma ru punde addù javamme le cchjù év’ a Cacciadènde, i cce venévene pure
quiss’ i Péje la Tèrre, ma gne diciavamme nénde. Pure lóche ce sbalanzavamme
l’ acque la séra prime pe falla venì cchjù tòste la sciufelarèlle. Quande n ze
facéve la scóle ce se stavamme tutte la jurnate. Ficiavamme a sciufelarèlle, ma
222
alla parnanze. Cèrte tenévene ddù tré vunnèlle lònghe •n’ appéje ri peje. Ce
ne stéve une che n ze vergugnéve pe nnénde, se mettéve a nu pendóne i ppiscéve
ritte cumé n’ ómmene. Cèrt’ atre fémmene, ritte sòpr’ alla magnadóre, stévene
a f•là i jju vertécchje •céve nn’ammónde i nn’abballe cumé lla vularèlle. A nu
cèrte punde chiamévene nu bbardascitte pe fasse règge ru fuse, i abbutévene la
jammòtte.Vèrze vindunóre alla stalle ce stavamme quasce tutti quande. Appéne
se cumenzév’ a ffà le scure s’ appiccéve ru lume che stèv’ appiccat’ arréte la
pòrte.
Che lle quatrale ce •ciavamme a Pitepitugne i ajju Checuzzare, ma maje a
ccummare u a cacc’ atra cóse che •cévene sóle le fémmene. I quést’ éve le pazzià.
Tande pe ddì, quand’ avamme pìcchele nu, n ze capév’ a ddì ri “giócattele”,
pecché n gi stévene. Nu se •ciavamme sóle tutte ri zurlitte i cce pazziavamme. Le
fémmene se facévene la pucche che jji ravanz’ i le vunnèlle i de le càveze vècchje,
a mméno ché nn’ évene bbóne a dall’ ajju cingiàre. Nu tenavamme la rùzzeche,
che ce la •cévene ri rósse quande sechévene le léne. Dóppe šcé ru cérchje,
quande s’ évene cumenzat’ a vvedé le bicillétte.Tutte r’atri pazziaréjje se ri
•ciavamme che lle scàttele i la cunzèrve, che jji pézze ravanzate i le tàvele, i
cche jji chióve che se retruvavamme quande facéve la piéve, u che jji férr’ i le
bball’ i la pajje.
Tonìn’ i Néstine, quand’ avamme pìcchele n ze chiamév’ angóre Papà, ma
sapév’ attaccà ru férre alla corrènde i, cumé s’ éve na truccele, •céve speselà
ri càreche da la vije •n’ ajju ballarine.
Che na ngacchiatur’ i vernéjje i cche na làstech’ i cameradarie ce se •ciavamme la
frézze, i cce pijjavamme la mire, ma ce javamme pur’ a cacciannive. Tenavamme
pure la zìppele, i quande ce •ciavamme, diciavamme: “Ghiste!”, i jje davamme
na bbòtte che lla mazze pe ffalla sgrillà da la scalétte. Quiri che lla tenévena
rebbatte respunnévene: “Mòine passe nnande!”, ma s’ atévena stà fèrm’ addù
stévene. Pèrò n z’ à maje capite bbóne cù vulavamme dì.
Ma alla stalle la cóse c’a mmì me piacéve le cchjù éve quande le vècchje
se mettéven’ a raccundà, i qquande sendavamm’ i fà:” Ce stéve na vóte…” se
stavamme zitte tutti quande i sse mettavamm’a ttecchjà che lle récchje ritte,
pecché ce credavamme addavére a Caruséjje, a Cacamarénghe i ajj’ urze. Ma
tande le vóte ce fìcévene venì pure la cicc’ i cajjine, nne spècje quande •cévene: “
I ècchete che jju Picchepicche cale abballa ru camine “, u quande raccundéven’
i tutte quéle vóte c’ a une u a n’ atre j’ éve rescite cacche spirde. Ma la péggia
paure éve la stréje, ca nu mó dicéme la stréghe.
N’ anne la cavall’ i Zumbitte, ch’ éve ròsce, se scungéve sèmbre, i ddicévene ca
la matine je truvévene le trécce alla cóve i ajju cójje. Cérte, de sicure éve state la
stréje! Allóre Zumbitte mésse na sarrécchje alla jattaról’ i la stalle, ma la matin’
228
pecché quande te chiappéve éve cumé se tte stiv’ a sturzà. Allóre n’ atre te déve
tutti cazzuttéjj’ arréte la schine i na nzégne se ferméve. Pèrò s’ éve tróppa fòrte
, mammete nen de •céve šcì afóre, i qquande te pijjéve la sendiv’ i fà: “Sande
Bbiasce!” . Allóre la tòšcje te se passéve, i macare nen de s•ative cchjù, ma pure
pecché, quand’ éve passate le brutte, le sapive ca mammete te strilléve, i llóche
a recumenzà: “ Abbuscelató, cj’ abbiste penzà, ca jì te l’ éve ditte !”. I ppure la
tòšce se recujjéve. Cèrte vóte pijjéve la fèbbre. A mmì mamme n ge credéve maje
ca lla tenéve, pecché a zièlle je dicéve sèmbre ca ji éve cacamiràquele. Ma pó me
mettéve ru térmómetre alla ngunajje, i sse lla tenéve me •céve métte ajju létte. A
mmì me piacéve i tenélla, pecché éve cumé se rredevendéve pìicchele n’ atra vóte,
mamme me chiaméve ógni ttande da la cucine i lla matine me •céve la zuppe che
lle latte. Pó scalléve nu matóne bbóne bbóne, r’ abbutéve a nu cupertór’ i mme
ru mettév’ ajji peje. Inzómme, stéve male, pèrò me ne frechéve.
Ma all’ immérne ativa stà atténde a n de fà le frite. Pe lle frédde la frite t’
accujjéve, i ss’ abbuttéve cumé jji céquere, i cumé jji céquere te facéve ngènne. I
ppur’ a st’ uccasióne t’ atenìva sta déndre. Màmmete ce •céve le pèzze bbullite i
dóp’ un pò spuréve i sse reguaréve. Che lle stà accucchiate, cèrte vóte tenavamme
ri pedócchje. I allóre mamme i zièlle ce s’assettévene n zéne i cce ri capévene.
Ri chiappévene un’ a une i jji squajjévene che ll’ ògne, i jji pedócchje facévene
:“ Cclì”. All’ ùldeme, pe ccije quiri che se l’ évene frangate i jji rénnele, ce
mettévene ru •itte.
Ma pó arrivéve Natale i cumenzévene le nuvéne. Vól dire che ppe nòve
jórne, dóppe vindunóre sunéve la cchiése i lla ggènde cumenzév’ a jì ammónde.
Ri bbanghe évene sèmbre piéne, i all’ èpeche évene padrunale, quasce ógni
famijje tenéve ru sé. Fatte le nuvéne, arrivéve la veggilje, ch’ éve Natale addavére,
pecché se magnéve mèjj’ i r’ atri jórne, i a mmèzzanòtte, mindre la misse, nascéve
ru Bbambinéjje. Ma prim’ i šcì da la case, se recapéve ru ciócche cchjù rrósse
che ss’ éve repuste pròpje pe Nnatale, i sse mettév’ ajju fóche pe ddevezione. Alla
cchiése n ge se capéve. Chi n ge jéve alla miss’ i mèzzanòtte u éve tróppe pìcchele
u éve tróppe vécchje, u sinnó stéve pròpje male. Vèrze l’ ùldeme ru préte jév’ a
pijjà ru Bbambinéjje addù r’ éve repuste r’ ann’ apprìme i jju mettéve sòpr’ ajj’
aldare. Allóre cumenzavamm’ a candà “Ninna Nanne”. Pròpj’all’ ùldeme ru
préte pijjéve ru Bbambinéglje, i ttutti quande , mindre candavamme “Tu šcéndi
dalle stelle”, ru javamm’ a bbascià une la vóte.
La miss’ i mèzzanòtte nenn’ éve cumé ll’ atre misse, pecché tutti quande évene
sèrje, i sse jji guardive nfacce, ce ne stévene tande che je venéve de piagne pe
mmut’ éve bbéjje. Ru Bbambinéjje stéve sèmbre allóche •n’ alla Bbéfane. A sta
fèste la cchiése se rembiéve piéna piéne n’ atra vóte , se recandéve “Tu scèndi
dalle stelle” , se rebbascéve ru Bbambinéjje i ppó ru préte ru repunnéve pe jj’
ann’ apprésse. A Nnatale se facévene ri frittéjje . Mamme prime ammasséve,
ri •céve, i ppó pijjéve la patèlla ròsse piéne d’ ójje, ri •céve còce i jji mettéve a
232
La fatije
di Gian•lippo Galeota
La prima fatije é lle rane. Da ch’é mmónn’ é mmónne la prima cóse pe
cambà à state sèmbre le pane.
Le rane cuménze che lla seménde. Na vóte, che n’ aratucce i cche jj’àsene se
•cévene ri sòleche (v. foto 22) i arréte ce se jettéve la seménde. Le semendà
se •céve a nóvémbre, dópe ch’ive repulite le rane (v. foto 23), póche prime de
cumenzà a piòve. I da ch’ éve scite •n’ abbrile nen ge s’ atéva fa nénde, ma prim’
i spicà se munnéve, nne spècje pe lla vécce i jji papambre. I a mmagge nenn’éve
cumé mmó che ssó cchjù scarlòtte i spiche, c’allóre nisciune tenéve paure i la
zappe. Dóppe San Flice le rane se cumenzév’ a seccà, ma quasce addunungue
év’avete scì i nnó ddu furche, nne spècie ammonda Cenerale, alle Cretare, ajju
22. Fà ri sòleche
Vallóne i le ròtte i a tutte quéle cése addù ci stévene cchiù zasse che ttèrre. Ste
rane s’ atéva rungà, atténde a scrullà la tèrre pe nna fà remané appiccicate alle
ràjeche. Nen ge stéve na lescucce che se lasséve sóve , addunungue, pecché le
mèjje tèrre l’ ànne sèmbre tenute quiss’ i ru Nótare i quir’ i Ferrare. Tutti quande
r’ atre tenavamme cacche còppe cchjù mmèjje cumè ajju Fónn’ i Mariale, ajju
Camb’ i sòtte , ajju Cajóne u alle Tumé, i cci stéve pure chi la tenéve alle piane.
A ste tèrre, quande nen ge se mettévene le marròcchje u le patane, le rane venéve
cchjù rrósse i sse metéve che lla sarrécchje.
Pe lle rane che se runghéve, se facévene tutti mucchjitte i ppo se mettévene
ajj pannaréjje. Pe repurtajji se •céve che jj’ àsene. R’ àsene tenévene ru mmaste,
234
j’ atìv’ allattà, te r’ atìva purtà apprésse, ru •cive bbéve quande ce vuléve i jj’
ativa pure renfašcià. Le criature se mettévene a ddurmì déndr’ a nu canéstre all’
òmbre, ma s’ atéva stà sèmbre a récchje ritte, pecché la sèrpe sènde r’ addol’ i le
latte, i Ddì ne libbere, je putéve jì alla vòcche.
Alla meteture ru Cambisòtte éve piéne i ggènde, i nne mindre se
metéve candévene tutti quande, nne spècie le fémmene. I qquande stavamme
p’ arrivà a ccape, se facéve a cchi arrivéve prime. I ddajje lóche a ajnasse che
lle sarrécchje! Al dungue s’ atévena fà ri manóppje, i quistu éve nu ngòmbere
c’ attucchéve a nu bbardasce. Quistu allóre jéve addù la macchj’ i le rane éve
cchjù àvete, ne cavéve nu truppe i cce •céve le case. Dapó le stennéve , ce
mettéve ri mucchjitte i le rane metute, i qquand’ éve fatte ru manóppje pijjéve
ru pezzùchere i j’ attacchéve. Mman’ a mmane, se facév’ a ttémbe, u sinnó all’
uldeme, raccapezzéve ri manóppje spèrze mmèzz’ alla tèrre i •céve ri crapine.
Ogni crapine (v. foto 26) évene trédece manóppje, ma cacchevvóte pure dicissètte.
Dóppe na djècem’ i jórne se cumenzév’ a radunà, da ru Cambisòtte, Mariale ,
ru Cajóne, le Tumé i ll’ atre vije, i a mman’ a mmane le repurtéven’ all’ are. Ma
le carià nen ze •céve cchjù sóle che jj’ àsene. Dàtese che tutte la rròbbe venéve
cchjù rròsse, tutti quande s’ évene fatte ru mul’ i jju carrétte. Ma r’ ativa sapé
métte ri manóppje pe ffà na tòmba cuma se déve. Quande nenn’éve fatte bbóne,
cacche manóppje se ne cumenzéve a šcì, i all’ ùldeme ru càreche te se spalléve, i
che lle bbiastéme r’ ativa refà. Se ppó la tòmb’ éve stòrte, pe ffòrze pennéve, i se
pènnéve tróppe se putéve tumbulà. Na vóte, nen zó cchì, revenévene d’ ammonda
le Cése, évene fatte la tòmba stòrte, la rót’ i ru carrétte j’ abba pijjà na pretecèlle
pròpje alla tèrr’ i Miccheline alla Fònd’ i ru Pajjare, addù la vije pènne, i ce se
capeturzénne déndre. Pe ffurtune nen ze fécce nénde nisciune, manghe la mule.
Però la paure nen ze la franghénne.
All’ are indande tutti quande stévene a
ffà l’óppje, i éve cumé quande se facéve la case.
Alle prime se mettévene ri manóppje ndórne.
Ajji pizze s’ atévena métte n gurtéjje, i s’ atéven’
accavallà che lla pajje déndr’ alle case, i ppó se
cumenzévene a ffà le fìle. All’ ùldeme ce se facéve
ru tétte che lla part’ i le spiche alla spiòvènde,
ca putéve fà sèmbre nu scrullóne. Le rane nen
z’ atéva nfònne, sinnó ru vache s’ ammucheréve
i mmanghe se putéve trescà bbóne. Però che
26. La mietitura: formazione di
l’ùmmede i che lle tróppe cajje le rane putéve
manóppje e di crapine
cungallà, i allóre l’ óppje pijjéve fóche. L’óppje
i ru Notare nnà bbattéve nisciune. Ma n’anne je s’abbruscé. La ggènde curré
da tutte ru Póje, datese che lla fuminére éve ròsse, i sse vedéve pure da Picènz’i
da Fòsse. Tutte le fémmene cumenzénne a carià l’acque che lle cònghe da ru
237
de le crède, ca r’ ómmene che nn’ évene fatiatóre n ze ri pijjéve nisciune, pòzz’
èssene pure bbéjje cumé nu sóle. Cómungue, ri cic’ ì lle ndicchje se semendévene
a mmarze, je davamme na mèzz’ avuccate, i qquand’ évene sécche ri rungavamme
i jji vattavamme. Se putéven’ adduprà che lla menèstre, i lla nzapurévene, ma
tenévene pure la sóstanza sé, pe ddatte la fòrze. Cumé jji fascióre, ch’ ècche però
apprime n ge •cévene. Nù la cicce la vedavamme póch’ i nnénde, a mméno ché
nn’ éve na fèsta ròsse, i quande une je chjappéve na malatia cattive, i lla cajjine
se cciéve quande na fémmene se •jjéve pe ffajje ru bbróde.
Le patan’ i lle marròcchje se mettévene alle tèrre cchjù bbóne u a quéle
cchjù frésche. Tande vóte na tèrr’ i na còppe se semendéve mèzz’ a patane i
mèzz’ a mmarròcchje. La patane se semendéve a marze. Se •véve ru sòleche
bbéjje deritte, ca la ggènde te se putéve refrecà, i n’ atre apprésse ce jettéve
déndre le patane ch’ évene sèmbre le cchjù pìcchele, i ss’ évene um bò rròsse
se spacchévene. Ma se semendévene pure che lla zappe. R’ ómmene •céve na
cuzza fennute pe quéle che servéve i lla fémmene u nu bbardasce ce jettéve
la patane i lla raccappéve. Dóppe ch’ évene šcite s’ atévena avuccà i ppó s’
arrabbucchévene, accuscì, se •céve n acque, remanév’ ajji sòleche.
Quande ri stajóne s’ évene seccate se recaccévene. Ri stajóne nn’ évene bbóne pe
‘lle bbéstje i mmanghe pe lle stabbje, i se jji mettiv’ ajju fóche te mbuzzunévene la
case. Allóre se jettévene ajji jjimmete. Nen zèrv’ a ddì ca la patane é bbóne. Però
ri patanijje se cucéven’ ajju pórche. Za Ndunine ri mettév’ a refreddà nnand’
alla pòrt’ i ru sturcitt’ addù se mettév’ a ffa ri servizje, ma ri bbardascitte je se ri
jéven’ a frecà. Allóre, quande ri vedéve che lla cóv’ i r’ ócchje, abbastéve che jje
strilléve: “Ve pijje na vòcce !” , i jji •jjaréjje se ne scappévene.
La marròcchje éve cchjù fatijate, dàtese ca de cchjù ci’ jativa tajjà le cime, che
s’ arruvévene n gà pparte, i lla frunne, ch’ éve bbóne pe lle bbéstje. Quand’ évene
sécche se cavévene i sse facévene ri mucchje. Na vóte stuzzate, se mettévene alle
sacchétte i sse repurtévene . Ri tórz’ imméce se lassévene angór’ a seccà, i ppó s’
attacchévene. Évene bbóne pe jju fórne. Comungue n ze jettéve nénde i nisciuna
cóse. Le prime pe ttì, pó pe lle bbéstje, i all’ ùldeme pe jju fóche.
Le marròcchje, na vóte repurtate, s’ atévena scartuccià. I sse facéve une
la vóte. I allóre la case te se rembiéve i tutte quir’ i ru vecinate , a mménó ché
n ge stive liticate, gnune se purtéve na sacchétte i lla rembiéve che lla spulle pe
fàccese ru saccóne gnóve. I ppure mó se candéve. Luiggin’ i zi’ Assunde tenéve
la vócja bbèlle i candéve le canzóne vècchje i ppure quéle che se mbaravamme
tutte ri anne , ma quand’ attacchéve “Alle porte di Genova”, ch’ éve la canzón’ i
quéla che nn’ éve vulute magnà cchjù, i cce s’ éve pure mòrte, pecché pe ll’ amór’
i ru patre, quiru che vuléve jésse s’ éve pijjate n’ atre, te venéve la péne. Na
vóte scartucciate, le marròcchje sane se mettévene ajju terrazze, chi ru tenéve,
u sinnò all’ are, ma ècche l’ ativa guardà, ma nn’ é pecché cachedune te se l’
241
é ssèmbre bbèlle, almine pe jju padrone. I ppó ri cciappel’ i l’uve só bbéjje pe
cónde sé. Pe ttutte vedive mòrr’ i ggènde a struccà l’ uve (v. foto 30), ca na vóte
se •céve che lle mane, abbastéve stuzzà ru raspe ajj’ annuve sòpre, u alla mèjje
che nu curtejjucce. Fatte ri cestóne, se jévene a sbujetà alle pijònge. L’ uve
apprime se repurtéve che jj’ asene. Ce vulévene sèmbre ddù ómmene pe speselà
le pijònge p’ attaccalle alle cuèlle che jji jàcquere. Arrivat’ alla candine l’ uve se
jettéve alla vasche da na fenestrèlle, dàtese cà la candine atéa stà sòtte la case ,
pecché le vine nn’ à tà sendì le cajje i mmanghe le frédde, sinnò se quaste. Gnune
facéve nu bbéjje mucchje, c’ a ttutti quande je piacév’ i fàsseru ru picchierucce.
Pèrò quand’ éve alla fémmene che ce patév’ alle bbéve, éve pròpje brutte, i sse
une éve mbriacòzze le sapévene tutti quande. La sére se magnéve tutti nziéme
alla case ch’ éve vennignate .
Ma nen tutte l’ uve éve fatte. L’ uv’i ri nepóte scéve quande l’ atre uve
éve ggià rròsse i évene ri cciarcellitte che quande se vennignéve évene angóre
cèrve. Ógni ttande ri fìjje ce se jéven’a affaccià, i se n ze l’ évene jit’ a còjje, se
ne facévene na magnate. Che ll’ uve che facéve cchjù ddóppe, ma cèrte vóte pure
che cèrti bbéjji cciappel’ i malvascie, ce facévene ru marche šcjàbbele. Ma gn’
atéva vedé nisciune, ca sinnó se ru jévene a recaccià. Ficévene na cuzzetèlle a nu
punde cchjù reparate, ce mettévene sòtte i tónne tónne le pàmbene , ru rembiévene
che ll’uve, cacc’ atra pambene sòpre, i lla raccappévene che lla tèrre. Pe putélla
rechenusce mettévene nu mérche n dèrre, ca manghe ce fùsse servute, ca la vigne
gnì padróne la chenusce cumé la saccòcce, pure s’ évene bardasce. Ma n gèrt’
anne la néve caschéve pure alla fèst’ i ri mórte, i allóre ru mérche r’ ajutév’ a
retruvalla. Quél’ uve éve remaste frésche cumé quande l’ évene cóte, i éve n’ atra
cóse appar’ a quéla che le mamme évene appiccate alla candine pe repùnnela,
pecché l’ uv’ i ru marchešcjàbbele n z’ ammusciuléve.
Cómungue ru Nótare sèmbre, i Bbaf•tte i Bbasile cchjù ddóppe, de vine
ne •cévene cchjussà. Alle prime l’ uve se pistéve che jji péji scàveze, ma dóppe
šcé la piggiatrice (v. foto 31), i ècche ce vuléve sèmbre nu ggivinótte pe ffà ggirà
la róte i macinà l’ uve, che n’atre je la jettéve déndre che lla pale. Éve bbéjje a
sendì i culà le mmóste déndr’ ajju pilóne. Quande s’ éve fenit’ i squajjià, l’ uve
se mettéve ajju tórce. Alle fatijà r’ ómmene facévene a cchi tenéve cchjù ffòrze u
a cchi se stracchéve all’ ùldeme, i alla candine se une éve puzut’ addavére, se
vedéve ajju tórce. Na vóte Tòrèlle i Albèrt’ i ri Paréte che lle fà a cchì vusséve
mèjje la stanghétte , jetténne ru tórce n dèrre. I dàtese che stéven’ a Bbasìle,
ch’ éve cummannande, se la pijjénne na bbèlla cazziate. Sèmbre alle pistà, sta
candine stéve piéne d’ ómmene che pistévene i nu via vaje i fémmene che cariévene
le mmóste alle cònghe pe purtall’ a quiri che ttenévene la candine ma la vigne
nna tenévene, p’ ipòtese Pianine, Mariannine i Finucce che jj’ éve pure parènde,
i cacchedune pure i L’ Àquele. A stu punde le vine se putéve métte alla vòtte,
250
Vita da artigiano
di Antonio Galeota
Naturalmente, non ci sono solo le fatije de ri condadine.
Anche gli artigiani faticano dalla mattina alla sera, nelle cave assolate o chiusi
curvi sul tavolo di lavoro, nelle buttegucce, spesso circondati da amici appena
affrancati da altri cicli lavorativi. I sarti, gli scalpellini, i calzolai e i fabbri ferrai
sono quelli che lavorano a tempo pieno, avendo da soddisfare continue e pressanti
richieste di lavoro.
L’acquisita capacità di modellare la materia prima li rendeva preziosi punti di
riferimento per una attività che, normalmente, li accompagnava per tutta la vita
lavorativa, al•ne consegnandoli alla memoria collettiva come mastre.
Tra i tanti Adornino Masci, sarto af•nato alla scuola di Dazzena, nu sandemetrane
grande sartóre i ppure musiciste, Dórnine, sempre disposto alle battute e al racconto,
anche quando si tratti della storia della sua vita lavorativa.
Dórnine parte in presa diretta, appena gli chiedo quanto tempo ha lavorato da sarto e
a cominciare da quando:
Ji só lavorate pe na vite indère, da quatralitte a gunfjà le pelliccj’i r’aggnéjje.
Ève tande pìcchele che nen ge la facéve, i cèrte vóte ru fiate me revenéve
arréte i mme gunfiéve ji !
Dóppe me só mésse a ffà ru sartóre, a quattórdecj’anne, prime a mbaramme
i ppó a lavurà. Tu nen me credarriste ca ji me só fatte 15.000 chilòmetre in
séj’anne a L’Aquele, pe jì a lavurà, rejì a magnà a zìeme a Vija Strinèlle i ppó
a lavurà n’atra vóte i rejì a durmì, alla case i zìeme.
Lavuréve ajji Quattre Candóne, nél 1934 a 14 anne, prime cume apprendiste sartóre,
gràtese, séje jórne la settimane pe ddù anne, i ppó cume sartóre a 27 lire la settimane,
nu sacch’i sólde allóre: n’ópéraje guadagnéve 2-3 lire ru jórne, ru cìneme custéve
na lire.
Pe guadagnà de cchjù, lavuréve "n’a tarde, pure "n’a mézzanótte i ppure la
dóméneche!
Da mmèzz’a Vija Strinèlle, addù abbitéve, ajj Quattre Candóne só ddù chilòmetre,
passsènne pe Pòrta Castéjje.
Allóre, cundéme: 8 (chilòmetre ru jórne) pe 6 (jórne la settimane) pe 52 (settimane) pe
2 (anne) fanne 4.992, pó 8 pe 7 pe 52 pe 4 i fanne 11.648...in tutte 16.640 chilòmetre
pe jì i revenì da lavurà, atre che ccazze !
Ri cólléghe nen ge credévene, pure pecché purtéve le stambèlle, ma a mmì m’éve
ópérate na vindine i vóte ru prófessóre Putti, che scjà bbennétte dunungue se tróve, de
r’Istitute Rizzòle de Bbólógne, da quand’éve quatralitte, nen me recòrde se a ddù u a
ttré anne, i "n’a diécj’anne.
252
Il Ripostiglio di Poggio Picenze
di Antonio Galeota
Al Museo Nazionale Archeologico di Chieti fa bella mostra di
sé il “ Ripostiglio di Poggio Picenze”.
Di che si tratta ? Ha veramente a che fare con la nostra storia ? Vediamo.
Dobbiamo tornare indietro nel tempo, agli anni seguenti alla Seconda guerra
mondiale quando il lavoro di
cavatore di pietre e di scalpellino
occupava ancora molti poggiani
nelle cave, ma si avvertivano ormai
pesantemente gli effetti della lunga
crisi economica tanto che molti di
questi lavoratori avevano già scelto
la via dell’emigrazione.
Tra questi Emidio Mimitte Biordi,
raf•nato scalpellino scomparso di
recente, emigrato in Francia dove
rimaneva per molti mesi dell’anno,
salvo tornare durante l’inverno per
attendere alla lavorazione e alla
fornitura di manufatti in pietra
che nel frattempo gli erano stati
commissionati.
Anche nell’inverno di quell’anno
1953 Mimitte era impegnato alla
Petrara, nella cava di famiglia
posta nella parte bassa e a meno di
duecento metri dalla strada di Piedi
le Vigne, a ripulire della terra lo
strato sovrastante il masso di pietra
che si apprestava a far staccare per
poi poterlo lavorare.
Aveva appena cominciato a
rimuovere il terriccio misto a sassi,
quando si accorse della presenza
33. Verbale di consegna delle monete
di una quantità impressionante
di luccicanti monete d’argento
fuoriuscite da na pignata mèzza ròtte, nascoste appena sotto la superficie e
in parte ricoperte di terriccio infiltrato dalle piogge.
255
Tra ragazze
di Antonio Galeota
Da tanto che stava aspettando la chiamata delle amiche per andare
a giocare, Mine de Marianucce si era spazientita e aveva cominciato a fare il
cruciverba, quando sentì Luiggine de Lórénze chiedere a Marìe de Cróce, pure
loro ragazze della Piazzetta Galeota, “ma tu nen ge vé?”.
“Innó: tènga jì a ffà le strame, te puzze cecà!”.
L’imprecazione di Maria non era diretta all’amica né ad altri, solo traduceva il
malumore del momento per dover fare una cosa non proprio gradita, lei che tutta
la mattina era stata impegnata in altre faccende al servizio della famiglia e non
aveva avuto il tempo di andare a preparà le magnà alle bbéstje.
Mina si affrettò ad uscire trovando la sola Luigina, che le diede le ultime notizie
“stéve pe venitte a cchiamà,… mó jéme alla case i Rénzine a ffà le pucche, i ppó
massére jéme ajju cìrquele, a Piazza Castéjje”.
Da qualche giorno qui sostavano Fiacche e la sua troupe: una ragazza assistente, un
asinello tuttofare, esperto anche nell’indovinare la ragazza che aveva dimenticato
di mettere le mutande prima di uscire, e una scimmietta che sceglieva la pianéte
de la furtune, accompagnando lo spettacolo con continui e frizzanti squittii.
Quanto a Fiacche, il mago, si esibiva nel mangiare il fuoco e nel sottoporsi al
forzuto Poggiano di turno, incaricato di spaccare una grossa pietra poggiata sul
petto nudo del mago, percuotendola con una grande mazza ferrata.
Quel pomeriggio le amiche, cui si era •nalmente aggiunta Marìe, fecero una
pucche, una bambola di pezza, aiutate da Line i Ngiline che cuciva i pezzi di
stoffa di scarto dei vestiti e disegnava con •li di lana colorata i lineamenti del
viso. Alla •ne si attaccavano i capelli, realizzati con la lana riccioluta delle zampe
delle pecore.
Ogni pucche costruita veniva poi af•data a na mamme i a nu patre, che la
portavano alla Madunnèlle pe battizzalla.
Quella bambola fu assegnata a Rénzine de Nannine, che preparò i dolci per i
festeggiamenti del dopo battesimo, e quindi si provvide ad avvisare i maschi, di
solito i loro •danzati, perché serviva ru préte oltre al padre della bambina appena
nata i almine nu cómbare.
Quando si giocava tra donne, era frequente l’intervento delle ragazze del vicinato
più piccole, le quali si divertivano a guardare per imparare e ripagavano l’ospitalità
fungendo da staffette: Linétte de Bittine, Pine i Silvie de Basile, Ide i Macciane e
Giulie i Bòrtòlle furono inviate ad avvisare ri spóse, che ormai avevano terminato
la jurnate, e dopo un pó si presentarono Gèlsène i la Patanèlle, Félice i Grimalde,
Sandine i Barbólétte e Niculine i Baf!tte, incaricato di fare il prete, e il piccolo
corteo partì per la Madonnella.
258
mbucchéve, n’atri ddù alla came i alla pajje pe tiralle arréte i pp’ajutà a punne ri
pannaréjje n dèste alle giòvene. Quéste partévene cume mótórétte pure n zalite,
ritènne che le cumbagne u se mettévene a candà: cchjù che nu lavóre sembrévene
ca stévene a ffà na cóse pe divértimende!
I jji quatrale? Baste che putévene còrre ajji pajjare a stènne la came u la pajje, a
resujjàccese sòpre i sòtte mèzzi nuve, a fasse ri šchérze, ma quéle che tenévena fà le
•cévene.
La trebbiatura durava almeno un quindicina di giorni, durante i quali il paese
sembrava svuotarsi. Nel paese silenzioso, le strade di tanto in tanto risuonavano
del cigolìo delle ruote dei carri e del rumore degli zoccoli delle bbéstje, che agili
salivano con sulla šchine ri sacchi lónghe da na sóme, bianchi con una striscia di
colore celeste tessuti ajju telare, o legate ajju traine, lucide di sudore.
Quando passavano sopra i selci e i lastroni di pietra levigata dal passaggio
continuo, gli zoccoli scivolavano formando scintille, non di rado facendo perdere
l’equilibrio all’animale e facendolo cadere: interveniva allora il carrettiere a
incitarlo con urla, imprecazioni e bestemmie e ricorrendo anche ajju staf•le,
richiamando dietro le •nestre le donne anziane e le altre rimaste dentro per
cucinare, pronte a farsi il segno della croce per contrastare il diavolaccio che
sacramentava. Alzavano anche le braccia al cielo ad invocare l’intervento di S.
Antonio in aiuto della povera bestia.
Le rane nen venéve maje repuste sùbbete ajju ranate, perché putéve cuncallà, ma
véneve ammucchiate alla stanza cchjiù gròsse per fajje pijjà l’arie. Pe lla cundendézze
de ri quatralitte, che non sorvegliati correvano sul grande mucchio caldo inventando
scalate, discese, nuotate per poi scappare via di corsa se scoperti, lasciandosi dietro
una striscia di grano.
Déndre le case se lavuréve cum’all’are: solo alle grandi feste i pasti erano
così ricchi come alla trescature. Le donne cominciavano prestissimo a preparare i
vari pasti, che potevano riguardare anche una trentina di persone.
Si iniziava con la colazione, che serviva pe sdijunà con salsicce sott’olio, casce
appresuttate fritte, la fellate de la spallétte, le pane, le vine i cèrte vóte la frutte
de ru tucchelane.
A pranzo ogni padrona di casa dava il meglio di sé, preparando ri gnócche u sinnó
ri cannaruzzóne che jju sughe de carne, pó r’agnéjje u ru pólle che lla nzalate de
pependóne i pummadóre, fórmagge pécórine i capelómme e poi portando tutto
all’aia che jju canéštre, un cesto di vimini largo e basso: ajju céndre se mettéve
la špase che la paste i ndórne ri piatte fennute mésse tutti ritte.
Questo era il canestro più pesante e veniva portato da na signórina fatte o da una
donna matura e robusta, che se ru punnéve sòpr’alla sparre, n dèste, portandolo
senza nemmeno reggerlo •no all’aia. Le altre donne se punnévene r’atri canéštre
che le cumbanà i lle bbéve. Alle ragazze più giovani era af•dato il compito di
portare la céste, un contenitore anche esso di vimini ma più stretto del canestro,
261
se litichéve tra démócristiane de ru scude cróciate i sócialiste i cómuniste de le
liste che Giuseppe Garibaldi. Nel 1946 e nel 1948 ajju Póje vengénne le sinistre
i ppure nel 1951, ma fu l’ùldema vóte pe vind’anne.
N guir’anne se presendénne ddù liste de dódece perzóne, une che capeliste ru
nótare Carlo Galeota, dón Mimme, i vice Cerasóle, l’atre de sócialiste i cómuniste,
che Leonardo Masci e Cioni Camillo.
Resuldénne quiste che nóve cunzijjére, ma une se ne jé che dón Mimme i remanénne
in òtte.
Quande cumenzénne a vutà pe ffà ru sìndeche, šcévene sèmbre sètte šchède che
ce stéve šcritte ru nóme i Leonarde i sètte pe jju nótare.
Próve che tte repróve, éve sèmbre paréggie i jju sìndeche nen šcéve: nu cunzijjére
che stéve che Leonarde nen sapéve šcrive i pèrciò nen putéve segnà ru nóme
cuma vuléve, ma nisciune je le vuléve renfaccjà.
Allóre Edoardo Taddei, Baffóne, penzé de dumannajje: zizì, ma tu chi ce vó cumé
sìndeche, Leonarde u dón Mimme?
“Leonarde”, respunné quire. Allóre s’aggiusté na šchède i sse fécce ru
sìndeche!
Nel 1956 vengé dón Mimme i !cé ru sìndeche !ne al 1960.
Ormai signórinèlle, le ragazze andavano a ballare frequentemente alla case
de Lóréte i Macciane u de Vraddinucce Grimalde, che disponevano di una grande
cucina e di vari ballerini. Tra questi, Félice i Grimalde che nei velocissimi giri di
valzer che gli piaceva fare, talora usciva rovinosamente per la tangente, travolgendo
le coppie che incontrava!
Andavano a passeggiare nei giorni di festa •no alla curve i la Cantónière, sulla
S.S.17 allora non molto traf•cata, mai di notte salvo alle Fèste i san Flice.
Della durata di due giorni, le feste patronali arrivavano dopo una lunga attesa,
confrontabile solo con Natale e Pasqua.
Fin dalla mattina presto per le ragazze cominciavano i preparativi per andare
alla Messa Grande ripulite alla tinòzze, agghindate e che jju vestite nóve o con
quello della festa che si aveva, riadattato all’ultima moda dalla sarta o in famiglia
e magari ritinteggiato. Erano già pronte al passaggio della banda per le vie del
paese, guidata dai procuratori a riempire le case di suoni festosi e a ricevere inviti
a consumare dolci e bevande.
Alle fèste, ce tenavamme a revestisse cume le signòre, sénza zinale petterine i
vunnèlle da cóndadine (v. foto 40). Pure le mamme nòstre se revestévene pe jjì
alla Miss’i la Cašcje i dóppe se cagnévene pe preparà ru pranze.
Lungo la strada della chiesa si incontravano i mendicanti, ri póveracce venuti da
fuori, ai quali bisognava dare qualche soldo, passando, per non dover sopportare
un senso di vergogna: ippure, ri sólde nen ge stévene manghe pe nnù, che pèrò
tenavamme le magnà.
La Messa, of•ciata da tre preti vestiti a festa, tra i quali don Vittorio, era lunga
267
Cèrte vóte juchévene a pallóne i a ffà la sciufelarèlle che jji mašchje, rischiando
qualcosa data l’animosità che ci mettevano.
A carnavale c’era naturalmente uno scambio di ruoli, con i maschi che
sfoggiavano le gonne lunghe delle nonne, le cùtele, e le ragazze che riesumavano
le càveze vècchje di padri e fratelli, mettendo nu turzitte u ru pistéjje i ru mertale
al posto giusto, per simulare meglio. Poi, tutti dietro a zì Vraddinéjje, che sunéve
r’órganétte e cantava stornelli con una vivacità e una partecipazione emotiva che
•niva per coinvolgere ed entusiasmare anche gli astanti fermi lungo le strade.
N’anne vénne Enzo Tortora, me sà nel 1954, a fare a Poggio Picenze una puntata
di Campanile Sera, una trasmissione radiofonica molto seguita.
Vecine alla fònde i Sande Ròcche ce stève tutte ru Póje, tutte ri quatrale mašchje i
fémmene i cchi sapéve candà mèjje, cume zà Barbine Rainaldi che alle pricissióne se
sendéve pure da Picènze.
Zà Barbine naturalmente svettava con la sua bella voce su tutte le altre, durante
le prove, ma fu scartata poiché teneva una tonalità insostenibile per gli altri del
coro, che al•ne cantarono in diretta “Vóla ru cardille”.
Tortora faceva anche le domande, ma in Italia forse non si capiva niente dalle
risposte date tutte in pujare salvo, forse, quelle date da Dónatine de Lórénze,
da Else de Ivucce e qualche altro, che per l’occasione si erano espressi in
grammàteche.
Non c’erano né la televisione né le automobili e il tempo libero si impiegava a
stare assieme per fare scherzi e battute, per ridere ai racconti dei tanti fatti spassosi
che continuamente accadevano, pe giucà a nzòpre, zassitte, carte, našcunnéjje,
cambane, pitepitugne, castéjje, girótónde e a móscacéche, a ffà ri bréve pe jji
spóse, i quadratini o i cuoricini di stoffa con dentro ru sandine e la cera della
Cannelóre, i giochi più ricorrenti pe lle fémmene.
Ma il gioco che apprezzavano maggiormente éve a ffà ajji !danzate i ajji spóse:
partecipavano tutte ai preparativi, sforzandosi di trovare le soluzioni migliori per
meglio adattare alla sposa ri vestite i lle scarpe de la mamme.
Le spóse tenévene purtà pure ru véle, che sse facéve che jji favezelóne angóre
piéne de frunne, i lla córóne d’èrbe n dèste.
Dóppe ru spósalizje ce stéve ru rinfrésche alla case i Trusiane, ch’éve cundènde
pecché je purtévene ri cumbliménde, sinnó alla candine de zì Marianucce u a nu
pajjare.
Naturalmente, con lo sposalizio venivano i •gli e si tornava a costruire le pucche,
dando di nuovo inizio al ciclo dei giochi.
269
La nevicata del 1956
di Antonio Galeota
Per tre giorni di seguito, nel febbraio 1956, fécce tanda néve: circa un
metro, quanta non se ne era vista mai a ricordo dei più anziani.
Per potersi spostare, già dopo il primo giorno di nevicata i poggiani tolsero i
primi quaranta centimetri di neve, realizzando una stretta stradina per il passaggio
pedonale, l’unico indispensabile dal momento che le bbéstje erano chiuse nelle
stalle per il riposo invernale.
Durante la notte successiva cadde altra neve, sì da ostruire di nuovo la stradina
realizzata e la mattina si ricominciò a spalare. Così anche il terzo giorno.
La neve ammucchiata ai lati si alzava quasi a coprire le
•nestre del piano terra, almeno nelle strade più strette,
risultando alta anche nei cortili interni delle case (v. foto
42).
Dopo tre giorni di turmènde, il cielo tornò al sereno,
ma la temperatura stentava a risalire sopra lo zero,
né il sole riusciva a scal•re la super•cie della neve
indurita dal gelo notturno, quando la temperatura
arrivava anche al di sotto dei venticinque gradi,
rovinando i vigneti e molte delle piante da frutto.
La neve indurita si tagliava con dif•coltà, ma
bisognava comunque toglierla dalle strade e dai tetti,
che erano ormai a rischio di crollo, considerato il
peso da sopportare.
Vennero organizzate squadre di spalatori in ogni
quartiere e si costruirono slitte rudimentali su cui
caricare la neve per portarla al di fuori del paese,
negli orti e nelle aie, da dove scomparì del tutto dopo
circa due mesi.
42. Cortile casa Ferrari, 1956
L’abitudine alla fatica e la natura aperta e gioviale
dei giovani che vi attendevano, avevano creato la solita atmosfera di af•atamento
e di solidarietà, che allora si raggiungeva ogni qualvolta occorreva mettere
assieme forza lavoro ed impegno disinteressato. Davano una mano tutti, anche
i ragazzi, ancora numerosissimi nelle varie famiglie e costretti a vivere in spazi
sovraffollati.
Si instaurò una vera gara a chi lavorava di più e, nel giro di pochi giorni, si
raggiunse lo scopo di liberare dalla neve sia i tetti che le strade interne.
273
La Mille Miglia
di Antonio Galeota
Il passaggio della Mille Miglia a Poggio Picenze cadeva sempre di
domenica.
Dalla mattina presto e almeno •no a mezzogiorno si susseguivano sulla S.S. 17
provenienti da Barisciano, a intervalli di qualche minuto, sfreccianti auto da corsa,
variamente colorate e contraddistinte da grossi numeri sulle •ancate laterali e sul
cofano del motore.
Non c’era ragazzo capace di resistere al fascino della corsa mancando
all’appuntamento con essa, che risultava essere l’unica occasione dell’anno in
cui tutti i ragazzi uscivano dal letto nelle prime ore del mattino, spesso quand’era
ancora notte fonda, senza che dovessero essere svegliati!
Con!uivano in tanti alla curva a ferro di cavallo de ru Casine, dove si potevano
vedere le macchine arrivare velocissime in discesa, frenare bruscamente e
immediatamente prima della curva e poi ripartire con un’accelerazione rumorosa
e bruciante, continuando a tuffarsi decise lungo la discesa, verso l’abitato di
Poggio.
Tanta altra gente sostava in prossimità della curva della Cantoniera, che aveva
una pendenza traditrice che spesso portava le auto ad uscire fuori strada sul lato
sud, andando a solcare i terreni coltivati dopo qualche giravolta sull’asfalto.
Altri gruppi di persone, composti per lo più da anziani, si fermavano a Sande
Ròcche e alla Variande.
L’esperienza maturata da più generazioni, essendo in essere la Mille Miglia •n
dal 1927 e riferendosi la presente rievocazione all’ultimo anno di effettuazione,
il 1957, faceva scegliere agli spettatori di seguire la corsa dalla parte opposta a
quella dell’uscita possibile delle macchine.
Ma stare nei paraggi della corsa era comunque avvertito come un pericolo dalle
mamme, che provavano, inutilmente, anche a serrare ri scure delle •nestre delle
camere, per evitare che i •gli si accorgessero che era giorno e per ottenere almeno
di ritardarne la partenza verso la S.S.17, dal momento che quella mattina avveniva
il miracolo del risveglio spontaneo, che tutti i genitori si auguravano avvenisse
negli altri giorni lavorativi.
Transitavano dapprima le macchine più piccole, le Diane, le 500 e 600 adattate
alla corsa, cioè truccate e anche esse veloci.
Man mano che ci si avvicinava alla tarda mattinata, cresceva l’interesse con
l’aumentare della cilindrata e cominciavano a vedersi le sagome piatte delle vere
278
Anni Sessanta
di Antonio Galeota
Per non incorrere di nuovo in continui riferimenti autobiogra•ci, avrei
voluto non parlare degli anni Sessanta così come vissuti a Poggio Picenze,
commettendo però un doppio errore che ho voluto evitare: trascurare un’epoca,
peraltro ricompresa negli ambiti temporali del libro, che è risultata decisiva per il
cambiamento di costumi ed abitudini di vita oltre che per i mutamenti intervenuti
in modo speci•co nei rapporti tra le classi di età e, inoltre, dover perdere la
descrizione dei numerosi e, qualche volta, interessanti avvenimenti accaduti nel
decennio considerato.
Con la diffusione della televisione, negli anni Sessanta è nato il “villaggio globale”,
si era nella possibilità cioè di essere messi a conoscenza degli avvenimenti più
signi•cativi riguardanti soprattutto il mondo occidentale, venendone in!uenzati
e coinvolti.
La guerra del Vietnam aveva creato, dapprima negli USA e poi anche da noi,
un movimento paci•sta non occasionale e capace di elaborare le teorie che
hanno fatto sentire la guerra come uno strumento mai necessario, né tanto
meno indispensabile per superare i contrasti di interessi tra i popoli, mentre il
movimento antirazzista guidato negli USA da Martin Luther King ci aveva fatto
sentire le violenze e i soprusi perpetrati a danno degli appartenenti alla razza nera
come una inaccettabile ingiustizia commessa contro il genero umano.
C’era anche una •duciosa attesa su ciò che il progresso tecnologico prometteva
di creare in continuazione, dopo il volo intorno alla Terra dell’astronauta russo
Gagarin, e c’era un’aspettativa di un mondo migliore grazie alla promessa delle
“nuove frontiere” per l’umanità, enunciata dal Presidente americano John F.
Kennedy, e alla predicazione ispirata a un sentito ecumenismo del “papa buono”,
ed intelligente, Giovanni XXIII.
Il mondo giovanile non solo recepiva ed interpretava quanto accadeva nel mondo,
ma cominciava ad essere protagonista diretto, volendo guidare esso stesso il
cambiamento: nei primi anni Sessanta, nelle università americane si cominciò
dapprima a contestare la guerra del Vietnam per poi passare a un movimento
paci•sta organizzato, che teorizzava l’abolizione di ogni guerra.
L’Europa naturalmente non stava a guardare, interpretando la protesta contro
il potere costituito in termini innovativi, pre-rivoluzionari addirittura nella
primavera francese del ‘68, dapprima rivendicando una piena libertà personale e
quindi sfociando nell’aperta ribellione al sistema capitalistico, di cui si contestava
sia l’indirizzo consumistico e le disuguaglianze, sia la rigidità istituzionale,
af•data al potere degli ultrasessantenni anche in nome della salvaguardia delle
281
POETANDO IN RIMA
di Messalino Taddei
307
Me recòrde
Caminènne pe’ la vije
spécialménde se ssó ssóle
me vé la nóstalgìe
de scrive ddù paróle.
Só recòrde che spésse
te pàssene pe lla ménde
vissute da mi stésse
ma pure dall’atra ggènde
recòrde de gjuvendù
ch’óramaje se né jjite
nen pó revenì cchiù
cume na ròse s’é appassite.
Me recòrde ri témbi béjje
quande se candéve vóla vóle
chi juchéve a nascunnéjje
i cchì a salde la mule.
Avamme cum’é jji dive
a pallóne jucavamme fóre
mó ce sta ru cambe spórtive
i nen ge stanne ri jucatóre.
La sére che la chitarre
se sdraiavamme all’ariapèrte
pure se tenavamme ru ciamurre
candavamme a vòcc’apèrte
nénde ce facéve óstàchele
avamme córaggióse
pure se che jjù binòchele
ce facévene vedé la spóse.
Quande purtavamme la serenate
une s’aspettéve, se capissce,
nu •óre, na ròse, na guardate…
Nnò nu rinale piéne i pissce.
Ippure faciavamme tutte bbóne
tutti zitte, sénza schiamazze,
pecché sta benedizzióne
nen le putéve jettà alla tazze?
Me tòcca cagnà la frase,
la tazze éve nu sógne,
nen ge stéve ru bagne in case
i manghévene le fógne.
L’acque, le fémmene, la cujjévene
a na fònde prélibbate
i llóche se facévene
na bèlla chiacchiarate
pecché pe falla brève,
teniv’aspettà la péte:
éve prime chi ggià ce stéve
sinnó évene cungate.
Repurtévene l’acque da la fònde
i la mettévene ajju cungare
i dóppe tutti quande
bevévene che jjù manére.
Javamme mmèzz’alla cambagne
a fregacce le cerasce
ma nenn’éve na cuccagne,
nen ge stéve tanda rasce.
Pe passà quiru fassce i spine
che stéve alla ngacchiature
éve tutte nu casine
te spinive pure ru cure.
La fame nenn’éve ròse
te pijjéve sénza piétà
t’attacchive a tutte le cóse
pe putélla accundendà.
Quande truvavamme na piande
guardavamme se ce stéve cachedune
tenavamme pregà ri Sande
sinnó faciavamme ru dijune
309
L’émigrazióne
Tenéma fà na prómésse
pure se séme sfurtunate,
de rengrazià ló stésse
quiru che cj’à criate,
pecché sicuraménde é vére,
dicémele chiar’i ttónne,
pure se rrèste nu mistère
cachedune à criate quistu mónne
é cume la stòrie de ru melóne
che se dice a dèstre i a manghe
ce sta chi é scite bbóne,
ce sta chi é scite bianghe,
nen ge vóle cèrte nu dótte,
basta guardàcce ndórne
quande a na parte se fà nòtte
all’atra parte se fà jórne
nen ze cagne de reggistre
i nen ge vóle na maéstre
a l’inghiltèrre se va a sinistre,
i ajj’atri state se va a dèstre,
Lavatoio e fontana di San Rocco, anni Venti
pe ffà nu paragóne,
nen ze tanna cunzuldà le stèlle,
chi se métte ru pandalóne
i ch’imméce la vunnèlle,
succède tutte ri dì
da quande ru state s’ammendé
se chi cummanne dice “si ”
l’óppósizióne respònne “sé ”.
Che quistu state de ténzióne
de chi sta bbóne i cchi sta male
se só mmendate l’émigrazióne,
in cambe naziónale.
Évene témbe dure i triste
ce stéve r’uf•ce de cóllócaménde
ma putiv’émigrà turiste
cume facéve tanda ggènde,
se tendéve la furtune,
se cerchéve de stà mèjje,
che le patàne i le rane fune
nen cambéve la famijje.
Allóre me vénne la décisióne,
forze nu póch’affrettate,
de tendà l’émigrazióne
vèrze n’atre state,
319
La créazióne de ru Póje
Nen vòjje passà alla stòrie
nen ge tènghe pròprie pennénde
me bbaste raccundà la glòrie
de ru Póje i de la ggènde
pe nen fà parlà n’amiche
i pe nn’avé la sòleta criticate
la scrive in Pujare antiche
ma nu póche rimódérnate
ji spère che ve piace
nen me sérvene ri cumbliménde
s’a tené paciénze séte capace
a tutti buóne divértiménde.
Ddje, che jjù sòlete sórrise,
nen me recòrde, ma tand’anne arréte,
lassé pe n’àtteme ru Paradise
pe métte, de ru Póje, la prima préte.
Penzé de fà na cosa sèrie
de nen fà na cóse raccapezzate
pe putécce passà le fèrie
cacche jórne n pién’istate
éve na jurnata bbrutte
stéve a ffà nu fórte témbórale
penzé : mó ru facce all’assutte
ajji péje de Cenerale,
lundane da ru •ume i da ru mare,
quésta é na justa pósizióne,
mó ce métte ri Pujare
•n’a cché se pòrtene bbóne
p’alleviamme la fatiche
che tènghe pe séje jórne
mó stésse ri bbenediche
levènnemeri da tórne.
Éve prime de ri Romane
i sse stéve tutti sparpajjate
sòpre sòtte i fóre mane
dellà i decquà de ru fessate.
326
Ma ècchete ri bàrbere allupate
ri Pujare mbaurite se ne scappénne
alla mundagne i alle ròtte
annascunnate
che ll’acque chéte se ravvicinénne
nu •nimónne, óggnune retruvé,
nen ge stéve cchjù nisciune,
da le case de préte nisciune respunné
se dénne da fà pure stènne a ddijune.
Se métténne a lavurà
schiupènnese alle mane
cuma tenéssena fà
tutti quande ri cristiane
•cénnne sùbbete ru castéjje
pe fasse na difése
cuscì cóndróllévene mèjje
tutte quande ru paése
év’imbórtande, le sapévene ,
succedéve ajj’atri paése,
cuscì se defennévene
da n’attacche all’assacrése.
Je vénne subbete ajjù cervéjje
de fà la case barónale
le case sé, le stalle i jji mandréjje
la cchiése i S. Salvatóre, la
parrocchiale.
Pó se só accórte,
a scóppie retardate,
che p’èsse angóre cchjù ffórte
manghévene ri vicinate.
Che la calme i sénza stizze
che la carte i jji piumine
cumenzénne a fà ru schizze
lavurènne sére i matine.
Disegnénne ru quartiére de Castéjje
ru Cuedacchje •ne a Péllicane
che tand’arche i vìquele bbéjje
sénza cómpasse, tutt’a mmane
recagnénne ru piumine
pecché la punde éve cunzumate
i ddópe cacche matine
disegnénne l’atra parte i ru fessate
Cumenzénne sùbbete le fóndaménde
raschiévene pure che le mane
alla •ne tutti cundènde
jje méssene nóme San Giuliane.
quande pó évene prónde
i jjù studie éve alla •ne
arrivénne alla case i Pórcómónde
i traccénne ri con•ne
Mó che séme fatte stu prógrèsse,
teném’aprì la strade a st’atra vije
i cumenzénne a ffa r’ingrèsse
a partì da la case i Rósalie.
pe recòrde de quir’ artiste
i pe puté fajje ónóre
nditólénne in prima liste
na vje ajji pittóre.
Ècche nen tenéma fà nu viaréjje
ce putém’allargà cuma ce pare
de ri quartiére dévèsse ru cchjù bbéjje
anghe óldre la case de Ferrare.
Fà largheViaranne nen servéve
ru matiriale ggià r’évene purtate
bbaste che ce passéve
ru carrétte che jj’appjedate
Ma cum’ajjù Póje succède spésse
pure mó, nenn’é cagnate nénde,
ce stanne ri furbe, ce stanne ri fésse
ma chi décide é la sòleta ggènde.
ce stévene tutti mucchje de tèrre
éve sparse a tutte ri late
nen ze passéve, sembréve la guèrre,
i jji lavuratóre sembrévene sóldate
…Stét’atténde che ve ròmbe l’òsse,
guaje a cchi se permétte
a cu ssèrve ssà strada ròsse
facétela cchjù strétte!
se lavuréve alla ranine
sénze che nisciune cummannéve
chi zappéve che la cravine
i cchi la tèrre la spianéve:
Éve une de rispétte
de na famijje ricche de pótènze
tenùzzena fà la strada strétte
•ne ajj’arche de Via Picènze,
che stu mòde se jéve nnanze
sénza métte une che cummanne
nen ge stévene le lagnanze
i sse fenéve pe capedanne!
pó je regalénne n’abbacchje
i puténne allargà la vije
•n’ajju pònde de Pistacchje
passènne nn’anze la farmacie.
Évene tipe nu póch’invidióse
già tenévene mménde ru prógétte :
pe ffà ru quartiére cchjù glórióse
éve da custruì sùbbete na chiésétte!
Le famijje cumenzénne a crésce
cumenzénne a fà le spartezióne
in quisti case maje se rrèsce
accundendà tutte le perzóne,
Nen le facévene pecché évene
crédènde
pe jésse l’invidie éve nórmale
nen vulévene che tutte la ggènde
jésse a pregà alla parrócchiale.
pijjènne spunde da quéla tèrre
che jéve remaste tutt’ammucchiate
•cénne nasce Péje la Tèrre
ch’éve n’atre vicinate.
Passénne abballa Dórnine,
che ppicch’i ppale i tande suvóre,
traccénne ri cun•ne
de quéle che mó é Larghe de ri •óre
327
Pe mmétte la pace fra ri vicinate
Antònie a fatte bbóne
a recavezà tutte ru fessate
pe ffà la vije a bballe Pinzóne.
fanne •nde de litigà
pe cónvinge mèzze mónne
i ajju mómende de magnà
magnene assiéme cumé jji sfónne
nen ge stéve angóre soddisfazióne
ru Póje éve angóre separate
féce allóre la circónvallazióne
pe riunì tutte ri vicinate
s’a cachedune nen jjanne vutate
appóste de fà “avande in dré”
penzènne alla ggènde che nen jjà
cruciate
che se dumannésse ru pecché
ce manghéve pe fasse ónóre,
cuscì ru Póje venéve ajjustate,
ru piane de fabbricazióne
pe jji solete raccummannate.
Chi à perdute tenèvèsse cundènde
nen sfrutte ru cervéjje pe penzà
nen ze pijje le bbiastéme da la ggènde
i ppó.. È mmèjje a cundestà,
Cachedune nen vuléve pèrde ru tróne
nen z’éve angóre stufate
mó ànne refatte le vótazióne
i le liste ànne presendate
pe quiri ch’ànne vinde nenn’é ló
stésse
ténghene atre a ccu penzà:
se nen respèttene le prómésse
sicure ri mannene a cacà.
ànne recóte tré spiche alla restóppje
só arrivate próprje alla ruvine
se ce n’ajjògnene n’atra cóppje
nen ge magnene manghe ddù cajjine
i quir’atre che la fònde i Sande
Ròcche
pure jésse ànne fatte na stécche
nen ge cóle nénde a quéle vòcche
mèjje che la chamévene fóndesécche
ndraminde le vótazióne
tutte m’ànne salutate
mó se ngòndre la stéssa perzóne,
pènze: m’à vutate u nen m’à vutate ?
te fa nu sguarde che m’addólóre
é tutte nu mòde de penzà
pe mmì n’amiche é nu tesóre
che jjù vóte nen bó cagnà.
La póliteche é nu mistère
maledétte chi l’à mmendate
fa litigà le famijje indère
i jji prótagóniste remanene af•atate
333
JÉME DICÈNNE
di Antonio Galeota, Gian•lippo Galeota, Marco
Manilla, Gian Battista Taddei, Terenzio Ventura
335
Aneddoti1
di Antonio Galeota
La vicenda del campo di calcio realizzato all’Aia della Chiesa, conclusasi
nel 1969, aveva rappresentato il culmine di un lungo processo di crescita della
gioventù poggiana, ma prima ancora erano successi altri fatti, pure essi di un
qualche interesse.
Negli anni Sessanta, d’estate si cenava appena cominciava ad imbrunire.
Subito dopo i giovani e le persone adulte, anche quelli che avevano già in casa
il televisore, uscivano tutti da casa, dopo una faticosa giornata di lavoro, per
convenire nei soliti punti di ritrovo, le piazzette del vicinato, Piazza Castello o in
uno dei due bar, dove si giocava a carte, si raccontava o si organizzavano i giochi
e i passatempi.
Ci si poteva anche fermare davanti allo spaccio di Méline a sentir raccontare
Franco Guido ed altri delle ancora fresche avventure di guerra, della vita da
emigrante nelle mine o nelle lusine, delle imprese dei ciclisti più famosi oppure
intrattenersi appena fuori la trattoria Urbani o al bar di Adornino o altrove, ad
ascoltare i gustosi aneddoti continuamente riproposti da Demuccio Urbani,
Adornino Masci, Antonio Innocenzi sr e da altri occasionali narratori. Se poi non
ti andava di fare né l’una né l’altra cosa perché ripetitive, allora dovevi inventarti
qualcosa, dovevi animare la serata da te e in sintonia con i numerosi compagni. In
questi frangenti, dal gruppo di amici compatto e numeroso ma talora frazionato per
una sera, usciva fuori la creatività più bizzarra, qualche volta geniale e comunque
imprevedibile. Nasceva un progetto che poi si dispiegava man mano che lo si
attuava, arricchendolo di trovate all’inizio non previste, altre volte si metteva in
opera un proposito maturato durante il giorno.
Era tanta la voglia di divertirsi che se ne inventavano in continuazione e sempre
nuove.
Azione militare con copertura aerea
Grande fumatore di sigari, Antònie Ianni detto Scjandanne riceveva
il necessario per vivere anche dalle numerose piante di •chi che gelosamente
custodiva, a maturazione dei frutti, in quel della Castejjucce. Le piante erano
poste sul crinale e il nostro compaesano sfruttava abilmente quella posizione
non facendo avvicinare nessuno, salvo concedere qualche sporadico •co agli
avventurosi che potevano prenderlo a volo, per poi fuggire a gambe levate
inseguiti dai sassi lanciati dal padrone.
Allora, agli inizi degli anni Trenta, era del tutto naturale rimanere a guardia tutta
la notte per fronteggiare un danno che sarebbe risultato fatale per l’economia
1
Episodi narrati da chi vi ha preso parte o scritti sulla base di racconti fatti da altri, elencati in Appendice al presente volume come Collaboratori orali.
337
Aneddoti
di Gian•lippo Galeota
La Fiera del Fiore
Tempo fa, alcuni giovani del nostro paese ebbero la brillante idea di
organizzare in Piazza Castello la “Fiera del Fiore”, sicuri di fare una sorpresa ai
loro concittadini.
Ma pur concedendo all’iniziativa meriti e simpatia, non possiamo essere d’accordo
con questi baldi giovani di Poggio Picenze per quanto riguarda l’originalità della
loro idea.
Tempo addietro (è questione di secoli), la Fiera del Fiore era una singolare
caratteristica del nostro paese.
Dunque, cari Lettori? Scommetto che vi chiederete come mai tanta tradizione sia
stata in disuso presso di noi per tanto tempo.
Ebbene vogliamo darvi una mano: ricorrendo alle pagine della “Cronaca Poggiana”
scritta dallo storico Orazio Galbo, abbiamo trovato ciò che ci interessava e che
siamo lieti ora di riportare nel nostro giornale.
Le pagine, in cui traspare assai viva la realtà di quel tempo lontano, suonano
così:
“Eravi nella Piazza de lo Castello una quantità incommensurabile di ogni sorta
di •ori, ivi raunata siccome ogni anno, da nerboruti et baldi giovani per rendere
omaggio alla dea Flora. Era suddetta piazza assortita di colori vari e di profumi
ubriacanti.
Trovavansi in essa piante !orifere di qualsiasi dimensione nonché natura e tutto
il popolo reunito mirava la straordinaria maraviglia.
D’un tratto, dalla turba staccossi una madonna del rione Piedi la Terra, scarmigliata
e nera. Avvicinossi costei al suo geranio, inginocchiossi a terra e cominciovvi a
far uscire dalla bocca trista i vapori de la sua anima indiavolata. Da siffatte fauci
vennero fuori •amme e fuoco che strazio fecero de la splendida maraviglia.
Atterrissi la folla. Fuggissi. Malamente compissi lo gesto infame et malvagio et
sacrilego! L’avvento sì tanto s’impresse ne le menti de li Poggiani che parve loro
ammonimento a la lussuria loro.
Da quel dì non fecesi più Fiera del Fiore et a testimonianza de lo fatto sussopra
narrato resta la traccia di fuoco lasciata per lo tempo eterno da quella creatura di
Farfariello sulla soglia bruciata di messer Pianino.”
Non a caso abbiamo riportato in queste pagine il pensiero di uno storico tanto
illustre e conosciuto soprattutto tra di noi.
Vorremmo infatti che la gioventù del nostro paese si scuotesse, onde continuare
in modo degno le gloriose gesta dei nostri avi.
374
Aneddoti
di Marco Manilla
Ru spóse frangése
Mó na vóte, ji, Dème i Baf!tte, i tutte la cumbagnìe javamme a Mariannine
i Patanijje, ca tenéve na candine addù abbitéve Séppìne Masci. Prime ajju Póie
ce stévene tande candine addù r’ ómmene jévene la sére a ffasse na partite a
ccarte i a bbéve le vine. Se !cévene le passatèlle i sse stéve nziéme.
Se sunéve. Mó tandi gióvene sapévene sunà la !sarmòneche, ru manduline, la
chitarre, ru viuline. Ce stévene le candine de Finucce i de Flicitte a Viaranne, de
Mataléne a Sante Ròcche, de Pianine a Piazza Castéjje.
La cumbagnìe nòstre nù javamme sèmbre a Mariannine i Patanijje. La sére
!ciavamme baldòrie i cce piacéve fà ri šchérze.
I allóre, na bbèlla vóte, Fidie Iovenitti i Marie i Ladine stévene a lavurà alla
Frange, i allóre nne sà, ri ggivinótte pàrlene de le fémmene. Mó quisti, parlévene
sèmbre de le quatrale de ru Póie, ca cce stévene tande fémmene bbèlle. Mó, che
jésse, ce stéve pure n’ ómmene d’Avelline, i quistu sènde i ssènde de tutte ste
quatrale bbèlle de rù Póje ca je vénne la vòjje de !danzasse. Allóre, Fidie ce
scrivé de stu fàtte, i allóre nu, la cumbagnìe nòstre, ce vénne m ménde de fajje
nù šchérze: je mannamme na léttere de !danzaménde. La spóse la séme truvate
sùbbete: éve ji, ma me chiaméve Dèma Urbani…
Mó stù cristiàne nen se le fécce repète ddu vóte i mme respunné ca sse vuléve
!danzà. Dópe me šcrivè n’atra léttere addù me dicéve ca ss’éve nnammurate,
inzómme, me šcrivéve na vóte la settimane. Mó !nalménde me decidé i me !danzé
che stu cristiane, i accuscì cumenzamme a ffà l’amóre. Stu póverette se credéve
ca ss’éve !danzate che na bbèlla quatrale i ce cašchè cume nu pólle, i accuscì
cumenzé ru šchérze.
Ie allóre,… mó ri !danzate, nne sà,… fanne all’amóre,… i nu pure se mettamme
a ffà all’amóre, !ciavamme all’amóre pe léttere!!
Se scrivavamme tutti ri mése i ógni léttere ca quistu mannéve nu la leggiavamme
a Mariannine, la sére, i dajje a rite!
Nu respunnavamme alle léttere, i allóre mó na vóte je mannè a dice ca vuléve
nù regale i !danzaménde, i quistu me remanné le cavezétte da fémmene. Mó
quande arrivénne ste cavezétte, cù tte vó sta pe lle rite. La sére se sendamme
male pe le tróppe rite, ie allóre, mó nne sa, se devertavamme i allóre ru šcherze
jéve nnanze. N’atra vóte me remannè ru reggipétte, éve nére i bbejje ma me jéve
tróppe rósse… N’atra vóte me remanné ri sólde.
A nu cèrte punde ru !danzate mé, me disse ca mme vuléve chenušce; ca
vuléve venì ajju Póje. Óddìmà, i cuma se fa? Allóre, je respunnè ca mamme nen
vuléve: tenéve aspettà.
Ma stu póvere cristiane, ru !danzate mé, s’éve pròprie nnammurate i me šcrivé
376
Aneddoti
di Gian Battista Taddei
Il burlone e il Notaio
Il Notaio del paese don Vincenzo Galeota, di siloniana memoria, una
mattina s’era svegliato con una gran voglia di ridere. Fu anche fortunato quella
mattina presto, perché in città incontrò un suo paesano, l’emerito burlone,
all’occorrenza, Manfredo Del Ferro, che egli conosceva bene. Già averlo
incontrato, prometteva bene e il Notaio gli espresse quel suo desiderio da
soddisfare.
Questo signore aveva sempre la battuta pronta e subito rincuorò il Notaio
dicendogli: Aspètte nu póche, ca mó te facce crepà da le risate! Lo portò nel bel
mezzo del mercato, presso un rivenditore di prodotti alimentari, di quelli che, per
lo più, erano provenienti dai paesi vicini. Manfrède disse al Notaio di prepararsi a
ridere e nel frattempo ordinò delle uova fresche, che subito cominciò a prendere
in mano e ad af•darle al rivenditore. Due, tre, quattro, cinque, sei e ancora altre
uova, e il povero uomo non riusciva a contenerle sulle braccia aderenti al corpo e
riunite con le dita all’altezza dello stomaco.
Il prelievo delle uova continuava e il disagio del venditore si faceva evidente,
come le risate del Notaio, dapprima !ebili, ma poi sempre più scomposte, ma
fatte con gusto. La presa delle uova continuava e le •le delle stesse sulle braccia
arrivavano ormai •no al mento del rivenditore.
Il Notaio aveva iniziato la sua risata sempre più irrefrenabile, mentre doveva
riordinarsi la pancia abbondante, che nei sussulti subiti, usciva fuori dei suoi
pantaloni. Non era tutto perché il burlone, quando aveva raggiunto tutta la
capienza... dell’improvvisato contenitore, cominciò a slegare la cintura dei
pantaloni del rivenditore, il quale era obbligato a non muoversi, per evitare la
sicura caduta delle uova.
Il Notaio si sganasciava dalle risa sino a giacere a terra, vedendo immobile il
rivenditore con i pantaloni calati e, quasi a mostrare, anche le... sue due uova
personali! Stette lì a terra un bel po’ a sbellicarsi dalle risa, e dopo essersi con
fatica, rialzato, e avere ricomposto dentro la cintura dei pantaloni quella pancia
esagerata, il Notaio ringraziò Dél Fèrre dicendogli che mai aveva riso così di
gusto.
Intanto i due si allontanavano da quel luogo e si voltavano ogni tanto a guardare
quella statua, che non poteva ancora muoversi.
Il Notaio rinnovava le sue risate e Del Ferro era contento della sua felice trovata
e, con passo baldanzoso, n’andava •ero, pensando già alla prossima burla.
379
Aneddoti
di Terenzio Ventura
Adornino della Petogna
Adornino della Petogna di Barisciano veniva a lavorare a giornata
a Sabatino Urbani de Baf!tte. Partiva ovviamente a piedi dalla Petogna e per
arrivare al Codacchio percorreva sempre lo stesso tragitto passando per Via Piedi
le Vigne •no alla Madunnèlle, per risalire poi alla casa di Sabatino oppure per
proseguire sino alla terra dove si era diretti a lavorare.
Una sera prese l’ardua decisione di non percorrere la strada che faceva sempre ma
di risalire dal Codacchio passando per il centro abitato.
Risalì tranquillamente per via Codacchio e, giunto all’altezza della casa della
Pajanechése e di Tobia, scelse la strada che va a destra : Via Castello verso le case
di Basilóne, Ru móre, Raffaele i Cutechine, Giovanni i Corangéleche, Marinelli,
Turóne, la Petugnése, Ngrillitte, la Lòtene, Giggine i Panare, Giovanni i Stèfane,
Guerrino e giunse a Piazza Castello percorrendola tutta. Da qui, invece di girare
a destra per procedere verso San Rocco, girò a sinistra scendendo per via Roma e
riprese a scendere sino a giungere alla fontanella, proseguì verso la casa di Tobia,
girò a sinistra e si ritrovò a percorrere la strada che lo portò di nuovo a Piazza
Castello.
Per tre volte compì lo stesso giro. Alla •ne incontrò un giovanotto e gli disse:
“pe lla Madònne, lu Póje è culussale”. Si fece accompagnare al Codacchio e di lì
proseguì •nalmente per la Petogna.
Mastro Berardino e Donna Fiorita
Mastre Berardine, cioè Berardino Valle, era un ometto simpaticissimo,
asciutto, sempre attivo che era nato a L’Aquila e si era stabilito a Poggio
Picenze dove aveva sposato Peppina de Bòrtòlle da cui aveva avuto cinque
•gli: Attilio, Alfredo, Adelina, Vittorio e Vincenzo Pillitte. Negli anni Quaranta
e successivamente è stato il banditore uf•ciale del paese, attività poi ereditata
dal •glio Alfredo. Originariamente faceva il sarto e la moglie, per indicare il
marito diceva “ru sartóre”. Negli anni Trenta, insieme con altri Poggiani andava
a lavorare a giornata in casa del Notaio.
Donna Fiorita era la moglie del Notaio Galeota. A quell’epoca don Mimmo, il
•glio minore era un ragazzino e don Peppe un ragazzotto. Donna Fiorita era una
donna molto accorta ed aveva contribuito ef•cacemente a mantenere la proprietà
della famiglia.
383
Il bersagliere, con fare da esperto detective, disse in perfetta lingua italiana: “non
ho bisogno di spiegazioni” ed aggiunse: “vajjò, la prossima vóte che vvé a bbussà
alla porte de case, te pijje pe lla teste e te ce faccie nduccà cuma se déve”
Massitte accusò il colpo.
Il bersagliere se ne stava tornando verso la propria casa ed era giunto all’altezza
del cortile di Eliseo i Fraddiàvere quando Massitte disse ad alta voce: “Cómbà
Ndunì, bissciallé!”. Quest’ultima parola per Massitte signi•cava “bersagliere”.
Da parte sua il bersagliere dovette interpretarla come “piscialletto” perché la
risposta immediata con voce sonora fu: “cacarelló, te pòzza pjjià nu cólbe”.
Massitte esterrefatto disse ai presenti: “ma pecché m’à dì cachélló”.
Le frisèlle
Ultimo giorno dell’anno.
A Piazza Castello alle ore 23,58 ru Bersagliére imbraccia la doppietta e spara due
colpi in aria. Si rivolge quindi a Massitte che gli sta vicino e gli dice: “quéste sci ca
só friselle!”.
Massitte gli risponde: “ tu nn’é bbó a ffà le pisè; iu combà (cioè Terenzio) é bbó a
ffà le pisè”.
Allo scoccare della mezzanotte, Terenzio che stava a poca distanza dai due, fece
esplodere un petardo che fece tremare i vetri delle case.
Massitte disse al bersagliere: “cómbà Ndunì, péla llà é na pisè”.
Sentito questo il bersagliere bofonchiò alcune parole incomprensibili e se ne rientrò
a casa.
La fontanella fuori programma
La mattina al risveglio Massitte si avvicinava al davanzale della
•nestra della camera dove dormiva, saliva con i piedi su uno sgabello e faceva
pipì oltre la •nestra senza sporgersi.
Era il mese di luglio e Riccardo Ru ngignére, padre di Méline e di Amedeo
Rainaldi tornava dalla via di San Demetrio con il carretto pieno di covoni di
grano trainato dal mulo. Giunto all’altezza della casa di Massitte dove la strada è
in lieve salita, si accorse che dalla •nestra scendeva una strana pioggia.
A quel punto lasciò le redini, incoraggiò il mulo a proseguire e attese che la
pioggia cessasse dopo di che disse: “ si fenite?”
Una voce chiara e decisa rispose “sci!”.
390
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