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Getta il mantello del lutto
Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XII n° 1/2008 G etta il mantello del lutto 1 3 Primapagina Sorella Paura 6 4 Gerusalemme, spogliati del vestito di lutto... Quando la vita è a pezzi 8 10 Oltre il dolore Come un vento leggero 12 SOMMARIO 14 Il risveglio che arriva da lontano La voce dell’Africa 18 Il nuovo anno della Fraternità 22 20 Rivestiti di domande 24 Incontri Romena 2008 Festa di Pasqua 28 Graffiti trimestrale Anno XII - Numero 1 - Marzo 2008 REDAZIONE località Romena, 1 - 52015 Pratovecchio (AR) tel./fax 0575/582060 www.romena.it e-mail: [email protected] DIRETTORE RESPONSABILE: Massimo Orlandi REDAZIONE e GRAFICA: Simone Pieri, Alessandro Bartolini Massimo Schiavo FOTO: Massimo Schiavo, Alessandro Ferrini Luciana Rosi, Eliseo Pieri Copertina: Massimo Schiavo Hanno collaborato: Luigi Verdi, Lidia Maggi, Stefania Ermini, Maria Teresa Abignente, Arrigo Chieregatti, Wolfgang Fasser, Luca Buccheri, Raffaele Luise. Filiale E.P.I. 52100 Arezzo Aut. N. 14 del 8/10/1996 26 Massimo Orlandi PRIMAPAGINA Ho ricevuto una bella lezione di filosofia di vita da un amico senegalese. Si chiama Abdou e vende libri africani davanti a una libreria di Firenze. Lo incontro ogni giorno, e ogni giorno, pioggia, freddo, vento inclusi, lui sta sul marciapiede a incrociare il nostro campionario di atteggiamenti: c’è chi allunga il passo, chi si scansa, chi balbetta un ‘non mi interessa’ e scappa via. E c’è chi si ferma, per fortuna. Ma, insomma, non è un gran vivere per pochi euro di sopravvivenza. Eppure lui sorride, sorride a tutti, e quei sorrisi fanno luce, alzano la temperatura intorno. Una sera, a cena, ho rotto gli indugi: “mi spieghi - gli ho chiesto - come fai a far finta di essere sempre felice?” “Guarda che io non faccio finta - ha risposto - Io sono contento per davvero”. “E tutte quelle reazioni scontrose come le assorbi?” “Se uno passa e mi risponde male, penso pazienza, vorrà dire che prima o poi ne arriverà uno più gentile”. Spuntano fiori tra il cemento delle nostre città. Li cogliamo poco, per questo ci sentiamo sempre più aridi. Ultimamente mi capita spesso, conversando con amici, di tirar fuori valanghe di recriminazioni per la crisi della nostra società, per il vuoto di valori della politica. E, anche se sento che lo sfogo è giustificato, alla fine di queste discussioni un sapore acre mi sale in bocca, come se la pesantezza delle mie parole mi ritornasse addosso. Perché succede questo? Forse perché l’obiettivo delle mie invettive non è solo esterno a me, ma in qualche modo mi riguarda, mi coinvolge. Viviamo immersi nella melma di un benessere materiale sempre meno appagante, siamo tirati dai fili invisibili di un consumismo furbo, che ci intorpidisce. E la cosa più grave è che crediamo di essere liberi da questi condizionamenti; per questo non ne veniamo fuori, anzi finiamo per esser parte di questa fase di confusione. Ecco perché il mio sfogo si rivolta su di me, e sa di amaro. Questa sensazione è sintomatica della forma di lutto di cui parliamo in questo numero: siamo in lutto per la scomparsa di noi stessi, per la perdita della nostra presenza autentica, viva e solidale nelle questioni del nostro tempo. Ci possiamo liberare, certo, dal mantello oppressivo di questo lutto epocale: ma solo se ci rendiamo consapevoli che il nemico non è fuori, ma dentro, solo se cominciamo a smarcarci concretamente da questo stile di vita basato sulle dinamiche dell’avere e dell’apparire. Il nostro lutto finirà quando sentiremo di nuovo di poter vivere la vita per quello che è, allentando la morsa delle ansie e delle pretese, uscendo dall’isolamento nel quale ci siamo rinchiusi. Da quel momento potremo ritornare a incidere sulla realtà intorno a noi. Come si comincia? Magari ascoltando qualche voce inattesa. Ogni mattina anche Abdou vive un suo lutto: gli manca la sua terra, gli manca suo figlio che sta in Senegal (ha tredici mesi e solo in questi giorni lo vedrà per la prima volta). Ma tutto questo non blocca la sua vita. “I problemi che si vivono in Africa - mi dice - sono così grandi che abbiamo imparato a conviverci. Spesso non sappiamo neanche se, prima che la giornata finisca, riusciremo a mangiare. Per questo non abbiamo aspettative: se qualcosa di buono arriva, è sempre una sorpresa”. Abdou si disseta alla sorgente della vita. Così accade agli uomini semplici. Così erano i nostri nonni. Così non siamo più noi. La nostra distanza dalla realtà, dalla realtà viva e pulsante, è aumentata. Siamo in lutto per questo. E per questo dobbiamo cominciare a cambiare. Sorell a Paura di Luigi Verdi Un ragazzo si è suicidato perché non ce la gio, verrà un giorno in cui le tue nevi si sciofaceva a stare dentro questo mondo, dentro glieranno, le tue bufere si placheranno e una questo tempo rigido, dentro quel monoto- primavera regnerà nel tuo giardino, dove Dio, no paese, dentro quella casa litigiosa, dentro nel pomeriggio verrà a passeggiare con te”. quella scuola competitiva, dentro quel corpo Non è sempre facile ascoltare ed obbedire a quella voce perché spesso crediamo al tiro inquieto, dentro quell’età ribelle. Non ce la faceva a stare coi nostri pesanti oc- della sorte, crediamo come Giona di essere chi addosso. Era diventato malinconico, tutto colpevoli della tempesta e che Dio ce l’abgli era dovuto e più niente era gratitudine. Si bia con noi. Mentre Dio con quella tempesta raggomitolava per offrire meno presa alla sof- non vuole condannarci ma solo farci tornare a ferenza, in realtà lo spazio diventava, per lui, riva, a casa. Ci accorgiamo che spesso non è sufficiente la sempre più stretto. Quando l’aria manca sai che ti puoi consegna- consolazione per toglierci la paura e che solo l’amore risveglia ciò che dorme. L’amore che re alla disperazione o alla speranza. Quando sei chiuso come dentro un bocciolo non è consolazione, ma luce. sai che o muore il bocciolo e nasce un fiore o “Se il chicco non muore…” Si, il chicco deve morire per liberare l’energia muori tu. che porta in sé perché se ne Dà i brividi il suicidio di un ragazzo e non servono parole Tutti gli uomini e le donne formino altre combinazioni. Non possiamo non affrontasulla nostra impotenza e sul hanno la responsabilità re paura, dubbi, fatiche, lutti senso di desolazione che prodi un tempo sognato, senza farli morire per libeviamo. Sentiamo che i nostri ragionamenti sono deboli e che dobbiamo risvegliare. rare l’energia schiava della paura. devono andare oltre l’ovvietà Antonietta Potente Non si tratta di non soffrire della crisi dei valori cristiani o soffrire meno, ma di non o del relativismo. Non dobessere sfigurati dalla sofbiamo cercare cause o colpe fuori di noi, ma chiederci dove si sono disperse ferenza, di saper rimanere ‘diritti in piedi’. le forze capaci di permettere a molti dei nostri Gesù non ha tolto il dolore, ma ha addolcito il ragazzi di superare il fossato tra la realtà chiusa dolore con l’amore e messo un segno di amore nella sofferenza. e lo spirito che ti spinge ad andare avanti. La causa è la paura: abbiamo continuato a Occorre soffrire senza piombare nell’incubo dare a questi ragazzi soldi, sicurezze, parole e, quando giungiamo alla fine delle nostre fasenza provare a fare la cosa più utile, cioè a coltà umane, poter tendere le braccia, fermarsi, abbandonarci, guardare e attendere. togliergli la maschera. Le paure ci spettano, nessuno ce le toglie, “Non opporti al male”, dice Gesù, perché il ognuno le ha avute per compagne e si è accor- male altrimenti diventa più forte, anzi bacialo, to che la paura aumenta quando provi a voltar- spremilo, accarezzalo e lascia che trabocchi e vada oltre. le le spalle e più scappi, più la paura morde. Dove possiamo trovare allora il coraggio di Togliere la paura prevede che invece di scapnon chinarci più sotto il peso delle paure e pare noi la guardiamo in faccia, fino a quando dell’angoscia, dove trovare il coraggio di al- sia noi che la paura si diventi consapevoli che zare il capo e di adoperare la voce del nostro un giorno quella lotta si potrà trasformare in cuore che ci dice: “Non avere paura, corag- gioia di vivere insieme. 4 Foto di Massimo Schiavo Ho provato in questi anni a seguire Gesù senza trattenerlo, avendo nel cuore le parole forti dell'inizio: "Prendi il largo", e dolci della fine: "Mi ami?" Luigi Verdi "Gerusalemme, spogliati del vestito di lutto..." (Baruc, 5,1) di Lidia Maggi* La Parola di Dio mi parla in tanti modi, a volte mentre ne riconosco l’alterità. Non sempre chi si identifica immediatamente con l’annuncio si mette in vero ascolto. A volte c’è bisogno di un po’ di distanza per non impossessarsi di una parola che ci chiama ad essere discepoli e non proprietari. Innanzitutto, non è a me che viene rivolto l’invito ad alzarmi, ma a un popolo a cui è stata strappata la speranza. Il primo movimento è, dunque, un passo indietro per sentire la distanza tra la mia storia e quella qui evocata. Io non sono la città desolata e saccheggiata, a cui il profeta annuncia la fine della deportazione. Questa parola, prima di essere personale, è collettiva. L’invito a gettare il mantello del lutto non riguarda solo me, ma l’intera comunità. Nel riconoscere l’alterità si crea uno spazio fecondo che ci invita ad uscire da quella visione autocentrata tipica delle persone che soffrono. La sofferenza qualche volta ci apre al mondo; più spesso ci fa regredire rendendoci egocentrici: catalizza le nostre energie impedendoci di vedere gli altri. Questo testo, proprio mentre mi ammonisce a non appropriarmi della Parola, inizia a guarirmi invitandomi ad alzare lo sguardo per riconoscere la sofferenza altrui. Il profeta parla alla città di Gerusalemme nel periodo più buio della sua storia. Quando tutto sembra perduto, ecco che si ode una voce: fatti coraggio! Si può tornare a sperare dopo che la vita ti ha levato tutto? Nel ripercorrere oggi questa parola scorgo due nuovi spazi “fecondi”. La città: che cosa hanno in comune le nostre ricche città con la povera Gerusalemme? Più simile alla terra africana, che vede fuggire i propri figli assetati di speranza e lavoro, precari su imbarcazioni insicure, rinchiusi nei centri di detenzione temporanea, soggetti al caporalato, alla tratta e al lavoro nero. C’è una città, una vedova, nell’altro continente, che non riesce ad alzarsi. E tuttavia, se la miseria e lo sfruttamento mettono in ginocchio, anche l’opulenza ha le sue “pesantezze” e rischia di farci sprofondare in un mare di immondizia. La seconda distanza è legata agli eventi politici con- temporanei. Il motto“coraggio alzati!”, che ha sintetizzato la riflessione della comunità di Romena degli ultimi mesi, lo scopriamo oggi tristemente abusato in quella retorica esibita sui cartelloni elettorali. Ma qui ci viene in aiuto il testo biblico che smaschera questa infelice sovrapposizione rivelando che per rimettere in piedi un paese devastato, o anche una semplice vita piegata dal dolore, bisogna fare un lungo cammino. Non basta uno slogan pubblicitario. Dobbiamo diffidare di chi promette ricette a buon mercato. Lo sa bene Israele che, nella sua lotta per distinguere i falsi dai veri profeti, riconosce menzogneri quelli che annunciano “pace, pace” quando pace non c’è. La vera pace richiede i tempi lunghi dell’elaborazione dei conflitti. Questo vale anche nella vita privata. La guarigione richiede un processo articolato. Il primo ostacolo è proprio la fretta: vorremmo trovare immediato benessere, scoprire quel farmaco che possa cancellare il male. La fretta non veicola solo un approccio consumistico verso la vita: vogliamo stare bene: adesso! Essa ci porta a non affrontare i problemi che, rimossi, sono come immondizia non smaltita nelle nostre vite. Le crisi, invece, sono spazi importanti, capaci di allargare i nostri confini per farci crescere. Le ferite possono diventare feritoie, luoghi che permettono di vedere oltre, spazi allargati per accogliere l’inedito che ci viene incontro. La fretta non permette alla ferita di guarire, anestetizza solo la parte dolente, nega il vissuto, ci priva del diritto al cordoglio, alla convalescenza. Chi si rialza troppo in fretta da una malattia sa che è destinato alle ricadute. Nel dolore sentiamo un’assenza, una mancanza che non bisogna colmare troppo in fretta. Essa ci può far scoprire ciò che davvero conta. Il desiderio di guarire, di colmare quel vuoto rappresenta il nostro sì alla vita. Ci fa tendere la mano perché qualcuno possa afferrarla. L’altro può aiutarci ad alzarci, ma non può sollevarci. Siamo noi stessi che dobbiamo rimetterci in piedi. Iniziamo a farlo proprio mentre riconosciamo di essere caduti e, lentamente, proviamo a fare i conti con le nostre fragili gambe. *Lidia Maggi, teologa, è pastora della Chiesa Battista di Milano 6 Vivi di noi, sei la verità che non ragiona: un Dio che pena nel cuore dell'uomo David Maria Turoldo QUANDO L A VITA È A PEZZI di Maria Teresa Marra Abignente A volte la vita pesa. Pesa tanto da volersene quelli che giorno dopo giorno abbiamo imparato disfare, da non capirla più, da non trovarci alcun a spegnere e schiacciare sepolti dalle miriadi di senso. A volte sembra solo di essere immersi nella “cose importanti” ma così poco vere, così poco notte fonda e di assistere stralunati alla vita degli semplici, così poco reali. Perdiamo pezzi e non altri; sembra quasi di stare dietro ad un vetro a lo sappiamo; perdiamo la nostra integrità e ce ne guardare l’indaffarato svolgersi delle vite altrui. accorgiamo solo in alcuni lancinanti momenti in E dentro invece solo un senso di ovattata distanza, cui ci troviamo di fronte alla bellezza, all’amore, senza risonanze, senza colori. all’eterno: momenti che ci richiamano all’unità, Credo sia questo il mantello del lutto: una cappa che ce la dimostrano evidente, semplice e naturache nasconde la vita, che accorcia lo sguardo, le.Per questo siamo tutti un po’ tristi e depressi: ci limita i passi e fa inciampare camminando. Anzi, ritroviamo sotto questo mantello che ci avvolge e so bene che è questo. ci rende torbidi, impenetrabili; ce lo trasciniamo Il lutto è inevitabilmente collegato ad una perdita: addosso sentendone il peso, non riuscendo a caè quell’atroce sentimento di assenza e di nostalgia pire cosa ci manca e ci tormenta. Perdiamo pezzi che proviamo quando qualcuno è andato via per e ci sentiamo bucati dal desiderio e avviliti dalla sempre, forse perché stanco di noi oppure perché stanchezza; tentiamo comunque di camminare, drammaticamente strappato a noi. affaticati e a tentoni, e proviamo È duro fare i conti con chi non c’è a sentirci ancora vivi, ma è una Se la si guarda più: bisogna riaggiustarsi, trovare vita insudiciata, contraffatta, una nuove fondamenta, altri gesti, darsi non-vita...Penso che valga la dritto negli occhi un nuovo ordine. Bisogna cercare pena provare a gettar via questa la vita ci restituisce di scoprire cioè un altro equilibrio, cappa che ci ricopre, questo sosempre un miracolo facendo i conti con un distacco prabito sciupato dalla morte che che strazia, che tormenta. E chi ci toglie la possibilità di vivere manca in realtà non manca mai, perché il ricordo, leggeri, capaci di percepire tutti i sapori, i colori, il rimpianto, la nostalgia sono sempre lì, quasi i profumi, le sfumature, le inesauribili offerte in agguato, a rendere presente l’assente, a farlo della vita. Penso sia possibile trasformare anche divenire crudelmente presente, in una dimensione la ferita di quel che abbiamo perso in una sorgente nella quale non ci ritroviamo, ma che ci appartiene di vita, in qualcosa cioè che non ci trascini nel perché appartiene all’altro. E allora è facile scivolare cupo rinchiuderci, ma che ci apra invece a nuovi sotto un mantello ben chiuso dove la vita non può miracoli. Perché quando la si guarda dritto negli entrare, diventa quasi inevitabile rannicchiarsi nel occhi la vita ci restituisce sempre un miracolo. dolore e lasciarsi cullare dallo struggimento di chi Forse basta scostare appena i lembi del mantello e abbiamo perso e sappiamo non tornerà più; tanto annusare quel profumo di aria libera, basta cercasgomenti di fronte all’inesorabilità di quel che ci re in tutto quel che ci accade l’occasione preziosa è successo che guardiamo con avvilita meraviglia di una pienezza maggiore, di una comprensione il futuro che comunque sta in attesa... come se più profonda della vita, di una consapevolezza non meritassimo più alcun futuro o il futuro non più essenziale perché raffinata dal passaggio meritasse più noi. della sofferenza. Ma c’è un’altra perdita che può segretamente Voglio fare del mio mantello una vela: lo taglierò avvolgerci e soffocarci, qualcosa che inavver- e lo cucirò per poterlo fissare all’albero della mia titamente lasciamo accadere senza intuirne la barca. Il vento lo gonfierà ed il sole lo asciugherà gravità e accorgerci del suo valore: lo smarrire e mi porterà così lontano... dove non avrei mai noi stessi, il lasciar naufragare pezzi di noi, osato sognare... 8 Mi rassicuri la Tua mano nella notte, la voglio riempire di carezze, tenerla stretta: i palpiti del Tuo cuore segnino i ritmi del mio pellegrinaggio. R. Tagore OLTRE IL DOLORE di Stefania Ermini Cose c’è oltre la ferita, insanabile, della perdita di un figlio? Come, e da dove la vita trova la forza di ricominciare, di ripartire, di trovare un nuovo senso? Stefania Ermini ha trascorso una giornata, a Romena, con il gruppo Nain. Un gruppo formato da alcune decine di famiglie accomunate da quello stesso, profondo dolore. Ma anche da una voglia, silenziosa, ma presente: quella di ridare un senso alla parola speranza. Qualcuno si avvicina e mi chiede “Ti è morto qualcuno, cara?”. “No”, rispondo abbozzando un sorriso, “sono qui per stare con voi”. Sono a Romena con il Gruppo Nain e trascorro questa domenica con volti e occhi che hanno visto morire i propri figli. Si incontrano, condividono, si abbracciano, si appoggiano, si guardano e si incontrano ancora. Ci accomodiamo nella stanza “del primo corso” con le mani sulla fronte, il capo chino a stropicciarsi la testa. Gigi li accoglie: “siamo qui per provare a portare avanti la vita e a stare in silenzio per contemplare ciò che non capiamo, ciò che non vediamo. Vi invito a raccontare come state, a raccontare della paura del nulla. Quanta paura del nulla avete? Quante volte vi chiedete se rivedrete vostro figlio dopo la morte? E infine vi invito a fare. Amo la concretezza. La soluzione è concreta. Quando c’è un dolore bisogna agire. Si dovrebbe provare a fare cose che meritano di non morire”. Dopo questo invito quegli occhi incontrati al mio arrivo partono a raccontarsi: “Siamo stati un mese in California mia moglie ed io. Siamo stati bene. Mi sono scosso la tristezza cupa che a volte mi rende irascibile e a volte sgradevole. Ma ora che siamo ritornati a casa fa capolino questo nero la mattina quando mi sveglio e vorrei coprirmi e stare fermo a letto”. Segue un breve silenzio durante il quale sono sospesa tra appuntare o meno i nomi di chi parla. Decido di non dare un nome a chi racconta. A volte neanche osservo. Ascolto. Credo che ci sia solo da ascoltare questo sentire: “Preferisco il buio dell’inverno. Quando le giornate si allungano, 10 sento come il dovere di aprirmi alla primavera. Invece mi resta difficile farlo.” Poi una voce di donna rivela “Ho paura di non aver amato abbastanza mio figlio”. Segue un pianto calmo, amato, raccolto e poi, parte un altro racconto. “Sto bene non tanto perché sono trascorsi 14 anni dalla morte di mia figlia, ma perché ogni giorno che passa mi sento più vicino all’incontro con lei”. “Anch’io sto meglio” lo accompagna nel racconto la moglie “e mi sento vicina alla fine di questa vita e all’incontro con mia figlia. Se la sapessi lì davanti a me, spiccherei il volo, farei i salti mortali. So che c’è, la sento ogni giorno ed è per questo che non posso avere paura del nulla ”. Un’altra coppia dà voce al dolore raccontando che “fino a poco tempo fa eravamo in crisi anche tra di noi. Poi improvvisamente è rientrato tutto: una mattina ci siamo sorrisi e siamo ritornati ad essere sereni”. Di nuovo una voce di padre mi arriva da sinistra. È leggera, rotta dalla commozione: “forse potevo amarlo di più mio figlio. Ma ho fatto del mio meglio. Che cosa potevo fare di più?” “Io invece sono allergico alla vita” urla un’altra voce maschile. “Sono quasi insofferente, ma con pazienza cerco di resistere”. Ancora silenzio, questa volta più lungo, duro, sofferto. Poi riprende una voce di madre accanto a me: “Ho una grande stanchezza. A volte però mi riprendo e mi coccolo. È come se fossi sempre su una 500 e vedo gli altri viaggiare su una Ferrari che mi sfrecciano ai lati della vita. Ho davvero una velocità diversa di vivere. Ho un modo diverso di sentire. A volte però riesco ad intrecciare la vita di qualcuno anche se solo per un breve attimo. Ci chiedi di gettare il mantello del lutto Gigi. Sono d’accordo con te e non è che non voglia gettarlo. Ma non so dove o come fare perchè in quel lutto c’è una parte di me. E buttando il mantello del lutto è come se buttassi via una parte di me. Quel dolore sono io, è il mio mondo. Forse posso cercare di fare oro di questo dolore. Ecco sì, posso fare questo. Posso far diventare oro questo dolore!”. Arriva subito una voce di un’altra madre: “Mi manca tanto mia figlia, ma ho accettato la sua morte. Vivo peggio il ricordo della sua sofferenza. Poco prima di morire, le ultime volte che mi chiamava, mi sono arrabbiata. Quindi a volte penso a quello che avrei potuto fare di diverso. Sento che talvolta ho difficoltà a perdonarmi.” “Non ho la speranza” confida un’altra voce “ho la certezza di vedere mio figlio anche se ancora la mia vita è un percorso di sopravvivenza in cui mi ritrovo accartocciato su me stesso.” Arriva un pianto. Arriva lento e inonda la stanza. Tutti si piegano su se stessi, alcuni si distendono sul tavolo. Con la testa si appoggiano, con le lacrime si accarezzano. Le parole rompono il pianto e uno dopo l’altro si amano “Ti vogliamo bene...non puoi perdere la speranza”. La speranza. C’è la speranza, in alcuni la certezza di rivedere i propri figli. “Sapete” aggiunge una voce di donna “ a volte sento una rabbia dentro di me. Rabbia perché non capisco, rabbia perché non trovo un senso alla morte di mia figlia. Faccio fatica a vivere durante la giornata. Faccio fatica ad alzarmi, ad andare a lavoro, a tornare, ad occuparmi della casa. Però a volte sul finire del giorno se mi accorgo di aver gettato uno sguardo di amore, di misericordia, anche solo su una persona, allora…allora ci sono, insomma.” C’è un olio nuovo che si spalma sulle loro ferite. Ferite sorde, silenziose, ripiegate. C’è l’olio nuovo nei movimenti con cui insieme apparecchiano il tavolo per il pranzo. L’olio nuovo con cui si curano del cibo che ho nel piatto. Ci sono volti veri ed essenziali che mi invitano a camminare dopo il pranzo verso il Castello di Romena. Sono volti nudi quelli che mi raccontano delle loro vacanze estive in montagna, del desiderio di cambiare lavoro o della paura di invecchiare in solitudine. Sono volti nudi, veri, essenziali quelli che si aspettano durante la camminata se qualcuno fa fatica a tenere il passo degli altri. C’è un olio nuovo che mostra il volto vero di queste persone. Hanno un volto solo e quello che vedo è nudo, è vero. Sul loro volto non è nascosto il dolore della perdita, la fatica di vivere. Ma lo stesso volto raccoglie sorrisi, abbracci e cura. È con quel volto coraggiosamente nudo e vero che ogni giorno mettono un po’ di oro sulle loro ferite e vanno al di là del dolore. Mi porto via la verità e l’essenziale da questo incontro straordinario. In silenzio me ne vado e in silenzio li ringrazio perché mi porto via volti nudi e gesti lenti e un po’ di quell’olio nuovo che forse, da domani, mi farà restare agganciata ai fili leggeri della vita. 11 COME UN VENTO LEGGERO di Angelo Casati * La mia chiesa, in queste ore che ancora trattengono il profumo della risurrezione, ha i colori di un giardino: dilagano dolcemente le azalee, sono macchia accesa le clivie e l’ulivo ha rami in brusio d’argento. Sussurri di giardino, così lontani dalla pesantezza dei trattati teologici e delle definizioni dogmatiche. L’altare come giardino. In rispetto per la levità, che profuma di sé la Pasqua. Pasqua è leggerezza. È essere portati dal vento. Leggi i racconti della risurrezione: non c’è sfarzo di vesti né passi cadenzati di processioni. Sono processioni del cuore, corse col fiato in gola alle prime luci dell’alba, sussurri lievi di parole, odore di pesce arrostito sulla sabbia estasiata del litorale, un essere e scomparire, un cercare, trovare e ancora perdere. “Non mi trattenere” dice Gesù a Maria di Magdala. Quasi volesse dire: non irrigidirmi in un monumento. E le parole, tutte, a togliere peso. A sciogliere, non a legare, ad aprire, non a chiudere. Un bisogno di vento leggero, di un vento che ti sfiori la pelle del viso, un vento che ti rida negli occhi. Perché questa è stagione di pesantezze. Insopportabili. Non se ne può più. E ogni giorno sono parole come pietre, come macigni. Parole smemorate, dimentiche del Maestro che gli osservanti li metteva spalle al muro per quella loro insana furia di scagliare pietre. Stagione di durezze ecclesiastiche. E dove si è mai rifugiato, ti chiedi, il vento leggero della Pasqua? Costretto a spietato esilio. Sono sdoganate invece, oggi circolano a piede libero, parole che vedono perversioni dappertutto, evocano tempi di sventura, registrano assedi da ogni lato, torme di nemici, in assalto del bene e dell’umanità. Parole che diffondono paura e sfiducia. Parole pesanti, come sono pesanti i visi e gli occhi di chi le va proclamando. E dove si è mai rifugiata, ti chiedi, l’aria della risurrezione? “Come sei pesante” vien fatto di udire ormai da alcuni. “Come siete pesanti!”. E dove è mai la gioia di cui fa dono il Risorto? Lo cantate “vivente”… e parlate come se fosse “morto”. Cantate nelle chiese a squarciagola: “I cieli e la terra sono pieni della tua gloria…” Pieni! E poi giudicate e parlate dei nostri cieli e della nostra terra come se fossero vuoti. Come se lui si fosse ritratto, fosse rientrato nella tomba. All’ombra dei morti e non nell’aria aperta dei viventi. Come se il suo Spirito, quello che soffiò il Risorto, si fosse esaurito ed oggi non fosse più vero che là dove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia. Non vogliamo certo cadere, lungi da noi, in un facile, ingenuo, astratto ottimismo. Ci piace, ci sembra doveroso stare, sano realismo, ad occhi aperti su ciò che accade dentro di noi e fuori di noi. Ma vi sembrano esempi di sano realismo, vi sembrano fotografìa corretta della realtà i notiziari dei nostri telegiornali? Immagini di delitti, di perversioni, di lutto ti pesano nell’anima, sul cuore come se tutto, come se tutti, fossero in quel buio. E così cresce pesantezza e cupezza. E se cominciassimo a fare esercizio di racconti positivi? Di passaggi segreti della grazia? Amo e invidio gli uomini e le donne che hanno occhi per i segni. Faccio fatica ad amare e non invidio uomini e donne che rincorrono, inquieti, mai sazi, il luccichio dei miracoli e non hanno occhi per il miracolo della grazia che li sfiora incessante silenzioso ogni giorno, Comincio anche a pensare che, quando il lamento prende il sopravvento, sia nei nostri documenti come nei nostri pronunciamenti, nelle nostre assemblee come nelle nostre convocazioni, siamo in perdita certa di fede. Per miopia di cuore e di visione. Oggi invece, in questa stagione ecclesiale, sembra prevalere il lamento e la paura. Così facendo ci rendiamo, occorre dirlo con coraggio e fortezza, insignificanti. Riprendete, sembra dirci il Signore, un viso fiducioso. Non mi annunciate con un volto smunto e tetro. Ho ritrovato questo invito al sorriso, il sacramento del sorriso, nelle pagine che un’amica mi ha regalato. Sono riflessioni di Sandro Rotili in Quaderni di vita monastica, 1999. “Il sorriso – scrive – è sempre espressione di tenerezza e misericordia. Chi sorride (pensiamo al sorriso della mamma al suo bambino) si rende disponibile, accogliente, apre uno spazio alla relazione. Chi sorride all’altro e dell’altro non lo deride, rende effettiva l’accoglienza, porta comprensione e conforto. Il sorriso, come dice Paul Celan, è sguardo indulgente e misericordioso sull’altrui debolezza, è lo sguardo di chi sa bene di essere altrettanto dolorosamente afflitto dalla propria precarietà” * Il testo è un estratto dalla rivista “Come albero”, notiziario della parr. di S. Giovanni in Laterano – Milano, aprile 2007) 12 Le cose più belle, più intense, non si spiegano parlando, si spiegano a volte con i gesti, i gesti lenti e segreti. Antonietta Potente 13 IL RISVEGLIO CHE ARRIVA DA LONTANO conversazione con Arrigo Chieregatti* Che tipo di lutto viviamo oggi? Il lutto è questo senso di smarrimento mortale in cui ci sentiamo immersi. È questa sensazione di essere orfani, privi di punti di riferimento. Siamo asfissiati dai recinti che ci siamo costruiti, che siano chiese, partiti o altro. È morte questo sentirsi così bloccati, così chiusi dentro schemi vecchi, anche perché vita nell’esperienza umana religiosa si esprime nell’uscire, nell’essere nomadi. È solo così che ci si può liberare da questo senso di pesantezza: perché il camminare, l’aprirsi a mondi nuovi, ci permette di riscoprire il senso universale della vita. In che modo si comincia a liberarsi da questa pesantezza? Accogliendo, ma soprattutto facendosi accogliere. È necessario diventare più disponibili a essere accolti da altri, da altre esperienze, da altre politiche, da altre culture. Siamo figli di un mondo occidentale che ci fa guardare agli altri sempre in posizione di superiorità. La nostra cultura nei secoli è stata una cultura che è andata a colonizzare; siamo abituati a insegnare agli altri, pensando che il nostro modo di educare, di vivere sia quello giusto. Ma così finiamo per voler distendere il nostro pesante mantello anche sugli altri. Occorre farsi umili, metterci in ascolto, sentirci finalmente capaci di concederci invece che stare sempre nella posizione di imporre qualcosa che noi possediamo. Altre realtà, altre culture del sud del mondo come dell’oriente hanno ricchezze che ci possono risvegliare, grazie a cui possiamo risorgere. Quindi è nelle grandi migrazioni di oggi che si nasconde non la fine della nostra identità, ma il germe di una vita nuova? Queste migrazioni sono un dono. Tutte le peregrinazioni lo sono: Dio è con i pellegrini, si fa pellegrino. Questa gente che si sposta è emblema della nostra vita spirituale. Dio invita Abramo a lasciare la casa e il suo territorio e gli dice “va nella terra che io ti indicherò”. E quando ci arriva gli dice ancora: “questa sarà la tua terra, ma ci rimarrai come straniero”. Se ci pensi è lo stesso destino dei migranti di oggi. Con quella gente c’è Dio, c’è la vita. Ci sono esperienze della tua vita, nelle quali hai vissuto di persona tutto questo: cioè il risorgere della tua vita grazie all’incontro con qualcuno profondamente diverso da te… Ci sono tantissimi episodi, te ne racconto uno. Ero andato a vivere per un periodo nel deserto sahariano per fare silenzio dentro di me. Dovevo restare 5 mesi, ma dopo appena 5 giorni sentivo che non avevo più niente da fare. Stavo per ripartire quando un ragazzo arabo mi avvicinò e mi disse: “Perché torni a casa? Rimani qui a guardare il tempo che passa”. “Vedi quel cammello – aggiunse – da ore guarda l’orizzonte. Fa lo stesso”. Sono rimasto lì per altri quattro mesi e mezzo per quelle parole, per quell’invito a “guardare il tempo che passa”… Quel ragazzo mi ha fatto riscoprire il senso vero del tempo, grazie a lui ho potuto buttar via il mantello della fretta. Eppure c’è tanta diffidenza intorno allo straniero La diffidenza esiste perché non ci si conosce. Siamo immersi in tanti preconcetti: spesso invece è falso quello che noi crediamo di loro ed è falso ciò che loro pensano di noi. E così ci sono doni preziosi che ci sfuggono, anche se li abbiamo sotto gli occhi. Guardiamo per esempio questa gente che, anche lontano da casa, rispetta con fede profonda, il ramadan. È un segnale che ci fa pensare: perché noi non preghiamo più, perché abbiamo perso il senso del sacro? Si ribaltano gli schemi: è lo straniero, dunque, che salva le nostre vite. Se ci pensi anche nel Vangelo, sono i Magi, sono queste figure venute da lontano, e non i notabili del posto che riconoscono Gesù, che risvegliano Gerusalemme. Lo straniero, anche oggi, ci viene a risvegliare. *Arrigo Chieregatti è professore presso la Facoltà di Sociologia, Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. Sacerdote della Diocesi di Bologna, vive in una parrocchia, frazione di Marzabotto, nell’ambito di una esperienza cristiana eremitica legata all’oriente. 14 L’amore è un balzo al di sopra dell’apparenza, verso la sostanza, oltre i limiti, verso l’infinito. Lanza del Vasto 16 La nostra gloria più grande non è nel non cadere mai, ma nel rialzarci dopo ogni caduta J. W. Goethe 17 LA VOCE DELL’AFRICA di Massimo Orlandi È uno dei Paesi più poveri al mondo. Ma alla fonte di chi ha poco è sempre più necessario bere per capire la follia del nostro troppo. Wo l f g a n g Fa s s e r, f i s i o t e r a p i s t a , musicoterapeuta, collaboratore storico della Fraternità, è tornato ancora una volta in Lesotho, lembo di terra disegnato nel Sudafrica. Il mantello di lutto lì lo aveva disteso l’Aids. Una tragedia immensa che però non ha fermato la speranza di un popolo, la voglia di far salire la voce del suo canto. “Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…” Penso a Roberto Benigni, alle sue parole notturne in un film di Fellini. Penso alla voce della luna che lui evoca, alla voce dell’Africa che Wolfgang, ora mi fa sentire. Sono i suoni di un mattino, popolato dai versi ritmici degli uccellini. Sono i suoni di una sera, il canto potente e melodioso con cui la gente del Lesotho lo saluta. Sono i brindisi della notte di San Silvestro: anche lì, un silenzio assoluto e poi a mezzanotte un eco melodioso che si spande: happy, happy, happy new year. Sono voci non amplificate, ma salgono in alto lo stesso, molto più delle nostre sparatorie chiassose, occultate per segni di gioia. Cartoline sonore. Prendono poco spazio nella valigia di ritorno. Ma sono un tesoro prezioso per chi, come Wolfgang, non può vedere, e per chi, grazie a lui, può immaginare. Wolfgang, che cosa ti ha detto l’Africa. Ha parlato poco, si è espressa molto più con i gesti, come sua abitudine. Mi ha trasmesso, ancora una volta, la bellezza che può offrirci la vita quando la liberiamo dal troppo, quando la riportiamo alla sua essenzialità. E mi ha fatto 18 capire quanto sia folle il nostro stile di vita. Getta il mantello del lutto è la proposta di questo nostro numero. Qual è il contributo che il Lesotho ti ha trasmesso per questo nostro tema. Sono stati i giovani di quel piccolo Paese a svolgere, per me, questo tema. A quindici anni dal mio ultimo viaggio, ho trovato in Lesotho gli effetti di una tragedia che allora doveva ancora iniziare: quella dell’Aids. Il virus ha praticamente sterminato una generazione di giovani. Quello che ti colpisce girando per i villaggi è che tutta una fascia di età tra i trenta e i quarant’anni non esiste più. Immagina il dolore che ha attraversato quella gente: non c’è famiglia che non abbia avuto un lutto, non è passato un giorno senza un funerale. Sono mancati coloro che oggi avrebbero dovuto mandare avanti il Paese, un Paese poverissimo, tra i cinque più poveri al mondo. Un dramma immane, che avrebbe potuto creare un senso profondo di sfiducia, di rassegnazione. E invece quello che ho trovato, con mio grande stupore, è stata una generazione di giovani e giovanissimi che hanno una straordinaria carica vitale, una voglia incontenibile di riscatto. Sono ragazzi di 18-20 anni che hanno toccato con mano il vuoto della generazione che li precede, ma che non sono rimasti fermi, a lamentarsi: hanno capito che toccava a loro, semplicemente. E si sono dati da fare. In che modo questi ragazzi cresciuti in fretta hanno deciso di investire le proprie energie. Studiano moltissimo, hanno una gran voglia di imparare perché hanno capito che alla base di ogni cambiamento c’è una buona preparazione.15 anni fa era rarissimo trovare un giovane che parlasse bene l’inglese, oggi vale il contrario. Molti di loro si sacrificano per mettere da parte ciò che occorre per studiare; ma poi i risultati si vedono: stanno costruendo una generazione preparata e motivata. “Let’s make a better world” dicono, costruiamo un mondo migliore. Sono ragazzi moderni, hanno saputo prendere dalla globalizzazione le opportunità migliori e le stanno investendo anche per modificare alcuni aspetti della loro cultura tradizionale che si sono dimostrati poco adatti ad affrontare questa tragedia. Il vento di questa generazione soffia in faccia al futuro del Lesotho come una grande speranza. Che segnale ci lanciano dal profondo sud del mondo, questi ragazzi. Ci invitano a non paralizzare la nostra vita: da noi ci sono problemi personali, affettivi, lavorativi, situazioni di crisi che hanno il potere di bloccarci. Ed è umano, è comprensibile. Ma noi abbiamo di che mangiare, abbiamo qualcosa con cui coprirci dal freddo, non conosciamo la malattia in una forma così drammatica. Abbiamo tutte le possibilità. Forse è il caso di pensare che, forse, potremmo fare qualcosa di più per andare oltre quel problema che ci angoscia, che ci limita, che ci ferma. Che cosa ha significato, per te, essere lì senza avere l’aiuto del tuo cane? È stata una prova di affidamento, verso gli altri. Ho dovuto rinunciare, almeno in parte, alla mia autonomia. Ma non è stato un sacrificio. Lì è normale che non ti muovi da solo, e non perché sia pericoloso, ma perché è normale andare insieme, stare insieme. Che cosa continua a toccarti profondamente di questo angolo d’Africa. Questo stile di vita mi conferma nel mio cammino di ricerca della semplicità. Questo saper vivere ‘nel poco’, case semplicissime, una sola stanza, senza acqua potabile, per luce una candela o poco più, eppure di quel poco gioire e quel poco diffondere. Questo dar valore agli incontri, anzi vivere di incontri: quando la gente finisce di lavorare la gente sta insieme, dedica il suo spazio alla condivisione, alla gioia, al canto. E poi il tempo, ecco questo mi ha toccato tantissimo, il tempo che finalmente torna a essere abitato. Alle sette, quando è buio, tutti vanno a casa, percepisci che il giorno della natura è finito e così quello della gente. Da quel momento è solo silenzio. Al mattino si riprenderà prestissimo, alle prime luci dell’alba. Ecco questo incontrare di nuovo i ritmi naturali ti fa apprezzare il valore del tempo, quel tempo che noi spesso vogliamo gestire caricandolo di aspettative, di progetti, cercando di dilatarlo, di strizzarlo. Invece il tempo è fatto per abitarlo, per starci dentro. E questo lì accade. Torniamo al tuo viaggio. A distanza di tanto tempo, come sei stato accolto? Era come se mi aspettassero. In molte case mi hanno accolto nella più assoluta normalità, come se ci fossimo visti il giorno prima. Mi avevano tenuto vivo nel loro cuore, e questo era stato più forte di ogni distanza, più forte del tempo. Pensa che sotto il lettino nel quale facevo le terapie hanno lasciato per tutto questo tempo una brandina per il mio cane guida. Non sapevano quando, ma loro sapevano che un giorno sarei tornato. L’unica cosa che non potevano prevedere è che questa volta, sarei andato da solo. 19 RIVESTITI DI DOMANDE di Luca Buccheri Sapete qual è la peggior trappola per un adulto? Quella di dimenticare di «portare con sé il miracolo dell’infanzia, della dolcezza dell’infanzia» (Alexandre Jardin). L’adulto rischia così di trasformarsi nell’“impagliato di 38 anni” cui più nulla fa impressione, nel “marito addomesticato”, un ex-selvaggio dall’espressione spenta e denudata di ogni fantasia; nell’uomo rassegnato e senza passione che non ha più domande, che ha perso la sua “checosità” (Ouaknin). Secondo la mistica ebraica il settimo comandamento (“non rubare”) può essere riscritto anche come “non ruberai la speranza dell’altro”, che è proprio quella capacità di porsi ancora delle domande, di non credere di conoscere già le risposte, di avere in tasca le soluzioni. Il bambino non si vergogna a domandare, cercare, stupirsi e procedere per tentativi. E svela l’atteggiamento di fondo dell’uomo che si costruisce attorno alla domanda. Se l’uomo in ebraico è l’adam (aleph=1, dalet=4, mem=40), il valore numerico delle lettere in ebraico è 45. Ma 45 è anche il valore numerico dell’espressione ebraica mah (mem=40, he=5) che esprime la domanda: “che cosa?”. L’uomo, insomma, è un essere votato al che cosa?, alla domanda, all’apertura, non al chiudersi dentro risposte preconfezionate! È colui che preserva l’interrogativo, il “perché” che apre al futuro; è la “sentinella del domandare”, non può accettare un futuro chiuso, né un’assenza di avvenire. La sua reale vocazione è interrogare, porre una domanda permanente. Anche l’ottavo comandamento (“non dire falsa testimonianza”) può essere riscritto, più fedelmente all’ebraico, come “tu non darai risposte che spengano la domanda che risiede nel 20 profondo del tuo prossimo e che gli permette di costruirsi un futuro, perché in tal caso saresti un testimone menzognero”. Si tratta di non spegnere quella domanda originaria che è nell’uomo – corpo parlante – la cui caratteristica specifica è proprio quella di domandare, di essere un “che cosa?”. La risposta può spegnere la domanda, riempire il vuoto che il divino ha lasciato e spegnere così l’anelito, l’inquietudine, la ricerca. Vi è una certa violenza nel dare la risposta; la miglior risposta è lasciare nell’altro la domanda aperta e lasciare che sia lui a scoprire la sua strada… In fondo ogni domanda introduce una distanza, perché vuol dire che quella cosa che domandi non l’hai afferrata; dare la risposta annulla questa distanza ed elimina la separazione, quella “prossimità” di cui parlava Levinas e che rappresenta il miglior modo per entrare in relazione con l’altro senza ignorarlo, ma anche senza inglobarlo in sé. La parola, il domandare dell’uomo è possibile proprio per quello spazio lasciato vuoto dal Creatore nel ritirarsi; questo vuoto è proprio lo spazio della parola umana, che non deve essere spenta e cancellata. La risposta tende a riempire questo spazio lasciato appositamente vuoto perché l’uomo cerchi e trovi la sua via. Come nel caso di una vita già preordinata o predestinata da altri (genitori? direttori spirituali? persone influenti?): hanno annullato la distanza, la domanda, l’originalità della storia di ciascuno, fornendo la risposta che soffoca, violenta e fa soffrire. A questi la settima e l’ottava parola del Decalogo invita a “gettare via il mantello della risposta e a rivestirsi della domanda”. Foto di Eliseo Pieri Andiamo a cercare ciò che ci appartiene per quanto lontano si debba andare. Friedrich Holderlin 21 IL NUOVO ANNO DELLA FRATERNITÀ Comincia a Pasqua, come sempre, la nuova stagione della Fraternità. Le proposte, le opportunità, gli incontri proposti per stimolare la voglia di ricerca dei viandanti del nostro tempo. I l nuovo anno di Romena ha un cuore viandante. Al centro dei percorsi che si diramano per l’anno 2008-2009 c’è sempre, naturalmente la nostra pieve, ma si alimentano sia la rete delle altre realtà di accoglienza che ospitano i nostri corsi (da Quorle a Papiano sino a San Pancrazio), sia le opportunità di incontro itineranti (come le veglie), sia le proposte di viaggi speciali (al deserto si aggiunge la Terrasanta). È un aprirsi a nuovi luoghi, a nuove proposte che non toglie, ma anzi aggiunge valore al ruolo di Romena, dove si concentra il cammino dei nostri tre corsi principali, il primo, il secondo e il terzo, che finalmente hanno trovato anche un nome: “Guardarsi dentro”, “Dio è a un passo da te” e “Alzati e cammina” e anche di altri corsi a tema. È sempre alla pieve che prendono vita gli incontri, è qui lo snodo di tutte le iniziative, il semplice ‘ritrovarsi’ della domenica. Da quest’anno oltre la casa di Papiano (guidata da don Gianni), è disponibile la casa di San Pancrazio con Vittoria e Rita che ospiteranno due nuovi corsi (gli echi del silenzio e gesti quotidiani), e l’accoglienza nei fine settimana. Infine Quorle ospita alcuni corsi e non appena saranno realizzati i tre piccoli eremi individuali. Sarà disponibile uno spazio per ‘rientrare in se stessi’, in compagnia della guida speciale di Wolfgang Fasser. E poi il calendario delle veglie: almeno 30 sono le città coinvolte dal passaggio di questi incontri di preghiera e di ascolto, di meditazione e di canto: si va dal Trentino alla Sicilia, attraversando, ormai, praticamente tutte le regioni. 22 UNA NUOVA PUBBLICAZIONE Romena Veglie e Canoni Offerto in un’unica confezione, il cofanetto contiene un cd con i R nuovi canoni di Romena (musiche di Antonio Salis su testi ispirati da preghiere di Luigi Verdi) e 4 libretti, uno con i testi e gli accordi dei canoni, gli altri contenenti le 3 veglie che Romena ha portato in giro per l’Italia in questi anni, “Ogni giorno”, “Semplicemente vivere” e “Coraggio alzati”. Si vuole così offrire un sussidio completo di musiche, testi, accordi, preghiere e meditazioni utile per la preghiera individuale o di gruppo. Lo stile è quello semplice e incisivo a cui Romena ci ha abituati, capace di parlare alla vita di ogni giorno e di penetrare nel fondo delle situazioni di vita più delicate e dolorose, mentre le melodie sono il balsamo che sa addolcire le ferite dell’anima e rinvigorire la speranza di un nuovo inizio. Una musica da vedere con le orecchie e da ascoltare con il cuore. oni en Rom an a C oni Can na ome RO F r a te r n it à di Ro ME NA lu a On men ww s-w .r o m e n a .i t 23 Incontri Romena 2008 incontri dedicati ai temi evocati dalle 8 beatitudini. 8 germogli da piantare per cominciare a costruire una rete leggera che metta in contatto tante realtà dello spirito. Ad alimentare, insieme a noi, questo percorso Raffaele Luise, giornalista del giornale radio Rai, che in questo intervento ci spiega genesi e finalità di questa rete. Il progetto è nato dalla gestazione di un lungo e profondo “malessere”, che posso sintetizzare così. Come giornalista dedito da più di venti anni, per vocazione e missione, all’ informazione religiosa (di tutte le religioni e anche della credenza dei cosiddetti non-credenti) ho potuto registrare e interiorizzare l’enorme ricchezza di proposte e di vita che anima, in maniera diversa e in ambiti specifici, numerosissime comunità, associazioni, gruppi, testimoni, maestri e singole persone delle diverse culture religiose diffusi nei cinque continenti. Una ricchezza (davvero la ricchezza delle differenze) però parcellizzata, isolata, troppo spesso chiusa in se stessa, autoreferenziale e ignara delle tante preziose realtà spirituali e culturali disseminate come germogli nei deserti della crisi della spiritualità e del declino dell’umano (e del non-umano), che caratterizza in modo sempre più preoccupante il nostro tempo. E dai miei incontri e reportage tornavo a casa con lo stesso sentimento di sconforto, che col tempo andava crescendo, nel vedere una straordinaria fioritura di vita spirituale e civile incapace però di farsi cultura, proposta cioè capace di accedere agli areopaghi di un mondo che intanto va alla deriva. Una crisi del mondo sempre più vasta e profonda, così globale che per farvi fronte, credo, si imponga 24 la necessità da parte di tutte queste realtà cui faccio riferimento di orientarsi insieme verso quella metanoia antropologica, spirituale e culturale che costituisce la sfida cruciale del terzo millennio. Perché allora – mi chiedevo – le nostre “isole” non provano a farsi arcipelago, cercando così di assumere insieme un respiro più largo, più universale, almeno su alcune delle grandi direttrici che animano e sconvolgono il tempo presente? E infine, dopo una lunga riflessione, mi sono convinto che questo lavoro, per quanto ambizioso e arduo, non solo è possibile, ma è anche necessario, come una specie di “segno dei tempi”. Una conclusione questa cui sono giunto soprattutto grazie al conforto che mi è venuto, in questi mesi di incontri, da personalità e comunità importanti, che mi hanno confermato, molto al di là delle mie aspettative, che di un simile impegno c’è oggi grande fame e sete. Da parte della Fraternità di Romena la risposta è stata talmente entusiastica e generosa da farsi immediatamente condivisione operativa. Al punto che la Fraternità si è offerta di “ospitare” i primi passi del nuovo progetto, dedicando alle Otto Beatitudini, che sono il centro e il cuore del progetto, altrettanti momenti di incontro nel corso del 2008. La finalità è quella di realizzare, attraverso questa rete, una Fraternità che viva nel” respiro comune” su alcune grandi tematiche da parte di chi, Comunità, Associazioni, Fraternità di qualsiasi religione, Gruppi ecclesiali e di preghiera di qualsiasi confessione cristiana, e singoli individui condivida questa necessità spirituale e umana. Una Fraternità di “contemplazione attiva” fondata su due capisaldi: da una parte, lo spirito pienamente laico; dall’altra, la tensione verso la riconciliazione delle differenze, da accogliere, rispettare, far incontrare e dialogare in modo particolare sulle tematiche comuni. Una Fraternità che non vuole essere in nessun modo una specie di “organizzazione di organizzazioni” giacchè chi aderisce a questo cammino (che è essenzialmente un cercare di respirare insieme su alcuni aspetti della vita spirituale e umana), rimane se stesso, come singolo o come Comunità. Diciamo che vuole essere, per ora almeno, piuttosto una rete leggera di persone e di Associazioni, che ambisce a divenire, in una dimensione più fortemente vocazionale, Fraternità di contemplazione attiva. Raffaele Luise i primi appuntamenti L’essenzialità Domenica 4 maggio 2008 Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli Massimo Cacciari Giancarlo Bregantini Massimo Cacciari, Filosofo, attuale sindaco di Venezia Mons. Bregantini, Vescovo di Campobasso, fino al dicembre scorso ha guidato la Diocesi di Locri Domenica 1 giugno La consolazione Beati gli afflitti perché saranno consolati Alda Merini Rosanna Virgili Alda Merini, una delle più grandi poetesse italiane Rosanna Virgili, Biblista, insegna esegesi dell’Antico testamento Domenica 29 Giugno La mitezza Beati i miti perché erediteranno la terra Arturo Paoli Antonietta Potente Arturo Paoli, è stato per oltre 50 anni missionario in Sudamerica Antonietta Potente, teologa domenicana, da molti anni vive in Bolivia Gli incontri si svolgeranno nell’arco dell’intera giornata, con un primo appuntamento mattutino (intorno alle 10.30) e uno pomeridiano (ore 15.00). Informazioni più dettagliate le troverete a partire dai primi di aprile, sul sito http://www.romena.it 25 Pasqua Festa della Fraternità Per noi è l’appuntamento del cuore, quello che ogni anno permette di incontrarci e di individuare insieme il cammino da seguire nel corso dell’anno. È un cammino che cercheremo di vivere anche quest’anno all’insegna della semplicità, della gioia spontanea che nascere dallo stare insieme. E come sempre, insieme scandiremo le tappe del cammino verso la Pasqua. Soi comincerà il giovedì santo ricordando la lavanda dei piedi, il venerdì la veglia ci permetterà di ricordare la Passione di Gesù, il sabato sera condivideremo la Messa per la Resurrezione, e così anche la domenica ci incontreremo per fare Pasqua insieme. Il lunedì sarà scandito dai nostri appuntamenti tradizionali: al mattino (ore 11) la messa del Vescovo di Fiesole Luciano Giovannetti, poi il pranzo comune e nel pomeriggio musica, giochi, animazioni, spazi anche per i più piccoli con la Compagnia delle arti di Romena, e un concerto nella Pieve con il gruppo dei Brotherhood. Tutti voi potrete partecipare a ogni momento, in libertà, ma attenzione: se vorrete soggiornare a Romena o dintorni nei giorni della festa siete pregati di avvertirci per telefono (0575-582060): la prenotazione è indispensabile per sistemarvi nel miglior modo possibile. A presto! 26 Programma Giovedì 20 ore 21.00 Lavanda dei piedi Venerdì 21 ore 21.00 Veglia al “Crocifisso” Sabato 22 ore 22.30 Messa di Pasqua Domenica 23 ore 16.30 Messa Lunedì 24 ore 11.00 ore 13.00 ore 15.00 Messa col Vescovo Pranzo Pomeriggio di spettacoli, musica, giochi, incontri AVVISI Padova Corso organizzato dalla Fraternità con Antonietta Potente 7 - 8 giugno 2008 ABITARE LA VITA Fede - Speranza - Amore Iscrizioni: Luca Facco: Tel. 049 690522 • Cell. 340 5565300 e-mail: [email protected] Fraternità di Romena: Tel. 0575 582060 e-mail: [email protected] 27 GRAFFITI C om’è difficile abbandonare questo mantello. Me lo ha regalato Dio quando è morto mio figlio, quando mi sono ritrovata all’improvviso scaraventata in una notte oscura, esposta – nuda – al freddo, alle intemperie. Lui, impietosito, mi ha regalato questo mantello. Non l’ho neanche guardato, non l’ho neanche ringraziato. Mi sono rannicchiata sotto di esso, accoccolandomi come un feto sulla nuda terra. Mi ha fatto da grembo, ha permesso che crescessi. Sono dovuta rinascere a nuova vita, far nuovamente respirare questi polmoni, forzare questi nervi, questo cuore. Ma il mantello l’ho tenuto. Con questo mantello sulle spalle – unico indumento sulla mia pelle nuda – ho percorso sentieri scoscesi che mi hanno portato arrabbiata, stremata, disillusa, amareggiata, sola, fino alle viscere del mio essere. Buio intorno. Nessuna luce. E al tiepido tepore di quel lembo di stoffa, ho iniziato la lunga risalita. Lentamente mi sono reimmersa nella luce e nei suoni. E finalmente ho potuto guardare questo mantello. Mantello prezioso, intessuto d’amore. Ha mantenuto caldo il mio corpo, il mio cuore per non farmi morire assiderata. Riuscirò ad abbandonarlo? Riuscirò a procurarmi nuove vesti? Riuscirò a fare a meno di questo tepore – avvicinandomi timidamente ad un fuoco ardente ? Mi guardo indietro. La strada si snoda tortuosa, ma non ne scorgo l’inizio. Il mio viso si volta e lo sguardo scruta l’orizzonte. Il cammino è ancora lungo, ed anche il peso di 28 questo mantello può rallentare il mio incedere. Devo abbandonarlo. Me lo tolgo dalle spalle, lo piego e lo appoggio delicatamente sul ciglio della strada. Chissà che un viandante sperduto nella notte non possa trovarlo e metterselo sulle spalle. Riprendo il cammino. Qualche passo e il mio sguardo si volta, osserva da lontano il fagotto posato nell’erba rimpicciolirsi. Ma la strada è ancora lunga, nessun tentennamento, e il cammino riprende spedito. Paola M i chiamo Giuliana, sono una madre che ha perso il suo unico figlio Simone, in un incidente stradale, nel 2000. Da quel 24 giugno per me e mio marito, Mario, la vita non è più la stessa, è un sopravvivere. In alcuni momenti avrei voluto andare con lui e farla finita. Però pensando che ho un marito che mi ha sempre stimato e mi ha voluto tanto bene ora vivo per lui con i ricordi di quando eravamo in tre. Un giorno, il prete della mia parrocchia, don Emanuele Mangano, mi consigliò di andare alla Fraternità di Romena per parlare con don Luigi. Da quel giorno per me la vita è cambiata, ho conosciuto nuovi amici, anche loro con lo stesso dolore di una perdita, e con loro, durante gli incontri mensili del gruppo Nain, condividiamo gioie, dolori e momenti di fraternità Poi Don Luigi ci ha consigliato di cambiare paese perché dove abitavo prima non riuscivo più a salutare le persone che conoscevo e loro pure avevano riguardo, così noi eravamo sempre soli, cimitero e casa e niente più. Così abbiamo fatto: abbiamo cambiato casa e portato via anche nostro figlio… “Simone, caro amore nostro, come sono stati duri questi 7 anni senza di te, senza una meta, pensando a qualche soluzione per addolcire il nostro dolore. Tu sai quanto è stato doloroso per noi questo trasferimento, da toglierti più di una volta dove tu dormivi,. Ora che ti abbiamo costruito la tua cappellina ci sentiamo più sicuri, sei accanto al tuo zio Stefano, che ti voleva tanto bene, e anche accanto a noi”. Da quando frequento la Fraternità di Romena la nostra vita è cambiata, abbiamo tanti amici che ci vengono a trovare e sono amici veri. Ora dedichiamo parte del nostro tempo a chi è più in difficoltà, una volta la settimana vado con Mario dalle suore della Fraternità della visitazione a Piandiscò, dove aiutiamo le mamme e i bambini più disagiati. Se so che una famiglia è in difficoltà cerco di aiutarla. Tutto questo non ci toglie il dolore per l’assenza di Simone, però mi aiuta a sollevare lo sguardo e mi fa stare molto meglio, dà un senso nuovo alla mia vita. Giuliana I eri pomeriggio, ore 16,45 del 31 dicembre, stesso orario, stessa spiaggia, stesso tronco d’albero divorato dal vento e dal mare, ma sempre solido sotto il mio peso. Anche il tramonto era uguale, cielo terso, sole rosso, si vedevano come un anno fa tutte le isole: Giglio, Montecristo, Elba e la Corsica. Ma quest’anno c’era mia sorella con il suo compagno e mia nipote, e questa volta ho guardato in faccia il tramonto, non mi sono messo a meditare, ho guardato in faccia il calare del sole dentro il mare, ho guardato in faccia il velo del lutto che cadeva e spariva in un bagliore rossastro. Io in piedi e guardavo bruciare il velo. La sera poi è stata veramente festa, con mia moglie, mio suocero, i miei “ragazzi” a 4 zampe, mia sorella, il suo compagno e nipote e amici tanti amici; finalmente una casa calda, anche scaldata da un barbecue che non voleva collaborare. Voglio imprimere nel cuore queste immagini di quella sera a mezzanotte: gli occhi che ridevano di mia moglie mentre brindavamo, l’abbraccio finalmente di pace con mia sorella. La mattina dopo il caffè portatomi a letto da mia moglie e la vista di 3 aironi nell’alba dell’anno nuovo, a est, gli aironi erano a est, il mio cammino è verso est. Il mio cuore ha assorbito queste ore, questa luce; quando arriveranno momenti bui attingerò a questa luce. Pietro H o rivisitato il mio lutto, correva l’anno 1982, una telefonata e l’uomo con cui avevo creato la mia famiglia (Ester 24 anni, Costantino 25, Marco 3), è partito per il viaggio eterno. È stata davvero molto dura riprendere in mano il valore della vita, il continuare a vivere qui su questa terra, ma, la cosa bella e quasi contraddittoria è stato che quel dolore mi ha aperto un universo immenso, dove fatica e responsabilità mi invitavano a continuare il cammino. Marco aveva il diritto di essere cresciuto. A quel bambino non potevo sottrarre il mio amore di madre. La sua vivacità, le sue domande mi hanno fatto alzare dal letto dove mi ero rifugiata tra le lacrime e il grido infinito dei miei perché… perché proprio a me… dove già altre sofferenze familiari mi avevano toccato da adolescente. Che altro aggiungere, nulla ci appartiene, nulla ci viene tolto se amiamo e se siamo aperti sempre al nuovo. Ho imparato che è importante saper chiedere quando si è in difficoltà, chiedere aiuto, cercare… ed è stato un susseguirsi di amici, gruppi che ho conosciuto, da movimenti vicini a figure come don Milani, per arrivare a conoscere anche realtà come Romena. Il mio cercare sempre nuove realtà è stato vedere oltre quel mantello nero… La mia vita non è certo una favola a lieto fine, ma un aprirsi all’altro, dove non mancano le cadute, le fatiche, ma so che devo rialzarmi e proseguire il viaggio. Questo mio scritto desidera essere un grazie alla vita, a questo mezzo secolo di vita che mi è stato donato, un bilancio aperto, dove il dare paga, l’avere costa, e il saldo è un bilancio aperto senza scadenza. Est er 29 … il lutto è un mantello: com’è particolare questa immagine! Questo significa che il dolore che ci accompagna non lo vediamo perchè si aggrappa sulle nostre spalle eppure ne sentiamo tutto il peso. È un mantello così pesante che ci può far piegare la schiena in avanti e di conseguenza il nostro sguardo è destinato ad abbassarsi. anche l’orizzonte diventa basso ed il respiro si fa affannoso. Ma ecco la soluzione: gettalo questo mantello! Gesù non ci chiede di distruggere la sofferenza provata (sarebbe un’impresa davvero difficile), ma semplicemente di abbracciarla per poi lasciarsela alle spalle… Paola N on è la morte questione d’un istante. La morte è un lungo dopo d’assenza e di silenzio. Dislocamento in incolmabile distanza. Eppure non è neanche lei totale disconnessione. Suor Mar ia S t ella 30 J ambo, o mùriega come dicono i Kikuyu, o nì jogo sana come dicono i Turkana… insomma ciao a tutti! Sono stato in Brasile, e ho scoperto che non c’era un solo Brasile, ma centinaia di “Brasili”. Sono arrivato in Kenya, e qui non esiste una sola Africa, ma tante, tantissime Afriche, tanti tantissimi Kenya. Le nostre opinioni, i nostri pregiudizi euronordicoccidentali (a volte neuroccidentali) sono davvero lontani dalla realtà! In Kenya ci sono tanti uomini, donne, bimbi (quanti bimbi!) che vivono, lottano, amano e sperano… proprio come noi! Ci sono tante cose che non vanno, è il terzo paese al mondo dove la corruzione è più grande, il secondo dove è più forte il gap tra ricchi e poveri. Basta entrare in ospedale del governo, per non lamentarsi mai più della nostra sanità. Basta entrare a Korogocho, o a Matharì per rendersi conto cos’è l’inferno, per indignarsi e per capire dove arriva l’ingiustizia in questo mondo. Una cosa che mi fa arrabbiare, è vedere gli stranieri che arrivano. Questo loro bisogno di vedere gente soffrire, scoprire che ci stanno quasi male se qualcosa sta migliorando… “Voi dovete restare poveretti, così noi ci sentiamo bene, perchè aiutandovi ci sentiamo buoni”… e superiori soprattutto! Missionari che ostentano sofferenze, per sensibilizzare il portafoglio… La sofferenza, la povertà ha una dignità… tanto quanto la nostra nudità e la nostra spiritualità. Mica le mettiamo in piazza ogni giorno. Ma in Kenya, in questa piccola parte di Kenya, ci sono anche tante cose belle. Mi sono emozionato nel vedere come a Maina, una baraccopoli, la parrocchia dove sto ora, i poveri si sono riuniti, organizzati per resistere… Magarisse sta male, ha 12 anni, ha bisogno di essere operata al cuore. E allora via con una festa, come lo chiamano loro un harambè, una raccolta per aiutare questa bimba. 170.000 scellini. Quasi 2.000 euro! Non è facile farvi capire l’immensità di questa somma raccolta da persone che guadagnano quando va bene 50 euro al mese! Magarisse è stata operata, sta bene… tra un po’ faremo una festa! Come saprete in Kenya, oltre all’inglese e al suali, si parlano un sacco di lingue…Io sto studiando il Kikuyo, che è la lingua della più grande tribù presente in Kenya. Mi sono emozionato quando, una domenica, siamo stati a dire la messa in una baracca spersa in mezzo ai campi, in luogo di prevalenza Turkana… con noi è venuta una suora che sapeva il Turkana… beh, doveste vedere gli occhi di quella trentina di persone, erano lucidi, scoppiavano di gioia… Una che parlava la loro lingua che li capiva, che riusciva a toccare il loro cuore… Se Gesù stesso fosse stato lì, non so se avrebbero gioito così tanto. Ma Gesù era in mezzo a loro! Io, tu, tutti, abbiamo bisogno di qualcuno che parli la nostra lingua, abbiamo bisogno di trovare il coraggio e le parole per dare un nome al nostro dolore e alla nostra gioia! Di trovare qualcuno che ci mostri quanto belli siamo, uno specchio non basta… Mi emozionano ogni giorno gli occhi di questi bimbi, sentire questa gente come canta… chi canta è futuro! Questi occhi che ti mostrano chi sei e anche quello che non vorresti vedere, di te stesso e della realtà che ti sta intorno! Mi emoziona sempre di più quel Dio che si è fatto bimbo, è cresciuto, che si innamorato degli uomini, che si è arrabbiato, che si è commosso, che non era così preoccupato del sabato, della liturgia, ma di ogni persona che incontrava sulla sua strada! Che sì è dato tutto per il Regno, per la sua giustizia! Sento che in questo periodo occorre aspettare… aspettare di capire, di conoscere… ascoltare… “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi e intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e desidero migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendendo dalla sua schiena”. Ma la domanda che mi inquieta e mi indigna e che giro a voi è questa: “quando smetterò di parlare, restando sulla schiena di quello uomo? Quando inizierò davvero a scendere… a fare qualcosa per scendere?” Don Sandro* *Don Sandro, grande amico della Fraternità, da pochi mesi ha iniziato la sua nuova vita di missionario in Africa. Ci piace condividere questa lettera che ci ha mandato raccontandoci l’inizio del suo nuovo percorso. PROSSIMO NUMERO: il giornale in uscita a Giugno approfondirà il tema: “RIVESTITI DEL MANTELLO DELLA GIUSTIZIA”. Inviateci lettere, idee, articoli, foto (termine ultimo: 1 Maggio 2008), preferibilmente alla nostra e-mail: [email protected] UN CONTRIBUTO: se volete darci una mano a realizzare il giornalino e a sostenere le spese potete inoltrare il vostro contributo sul c.c.p allegato. CASSA COMUNE: è composta dai vostri c.c.p. più offerte libere. La cassa sarà utilizzata per continuare a realizzare il giornale e ampliarne la diffusione (in carceri, istituti, associazioni, gruppi, ecc.) PASSAPAROLA: se sai di qualcuno a cui non è arrivato il giornale o ha cambiato indirizzo, o se desideri farlo avere a qualche altra persona, informaci. SEGRETERIA: l’orario per le iscrizioni ai corsi è preferibilmente dal mercoledì al venerdì dalle 17,30 alle 19,30, sabato e domenica quando vuoi. Le iscrizioni ai corsi si aprono il primo giorno del mese precedente al corso stesso. 31 I nsonocammino gli uomini della domanda. Alla soglia del mistero arrivano gli uomini dell'interrogazione. Angelo Casati 32