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Modelli di sofferenza mentale in Freud ed Jung

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Modelli di sofferenza mentale in Freud ed Jung
L’Opinione
Modelli di sofferenza mentale in Freud ed Jung
Models of mental suffering in Freud and Jung
RAFFAELE CIOFFI
Istituto di Psicologia, Università di Urbino
RIASSUNTO. Introduzione. In questo breve testo ho analizzato la letteratura concernente i modelli freudiani e junghiani,
la loro concettualizzazione della struttura psichica e la definizione che danno dei termini salute e malattia mentale.
Riflessioni. Propongo quindi una lettura della sofferenza mentale sotto un’ottica che tenta di approfondire l’approccio psicanalitico. La patologia psichica, secondo l’opinione esposta nel testo, necessita anche di un’analisi “intima”, analisi che sembra poter fornire proprio l’approccio psicoanalitico.
PAROLE CHIAVE: malattia mentale, Freud, Jung
SUMMARY. Introducion. In this brief paper I have studied the literature on freudian and junghian models, their conceptualisation of the psychic structure and the definitions of terms such as healthard mental illness. Reflections. Therefore I propose a reading of mental suffering by deepening the psychoanalytic approach - Psychic pathology, according to our opinion,
needs an “intimate” analysis, which is what a psychoanalytic approach may provide.
KEY WORDS: mental illness, Freud, Jung
INTRODUZIONE
Parlare di sofferenza mentale è un compito assai difficile: attualmente sono presenti una molteplicità d’impostazioni teoriche, ciò rende arduo qualsiasi tentativo
di sintesi; per questi motivi, ho scelto due fra le tante
metodologie cliniche.
Partendo dall’ottica psicanalitica di S. Freud che,
per certi versi, è stata la prima in assoluto a sistematizzare in un castello teorico le dinamiche e le problematiche connesse alla sfera del mentale, ho trattato l’altro approccio, nato da un diverbio concettuale
per alcuni paradigmi freudiani troppo sclerotizzanti:
quello junghiano.
Lorenzetti e Rossi (1) sostengono che, per dare una
tridimensionalità ai concetti di personalità normale e
patologica è indispensabile un’apertura epistemologi-
ca attraverso un rinnovamento. È necessario passare
da una psicologia della persona ad una psicologia della complessità, proprio perché l’unico attributo che
sembra racchiudere le molteplici teorie della mente
umana, sembra essere in realtà soltanto questo.
Complessità, come tentativo di chiarire l’indicibilità
di tutte le manifestazioni psichiche, come punto epistemologico saldo, dal quale ripartire per tentare di creare una psicologia ed una psicopatologia non più disgregate in tanti filoni interpretativi.
La sofferenza e la salute mentale acquistano nuovi
connotati descrittivi: non più soltanto normali o patologici meccanismi postulati da un dato modello, bensì
l’integrazione dei modelli stessi per delineare le motivazioni di certe condizioni psichiche; un mentale che
da origine ad un contrasto terminologico e sfocia nel
somatico.
E-mail: [email protected]
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Modelli di sofferenza mentale in Freud ed Jung
Accettare il paradigma epistemologico della complessità significa rinunciare alla pretesa di spiegare la
sofferenza con poche chiavi di lettura; a tal riguardo,
gli ultimi approcci sembrano accettare questo nuovo
spirito interpretativo, proponendo modelli sempre più
complessi, nei quali viene lasciato ampio spazio a spiegazioni altre, magari di diverse impostazioni teoriche.
In questo articolo cercherò di mettere a fuoco, per
quanto mi sarà possibile, le modalità terminologiche,
epistemologiche e cliniche dei due indirizzi storici
(freudiano e junghiano), tramite le quali si possa concettualizzare la sofferenza mentale. Soltanto tentando di chiarire su cosa un modello psicopatologico
ponga le proprie fondamenta, si può capire come
questo intervenga per contrastare la sofferenza mentale stessa.
IMPOSTAZIONE FREUDIANA
Freud opera una sintesi tra le divergenti posizioni
scientifiche o filosofiche, organicistiche o spiritualistiche, moniste o dualiste, in una prospettiva che incide
fortemente sulla concezione psicoanalitica di sofferenza mentale. Integra l’organicismo disperato ed il vitalismo spiritualistico della filosofia anti - positivistica del
suo tempo sul terreno proprio della scienza: costruisce
una nuova disciplina, la psicanalisi appunto, impregnata di spirito innovativo, che va contro corrente e, basandosi su osservazioni cliniche, tenta di scavalcare il
disagio delle speculazioni filosofiche.
È dall’osservazione clinica che si ricavano regole
per inquadrare i comportamenti umani in costrutti
teorici di riferimento andando oltre la freddezza dell’impostazione rigorosamente medica, avvicinandosi
ad una filosofia dell’animo umano basata su una rigorosa clinica e sulla costruzione di paradigmi su base empirica. (2)
La teoria tradizionale di S. Freud consiste di un modello lineare che considera la personalità umana in sviluppo secondo una serie sequenziale di tappe evolutive in direzione della maturità psichica.
Maturità intesa come salute mentale, in antitesi al
concetto di personalità disturbata, caratterizzata da un
arresto di sviluppo avvenuto in qualcuno degli stadi
che la teoria freudiana stessa aveva postulato succedersi durante il processo di crescita psico - somatica
del bambino. In tale ottica, lo sviluppo del bambino è
considerato come un continuum, soggetto ad interruzioni dovute a situazioni stressanti o traumatiche (3).
Ogni forma di disturbo mentale, quindi, si definisce
su di un’impronta di struttura della personalità che è
normale nella fase dello sviluppo appropriata: con
Freud si infrange la barriera salute / sofferenza, sul piano sia teorico che pratico.
A livello teorico la psicanalisi afferma che nulla è
presente nelle persone affette da disturbi psichici che
non sia presente anche nelle persone sane. La sofferenza non è data da un qualche elemento estraneo che,
immettendosi nell’uomo, ne perturba il buon funzionamento psichico, né è un accidente che improvvisamente capita all’individuo, bensì deriva da un particolare orientamento e posizionamento di elementi comuni a tutti; posizionamento disturbante che, in tal
modo, va ad incidere sull’equilibrio generale della
struttura psichica.
Non è un singolo fattore scatenante a promuovere
un certo disturbo: ciò che turba questo equilibrio di
forze dipende da complesse relazioni tra la struttura
psichica di base e le esperienze della vita, in particolare quelle dell’infanzia, e sono esperienze che derivano
dalle relazioni inter-soggettive che l’individuo ha con
le persone significative della sua vita (2).
Non esiste un criterio oggettivo per stabilire la patologia di un comportamento, anche perché non esiste un
referente ideale di personalità normale, essendo la
condizione di normalità il risultato di un equilibrio dinamico: salute e sofferenza sono concetti troppo complessi per essere racchiusi in poche frasi, nonostante
tutto, vi è sempre il tentativo d’approssimarsi all’ideale definizione di tali concetti (4-7).
L’obiettivo generale della terapia psicoanalitica,
quindi, è quello di mettere i paziente in condizioni di
studiare e risolvere i propri conflitti in una prospettiva
evolutiva e successivamente cambiare il suo mondo
delle rappresentazioni oggettive e del sé (8).
Andiamo per gradi: cerchiamo di analizzare brevemente le tre modalità d’analisi sulle quali si basa il modello freudiano: dinamico, topico, economico.
Il punto di vista dinamico considera i fenomeni psichici come il risultato di conflitti tra forze contrastanti,
ovvero l’esito della loro composizione.
Al fondo del funzionamento psichico vi sarebbe una
continua dinamica conflittuale, tale dinamica dovrebbe essere elaborata sistematicamente in riferimento alle evidenze ed alle finalità della clinica. Alla base delle
psiconevrosi non sta semplicemente un indebolimento
delle energie, bensì un articolato co - evolversi di strutture concomitanti. È dalle pulsioni che deriva la diversa qualità delle forze che, all’interno dell’apparato psichico, si assecondano e si inibiscono. Le forze in gioco
sono da Freud trattate in modi diversi. Ora come cariche discrete – secondo un modello di derivazione finalistica – che possono investire o disinvestire oggetti e
rappresentazioni ed essere responsabili di fenomeni
come interesse o disinteresse; ora come implicate in
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specifiche configurazioni strutturali, che hanno il compito d’amministrare energie libidiche (9, 10).
Dal punto di vista dinamico, l’inconscio è tale perché
si esercitano certe pressioni rimoventi verso taluni
contenuti psichici che aspirano a penetrare alla coscienza o ad esprimersi nella motilità, cioè a scaricarsi
in comportamenti.
L’energia in gioco viene sin dall’inizio denominata libido, e al suo significato originariamente sessuale,
Freud non rinuncerà in tutta la sua opera, nonostante
le critiche che per questa impostazione gli verranno
anche dai suoi allievi. A sua volta, la libido si esprime
in pulsioni governate da forze fisiche. L’energia genera
forze, e le forze si manifestano come spinte, le quali
appaiono nella vita psichica attraverso loro rappresentanti ideativi, cui è connesso un affetto.
Rappresentanti ideativi ed affetto connesso possono
subire destini autonomi: l’affetto può spostarsi su altre
rappresentazioni, può essere volontariamente represso, oppure può trasformarsi in angoscia e trovare così
espressione nella vita cosciente.
Il punto di vista topico si sviluppa in due momenti. La
prima topica ipotizza che l’apparato psichico sia scomponibile in sistemi funzionalmente differenziati. La rappresentazione delle funzioni psichiche come costituenti di un
apparato può avvenire solo attraverso una realizzazione
spaziale che si serve di immagini per istituire luoghi, località psichiche, regioni distinte per funzioni, dove siano
possibili gli scambi ed i rapporti dinamici.
Semi (9, 10) spiega la strutturazione della prima topica come una suddivisione di un ambiente in più stanze,
paragonando il sistema dell’inconscio ad una grande anticamera, in cui gli impulsi psichici giostrano come singole unità. Comunica con questa anticamera una seconda stanza più stretta in cui risiede anche la coscienza.
Ma sulla soglia tra i due vani svolge le proprie mansioni
un guardiano, che esamina, censura i singoli impulsi psichici e non li ammette nel salotto (coscienza) se non gli
vanno a genio.
Se gli impulsi si sono spinti fino alla soglia e sono stati rimandati indietro dal guardiano censore, ciò significa che sono stati ritenuti inammissibili alla coscienza:
in tal caso vengono detti rimossi. Se però gli impulsi
che hanno ricevuto il lasciapassare dalla sentinella non
sono per questo diventati coscienti, lo possono diventare solo se riescono ad attirare su di sé lo sguardo vigile della coscienza stessa.
Questo secondo vano avrebbe l’appellativo di preconscio. In questo sistema, quindi, il diventare cosciente mantiene soltanto il senso descrittivo. Incorrere nella rimozione significa, invece, per ogni singolo impulso,
che il guardiano non gli consente di penetrare dal sistema dell’inconscio a quello del preconscio.
Con la seconda topica Freud, nel 1922, fa compiere a
questo modello un notevole balzo qualitativo, che comunque non annulla la precedente impostazione, ma
semmai la sviluppa e perfeziona. Alle tre stanze prima
descritte, adesso si aggiungono e sovrappongono tre
istanze:
• l’Es, espressione in un certo qual modo del polo pulsionale inconscio;
• l’Io, inteso come rappresentazione degli interessi
della totalità della persona e come mediatore fra le
richieste istintuali e la realtà;
• il Super Io, derivato dall’interiorizzazione dei divieti
parentali e rappresentante degli ideali personali del
soggetto.
È Freud stesso a proporre di chiamare Io quell’entità
che scaturisce dal sistema Percezione – Coscienza e comincia col diventare Preconscio; e di seguire Groddeck,
chiamando Es quell’altra parte della psiche nella quale
l’Io si continua, e che si comporta in maniera inconscia…un individuo è dunque per noi un Es psichico,
ignoto ed inconscio, sul quale poggia nello stato superiore l’Io, sviluppandosi dal sistema P come da un nucleo. L’Io non è strettamente separato dall’Es, ma sconfina verso il basso fino a confluire con esso. Freud riassume la posizione strategica di due delle tre istanze da
lui stesso postulate: l’Io e l’Es, la prima è quella parte
dell’Es stesso che ha subito una diretta modificazione
per la “diretta azione del mondo esterno grazie all’intervento del sistema P-C. l’Io rappresenterebbe la ragione e la ponderatezza, in opposizione all’Es che è il ricettacolo delle passioni. La terza istanza, il Super Io, è ritenuto essere l’erede del complesso edipico, costituisce
pertanto l’espressione dei più potenti impulsi e delle vicissitudini libidiche più importanti dell’Es. Generalmente a questa istanza vengono attribuiti significati morali,
ruoli di controllo censorio, pressioni religiose o sociali,
incarnazione dei divieti genitoriali (5).
Infine, abbiamo il punto di vista economico; in questo senso, l’economia psichica è un complemento inscindibile della prospettiva dinamica: in esso si sottolinea simultaneamente che le pulsioni sottese alla vita
psichica sono processi energetici, che originano da
pressioni biologiche, concepibili in termini di forze più
o meno intense, più o meno investite su oggetti o disinvestite da essi per essere altrimenti impiegate.
Tale dimensione è intrinseca all’idea d’intensità e di
conflittualità psichica ed è un elemento teorico che non
si può facilmente espungere dal tipo di rappresentazione, che Freud stesso suggerisce, e dal suo linguaggio.
Il sintomo, la manifestazione reale della sofferenza
psichica, sarebbe segno e sostituto di un soddisfacimento pulsionale che è mancato, sarebbe un risultato
del processo di rimozione (6).
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Non è possibile segnare un limite fisso fra la normalità e la sofferenza: il concetto stesso di sofferenza
mentale è percepito come un bisogno pratico degli
addetti ai lavori. I criteri con cui distinguiamo ciò che
è fisiologico da ciò che è, invece, patologico, non sono
né univoci né stabili. Questa difficoltà oggettiva nello
scindere queste due grandi modalità esistenziali, rende ovvia l’affermazione semplicistica di chi sostiene
di riscontrare un certo grado di nevrosi in qualsiasi
individuo.
Per concettualizzare la sofferenza mentale, si deve
far in modo che i fattori in gioco, e la stessa nozione di
processo inconscio, vengano almeno concepiti per ampi tratti entro i parametri del morboso e del corporeo.
In questo caso, quindi, le malattie psichiche sono malattie dell’anima, e tuttavia esse sono sempre intese come se si trattasse anche di malattie del corpo; è tramite il corpo, infatti, che possono espletare la loro sintomatologia.
L’ansia, l’angoscia, la melanconia, la psicosi e la nevrosi si manifestano soprattutto grazie alla loro simultanea collocazione in punti corporei, sia tramite le forme linguistiche, sia con comportamenti bizzarri, sia con
somatizzazioni di vario genere.
Anche in Freud, quindi, l’idea di sofferenza psichica
si estrinseca in una vasta catena d’analogie, impiegate
abbastanza frequentemente: lo psichico viene configurato come corpo secondo catene di proporzioni del tipo: Psichico: Somatico = Psicopatologia: Anatomo-Patologia = Psicanalisi: Chirurgia (9, 10).
La sofferenza mentale, o meglio, quel quadro psichico che, per quelle determinate caratteristiche dinamiche, topiche ed energetiche, sembrerebbe protendere
verso uno stallo pulsionale, una fissazione cronica, è
frutto di un complesso processo d’interazioni psichiche, sia coscienti che inconsce.
Proprio perché, sia la normalità che la patologia tendono ad utilizzare i medesimi meccanismi e strutture
messe a disposizione dal corredo psichico, è alquanto
improbabile tracciare una linea di demarcazione netta
tra i due stati. Anche se, le ricerche attuali hanno notevolmente ridimensionato questo pessimismo concettuale freudiano, non è detto che, comunque, in queste
ammissioni d’impotenza nel delimitare il buono dal
cattivo, il sano dal patologico, non ci debba essere una
verità incontestabile.
Nonostante che molti dei concetti fino ad ora esposti siano stati rivisti e, alcuni anche smentiti, dallo sviluppo delle discipline psicologiche, a Freud va attribuito un grande merito: quello d’aver aperto la strada ad
un nuovo modo di pensare l’uomo, non più ottusamente radicato a moduli biologistici, bensì proteso verso orizzonti complessi nei quali il sintomo, la sofferen-
za, la normalità, sono soltanto delle mere risoluzioni
terminologiche che, maldestramente, tentano di racchiudere dinamiche affascinanti quali quelle del sentire umano.
IMPOSTAZIONE JUNGHIANA
La psicologia di C.J. Jung, discostandosi per certi versi dall’ottica dell’ortodossia freudiana, è frutto di una
lunga ed accurata riflessione sulla natura dell’essere
umano, oltre che della revisione delle dottrine allora
esistenti. L’energetica junghiana, l’impostazione generale del suo modello di funzionamento della psiche, la
concettualizzazione della sofferenza mentale stessa,
soggiacciono a principi generali univoci (11, 12).
L’apparato psichico è fornito di una data quantità di
energia libidica che si attesterà sull’analisi delle sue
variazioni di dislocazione (conscia ed inconscia) e d’investimento (su oggetti reali ed immaginari, in funzione
di un adattamento alla realtà o in relazione all’emergere di disordini nevrotici o psicotici).
Jung sposta il livello della spiegazione dei processi
psichici da una metapsicologia che potrebbe definirsi
improntata a una visione linearistico - causale della costituzione della mente e delle sue rappresentazioni a
una metapsicologia descrittiva, rivolta ad una analisi
delle distribuzioni e delle trasformazioni della libido
all’interno di un individuo, al suo variabile costituirsi
come supporto energetico di differenti parti dello psichico.
Come in Freud la teoria si embrica, fin dall’inizio, in
modo indissolubile alla clinica delle nevrosi, la istituisce, la sostiene e ne ricava circolarmente elementi per
una sua modificazione, così non si può fare a meno di
cogliere nella visione junghiana, il prodotto di una particolare clinica, rivolta anch’essa originariamente a patologie e, forse ancor di più, a modalità d’ascolto analitico, diverse e distanti da quelle realizzate dal collega
viennese. Venendo in contatto con la realtà effettiva
delle malattie mentali, quali la dementia praecox, gli
sdoppiamenti di personalità, le patologie provenienti
da processi psichici stabili di scissione, Jung avverte come prevalente la necessità di definire in primo luogo il
contenuto affettivo delle nuclearità attorno alle quali
venivano a costellarsi gli automatismi scissi e quali fossero le potenzialità dell’Io di mantenere una relativa
coesione tra le parti. (13)
Se, a prima vista, la patologia mentale è un quid complesso in continua evoluzione con l’individuo, anche la
normalità non si sottrae a questa difficile interpretazione: la salute mentale, infatti, sarebbe legata all’armonia tra le diverse componenti della psiche.
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Varia, quindi, il paradigma evolutivo-concettualizzante la sofferenza e, in relazione ad esso, le modificazioni che la libido avrebbe subito col mutare del percorso storico dell’individuo.
Partendo da una concezione generica della libido, si
modifica di conseguenza la prospettiva della trasformazione terapeutica: se, come ho detto prima, nella
psicoanalisi freudiana una configurazione complessuale di carattere generale si traduce in forme infinitamente variabili nella storia personale, e il punto è di ricostruire, attraverso i rapporti di contiguità creati da
tale storia, come quella configurazione si sia realizzata,
si sia calata, in un particolare individuo, per Jung ciò
che produce le variazioni di ogni storia personale è la
forma peculiare ed irripetibile assunta dal bilanciamento tra modalità libidiche inferiori e superiori. Ma
se i concetti di salute e sofferenza mentale sono determinati a partire da una impostazione epistemologica
ben diversa da quella del padre della psicanalisi, Jung
continua a tracciare la geografia dell’apparato psichico
facendo riferimento ad una teoria della mente che, se
per alcuni versi riprende l’impostazioni del passato,
per altri, se ne discosta assumendo, come punti di riferimento, assunzioni del tutto originali.
L’idea di psiche è, a grandi linee, costituita da un insieme composito di complessi di rappresentazioni rinvianti, ciascuna ad una diversa nuclearità generativa
(psichica ma anche somatica) (13).
Dal momento che il nucleo concettuale della struttura psichica è il complesso, o meglio una sinergia di
complessi, allora converrà chiarire la loro natura e
posizione all’interno delle dinamiche normo/pato psichiche.
I complessi, quindi, risiedono potenzialmente sia sul
versante conscio che su quello inconscio della psiche
individuale e ognuno di essi è caratterizzato da rappresentazioni su cui è complessivamente investito un
determinato quantum di energia; fra di essi si dovrebbe instaurare un regime di cooperazione al servizio
dell’Io.
Sono i complessi quelle unità operative elementari
della mente, per altro non gerarchizzate a partire da un
ipotetico complesso prevalente, tra cui avvengono, e
andranno di volta in volta valutati, gli scambi di energia, gli affievolimenti delle potenzialità organizzatrici e
strutturanti del complesso dell’Io, le apparenti sparizioni della libido. È attorno a questa concezione dello
psichico che ruotano le altre tematiche junghiane (13).
La concezione della psiche, quindi, come una totalità
complessa, che si rende visibile solo frammentariamente e che continuamente rimanda a possibilità ulteriori inespresse, apre una prospettiva nuova sia nella
clinica che nella Psicoterapia.
Se da un punto di vista psicopatologico il riflesso di
questa teorizzazione conduce ad una relativizzazione
dei costrutti esplicativi alla base della clinica, dal punto di vista psicoterapeutico tale relativizzazione diventa lo strumento più potente per dar conto delle possibilità trasformative della psiche, valorizzando la relazione tra coscienza ed inconscio come dinamica al fondo delle molteplici, possibili variazioni nella costruzione di un’individualità. Da questa premessa, segue che
la molteplicità e la scindibilità sono di per se caratteristiche, per niente patologiche, dello psichico, al fondo
delle potenzialità trasformative della personalità.
La variabilità, sia essa normale o disfunzionale, è posta sia come una caratteristica intersoggettiva, sia come singola individualità, costituita da una complessità
compositiva che rende relativa ogni valutazione in termini di permanenza e di stabilità della formazione psichica. La salute mentale, perciò, non sta nel raggiungimento di una identità imperturbabile, fine a se stessa,
oramai immodificabile perché completa, ma nella capacità di tollerare la molteplicità costitutiva dell’anima
umana, che raggiunge un suo potenziale equilibrio solo nell’apertura al dialogo tra le singole parti, portatrici a loro volta nella reciproca eterogeneità, di una componibile complessità psichica.
Contro il pericolo della scissione, potenziale causa di
una sofferenza mentale, l’Io mette in atto una particolare strategia per custodire la propria compattezza: attribuire una sorta di etichetta irreale alle fantasie
emergenti dall’inconscio.
Il carattere illusorio che l’Io tende ad attribuire alle
rappresentazioni complessuali che vengono a turbarlo
ha lo stesso valore di un gesto apotropaico, attraverso
il quale la coscienza tende eufemisticamente ad annullare l’autonomia e la differenza complessuale tentando
di sottrarle valore e potenza. Ma tale operazione difensiva dell’Io nel momento in cui raggiunge la sua
esasperazione con l’arroccamento nell’unilateralità, è
destinata a raggiungere il suo punto di rottura nell’esplosione della nevrosi, in cui i mezzi magici primitivi
rappresentati dai gesti apotropaici e dall’eufemismo
non servono più, conducendo alla dissociazione nevrotica della personalità. (13)
Se, quindi, il cammino d’identificazione compiuto
dall’Io per raggiungere un’organizzazione sistemica
più o meno ordinata è un processo valido ed imprescindibile per una adeguata collocazione dell’uomo nel
proprio mondo, esso diviene un limite patologico nel
momento in cui si sclerotizzi in una struttura rigida e
dimentica del suo essere soltanto uno dei possibili percorsi della psiche, che non può esaurire l’intrico indefinito d’altri percorsi possibili né erigersi a rappresentante della realtà psichica.
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I concetti di normalità e patologia si estrinsecano solo nella possibilità di vederli come globalità in evoluzione: la normalità psichica come rimodellamento continuo dell’Io in funzione adattativa con le spinte esterne (ambiente) ed interne (personalità), la sofferenza
mentale come ibernamento delle potenziali capacità
rivoluzionarie del sé nei confronti di se stesso e del
mondo. L’incapacità dell’Io di sostenere un confronto
dialogico con le rappresentazioni complessuali diventa, nel caso della dissociazione nevrotica come pure di
quella psicotica, il principale motivo della sofferenza
psicopatologica, vista come un turbamento della capacità vitale individuale, per quanto riguarda la relazione
della coscienza con il fondo originario e collettivo in
cui ogni vita individuale ha le proprie radici.
Le dissociazioni nevrotiche e psicotiche, le modalità
psichiche di manifestare uno stato di sofferenza mentale, si differenziano quindi per diverse caratteristiche
processuali psichiche che stanno alla base dei due disturbi.
Nella dissociazione nevrotica, infatti, il bisogno difensivo di proteggere una identità fragile obbliga l’individuo ad arroccarsi nella difesa di una struttura rigida, divenendo inconsapevole della costitutiva molteplicità della psiche e subendo gli esiti di tale operazione o come sclerosi dell’apertura creativa alla vita, o come assalto da parte di contenuti alieni, incomprensibili e inaccettabili.
Nella dissociazione psicotica, invece, l’inflazione della coscienza da parte di contenuti complessuali emergenti in modo estremamente primitivo e disorganizzato è l’esito di una carenza strutturale dell’Io, incapace
di costruire un filtro elaborativo che valga ad aprire un
dialogo con le espressioni dell’inconscio collettivo. In
questo caso, la perdita della funzionalità organizzativa
dell’Io crea l’impossibilità di distinguere una sfera individuale, aperta alla definizione di un ordine significativo di fenomeni, da una sfera collettiva, la cui potenza si impone in modo così assolutamente radicale
da rendere impossibile lo stabilirsi di una qualunque
polarità tra Io e non - Io (13).
Mentre nella sofferenza mentale vi è un livello
obiettivamente alterato delle quantità libidiche che l’Io
deve gestire ed utilizzare per costruirsi, la normalità, invece, è definita come predominio universale dell’Io stesso sulle altre realtà psichiche che, pur continuando ad
esistere ed ad agire, rimangono sottoposte alle sue capacità regolatrici. l’Io del soggetto normale è l’espressione reale, sotto il profilo psicologico, dell’insieme
strettamente associato di tutte le sensazioni somatiche.
Ma in Jung non esiste sofferenza senza una simbolizzazione del vissuto. La relazione fra sintomo e simbolo
è, infatti, fondamentale per capire le condizioni che pre-
dispongono alle psicogenesi delle malattie mentali, alle
deviazioni patologiche che influiscono negativamente
sul normale fluire del processo d’individuazione. Il simbolo, in questo senso, è l’unico meccanismo capace di far
procedere in maniera propositiva la psiche oltre il conflitto degli opposti mediante la sua capacità di trascendere tesi ed antitesi: gli opposti per eccellenza.
La concettualizzazione della sofferenza mentale non
può avvenire senza la sua simbolizzazione, andando al di
là delle figure mitologiche del processo d’individuazione; allo stesso tempo essa non può essere terminologicamente giustificata se esclusa dal contesto antropologico
che ogni individuo porta in sé.A tal riguardo sembra giustificata, la lamentela che, ai giorni d’oggi, si solleva contro quella Psichiatria, e spesso anche psicologia, che utilizza il sintomo solo come luce - spia di un determinato
malessere, e non come auto - ammissione di un disagio.
Se la patologia mentale è anche frutto di una simbolizzazione, ecco che non esistono più le sole disfunzioni,
bensì gli individui turbati che le vivono e le subiscono.
Andare al di là della mera definizione, per tentare di
scoprire il malessere come frutto anche di crescita, tentando di intravedere nella nevrosi un senso di percorso
maturativo; rivisitare la propria psiche turbata attraverso la scoperta dei simboli che essa ospita e che, in questo
determinato periodo di sofferenza, intravede confusi.
La sofferenza mentale, come occasione altra d’identificazione del proprio sé , non soltanto come deficienza cronica: la nevrosi, solo la nevrosi per Jung, potrebbe essere avvertita come generatrice di nuove possibilità di simbolizzazione.
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