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Introduzione L`automatismo psicologico

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Introduzione L`automatismo psicologico
Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33, 1, 11-30
LA PSICOPATOLOGIA DI PIERRE JANET
Francesca Ortu
Introduzione
Dopo un lungo oblio assistiamo oggi ad una sorta di “riscoperta, di recupero” della teoria
di Pierre Janet. Non sempre tuttavia il pensiero dell’autore francese è correttamente citato e
molto spesso la discussione ruota intorno alle “differenze e somiglianze” tra Freud e Janet
schematizzando singoli concetti, espungendoli dal quadro complessivo della teoria e finendo
così per banalizzarli1. Gli autori che fanno riferimento alla psicotraumatologia si ispirano invece
direttamente al pensiero di Pierre Janet (Bühler e Heim 2011). Onno van der Hart, ad esempio,
che propone il concetto di dissociazione strutturale della personalità e di “personalità traumatica”
come chiave esplicativa della complessa fenomenologia post traumatica, e che pone l’accento
sul “tipo di azioni integrative che il sopravvissuto deve intraprendere per mettere a riposo il suo
tormentato passato e per rendere la vita presente più soddisfacente”, si richiama esplicitamente
alla teoria psicologia di Pierre Janet2, considerandola “essenziale per la comprensione e il
trattamento di disturbi legati a traumi”.
In questo breve articolo, presento un quadro delle ipotesi psicopatologiche dell’autore
francese inquadrandole nella cornice della sua teoria psicologica, la psicologia della condotta.
L’automatismo psicologico
Le basi concettuali ed epistemologiche della teoria si trovano già ne L’Automatismo Psicologico
(1889) in cui Janet riprende “sviluppandole e ricorrendo all’osservazione e all’esperienza”
1
Nella letteratura psicoanalitica le citazioni a Pierre Janet, che pure si trovano in numerosi articoli si
limitano a pochissime righe, tutte molto simili, che oscurano di fatto la differenza fra Janet e Freud.
2
Nell’introduzione a I Fantasmi nel sé Onno van der Hart, Ellert Nijenhuis e Katy Steele ad esempio
scrivono “Proponiamo in quest’opera una teoria della dissociazione strutturale unita a una psicologia della condotta
che ha le sue radici nel lavoro pionieristico di Pierre Janet. Questa psicologia definisce la natura delle azioni adattive
(e quindi integrative) che, come esseri umani, dobbiamo intraprendere per funzionare al meglio (p. 2). E ancora
“Le nostre idee sulle azioni dei sopravvissuti sono fortemente ispirate alla psicologia della condotta di Pierre Janet
[…] è un’ottima capacità di integrazione che unisce un ampio spettro di fenomeni psicobiologici all’interno della
personalità a caratterizzare la salute mentale […] L’integrazione è una combinazione di azioni di ordine più basso
e di azioni di ordine più elevato e la psicologia della condotta di Pierre Janet è utile per comprenderla nelle sue
declinazioni di funzionamento normale e patologico”. Si veda anche la Postfazione di Craparo alla traduzione
italiana de L’Automatismo psicologico.
SOTTOMESSO FEBBRAiO 2014, ACCETTATO MARZO 2014
© Giovanni Fioriti Editore s.r.l.
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Francesca Ortu
le teorie emergenti alla fine dell’Ottocento a proposito della sensazione, coscienza, volizione
e azione” (Estingoy 2008) dando inoltre ampio spazio al lavoro sull’ipnosi e l’automatismo
portati avanti da Charles Richet. Partendo da una serie di osservazioni su “pazienti isteriche e
catalettiche” che presentavano in grado elevato i fenomeni dell’automatismo, cioè nelle quali
“i fenomeni di pensiero si manifestavano in modo pressoché isolato”, Pierre Janet sostiene che
lo studio delle diverse modificazioni della coscienza che compaiono negli stati sonnambolici
porta ad identificare nelle “sensazioni senza la percezione della sensazione” i fenomeni
elementari della vita psichica, costringendo così a formulare l’ipotesi di un livello di coscienza
“subcosciente”. “[…] Siamo stati condotti ad ammettere l’esistenza di fenomeni elementari il
più possibile semplici”, scrive Janet (1889, p. 6). Questi fenomeni, che pur essendo “privi di
questa coscienza riflessa che consiste soprattutto nell’integrazione dei fenomeni nella personalità
[mantengono] il carattere di fatti psicologici” (Janet 1889, p. 6) sono drammaticamente in primo
piano negli stati anormali ma possono essere considerati alla base della vita psichica normale.
Questi atti subcoscienti “hanno per un osservatore che li vede dall’esterno […] l’aspetto
di manifestazioni perfettamente intellegibili, mentre per il malato in cui si producono hanno
l’aspetto di manifestazioni totalmente estranee a cui la personalità non parteciperebbe in alcun
modo. Questi atti sono cioè dotati di tutte le caratteristiche di un atto cosciente, salvo quello
di essere conosciuti dalla persona che li compie”3. Il sonnambulismo dunque non può essere
considerato un incidente isolato ma è necessario piuttosto riconoscere che trova le sue radici in
uno stato patologico della veglia stessa.
“Noi crediamo che sia possibile ammettere simultaneamente e l’automatismo
e la coscienza, e dare così soddisfazione a coloro che constatano nell’uomo
una forma di attività elementare completamente determinata come quella di un
automa, e a coloro che vogliono conservare all’uomo, persino nelle sue azioni più
semplici, la coscienza e la sensibilità. In altri termini, non ci sembra che, in un
essere vivente l’attività che si manifesta all’esterno attraverso il movimento, possa
essere separata da una certa forma di intelligenza e di coscienza che l’accompagna
all’interno, e il nostro scopo è quello di dimostrare non solo che c’è un’attività
umana che merita il nome di automatica ma anche che è legittimo designarla come
un automatismo psicologico” (Janet 1889, p. 20).
Secondo Janet inoltre “i fenomeni dell’automatismo psicologico sono spiegabili in base ad
alcune semplici leggi della psicologia”: anche “nella psicologia patologica” è possibile ricorrere
al metodo sperimentale basandosi sulla “osservazione di soggetti scelti”, analizzando i fenomeni
e giungendo alla formulazione di ipotesi teoriche in grado di sintetizzarli.
I fenomeni automatici, i fatti di divisione della personalità si ricollegano,
come tutti i sintomi patologici, mediante transizioni innumerevoli, ai fenomeni
della psicologia normale e si può discutere all’infinito sul limite tra la malattia
3
Basterebbe questa osservazione per cogliere la distanza fra il concetto janetiano di subcosciente e il
concetto freudiano di inconscio. Ellenberger (1973) fa notare che Janet sceglie il termine “subcosciente”, e ne
dà una definizione puramente empirica, per distinguere chiaramente la propria teoria dalle teorie metafisiche
dell’inconscio, da Schopenhauer e von Hartmann, molto diffuse alla fine dell’Ottocento.
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La psicopatologia di Pierre Janet
e la salute. […] sarà facile vedere che tutti i fenomeni isterici sono caratterizzati
precisamente da questo sdoppiamento della personalità che esiste in grado supremo
nel sonnambulismo. “Il sonnambulismo, dicevamo, non è soltanto isterico, perché
coincide con dei sintomi di isteria; esso presenta, in quanto tale, nella maniera più
completa il carattere di tutti i fenomeni di questa malattia” (Janet 1889, p. 16).
La definizione dell’oggetto di studio si accompagna così ad una dichiarazione di metodo:
per Janet infatti il progresso delle conoscenze psicologiche non può che basarsi sul metodo
delle “scienze naturali” capace di combinare l’analisi dei fenomeni con una loro ricostruzione
sintetica (si veda Ellenberger 1970, p. 438). È necessario inoltre riconoscere che non ci sono
“due facoltà, l’una quella del pensiero, l’altra quella dell’attività [ma che]ad ogni istante esiste
un solo ed unico fenomeno che si manifesta sempre in due modi differenti”. Le interpretazioni
credibili sulla psicologia umana devono dunque basarsi su osservazioni rigorose e controllate:
“Una ricerca di questo genere non può farsi mediante l’asserzione dei fatti che
passano nella nostra coscienza. In effetti, fenomeni che la coscienza ci presenta
solo difficilmente possono essere oggetto di una sperimentazione regolare; sono
inoltre troppo complicati e si verificano in modo e circostanze molteplici e difficili
da determinarsi, infine, e soprattutto, sono incompleti. La coscienza non ci fa
conoscere tutti i fenomeni psicologici che avvengono in noi è questa una verità
oggi indiscutibile che speriamo di confermare ancora. È da qui che derivano
le maggiori difficoltà che gli psicologi hanno incontrato quando hanno voluto
limitarsi all’osservazione personale mediante la coscienza. Per avere dei fenomeni
semplici, precisi e completi, bisogna osservarli negli altri e far ricorso alla
psicologia obiettiva. Senza dubbio si conoscono solo indirettamente i fenomeni
psicologici che avvengono negli altri e la psicologia non potrà iniziare da questo
studio4; ma, sulla base degli atti, dei gesti, del linguaggio, si può indurre la loro
esistenza, così come il chimico determina gli elementi degli astri in base ai raggi
dello spettro e la certezza di un’operazione è pari a quella dell’altra l’altra. Il
nostro studio sull’automatismo sarà dunque un saggio di psicologia sperimentale
e oggettiva [...] ma poiché l’automatismo si manifesta in modo così chiaro ed
4
Basandosi sull’osservazione di pazienti colpiti da catalessia si potrà inoltre realizzare “quell’esperienza
che Condillac sognava e che non poteva compiere […] Possiamo aver davanti agli occhi una statua vivente la
cui mente è vuota di pensieri e, in questa coscienza, possiamo indurre isolatamente i fenomeni di cui vogliamo
studiare lo sviluppo psicologico. […] La catalessia […] che procura queste soppressioni brusche e complete, poi
quelle restaurazioni graduali della coscienza di cui vogliamo profittare per le nostre esperienze […] dà un’idea
generale molto esatta di uno stato morboso che si produce naturalmente in alcuni individui predisposti a seguito di
uno choc o di una emozione e che si produce artificialmente in alcuni soggetti mediante svariati procedimenti. La
catalessia permette dunque lo studio dei fenomeni elementari della coscienza. Il nostro lavoro sull’automatismo,
scrive ancora Janet, non era soltanto uno studio di psicologia, era ancora uno studio medico, perché l’automatismo
si manifesta in modo così chiaro ed esagerato soltanto in stati psicopatologici. Le nostre descrizioni si riferiscono
a diverse malattie mentali, deliri tossici, stati neurastenici, ossessioni, impulsi; una malattia particolare è però
stata oggetto dei nostri studi: l’isteria. È nelle nostre isteriche che abbiamo studiato questi stati catalettici e
sonnambolici, queste modificazioni complete e brusche della memoria e della sensibilità, questi atti subcoscienti”
(Janet 1889, pp. 31-32).
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esagerato soltanto in alcuni stati psicopatologici [e in particolare nelle isterie] il
lavoro sull’automatismo [sarà] ancora uno studio medico automatismo5” (Janet
1889, p. 23).
Rimanendo all’interno della psicologia sperimentale è dunque possibile “determinare la
natura essenziale dei fatti di coscienza senza uscire dalla osservazione pura mostrando il carattere
relativamente semplice di tali fenomeni e la differenza che li separa dai fatti di coscienza usualmente
noti. Questi fatti impersonali, rudimentali, non appena si complicano un po’ “tendono a rivestire la
forma della personalità”. I disturbi della coscienza personale, nelle loro multiformi manifestazionisi presentano già dunque nell’Automatismo come un disturbo globale della personalità. Alla fine
del capitolo dedicato allo studio delle anestesie e delle esistenze simultanee Janet scriveva:
“Le cose vanno come se i fenomeni psicologici elementari fossero tanto reali e
numerosi quanto lo sono negli individui più normali, e come se, tuttavia, a causa
di una debolezza particolare dell’attività di sintesi, non potessero riunirsi in una
sola percezione, una sola coscienza personale. Potremo in alternativa formulare la
stessa ipotesi dicendo: le cose vanno come se il sistema dei fenomeni psicologici
che forma la percezione personale in tutti gli uomini fosse, in questi individui,
disaggregato e desse origine a due o più gruppi di fenomeni coscienti, gruppi
simultanei ma incompleti che si sottraggono reciprocamente le sensazioni, le
immagini e di conseguenza i movimenti che devono essere riuniti in una stessa
coscienza e in uno stesso potere” (Janet 1889, p. 374).
La tendenza alla sintesi e alla personalità costituisce dunque il carattere generale dei
fenomeni psicologici” e d’altro canto, se è assolutamente indiscutibile che “la malattia isterica
costituisce di gran lunga il terreno più favorevole allo sviluppo dei fenomeni automatici” (Janet
1889, p. 454) bisogna anche ammettere che “l’automatismo non crea nuove sintesi, non è che
la manifestazione di sintesi che sono già state organizzate in un momento in cui la mente era
più potente”. L’automatismo cioè, continua Janet abbozzando quella visione gerarchica della
personalità che svilupperà negli scritti successivi, non è che la conseguenza di un’altra attività
del tutto differente che un tempo l’ha resa possibile e che d’altronde l’accompagna oggi quasi
sempre. Non solo queste due attività − l’una che conserva le organizzazioni del passato, l’altra
che sintetizza, che organizza i fenomeni del presente − dipendono l’una dall’altra, ma esse si
limitano e si regolano reciprocamente ed è soltanto la diminuzione dell’attività di sintesi attuale,
indebolimento manifestato dai più svariati sintomi, che permette lo sviluppo esagerato dell’antico
automatismo. Il funzionamento mentale viene dunque descritto come il risultato di “due attività
fondamentali che a volte si completano e a volte si ostacolano” identificate nell’attività di sintesi
− una vera e propria “attività creatrice” che riunisce i fenomeni dati, più o meno numerosi in “un
fenomeno nuovo e diverso dai singoli elementi” − e nell’automatismo, definito alla stregua di
5
Riferendosi esplicitamente a Claude Bernard, Janet (1889) scriveva “Bisogna ammettere per il versante
psicologico quel grande principio, da Claude Bernard in poi universalmente ammesso per il fisico, e cioè che le leggi
della malattia sono le stesse della salute e che nella malattia vi è semplicemente l’esagerazione o la diminuzione di
certi fenomeni che si trovavano già nella salute. Se si conoscessero bene le malattie mentali, non sarebbe difficile
studiare la psicologia normale” (p. 20). Su questo punto si veda Estingoy (2008) e Ortu (2013) alla pagina xiv.
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La psicopatologia di Pierre Janet
una attività “conservatrice” che tende a riportare alla luce le antiche sintesi.
Abbiamo visto le sensazioni durare e mantenere gli elementi che le costituivano,
abbiamo visto le emozioni riprodursi e mantenere i movimenti e le espressioni
della fisionomia che ne erano le parti costituenti. Dato un elemento di una memoria
particolare e di una personalità complessa, si riproduceva tutta la memoria e tutta
la personalità. A seconda che si portassero così gli elementi di questa o quella
sintesi precedentemente costituita, si facevano alternare le coscienze e le esistenze
personali. Infine, quando il soggetto aveva appreso il senso delle parole e compreso
il linguaggio, si provocavano, servendosi delle sintesi effettuate in passato, tutti gli
atti, tutti i pensieri, si facevano nascere tutti i fenomeni psicologici in un ordine
regolare e facile da prevedere. Chi non vuole vedere che un lato della mente può
evidentemente fermarsi a questo automatismo che abbiamo descritto in dettaglio
ma, per noi, questo automatismo non è che la conseguenza di un’altra attività del
tutto diversa che, agendo in passato, l’ha resa possibile oggi e che, d’altro canto,
la accompagna ancora quasi sempre (Janet 1889, p. 484).
Queste due attività “sussistono ordinariamente insieme finché l’essere è vivoˮ; dal loro buon
accordo e dal loro equilibrio dipende la salute del corpo e l’armonia della mente. Proprio come
in uno stato politico, l’attività innovatrice e l’attività conservatrice devono regolarsi e limitarsi
reciprocamente, ugualmente, nella mente, l’attività attuale, capace di comprendere nuove sintesi
e di adattarsi a nuove condizioni, deve equilibrarsi con questa forza automatica che vuole
mantenere immutabili le emozioni e le percezioni del passato. Quando la mente è normale, essa
non abbandona all’automatismo se non alcuni atti inferiori che, a condizioni invariate, possono
senza inconvenienti ripetersi, ma è sempre attivo per effettuare ad ogni istante della vita delle
combinazioni che sono continuamente necessarie per mantenersi in equilibrio con i cambiamenti
dell’ambiente. Questa unione delle due attività è allora la condizione della libertà e del progresso.
Il problema che ora si presenta consiste dunque nell’identificare i fattori che hanno spezzato
l’unione di queste due attività basilari producendo uno squilibrio, ostacolando la formazione
di nuove sintesi nella coscienza personale dell’individuo e portando alla luce automaticamente
le combinazioni che avevano in passato la loro ragion d’essere. Senza trascurare l’ipotesi di
una qualche predisposizione di tipo biologico e costituzionale, Janet sottolinea le caratteristiche
dell’ambiente e sottolineando l’importanza della interazione tra fattori ambientali e biologici,
un modello di diatesi-stress-diatesi (Bühler e Heim 2011) fortemente innovativo per spiegare
l’origine dei disturbi dissociativi.
Indubbiamente, se una mente è tenuta con precauzione in un ambiente
artificiale e invariabile, se, sopprimendo in essa il cambiamento delle circostanze
le si evita la fatica di pensare, [una mente con una indebolita capacità di sintesi]
potrà sussistere per qualche tempo debole e distratta. Ma quando l’ambiente si
modifica, quando sventure, incidenti o semplicemente dei cambiamenti chiedono
uno sforzo di adattamento e di nuova sintesi, [essa] cadrà nel disordine più
completo [dimostrando il] predominio dell’automatismo antico su una attività
sintetica attuale molto indebolita (Janet 1889, p. 495).
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Questo modello, come scrivono Bühler e Heim (2011) − due tra i principali studiosi del
pensiero psicopatologico di Pierre Janet − identifica fra le cause dell’isteria (e cioè dei disturbi
di conversione e dei disturbi dissociativi) sia una vulnerabilità di base (le stigmate dell’isteria)
sia lo sviluppo di “idee fisse” come conseguenza di esperienze traumatiche: queste ultime,
nella loro estrema variabilità, dipendono dalle circostanze di vita del paziente mentre il loro
effetto disorganizzante è posto in relazione con la vulnerabilità di base. In questo modello
dunque vulnerabilità di base e fattori traumatici costituiscono fattori diversi nella rete causale
responsabile dell’insorgenza dei disturbi dissociativi. Il prevalere di “disturbi disposizionali”
legherà la comparsa e lo sviluppo dei disturbi dissociativi ad uno stato di “debolezza
costituzionale” colpendo in maniera fondamentale la capacità di sintesi, disturbandola e in alcuni
casi inibendola. Questi pazienti, a causa del “restringimento del campo di coscienza” che così si
produce “possono sintetizzare solo una piccola parte degli stati o processi psichici in una singola
coscienza personale”. È un disturbo della coscienza personale che spiega così gli svariati sintomi
(dalle amnesie alle fughe, dalla trance dissociativa ai fenomeni di depersonalizzazione) e che
favorisce lo sviluppo delle idee fisse che finiranno per dominare incontrastate in questa “coscienza
rudimentale” restringendone sempre più il campo. Tra le cause che determinano l’indebolimento
dell’attività sintetica, portando in primo piano l’attività automatica, una posizione di primo piano
è riservata ai fattori traumatici, e cioè ad eventi di vita che hanno suscitato emozioni intense,
veri e propri choc emotivi che sottraggono “energia” producendo uno stato di “esaurimento”
di “miseria psicologica responsabile di quel “restringimento del campo di coscienza” che
caratterizza in diversa misura il funzionamento dei numerosi pazienti studiati nell’automatismo.
Le memorie traumatiche che conservano il ricordo dell’avvenimento, proprio a causa del forte
stato di esaurimento prodotto dalle emozioni intense, finiscono inoltre per imprigionare il
traumatizzato in un continuo, frustrante tentativo di reazione che finisce inesorabilmente per
produrre uno stato di esaurimento sempre più intenso. La capacità di sintesi viene così ridotta
e si attiva un circolo vizioso che esalta l’azione dei fattori traumatici producendo una sorta di
effetto valanga in cui le forti emozioni e i disturbi prodotti dalla “depressione nervosa e mentale”
si intensificano reciprocamente. In questo modello, gli eventi stressanti che hanno interessato il
primo periodo della vita occupano una posizione privilegiata a causa delle forti emozioni a cui
hanno dato origine e alla immaturità del bambino, che ha reso impossibile una azione adeguata,
non ostante i ripetuti sforzi messi in atto (Buhler e Gerhard 2001).
Per Janet dunque i fenomeni di “divisioni successive o simultanee della personalità” che
costituiscono un sintomo essenziale di diverse malattie “nervose” e in particolare delle isterie
devono essere visti come il risultato di una sorta di particolare “debolezza morale, di miseria
psicologica che “impedisce al soggetto di riunire, condensare i suoi fenomeni psicologici,
assimilandoli” e che è ricollegabile mediante transizioni innumerevoli ai fenomeni della
psicologia normale come è particolarmente evidente nel sogno, nelle distrazioni, in diversi stati
caratterizzati dalla comparsa di emozioni violente quali l’innamoramento e la paura.
Benché il campo di coscienza sia ordinariamente assai largo e ci permette di
riunire in una stessa percezione personale un numero molto grande di fenomeni
coscienti, vi sono tuttavia dei momenti in cui si restringe al punto da metterci
in uno stato analogo a quello dell’individuo suggestionabile e allucinabile. […]
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La manifestazione più curiosa dell’automatismo psicologico nell’uomo normale
è la passione che assomiglia, molto più di quanto generalmente si immagina,
alla suggestione e all’impulso e che, per un momento, abbassa il nostro orgoglio
ponendoci a livello dei folli. La passione propriamente detta, quella che trascina
l’uomo contro la sua volontà, assomiglia totalmente ad una follia, tanto nella sua
origine quanto nel suo sviluppo e nel suo meccanismo. […] Un altro carattere mi
sembra meno conosciuto e meno analizzato dagli psicologi, e cioè che la passione
può cominciare in noi solo in certi momenti, quando siamo in una situazione
particolare. Si dice solitamente che l’amore è una passione a cui l’uomo è sempre
esposto e che può sorprenderlo in un qualsiasi momento della sua vita, dai quindici
ai sessantacinque anni. Questo non mi sembra esatto e l’uomo non è, durante tutta
la sua vita, in qualsiasi momento, suscettibile all’innamoramento. Quando un
uomo è in buona salute fisica e morale, ha il possesso facile e completo di tutte le
sue idee, può esporsi alle circostanze più capaci di far nascere in lui una passione,
ma non la sentirà […] Al contrario, che un uomo sia malato sul piano morale, che,
a seguito di fatica fisica o di lavori intellettuali eccessivi, o dopo violente scosse
e dolori prolungati, sia esaurito, distratto, timido, incapace di riunire le sue idee,
depresso in una parola, si innamorerà o lascerà germinare una passione qualsiasi
alla prima e più futile occasione […] non è nell’istante di allegria, di sfrontatezza e
di salute morale che comincia l’amore, è in un istante di tristezza, di languore e di
debolezza. Basta allora la minima cosa; la vista di un viso qualsiasi, un gesto, una
parola che l’istante precedente ci avrebbe lasciati del tutto indifferenti, ci colpisce
e diventa il punto di partenza di una lunga malattia d’amore. Ancor meglio, un
oggetto che non aveva prodotto in noi alcuna impressione, nell’istante in cui
la nostra mente in migliore salute non era contagiabile, ha lasciato un ricordo
insignificante che ricompare in un momento di recettività morbosa. Questo
basta, il germe è ora seminato in un terreno favorevole, si svilupperà e crescerà
[presentandosi ripetutamente] nelle vaghe fantasticherie della coscienza. L’idea
nuova compie un lavoro sotterraneo [diventando] abbastanza potente da scuotere
il corpo e provocare dei movimenti la cui origine non è nella coscienza personale
[e portando] a modificazioni espressive in tutto il corpo che non sono sempre
apprezzabili da parte di estranei ma che i sensi tattile e muscolare trasmettono
alla coscienza; quale deve essere allora l’agitazione di una mente, che sente in
ogni istante il proprio organismo ribelle cominciare atti che non gli sono stati
comandati! (Janet 1889, pp. 469-475, passim).
Come è chiaro in questo lungo passo, che ho riportato integralmente perché costituisce
un ottimo esempio del tipo di argomentazione utilizzata da Janet, il carattere indomabile della
passione amorosa o della paura, deve essere rintracciato in una idea fissa che “ha la sua origine
al di fuori della mente personale e non può essere soppressa con dei ragionamenti [e] scompare
solo quando ha portato definitivamente l’atto a cui essa corrisponde [o quando] una nuova scossa
che sconvolge ancora gli strati della coscienza ci permette di riprendere possesso delle idee
emancipate” (Janet 1889, p. 476).
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Le idee subconsce e la personalità
Janet sostiene dunque che gli stati di divisione della personalità che si manifestano nella
loro pienezza e drammaticità nell’isteria costituendone un sintomo essenziale vengono portati
alla luce, e rafforzati, da un particolare stato di debolezza, di miseria psicologica. Questi stati
“devono esistere nell’uomo normale [in cui] sono mascherate e superate da altri fenomeni
complessi, mentre nel malato costituiscono gli unici fenomeni...”. In questo affiorare dell’attività
automatica un ruolo fondamentale è svolto dunque dall’emozione che esercita sulla mente
“un’azione di dissolvimento, diminuisce la sua sintesi e la rende per un momento miserabile”
mettendo il germe di una idea fissa che, dopo “un periodo di incubazione come [accade] in tutte
le malattie virulente”, si svilupperà e assumerà un carattere di persistenza.
Se, però, sfortunatamente − proprio nel momento in cui la mente è incapace
di resistere − le si presenta, e agisce su di essa, un nuovo impulso, caratteristico
e dannoso, allora le cose vanno diversamente: questo impulso mette le sue radici
in un gruppo di fenomeni anormali, si sviluppa in esso e non si cancella più. Le
circostanze incresciose scompaiono invano e invano la mente cerca di riprendere
la propria potenza usuale, l’idea fissa, come un virus malsano, è stata seminata
nella mente e si sviluppa in un luogo della persona che il soggetto non può
raggiungere, agisce in maniera subconscia, disturba la mente cosciente e provoca
tutti gli accidenti dell’isteria o della follia (Janet 1889, p. 466).
Le diverse ossessioni e fobie, che vengono in primo piano tanto nelle isterie quanto nelle
diverse “nevrosi” sono ora attribuite alla presenza di idee fisse subconsce, al tempo stesso causa
e risultato della debolezza, della “miseria psicologica” Negli scritti dedicati ad analizzare le
caratteristiche delle idee fisse vengono ripresi e precisati i concetti di campo di coscienza – e cioè il
numero più elevato di fenomeni semplici o relativamente semplici che possono simultaneamente
essere ricollegati nella nostra personalità ad una stessa percezione personale (Janet 1909, p. 283),
di forza psicologica, definita come la capacità di effettuare atti numerosi, rapidi e prolungati
e tensione psicologica, intesa come la capacità di effettuare azioni che implichino un grado
elevato di sintesi psicologica. Con un riferimento sempre più evidente ad un modello gerarchico
dell’organizzazione mentale Janet precisa ora che la tensione psicologica non riguarda una azione
specifica ma “tutta la condotta, che è composta da atti dello stesso livello” e che si caratterizza in
base ad un “tono generale, un certo grado di tensione”.
Così come la potenza di un flusso d’acqua non dipende soltanto dalla sua
quantità ma dalla sua pressione in relazione all’altezza di caduta, ugualmente
l’efficacia totale di un’azione non dipende soltanto dalla sua forza ma dalla sua
tensione. La tensione di un’azione in senso specifico è una certa modificazione
dell’azione, una qualità difficile da definire in maniera generale che concentra la
forza, che permette una maggiore efficacia con una minore forza.
Il punto centrale è sempre costituito dall’equilibrio tra forza psicologica e tensione psicologica.
È solo combinando − grazie a un'accurata osservazione e a un attento ascolto del paziente − la
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valutazione della tensione psicologica con quella della forza che diventa possibile cogliere il
valore di una condotta, la gravità di una malattia6. Questa attenzione porta a vedere il carattere
essenziale della disaggregazione nella formazione nella mente di due gruppi di fenomeni “l’uno
[costituente] la personalità ordinaria, l’altro, che del resto [può] andare incontro ad una ulteriore
suddivisione [forma] una personalità anormale, differente dalla prima e da essa totalmente
ignorata […] la disaggregazione psicologica assume così forme diverse a seconda delle relazioni
esistenti fra queste due personalità e a seconda del grado della loro reciproca indipendenza”. Il
peculiare stato mentale dell’isteria è così ricondotto “al restringimento del campo di coscienza”
accompagnato dall’abbassamento del livello mentale” (Janet 1907, p. 321, TdA). Dopo aver
chiarito che con “coscienza personale” si designa “un’operazione mentale complessa” e non
un contenuto elementare irriducibile, Janet individua nella tendenza alla suggestione e agli
atti subconsci un segno della malattia mentale ma in particolare dell’isteria, che deve essere
considerata “una forma di depressione mentale caratterizzata da una riduzione del campo della
coscienza personale e da una tendenza alla dissociazione ed emancipazione dei sistemi di idee e
di funzioni che costituiscono la personalità” (Janet 1907, p. 332, TdA).
La completa coscienza espressa dalle parole “io vedo, io sentoˮ non è
completamente rappresentata da un fenomeno elementare […] ma, contenendo
un riferimento al soggetto designa qualcosa di molto complesso. Si tratta dell’idea
di personalità della mia intera persona […] Nella espressione “io sento” ci sono
due cose, entrambe presenti, che vengono a confronto: un nuovo, piccolo fatto
psicologico […] ed una enorme massa di pensieri già costituita in sistema, «io»
[una sorta di] animale vivente estremamente vorace, di ameba che estende i suoi
tentacoli per assorbire la piccolissima creatura che è nata vicino a lui […] La
percezione personale costituisce una coscienza complessa, una sorta di sintesi di
fenomeni elementari […] Il termine personale dovrebbe evitare di confondere
questa operazione con la percezione esterna […] il carattere essenziale è l’aggiunta
della nozione di personalità (Janet 1907, p. 303, TdA).
Sulla base di questa precisazione diventa allora possibile considerare la coscienza personale
come un “campo” la cui estensione varia moltissimo da individuo a individuo e nello stesso
individuo da un momento all’altro” e identificare nel “restringimento del campo di coscienza”
e nella “speciale debolezza, nella miseria psicologica che ne deriva e che costituisce il terreno
favorevole per lo sviluppo delle idee fisse e delle allucinazioni, il fenomeno che caratterizza lo
stato mentale degli isterici” (Janet 1907, pp. 305-311, TdA).
Da tener presente (Janet 1898) che con “idea fissa” non si fa riferimento ad idee ossessive di
tipo intellettuale ma a “stati emotivi persistenti, stati della personalità che restano invariati […]
che non si modificano in maniera sufficiente per adattarsi alle condizioni variabili dell’ambiente
6
Questa misura della tensione dovrebbe essere combinata a quella della forza per permettere di
apprezzare l’efficacia e il valore di una condotta, per comprendere la gravità di una malattia mentale che è oggi
intesa in maniera così superficiale. Esistono in effetti relazioni molto importanti tra la forza e la tensione. Se
la proporzione tra i due termini non è conservata, se la tensione è troppo grande per una forza troppo debole
e soprattutto se la tensione è troppo piccola per una forza troppo grande, si presentano dei disturbi del tutto
caratteristici (Janet 1938).
Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
19
Francesca Ortu
circostante”. L’idea fissa è cioè costituita da “un insieme di immagini sensoriali condensate
insieme in modo da formare un sistema [così che] la presenza di una di esse […] determina
immediatamente la comparsa di tutte le altre”.
Questa complessità, questa sistematizzazione, questa stretta associazione di
tutti gli elementi esiste in tutte le nostre idee più normali, in tutte le emozioni,
che sono fatti dello stesso genere: sono tutti sistemi di immagini che tendono a
svilupparsi. Ma in noi questo sviluppo si arresta dopo i primi passi e si prolunga
solo con il nostro assenso, senza essere mai completo. Al contrario [nei pazienti
che soffrono di idee ossessive] lo sviluppo delle immagini è così completo e porta
sempre a delle allucinazioni e a degli atti, e ciò malgrado gli sforzi del paziente
[…] questi due fenomeni, l’allucinazione e l’azione, non sono in realtà che il
risultato dello sviluppo completo degli elementi di un sistema psicologico (21516). Ci limitano ad osservare – continua Janet – che l’idea fissa è analoga ad una
suggestione ed è caratterizzata, come la suggestione, dallo sviluppo completo e
automatico di tutti gli elementi di un’idea, al di fuori della volontà.
La comprensione della psicopatologia non può dunque fare a meno della considerazione dei
meccanismi responsabili della formazione e del funzionamento della personalità. È sempre più
evidente a Janet che l’isteria, con i suoi molteplici e svariati sintomi non interessa semplicemente
alcune funzioni isolate ma l’intera personalità, e deve dunque essere considerata una malattia
della personalità nel suo complesso.
Ciò che è dissolto è la personalità , il sistema di raggruppamento delle diverse
funzioni attorno alla personalità [se l’isteria è una malattia mentale] è una malattia
della sintesi personale caratterizzata dal restringimento della coscienza personale
e da una tendenza alla dissociazione ed alla emancipazione di idee e funzioni che
costituiscono la personalità (Janet 1898, p. 332-333, TdA, Il corsivo è mio).
La personalità è dunque considerata il risultato di un lavoro di sintesi verso “l’unificazione e la
distinzione[…] l’insieme delle operazioni, degli atti […] che servono all’individuo per costruire,
mantenere e perfezionare la sua unità e la sua distinzione nei confronti del resto del mondo”.
Questa “costruzione, [questa] invenzione umana in cui si può identificare un fondamento,
un punto di partenza naturale” non esiste solo nell’istante presente, si estende sul passato e
sull’avvenire…si presenta ai nostri occhi come una serie di azioni, di parole e di operazioni
diverse che mirano a produrre una unificazione e una distinzione dal punto di vista corporeo,
sociale e temporale” (Janet, 1932, pp. 11-16, TdA).
Ed è il crollo, la frammentazione di questa complessa costruzione, la dissoluzione delle funzioni
psichiche − prodotta dall’abbassamento della forza nervosa responsabile della formazione delle
idee fisse subcoscienti − che rivela un fondamentale disturbo della coscienza personale e delle
sue funzioni di presentificazione e di personificazione7. “Tutte le nostre ricerche, osservava Janet
7
La presentificazione è la funzione che ci permette di organizzare e cambiare le nostre azioni e talora
il nostro senso di chi siamo. La personificazione ci permette di coordinare le nostre azioni non solo con il mondo
esterno ma anche con la nostra personalità nella sua interezza. Vedi a proposito anche van der Hart et al. (2006,
pp. 170-172).
20
Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
La psicopatologia di Pierre Janet
a conclusione delle sue Lezioni americane, convergono attorno a studi sulla personalità e la
coscienza personale […] nell’isteria, le funzioni non interamente dissolte continuano a sussistere
emancipate dalla loro sistematizzazione” (Janet 1907, p. 337, TdA).
L’incapacità degli isterici di produrre un resoconto della presente azione ed esperienza
(Janet 1903, 1928, 1935) nei termini dell’essere del qui ed ora e dell’essere reali viene ora
ricondotto ad un difettoso funzionamento di queste due funzioni alla base della nostra capacità
di sviluppare opinioni riflessive e di agire deliberatamente, con convinzione, consapevolezza,
scopo, di afferrare la nostra realtà al massimo livello e di conseguenza di agire in modo adattivo
(Janet 1928, 1935; Ellenberger 1970) collocandoci adeguatamente nel tempo e nello spazio Facendo chiaramente riferimento al modello gerarchico di Huglings Jackson, e alle oscillazioni
e all’abbassamento della “tensione nervosa” che si producono anche nel funzionamento normale
a seguito di “fatica fisica o intellettuale” o di emozioni violente, intense e improvvise Janet
identifica la caratteristica dell’isteria nella “dissociazione delle funzioni più elevate e nella
autonomizzazione delle funzioni più semplici”.
Non tutte le funzioni presentano lo stesso grado di difficoltà. Vi sono
operazioni che sono molto facili per molteplici ragioni, primo perché sono
semplici e richiedono soltanto l’unione di un piccolo numero di elementi. Secondo
perché sono antiche, perché la loro sistematizzazione è stata operata dai nostri
antenati […] vi sono altre funzioni che sono difficili perché sono complesse […]
richiedono la sistematizzazione di un numero infinito di elementi e perché sono
nuove e richiedono nuove sintesi (Janet 1909, p. 333, TdA).
Per ragioni di spazio non posso presentare in dettaglio questa complessa teoria gerarchica
della personalità. Mi limito a darne un quadro schematico collocandola all’interno della
psicologia della condotta.
La gerarchia delle tendenze, la psicologia della condotta e la psicopatologia
Combinando i concetti di forza e tensione psicologica con quelli della gerarchia delle
tendenze Janet costruisce così una elaborata teoria dinamica che integra in una sintesi più ampia
la teoria precedente.
La mente umana è ora concettualizzata come una gerarchia di funzioni del reale sottese dalla
tensione psicologica. Al livello superiore di questa gerarchia è collocata la funzione del reale:
le diverse funzioni psichiche altro non sono che una serie di condotte, che ci avvicinano più o
meno alla realtà e ogni operazione mentale è caratterizzata da un “coefficiente di realtà in base
al livello in cui essa si colloca. È così possibile considerare “il carattere di libertà imprevedibile
dell’azione umana come risultato di una combinazione fra una organizzazione antica ed un’altra
parte “più nuova” che conferisce il suo carattere “all’azione presente e che prepara il progresso”
(Janet 1938, p. 12, TdA). Osservando come la “funzione del reale, l’adattamento al reale e il
sentimento dell’azione reale” possano applicarsi soltanto al livello delle credenze riflesse Janet
introduce una prospettiva genetica nella classificazione delle tendenze.
Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
21
Francesca Ortu
L’evoluzione progressiva della mente presenta dei gradini, come se la mente
avanzasse a scatti e si fermasse per un certo tempo ad un certo livello […] non
basta dare una definizione generale e astratta di un fenomeno psicologico, come
se fosse comparso all’improvviso, in maniera isolata: è necessario mostrare di
quali elementi esso sia costituito […] è necessario mostrare esattamente a quale
livello appartenga la tendenza considerata e attraverso quali trasformazioni essa
sia uscita dal livello precedente” [permettendo di disporre] le tendenze acquisite in
un quadro gerarchico della massima importanza pratica (Janet 1938, p. 12, TdA).
Non allontanandosi dalle precauzioni epistemologiche e metodologiche esplicitate
nell’Automatisme Janet presenta la psicologia della condotta come un sistema unitario che
superando i limiti sia della speculazione filosofica sia del comportamentismo, necessariamente
confinato allo studio delle azioni elementari, e cioè focalizzato sulla descrizione delle reazioni
dell’organismo a stimolazioni provenienti dall’esterno, permette uno studio scientifico,
oggettivo, “della coscienza e dei sentimenti [considerati ]reazioni dell’organismo ai propri atti”
(Janet 1938, p. 11, TdA). In questa psicologia, che può essere considerata una forma allargata e
superiore della psicologia del comportamento, tutti i fatti psicologici osservati nell’uomo devono
essere visti come delle “azioni” capaci sempre, seppure in diversa misura di “trasformare il
mondo esterno” come se “l’attività umana si dispiegasse su una serie di livelli di pensiero sempre
più complicati e difficili fino all’apprensione del mondo degli oggetti” (Ey 1941, p. 89, TdA). La
psicologia diventa così la scienza capace di valutare − senza sacrificare o ridurre “la natura del
fenomeno osservato” − la capacità trasformativa delle diverse azioni.
Le azioni trasformano sempre il mondo esterno, hanno poteri molto variabili:
modificano il mondo a distanze differenti nello spazio e nel tempo e la psicologia
imparerà a valutare questi gradi di efficienza. La psicologia della condotta,
continua Janet, prende l’organismo umano e i suoi atti così come si presentano
[…] senza pretendere di spiegarne scientificamente l’origine prima, conosce i suoi
limiti (Janet 1938, p. 11, TdA).
a. La gerarchia delle tendenze
La psicologia della condotta trova dunque nella ipotesi della organizzazione gerarchica delle
tendenze − e cioè delle disposizioni dell’organismo vivente ad effettuare una determinata azione
− il suo asse portante. In questo quadro gerarchico le tendenze occupano uno specifico livello in
base all’efficienza, complessità e sistematizzazione delle azioni.
Nelle tendenze elementari vengono fatti rientrare gli atti psicologici riflessi8 , gli atti percettivi
sospensivi, che caratterizzano le tendenze sospensive e costituiscono l’elemento essenziale della
8
E cioè l’agitazione diffusa, la contrazione irregolare che determina spostamenti considerevoli ma
in apparenza privi di significato e gli atti riflessi. Tra questi ultimi particolari rilievo assumono “i riflessi di
allontanamento, fenomeno essenziale del dolore [e] i riflessi di avvicinamento, fenomeno essenziale del piacere”
(Janet 1938, p. 13, TdA)
22
Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
La psicopatologia di Pierre Janet
percezione 9 e gli atti sociali, e considerati non più una “reazione a una stimolazione o a un
oggetto ma una reazione ad un atto dell’oggetto”.
Nelle condotte intellettuali elementari10 vengono fatti rientrare gli atti semplici
combinati, il linguaggio e la memoria11, considerata come uno dei risultati più importanti
della intellettualizzazione e del linguaggio. È il linguaggio, e in particolare “il linguaggio
che utilizziamo per parlare a noi stessi”, a caratterizzare le condotte tipicamente umane e che
permettendo di stabilire “relazioni sempre più complesse tra la parola e l’atto ha determinato tutti
i progressi futuri della condotta umana.
Le condotte mediane, o di affermazione sono considerate “atti compiuti inizialmente per
stabilire l’unione fra il linguaggio e l’azione” o per precisare il grado della loro separazione e in
quanto tali caratteristici del funzionamento umano. Costituiscono cioè “un modo particolare di
parlare [e caratterizzano] tutti gli atti, tutti i pensieri dell’uomo che da questo punto in poi non
sono altro che forme della credenza, che è una speculazione sulla parola, un sostituto dell’azione”.
Le credenze assertive definibili come “affermazioni la cui esecuzione immediata” è impossibile,
permettono di anticipare un’azione che inizialmente dipende da “un’affermazione casuale,
sotto l’influenza di tendenze e di sentimenti che accompagnano l’espressione verbale [in questo
stadio si crede ciò che si desidera o ciò che si teme]... Le tendenze fondate su questi sentimenti
si impongono con un’energia, una tenacia che non si ritroverà più nelle credenze basate sulla
ragione”. I limiti della credenza assertiva “violenta, senza sfumature che non corrisponde né alla
realtà esterna né alla disposizione profonde della mente” (Janet 1938, p. 14, TdA) sono superati
dalla credenza riflessa, la cui origine viene rintracciata nella “discussione tra diversi individui
che confrontano reciprocamente le proprie affermazioni nascenti, che dà vita alla “distinzione,
al dubbio, alla decisione [e permette dunque ] la distinzione dei corpi e delle menti e soprattutto
la distinzione degli esseri e delle realtà; gli esseri sono ciò in cui crediamo in maniera primitiva,
sentimentale, le realtà sono ciò che crediamo dopo la riflessione” (Janet 1938, p. 14, TdA). È
difficile, continua Janet, ma necessario comprendere che esistono diversi gradi del reale12 che si
collocano nei diversi periodi di tempo distinti dalla riflessione.
9
“[…] la tendenza non si scarica completamente dopo la prima stimolazione sufficiente. La scarica
avviene in due tempi, la prima stimolazione sveglia la tendenza, provoca una certa mobilitazione delle forze
[…] è preparatoria, ma questa tendenza rimane nella fase dell’erezione fino a che una nuova stimolazione, una
stimolazione scatenante, porta alla consumazione dell’atto completo” (Janet 1938, p. 13, TdA).
10
E cioè gruppo di tendenze intermedie fra le condotte elementari, che caratterizzano la vita animale e le
tendenze mediane, tipicamente umane. Tali tendenze cominciano nell’animale, che in certi casi sa già servirsi di
utensili, ma prendono il loro completo sviluppo nell’uomo primitivo (Janet 1938, p. 13).
11
La memoria è innanzitutto un ordine agli assenti, prima di diventare l’ordine degli assenti: è grazie ad
un adattamento all’assenza che è stato possibile adattare la memoria ad una proprietà notevole delle cose, quella
di diventare passate (Janet 1938, p. 14).
12
Janet identifica una serie di funzioni, o gradi del reale − sottese dalla tensione psicologica − che vanno da
un primo grado (meno oggettivo) è quello in cui ci sentiamo pensare in maniera più o meno confusa e che passando
attraverso il grado dell’immaginario, del “passato morto” del “futuro lontano” si spostano sull’ideale, sul presente
psichico e sugli avvenimenti attuali per giungere infine, nel tredicesimo grado, fino alla la percezione del reale, e
cioè al riconoscimento della realtà degli oggetti, dell’esistenza dei corpi esterni distaccati dalle nostre menti. Come
osserva Ey (1941), la gerarchia delle funzioni del reale corrisponde allo sviluppo delle funzioni in una prospettiva
genetica che rivela il debito di Pierre Janet nei confronti di H. Jackson.
Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
23
Francesca Ortu
Nelle condotte superiori vengono fatte rientrare le condotte razionali e sperimentali, le
tendenze progressive e infine le condotte individuali. Le tendenze razionali o sperimentali sono
basate sul ricordo, definito come “una tendenza a raccontare” e stabiliscono un rapporto di tipo
produttivo, causale, tra due avvenimenti del passato ed uno presente. Le tendenze razionali, alla
base della condotta sperimentale - che non si limita “a quella del ricercatore nel suo laboratorio ma
interessa i moltissimi individui che hanno raggiunto “uno stadio psicologico elevato” − portano
a sottoporre le credenze individuali alla verifica delle percezioni comuni a tutti gli uomini. La
condotta sperimentale. Le tendenze progressive, di cui si può avere un’indicazione “studiando
le idee di progresso e di evoluzione […] che si aggiungono alle idee di legge naturale e di
determinismo” segnano una nuova tappa nello sviluppo umano e sono alla base dello sviluppo
delle condotte individuali e delle scienze storiche13. Gli atti in cui intervengono le nozioni di
progresso di creazione libera e di individualità cercano di afferrare il tempo, così come i primi
movimenti degli esseri viventi hanno fatto la conquista dello spazio” (Janet 1938, p. 15, TdA).
Il funzionamento umano è dunque visto come il passaggio da una tendenza ad un’altra,
accompagnato da specifici movimenti del corpo e regolato dalla forza e dalla tensione psicologica,
capaci di combinarsi in diversi modi caratterizzando così l’attività psicologica. Ponendo al
centro della psicologia della condotta l’azione, cioè “considerando i movimenti corporei il fatto
essenziale della psicologia” si può considerare la forza psicologica come un parametro essenziale
senza correre il rischio di scivolare nella metafisica e vedere così le diverse tendenze in base
alla “ripartizione della forza psicologica” valutando gli atti in base al loro “costo energetico” e
poiché le tendenze inferiori, e quelle che costituiscono la personalità, sono caratterizzate da una
ineguale forza14 è possibile una valutazione dei diversi atti in base al loro costo psicologico. “Ne
deriva − scrive Janet − che gli atti sono più o meno costosi: un’azione antica, già eseguita diverse
volte, è poco costosa: un’azione nuova, soprattutto un atto elevato nel quadro gerarchico richiede
una grossa spesa”.
La tensione psicologica è ora definita come “un’altra forma della forza psicologica una
modificazione che incontra la forza, che permette una maggiore efficacia con una forza minima”
ha un ruolo fondamentale nella interpretazione delle condotte e deve essere sempre vista in
relazione con il livello gerarchico occupato dalle singole tendenze.
Vi sono azioni di alta tensione che reclamano la messa in gioco di tendenze
elevate nella gerarchia e la loro attivazione completa, vi sono azioni di bassa
tensione nelle quali tendenze inferiori sono attive solo ad un grado moderato. Una
mente avrà una forte tensione quando eseguirà facilmente e frequentemente azioni
del primo tipo e avrà una debole tensione quando sarà costretto a contentarsi di
azioni del secondo genere (Janet 1938, p. 15, TdA).
13
“L’individualità, scrive Janet, si è estesa anche agli avvenimenti, che sembrano avere caratteri propri
[…] le scienze storiche, il cui sviluppo caratterizza questo periodo, cercano negli studi biografici di porre in luce
il fatto individuale (Janet 1938, p. 15, TdA).
14
“La forza psicologica è ripartita in maniera ineguale tra le diverse tendenze, ognuna delle quali ha
una carica determinata, le tendenze inferiori sono fortemente caricate e quelle superiori caratterizzate da una
carica debole. Inoltre questa forza si trova concentrata in alcune tendenze, variabili a seconda degli individui e in
particolare nelle tendenze che costituiscono la personalità sono queste che si scaricano nello sforzo, per accrescere
la potenza delle tendenze di per sé deboli” (Janet 1938, p. 15, TdA).
24
Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
La psicopatologia di Pierre Janet
In generale il grado di tensione psicologica o di livello mentale di un individuo dipende
dal grado che preoccupano nella gerarchia delle tendenze attive e dal grado di attivazione a cui
può portare queste tendenze più elevate. In questa nuova cornice di riferimento come tutti gli
atti, ad ogni livello, possono diventare subcoscienti quando l’individuo compie coscientemente
atti di livello superiore. Così intesa, la tensione psicologica svolge un ruolo importantissimo
nell’interpretazione delle condotte e nell’intelligenza dei caratteri.
La psicologia della condotta fa dunque rientrare in un quadro complessivo le ipotesi generali
sul funzionamento mentale già abbozzate nell’Automatisme e integra progressivamente dati
provenienti dalla psicologia normale e dalla psicopatologia, dalla psicologia dello sviluppo e
dalla psicologia animale costruendo un quadro generale della psicopatologia in cui la coscienza
personale e le sue oscillazioni costituiscono la chiave di volta della gerarchia delle tendenze,
o meglio delle funzioni del reale15. In questo quadro − in cui concetti di forza psicologica e di
tensione psicologica continuano a mantenere la propria validità, il sentimento del reale diventa
il criterio fondamentale che permette di apprezzare l’equilibrio tra la forza e la tensione − la
coscienza riacquista la sua posizione centrale. È “la presa di coscienza di un’operazione” che
trasformando l’operazione stessa nella sua natura” ne segna il progresso attraverso i diversi stadi
psicologici. All’interno di questa prospettiva il linguaggio assume tutta la sua importanza16. Grazie
al linguaggio “che può diventare facilmente una azione interna, cioè un’azione di un soggetto che
determina le azioni del soggetto stesso”, diventa possibile affrontare in maniera oggettiva ed
esprimere i fenomeni psicologici più alti, propri dell’uomo esprimendoli in termini di azioni.
15
Come osserva Ey, la teoria psicopatologica di Janet è ispirata alla teoria di Hughlings Jackson da cui
riprende anche l’ipotesi della malattia come dissoluzione delle funzioni gerarchizzate. In particolare per Hughlings
Jackson, e di conseguenza anche per Janet, la psicopatologia permette di studiare i livelli di dissoluzione tipici
della vita di relazione e cioè: le dissoluzioni isolate e le dissoluzioni uniformi. Lo studio dei disturbi delle funzioni
gerarchizzate deve essere condotto in maniera duplice, dato che alcuni disturbi sono la conseguenza di un deficit
( disturbi negativi) ed altri manifestano la parte sussistente delle funzioni neuropsicologiche (disturbi positivi).
In definitiva le malattie mentali sono considerabili come “manifestazioni regressive, inferiori di un pensiero
che, indebolendosi si allontana dal reale e produce, prima di spegnersi tutta la gamma degli stati di follia”. In
questa complessa cornice, altamente compatibile con l’impostazione jacksoniana, il delirio di persecuzione, di
influenza e tutte le attività allucinatorie non possono essere pensati che come disturbi nelle condotte di credenza
e dei sentimenti che ad esse corrispondono. Il delirante diventa così una persona che colloca male la sua parola
nella gerarchia dei gradi di realtà, un individuo in cui le operazioni psichiche si decompongono nei loro elementi
primitivi (Ey 1941).
16
“Ho cercato di considerare le condotte molto diverse in cui interviene il linguaggio come degli
intermediari tra le condotte esterne e il pensiero; ciò mi ha permesso di affrontare in maniera oggettiva e di
esprimere in termini di azioni i fenomeni psicologici più elevati, maggiormente specifici dell’uomo. […] È per
questo che la psicologia delle condotte deve presentarsi in gran parte come una psicologia genetica… non basta
dare di un fenomeno una definizione astratta e generale come se fosse comparso da solo all’improvviso, bisogna
mostrare di quali elementi è costituito. Non basta ricollegarlo a principi vaghi e primitivi che si ritrovano ovunque
ma bisogna mostrare con precisione il termine che lo precede immediatamente e la modificazione attraverso la
quale ne deriva… discutevo da questo punto di vista la vecchia concezione della memoria come una funzione
vaga sempre presente nella vita psicologica e dipendente dall’abitudine […] Bisogna considerare la memoria
come un’operazione dello stadio intellettuale e non come un’operazione elementare, banale, bisogna mostrare che
appartiene al livello dei segni e del linguaggio, che è una trasformazione della condotta sociale dell’assenza, cioè
della condotta che resta sociale pur essendo relativa agli assenti […]” (Janet 1938, p. 15, TdA).
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Francesca Ortu
b. La psicopatologia
Se è l’interpretazione dell’ossessione ad aver costituito il punto di partenza della teoria
janetiana è soprattutto a proposito dei deliri e delle allucinazioni - considerati disturbi nelle
condotte di credenza e dei sentimenti che ad esse corrispondono e che vede il delirante come
è una persona che colloca male la sua parola nella gerarchia dei gradi di realtà - che emerge
l’originalità della prospettiva psicopatologica di Janet e il suo legame con la prospettiva
gerarchica di Hugling Jackson. La monumentale opera dedicata allo studio delle “credenze e
dei sentimenti” porta a compimento il tentativo iniziato con l’Automatisme psychologique. La
dettagliata presentazione del caso di Madeleine17, una paziente che soffriva di un complesso
delirio religioso che occupa interamente il primo volume di De l’angoisse à l’extase, offre una
interessante esemplificazione clinica non solo della psicologia della condotta definita come
“una forma allargata e superiore di psicologia del comportamento” permettendo al tempo stesso
di cogliere le peculiarità della teoria psicopatologica e di apprezzare il carattere innovativo del
tentativo di coniugare l’attenzione alle soggettività con un metodo oggettivo basato su un ascolto
minuzioso e attento capace di cogliere l’esperienza del malato, dal punto di vista del malato.
“La vita strana [di Madeleine] − scrive Janet − le sue fughe, il suo delirio
religioso, la sua postura, il suo strano modo di camminare sulla punta dei piedi,
la comparsa delle stigmate del Cristo alle mani e ai piedi e soprattutto i violenti
sentimenti provati nelle crisi di angoscia e nelle crisi di estasi, la sua parziale
guarigione alla fine della sua vita sollevano problemi medici e psicologici del
massimo interesse”.
La prima parte del volume, interamente dedicata allo studio di Madeleine, ricostruisce, a
partire dalle vicende infantili, le fasi principali della malattia di questa paziente, dalla sua
insorgenza durante l’adolescenza, alla sua esplosione sintomatica − caratterizzata una riduzione
dell’attività esterna e da un sentimento di gioia del tutto speciale, del tutto analogo agli stati
estatici e mistici − alla sua apparente remissione alla fine della vita avventurosa di questa “persona
intelligente e buona, ma certamente malata fin dall’infanzia, che presentava all’inizio una nevrosi
da scrupolo e più tardi un delirio religioso con crisi estatiche”. In questa ricostruzione Janet mette
così in luce la serie delle idee ossessive che tormentavano la paziente collocandone l’origine già
nella prima adolescenza e considerandole come un'esaltazione di specifici tratti di carattere già
evidenti nell’infanzia, prima dell’esordio della malattia. L’eccezionale timidezza di Madeleine,
la sua abulia sociale, il suo ascetismo vengono così ricondotti alla debolezza all’azione e alla
17
Questa paziente che soffriva di “un complesso delirio religioso” è stata seguita continuativamente
per 22 anni da Janet che non si basa soltanto sulla osservazione pressoché giornaliera condotta negli otto anni
del ricovero alla Salpêtrière, ma anche – e in questo sta uno degli elementi di maggior interesse di questo studio
clinico − sul diario e sulle lunghe lettere indirizzate da Madeleine a Janet per spiegare “ciò che sentiva, per cercare
di giustificare […] le sue credenze, anche le più strane, per raccontar [e] i particolari della sua vita precedente così
avventurosa” e per tenerlo al corrente “di tutte le modificazioni del suo stato fisico e mentale”. La presentazione del
caso viene inoltre illustrata con un ricco materiale fotografico e con la riproduzione delle produzioni “artistiche”
di Madeleine offrendo un materiale clinico di estremo interesse che ci permette di osservare, dal punto di vista
della paziente, l’evoluzione di un delirio religioso.
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Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
La psicopatologia di Pierre Janet
conseguente paura di azioni complicate, che richiedono dalla persona un eccessivo dispendio
di forze e considerate un indice di quella miseria psicologica che “diminuisce l’azione e la
percezione del reale” e porta lo psicoastenico a preferire l’ideale al reale, ad amare il misterioso,
il vago e a volgersi verso una vita in cui l’azione è più facile [collocandosi inoltre] in circostanze
immaginarie in cui vivono una vita piacevole, non dispendiosa” (Janet, 1926, p. 419, TdA).
I problemi clinici e psicologici sollevati dalla interpretazione dei sintomi e delle fasi
della malattia di Madeleine portano nuovamente in primo piano le antiche preoccupazioni
metodologiche di Janet.
“Lo studio di un delirio in un malato ci obbliga ad adottare non soltanto un
metodo, ma direi quasi una psicologia particolare. […] Siamo obbligati a formulare
una psicologia in cui l’azione visibile all’esterno è il fenomeno fondamentale e il
pensiero non è che la riproduzione, la combinazione di queste azioni esterne in
forme ridotte e particolari [questa] psicologia deve esser oggettiva e non può che
studiare le azioni, gli atteggiamenti il linguaggio del malato. Non è prudente, qualche
volta assurdo, cercare di rappresentarsi il pensiero intimo del malato mettendoci
al suo posto ed immaginando ciò che noi avremmo sentito noi stessi nelle stesse
circostanze. Non siamo identici al malato che per definizione supponiamo essere
in uno stato d’animo diverso dal nostro. Non possiamo rappresentarci il pensiero
del malato che partendo da azioni visibili e non dal nostro pensiero” (Janet 19261928, Vol. I pp. 203-204, TdA)18.
La “psicologia patologica” deve essere obiettiva e limitarsi allo studio delle “azioni,
atteggiamenti e linguaggio del malato, deve cioè essere una psicologia che identifica nell’azione
visibile all’esterno il fenomeno fondamentale e che vede nel pensiero la riproduzione, la
combinazione di queste azioni esterne sotto forme ridotte e particolari.
In questa psicologia la coscienza è ammessa solo come una complicazione dell’atto fisico e
la si può cogliere studiando le condotte sociali elementari e soprattutto i sentimenti, considerati
regolatori dell’azione, delle reazioni dell’individuo alle proprie azioni; solo successivamente ci si
occuperà delle condotte superiori del pensiero, delle credenze, delle riflessioni, dei ragionamenti.
Anche in questo lavoro della maturità Janet identifica un problema centrale della psicologia
contemporanea nella “assenza totale di unità nel linguaggio scientifico” e nella difficile rinuncia
al dualismo cartesiano19. “È necessario − rinunciare alle pretese anatomiche e fisiologiche e
18
Riprendendo quasi alla lettera le considerazioni metodologiche avanzate nell’Automatismo psicologico
Janet scrive “Il grande difetto degli psicologi contemporanei è l’assenza totale di un linguaggio scientifico. Nello
stesso capitolo, a proposito dello stesso fatto, impiegano il linguaggio anatomico, il linguaggio psicologico, il
linguaggio filosofico del pensiero cartesiano. Parlare in questo modo confuso è rendere la psicologia inintelligibile.
Bisogna in psicologia rinunciare alle pretese anatomiche e fisiologiche e limitarsi umilmente ad essere psicologi
parlando sempre il linguaggio della condotta e dell’azione. E questo è possibile anche quando si tratta delle
condotte più elevate tenendo conto di una condotta essenziale, caratteristica dell’uomo, quella del linguaggio”
(Janet 1926-1928, Vol. I pp. 203-204, TdA).
19
“La psicologia uscita dal cartesianesimo considerava il nostro pensiero come un fenomeno primitivo
Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
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Francesca Ortu
limitarsi umilmente a essere psicologi parlando sempre il linguaggio della condotta e dell’azione.
Ciò è possibile quando si tratta delle condotte più elevate, tenendo conto al tempo stesso di una
condotta essenziale, caratteristica dell’uomo, quella del linguaggio”.
Le ripetute oscillazioni fra stati di beatitudine assoluta e di assoluta disperazione così
caratteristiche in Madeleine mettono in luce non solo un disturbo delle credenze e delle operazioni
intellettuali ma anche dei sentimenti fondamentali, considerati regolatori dell’azione. Anche
nello studio dei sentimenti20, affrontato nel secondo volume di De l’Angoisse, la psicologia della
condotta trova il suo oggetto nell’azione e considerando i fatti psicologici come atti li espone in
termini di azioni senza scivolare né nella filosofia né nella fisiologia.
“Il fatto psicologico non è né spirituale né corporeo; si verifica nell’uomo nella
sua totalità, perché è solo la condotta dell’uomo che viene considerata nella sua
totalità. Un sentimento non si trova nell’anima più di quanto non si trovi nella
pancia; è una modificazione dell’insieme della condotta. Un fenomeno locale, la
modificazione del battito cardiaco, non è un fatto psicologico, lo diventa solo nella
misura in cui contribuisce a modificare la condotta nel suo insieme. Ma è allora
questa modificazione della condotta che dobbiamo studiare sotto l’etichetta del
sentimento” (Janet 1926-1928, Vol. II pp. 4-6, TdA).
Analizzando i sentimenti in quanto regolatori dell’azione, e concentrandosi in particolare
sulla loro regolazione patologica e cioè sui sentimenti di pressione, di fatica, che portano ad
una modificazione dell’azione, e di tristezza e di malinconia, vista come un tentativo di reagire
al fallimento, Janet pone l’accento sui “sentimenti di vuoto” così rilevanti nell’esperienza dei
pazienti che soffrono di forme estreme di “svalutazione di sé” per soffermarsi sugli stati di
“elazione e sui sentimenti di gioia” considerati varianti nell’evoluzione di uno stesso stato”,
e cioè disturbi derivanti da una cattiva regolazione della forza psicologica che caratterizzano
le diverse forme di psicopatologia. Lo studio delle combinazioni di diversi sentimenti, e cioè
delle emozioni considerate alla stregua di “reazioni attive dell’individuo agli avvenimenti e alle
circostanze”, permette così di far rientrare gli stati estatici di Madeleine nella stessa categoria del
sogno, degli stati euforici prodotti dall’oppio o morfina. Tutti gli stati di beatitudine di Madeleine,
e l’azione come una conseguenza o una espressione secondaria. Questa psicologia è a rigore possibile in uomini
normali che noi ammettiamo essere più o meno identici a noi, ma è impossibile quando si tratta di persone anormali.
Siamo obbligati a concepire una psicologia in cui l’azione visibile all’esterno è il fenomeno fondamentale e il
pensiero interno non ne è che la riproduzione, la combinazione di queste azioni esterne sotto forme ridotte e
particolari. Il linguaggio è un’azione particolare propria dell’uomo che è all’inizio una vera azione esterna, cioè
un’azione del soggetto che determina una reazione negli altri. Ma il linguaggio può diventare facilmente una
azione interna cioè un’azione del soggetto che determina una reazione solo nel soggetto stesso. Ho cercato di
considerare le condotte molto diverse in cui interviene il linguaggio come degli intermediari tra le condotte
esterne e il pensiero; ciò mi ha permesso di affrontar in maniera oggettiva e di esprimere in termini di azioni i
fenomeni psicologici più elevati, maggiormente specifici dell’uomo” (Janet 1926-1928, Vol. I p. 203, TdA).
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Nel secondo volume Janet propone dunque una messa a punto del suo lungo percorso di ricerca
iniziato con L’Automatisme psychologique ribadendo la necessità di rinunciare alla introspezione, che modifica
immediatamente il suo oggetto e inverte il rapporto tra pensiero e azione e di basarsi “sulla osservazione dei fatti
psicologici” adottando la cornice della psicologia dell’azione in quanto “solo una psicologia oggettiva può essere
una psicologia scientifica”.
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Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
La psicopatologia di Pierre Janet
caratterizzati dalla soppressione quasi completa dell’attività motoria, da “un aumento dell’attività
interna dell’immaginazione e del pensiero con la trasformazione dello spazio e del tempo”
formano così un gruppo coerente e presentano molti elementi che permettono di accostarle alla
introversione o autismo schizofrenico, caratterizzati dallo stesso disinteresse per l’azione esterna
e dalla riduzione del pensiero “a un semplice gioco mentale senza alcun collegamento con la
realtà e senza alcuna preoccupazione di una qualche realizzazione oggettiva”.
Questo complesso modello – che sviluppa e articola le intuizioni iniziali dell’Automatismo
psicologico- riconduce al disturbo della presentificazione, della personificazione e della funzione
del reale nel suo complesso la peculiare e pervasiva esperienza di sradicamento e di estraneità, nei
confronti di sé e del mondo, così centrale nella “malattia mentale” e in particolare nei i disturbi post
traumatici. Come ripetutamente affermano van der Hart et al., i pazienti che hanno subito una grave
situazione traumatica e che sviluppano un disturbo post traumatico cronico vivono intrappolati “in
un terribile un dilemma di difficile soluzione” (van der Hart et al. 2006, p. 167): incapaci di dire
“questa esperienza è mia” , queste persone che hanno perso in gran parte la capacità di mettere in
“ connessione il senso di Sé con gli eventi passati, presenti e futuri” (van der Hart et al., p. 167),
non possono più ricordare il passato né rappresentarsi il futuro; perdendo così il sentimento di
essere autori delle proprie azioni sono costrette a vivere “alla superficie della consapevolezza”
mantenendo una fragile apparenza di normalità” in cui è sempre più difficile agire in modo adattivo
mantenendo il senso di sé e della realtà.
Non posso che concludere con l’auspicio che questa presentazione, pur nella sua schematicità
e parzialità, costituisca la cornice unificante dei diversi scritti presentati in questo numero
monografico e possa inoltre contribuire alla riscoperta della ricchezza del pensiero di Pierre Janet.
Riassunto
Parole chiave: Pierre Janet, psicologia della condotta, psicopatologia, trauma, disturbi dissociativi
L’articolo presenta i concetti fondamentali delle ipotesi psicopatologiche di Pierre Janet, collocandoli
all’interno della cornice della “psicologia della condotta”, e ne sottolinea l’importanza per la comprensione
e il trattamento dei disturbi, essenzialmente di tipo dissociativo, presentati dai pazienti che hanno subito
una grave situazione traumatica e che sviluppano un disturbo post traumatico cronico
The Psychopathological Theory of Pierre Janet
Abstract
Key words: Pierre Janet, psychology of conduct, psychopathology, trauma, dissociative disorder
This paper presents the basic concepts of Pierre Janet’s psychopathological hypotheses, by placing
them within the framework of the “psychology of conduct”. The importance of such hypotheses for the
understanding and treatment of mental disorders, essentially of dissociative type, shown by patients that
have undergone a severe traumatic experience or that have developed a chronic post-traumatic disorder.
Psichiatria e Psicoterapia (2014) 33,1
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Francesca Ortu
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Corrispondenza
Francesca Ortu
Professore Ordinario
Facoltà di Medicina e Psicologia
via dei Marsi 78 - 00185 Roma
Email: [email protected]
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